XXXIII LA CITTADELLA DELL’AUTARCA

Anche se ogni lega che ci separava da Dorcas mi lacerava il cuore, era una cosa più bella di quanto possa esprimere essere tornato sulla Samru, dopo aver visto il vuoto e silenzioso sud.

I ponti della nave avevano quel bianco impuro ma adorabile del legno tagliato di fresco, lavato quotidianamente con un grosso straccio chiamato l’orso… una sorta di stuoia fatta di vecchio cordame intrecciato ed appesantita con i voluminosi corpi dei due cuochi, e che l’equipaggio doveva trascinare sull’ultimo tratto di ponte prima di colazione. Le crepe fra le travi erano sigillate con la pece, cosicché i ponti sembravano terrazze pavimentate con un audace e fantastico disegno.

La nave aveva la prua alta che si ripiegava all’indietro. Due occhi, ciascuna pupilla grande come un piatto e con un’iride azzurro cielo dipinta del colore più brillante che fosse possibile ottenere, aiutavano la Samru a trovare la strada, e l’occhio sinistro piangeva l’ancora.

Più avanti sulla prua, c’era, sostenuta da un supporto triangolare anch’esso lavorato, dorato e dipinto, la figura distintiva della nave, rappresentante l’uccello dell’immortalità. La sua testa era quella di una donna, il volto lungo ed aristocratico, gli occhi piccoli e neri, la sua mancanza d’espressione una magnifica raffigurazione della cupa tranquillità di coloro che non conosceranno mai la morte. Penne di legno dipinto sporgevano dal cranio per rivestirle le spalle e circondare i seni circolari. Le braccia erano ali sollevate in alto ed all’indietro, le punte che s’innalzavano oltre la parte terminale della prua, le penne primarie d’oro e di porpora che oscuravano in parte il sostegno triangolare. L’avrei ritenuta una creatura assolutamente fiabesca, come senza dubbio facevano i marinai… se non avessi avuto modo di vedere le anpiels dell’Autarca.

Un lungo bompresso passava a tribordo della prua, fra le ali della Samru.

L’albero di prua, di poco più alto del bompresso, sorgeva dal castello di prua. Era inclinato in avanti in modo da dare alla vela il massimo spazio, anche se era stato mandato fuori squadra dall’albero di trinchetto e dal fiocco. L’albero principale sorgeva dritto come il pino che un tempo era stato, mentre l’albero di mezzana era inclinato all’indietro, per cui le cime dei tre alberi erano considerevolmente più separate delle loro basi. Ciascun albero sorreggeva un pennone inclinato, ottenuto legando insieme due pali affusolati che erano stati un tempo un alberello intero. Ciascuno di quei pennoni reggeva a sua volta una singola vela color ruggine.

Lo scafo era dipinto di bianco al di sotto del livello dell’acqua e di nero al di sopra, salvo che per la figura e gli occhi di cui ho già parlato, ed anche per il parapetto del cassero, a simboleggiare sia l’alta condizione del capitano sia il suo passato sanguinario. Quel cassero non occupava in effetti più di un sesto della lunghezza della Samru, ma su di esso c’erano la ruota del timone e l’abitacolo, ed era di là che si vedeva il panorama migliore, salvo quello fornito dalle alberature. L’unico effettivo armamento della nave, un cannoncino ruotante non più grande di quello di Mamillian, era collocato là, pronto sia per eventuali pirati che per un ammutinamento. Appena a prua del parapetto, due pali di ferro, delicatamente inclinati come le corna di un grillo, reggevano lanterne sfaccettate, una di un rosso pallido, e l’altra di un verde vivo come quello della luce lunare.

La sera successiva, mi trovavo vicino a quelle lanterne, intento ad ascoltare il tonfo del tamburo, il morbido sciacquio dei remi ed il canto dei rematori, quando scorsi le prime luci lungo la riva. Questo era il confine morente della città, la dimora dei più poveri fra i poveri… il che significava soltanto che qui c’era il confine vivente della città, che qui terminava il dominio della morte. Qui c’erano esseri umani che si stavano preparando a dormire, che forse stavano ancora dividendo il pasto che contrassegnava la fine della giornata. Vidi un migliaio di scene gentili in ciascuna di quelle luci, ed udii un migliaio di storie narrate vicino al focolare. In un certo senso, ero tornato a casa, e lo stesso canto che mi aveva spinto avanti in primavera, mi riportava ora indietro:

Remate, fratelli, remate!

La corrente è contro di noi.

Remate, fratelli, remate!

Eppure Dio è con noi.

Remate, fratelli remate!

Il vento è contro di noi.

Remate, fratelli, remate!

Eppure Dio è con noi.

Non potei fare a meno di pensare a chi stava partendo quella notte.

Ogni lunga storia, se narrata sinceramente, conterrà tutti gli elementi che hanno contribuito al dramma umano fin da quando la prima rozza astronave raggiunse le spiagge lunari: non solo nobili azioni e tenere emozioni, ma cose grottesche, goffe discese dal sublime al ridicolo, e così via. Io mi sono sforzato di esporre qui la verità senza abbellimenti, senza la minima preoccupazione che tu, lettore, potessi trovare alcune parti improbabili ed altre insipide. E se le montagne dove c’era la guerra erano teatro di grandi imprese (compiute più da altri che da me) ed il mio imprigionamento da parte di Vodalus e degli Asciani un periodo di orrore, ed il viaggio sulla Samru un interludio di tranquillità, adesso eravamo arrivati all’intervallo della commedia.

Ci avvicinammo a quella zona della città di cui fa parte la Cittadella… che è il lato meridionale ma non quello più a sud di tutti… navigando a vela e durante il giorno. Osservai con estrema attenzione la riva orientale dorata dal sole, e mi feci depositare dal capitano su quegli stessi scivolosi gradini dove un tempo avevo nuotato e lottato. Speravo di passare attraverso il cancello della nostra necropoli ed entrare così nella Cittadella attraverso la breccia nel muro di cinta, vicino alla Torre di Matachin, ma il cancello era chiuso a chiave, e non arrivò nessun gruppetto di volontari che mi facesse entrare. Pertanto, fui invece costretto a camminare per parecchie catene lungo il confine della necropoli, e per parecchie altre lungo il muro, fino al barbacane.

Là, incontrai un numeroso drappello di guardie, che mi condusse dinnanzi all’ufficiale di turno, il quale, quando gli dichiarai che ero un torturatore, suppose che io fossi uno di quei miseri che molto spesso, all’avvicinarsi dell’inverno, cercano di essere ammessi nella corporazione. Egli decise (molto saggiamente, se la sua supposizione fosse stata esatta) di farmi frustare, e, per evitare la cosa, fui costretto a spezzare il pollice a due dei suoi uomini ed a richiedere, mentre lo tenevo nella stretta che chiamiamo del gattino e della palla, di essere condotto dal suo superiore, il castellano.

Ammetto che ero alquanto intimorito al pensiero d’incontrare quel personaggio, che avevo sia pur raramente intravisto negli anni in cui ero stato apprendista nella fortezza che egli comandava. Scoprii che era un vecchio soldato, con i capelli argentei e zoppo quanto me. L’ufficiale spiegò balbettando quali erano le accuse mentre io attendevo vicino a lui: avevo assalito ed insultato (questo non era vero) la sua persona, malmenato due dei suoi uomini, e così via. Quando ebbe finito, il castellano spostò lo sguardo da lui a me e viceversa, quindi lo congedò e mi offrì di sedermi.

— Non sei armato — osservò, con voce rauca ma morbida, come se fosse stata a lungo sforzata nel gridare ordini.

Ammisi che lo ero.

— Ma hai partecipato ai combattimenti e sei stato nelle giungle a nord delle montagne, dove non si sono più combattute battaglie da quando il nemico ha fatto ripiegare il nostro fianco attraversando l’Uroboros.

— Questo è vero — convenni. — Come fai a saperlo?

— La ferita sulla tua coscia è stata causata da una delle loro lance, ne ho viste abbastanza da saperle riconoscere. Il raggio ha attraversato la carne ed è stato deviato dall’osso. Potevi trovarti su un albero ed essere stato colpito da un hastato a terra, suppongo, ma è più probabile che facessi parte della cavalleria e stessi attaccando un corpo di fanteria. Non un corpo di catafratti, altrimenti non ti avrebbero colpito così facilmente. Le demilance?

— Solo gli irregolari leggeri.

— Dovrai parlarmi di questo più tardi, perché dall’accento tu sembri un uomo di città, mentre gli irregolari sono per lo più eclettici e simili. Hai anche una doppia cicatrice sul piede, bianca e pulita, con i segni distanti mezza spanna fra loro. Quello è il morso di un pipistrello vampiro, e quelle bestie non diventano tanto grosse se non nelle nere giungle lungo la cintura del mondo. Come ci sei arrivato?

— Il nostro velivolo è precipitato e sono stato fatto prigioniero.

— E sei fuggito?

Ancora un momento e sarei stato costretto a raccontare di Agia e dell’uomo verde e del mio viaggio dalla giungla alla bocca del Gyoll, e quelli erano fatti importanti che non desideravo rivelare in maniera così casuale. Invece di rispondere, pronunciai le parole di autorità applicabili alla Cittadella ed al suo castellano.

Poiché l’uomo era zoppo, avrei voluto che rimanesse seduto, ma egli balzò in piedi, salutò, poi s’inginocchiò e mi baciò la mano. In questo modo era il primo, anche se non poteva saperlo, a rendermi omaggio, una distinzione, questa che dà diritto ad un’udienza privata una volta all’anno… udienza che non ha mai richiesto e forse non richiederà mai.

Adesso era per me impossibile procedere vestito com’ero. Il vecchio castellano avrebbe avuto un collasso se avessi avanzato una simile pretesa, ed era talmente preoccupato per la mia sicurezza che se anche avessi tentato di mantenere l’incognito mi avrebbe fatto seguire da almeno un plotone di alabardieri. Ben presto mi trovai vestito di una tunica cosparsa di lapislazzuli, di un coturnio e di uno stefane, il tutto accompagnato da un bastone d’ebano e da un voluminoso manto damascato e ricamato con perle ormai fatiscenti. Tutti quegli abiti erano incredibilmente antichi, perché erano stati prelevati da una riserva risalente ai tempi in cui la Cittadella era la sede degli autarchi.

Così, invece di rientrare nella nostra torre, com’era mia intenzione, con lo stesso mantello che portavo quando l’avevo lasciata, vi feci ritorno come un essere irriconoscibile, abbigliato in modo cerimoniale e bizzarro, magro come uno scheletro, zoppo ed orrendamente sfregiato. Fu in questo modo che entrai nello studio del Maestro Palaemon, e sono certo che dovetti spaventarlo a morte, dato che gli era stato annunciato solo pochi istanti prima che l’Autarca si trovava nella Cittadella e desiderava conversare con lui.

Mi parve che fosse molto invecchiato da quando ero partito, ma forse perché io lo ricordavo non com’era al momento del mio esilio, ma come lo avevo visto nella nostra piccola aula quando ero bambino. Eppure, mi piace pensare che fosse preoccupato per me, e non è veramente troppo improbabile che lo fosse: io ero sempre stato il suo migliore allievo ed il suo preferito, ed era stato senza dubbio il suo voto a contrastare quello del Maestro Gurloes ed a salvarmi la vita. Era stato lui a darmi la sua spada.

Comunque, che si fosse preoccupato molto o poco, il suo volto era più profondamente segnato di quanto fosse mai stato, ed i suoi radi capelli, che avevo pensato fossero grigi, erano adesso di quella pallida tonalità di giallo che si nota nel vecchio avorio. S’inginocchiò a baciarmi le dita, e rimase più che sorpreso quando lo aiutai ad alzarsi e lo invitai a sedere nuovamente dietro il suo tavolo.

— Sei troppo gentile, Autarca — esclamò, e poi aggiunse, usando una vecchia formula: — La tua pietà si estende da sole a sole.

— Non ti ricordi di noi?

— Sei stato confinato qui in passato? — Mi sbirciò attraverso un curioso insieme di lenti che era l’unica cosa che ancora gli permettesse di vedere, e compresi che la sua vista, già consumata sui registri della corporazione molto tempo prima che io nascessi, doveva essersi deteriorata ulteriormente. — Hai subito una tortura, vedo, ma è un lavoro troppo rozzo, spero, perché sia opera nostra.

— Non è stata opera vostra — replicai, toccandomi le cicatrici sulla guancia. — Nondimeno, noi siamo stati rinchiusi qui per un certo tempo, nella segreta sotto questa torre.

Egli sospirò, il basso respiro di un vecchio, ed abbassò lo sguardo sul grigio strato di carte che aveva dinnanzi. Quando parlò, non riuscii a sentire le sue parole, e dovetti chiedergli di ripeterle.

— È successo — spiegò. — Sapevo che sarebbe accaduto, ma speravo che sarei stato sepolto e dimenticato. Ci congederai, Autarca? Oppure ci affiderai qualche altro compito?

— Non abbiamo ancora deciso cosa faremo di te e della corporazione cui appartieni.

— Non servirà. Se ti offendo, Autarca, ti chiedo indulgenza in nome della mia età… ma non servirà lo stesso. Alla fine, scoprirai di aver bisogno di uomini che facciano quello che noi facciamo. Puoi definirlo un’attività di guarigione, se vuoi, come è stato detto spesso. Oppure un rituale, come è anche stato detto. Ma scoprirai che la cosa stessa diventa ancora più terribile sotto il suo travestimento. Imprigionerai coloro che non meritano la morte? Scoprirai di avere così un possente esercito in catene, di trattenere prigionieri la cui fuga sarebbe una catastrofe, e di aver bisogno di servi che insegnino la giustizia a coloro che hanno fatto morire nell’agonia dozzine di persone. Chi altro lo farà?

— Nessuno insegnerà quel tipo di giustizia che insegnate voi. Hai affermato che la nostra pietà si estende da sole a sole, e noi speriamo che sia così. Nella nostra pietà, concederemo anche ai più malvagi una rapida morte, non perché li compatiamo, ma perché è intollerabile che uomini buoni debbano trascorrere la loro vita dispensando sofferenza.

La sua testa si sollevò e le lenti lampeggiarono: per la prima ed unica volta in tutti quegli anni, riuscii ad intravedere in lui il giovane che era stato.

— Deve essere fatto da uomini buoni. Sei stato mal consigliato, Autarca! Quel che è intollerabile è che possa essere fatto da uomini cattivi!

Sorrisi. Il suo volto, come lo vedevo allora, mi aveva ricordato qualcosa che avevo allontanato dalla mia mente alcuni mesi prima, e cioè il fatto che la corporazione era la mia famiglia e l’unica casa che avrei mai posseduto. Non avrei mai trovato un amico al mondo se non ne avessi trovati qui.

— In confidenza, Maestro — risposi, — noi abbiamo deciso che non debba essere fatto per nulla.

Non mi rispose, e compresi dalla sua espressione che non mi aveva neppure sentito; stava ascoltando invece il suono della mia voce, ed un’espressione di dubbio e di gioia gli attraversò la vecchia faccia consunta come un alternarsi di ombre e luci.

— Sì — confermai, — sono Severian. — E, mentre egli lottava per riacquistare il controllo di sé, mi avvicinai alla porta e recuperai la mia giberna, che avevo ordinato ad uno degli ufficiali della mia guardia di portare. Avevo riposto in essa quello che era stato il mio mantello color fuliggine della corporazione, ora sbiadito ad un nero rugginoso. Disteso il mantello sulla scrivania del Maestro Palaemon, vi rovesciai sopra il contenuto della giberna. — Questo è tutto ciò che ho riportato indietro.

Sorrise, come era solito fare nell’aula quando mi coglieva a commettere qualche infrazione di minore importanza.

— Questo ed il trono? Me ne parlerai?

E lo feci. Ci volle molto tempo, e più di una volta i miei protettori bussarono alla porta per accertarsi che fossi sano e salvo, ed alla fine feci portare il pranzo. Quando il fagiano fu ridotto ad un mucchio di ossa, i pasticcini scomparsi ed il vino bevuto, stavamo ancora parlando. Fu allora che concepii l’idea che ha finalmente dato i suoi frutti in questo resoconto finale della mia vita. Dapprima, avevo avuto intenzione d’iniziare il racconto dal giorno in cui avevo lasciato la torre per concluderlo con il giorno del mio ritorno, ma compresi ben presto che, se una simile struttura avrebbe fornito quella simmetria tanto cara agli artisti, sarebbe però stato impossibile per chiunque comprendere le mie avventure senza sapere qualcosa della mia adolescenza. Allo stesso modo, alcuni elementi della mia storia rimarrebbero incompleti se io non ne prolungassi il resoconto (come intendevo fare) ad alcuni giorni dopo il mio ritorno. Forse, per qualcuno, sono riuscito a creare il Libro D’Oro. In effetti, può darsi che tutti i miei vagabondaggi non siano stati altro che un’invenzione dei librai per procurarsi clienti; ma forse, anche questo è sperare troppo.

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