Verso la metà della giornata, oltrepassammo di nuovo tutti coloro che avevamo superato il pomeriggio precedente, prima di raggiungere un convoglio di salmerie. Credo che tutti noi fummo stupiti di scoprire che le grandi forze che avevamo visto non erano altro che la retroguardia di un esercito inconcepibilmente più vasto.
Gli Asciani usavano uintati e platibelodonti come bestie da soma. Mescolate ad essi, c’erano macchine con sei zampe ed in apparenza costruite per servire allo stesso scopo. Per quel che potevo vedere, i conducenti non facevano alcuna differenza fra una di quelle bestie o una macchina; se un animale si sdraiava e non poteva essere costretto a rialzarsi, il suo carico veniva distribuito fra quelli vicini ed esso abbandonato, e lo stesso valeva per le macchine che cadevano e non si raddrizzavano più. Non sembrava che si facesse il minimo sforzo per macellare le bestie in modo da ricavarne carne né per smembrare le macchine ed utilizzarne le parti come ricambi.
Più tardi, nel pomeriggio, un grande eccitamento attraversò la nostra colonna, anche se né io né le mie guardie riuscimmo a determinarne la causa. Vodalus stesso ci passò accanto frettoloso con alcuni dei suoi luogotenenti, ed in seguito ci fu una serie di andirivieni fra la testa ed il fondo della colonna. Quando scese l’oscurità, non ci accampammo, ma continuammo a viaggiare nella notte con gli Asciani. Ci furono passate alcune torce, e, dato che non avevo nessuna arma da trasportare e mi sentivo alquanto più forte che in passato, le portai io, e questo mi diede quasi l’impressione di comandare le sei guardie munite di spada che mi circondavano.
Ci arrestammo verso mezzanotte, a quanto potei giudicare. Una delle guardie trovò rami per il fuoco, che accendemmo con la torcia. Proprio quando stavamo per distenderci, vidi un messaggero destare i portatori del palanchino, fermi più avanti, e farli avanzare nel buio. Non erano ancora svaniti che il messaggero si avvicinò a noi ed ebbe una rapida e sussurrata conversazione con il sergente della mia scorta. Immediatamente mi furono legate le mani (cosa che non era più stata fatta da quando Vodalus me le aveva sciolte), e ci affrettammo a seguire il palanchino. Oltrepassammo la testa della colonna, contrassegnata dal padiglione della Castellana Thea, senza fermarci, e ben presto ci trovammo a vagare fra le miriade di soldati che formavano il grosso dell’esercito degli Asciani.
Il loro quartier generale era una cupola di metallo; suppongo che dovesse essere possibile smontarla e ripiegarla come una normale tenda, ma appariva altrettanto permanente e solida quanto un edificio, nera all’esterno, ma rilucente di una pallida luce priva di una chiara origine quando un lato si aprì per farci entrare. Vodalus era là, rigido e deferente; accanto a lui c’era il palanchino, le tende tirate a mostrare il corpo immobile dell’Autarca. Al centro della cupola, tre donne sedevano intorno ad un basso tavolo. Né allora né più tardi, alcuna di esse dedicò a Vodalus o al palanchino con l’Autarca o a me, quando venni introdotto, più di una fuggevole occhiata. C’erano mucchi di carta davanti a loro sul tavolo, ma le donne non guardavano neppure questi… si fissavano solo a vicenda l’una con l’altra. Come aspetto, non differivano molto dagli altri Asciani che avevo incontrato, salvo per il fatto che i loro occhi avevano uno sguardo meno folle ed un aspetto meno affamato.
— Egli è qui — disse Vodalus. — Ora li vedete entrambi dinnanzi a voi.
Una delle Asciane si rivolse alle altre due nella loro lingua; entrambe annuirono, e quella che aveva parlato esclamò:
— Solo colui che agisce contro la popolazione deve nascondere il volto.
Ci fu una lunga pausa, poi Vodalus mi sibilò:
— Rispondile!
— Rispondere cosa? Non c’è stata nessuna domanda.
— Chi è amico della popolazione? — continuò l’Asciano. — Colui che aiuta la popolazione. Chi è nemico della popolazione?
Parlando molto rapidamente, Vodalus mi chiese:
— Per quello che ne sai, sei tu oppure è quest’uomo privo di conoscenza il capo dei popoli della metà meridionale di questo emisfero?
— No — replicai, e mi fu facile mentire, dal momento che, stando a quanto avevo visto, l’Autarca era capo di ben pochi nella Repubblica. Rivolto a Vodalus aggiunsi, sottovoce: — Che tipo di sciocchezza è questa? Credi che lo confesserei a loro, se fossi il vero Autarca?
— Tutto quello che diciamo viene trasmesso al nord.
Una delle due Asciane che non aveva parlato in precedenza mormorò qualcosa ed accennò nella nostra direzione; quando ebbe finito, tutte e tre sedettero immobili come statue. Ebbi l’impressione che stessero ascoltando qualche voce che io non potevo udire, ma avrei potuto anche immaginarmelo. Vodalus si agitò, ed io cambiai posizione per alleviare un po’ il peso dalla gamba ferita, mentre il petto stretto dell’Autarca si levava nell’incerto ritmo del respiro; le tre donne, invece, rimasero immote come fossero state dipinte.
— Tutte le persone appartengono alla popolazione — annunciò infine quella che aveva parlato per prima, e, a quelle parole, le altre parvero rilassarsi.
— Quest’uomo è malato — obiettò Vodalus, guardando in direzione dell’Autarca, — ed è stato per me un utile servitore, anche se suppongo che la sua utilità sia ora terminata. L’altro l’ho promesso ad uno dei miei seguaci.
— Il merito del sacrificio ricade su colui che, senza pensare alla sua convenienza, offre ciò che ha per il servizio della popolazione. — Il tono della donna Asciana fece capire che non erano possibili ulteriori discussioni.
Vodalus guardò verso di me e scrollò le spalle, poi si girò ed uscì a grandi passi dalla cupola. Quasi immediatamente, entrò una fila di ufficiali Asciani, muniti di fruste.
Fummo imprigionati in una tenda asciana grande forse il doppio della cella che avevo occupato nello zigurrat. C’era un fuoco acceso ma nessun giaciglio, e gli ufficiali che avevano trasportato l’Autarca si limitarono a lasciarlo a terra accanto ad esso. Dopo essermi liberato le mani, tentai di sistemarlo più comodamente, girandolo sulla schiena, nella posizione che aveva sul palanchino, e sistemandogli le braccia lungo i fianchi.
Intorno a noi l’esercito era immerso nella massima tranquillità consentita ad un esercito Asciano. Di tanto in tanto, qualcuno gridava in lontananza… a quanto pareva, nel sonno,… ma per lo più non si udiva alcun suono salvo il lento marciare delle sentinelle all’esterno. Non saprei come esprimere l’orrore che si destò allora in me al pensiero di poter essere obbligato a marciare verso nord in direzione di Ascia. Vedere solo i volti affamati e selvaggi degli Asciani per il resto della mia vita, ed incontrare io stesso ciò che li aveva fatti impazzire, qualsiasi cosa fosse, mi sembrava un fato più orribile di quello che i nostri clienti della Torre di Matachin erano costretti a sopportare. Tentai di sollevare l’orlo della tenda, pensando che i soldati all’esterno non potevano far nulla di peggio che uccidermi, ma non vi riuscii perché era in qualche modo assicurato al terreno. Tutte e quattro le pareti erano formate di una sostanza liscia e resistente che non potevo lacerare, e le sei donne che mi avevano fatto da guardia mi avevano portato via il rasoio di Miles. Ero sul punto di precipitarmi fuori dalla porta, quando la ben nota voce dell’Autarca mi sussurrò:
— Aspetta!
M’inginocchiai accanto a lui, improvvisamente timoroso che potessero udirci.
— Pensavo che stessi… dormendo.
— Suppongo di essere rimasto in coma per la maggior parte del tempo, ma, quando non lo ero, ho fatto finta, in modo che Vodalus non mi potesse interrogare. Hai intenzione di fuggire?
— Non senza di te, Sieur. Ora non più: ti avevo creduto morto.
— Non ti eri sbagliato di molto… certo di non più di un giorno. Sì, io credo che sia meglio, devi fuggire. Padre Inire è con gli insorti. Doveva fornirti i mezzi necessari e poi aiutarti nella fuga. Ma noi non siamo più là… vero? Potrebbe non riuscire ad aiutarti. Apri la mia tunica. Ciò che ti servirà per prima cosa è infilato nella mia cintura.
Feci come aveva chiesto: la pelle che le mie dita sfiorarono era fredda come quella di un cadavere. Vicino al fianco sinistro vidi un’impugnatura di metallo argenteo non più spessa di un dito di donna. Estrassi l’arma, che non era lunga più di mezza spanna ma era forte e spessa ed affilata in un modo che non avevo più visto da quando la mazza di Baldanders aveva fatto a pezzi Terminus Est.
— Non devi andartene ancora — sussurrò l’Autarca.
— Non ti lascerò finché sarai vivo — replicai. — Dubiti forse di me?
— Vivremo entrambi e ce ne andremo entrambi. Tu conosci quell’abominazione… — la sua mano si chiuse sulla mia. — Il nutrirsi dei morti, il divorare le loro vite morte. Ma c’è un altro modo che non conosci, ed un’altra droga. Devi prenderla, e poi inghiottire le cellule viventi del mio cervelletto.
Dovetti trarmi indietro, perché la sua mano strinse con maggior forza la mia.
— Quando giaci con una donna, unisci la tua vita alla sua affinché nasca forse una vita nuova. Quando farai quello che ti ho ordinato, la mia vita e la vita di tutti coloro che vivono in me continueranno in te. Le cellule entreranno nel tuo sistema nervoso e vi si moltiplicheranno. La droga è nella fiala che porto appesa al collo, e quella lama aprirà la ossa della mia testa come fossero legno. Ho avuto modo di usarla, e ti prometto che funzionerà. Ti ricordi che hai giurato di servirmi, quando ho richiuso il libro? Usa quel coltello adesso, e vattene più in fretta che puoi.
Annuii, e promisi che lo avrei fatto.
— Quella droga sarà più forte di qualsiasi altra tu abbia conosciuto, ed ogni pensiero, tranne il mio, risulterà molto vago; ci saranno centinaia di personalità… noi siamo molte vite.
— Capisco — risposi.
— Gli Asciani si mettono in marcia all’alba. È possibile che rimanga più di un solo turno di guardia di ore notturne?
— Spero che tu vivrai per tutto quel tempo, Sieur, e per molto altro ancora. Spero che guarirai.
— Mi devi uccidere adesso, prima che Urth volga il viso verso il sole. Allora io vivrò in te, non morirò mai. Adesso sono ancora vivo per semplice forza di volontà, e sto rinunciando alla vita mentre ti parlo.
Con mia estrema sorpresa, i suoi occhi erano colmi di lacrime.
— Ti ho odiato fin da quando ero bambino, Sieur. Non ti ho fatto alcun male, ma te ne avrei fatto, se solo avessi potuto, ed ora mi dispiace.
La sua voce si attenuò fino a farsi più delicata del frinire di un grillo.
— Avevi ragione di odiarmi, Severian. Io rappresento… come farai tu… così tante cose sbagliate.
— Perché? — chiesi. — Perché? — Ero in ginocchio accanto a lui.
— Perché tutto il resto è peggio. Fino a quando non arriverà il Nuovo Sole, noi possiamo solo scegliere fra una serie di mali. Tutti i tentativi sono stati fatti e tutti sono falliti. Mettere i beni in comune, affidare il governo al popolo… tutto. Desideri il progresso? Gli Asciani lo posseggono. Sono assordati da esso, pazzi per la morte della Natura al punto di essere pronti ad accettare Erebus e gli altri come dèi. Noi manteniamo la razza umana stazionaria… in uno stato di barbarie. L’Autarca protegge il popolo dagli esultanti e gli esultanti… lo riparano dall’Autarca. La religione li conforta. Abbiamo chiuso le strade per paralizzare l’ordine sociale… — I suoi occhi si chiusero, e gli appoggiai una mano sul petto per sentire il debole fluttuare del suo cuore. — Fino a quando il Nuovo Sole…
Era questo ciò da cui avevo cercato di fuggire, non Agia o Vodalus o gli Asciani. Delicatamente, gli sfilai la catena dal collo, aprii la fiala ed inghiottii la droga. Poi, presi la corta ma resistente lama, feci quello che andava fatto.
Quando ebbi finito, lo coprii da testa a piedi con la sua stessa tunica color zafferano e mi appesi al collo la fiala vuota. L’effetto della droga fu violento, proprio come egli mi aveva detto. Tu che leggi queste pagine, e che, forse, non hai mai posseduto più di un’identità, non puoi sapere cosa significhi possederne due o tre, ed ancor meno averne cento. Esse vivevano tutte in me, ed erano felici, ciascuna a suo modo, di scoprire che avevano acquisito nuova vita. L’Autarca morto, il cui volto avevo visto pochi momenti prima ridotto ad una rovina scarlatta, viveva ora di nuovo. I miei occhi e le mie mani erano le sue, conoscevo il lavoro svolto dalle api degli alveari della Casa Assoluta e la loro sacralità, perché esse si muovevano vicino al sole e portavano fertilità ad Urth. Sapevo del suo viaggio fino al Trono della Fenice ed alle stelle e ritorno; la sua mente era la mia, e mi colmò di conoscenze di cui non avevo mai sospettato l’esistenza e del sapere che altre menti avevano apportato alla sua. Il mondo fisico parve farsi tenue e vago come un disegno, gli angoli della sua cima presero a ruotare come il prisma di un caleidoscopio. Ero caduto a terra senza accorgermene, e giacevo ora vicino al cadavere del mio predecessore, ed i tentativi di sollevarmi si risolsero solo in un battere delle mani contro il terreno.
Non so per quanto tempo rimasi in quello stato. Avevo pulito il coltello… che era adesso, ancora, il mio coltello, e lo avevo nascosto come aveva fatto l’Autarca morto. Riuscivo vividamente ad immaginarmi un me stesso formato da dozzine d’immagini sovrimpresse, che tagliava la tela e scivolava nella notte. Severian, Thecla, miriadi di altri, tutti che fuggivano. Il pensiero era talmente reale che spesso ero convinto di averlo fatto, ma sempre, quando credevo di essere in corsa fra gli alberi, evitando gli esausti soldati Asciani che dormivano, mi ritrovavo invece nella familiare tenda, con il cadavere coperto non lontano da me.
Due mani mi afferrarono. Pensai che gli ufficiali fossero tornati con le loro fruste e mi sforzai di vedere e di alzarmi in modo da non essere colpito. Ma un centinaio di ricordi sconnessi s’intromisero in rapida successione, come i quadri che il proprietario di una galleria di terz’ordine mostra ai suoi clienti: una gara di corsa, le torreggianti canne di un organo, un diagramma con angoli numerati, una donna che viaggia su un carretto.
— Stai bene? — mi chiese qualcuno. — Cosa ti è successo?
Sentii la saliva sgocciolarmi dalle labbra, ma non riuscii ad emettere nessun suono.