La mia locandiera, un uomo dal carattere protettivo, preparò il mio viaggio a Est.
— Se una persona vuole visitare le Fortezze, deve attraversare il Kargav. Sopra le montagne, nella Vecchia Karhide, fino a Rer, la vecchia Città del Re. Ora io vi dico, uno del mio stesso focolare conduce una carovana di corriere sopra il Passo di Eskar, e ieri mi stava dicendo, davanti a una tazza d'orsh, che stanno per iniziare il loro primo viaggio di questa estate il Getheny Osme, essendo stata una primavera così calda ed essendo la strada già libera fino a Engohar e gli aratri sgombreranno il passo entro un paio di giorni. Ora, voi non mi troverete mai ad attraversare il Kargav, per me va bene Erhenrang e un tetto sopra il mio capo. Ma io sono un Yomeshta, siano lodati i novecento Reggitori del Trono e benedetto sia il Latte di Meshe, e si può essere un Yomeshta ovunque. Noi siamo dei nuovi venuti, vedete, perché il mio Signore Meshe nacque 2202 anni fa, ma la Vecchia Vita degli Handdarata risale a diecimila anni prima di quello. Voi dovete ritornare nella Vecchia Terra, se volete cercare la Vecchia Vita. State a sentire quel che vi dico, signor Ai, avrò una camera per voi in questa isola, in qualsiasi momento vogliate ritornare, ma io credo che siate un uomo saggio ad andarvene per un poco lontano da Erhenrang, perché tutti sanno che il Traditore ha dato grande mostra di amicizia verso di voi, a Palazzo. E ora, con il vecchio Tibe quale Orecchio del Re, le cose andranno di nuovo lisce. Perciò se voi andrete al Porto Nuovo, là troverete il mio compagno di focolare, e se gli direte che sono stato io a mandarvi…
E così via. Era, come ho già detto, un tipo protettivo, e avendo scoperto che io non avevo shifgrethor approfittava di ogni occasione per darmi dei consigli, anche se perfino lui li camuffava con se e quasi-se. Lui era il sovrintendente della mia isola; lo consideravo la mia locandiera, perché aveva dei fianchi grassi e delle natiche grasse che ballonzolavano mentre camminava, e un viso grasso e molle, e una natura ignobile, di spia, impiccione, ficcanaso, con i suoi modi cortesi e sempre servizievole. Era gentile con me, e mostrava perfino la mia stanza, quando io ero fuori, ai cacciatori di emozioni, in cambio di una piccola somma: venite a vedere la camera del Misterioso Inviato. Era così femminile, nei modi e nell'aspetto, che una volta gli avevo chiesto quanti bambini aveva. Aveva assunto un'espressione cupa. Non ne aveva mai dato alla luce neppure uno. Ne aveva, però, generati quattro. Era una delle piccole scosse che ricevevo sempre. Lo choc culturale non era nulla, in confronto allo choc biologico che soffrivo essendo un maschio umano tra esseri umani i quali erano, per cinque sesti del tempo, dei neutri ermafroditi.
I bollettini radio erano pieni delle opere del nuovo Primo Ministro, Pemmer Harge rem ir Tibe. Le notizie riguardavano soprattutto lo stato delle cose a nord, nella Valle di Sinoth. Tibe, evidentemente, intendeva portare avanti le pretese accampate da Karhide su quella regione: precisamente il tipo di azione che, su qualsiasi altro mondo a quello stadio della civiltà, avrebbe condotto a una guerra. Ma su Gethen, niente conduceva alla guerra. Liti, controversie, omicidi, faide, assalti, vendette, assassinii, torture e infamie e abominii, tutte queste cose erano nel loro repertorio di conquiste umane; ma non arrivarono fino alla guerra. Mancavano, apparentemente della capacità di mobilitarsi. Si comportavano come animali, sotto questo aspetto; o come donne. Non si comportavano come uomini, o come formiche. In ogni caso, non l'avevano ancora fatto. Quel che io sapevo di Orgoreyn indicava che esso era diventato, negli ultimi cinque o sei secoli, una società sempre più suscettibile di mobilitazione, una vera nazione-stato. La competizione di prestigio, in precedenza soprattutto di natura economica, avrebbe potuto costringere Karhide a emulare la sua più vasta vicina, a diventare una nazione invece che una lite di famiglia, come aveva detto Estraven; a diventare, come aveva detto ancora Estraven, patriottica. Se questo fosse avvenuto, i getheniani avrebbero avuto un'eccellente occasione per raggiungere la condizione di guerra.
Io volevo andare in Orgoreyn, per vedere se i miei sospetti a quel riguardo erano fondati, ma prima volevo finire con Karhide; così vendetti un altro rubino al gioielliere dal viso pieno di cicatrici della Strada di Eng, e, avendo come bagaglio solo il mio denaro, il mio ansible, alcuni strumenti e un cambio di vestiti, partii come passeggero di una carovana di grandi camion con rimorchio, una grande carovana di mercanti, nel primo giorno del primo mese dell'estate.
Le corriere partirono alla prima ora del giorno dei cortili di carico battuti dal vento del Porto Nuovo. Passarono sotto l'Arco e girarono a est, venti massicci autocarri silenziosi, cingolati come carri armati, che procedevano in fila indiana per le strade profonde di Erhenrang, attraverso le ombre del mattino. Le corriere portavano casse di lenti, bobine e bobine di nastri sonori, rotoli di filo di rame e di platino, panni e panni di fibra vegetale, tessuti e prodotti nella Barriera di Occidente, ceste di filetti di pesce essiccato che veniva dal Golfo, casse di cuscinetti a sfere e di altri pezzi meccanici simili, e dieci carichi completi di grano kardik Orgota: tutti diretti alla frontiera delle Bufere di Pering, l'angolo nord orientale del paese. Tutte le spedizioni sul Grande Continente vengono effettuate con questi autocarri a energia elettrica, che vanno su chiatte sui fiumi e sui canali, quando questo è possibile. Durante i mesi nei quali la neve è più profonda, lenti trattori-spartineve, slitte a motore, e le malsicure navi dei ghiacci sui fiumi gelati sono gli unici mezzi di trasporto, oltre agli sci e alle semplici slitte, spinte o trainate da esseri umani; durante il Disgelo nessuna forma di trasporto offre qualche affidamento; così quasi tutto il traffico commerciale si muove in una grande, improvvisa ondata, all'arrivo dell'estate. Le strade, allora, sono processioni e processioni di carovane. Il traffico è controllato, poiché ogni veicolo o carovana ha l'ordine di tenersi in costante contatto radio con i posti di controllo disseminati lungo la strada. Tutto si muove, per quanto in maniera un po' congestionata, in maniera costante e piuttosto ordinata, a una velocità di 40 chilometri orari (terrestri). I getheniani potrebbero fare andare più velocemente i loro veicoli, ma non lo fanno. Se chiedete loro perché no, loro rispondono «Perché?» È come chiedere ai terrestri per quale motivo tutti i nostri veicoli debbano essere così veloci; noi rispondiamo: «Perché no?» È inutile discutere sui gusti. I terrestri hanno una forte tendenza ad avvertire la necessità di andare avanti, di fare dei progressi. Il popolo di Inverno, che vive sempre nell'Anno Uno, sente che il progresso è meno importante della presenza. I miei gusti erano terrestri, e lasciando Erhenrang ero impaziente per il metodico, esasperante passo della carovana; volevo uscire, e correre via. Ero lieto di liberarmi di quelle lunghe strade di pietra, dominate da neri tetti ripidi e da innumerevoli torri, quella città senza sole nella quale tutte le mie speranze avevano ceduto alla paura e al tradimento.
Salendo per le prime propaggini del Kargav, la carovana si fermò brevemente, ma frequentemente, per consumare dei pasti nelle taverne che sorgevano ai bordi della strada. Nel pomeriggio avemmo la prima visione completa della catena, dalla cima di una collina. Vedemmo Kostor, che è alto sei chilometri, dalla base alla vetta; l'enorme fianco occidentale del monte nascondeva le vette a nord, alcune delle quali arrivano a novemila metri di altezza. A sud di Kostor, una vetta dopo l'altra, montagne aguzze si stagliavano candide contro un cielo scialbo, incolore; ne contai tredici, l'ultima delle quali era un indefinito scintillio bianco nelle nebbie della distanza, a sud. Il guidatore nominò le tredici montagne, una per una, a mio beneficio, e mi raccontò storie di valanghe, e di corriere spazzate via dalla strada da terribili venti di montagna, e di equipaggi di spartineve esiliati per settimane e settimane ad altezze inaccessibili, e così via, in un amichevole tentativo di spaventarmi. Descrisse di avere visto il camion davanti a lui scivolare, andare fuori strada, e cadere in un precipizio profondo trecento metri; ciò che era stato notevole, mi disse, era stata la lentezza con la quale l'infelice corriera era caduta. Apparentemente, aveva impiegato tutto il pomeriggio a precipitare nell'abisso, e lui era stato felice, felicissimo di vederla svanire, alla fine, senza alcun rumore, in un cumulo di neve alto dodici metri, sul fondo del burrone.
Alla Terza Ora ci fermammo per la colazione in una grande taverna, un luogo grandioso con enormi caminetti ruggenti e vaste stanze dai soffitti arcuati, piene di tavoli carichi di buon cibo; ma non restammo là per trascorrere la notte. La nostra era una carovana con posti-letto, che si affrettava (alla sua maniera karhidi) per essere la prima della stagione nel paese delle Bufere di Pering, per ottenere il meglio del mercato a beneficio dei suoi organizzatori-mercanti. Le batterie delle corriere vennero ricaricate, un nuovo turno di guidatori sostituì quelli che avevano guidato per tutto il giorno, e proseguimmo. Una corriera della carovana serviva da dormitorio, solo per i guidatori. Non c'erano letti per i passeggeri. Passai la notte nella fredda cabina, sul sedile duro, con un intervallo verso mezzanotte per cenare a una tavernetta in alto, sulle colline. Karhide non è un paese ricco di comodità e agiatezza. Mi svegliai all'alba e vidi che avevamo lasciato tutto dietro di noi, a eccezione della roccia, e del ghiaccio, e della luce, e della strada stretta che saliva e saliva e saliva ancora, davanti ai cingoli delle nostre corriere. Pensai, rabbrividendo, che esistono delle cose più importanti della comodità, a meno che non si sia una vecchia o un gatto.
Non c'erano più taverne, ora, tra quegli spaventosi pendii di neve e di granito. Alle ore dei pasti le corriere si fermavano silenziosamente una dopo l'altra, su qualche pendio di trenta gradi, racchiuso nella neve e nel ghiaccio, e tutti scendevano dalle cabine e si riunivano intorno al rimorchio dove dormivano i guidatori, dal quale venivano servite ciotole di minestra bollente, pezzi di pane secco, e birra amara in bicchieri di legno. Ce ne stavamo così nella neve, battendo i piedi per trovare un po' di calore, divorando il cibo e bevendo la birra, tenendo la schiena voltata al vento gelido e pungente che portava con sé uno scintillante pulviscolo di neve raccolta dalle bianche distese che ci circondavano. E poi, di nuovo a bordo delle corriere, e avanti, e in alto. A mezzogiorno nei passi di Wehoth, a circa quattromiladuecento metri di altezza, c'erano 45° al sole e 6° all'ombra. I motori elettrici erano così silenziosi, che si potevano sentire i brontolii delle valanghe in fondo a immensi pendii azzurrini, sull'estremità opposta di abissi larghi trenta chilometri.
Più tardi, nello stesso pomeriggio, passammo la vetta, a Eskar, 4560 metri di altezza. Guardando in alto, sul pendio della faccia sud di Kostor, sulla quale avevamo proseguito a strisciare compiendo progressi infinitesimali per tutto il giorno, vidi una strana formazione rocciosa, a mezzo chilometro dalla strada, una sporgenza che sembrava un castello.
— Vedete la Fortezza, lassù? — disse il guidatore.
— Quello è un edificio?
— La Fortezza di Ariskostor.
— Ma nessuno potrebbe vivere lassù.
— Oh, i Vecchi possono. Una volta ero guidatore in una carovana che portava loro il cibo da Erhenrang, nell'estate più inoltrata. Naturalmente non possono né entrare né uscire per dieci o undici mesi all'anno, ma non danno alcuna importanza alla cosa. Ci sono sette od otto Abitanti, lassù.
Guardai attonito in alto, guardai quei pilastri di roccia nuda, solitari nell'immensa solitudine di quell'altezza impervia, e non credetti al guidatore; ma sospesi la mia incredulità. Se una persona, qualsiasi persona poteva sopravvivere in un aere così gelido, doveva trattarsi di un karhidiano.
La strada, discendendo, descriveva un'ampia curva a nord e a sud, costeggiando precipizi, immensi abissi spaventosi, perché il fianco orientale del Kargav è più inaccessibile di quello occidentale, e precipita verso le pianure in ripidi gradini rocciosi, le rozze pietre cadute alla creazione delle montagne. Al tramonto vedemmo una minuscola teoria di punti strisciare, attraversando un'immensa ombra bianca, duemila e più metri sotto di noi: una carovana di corriere che aveva lasciato Erhenrang un giorno prima di noi. Nel pomeriggio del giorno successivo eravamo arrivati laggiù a nostra volta, e stavamo strisciando lungo lo stesso pendio nevoso, molto cautamente, silenziosi, senza quasi respirare, per timore di provocare con il suono qualche valanga. Di là vedemmo per qualche tempo, molto lontano, in basso e oltre di noi, a oriente, vaghe terre immense confuse tra nembi e ombre di nubi e solcate dai nastri d'argento dei fiumi, le Pianure di Rer.
Al tramonto del quarto giorno dalla partenza da Erhenrang, giungemmo a Rer. Tra le due città si stendono millesettecento chilometri, e una parete alta diverse miglia, e due o tremila anni. La carovana si fermò fuori della Porta di Occidente, dove sarebbe stata trasferita su chiatte e avrebbe percorso i canali. Nessuna corriera o auto può entrare in Rer. Era stata costruita prima che i karhidiani usassero dei veicoli a motore, e i karhidiani li usano ormai da più di venti secoli. Non esistono strade a Rer. Ci sono dei passaggi all'interno o sopra, come si preferisce. Le case e le isole e i Focolari si trovano in qualsiasi luogo, caoticamente, in una confusione profusa, prodigiosa, che culmina improvvisamente (come sempre l'anarchia che regola Karhide) nello splendore: le grandi Torri del Palazzo-No, rosso-sangue, senza finestre. Costruite diciassette secoli or sono, quelle torri ospitarono i re di Karhide per mille anni, fino a quando Argaven Harge, primo della sua dinastia, attraversò il Kargav e colonizzò la grande valle della Barriera d'Occidente. Tutti gli edifici di Rer sono fantasticamente massicci, dalle fondamenta profonde, a prova d'acqua e di stagioni. D'inverno il vento delle pianure può tenere sgombera la città dalla neve, ma quando la tormenta viene e la neve si accumula gli abitanti non puliscono le strade, non avendo strade da pulire. Usano le gallerie di pietra, o ne scavano di temporanee sulla neve. Niente delle case, all'infuori del tetto, sporge sopra le gronde o nello stesso tetto, come abbaini. Il Disgelo è il tempo più crudele su quella pianura dai molti fiumi. Allora le gallerie diventano fogne e condutture di alluvioni, e gli spazi tra gli edifici diventano canali o laghi, sui quali la popolazione di Rer si muove a bordo di battelli, per raggiungere i propri lavori o per muoversi soltanto, usando i lunghi remi per allontanare i blocchi di ghiaccio galleggianti, o rompere il ghiaccio sottile là dove ancora c'è il brivido della stagione passata. E sempre, sopra la polvere dell'estate, lo spuntare nevoso dei tetti d'inverno, o le alluvioni di primavera, le rosse Torri si ergono, vuoto, indistruttibile cuore antico della città.
Io presi alloggio in una taverna squallida, dal prezzo esorbitante, acquattata sotto la protezione delle Torri. Mi alzai all'alba dopo molti incubi orrendi, e pagai all'esoso taverniere il letto e la colazione e delle istruzioni inesatte sulla strada che avrei dovuto prendere, e mi misi in cammino, a piedi, alla ricerca di Otherhord, un'antica Fortezza non lontana da Rer. Mi smarrii a cinquanta metri dalla taverna. Tenendo le Torri dietro di me, e l'immenso bagliore bianco del massiccio Kargav alla mia destra, riuscii a uscire dalla città in direzione sud, e il bambino di un contadino, incontrato sulla strada, mi disse da quale parte dovevo girare per raggiungere Otherhord.
Vi arrivai a mezzogiorno. Cioè, arrivai in qualche luogo a mezzogiorno, ma non riuscii a stabilire dove. Era soprattutto una foresta, o un folto bosco; ma gli alberi erano accuditi ancor più accuratamente di quanto non fosse consueto su quel mondo di appassionati, amorevoli custodi delle foreste, e il sentiero procedeva lungo il fianco della collina proprio attraverso gli alberi. Dopo qualche tempo, mi accorsi che c'era una capanna di legno appena fuori del sentiero, alla mia destra, e poi notai un edificio di legno molto ampio, un po' più lontano alla mia sinistra; e da qualche luogo invisibile veniva un delizioso odore di pesce fresco che veniva arrostito.
Proseguii lentamente per il sentiero, provando un certo disagio. Non sapevo quali fossero i sentimenti degli Handdarata per i turisti. Sapevo ben poco su di loro, in realtà. L'Handdara è una religione senza istituzione, senza sacerdoti, senza gerarchia, senza voti, senza credo; ancor oggi non sono in grado di dire se essa abbia un Dio oppure no. È sfuggente. Elusiva. È sempre altrove. La sua unica manifestazione fissa è data dalle Fortezze, ritiri ove la gente può ritirarsi a trascorrere la notte o la vita intera. Io non avrei cercato questo culto così singolarmente intangibile fin nei suoi luoghi segreti, non l'avrei certo fatto, se non avessi voluto rispondere alla domanda lasciata irrisolta dagli Investigatori: Che cosa sono i Profeti, e cosa fanno in realtà?
Ormai mi trovavo in Karhide da più tempo di quanto non vi fossero rimasti gli Investigatori, e dubitavo che ci fosse qualcosa di vero nelle storie dei Profeti e delle loro profezie. Leggende di predizione sono comuni, per tutta la grande Casa dell'Uomo, in tutto l'universo stellato. Gli dei parlano, gli spiriti parlano, i computers parlano. L'ambiguità dell'oracolo o la probabilità statistica offrono degli appigli, e le discrepanze vengono cancellate dalla Fede. Comunque, valeva la pena d'investigare sulle leggende. Non ero ancora riuscito a convincere un solo karhidiano dell'esistenza della comunicazione telepatica; non vi avrebbero creduto senza «vederla»: la mia stessa, precisa posizione, nei confronti dei Profeti dell'Handdara.
Mentre camminavo per il sentiero, mi resi conto che un intero villaggio, o città, era disseminato intorno, all'ombra della foresta inerpicata sul pendio, tutto in maniera disordinata, casuale com'era Rer, ma intimo, pacifico, rurale. Su ogni tetto e su ogni sentiero erano sospesi i rami degli hemmen, l'albero più comune di Inverno, una robusta, tozza conifera dagli aghi fitti, spessi, color rosso pallido. Pigne di hemmen sporcavano i sentieri dalle molte diramazioni, il vento aveva un profumo intenso di resina d'hemmen, e tutte le case erano costruite con il legno scuro di hemmen. Mi fermai alla fine, domandandomi a quale porta avrei dovuto bussare, quando una persona uscì dal folto degli alberi, con passo tranquillo, e mi salutò cortesemente.
— State cercando una dimora? — domandò.
— Sono venuto con una domanda per i Profeti. — Avevo deciso di lasciarmi considerare da loro, almeno all'inizio, un semplice karhidiano. Come gli Investigatori, io non avevo avuto mai alcuna difficoltà nel farmi passare per un nativo, se così volevo; tra tutti i dialetti karhidi, il mio accento non veniva notato, e le mie anomalie sessuali erano nascoste dai pesanti indumenti che indossavo. Mancavo della capigliatura folta e finissima e dell'inclinazione degli occhi, un po' diagonali rispetto al resto del viso, che erano le caratteristiche del tipico getheniano, ed ero più scuro e più alto della maggior parte dei nativi, ma non oltre la portata delle normali variazioni di una razza. La mia barba era stata depilata permanentemente prima della mia partenza da Ollul (allora ancora non sapevamo delle tribù «pelose» di Perunter, che sono non soltanto barbute, ma pelose in tutto il corpo, come i Terrestri Bianchi). Di quando in quando, mi veniva chiesto come avessi potuto rompermi il naso. Io ho un naso piatto; i nasi getheniani sono prominenti e sottili, con narici sottili, perfettamente adattati a respirare dell'aria gelida, a temperatura quasi sempre sotto lo zero. La persona sul sentiero di Otherhord guardò il mio naso con blanda curiosità, e rispose:
— Allora forse vorrete parlare al Tessitore? Si trova giù nella radura, ora, a meno che non sia uscito con la slitta. O preferireste parlare prima a uno dei Celibi?
— Non saprei, non sono sicuro. Sono straordinariamente ignorante…
Il giovane rise e s'inchinò.
— Io sono onorato! — disse. — Vivo qui da tre anni, ma ancora non ho acquistato una sufficiente ignoranza da renderla degna di menzione. — Era molto divertito, ma i suoi modi erano gentili, e io riuscii a ricordare abbastanza frammenti di costumi Handdara da rendermi conto di essermi vantato proprio come se mi fossi presentato a lui e gli avessi detto: Sono straordinariamente bello…
— Volevo dire che io non so nulla sui Profeti…
— Invidiabile! — disse il giovane Abitante. — Vedete, noi dobbiamo macchinare la neve con le impronte dei nostri piedi, per andare in qualsiasi luogo. Posso mostrarvi la strada per la radura? Il mio nome è Goss.
Era un primo nome. — Genry — dissi, abbandonando la mia «elle». Seguii Goss più oltre, nell'ombra fredda della foresta. Lo stretto sentiero cambiò direzione spesso, sviluppandosi sinuoso su per il pendio e giù di nuovo; qua e là, vicino a esso o più lontano, tra i tronchi massicci degli hemmen, sorgevano le piccole case color della foresta. Tutto era rosso e bruno, umido, quieto e immobile, fragrante, oscuro. Da una delle case usciva la debole dolcezza melodiosa di un flauto karhidi. Goss andava rapido, con passo leggero, aggraziato come quello di una fanciulla, pochi metri davanti a me. E improvvisamente la sua camicia bianca parve lampeggiare, e io uscii dall'ombra dietro di lui, e mi trovai nella piena luce del sole di un ampio prato verde.
A pochi metri da noi era in piedi una figura, diritta, immobile, di profilo, lo hieb scarlatto e la camicia bianca come un disegno di smalto luminoso sullo sfondo verde dell'erba alta. A cento metri da lui si trovava un'altra statua, in blu e bianco; questa non si mosse né guardò dalla nostra parte, per tutto il tempo in cui parlammo con la prima. Stavano praticando la disciplina Handdara della Presenza, che è una specie di trance… gli Handdarata, abituati al negativo, lo chiamano un nontrance… che comprende una perdita di sé (un accrescimento di sé?) attraverso un'estrema ricettività dei sensi, e un'acuta percezione. Benché la tecnica sia l'esatto apposto di quasi tutte le tecniche del misticismo, probabilmente si tratta di una disciplina mistica, tesa verso l'esperienza dell'Immanenza; ma non posso catalogare con certezza nessuna delle pratiche degli Handdarata. Goss parlò alla persona in scarlatto. Quando costui uscì dalla sua intensa immobilità, e ci guardò, e venne lentamente verso di noi, io provai rispetto verso di lui, una specie di reverenza. Nella luce del sole meridiano, egli brillava di luce propria.
Era alto quanto me, e snello, con un viso limpido, aperto, e bello. Quando i suoi occhi incontrarono i miei, fui improvvisamente mosso a rivelarmi, a cercare di raggiungerlo con il linguaggio della mente che non avevo mai usato da quando ero disceso su Inverno, e che non avrei dovuto ancora usare. L'impulso fu più forte della riflessione. Lo chiamai con la mente. Non ci fu risposta. Non fu stabilito alcun contatto. Luì continuò a fissarmi direttamente. Dopo un momento sorrise e disse, con una voce gentile, e un po' alta:
— Voi siete l'Inviato, vero?
Balbettai la risposta:
— Sì.
— Il mio nome è Faxe. Siamo onorati di ricevervi. Resterete un poco con noi, qui a Otherhord?
— Volentieri. Cerco di imparare qualcosa, sulla vostra arte della Profezia. E se c'è qualcosa, qualsiasi cosa che io possa dirvi, in cambio, su ciò che io sono, sul luogo dal quale vengo…
— Quello che volete — disse Faxe, con un sorriso sereno. — Questa è una cosa piacevole, e lusinghiera, il fatto che voi abbiate attraversato l'Oceano dello Spazio, e poi abbiate aggiunto altri mille e più chilometri, e un attraversamento del Kargav, al vostro viaggio, per venire da noi, qui.
— Volevo venire ad Otherhord, avendo udito la fama delle sue profezie.
— Allora, forse, vorrete osservarci durante una profezia. O avete una vostra domanda?
I suoi occhi chiari costringevano la verità a uscire da me.
— Non lo so — dissi.
— Nusuth - disse lui. — Non importa. Forse, se resterete un poco, scoprirete voi stesso se avete una domanda, o nessuna domanda… Ci sono solo certe occasioni, sapete, nelle quali i Profeti possono riunirsi, così in ogni caso potrete abitare con noi per qualche giorno.
Lo feci, e furono giorni piacevoli. Il tempo era disorganizzato, a eccezione del lavoro comune, il lavoro nei campi, il giardinaggio, il taglio dei rami, la manutenzione, lavori per i quali gli ospiti di passaggio come me venivano chiamati a collaborare da quel gruppo che aveva più bisogno di una mano. A parte il lavoro, un giorno intero poteva passare senza che fosse pronunciata una parola; coloro ai quali parlai più spesso furono il giovane Goss, e Faxe il Tessitore, il cui carattere straordinario, limpido e insondabile come un pozzo di acqua chiarissima, era la quintessenza del carattere del luogo. Alla sera poteva esserci una riunione nella sala del focolare di una o di un'altra delle basse case circondate dagli alberi; allora c'era conversazione, e birra, e poteva esserci della musica, la vigorosa musica di Karhide, semplice di melodia ma complessa di ritmo, la cui esecuzione era sempre estemporanea. Una notte due Abitanti ballarono, uomini così vecchi che i loro capelli erano già diventati bianchi, e le braccia e le gambe erano come rinsecchite, e le borse cascanti, agli angoli degli occhi, erano quasi cortine che nascondevano per metà i loro sguardi. Ma la loro danza era lenta, precisa, controllata; affascinava l'occhio e la mente. Cominciarono a danzare durante la Terza Ora, dopo la colazione. Alla danza si unirono dei musici, che partecipavano e interrompevano e venivano e se ne andavano a piacimento, dandosi il cambio, tutti, meno il suonatore di tamburo che non interruppe mai il suo battito dai mutamenti sottili. I due vecchi ballerini stavano ancora danzando alla Sesta Ora, mezzanotte, dopo cinque ore terrestri. Questa fu la prima volta nella quale fui testimone del fenomeno chiamato dothe… l'uso volontario e controllato di ciò che noi chiamiamo «forza isterica»… e da allora fui pronto a credere le storie che riguardavano i Vecchi dell'Handdara.
Era una vita introversa, autosufficiente, stagnante, che saliva la barriera di quella singolare «ignoranza» che gli Handdarata consideravano così importante, e obbediente alle loro regole d'inattività o di non ingerenza. Quella regola (espressa dalla parola nusuth, che io devo tradurre «non conta», «non ha importanza») è il cuore del culto, e non pretenderò certo di comprenderla. Ma io cominciai a comprendere meglio Karhide, dopo un mezzo-mese trascorso a Otherhord. Sotto la politica e le parate e le passioni della nazione scorre un'oscurità antica, passiva, anarchica, silenziosa, le «tenebre feconde» dell'Handdara.
E da quel silenzio e da quelle tenebre si leva inesplicabilmente la voce del Profeta.
Il giovane Goss, che amava comportarsi come la mia guida, mi spiegò che la mia domanda ai Profeti poteva riguardare qualsiasi cosa, ed essere formulata nella maniera che io preferivo.
— Più la domanda è qualificata e limitata, più esatta è la risposta — mi disse. — Le cose vaghe alimentano altre cose vaghe. E a certe domande, naturalmente, non si può rispondere.
— E se io ponessi una di queste? — volli sapere. Queste limitazioni non mi parevano eleganti, ma familiari.
Non mi aspettavo però la sua risposta.
— Il Tessitore la rifiuterà. Domande alle quali non si può rispondere hanno già distrutto dei gruppi di Profezia.
— Distrutto?
— Conoscete la storia del Lord di Shorth, che costrinse i Profeti della Fortezza di Asen a rispondere alla domanda: Qual è il significato della vita? Ebbene, questo è accaduto più di duemila anni fa. I Profeti rimasero nelle tenebre per sei giorni e sei notti. Alla fine, tutti i Celibi erano in coma, i Pazzi erano morti, il Pervertito con una pietra ha colpito a morte il Lord di Shorth, e il Tessitore… Egli era un uomo di nome Meshe.
— Il fondatore del culto di Yomesh?
— Sì — disse Goss, e rise, come se la storia fosse stata molto buffa, ma non sapevo se l'oggetto del divertimento fossero gli Yomeshta o fossi io.
Avevo deciso di porre una domanda alla quale si potesse rispondere solo con un sì o con un no, la qual cosa mi avrebbe permesso almeno di chiarire l'entità e il genere di oscurità o ambiguità della risposta. Faxe confermò quel che Goss aveva detto, che l'argomento della domanda poteva essere un argomento del quale i Profeti erano perfettamente ignoranti. Avrei potuto chiedere se quest'anno il raccolto degli hoolm sarebbe stato buono, nell'emisfero settentrionale di S, e mi avrebbero risposto, pur non avendo saputo nulla, in precedenza, neppure dell'esistenza di un pianeta chiamato S. Questo sembrava porre la faccenda sul piano della pura divinazione casuale, come il tirare in aria una moneta o scegliere la paglia più lunga. No, disse Faxe, niente affatto, la sorte non c'entrava affatto. L'intero processo era in realtà esattamente l'opposto del caso.
— Allora voi leggete nella mente.
— No — disse Faxe, con il suo sorriso candido e sereno.
— Voi leggete nella mente senza sapere di farlo, forse.
— E a che servirebbe questo? Se colui che chiede conoscesse la risposta, non pagherebbe il nostro prezzo per averla.
Scelsi una domanda alla quale certamente non potevo dare una risposta. Solo il tempo avrebbe potuto dimostrare l'esattezza o l'erroneità della Profezia, a meno che non si trattasse, come io mi aspettavo, di una di quelle ammirevoli profezie professionali applicabili a qualsiasi esito. Non si trattava di una domanda banale; avevo rinunciato all'idea di chiedere quando avrebbe smesso di piovere, o qualche banalità simile, quando avevo appreso che l'impresa era dura e pericolosa per i nove Profeti di Otherhord. Il costo era alto per colui che chiedeva… due dei miei rubini andarono al tesoro della Fortezza… ma era più alto per coloro che rispondevano. E poiché avevo imparato a conoscere Faxe, trovavo sempre più difficile credere che si trattasse di un mistificatore di professione, più difficile ancora credere che si trattasse di un mistificatore in buona fede, che ingannava perfino se stesso; la sua intelligenza era dura, limpida, e lucida come i miei rubini. Non osai disporre una trappola, per lui. Gli chiesi quel che desideravo sapere più di ogni altra cosa.
Di Onnetherhad, il diciottesimo giorno del mese, i nove si riunirono in un grande edificio che veniva solitamente tenuto chiuso: una sala alta, dal pavimento di pietra fredda, fievolmente illuminata da un paio di finestre che parevano feritoie, e da un fuoco nel focolare profondo che si trovava a un'estremità. Essi sedettero sulla nuda pietra in circolo, tutti incappucciati e avvolti in grandi mantelli, forme immobili, oscure come un circolo di dolmen nel chiarore fioco del fuoco che si trovava a metri e metri di distanza. Goss, e un paio di altri giovani Abitanti, e un medico venuto dal più vicino Dominio, osservavano in silenzio, seduti in seggi accanto al focolare, mentre io attraversavo la sala ed entravo nel circolo. Era tutto molto informale, e c'era molta tensione. Una delle figure incappucciate sollevò lo sguardo, quando io entrai nel circolo, e vidi uno strano volto, dai lineamenti rozzi, pesanti, con occhi insolenti che mi fissavano.
Faxe era seduto a gambe incrociate, immobile, ma carico, pieno di una forza che si stava radunando e che faceva crepitare la sua voce leggera e gentile come una corrente elettrica.
— Domandate — disse.
Mi fermai al centro del circolo e feci la mia domanda.
— Questo mondo, Gethen, sarà un membro dell'Ecumene dei Mondi Conosciuti, entro cinque anni a partire da oggi?
Silenzio. Io rimasi fermo, sospeso al centro di una ragnatela intessuta di silenzio.
— Si può rispondere — disse quietamente il Tessitore.
Ci fu un rilassamento generale. Le pietre incappucciate parvero addolcirsi, sciogliersi in movimento; quello che mi aveva fissato in maniera così strana cominciò a sospirare qualcosa, mormorando verso il suo vicino. Io lasciai il circolo e mi unii agli osservatori, accanto al focolare.
Due dei Profeti rimasero come ritirati dal gruppo, senza parlare. Uno di loro di quando in quando alzava la mano sinistra e accarezzava leggermente e velocemente il pavimento, dieci o venti volte, poi tornava immobile, come prima. Non avevo visto prima nessuno dei due; erano i Pazzi, mi disse Goss. Erano dei dementi. Goss li chiamò «divisori del tempo», e questo poteva significare schizofrenici. Gli psicologi karhidi, benché mancassero del linguaggio mentale, e fossero perciò come chirurghi ciechi, erano abili nell'usare le droghe, l'ipnosi, lo choch, la terapia del contatto, e numerose altre terapie mentali; chiesi se quei due psicopatici non potessero venire curati.
— Curati? — domandò Goss. — Ma voi curereste un cantante della sua voce?
Altri cinque del circolo erano Abitanti di Otherhord, adepti delle discipline Handdara della Presenza, e inoltre, mi disse Goss, fino a quando essi rimanevano Profeti, celibi, che non si accoppiavano con alcun compagno durante i loro periodi di potenza sessuale. Uno di questi Celibi doveva essere in kemmer durante la Profezia. Riuscii a distinguerlo, avendo imparato a notare la sottile intensificazione fisica, una specie di luminosità, di vivacità accentuata, che segnala la prima fase del kemmer.
Accanto all'in-kemmer sedeva il Pervertito.
— È venuto da Spreve con il medico — mi disse Goss. — Alcuni gruppi di Profezia stimolano artificialmente la perversione in una persona normale… iniettando ormoni femminili o maschili durante i giorni che precedono una sessione. È meglio averne uno naturale, però. Lui è sempre disposto a venire; gli piace la notorietà.
Goss usò il pronome che designa un animale maschio, non il pronome che designa un essere umano nel ruolo maschile del kemmer. Pareva lievemente in imbarazzo. I karhidiani discutono con estrema libertà le questioni sessuali, e parlano del kemmer con rispetto e visibile soddisfazione, ma sono molto reticenti nel discutere le perversioni… almeno, lo erano con me. Un eccessivo prolungamento del periodo di kemmer, con una stabilità ormonale permanente verso il ruolo femminile o maschile, causa quella che loro chiamano perversione; non è un fenomeno raro; il tre o quattro per cento degli adulti è probabilmente composto da pervertiti fisiologici o anormali… normali, secondo il nostro metro di giudizio.
Costoro non vengono esclusi dalla società, ma sono tollerati con un certo disprezzo, come lo sono gli omosessuali in molte società bisessuali. Il termine gergale in karhidi per definirli è mezzimorti. Sono sterili.
Il Pervertito del gruppo, dopo quella prima, lunga, strana occhiata a me, non prestò più attenzione a nessuno, se non a colui che si trovava accanto a lui, l'in-kemmer, la cui sessualità attiva in costante aumento sarebbe stata ulteriormente stimolata e finalmente sarebbe sbocciata in piena, femminile capacità sessuale dall'insistente, esagerata mascolinità del Pervertito. Il Pervertito continuava a parlare a bassa voce, curvandosi verso l'in-kemmer, che rispondeva poco e pareva ritrarsi. Nessuno degli altri parlava ormai da diverso tempo, non si udiva alcun suono se non il mormorio, il mormorio della voce del Pervertito. Faxe stava guardando con insistenza uno dei Pazzi. Il Pervertito posò rapidamente la mano, con dolcezza, sulla mano dell'in-kemmer. L'in-kemmer si sottrasse frettolosamente al tocco, con paura o con disgusto, e lanciò uno sguardo a Faxe, come per chiedergli aiuto. Faxe non si mosse. L'in-kemmer mantenne il suo posto, e rimase immobile quando il Pervertito lo toccò di nuovo. Uno dei Pazzi alzò il viso e rise, una lunga risata falsa, lugubre, cavernosa, Ah ah ah ah…
Faxe sollevò la mano. Subito ogni viso, nel circolo, si rivolse a lui, come se egli avesse raccolto i loro sguardi in un fascio, in una matassa.
Era stato pomeriggio e la pioggia era caduta fitta, quando eravamo entrati nella sala. La luce grigia ben presto si era spenta nelle finestre, fessure sotto le gronde. E ora strisce biancastre di luce si stendevano come lunghe vele fantasmagoriche, inclinate, fantasmi di vele che erano lunghi triangoli e trame oblunghe, dalla parete al pavimento, per toccare i volti dei nove; spenti brandelli e ricami di luce che pioveva dalla luna che sorgeva sopra la foresta, fuori. Il fuoco era bruciato fino a estinguersi già da molto tempo, le sue fiamme erano diventate tizzoni che erano diventati cenere grigia, e non c'era più luce, all'infuori di quelle strisce e fili obliqui e brandelli di ricami che strisciavano attraverso il circolo, disegnando per un momento un viso, stagliando un profilo, una mano, una schiena immobile. Per qualche tempo vidi il profilo di Faxe rigido come pietra pallida, in una diffusa polvere di luce. La diagonale della luce lunare continuò a strisciare e raggiunse un mucchietto scuro, l'in-kemmer, con la testa piegata sulle ginocchia, le mani strette sul pavimento, il corpo scosso da un regolare tremore ripetuto dal movimento delle mani del Pazzo sulla pietra, nell'oscurità dall'altra parte del circolo. Erano tutti collegati, tutti loro, come se fossero stati i punti di sospensione di una tela di ragno. Io avvertivo, lo volessi o no, la connessione, la comunicazione che scorreva, senza parole, inarticolata, attraverso Faxe, e che Faxe cercava di tessere e controllare, per darle un senso e un disegno, perché lui era il centro, il Tessitore. La luce fioca si frammentava e smoriva lontano, strisciando su per la parete d'oriente. La tela di forza, la rete di tensione e di silenzio, crebbe.
Cercai di restare escluso da ogni contatto con le menti dei Profeti. Quella silenziosa tensione elettrica mi rendeva inquieto, mi dava un tremendo disagio, per il senso di essere risucchiato in essa, di diventare un punto o una figura di quel disegno, di entrare a fare parte della ragnatela. Ma quando alzai una barriera, fu molto peggio: mi sentii tagliato fuori e rinchiuso, nascosto tremante nella mia mente ossessionata da allucinazioni di vista e di tatto, una pentola ribollente di folli immaginazioni e nozioni, improvvise visioni e sensazioni tutte pervase da una violenta carica sessuale, e grottescamente violente, un ribollire rosso e nero di rabbia erotica, di furia erotica. Ero circondato da enormi pozzi spalancati, bocche d'inferno, perdevo l'equilibrio, e cadevo, cadevo… Se non avessi potuto chiudere fuori della mia mente questo caos orrendo sarei veramente caduto, sarei impazzito, e non c'era modo di chiuderlo fuori. Le forze empatiche e paraverbali al lavoro, immensamente potenti e confuse, che sorgevano dalla perversione e dalla frustrazione del sesso, sorgevano dalla pazzia che distorce il tempo, e sorgevano da una spaventosa disciplina di concentrazione totale, e di totale apprendimento della realtà immediata, erano troppo al di là del mio controllo, della mia capacità di resistere. Eppure esse erano controllate: il centro era sempre Faxe. Ore e secondi passarono, il chiaro di luna brillava sulla parete sbagliata; non c'era più chiaro di luna, c'erano soltanto tenebre, e al centro di tutte le tenebre Faxe: il Tessitore: una donna, una donna vestita di luce. La luce era d'argento, l'argento era armatura, una donna in armatura con una spada. La luce bruciò improvvisa e intollerabile, la luce lungo i fianchi della donna, il fuoco, e lei gridò ad alta voce, in preda al terrore e al dolore, «Sì, sì, sì!»
La cavernosa risata del Pazzo cominciò, «Ah ah ah ah,» e si sollevò alta e sempre più alta nel grido intessuto e scintillante che continuava e continuava, molto più a lungo di quanto una voce potesse continuare a gridare, una voce che gridava diritta attraverso il tempo. Ci fu un movimento nelle tenebre, sospiri e fruscii e battiti, una ridistribuzione di antichi secoli, un'evasione delle ombre del futuro nel tempo che apparteneva loro di diritto.
— Luce, luce — disse una voce immensa in grandi sillabe una volta, o innumerevoli volte. — Luce. Un ceppo sul fuoco, là. Un poco di luce. — Era il medico venuto da Spreve. Egli era entrato nel circolo. Il circolo era ormai spezzato. Il medico era chino sui Pazzi, i più fragili, i punti di fusione; entrambi giacevano inerti sul pavimento. L'in-kemmer giaceva con la testa sulle ginocchia di Faxe, respirando affannosamente, in ansiti rauchi, ancora tremando; la mano di Faxe, con gentilezza distratta, accarezzava i capelli dell'in-kemmer. Il Pervertito era rimasto da solo, in un angolo, imbronciato e dimenticato. La seduta era finita, il tempo passava come d'uso, la tela di potenza si era dissolta nella stanchezza, nella miseria e nel dolore. Dov'era la mia risposta, l'enigma dell'oracolo, l'ambigua formulazione della profezia?
Mi inginocchiai accanto a Faxe. Lui mi guardò con i suoi occhi limpidi. Per quell'istante, lo vidi come l'avevo visto nel buio, come una donna armata di luce e bruciante su un fuoco, che aveva gridato — Sì…
La voce gentile di Faxe spezzò la visione.
— Colui che chiede ha avuto risposta?
— Ho avuto la risposta, Tessitore.
E avevo avuto davvero la risposta. Tra cinque anni Gethen sarebbe stato un membro dell'Ecumene: sì. Nessun enigma, nessuna ambiguità. In quel momento, mi resi conto della qualità della risposta, non tanto una profezia quanto un'osservazione. Non riuscii a sfuggire alla certezza, che stavo provando, che la risposta fosse giusta. Aveva l'imperiosa chiarezza di un presagio.
Noi abbiamo le astronavi NAFAL e la trasmissione istantanea e il linguaggio mentale, ma non siamo ancora riusciti ad addomesticare il presagio, fino a imbrigliarlo e tenerlo al nostro servizio; per questo, dobbiamo andare su Gethen.
— Io servo come filamento — mi disse Faxe un giorno o due dopo la Profezia. — L'energia si accumula e si accumula in noi, e viene rimandata e rimandata, raddoppiando l'impulso ogni volta, finché essa non riesce a passare e la luce è in me, intorno a me, io sono la luce… Il Vecchio della Fortezza di Arbin ha detto un giorno che se il Tessitore potesse venire posto nel vuoto, nel momento della Risposta, continuerebbe a bruciare per anni. Questo è ciò che gli Yomeshta credono di Meshe: che egli vedesse il passato e il futuro chiaramente, non per un momento, ma per tutta la sua vita, dal giorno della Domanda di Shorth. È difficile crederlo. Dubito che un uomo possa sopportarlo. Ma non importa…
Nusuth, l'onnipresente e ambiguo mondo negativo degli Handdara.
Stavamo camminando fianco a fianco, e Faxe mi fissò, il suo viso, uno dei volti umani più belli che io avessi mai visto, pareva duro e delicato come pietra scolpita. — Nelle tenebre — disse, — eravamo in dieci; non in nove. C'era uno straniero.
— Sì, c'era. Non avevo alcuna barriera contro di voi. Voi siete un Ascoltatore, Faxe, un empatico naturale; e probabilmente anche un potente telepatico naturale. È per questo che voi siete il Tessitore, colui che può trattenere le tensioni e le reazioni del gruppo, incanalandole nel disegno che si accresce da solo, continuamente, fino a quando la tensione non spezza il disegno, e voi raggiungete la risposta.
Lui ascoltò, con interesse grave e intento.
— È strano vedere i misteri della mia disciplina dall'esterno, attraverso i vostri occhi. Io li ho visti soltanto dall'interno, come discepolo.
— Se permettete… se lo desiderate, Faxe, mi piacerebbe comunicare con voi attraverso il linguaggio mentale. — Adesso ero sicuro che egli fosse un Comunicante naturale; il suo consenso e un po' di pratica sarebbero bastati ad abbassare la sua barriera inconscia.
— Se faceste questo, sentirei quel che gli altri pensano?
— No, no. Non più di quanto lo facciate già, con la vostra empatia latente. Il linguaggio mentale è una comunicazione, inviata e ricevuta volontariamente.
— Allora perché non parlate a voce alta?
— Ebbene, parlando così, si può mentire.
— E con il linguaggio della mente?
— Non intenzionalmente.
Faxe rifletté per un poco.
— Questa è una disciplina che dovrebbe suscitare l'interesse dei re, dei politicanti, e degli uomini d'affari.
— Gli uomini d'affari hanno lottato contro l'uso del linguaggio mentale quando è stato scoperto che si trattava di una capacità acquisibile con l'insegnamento e la pratica; l'hanno messa fuori legge per molti secoli.
Faxe sorrise.
— E i re?
— Noi non abbiamo più re.
— Sì. Lo vedo… Ebbene, vi ringrazio, Genry. Ma il mio compito è disimparare, non apprendere. E preferirei non imparare ora un'arte che cambierebbe interamente il mondo.
— Ma siete stato voi stesso a profetizzare che questo mondo cambierà, entro cinque anni.
— E io cambierò con il mondo, Genry. Ma non ho desiderio di essere io a cambiarlo.
Stava piovendo, la lunga, battente, quasi impalpabile pioggia dell'estate getheniana. Stavamo camminando sotto gli alberi di hemmen, sui pendii che dominavano la Fortezza, dove non esistevano sentieri. La luce era grigia nel cadere dai rami oscuri, e l'acqua chiara scendeva lenta dagli aghi scarlatti. L'aria era fresca, eppure mite, e vibrava tutta del suono pigro della pioggia.
— Faxe, ditemi questo. Voi Handdarata avete un dono che gli uomini di tutti i mondi hanno sempre bramato. Voi l'avete. Voi potete predire il futuro. Eppure vivete come tutti gli altri… non sembra contare…
— E come potrebbe contare, Genry?
— Bene, vediamo. Per esempio, questa rivalità tra Karhide e Orgoreyn, questa lite per la Valle di Sinoth. Mi sembra di aver compreso che Karhide ha perduto la faccia, nella maniera peggiore, in queste ultime settimane. Ora, perché Re Argaven non ha consultato i suoi Profeti, chiedendo quale rotta seguire, o quale membro del kyorremy scegliere come primo ministro, o qualche altra cosa del genere?
— Le domande sono difficili da fare.
— Non vedo perché. Potrebbe semplicemente chiedere, chi mi servirà meglio, come primo ministro?… e lasciare le cose a questo punto.
— Già, potrebbe. Ma lui non sa cosa possa significare servirlo meglio. Potrebbe voler dire che l'uomo scelto abbandonerebbe la valle a Orgoreyn, o andrebbe in esilio, o assassinerebbe il re; potrebbe significare molte cose che il re non si aspetta, e non può accettare.
— Dovrebbe formulare con molta precisione la sua domanda.
— Sì. E allora ci sarebbero molte domande, vedete. E anche il re deve pagare il prezzo.
— Lo fareste pagare molto?
— Molto — disse Faxe, con tranquillità. — Colui che domanda paga quel che può permettersi di pagare, come sapete. In effetti, dei re sono venuti dai Profeti; ma non molto spesso…
— E se uno dei Profeti fosse lui stesso un uomo molto potente?
— Gli Abitanti delle Fortezze non hanno né rango, né condizione sociale. Io posso venire mandato a Erhenrang, per entrare nel kyorremy; ebbene, se io vado, riprendo il mio rango e la mia ombra, ma le mie profezie sono finite. Se avessi una domanda, mentre io servo nel kyorremy, andrei là, alla Fortezza di Orgny, pagherei il mio prezzo, e otterrei la mia risposta. Ma noi dell'Handdara non vogliamo risposte. È difficile evitarle, ma cerchiamo di non farlo.
— Faxe, non credo di capire.
— Ebbene, noi veniamo qui alla Fortezza soprattutto per imparare quali domande non si devono porre.
— Ma voi siete coloro che rispondono!
— Ancora non capite, Genry, per quale motivo abbiamo stabilito e pratichiamo la Profezia?
— No…
— Per dimostrare ed esibire la perfetta inutilità di conoscere la risposta alle domande sbagliate.
Riflettei a lungo su quanto mi era stato detto, mentre camminavamo fianco a fianco nella pioggia, sotto i rami oscuri della Foresta di Otherhord. All'interno del bianco cappuccio, il viso di Faxe era stanco e quieto, la sua luce era soffocata. Eppure m'incuteva sempre rispetto e timore. Quando mi guardava con i suoi occhi limpidi, gentili, e innocenti, mi guardava da una tradizione antica tredicimila anni: un modo di pensare e un modo di vivere così antichi, così ben stabiliti, così integrali e coerenti da dare a un essere umano il distacco da se stesso, l'autorità, la completezza di un animale selvaggio, una grande, strana creatura che vi guarda direttamente dal suo eterno presente…
— L'ignoto — disse la voce gentile di Faxe nella Foresta. — L'imprevisto, l'indimostrato, è tutto questo la base della vita. L'ignoranza è la base del pensiero. La mancanza di prove è il terreno dell'azione. Se fosse provato che non esiste un Dio, non ci sarebbe religione. Non ci sarebbero Handdara, né Yomesh, né dèi del focolare, niente. Ma anche se fosse provato che esiste un Dio, non ci sarebbe religione… Ditemi, Genry, che cosa è conosciuto? Che cos'è sicuro, prevedibile, inevitabile… la sola cosa certa che voi sappiate sul vostro futuro e sul mio?
— Che dobbiamo morire.
— Sì. In realtà c'è una sola domanda alla quale si può rispondere, Genry, e noi sappiamo già la risposta… La sola cosa che rende la vita possibile è la permanente, intollerabile incertezza: non sapere che cosa verrà dopo.