XXII LA BATTAGLIA

Li scorsi dapprima come una serie di punti colorati sparsi sul lato più lontano dell’ampia vallata, spadaccini che sembravano muoversi e mescolarsi, come fanno le bolle che danzano sulla superficie di un boccale di sidro. Stavamo trottando attraverso un boschetto di alberi distrutti, il cui legno nudo e bianco assomigliava all’osso vivo di una frattura composta. Adesso la nostra colonna si era notevolmente ingrossata, e comprendeva forse l’intero contingente dei contarii irregolari. Eravamo sotto il fuoco nemico, in modo più o meno incostante, da circa mezzo turno di guardia, ed alcuni soldati erano stati feriti (uno, vicino a me, in modo molto serio) e parecchi altri uccisi. I feriti si curavano da soli e tentavano di aiutarsi a vicenda… se c’era assistenza medica, si trovava troppo indietro rispetto a noi perché potessi esserne consapevole.

Di tanto in tanto, superavamo alcuni cadaveri sparsi fra gli alberi; di solito erano raggruppati in mucchietti di due o tre, ma talvolta si trattava anche di individui isolati. Ne vidi uno che, al momento della morte, era riuscito ad impigliarsi con il colletto della giacca nello spuntone di un tronco spezzato, e rimasi colpito dall’orrore della sua situazione, dal fatto che fosse morto, eppure impossibilitato a riposare, e poi dal pensiero che quella era anche la situazione di tutte le migliaia di alberi che erano stati uccisi ma non potevano cadere.

Quasi nello stesso tempo in cui mi rendevo conto della presenza del nemico, mi accorsi anche che c’erano truppe del nostro esercito su entrambi i lati. Alla nostra destra notai una mescolanza di cavalieri e fanteria, ed i cavalieri erano privi di elmetto ed avevano il petto nudo ed abbronzato, sul quale era appeso un rotolo di coperte rosse o azzurre. Essi avevano, pensai, cavalcature migliori di quelle della maggior parte di noi. Erano armati di lance poco più lunghe dell’altezza di un uomo, e molti le tenevano appoggiate di traverso sulla sella. Ognuno aveva un piccolo scudo di rame assicurato alla parte superiore del braccio sinistro. Non avevo idea da che parte della Repubblica potessero venire quegli uomini, ma per qualche ragione, forse a cause dei loro lunghi capelli e dei petti nudi, mi sentii certo che fossero selvaggi.

Se lo erano, la fanteria che si muoveva fra loro apparteneva ad un livello di civiltà ancora più basso: esseri scuri di pelle, curvi e dai capelli incolti. Riuscii ad intravederli solo saltuariamente fra gli alberi spezzati, ma ebbi l’impressione che talvolta si lasciassero cadere a quattro zampe. Di tanto in tanto, qualcuno sembrava aggrapparsi alla staffa di un cavaliere, come io avevo talvolta afferrato quella di Jonas quando questi cavalcava il suo merichippo. Ogni volta che ciò accadeva, il cavaliere colpiva la mano del compagno con l’impugnatura della lancia.

Una strada attraversava il basso terreno alla nostra sinistra, e su di essa, lungo entrambi i lati, avanzava una forza molto più numerosa della nostra colonna e del complesso dei cavalieri selvaggi e dei loro compagni: c’erano battaglioni di peltasti con lance fiammeggianti e grandi scudi trasparenti; hobilieri montati su cavalcature caracollanti, con archi e faretre di frecce sospesi alla schiena; cherkajis dall’armamento leggero le cui formazioni erano mari di bandiere e piume.

Non potevo sapere nulla del coraggio di quegli strani soldati che erano di colpo divenuti miei camerati, ma presunsi inconsciamente che non fosse maggiore del mio, ed essi sembravano realmente rappresentare una scarsa difesa contro i puntini che si muovevano sul lato opposto. Il fuoco cui eravamo sottoposti si fece più intenso, mentre, per quanto potevo vedere, i nostri nemici non subivano fuoco di sorta.

Solo poche settimane prima (anche se ora mi sembrava fosse passato almeno un anno) sarei rimasto terrorizzato al pensiero che qualcuno mi sparasse con un’arma come quella che Vodalus aveva usato in quella notte nebbiosa nella nostra necropoli, con la cui narrazione ho iniziato questa cronaca.

I colpi che cadevano tutt’intorno a noi facevano ora sembrare quel raggio isolato altrettanto infantile come i proiettili scagliati dall’arciere del capo del villaggio.

Non avevo idea del tipo di congegno usato per produrre quei lampi, oppure se essi fossero fatti di pura energia o fossero generati da qualche tipo di missile; comunque, quando atterravano intorno a noi, la loro natura era quella di un’esplosione prolungata in qualcosa di simile ad un’asta. Inoltre, anche se non era possibile vederli arrivare, quei colpi fischiavano nell’avvicinarsi, e, in base a quella nota fischiante, che non durava più di un battito di ciglia, imparai ben presto a calcolare quanto sarebbero caduti vicino e quanto sarebbe stata violenta la susseguente, estesa detonazione. Se non vi era alcuna variazione di tono, cosicché esso sembrava la nota che un coripaheus è in grado di emettere col suo strumento, il colpo sarebbe caduto ad una certa distanza. Ma se il tono saliva rapidamente, come se una nota dapprima suonata per uomini fosse divenuta una nota per gole femminili, allora l’impatto sarebbe avvenuto nelle vicinanze. E, sebbene solo i più penetranti di quei sibili monotonici fossero pericolosi, ciascuno di essi che si levava in un acuto, reclamava la vita di almeno uno di noi, e spesso di parecchi.

Sembrava pazzia avanzare al trotto come stavamo facendo. Avremmo dovuto sparpagliarci oppure smontare e cercare rifugio fra gli alberi, e se uno di noi lo avesse fatto, credo che gli altri lo avrebbero imitato. Ad ogni colpo che cadeva, arrivavo quasi sul punto di essere io quell’uno, ma, ogni volta, come se la mia mente fosse stata incatenata in un qualche stretto cerchio, il ricordo della paura che avevo in precedenza mostrato di provare mi teneva al mio posto. Che gli altri fuggissero, ed io sarei fuggito con loro, ma non sarei stato io il primo a farlo.

Inevitabilmente, un colpo si abbatté in direzione parallela alla nostra colonna. Sei soldati esplosero come se avessero contenuto nei loro corpi piccole bombe, e la testa del primo scoppiò in un getto scarlatto, il secondo venne colpito al collo ed alle spalle, il terzo al petto, il quarto ed il quinto al ventre e l’ultimo all’inguine (o forse sulla sella e sul dorso del destriero), prima che il raggio raggiungesse il suolo sollevando un getto di polvere e pietre. Anche gli uomini e gli animali che si trovavano dal lato opposto di quelli così distrutti rimasero uccisi, abbattuti dalla forza dell’esplosione e bombardati dagli arti e dai pezzi di armatura dei compagni.

Tenere il pezzato al passo o al massimo al trotto era la cosa peggiore; se non potevo fuggire, allora volevo farmi avanti, dare inizio al combattimento, per morire, se ero effettivamente destinato a questo. Quel colpo mi offrì l’opportunità di dare sfogo ai miei sentimenti. Facendo cenno a Daria di seguirmi, spinsi il pezzato al galoppo oltre il piccolo gruppo di sopravvissuti che si erano trovati fra noi e l’ultimo dei soldati uccisi, ed andai ad occupare la posizione precedentemente tenuta dalle vittime. Mesrop si trovava già là e mi sorrise.

— Buona idea. È probabile che qui non cadrà un altro colpo per un po’.

Evitai di disingannarlo.

Per qualche tempo, comunque, parve che egli avesse ragione. Dopo averci colpiti, i cannonieri nemici spostarono il fuoco sui selvaggi alla nostra destra. La strascicante fanteria strillò e farfugliò quando i colpi si abbatterono sulle sue file, ma i cavalieri reagirono, almeno così parve, invocando una qualche magia che li proteggesse. Spesso i loro canti erano talmente chiari da permettermi di distinguerne le parole, anche se si trattava di un linguaggio sconosciuto. Ad un tratto uno di loro si levò addirittura in piedi sulla sella come se partecipasse ad un’esibizione ippica, e sollevò una mano verso il sole, protendendo l’altra verso gli Asciani. Ogni cavaliere sembrava avere un suo incantesimo personale, ed era facile vedere, man mano che il loro numero si riduceva sotto il bombardamento, come quelle menti primitive arrivassero a credere negli incantesimi, perché i superstiti non potevano fare a meno di pensare di essere stati salvati dalla loro taumaturgia, mentre gli altri non potevano lamentarsi per il modo in cui la loro aveva fallito.

Anche se stavamo avanzando prevalentemente al trotto, non fummo i primi ad ingaggiare la lotta con il nemico. Sul terreno più basso, i cherkajis erano sciamati nella vallata, abbattendosi come un’onda di fuoco contro un quadrato formato da fanteria nemica.

Avevo vagamente supposto che il nemico avrebbe avuto a disposizione armi di gran lunga superiori a quelle possedute da noi contarii… forse pistole e fucili come quelli usati dagli uomini-bestia… e che un centinaio di combattenti così armati avrebbe facilmente distrutto una qualsiasi forza di cavalleria, ma non accadde nulla di simile. Parecchie file del quadrato cedettero, ed io ero abbastanza vicino da poter sentire le grida di guerra dei cavalieri, distanti eppure chiare, e da distinguere i singoli fanti in fuga. Alcuni gettavano via immensi scudi, ancora più grandi di quelli trasparenti dei peltasti, anche se questi brillavano in modo metallico. Le loro armi d’offesa sembravano essere lance dalla testa piatta e non più lunghe di tre cubiti, in grado di emettere getti di fiamma, ma a corto raggio.

Un secondo quadrato di fanteria emerse dietro il primo, seguito da un altro e da un altro ancora, più in giù nella vallata.

Proprio quando cominciavo a sentirmi certo che saremmo andati in aiuto dei cherkajis, ricevemmo l’ordine di arrestarci. Guardando a destra, notai che i selvaggi lo avevano fatto, fermandosi ad una certa distanza da noi, e che erano adesso intenti a raggruppare le pelose creature che li accompagnavano sul lato della loro fila più lontano da noi.

— Dobbiamo formare un blocco! — gridò Guasacht. — Prendetevela calma, ragazzi!

Osservai Daria, che incontrò il mio sguardo con uno altrettanto stupito. Mesrop agitò un lungo braccio in direzione dell’estremità orientale della vallata.

— Stiamo sorvegliando il fianco. Se non arriva nessuno, oggi dovremmo avere una giornata abbastanza buona.

— Eccetto per quelli che sono già morti — replicai. Il bombardamento, che era da un po’ in diminuzione, sembrava ora essere cessato del tutto. Il silenzio generato dalla sua assenza ci circondava, ed era quasi più terrificante di quanto lo erano stati i colpi sibilanti.

— Suppongo di sì. — La sua scrollata disse eloquentemente che avevamo perso solo poche dozzine di uomini su un contingente di centinaia.

I cherkajis erano indietreggiati, ritirandosi dietro uno schermo di hobilers che diressero uno sciame di frecce contro la prima fila della scacchiera degli Asciani. La maggior parte dei dardi parve venire deviata dagli scudi, ma alcuni dovettero conficcarsi in essi, appiccando il fuoco al metallo che prese a bruciare di una fiamma altrettanto viva quanto quella delle frecce, generando nubi di fumo bianco.

Quando la pioggia di frecce rallentò, i quadrati della scacchiera ripresero ad avanzare con movimenti metallici. I cherkajis avevano continuato ad indietreggiare, e si trovavano ora alle spalle di una fila di peltasti, molto poco più avanti rispetto a noi. Potevo distinguere chiaramente i loro volti scuri. Erano tutti uomini, e barbuti, e dovevano essere circa duemila; ma, fra di essi, c’erano una dozzina circa di giovani donne ingioiellate e trasportate su portantine dorate, in groppa ad arsinotteri coperti da gualdrappe.

Quelle donne avevano occhi e pelle scura come gli uomini, eppure, con le loro figure rigogliose e l’aria languida, mi fecero pensare a Jolenta. Le indicai a Daria e le chiesi se sapesse come erano armate, dato che non riuscivo a vedere nessuna arma.

— Ne vorresti una, vero? O magari anche due. Scommetto che ti sembrano belle anche a questa distanza.

— Non dispiacerebbe neppure a me prenderne un paio — osservò Mesrop, ammiccando.

— Combatterebbero come furie — rise Daria, — se uno di voi cercasse di avere qualcosa a che fare con loro. Sono sacre e proibite, le Figlie della Guerra. Ti sei mai avvicinato a quegli animali che le trasportano? — mi chiese, e scossi il capo. — Sono rapidi a caricare e nulla li arresta, ma agiscono sempre nello stesso modo… attaccando di fronte ciò che li infastidisce ed oltrepassandolo di una catena o due. Poi si fermano e tornano indietro.

Osservai quegli animali. Gli arsinotteri hanno due grosse corna… ma esse non si allargano come quelle dei tori, sono corna che divergono fra loro quanto possono divergere l’indice ed il medio della mano di un uomo. Come ebbi presto modo di vedere, quegli animali caricano a testa bassa, tenendo le corna al livello del suolo, e si comportarono esattamente come aveva detto Daria. I cherkajis si ripresero ed attaccarono di nuovo con le snelle lance e le spade forcute. Tenendosi parecchio indietro rispetto a quella carica fiammeggiante, gli arsinotteri avanzarono pesantemente, le teste grigio nere abbassate e le code sollevate, mentre le fanciulle dal volto scuro si tenevano erette sotto i baldacchini aggrappandosi ai pali dorati. Era possibile vedere, dal modo in cui quelle donne stavano in piedi, che le loro cosce erano piene come le mammelle di una mucca da latte e rotonde come il tronco di un albero.

La carica li portò oltre il combattimento vorticoso ed all’interno, ma non troppo, della scacchiera. I fanti Asciani spararono contro i fianchi delle bestie… il che doveva essere come bruciare corno o cuir boli; tentarono di arrampicarsi sulle teste degli animali ma furono gettati in aria, lottarono per arrampicarsi sui fianchi grigi. I cherkajis arrivarono con violenza in soccorso delle fanciulle, e la scacchiera si mosse, straripò e perse un quadrato.

Osservando la cosa a distanza, mi rammentai di aver pensato alle battaglie come a partite a scacchi, e sentii che da qualche parte qualcun altro aveva avuto la stessa idea ed aveva inconsciamente permesso ad essa di modellare i suoi piani.

— Sono splendide — continuò Daria, per stuzzicarmi. — Vengono scelte all’età di dodici anni e nutrite con miele ed oli puri. Ho sentito dire che la loro carne è talmente tenera che non possono giacere sul terreno senza riportare ammaccature. Vengono trasportati materassi di piume perché possano dormire, e se questi vanno perduti, le ragazze si devono sdraiare su un letto di fango che si modelli per sostenere i loro corpi. Gli eunuchi che le accudiscono lo mescolano a vino caldo perché non sentano freddo.

— Dovremmo smontare per risparmiare gli animali — suggerì Mesrop.

Ma io volevo guardare la battaglia, e restai in sella, anche se ben presto soltanto io e Guasacht rimanemmo montati, in tutti il nostro bacele.

I cherkajis erano stati di nuovo respinti, ed ora erano sottoposti al violento bombardamento di un’invisibile artiglieria. I peltasti si lasciarono cadere al suolo, coprendosi con gli scudi, mentre nuovi quadrati di fanteria Asciana emergevano dalla foresta sul lato settentrionale della valle… Sembrava che le loro file fossero senza fine, ed ebbi la sensazione che ci fossimo impegnati a combattere un esercito interminabile.

Quella sensazione si accrebbe quando i cherkajis caricarono per la terza volta. Un raggio colpì un arsinottero, trasformando sia l’animale sia la giovane donna che trasportava in un ammasso sanguinoso. Adesso la fanteria stava sparando contro le donne; una si accartocciò e la portantina svanì in una fiammata, mentre i quadrati di fanteria avanzavano su cadaveri dai vivaci vestiti e su destrieri morti.

Ad ogni passo che fa, in guerra, il vincitore si avvia a perdere. Il guadagno di terreno effettuato dalla scacchiera servì a presentare il fianco del suo quadrato di testa di fronte a noi, e, con mio stupore, ricevemmo l’ordine di montare, di disporci lungo una linea, e di dirigerci contro di esso, dapprima al trotto, quindi al piccolo galoppo, ed infine, mentre le gole d’ottone di tutte le trombe urlavano, in una carica disperata che quasi ci portò via la pelle dal volto.

Se i cherkajis erano armati leggermente, il nostro armamento era ancora più leggero, eppure in quella carica c’era una magia più potente dei canti dei nostri selvaggi alleati. Il fuoco delle nostre armi si abbatté sulle file distanti come le falci attaccano un campo di grano. Sferzai il pezzato con le redini per evitare di essere distanziato dagli zoccoli tonanti che m’incalzavano alle spalle, eppure fui superato ugualmente, e vidi Daria saettare oltre, i capelli di fiamma che svolazzavano liberi, il contus in una mano e la sciabola nell’altra, le guance più bianche dei fianchi schiumati del suo destriero. Compresi allora da dove avesse avuto origine il comportamento dei cherkajis, e cercai di caricare ancor più rapidamente in modo che Daria non morisse, anche se Thecla rise attraverso le mie labbra a quel pensiero.

I destrieri non corrono come le bestie comuni… veleggiano sul suolo come le frecce veleggiano nell’aria. Per un momento, il fuoco della fanteria Asciana distante mezza lega si levò dinnanzi a noi come un muro. Un momento più tardi, fummo in mezzo a loro, le zampe di ogni cavalcatura insanguinate fino al ginocchio. Il quadrato, che ci era parso solido come pietra da costruzione, si tramutò in una folla di frenetici soldati con grossi scudi e teste rasate; soldati che spesso si uccidevano a vicenda nella frenesia di uccidere noi.

Combattere è una cosa stupida, nel migliore dei casi; ma ci sono cose da imparare al riguardo, fra le quali la prima è che il numero degli avversari conta solo alla lunga. All’inizio, si tratta soltanto d’un individuo contro uno o due altri, ed in questo i nostri destrieri ci diedero un notevole vantaggio… non solo a causa della loro altezza e del loro peso, ma anche perché colpivano e mordevano, ed i colpi degli zoccoli erano più possenti di quelli che qualsiasi uomo, eccetto forse Baldanders, avrebbe potuto sferrare.

Un raggio di fuoco colpì il mio contus. Lo lasciai cadere ma continuai ad uccidere, tagliando a destra ed a sinistra con il mio falcione, e notando appena che il colpo mi aveva aperto una ferita nella gamba.

Credo di aver abbattuto una mezza dozzina di Asciani prima di accorgermi che mostravano tutti lo stesso aspetto… non che avessero tutti la stessa faccia (come accade agli uomini di alcune nostre unità, che sono in effetti più simili dei fratelli), ma come se le differenze fra loro fossero secondarie e casuali. Avevo già osservato questo fenomeno fra i nostri prigionieri quando avevamo recuperato la carrozza d’acciaio, ma allora la cosa non mi aveva veramente colpito. Mi colpì invece nella follia della battaglia, perché parve essere un elemento di quella follia. Le frenetiche figure erano maschili e femminili; le donne avevano piccoli seni penduli ed erano di una testa più basse degli uomini, ma non c’era altra differenza. Tutti avevano grandi occhi brillanti e selvaggi, i capelli tagliati cortissimi, volti affamati, bocche urlanti e denti sporgenti.

Ci liberammo dalla stretta nemica come avevano fatto i cherkajis; il quadrato era stato intaccato ma non distrutto, e, mentre davamo alle nostre cavalcature il tempo di riprendere fiato, esso si ricostituì, con i leggeri scudi lucidi davanti… Un lancere si staccò dalle file dei suoi e si mise a correre verso di noi. All’inizio, pensai che fosse soltanto una bravata, poi (man mano che si avvicinava, poiché un uomo normale corre molto meno in fretta di un destriero), che desiderasse arrendersi. Alla fine, quando aveva quasi raggiunto le nostre file, l’uomo fece fuoco con la sua lancia, ed un soldato lo abbatté. Nelle convulsioni della morte, l’uomo gettò in aria la sua lancia fiammeggiante, e ricordo come essa si agitò nel cielo blu cupo.

— Stai sanguinando molto — osservò Guasacht, avvicinandosi al trotto. — Potrai cavalcare quando caricheremo ancora?

Mi sentivo forte come lo ero sempre stato in vita mia e glielo dissi.

— Comunque, farai meglio a bendare quella gamba.

La pelle bruciata si era spaccata e ne stava scaturendo il sangue; Daria, che non aveva ricevuto alcuna ferita, la fasciò.

La carica per cui mi ero preparato non ebbe mai luogo. Del tutto inaspettato, (almeno per quanto mi riguardava), giunse l’ordine di fare dietro front, e ci avviammo al trotto verso nord est sull’aperta pianura ricca d’erba incolta.

I selvaggi sembravano essere svaniti, ed una nuova forza aveva preso il loro posto, sul fianco che era adesso diventato il nostro fronte. All’inizio, pensai che fossero cavalieri in sella a centauri, quelle mitiche creature di cui avevo visto i disegni sul libro marrone. Potevo scorgere le teste e le spalle dei cavalieri al di sopra delle teste umane delle loro cavalcature, ed entrambi sembravano essere armati. Quando si fecero più vicini, notai che non si trattava di nulla di così romantico, ma semplicemente di piccoli uomini… nani, in realtà, sulle spalle di altri uomini molto alti.

Le nostre direzioni di avanzata erano quasi parallele, ma destinate a convergere gradualmente. I nani ci osservavano con quella che sembrava essere una cupa attenzione, mentre gli uomini alti non ci guardavano affatto. Alla fine, quando la nostra colonna giunse a non più di un paio di catene dalla loro, ci arrestammo e ci girammo per fronteggiarli. Con un senso di orrore mai provato prima, mi resi conto che quegli strani cavalieri e quegli strani destrieri erano Asciani; la nostra manovra era stata decisa per impedire loro di prendere i pestalti di fianco, ed aveva avuto successo in quanto adesso essi avrebbero dovuto oltrepassare la nostra colonna, se ci fossero riusciti, per poter sferrare il loro attacco. Sembravano essere all’incirca cinquemila, tuttavia, ed erano certo molto più di quanti noi fossimo in condizioni di respingere.

Eppure, non venne nessun attacco. Ci arrestammo e formammo una stretta linea, staffa contro staffa. Nonostante il loro numero, essi si spostarono su e giù davanti alla nostra linea, come se stessero pensando dapprima di superarci sulla destra e poi sulla sinistra e poi ancora sulla destra. Era comunque evidente che non sarebbero potuti passare in alcun modo, a meno che una parte delle loro forze non avesse impegnato il nostro fronte per impedirci di attaccare gli altri alle spalle. Quasi con la speranza di rimandare così lo scontro, noi non facemmo fuoco.

Assistemmo adesso a ripetizioni del comportamento del lancere isolato che aveva lasciato il suo quadrato per attaccarci. Uno degli uomini alti saettò in avanti; in una mano teneva un sottile bastone, poco più di una verga, nell’altra una spada del tipo chiamato shotel, che ha una lama molto lunga ed affilata da entrambi i lati, e la cui metà anteriore è curvata a semicerchio. Mentre si avvicinava, l’uomo rallentò il passo e notai che i suoi occhi erano sfuocati, e che in effetti era addirittura cieco. Il nano sulle sue spalle incoccò una freccia in un corto arco ricurvo.

Quando quei due arrivarono ad una mezza catena di distanza da noi, Erblon diede a due uomini l’incarico di allontanarli. Prima che i due uomini si potessero avvicinare, l’uomo cieco si mise a correre veloce come un destriero ma con passo stranamente silenzioso, diretto contro di noi. Otto o dieci soldati fecero fuoco, ma vidi quanto fosse difficile colpire un bersaglio che si muoveva a quella velocità. La freccia partì e s’incendiò di una luce arancione. Un soldato tentò di parare la verga dell’uomo cieco… lo shotel si abbassò lampeggiando e la sua lama ricurva spaccò il cranio del soldato.

Allora un gruppo di tre uomini ciechi con i loro cavalieri si staccò dalla massa del nemico, e, prima ancora che ci avessero raggiunti, ne partirono altri, in gruppetti di cinque o sei. Dall’estremità della linea, il nostro ipparco sollevò un braccio; Guasacht ci fece cenno di avanzare ed Erblon suonò la carica, che riecheggiò a destra ed a sinistra, una nota muggente che sembrava contenere un cupo suono di campane.

Anche se allora non lo sapevo, è assiomatico che scontri fra forze puramente di cavalleria degenerino quasi subito in semplici duelli isolati. Così accadde nel nostro caso. Cavalcammo verso di loro, e, anche se nel fare così perdemmo venti o trenta dei nostri, ne attraversammo le linee. Immediatamente, ci voltammo per attaccare ancora, sia per impedire ai nemici di assalire i peltasti, sia per tornare in contatto con il nostro esercito. Essi, a loro volta, si volsero per fronteggiarci, e, in breve tempo, né noi né loro avemmo più qualcosa che si potesse definire un fronte, o altre tattiche oltre quelle che ciascun combattente applicava a se stesso.

La mia tattica era quella di girare alla larga da qualsiasi nano che apparisse sul punto di tirare una freccia, assalendone invece altri alle spalle o lateralmente. Quel metodo funzionava abbastanza bene quando ero in grado di applicarlo, ma ben presto scoprii che, per quanto i nani apparissero decisamente impotenti quando gli alti uomini che cavalcavano venivano uccisi, quegli alti destrieri, se privati dei loro cavalieri, parevano invece impazzire, ed attaccavano con frenetica energia qualsiasi cosa sbarrasse loro il passo, divenendo quindi ancor più pericolosi.

Molto presto, le frecce dei nani ed i colpi dei nostri conti accesero innumerevoli fuochi nell’erba, ed il fumo soffocante rese ancora peggiore la situazione. Avevo perso di vista Daria e Guasacht… tutti quelli che conoscevo… già da qualche tempo. Attraverso quella grigia cortina riuscii a stento ad intravedere una figura su un alto destriero che combatteva contro quattro Asciani. La raggiunsi, e, sebbene uno dei nani facesse girare il suo cieco destriero e lanciasse una freccia che mi sfiorò, sibilando, l’orecchio, riuscii a calpestarli e sentii le ossa dell’uomo cieco frantumarsi sotto le zampe del mio pezzato. Una figura pelosa sorse dall’erba fumante alle spalle degli altri due e li abbatté come un peone abbatte un albero… con tre o quattro colpi della sua ascia sferrati sempre nello stesso punto fino a che l’uomo cieco non cadde.

Il soldato a cavallo al cui soccorso ero venuto non apparteneva alle nostre truppe, ma era uno dei selvaggi che si trovavano in precedenza alla nostra destra. Era stato ferito, e, quando vidi il suo sangue, rammentai che anch’io ero ferito: la mia gamba era rigida, le mie forze quasi svanite, e sarei tornato verso la cresta meridionale della vallata e verso le nostre linee se avessi saputo da che parte andare. Così come stavano le cose, diedi carta libera al pezzato e lo sferzai con le redini, avendo sentito dire che quegli animali tornavano sovente nell’ultimo posto in cui si erano abbeverati ed avevano riposato. L’animale si lanciò in un trotto che divenne ben presto un galoppo. Una volta saltò, sbalzandomi quasi di sella, e vidi un destriero abbattuto, con Erblon morto accanto ad esso, la tromba di ottone e la bandiera nera e verde abbandonate sull’erba in fiamme. Avrei voluto far voltare il pezzato per tornare a prenderle, ma, quando finalmente lo feci fermare, non riuscii più a ritrovare il punto giusto. Alla mia destra, una linea di cavalieri appariva in mezzo al fumo, scura e quasi informe, ma serrata. Molto più indietro, alle sue spalle, incombeva una macchina che emetteva fuoco, una macchina che sembrava una torre mobile.

Un momento prima quei cavalieri erano quasi invisibili, ed il successivo mi furono addosso come un torrente. Non saprei dire chi fossero né che tipo di bestie cavalcassero, e non perché lo abbia dimenticato (io non dimentico mai nulla) ma perché non riuscii a vedere nulla chiaramente. Non c’era neppure da pensare a combattere, si trattava solo di trovare un qualche modo per sopravvivere. Parai il colpo di un’arma contorta che non era né una spada né un’ascia; il pezzato indietreggiò e vidi una freccia che gli sporgeva dal petto come un corno fiammeggiante. Un cavaliere si abbatté addosso a noi e piombammo nell’oscurità.

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