L’ultima battaglia

34 Mawas o del sacrificio

Nihal camminava rapida, nella notte cupa e senza stelle. Le pareva che il silenzio non fosse mai stato così opprimente. I primi giorni era stata tentata di estrarre il pugnale per vedere se era illuminato, se il suo viaggio aveva ancora un senso. Lo aveva stretto fra le mani tante volte, aveva esitato, e alla fine l’aveva rimesso a posto. A che valeva guardare? Se avesse scoperto che la lama era spenta, che Sennar era morto o che gli era successo qualcosa, che cosa avrebbe fatto? Era inutile sapere. Doveva continuare, andare avanti, pensare solo a ciò che la aspettava se alla fine fossero riusciti a battere il Tiranno.

Dopo otto giorni di viaggio, in una notte di novilunio arrivò al confine con la Terra del Vento. Il buio era pesto e per farsi luce dovette ricorrere a una piccola magia, con la speranza che nessuno la vedesse. L’aria le portava il profumo della steppa della sua infanzia e Nihal esitò. Stava per tornare nella Terra che custodiva i suoi ricordi più cari e più dolorosi, nella Terra dove era cresciuta, dove aveva conosciuto Sennar, dove Livon era stato ucciso e Salazar era stata rasa al suolo, più di tre anni prima. Tremava al pensiero di come potesse essere stata ridotta; avrebbe preferito non doverla attraversare, ricordarla splendida come le era sempre sembrata.

A occhio e croce doveva trovarsi nella parte meridionale della Foresta. Alla luce livida dell’alba, scoprì quello che ne restava. Gli alberi erano quasi tutti secchi e molti erano stati abbattuti, tanto che si poteva spaziare con la vista per un miglio buono. Quando Nihal ci andava da bambina, intimorita, la vegetazione era così fitta che non si vedeva a un palmo e tutto si stemperava in un verde accecante. A chi avrebbe potuto far paura ora quel bosco?

Nihal si accucciò con il mento contro le ginocchia e sentì piombarle addosso tutto il peso della solitudine, mentre il sole si alzava e la luce a poco a poco colorava quel panorama desolante. Le tornarono in mente le parole che Sennar aveva detto durante il loro viaggio: A volte mi pare che questo mondo sia già morto e che noi non possiamo fare nulla per salvarlo. Chi avrebbe restituito alla foresta il suo splendore? I mezzelfi non sarebbero tornati e con lei la loro stirpe si sarebbe estinta per sempre; le Terre saccheggiate, distrutte, avrebbero impiegato anni per tornare ai fasti di un tempo, se mai fosse stato possibile. Il mondo che conoscevano era in agonia.

Dopo qualche minuto si alzò e interrogò il talismano, ma stavolta non ebbe alcuna visione: l’amuleto le indicò solo una direzione. Si incamminò quindi verso nord e vagò per contrade desolate, tra alberi abbattuti e resti di incendi, su terreni diventati sterili. Riconobbe il luogo dove lei e Sennar erano andati per la prima volta a cogliere i lamponi, quello dove si erano allenati insieme, quello dove un giorno Soana l’aveva mandata a cercare erbe medicamentose, quello dove aveva giocato con Phos. A est, sopra quei resti sparuti, la Rocca sembrava più imponente che mai.

L’amuleto brillava attraverso il corpetto e le indicava la strada. Nihal sentiva il suo potere e percepiva la vicinanza degli spiriti. Era la prima volta che non aveva una visione del luogo dov’era diretta e la preoccupava non avere idea di ciò che la attendeva al santuario.

L’attesa non fu lunga. Dopo tre notti di marcia, Nihal capì che la meta era prossima. Intorno a lei c’erano solo i tronchi semicarbonizzati della Foresta, alla sua destra troneggiava minacciosa la Rocca e, più lontano, poteva scorgere i resti di alcune torri. La mezzelfo temette di riconoscere Salazar. A quanto ricordava, quattro giorni di viaggio erano sufficienti per attraversare la Foresta e Salazar era proprio ai margini della prateria.

Presto infatti incontrò il punto in cui aveva ricevuto la consacrazione a maga. Nihal ricordava una piccola radura circolare, delimitata dagli alberi, con una pietra al centro e una polla di acqua limpida in un canto. Gli alberi ai lati ora erano bruciati, non c’era più erba, solo terra grigia, e la polla era secca.

Nihal si sedette sulla pietra e la luna fece capolino tra le nubi, pallida e stanca, una falce sottile che non rischiarava l’oscurità. La mezzelfo guardò innanzi a sé e ricordò il momento in cui Sennar era venuto a consolarla. Si sentiva come allora: sola, impaurita e sperduta. Stavolta però non c’era nessuno che potesse farle coraggio.


I primi giorni andò tutto bene, nella grotta della Terra delle Rocce. Sennar iniziava a credere di potercela davvero fare. Quando aveva lasciato andare Nihal, era convinto che non l’avrebbe più rivista. Solo e ferito in territorio nemico, pensava di non avere alcuna possibilità di sopravvivere.

Contro ogni aspettativa, invece, era una settimana che se ne stava rintanato in quel buco. Non una volta aveva sentito rumore di passi, solo il silenzio assorto della foresta di pietra. Così decise che era tempo di accelerare la propria guarigione. Voleva raggiungere Nihal il prima possibile.

L’ottavo giorno di permanenza nella grotta tutto era tranquillo, forse fuori era addirittura una bella giornata, perché in quella spelonca filtrava più luce del solito. Sennar scostò la tunica e guardò la ferita. Dovette trattenere il disgusto. La sua coscia era massacrata da un taglio profondo, slabbrato e incrostato di sangue. Qualsiasi movimento cercasse di fare, fitte dolorose gli percorrevano la gamba. Sì, aveva visto giusto, l’osso era rotto.

Un osso rotto e un taglio profondo. Non era un’impresa facile per un mago malato. Non poteva fare molto, se non cercare di abbreviare la convalescenza. Così si mise all’opera e constatò che le sue forze bastavano a evocare un semplice incantesimo di guarigione. Per tutta la mattina non fece altro.

Fu quell’incantesimo a segnare la sua sorte. Sennar si era assopito. Era stanco, la magia gli aveva sottratto più energie del previsto. Era scivolato nel sonno quasi senza accorgersene.

Da principio credette di stare sognando. La terra che vibrava ritmicamente sopra di lui era un’eco lontana e confusa. Quando il rumore si fece più forte, il mago era ancora sospeso fra il sonno e la veglia.

Fu il suono stridulo delle spade sguainate che lo svegliò, e percepì una viva sensazione di pericolo. Si riscosse di soprassalto.

Nemici. E un mago.

In un attimo si accorse di quanto fosse stata vana e stupida la sua speranza. L’incantesimo era servito solo a rivelare la sua posizione. Si alzò in fretta, ignorando il dolore lancinante alla gamba, e tentò un’impossibile fuga verso la parte più profonda della tana.

Fu allora che entrarono. Quattro fammin e due uomini. Uno dei due era un mago.

Sennar ormai era schiacciato contro la parete di roccia.

È finita.

Si lasciò cadere a terra. Il mago nemico non ebbe neppure bisogno di evocare un incantesimo offensivo. Si avvicinò a Sennar a passi lenti e gli posò un piede sulla gamba ferita. Il dolore fu lancinante e l’urlo del ragazzo sovrastò la risata di scherno dell’uomo.

Poi un raggio violetto partì dalla mano del mago e il buio avvolse Sennar.


La strada piegava verso ovest e Nihal si ritrovò in una zona della Foresta dove non si era mai spinta. La mezzelfo ricordò le parole che Soana le aveva detto molto tempo prima.

Il cuore della Foresta non appartiene agli uomini, ma agli spiriti. È un luogo sacro, che i piedi sudici delle razze che popolano questo mondo non debbono violare. Lì riposa la vita nascosta del bosco ed essa è un segreto, anche per i maghi più influenti. Ci sono potenze a questo mondo che superano ogni immaginazione e che nessuno potrà mai dominare.

Quella parte della Foresta era meno devastata delle altre. Gli alberi erano ancora in piedi e timide foglioline gialle coloravano i rami. Nihal sentiva che la fine del suo viaggio era vicina, che il santuario doveva essere nei pressi.

A un tratto, davanti ai suoi occhi si presentò uno spettacolo inatteso: un albero enorme, che a una prima occhiata le parve una quercia. Dal tronco si alzavano rami robusti, che si stagliavano maestosi sul nero della notte. Aveva migliaia di foglie, di un giallo acceso, che stingeva nell’oro e luccicava nell’oscurità. Quell’albero era vivo, in quel mare di morte, sano e possente.

Non era un albero normale: non sembrava trarre vita dalla terra, bensì darle vita. Nel punto in cui le radici si incuneavano nel terreno era cresciuta un’erba fitta e bassa, di un verde vivace. Nihal restò per un istante ammirata a guardare quello spettacolo e sentì che la speranza in fondo non era morta, se un simile splendore era potuto sopravvivere in quel luogo. Le ci volle un po’ per realizzare che doveva trattarsi di un Padre della Foresta, non poteva essere altrimenti. Ricordò quello che l’aveva aiutata nella lotta contro Dola e riconobbe la stessa forza, la stessa potenza spaventosa, la stessa vitalità. Se il Padre della Foresta era vivo, allora la Foresta stessa non era perduta. Finché quel cuore gigantesco avesse continuato a pulsare, vi sarebbe stata ancora speranza per la Terra del Vento.

Incredula, Nihal si avvicinò al tronco e scoprì qualcosa che prima non aveva notato. Su uno dei rami più bassi era appollaiato un piccolo essere luminoso. La mezzelfo aguzzò lo sguardo per cercare di capire di cosa si trattasse e quando lo riconobbe esultò. Finalmente un volto amico!

«Phos!» urlò e corse verso di lui.

Phos non si mosse dal suo posto, ma le rivolse un dolce sorriso. «Ben ritrovata Nihal» disse il folletto.

«Be’, non vieni a salutarmi?» protestò Nihal.

Era Phos, eppure non sembrava lui; era troppo serio per essere il suo amico folletto, troppo triste, troppo malinconico. Era sempre stato buffo, con le orecchie di lunghezza spropositata, i capelli verdi arruffati, le irrequiete ali iridescenti. In quel momento, invece, appariva maestoso e composto. Era Phos e al tempo stesso non lo era.

Il folletto restò al suo posto. «Ti attendevo, Sheireen» disse.

Nihal raggelò. Il talismano le brillava sul petto più che mai. «Come fai a...»

«Perché ti aspettavo, ovvio» rispose lui.

Nihal cominciava a capire. «Vuoi dire che...»

«Il tuo viaggio è finito, questa è l’ultima tappa, poi ti attende solo la battaglia definitiva.»

«Sei tu il guardiano?»

Phos annuì grave.

«Com’è possibile? Tu non sapevi neppure chi fossero i mezzelfi, non mi hai mai parlato dei santuari e...» Nihal si interruppe e lo guardò. «Perché non mi hai mai detto dei santuari?»

Phos incrociò le gambe e in quella posizione parve per un attimo il suo vecchio amico buffo e scanzonato; le sue parole però erano meste. «Per lungo tempo ho ignorato chi io fossi e quale fosse la mia missione. Mio padre è stato il guardiano della pietra di Mawas per lunghi secoli. Non sembra, ma noi folletti siamo molto longevi; io ero già nato quando l’ultimo dei pretendenti al potere venne qui a richiedere i servigi della pietra, più di mille anni fa. Ma egli non era puro e mio padre gliela negò. Difese la pietra strenuamente, fino alla morte, che gli fu inflitta da quell’elfo malvagio. Fu allora che mio padre mi parlò e mi disse parole che io non compresi: "Ti lascio in eredità qualcosa di grande e terribile, che ora dorme nel profondo di questa foresta. Tu veglierai su di esso e al momento giusto starà a te giudicare".

«Io gli chiesi come avrei fatto a vegliare su qualcosa che non sapevo neppure cosa fosse, e lui mi rispose che a tempo debito tutto mi sarebbe stato svelato. Fu così che divenni guardiano e capo dei folletti che qui avevano dimora. Vissi a lungo ignaro; neppure quando ti incontrai mi fu rivelata la verità. Quando però tu iniziasti la ricerca della pietre, qualcosa si svegliò in me e sentii le voci degli altri guardiani chiamarmi al mio dovere. Fu allora che conobbi Mawas. Tornai in questa Terra che avevo abbandonato per trovarla distrutta, ma non mi fermai e giunsi al santuario, dove ti ho attesa per tutto questo tempo.»

«Dove sono gli altri folletti di questa Terra, tutti i tuoi amici?» chiese Nihal.

Le orecchie di Phos si abbassarono e il suo volto si fece più triste. «Sono morti tutti.»

Nihal ripensò alle piccole creature svolazzanti che aveva condotto fuori dalla Terra del Vento, più di tre anni prima. Non poteva credere che non esistessero più.

«Per un po’ ci stabilimmo nella Terra del Sole» riprese a spiegare il folletto «all’epoca in cui noi due ci rivedemmo. Però, come ti dissi allora, i soldati ci decimavano, ci catturavano per usarci come spie. Per questo mi presentai al Consiglio. Nessuno mi ascoltò, fui deriso e allontanato. Tornai al mio villaggio, dalla mia gente, ma la strage continuava, senza che noi potessimo fare nulla. Li ho visti morire tutti, a uno a uno. I boschi dove vivevamo vennero distrutti, noi fummo braccati e scacciati. Alla fine rimasi soltanto io, nella solitudine della foresta dove ci eravamo stabiliti. Soltanto io.» Guardò lontano con un’espressione triste. «Non sapevo cosa fare, dopo che tutto era stato distrutto. Avrei potuto unirmi ad altri gruppi di folletti, ma immaginavo che anche a loro sarebbe toccata la stessa sorte. Fu allora che mi risvegliai e seppi chi ero, e viaggiai per giungere fin qui.»

«Mi dispiace...»

Phos sorrise ancora, un sorriso rassegnato. «È il destino di questo mondo: la distruzione.»

Nihal lo guardò. «No, non è così. Io sto viaggiando proprio perché tutto torni come prima. Insomma, la mia missione non serve a salvare questo mondo?»

«Quel che è andato distrutto non potrà tornare mai più» rispose Phos.

Sì, pensò Nihal, l’aveva sempre saputo. «Ma allora, perché sto facendo tutto questo?» chiese.

«Ciò che fai non serve a salvare qualcosa, o non l’avevi capito?» proseguì Phos imperturbabile. «Il nostro mondo si avvia al disfacimento. I mezzelfi non usciranno dalle loro tombe, i miei compagni non torneranno, la Foresta è stata distrutta e non basteranno magliaia di Padri della Foresta a restituirle il suo splendore. Occorre morire per rinascere.»

Nihal non capiva, si limitava a fissare Phos con uno sguardo interrogativo.

«È dalla morte del seme che nasce l’albero» spiegò il folletto «ed è dalle foglie morte che si innalza la nuova pianta. In natura tutto muore di continuo perché altro possa nascere. Questo mondo deve morire, perché dalle sue ceneri possa nascere qualcosa di diverso. Io faccio parte del vecchio mondo e con me questa foresta; non possiamo più vivere qui, perché tutto ciò a cui appartenevamo è scomparso.»

«Anch’io faccio parte del vecchio mondo, non ci sono più mezzelfi e molti di coloro che amavo sono scomparsi» ribatté Nihal.

Phos scosse la testa. «No, Nihal, tu sei un ponte gettato tra questo mondo morente e quello che nascerà. Tu porti con te, fra le tue mani, la chiave che può condurci alla rinascita. Nessuno è in grado di sapere se avrai la forza di schiudere le porte che ci separano dal futuro, però tu sola puoi farlo. Dalle macerie di cui è stato costellato il tuo cammino si leverà la fenice e una seconda opportunità sarà concessa agli esseri di questo mondo; starà a loro creare un’epoca di pace o una di guerra. Tu rechi con te questa possibilità, stai per dare a questa gente un nuovo inizio. Ecco qual è la tua missione. È un compito difficile, per il quale hai sofferto molto e ancora dovrai soffrire.»

Nihal non volle soffermarsi su quelle parole e le dimenticò in fretta, per non dover cogliere fino in fondo il loro significato. «Dov’è il santuario?» chiese.

«Innanzi ai tuoi occhi» disse Phos. Si sollevò in volo.

Nihal guardò l’albero e capì che era quello il santuario. Aveva percepito la sua potenza dal momento in cui aveva messo piede in quel luogo.

Phos si avvicinò al tronco e a un suo gesto il legno antico si dischiuse, per svelare una brillantissima pietra bianca celata all’interno.

«Nihal, quello che sto per chiederti di fare non ti piacerà, lo so, ma se tieni a mente ciò che ti ho appena detto capirai che non puoi evitarlo.»

Nihal lo guardò preoccupata.

«L’ultima pietra, Mawas, è davanti a te, nel Padre della Foresta. Essa è la sorgente delle Lacrime, come quella che ti diedi anni fa. È il cuore del Padre della Foresta, ciò che lo tiene in vita. Devi prenderla.»

«Ma se è il suo cuore e io glielo strappo, che ne sarà del Padre della Foresta?»

«Sottrarre la pietra per breve tempo non lo ucciderà, ma perché tu possa vivere, dopo avere recitato l’incantesimo contro il Tiranno dovrai infrangere il talismano. In quel momento tutte le pietre verranno distrutte, compresa Mawas. In quel momento il Padre della Foresta morirà.»

«E la Foresta?» chiese Nihal. «Assieme al Padre della Foresta, anche il bosco morirà e non potrà mai più riprendersi.»

«La Foresta è già morta, non l’hai visto?»

Nihal scosse la testa. «Non voglio farlo, mi rifiuto» disse. «Per tutta la vita non ho fatto altro che lasciare dietro di me una scia di cadaveri, per rimanere l’unica sopravvissuta. Mi hanno detto che così doveva essere, perché infine liberassi questa Terra. Ma a che prezzo? Il Padre della Foresta mi ha dato la Lacrima, che tante volte mi ha salvata, e proteggeva questo luogo che amavo. Non voglio ucciderlo.»

Phos le si parò innanzi, all’altezza del viso. «Non hai ancora capito? Niente a questo mondo si acquista senza sofferenza. Perché giunga la salvezza, qualcuno deve sacrificarsi.»

«Perché devono sacrificarsi gli altri?» urlò Nihal. Cadde in ginocchio. «Laio è morto per permettermi di prendere la pietra nella Terra della Notte, Sennar ha rischiato la vita nella Terra del Mare e ora è in pericolo! Io non voglio altri sacrifici! Sono stanca di vedere sangue, morte, spade...»

La pietà illuminò il volto di Phos e il folletto sfiorò con la sua minuscola mano la guancia di Nihal. «Ma anche tu hai sofferto, non sono stati solo gli altri a sacrificarsi» disse. «Per anni non hai avuto pace e quando infine l’hai trovata, ti sei sentita dire che ancora dovevi attendere. Hai impugnato di nuovo la spada e contro il tuo volere ti sei messa in cammino per arrivare fin qui. Tu più di tutti hai sofferto. Il dolore non è fine a se stesso, ricordalo. Adesso alzati e ferisci a morte il Padre della Foresta. Prendi la pietra.»

Nihal sollevò gli occhi e guardò l’albero che pulsava di vita. Allungò lentamente la mano e mentre lo faceva vide Phos chiudere gli occhi e capì che nonostante tutto ciò che le aveva detto, o forse proprio per quello, il guardiano non poteva evitare di soffrire. Insieme al Padre della Foresta scompariva tutto il suo mondo.

Nihal prese la pietra fra le mani e la sentì pulsare, resistere alla forza che la strappava al legno. La mezzelfo dovette tirare con energia, contro la sua stessa volontà, e alla fine riuscì a toglierla dal suo posto. All’improvviso il legno si seccò, le foglie caddero a terra, la luce che aveva illuminato l’albero si spense e l’erba che ne incorniciava le radici appassì. Il buio calò sulla radura e la quercia divenne un alberello avvizzito.

Phos guardò a terra e si sedette su una delle radici. Nihal aveva la pietra nella palma della mano. Sembrava più opaca: era bianca, quasi come la pietra centrale, attraversata da venature grigiastre. Nihal recitò la formula e il talismano fu completo. Lo vide rifulgere di una luce sfavillante e sentì che era immensamente potente, tanto da sfuggire a ogni controllo. Era giunta al termine del viaggio.

«Cosa farai ora?» chiese a Phos.

Il folletto scrollò le spalle e la guardò. «Resterò qui, ad aspettare la fine. La storia delle pietre e dei santuari del Mondo Emerso si concluderà il giorno in cui tu evocherai l’incantesimo, nel bene o nel male. Attenderò quel giorno, che sia di gloria o di dolore. Tutto ciò che mi lega a questo mondo è qui.»

«Puoi venire con me, se vuoi. Siamo entrambi soli e tristi, potremmo condividere il nostro dolore.»

Phos scosse la testa. «Te l’ho detto, voglio restare qui, è questa la mia casa. Io non ho più nulla da fare, tu invece hai ancora molto da compiere. Il tuo sogno, il tuo ideale ti attende. I nostri destini sono diversi.»

Nihal estrasse il pugnale dallo stivale e lo guardò a lungo, tentata di sfoderarne la lama. «Tu sai dov’è?» chiese.

Phos abbassò lo sguardo. «Il futuro è diventato incerto anche per noi guardiani. Non so dove sia, né se sia libero. Adesso di certo c’è solo la tua speranza.»

Nihal ripose il pugnale nello stivale.

«Sii fiduciosa» aggiunse Phos con il sorriso gioioso di una volta, e le disse addio.

35 Il tiranno

Una goccia. Una goccia che cadeva a poca distanza da lui. Un suono ritmico, snervante, che gli penetrava le tempie come un cuneo. Non poteva vederla, perché il buio era totale, ma la sentiva e quel suono lo faceva impazzire. Non che in quel luogo non ci fossero altri rumori più terribili: urla soprattutto, urla disumane, tramestio di passi, di spade. All’inizio lo avevano terrorizzato, ma ora tutte le sue percezioni erano concentrate su quella goccia monotona, che sembrava condurlo alla pazzia.

D’un tratto sentì un rumore diverso, che si avvicinava. Passi. Sorrise. Riconosceva quei passi. Non potevano che essere suoi. Sapeva che prima o poi l’avrebbe rivisto, ma non si aspettava che venisse laggiù. La prima volta che l’aveva incontrato, era rimasto sconvolto. Possibile che fosse quello il Tiranno? In quell’istante aveva capito che non sarebbe uscito dalla Rocca, non dopo che il Tiranno gli aveva mostrato il suo volto, e aveva tremato all’idea del momento in cui Nihal si sarebbe trovata faccia a faccia con lui.

La porta della cella si aprì e nella luce si stagliò la sua inconfondibile figura. Era venuto solo. Nessuno dei suoi, fatta eccezione per alcuni generali fedelissimi, l’aveva mai visto in volto. Avanzò a passi lenti.

«Quale onore! Non avrei mai creduto che venissi a trovarmi. Perdonami se non mi inchino e non ti invito a sederti, ma come vedi la mia dimora non è un granché.» Sennar rise, ma la risata gli si spezzò in gola. Sentì qualcosa colargli dalla bocca, sangue, con ogni probabilità. «Credevo che un sovrano come te non si abbassasse a venire in un postaccio come questo, che preferisse restare nel suo magnifico salone, sul suo trono, a riflettere sul suo sconfinato potere.»

«Dovresti sapere che il potere e il suo apparato non mi interessano.»

Sennar odiava quella voce, la sua freddezza. Sembrava che il suo interlocutore non avesse sentimenti, era imperscrutabile.

Il Tiranno si avvicinò, accese un tenue fuoco magico e lo piazzò innanzi al volto del mago. Accecato, lui chiuse subito gli occhi. La fiamma si estinse e il buio piombò di nuovo nella cella. «Sono stati spietati con te.»

«Già» rispose Sennar. «Mi stai facendo uccidere pezzo a pezzo. Mi domando quanto ancora ti vuoi divertire, prima di ammazzarmi.»

«Non io» disse calmo il Tiranno «il boia che ti tortura.»

Sennar rise ancora, e ancora il dolore gli mozzò il fiato in gola. «Certo» riprese quando tornò a respirare «tu non c’entri nulla, non sei tu a ordinare che mi torturino perché ti dica ciò che vuoi sapere.»

«Io ho ordinato che ti interrogassero, non di torturarti. Non ho detto io al tuo carceriere di bruciarti con i ferri arroventati la carne.» La voce del Tiranno rimbombava nel buio della cella.

«Però il boia mi ha fatto questo perché sa che godi della mia sofferenza. Senza che tu glielo ordini, mi tortura per il tuo piacere.»

Il Tiranno parlò ancora, con quella voce accorata che Sennar odiava. Perché non gli ordinava di portargli rispetto e non lo picchiava? Lo avrebbe preferito a quella calma esasperante.

«Io non provo nessuna gioia nel vederti soffrire, e il boia lo sa. Egli lo fa solo per il suo diletto; se anche gli ordinassi di non torturarti più, non smetterebbe. Credevo che sapessi che la natura degli uomini, degli gnomi, delle ninfe e dei folletti è perversa e crudele.»

«Che cosa vorresti dimostrare? Che sono gli altri i malvagi?»

«No» disse il Tiranno pacato. «Solo quanto l’odio possa essere potente. Tu dovresti saperlo, meglio di chiunque altro.»

Sennar raggelò.

«Ti ammiro, sai?» proseguì il Tiranno. «Sei un uomo con il quale posso confrontarmi, per questo ti ho mostrato il mio volto, perché volevo affrontarti da pari a pari. Sono pochi quelli con cui posso farlo.»

«Perché strisci in basso. Solo i vermi stanno alla tua altezza» rispose Sennar.

Neppure stavolta il Tiranno si infuriò. «Gli uomini sono belve assetate di sangue, non attendono altro che il momento opportuno per colpire alla gola il proprio fratello.»

Sennar rabbrividì e pensò alla radura. Scosse la testa. Non doveva lasciarsi incantare. Avrebbe voluto almeno vedere il volto del suo interlocutore, ma l’oscurità glielo impediva. «Che cosa sei venuto a fare?» gli chiese. Era sempre più a disagio e iniziava ad avere paura.

«Quant’è che sei qui?» domandò il Tiranno.

Sennar non ne aveva idea. Per quel che ne sapeva, poteva essere chiuso lì dentro da un anno, o forse solo da un’ora.

«Te lo dico io: è quasi un mese. In tutto questo tempo non hai detto nulla. Non posso più attendere.»

Nella cella calò un silenzio minaccioso.

«Non so cosa ti spinga a ostinarti nel tuo silenzio» riprese il Tiranno. «Sinceramente è un atteggiamento che non capisco.»

«Non puoi capire cosa siano la lealtà e il sacrificio» disse Sennar.

«Non sottovalutarmi» ribatté il Tiranno. «Io ti conosco bene, ti ho capito, sai? Noi siamo molto simili.» Sennar sentì i suoi passi echeggiare nella cella. «Tu invece non mi conosci e credi che io voglia solo il potere, che sia questa la ragione che mi ha spinto ad agire. O magari per vendetta, per i torti che ho subito. Ma sbagli. Anch’io, prima di arrivare qui, ho vagato a lungo, ho cercato una risposta alle stesse domande che ora ti stai ponendo tu. Perché credi che fossi entrato nel Consiglio? Volevo cambiare il mondo, non desideravo altro. La risposta in realtà era davanti a me, chiara come si è presentata a te, ma non volevo accettarla. C’è molto di buono a questo mondo, c’è ancora qualcosa che si può salvare... Basta crederci, non mi devo arrendere... Ecco cosa mi ripetevo.»

Sennar si accorse che aveva iniziato a tremare. Provava la netta sensazione che qualcosa si stesse insinuando nella sua testa e ne aveva paura. Perché il Tiranno gli parlava in quel modo?

«Ma alla fine mi sono dovuto arrendere, così come spero farai tu, perché la verità non si può negare in eterno. Non c’è nulla da salvare. Ti dirò di più, nessuno vuole essere salvato. La natura delle razze di questa terra è assassina, quello che vogliono è poter odiare e uccidere. Perciò la guerra non ha mai abbandonato queste lande e mai le abbandonerà: perché tutte le razze cedono alla voluttà della morte e quando si assaggia il sangue una volta, non se ne può più fare a meno. Mi capisci, vero?»

Sennar cercò di scuotere la testa, ma una fitta di dolore glielo impedì. Gli sembrava di intuire che cosa sarebbe accaduto di lì a poco, che cosa stava già accadendo, ed era invaso dal terrore. Cercò fra i suoi ricordi un incantesimo che gli permettesse di resistere a quella tortura, ma non lo trovò.

«So che ami qualcuno, lo sento. L’amore è quanto di più effimero esista. Non è per noi. Forse la donna a cui pensi adesso avrà creduto per un istante, nell’estasi del piacere, di amarti, ma è un’illusione. L’amore inizia e finisce nel godimento carnale, il resto è nulla. Te lo dico perché anch’io ho amato molto, e invano. Abbandona quest’amore, se non vuoi soffrire, e unisciti a me.»

«Lasciami in pace!» urlò Sennar. Intuì che il Tiranno adesso era accanto a lui, vicinissimo.

«Tutta questa sofferenza non ha senso, lo sai anche tu. Io posso penetrare nella tua mente, e lo farò se non parli. Non per infliggerti dolore, bensì perché quel che ho intrapreso è troppo importante e nessuno potrà fermarmi. Ma soffrirai, e non voglio. Ti ammiro, te l’ho già detto, e ti stimo. Dimmi perché eri nella mia Terra, dimmi cosa tramavi. Il tuo silenzio non ha senso. Questo mondo non merita neppure una tua lacrima e colei che ami non merita il tuo sangue.»

«Mi hanno già fatto questo discorso, e non ci ho mai creduto» disse Sennar.

Si sforzava di sorridere, ma era terrorizzato. Era un mago e per un po’ avrebbe potuto opporsi, ma per quanto? La sua magia non era neanche comparabile con quella del Tiranno. Avrebbe violato i suoi pensieri, li avrebbe svelati a uno a uno, la sua anima, tutti i suoi segreti...

Il Tiranno prese tra le mani il volto di Sennar, coperto di sudore. «Tenti di resistermi?» disse.

«Forse per un po’ ci riuscirai, ma io sono più potente di quanto immagini e sono pronto a tutto. Non ti lascerò in pace finché non avrò saputo quello che voglio; ogni tuo pensiero sarà mio, ogni tuo desiderio. Io diventerò te, Sennar, e non avrai segreti per me, non ci sarà angolo della tua anima dove le mie dita non arriveranno.»

D’un tratto gli occhi del Tiranno emanarono un bagliore e si puntarono in quelli di Sennar. Il mago cadde in preda a un terrore folle. Quegli occhi non erano umani, nel loro verde sconvolgente covava una crudeltà senza pari. Infine, il Tiranno mostrava il suo volto spietato, quello che Sennar aveva invocato per tutta la durata di quella conversazione e che ora non avrebbe mai voluto scoprire. Sentiva che la sua mente veniva forzata, che il Tiranno tentava di penetrarvi, ma resisteva. Urlò con tutto il fiato dei suoi polmoni.


36 Prima della battaglia


L’ultima parte del viaggio di Nihal fu amara. La mezzelfo scoprì che la Terra dell’Acqua era quasi tutta in mano nemica, fatta eccezione per un brandello di terra a nordest, a ridosso del confine con la Terra del Mare, che opponeva un’ultima e fragile resistenza.

Per il resto, la regione era caduta in rovina ed era già una landa in agonia. Erano molti i rivi prosciugati, forse ancor più quelli infetti; i boschi mostravano già i primi segni di distruzione, i villaggi rasi al suolo. Quante ninfe potevano essere sopravvissute?

Nihal iniziò a temere che non vi fossero più Terre libere. Ricordò l’ultima battaglia che aveva combattuto, i fantasmi che seminavano morte e terrore tra i soldati. Era un esercito a cui non si poteva resistere a lungo. Forse la sua missione era già finita.

Procedette comunque più velocemente che poté, marciò fino a sfinirsi e le ci vollero poco più di due settimane per entrare nei territori liberi. Anche lì le cose non andavano bene. La gente pativa la fame, i raccolti erano scarsi, ma almeno vigeva ancora la libertà.

Appena giunta nella Terra del Mare, Nihal si recò in un accampamento, dove mandò a Soana un messaggio, per avvisarla del suo arrivo, e si procurò una cavalcatura.

Il giorno in cui Nihal arrivò alla base, circa una settimana dopo, nevicava fitto. Del resto, era ormai quasi dicembre. Era un anno che era partita.

Nihal scese da cavallo, bussò e si aprì una porticina dalla quale si affacciarono due occhi indagatori.

«Chi va là?»

«Nihal della Torre di Salazar, Cavaliere di Drago. Torno dal mio viaggio. Dovreste essere stati avvisati.»

La porticina si chiuse di botto e si udì il rumore di catenacci e chiavistelli che venivano aperti, quindi i pesanti battenti si schiusero. «Bentornata tra noi» disse la guardia con un sorriso, e l’abbracciò.


Nihal lasciò il cavallo e si addentrò nella base. Un’aria cupa sovrastava il campo e i volti che la guardavano erano stanchi. Molti le si fecero incontro e la salutarono con una stretta di mano o un abbraccio.

Nihal cercò Sennar con lo sguardo, nonostante il cuore le dicesse che non era lì. Dopo aver camminato fra due ali di soldati, vide qualcuno in piedi in fondo all’accampamento, che l’attendeva.

Nihal mormorò piano il suo nome, poi camminò verso di lui sempre più velocemente, fino a correre e buttargli le braccia al collo.

«Sennar?» chiese subito.

«Credevamo che fosse con te» ripose Ido.

Il cuore le si strinse e Nihal cercò rifugio fra le braccia del suo maestro.


La casa di Ido era come la ricordava, solo molto più disordinata di un tempo. Fino a quando avevano vissuto insieme, Nihal l’aveva tenuta un po’ in ordine; ora evidentemente Ido aveva rinunciato del tutto alle apparenze.

Era lo gnomo, invece, a non essere più lo stesso. Nihal non se n’era accorta subito, perché era troppo felice di incontrarlo e scoprire che era ancora vivo, ma Ido aveva un occhio chiuso e attraversato da una lunga cicatrice.

Da principio rimasero seduti l’uno di fronte all’altra, davanti a due bicchieri colmi di birra, in silenzio. Fu Ido il primo a cedere al peso dei dubbi che aleggiavano fra loro.

«Cos’è successo a Laio?» chiese lo gnomo.

«È stato ucciso ai margini della Terra della Notte, durante uno scontro. È morto da eroe» rispose in tono secco Nihal.

Ido abbassò il capo sul bicchiere e tacque a lungo. Quando tornò a guardarla, fu per rivolgerle un’altra domanda. «E Sennar?»

«È stato ferito più di un mese fa nella Terra delle Rocce e mi ha costretta a lasciarlo indietro.» Nihal guardò lo gnomo e capì che non c’era bisogno di spiegargli altro, che sapeva quanto dolore le fosse costata quella scelta.

«Mi ha detto che non appena si fosse rimesso mi avrebbe raggiunta qui» proseguì. «Aveva una gamba rotta, credo che gli ci sia voluto un po’ per guarire, però... ho paura che sia successo qualcosa... Non mi ha mandato neppure un messaggio.» Le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento iniziarono a scendere lente sulle sue guance. Quando Nihal alzò lo sguardo, le parve che Ido fosse invecchiato di colpo.

«Sennar è uno dei maghi migliori di questa terra» disse lo gnomo. Le posò una mano sul capo e le accarezzò i capelli. «Non gli sarà successo niente di male. Arriverà presto.»

Nihal si asciugò le guance. «Che cosa hai fatto all’occhio?» chiese.

Ido sorrise. «Uno scambio di cortesie con Deinoforo, il Cavaliere di Drago Nero che ti costrinse a combattere contro il fantasma di Fen. Io gli ho staccato una mano e lui si è preso il mio occhio.»

«Vuoi dire che...» iniziò Nihal.

«Già» rispose Ido con noncuranza «ho un occhio solo.» Le diede un buffetto sulla guancia. «Non starai piangendo per me? Guarda che non è stata una gran perdita, mi resta sempre l’altro. Ci vedo bene come prima.» Sorrise, ma fu un sorriso amaro.

«Com’è successo?»

Ido si appoggiò allo schienale della sedia e bevve un lungo sorso di birra. «È accaduto il giorno che siamo stati sconfitti» iniziò, quindi raccontò a Nihal gli avvenimenti dei mesi che erano seguiti alla sua partenza: il primo duello con Deinoforo, l’addestramento con Parsel, il modo in cui Soana lo aveva aiutato. La mezzelfo ascoltò in silenzio, cercando di mascherare l’emozione. Trasalì soltanto quando Ido le rivelò il segreto nascosto nel passato di Reis.


Quando Ido ebbe terminato la sua storia, prese la pipa da una tasca e l’accese. Dietro i primi sbuffi di fumo, si accorse che Nihal aveva gli occhi lucidi.

«Ora sei agli ordini di Londal, dunque» commentò lei.

Ido scosse la testa. «Non mi importa dare o ricevere ordini. Ciò che conta è poter combattere ancora contro il Tiranno. Londal inoltre è un uomo intelligente e un abile generale; ha capito la situazione e non mi ha mai trattato con meno rispetto di quello che avrebbe riservato a un suo pari.»

Di nuovo calò il silenzio fra loro. Mentre Nihal beveva la sua birra tutta d’un fiato, Ido si concesse qualche istante per guardarla. Era felice di averla finalmente lì di fronte a lui, dopo avere sentito la sua mancanza per mesi; l’affetto che Nihal gli dimostrava era una delle poche cose che riuscivano ancora a farlo sentire orgoglioso e a smuovere sentimenti sopiti da tempo. Lei però non era più la ragazza di un tempo, in viaggio doveva esserle accaduto qualcosa che non gli aveva detto.

Quando aveva saputo della morte di Laio e della scomparsa di Sennar, lo gnomo aveva scoperto che le tante avventure alle sue spalle non erano bastate a temprarlo contro il dolore, ma aveva cercato di dissimulare la propria sofferenza per non gravare ancora di più il fardello di Nihal. Ora però capì che era giunto il momento di parlarne e le chiese di raccontargli come fosse andata.

Apprese così del comportamento eroico del giovane scudiero, della sua morte fra le braccia di Nihal, della fuga durante la quale Sennar era stato ferito, della permanenza nella grotta e del momento in cui si erano dovuti lasciare. Ido notò il rossore sulle guance della mezzelfo a un certo punto del racconto, ma quando scese il silenzio capì che la sua allieva aveva finalmente trovato se stessa.

Nihal gettò il suo pugnale ancora nel fodero sul tavolo. «Quando me ne sono andata, mi ha dato questo. C’è un incantesimo sopra, la sua lama brillerà fino a quando lui sarà vivo, e mi indicherà dove si trova. Sennar mi ha detto che se non l’avessi trovato qui non avrei dovuto cercarlo prima di aver portato a termine la missione.» Ido guardò il pugnale e ne sentì tutto il potere. «Da quando ce l’ho, non ho avuto il coraggio di guardarlo neppure una volta» aggiunse Nihal.

«Sono sicuro che sta bene» disse Ido, benché si rendesse conto che quelle parole erano una menzogna inutile.

«Deve stare bene» replicò Nihal con una veemenza che lo sorprese. Poi la mezzelfo abbassò lo sguardo. «Io lo amo» mormorò guardando il bicchiere.

Ido aspirò nervosamente dalla pipa e fu attraversato da una rapida successione di sentimenti: prima una sorta di indignazione, poi una gelosia paterna, infine una gran tenerezza. In fondo, Sennar era l’unico che potesse farla felice.

«L’ho sempre saputo, dalla prima volta che l’ho visto arrivare trafelato alla base» commentò alla fine lo gnomo.

«A me invece ci è voluto tanto per capirlo, ma ora è l’unica certezza che ho» disse Nihal. «Ho cercato a lungo e dappertutto un motivo per vivere e ce l’avevo al mio fianco» continuò. «Ora è per lui che lotto, è per lui che batterò il Tiranno. Non mi interessa più la vendetta, tutto quello che voglio è un mondo in pace, dove poter vivere con Sennar. Mi rendo conto che rispetto agli ideali che muovono te e molti altri in questo esercito il mio è uno scopo piccolo ed egoistico, ma...»

«L’amore non è né piccolo né egoistico» la interruppe Ido. «Qualsiasi cosa ci spinga a vivere, per il solo fatto che ci dà uno scopo, non può essere insignificante.»

«Ho capito di non poter salvare il mondo intero, ma una vita sono in grado di salvarla. È per questo che non posso guardare il pugnale.»

«Non smettere mai di sperare» disse lo gnomo. «Quanto tutto questo sarà finito, voglio vederti assieme a Sennar, per tutta la vita.»

Nihal sorrise e lo abbracciò.


Subito dopo fu la volta di Oarf. Nihal si fiondò da lui e appena lo vide sano e salvo, forte come quando l’aveva lasciato, sentì di non poter trattenere le lacrime dalla gioia. Lo abbracciò a lungo, commossa, e le sembrò che perfino i severi occhi del drago fossero umidi.

Il giorno seguente salì sulla sua groppa dopo tanto tempo. Volò a lungo, si gettò nelle acrobazie più spericolate e fu felice di scoprire che, nonostante i mesi di assenza, lei e il suo drago si intendevano ancora alla perfezione.

«Tra noi due c’è un legame indissolubile. D’ora in poi non ti abbandonerò mai più, tutto quel che mi accadrà sarà insieme a te. Se dovrò fallire in questa battaglia, cadrò con te, ma se vincerò, sarà sulla tua groppa» disse a Oarf quando furono a terra.

Il drago alzò fiero la testa.


I giorni successivi furono dedicati ai preparativi della battaglia, mentre l’inverno investiva il paesaggio con i suoi rigori.

Tutti sapevano che il loro destino e quello della loro Terra si sarebbero giocati a breve e infine sarebbe stato chiaro se per il Mondo Emerso e per quello Sommerso c’era ancora speranza.

Nihal rivide Soana tre giorni dopo il suo arrivo. La maga si trovava presso il Consiglio, a deliberare circa la disposizione delle truppe lungo il fronte occidentale. Non appena aveva ricevuto il messaggio di Nihal, aveva avvisato Nelgar e aveva iniziato i preparativi per rientrare alla base.

Quando Nihal la vide, le sembrò che per Soana fosse passato più di un anno. La sua altera bellezza era intatta e lei era ancora nobile e maestosa come un tempo, il suo viso però era solcato da molte rughe e il colorito era pallido, come se sul suo volto fosse impresso il segno di nuovi dolori, grandi fatiche e schiaccianti responsabilità. Portava la stessa lunga tunica nera che indossava quando era tornata dal suo viaggio alla ricerca di Reis. Appena vide Nihal la abbracciò con trasporto.

Parlarono a lungo. Soana raccontò della sconfitta subita nella Terra dell’Acqua e di tutte le volte che lei stessa era scesa in campo per usare la magia contro il nemico; accennò rapidamente alla ferita e alla convalescenza di Ido, ma Nihal capì dal mutare della luce nei suoi occhi che la maga doveva avere sofferto per lo gnomo più di quanto desse a vedere. Nihal le raccontò del suo viaggio e dei santuari, e di come avesse perso i suoi compagni.

Quando seppe della scomparsa di Sennar, lo sguardo di Soana si incupì, ma disse anche che era sicura che stesse bene. «È il mago più potente che conosco, dopo il Tiranno, e sento che è ancora vivo, per te, se non altro.» Sorrise. «Devi credere in lui, credere che sopravvivrà e che potrete infine raggiungere la felicità cui agognate.»

Nihal arrossì a quelle parole. «Come...?» balbettò.

Soana sorrise. «Come ho capito che vi amate?» La fissò per qualche istante. «Perché sono una donna e ti conosco fin da quando eri piccola. Ci sono segreti che non si possono celare agli occhi di una donna e tutto in te parla dell’amore.» Sospirò e Nihal capì che pensava a Fen. «Credi in questa fiammella, Nihal, e alla fine raggiungerai quel che cerchi» disse infine la maga.


La data della battaglia venne fissata per la fine di dicembre. Avevano due settimane per i preparativi. Le Terre libere erano in fermento, mentre migliaia di messaggi venivano mandati ovunque.

Tutti i Cavalieri di Drago furono allertati e per la prima volta da tanti anni si vide sul campo anche Raven, il Supremo Generale.

Giunse alla base una mattina, tra lo stupore di tutti. Quando Nihal lo vide, restò senza parole. Non portava più l’armatura piena di orpelli che indossava di solito e perfino l’impertinente cagnolino che lo seguiva dappertutto era scomparso. Il Supremo Generale indossava una sobria armatura di ferro.

«Non potevo continuare a restare inattivo all’Accademia. Il posto di un guerriero è in battaglia e io sono ancora un soldato» disse. Poi si rivolse a Nihal, nel suo tono brusco di sempre. «Sbagliai, anni fa, quando ti misi i bastoni fra le ruote. Sei riuscita dove molti, e io per primo, hanno fallito: hai dato una nuova speranza a un popolo allo stremo.»


In quelle due settimane Nihal si dedicò anima e corpo all’allenamento. Temeva che i mesi di viaggio avessero infiacchito le sue capacità di guerriero e trascorreva gran parte della giornata nell’arena, assieme a Ido, combattendo a terra e in aria, con la spada e con ogni tipo di arma.

La mezzelfo si rese conto che il suo maestro non le aveva mentito; le doti di combattente di Ido non erano state intaccate dalla perdita dell’occhio. D’altra parte, nemmeno lei aveva perso il suo smalto e le bastarono pochi incontri per ritrovare l’agilità e l’entusiasmo di un tempo. Un paio di volte Nihal si misurò anche con altri Cavalieri, ma ormai solo Ido era in grado di starle alla pari.

Più combatteva con il suo maestro, più Nihal capiva che non poteva fare a meno di considerarlo un padre. Livon l’aveva cresciuta, le aveva insegnato a tirare di spada e le aveva indicato quale sarebbe stata la sua strada per il resto della vita. Però era da Ido che aveva imparato cosa significasse combattere, era stato lui a spiegarle chi è il vero guerriero e a fare di lei una persona completa.

Nihal sapeva che questo non significava tradire la memoria di suo padre, al contrario, ne era il coronamento.

Alla base, Nihal ritrovò anche la sua armatura. Ido l’aveva custodita per lei e non aveva permesso che neppure un granello di polvere la sporcasse. Brillava in una cassapanca, con lo stesso fulgore del giorno in cui lo gnomo gliel’aveva regalata.

Quando la vide, a Nihal si strinse il cuore. Ricordò le parole che le aveva detto Laio, poco prima di morire: Avrei voluto arrivare con te fino alla fine e aiutarti a indossare l’armatura il giorno dell’ultima battaglia. Le tornarono alla mente tutte le volte in cui lo scudiero le aveva stretto le cinghie e i lacci prima di un combattimento.

Nel momento in cui prese in mano l’armatura di cristallo nero, Nihal capì come doveva mettere in pratica la decisione maturata a Seferdi.

Il simbolo della casata di Nammen, lo stemma che aveva visto nel palazzo reale, le era ancora impresso nella mente. Era diviso in due parti: in quella superiore c’era un albero, per metà ricco di foglie e per metà spogliato dall’inverno, mentre nella parte inferiore c’era un astro che per metà aveva l’aspetto della luna e per metà il volto del sole. Lo stemma rappresentava lo scorrere inesorabile del tempo, poiché la Terra dei Giorni venerava sopra ogni cosa Thoolan, il Tempo, e la duplice natura dei mezzelfi, nati dalla fusione della stirpe degli uomini e di quella degli elfi.

Nihal portò il pettorale dell’armatura e il disegno dello stemma a Makrat, dallo stesso armaiolo che aveva aggiustato la spada di Ido. Gli spiegò che voleva l’incisione sopra il fregio del drago e che doveva essere di un bianco tanto lucente da stagliarsi nitida sul cristallo nero.

L’armaiolo le consegnò il pettorale due giorni prima della battaglia decisiva; lo stemma era stato riprodotto in modo mirabile, ma soprattutto era di un bianco abbacinante e Nihal non ebbe dubbi che fosse visibile anche a grande distanza. Era questo che voleva.

Il giorno in cui fosse andata nella Grande Terra per compiere il rito con il talismano, il Tiranno avrebbe visto lo stemma sul suo petto e avrebbe capito che nessuna delle malvagità che aveva compiuto in quarant’anni di dominio era stata dimenticata, che il male causato infine sarebbe stato punito. Nihal voleva che sapesse che i mezzelfi non erano scomparsi, che non era riuscito ad annientarli, e che proprio una di loro, uscita dall’inferno, avrebbe posto fine al suo regno di terrore.

Quando vide lo stemma rilucere sul pettorale, Nihal sentì di essere pronta e capì che la battaglia finale era cominciata.


37 L’urlo dell’ultima battaglia


Giunse infine la vigilia dell’ultima battaglia. Nel giro di una settimana le truppe si erano lentamente spostate verso i confini e quella sera, la sera prima del 21 dicembre, la frontiera delle Terre soggette al Tiranno era un’unica linea ininterrotta di accampamenti. Il mattino, l’intero esercito si sarebbe schierato e allora non un solo braccio del confine sarebbe stato sguarnito, ovunque ci sarebbero stati soldati scalpitanti e pronti alla battaglia.

Era stato deciso che Nihal sarebbe andata con Oarf al di là della linea del fronte e che sarebbe stata scortata da Ido e Soana.

«Non voglio andare nella Grande Terra in incognito, come una ladra. Voglio arrivarci con onore, e che tutti mi notino» aveva detto Nihal durante l’ultima riunione. «Voglio che il Tiranno mi veda arrivare da lontano, che si chieda con ansia chi sia e che cosa voglia, e pensi con terrore a ciò che sta per accadergli.»

I generali avevano protestato e l’avevano pregata di adottare una condotta più prudente.

«Il talismano è la nostra unica possibilità di salvezza; se verrai uccisa prima di recitare l’incantesimo, sarà la fine» aveva detto Nelgar, nella speranza di farla ragionare.

Nihal aveva scosso la testa con decisione. «Quando la mia città venne distrutta, scorsi dal tetto della torre l’esercito nemico avanzare. Non dimenticherò mai il terrore che provai, e con me tutti gli abitanti della città, al vedere la morte venirci incontro assieme all’esercito. Voglio che il Tiranno provi quel che ho provato io.»

«È una follia, significa cercare la morte» aveva replicato Raven.

«Non andrò da sola» aveva spiegato Nihal. «Sarò scortata da Soana e da Ido. Ido mi proteggerà con la sua spada e Soana erigerà intorno a me una barriera magica, almeno fino a quando non avrò portato a termine il rito; a quel punto la barriera sarà sciolta e io potrò combattere e trovarmi finalmente faccia a faccia con il Tiranno.»

L’assemblea aveva capito che la decisione di Nihal era irremovibile e alla fine, seppure a malincuore, l’aveva accettata.


La sera fu salutata da una neve fitta e gelida; scendeva lenta, una cortina di fiocchi sottili, ma inarrestabili. Nihal era nella sua stanza, nella casa di Ido, e non riusciva a dormire. Quando era arrivata alla base le avevano proposto di tornare nella sua vecchia casa, quella che aveva occupato per pochi mesi dopo essere diventata Cavaliere. Nel momento in cui vi aveva messo piede, però, Nihal aveva capito che non avrebbe potuto vivere lì. C’erano troppi ricordi, era tutto identico a come lo aveva lasciato, compreso il letto di Laio, dove le sembrava quasi di poter vedere l’impronta del corpo minuto dello scudiero. Aveva preferito la casupola di Ido, dove poteva contare anche sul conforto del suo maestro.

Adesso era sola nella stanza, con l’armatura davanti a sé. Se Laio fosse stato ancora vivo, in quel momento sarebbe stato lì con lei, a lucidarle le armi. Ora quell’incombenza toccava a Nihal. Prese la spada e iniziò a pulirla. La lama non era più liscia e affilata come un tempo, portava i segni di numerose battaglie. Vi erano graffi e intaccature che non era possibile cancellare, ma era tagliente come la prima volta che Nihal l’aveva presa in mano, appena uscita dalla fucina di Livon. Anche la sua spada era stanca, come lei; aveva combattuto troppo, aveva assaggiato abbastanza sangue, era ora che riposasse nel fodero. Se gli dèi l’avessero aiutata, il giorno successivo quella quiete infine sarebbe arrivata, insieme ai baci di Sennar.

Passò poi a lucidare l’armatura, benché non ve ne fosse bisogno, perché l’armaiolo gliel’aveva consegnata linda e brillante. Toccarla le serviva a immergersi nell’atmosfera della battaglia. Per la prima volta in vita sua, Nihal non era impaziente di combattere, lo viveva piuttosto come un doloroso dovere. Certo, una parte di lei desiderava misurarsi con il Tiranno, trovarsi faccia a faccia con lui, capire cosa l’aveva spinto per tutti quegli anni a dispensare terrore e morte. E forse, si rese conto con un brivido, in un angolo del cuore desiderava ancora la vendetta, voleva che il sangue di quell’uomo lavasse il sangue che era stato versato per causa sua. Se però pensava a Sennar, la vendetta e la voglia di sangue scolorivano, restavano solo l’amore e il bisogno di lui, di una vita tranquilla al suo fianco.

Ciò che più la stupì fu scoprire che aveva paura di morire. Non le era mai successo prima, al contrario, lo aveva sperato migliaia di volte. Quando Ido le aveva svelato che trasformarsi in un’arma non era il modo giusto di essere Cavaliere di Drago, Nihal aveva iniziato a desiderare la paura della morte, ma quell’amica non le aveva mai fatto visita. L’unica volta che aveva avuto paura di morire era stato alla vigilia della sua prima battaglia, quando aveva sostenuto la prova per passare alla seconda fase dell’addestramento a Cavaliere di Drago. La battaglia in cui era morto Fen. Con un sorriso amaro, Nihal si disse che il cerchio si chiudeva: aveva avuto paura la prima volta che era scesa in battaglia e aveva paura ora, forse l’ultima volta che combatteva.

Posò a terra l’armatura e guardò la neve che scendeva lenta fuori dalla finestra. Sapeva che avrebbe avuto bisogno di dormire, ma non poteva. Per più di tre anni non aveva fatto altro che aspettare quel momento e l’ultima battaglia era arrivata. Come poteva riposare?

Mentre si spogliava le capitò fra le mani il pugnale. Il fodero non lasciava intravedere la lama e nessuna luce filtrava attraverso la pelle della custodia. Su quel pugnale era scritto lo scopo per cui avrebbe combattuto il giorno seguente. Se avesse scoperto che Sennar era morto, allora non le sarebbe restato altro che odio. Ma questa volta Nihal voleva presentarsi al cospetto del suo nemico guidata soltanto dal desiderio di pace.

Strinse il pugnale, senza trovare il coraggio di sguainarlo.

Dove sei, Sennar? Ho bisogno di te, delle tue parole, della tua voce. Ho bisogno di sapere che ci sei ancora, per poter combattere domani.

Il terrore la invase, insieme alle voci degli spiriti che non l’avevano mai abbandonata, tanto che Nihal non si accorse che la porta si apriva e non sentì i passi che si avvicinavano.

Si riscosse solo quando Ido arrivò al suo fianco e le posò una mano sulla testa arruffata. Nihal lo abbracciò e si strinse al petto del suo maestro.

«Hai paura?» chiese lo gnomo.

«Ho paura che Sennar sia morto. Se lui non c’è più, che senso ha tutto quello che sto facendo?»

Ido continuò ad accarezzarle la testa. «Lo so che è difficile, ma non devi pensarci. Non serve a niente. Non ti aiuta a prepararti alla battaglia. Se vuoi davvero conoscere la verità» aggiunse guardandola «il pugnale è al tuo fianco, non hai che da scoprirlo.»

«E se scoprissi che è morto? Non avrei più la forza per combattere domani» rispose lei.

«Allora non ti resta che credere e sperare. Sennar ti ama, non si farà ammazzare tanto facilmente» concluse lo gnomo con un sorriso.

Ido restò al suo fianco e Nihal a poco a poco si calmò.

«Anch’io ho paura» disse lui in un soffio. «Ti ho sempre detto che la paura è amica del soldato, ma è un’amica pericolosa, difficile da tenere a bada. Stasera anch’io, per la prima volta, sento la morte al mio fianco e ho scoperto che in fin dei conti questa maledetta vita mi piace, mi piace proprio.»

Nihal alzò gli occhi su di lui. Ido raramente le aveva parlato così, rinunciando al tono burbero e insofferente che ostentava di solito.

«Non sono sicuro di uscire vivo dalla battaglia» proseguì lo gnomo. «Domani regolerò i conti una volta per tutte con Deinoforo, e non è detto che vinca io. Per questo voglio confidarti quello che per tanto tempo ho negato persino con me stesso.» Deglutì e Nihal capì che era imbarazzato. Sapeva quanto gli costasse parlare dei propri sentimenti. «Il riscatto che ho cercato per vent’anni sui campi di battaglia non è mai arrivato. Quel che sono stato, tutto ciò che ho fatto al servizio del Tiranno non può essere cancellato. Ho combattuto inseguendo quello scopo per anni, senza mai raggiungerlo. Poi sei arrivata tu.» Lo gnomo si schiarì la voce. «All’inizio mi sei sembrata una bella scocciatura, l’ultima cosa che volevo era un allievo, e una mezzelfo, per di più.» Ido la fissò. «Invece sei stata la cosa migliore che mi sia mai capitata, Nihal.» Tacque di nuovo e distolse lo sguardo da lei. «Tu mi hai dato molto. Mi hai offerto la possibilità di riscattarmi, più di tante battaglie e di tanti fammin uccisi. Una volta, quando litigammo, ti dissi che non eri mia figlia e che non ero tenuto e raccontarti tutto di me. Sbagliavo. Sei come una figlia per me e sono fiero di quello che sei diventata.» Lo gnomo tacque e sospirò.

Nihal lo abbracciò con forza. Aveva ritrovato un padre. «Ti sarò sempre immensamente grata per tutto ciò che hai fatto per me.»

Ido tossicchiò e sembrò voler recuperare un po’ di contegno. «Abbi fede per domani» le disse «e pensa solo al tuo obiettivo finale. Devi crederci, fino in fondo, perché ciò che desideri possa avverarsi.»

Con queste parole, Ido tornò nella sua stanza e lasciò Nihal sola.

Poco dopo la mezzelfo si assopì, il pugnale fra le mani, e il suo ultimo pensiero fu per Sennar.


Il campo si svegliò con lentezza e solennità, prima che l’alba si levasse acida sul confine, a incorniciare la sagoma nera della Rocca che si stagliava in lontananza. Quando il sole fece capolino fra i rami secchi dei boschi che circondavano la base, le truppe erano già pronte a schierarsi.

Ido raggiunse Nihal nella sua stanza.

«Ti aiuto a indossare l’armatura» si offrì lo gnomo.

Nihal fece cenno di no con la testa. «Quest’armatura apparteneva a Laio, solo lui aveva il diritto di mettermela. Farò da sola, in onore alla sua memoria.»

Ido annuì, ma restò nella stanza, per aiutarla a stringere i lacci dove lei non poteva arrivare. Fuori, tutto taceva. Quando Nihal fu pronta, assistette Ido nella sua preparazione. Poi presero entrambi le proprie spade e uscirono.


Il sole si levava su un cielo plumbeo. L’aria era gelida e a terra una spessa coltre bianca copriva ogni cosa e scricchiolava sotto gli stivali. Oarf attendeva il suo Cavaliere al centro dell’arena, imponente come sempre. Nihal lo vide spiegare fiero le ali e capì che non era sola. Chiuse gli occhi e la calma le scese nel cuore.

La marcia ebbe inizio e le truppe giunsero in vista del confine che il sole era ancora basso all’orizzonte. I soldati si fermarono. Lungo la linea del fronte erano già schierati gli eserciti arrivati fin lì da ogni dove. A circa un miglio di distanza, i nemici, un insieme eterogeneo di fammin, uomini, gnomi e la moltitudine dei morti, osservavano la lunga linea scura dei loro avversari, probabilmente chiedendosi che cosa avessero intenzione di fare.

Per l’intero tragitto, Nihal aveva sentito aumentare il potere dell’amuleto a mano a mano che si avvicinavano alla Grande Terra. Ora brillava in tutto il suo fulgore sotto l’armatura e lo stemma di Nammen.

Raven si accostò a lei. Era la prima volta che Nihal lo vedeva sul suo drago, un possente animale color verde spento, vecchio forse, segnato da mille cicatrici e che doveva conoscere alla perfezione il campo di battaglia.

«Sarebbe compito mio fare il discorso prima dello scontro, ma ti cedo quest’incombenza. Se non fosse stato per te, non saremmo qui ora» disse il Supremo Generale, e con un gesto la invitò a rivolgersi all’esercito schierato davanti a lei.

Nihal arrossì e si voltò a guardare Ido, alle sue spalle. Lo gnomo le sorrise. La mezzelfo si fece avanti, titubante, mentre cercava le parole da dire. Era confusa ed emozionata; l’unica cosa chiara nella sua mente era il volto di Sennar. Levò gli occhi e vide che i soldati la guardavano, in attesa.

Nihal prese fiato. «Oggi è un giorno importante. Il più importante nella nostra storia. Oggi abbiamo la possibilità di conquistare la pace. Molti di noi hanno conosciuto solo la barbarie della guerra e per tanti anni non hanno fatto altro che combattere. Oggi possiamo spezzare il cerchio dell’odio, possiamo finalmente raggiungere la pace cui agogniamo. In questi anni molti hanno sofferto. Io sono una mezzelfo. Il mio popolo ha pagato il prezzo più alto in questa guerra: è stato cancellato dalla faccia della terra. È per questo che combattiamo, contro l’odio, contro la crudeltà, contro chi uccide per il gusto di farlo. Se lo vogliamo, questa sarà l’ultima battaglia, il sangue che verseremo sarà l’ultimo che bagnerà la nostra terra. Da domani tutto potrà essere diverso. Ognuno di noi ha un motivo che lo spinge a combattere, ognuno di noi ha una fiammella che illumina la sua vita e le dà un senso. Vorrei che oggi tutte queste fiammelle confluissero nell’unico grande desiderio di pace, che ogni colpo che ciascuno di noi vibrerà sul nemico non sia guidato dalla vendetta, ma solo dall’aspirazione alla pace.»

Nihal tacque. Ido, dal suo posto, le sorrise e annuì, e lei seppe che il suo maestro aveva capito. In quelle parole era racchiuso tutto il percorso che Nihal aveva compiuto in quegli anni.

Il silenziò calò sull’uditorio, poi un unico grido si levò da un capo all’altro delle truppe e si propagò agli altri reparti, dove generali e Cavalieri avevano tenuto i loro discorsi. Poco distante, Nihal intravide anche le truppe di Zalenia, comandate da un uomo protetto da una leggera armatura e fiero sul suo cavallo. Il grido infiammò in una sola voce tutto lo schieramento, dall’ultima propaggine della Terra del Mare, sul delta del Saar, fino al confine estremo della Terra del Sole, ai margini del deserto, e a quell’urlo il cuore dei nemici, per la prima volta, tremò.


Nihal si calò l’elmo sul volto e invitò Soana a salire su Oarf. Mentre si apprestavano a partire, insieme a Ido in groppa a Vesa, la mezzelfo ebbe un presentimento e voltò il capo alla sua sinistra.

Su una rupe, vide una figura solitaria che aveva qualcosa di demoniaco. Era vecchia e curva, le vesti lacere volavano nella brezza di quell’alba lugubre, assieme ai lunghissimi capelli gialli.

Era Reis. La maga levò un pugno verso il cielo, in direzione della Rocca.

«È giunta la tua ora, mostro!» urlò con una voce intrisa d’odio. «Voglio vederti giacere nel tuo stesso sangue sgozzato come un vitello! Oggi il tuo regno di terrore è arrivato alla fine!» Si voltò verso Nihal. «Uccidilo Sheireen! Fallo a pezzi, mia creatura! Colei che ti ha creato e che ti ha donato la forza ti ordina di massacrare quel mostro!» Le sue parole terminarono in una risata selvaggia.

Nihal distolse lo sguardo. Non doveva pensare a quella vecchia, solo a ciò che si apprestava a fare. Guardò Ido e lo gnomo annuì.

Si alzarono in volo e sorvolarono il fronte, sotto gli occhi allibiti dei nemici. Soana eresse una barriera magica intorno a Nihal e a Oarf, mentre Ido si preparava a colpire.

Nulla si mosse nelle file avversarie. Erano tutti fermi a guardare verso l’alto, increduli. Nihal volò più veloce che poteva, finché nel campo nemico non ci fossero stati Cavalieri non ci sarebbe stato niente da temere. Per il momento, le truppe del Tiranno erano state prese alla sprovvista. La mezzelfo sentì che i fammin, gli uomini e gli gnomi sotto di lei percepivano l’immenso potere del talismano e capivano che il simbolo bianco sulla sua armatura era presagio di morte. Sorrise. Gli spiriti erano già con lei, la stavano aiutando.

La Rocca apparve innanzi a loro e Oarf si posò a terra, seguito da Vesa. Dense nubi nere vorticavano intorno alla mole della fortezza, oscurando l’alba che cercava di rischiarare quel fatidico mattino. Persino la terra era nera, contaminata dal male che regnava in quel luogo. Non c’era uno stelo d’erba, nulla; solo terra riarsa e screpolata.

Nihal scese dal drago perplessa. Non riusciva a percepire Aster. La Rocca sembrava addormentata, indifferente.


Aster e Sennar erano soli nelle segrete. Era da lungo tempo che si fronteggiavano, nel silenzio più assoluto. Sennar cercava di nascondere il proprio segreto, Aster tentava di carpirglielo, di profanare la sua mente. Ma la lotta era impari. Il giovane mago era stremato, ferito, e il Tiranno era infinitamente potente e determinato.

Fu così che alla fine Sennar sentì la mente esplodergli in un delirio di dolore e colori, e tutta la sofferenza del mondo premergli con violenza alle tempie e nel cuore. Il suo amore, la sua vita, i suoi ricordi, tutto fu messo a nudo, e in fondo a quel turbine di emozioni senza più nome né senso il suo segreto fu svelato.

Fu così che Aster seppe.


Nihal non aveva avuto il tempo di chiedersi la ragione per cui la Rocca era silente. Non appena era scesa sulla Grande Terra, aveva sentito il potere crescere all’improvviso sul petto. Poi, fu come se la Rocca si risvegliasse. Le nubi iniziarono a vorticare più rapide e violente, mentre l’immenso potere del Tiranno si destava. Nihal comprese che Aster sapeva, sentì il suo furore, la sua paura, ma soprattutto la sua determinazione. Non avrebbero potuto nulla contro di lui, se avesse scatenato il suo immenso potere su di loro.

«Recita l’incantesimo di difesa più forte che conosci» mormorò a Soana.

Quindi, senza perdere altro tempo, estrasse il talismano; brillava fulgido e squarciò l’oscurità perpetua e senza luna che copriva da decenni la Grande Terra.

Nihal sentì crescere l’ira e il timore di Aster e capì che presto la barriera eretta da Soana sarebbe stata inutile. «Ael!» La voce della mezzelfo si levò chiara; dal cielo una lama di luce azzurrina illuminò la prima pietra.

«Glael!» continuò Nihal, e stavolta fu un raggio dorato a scendere su di lei. La Rocca iniziò a brillare sempre più intensamente; il Tiranno stava per evocare qualche incantesimo, che avrebbe spazzato via lei, Soana e Ido.

«Sareph! Thoolan! Flar!» gridò ancora Nihal in rapida successione, e scesero dal cielo uno di seguito all’altro un raggio blu, uno azzurro e uno vermiglio.

La Rocca era un profluvio di luce, l’incantesimo evocato da Aster era quasi giunto a compimento. Nihal si impose la calma e continuò imperterrita.

«Tareph! Goriar! Mawas!» urlò, e gli ultimi raggi scesero su di lei, uno marrone, uno nero e uno bianco.

Sul mondo calò una calma assoluta. La Rocca smise di brillare, le nubi si fermarono, il vento si placò e ogni suono cessò.

Per un attimo nemici e amici furono attraversati dallo stesso timore, dallo stesso senso di riverenza: gli otto Poteri manifestavano il loro influsso e gli antichi dèi tornavano sulla terra. Tutti in quel momento si sentirono miseri, insignificanti, e percepirono l’imperscrutabilità del creato. Un istante dopo ci fu un’esplosione di colori, una luce accecante.

Una sfera luminosa scese dal cielo, piccola all’inizio, poi infinitamente grande, tanto da avvolgere l’intera Rocca e tutto ciò che la circondava, fino ad abbracciare i confini ultimi della terra, oltre il Grande Deserto e oltre le acque tumultuose del Saar.

Al centro c’era Nihal. La mezzelfo percepiva l’energia che fluiva in lei e per un attimo si sentì immensamente potente, come se ogni cosa, alberi, piante e animali, fosse prostrata ai suoi piedi, come se il mondo intero le appartenesse. D’un tratto, tutto le parve chiaro.

«La tua preghiera è stata esaudita» le disse allora una voce solenne. «Ma il potere non è per te, Consacrata, è per tutti coloro che anelano alla pace. Fai buon uso di quanto ti abbiamo dato.»

Nihal non si sentì più padrona, ma serva; tornò in sé e si accorse che i fantasmi che fino a un momento prima affollavano il fronte erano scomparsi, dissolti nel vento, e i fammin si guardavano intorno spaesati, senza sapere cosa fare. Perfino le voci, che da tempo immemore non le davano requie, tacevano. Ce l’aveva fatta.

Non ebbe il tempo di esultare. Cadde in ginocchio. Il suo respiro si era fatto pesante e sentiva un senso d’oppressione al petto. Il talismano aveva iniziato a succhiarle la vita.

«Tutto bene?» chiese Ido, che si era piegato subito su di lei.

Nihal annuì. «Tutto a posto, è solo l’amuleto che esige il suo prezzo.»

Si alzò e salì su Oarf, sola. Volò alta nel cielo, in modo che tutti i soldati la vedessero. Levò la spada e urlò. Le truppe le risposero ed ebbe inizio l’ultima battaglia.


38 L’alba della riscossa


Quando il sole si liberò dalla schiavitù della terra e si affacciò sul mondo, i suoi raggi salutarono una selva di spade e lance, un groviglio di corpi che si scontravano da un confine all’altro del Mondo Emerso.

Molte battaglie si erano susseguite su quella Terra, ma questa non era come le altre e tutti, nemici e uomini liberi, lo sentivano. Ciascuno dei soldati era consapevole che quello scontro avrebbe deciso il destino del mondo, sapeva che sul filo della sua spada era scritto il futuro.

Da quando i fantasmi si erano dissolti alla luce dell’incantesimo di quella ragazza dall’armatura nera, i fammin non rispondevano più agli ordini e vagavano con gli occhi perduti nel vuoto.

Per chi era abituato a dare battaglia in condizioni di schiacciante superiorità numerica, al fianco di guerrieri per i quali la vita e la morte avevano lo stesso significato, trovarsi a combattere ad armi pari era spiazzante. Ma non era solo questo a spaventarli. Percepivano un senso di ineluttabilità, intuivano che l’ora di saldare i conti era giunta e che dopo quel giorno nulla sarebbe stato uguale a prima. Anche l’aria era diversa, vi aleggiava un presagio di morte e sconfitta. Era come se la natura rivolgesse verso i soldati del Tiranno uno sguardo maligno.

Quale fu poi l’orrore dei maghi tra le file nemiche, quando si accorsero che nessuno dei loro incantesimi aveva effetto. Provarono e riprovarono più volte, atterriti dalla propria impotenza, ma presto si resero conto di essere tornati semplici uomini, deboli e incapaci di difendersi.

Molti si diedero alla fuga, altri presero in mano spade che non avevano mai usato. Quel giorno gli spiriti li avevano abbandonati ed erano tutti nella palma della mano della guerriera in nero, che si batteva come una furia e si faceva largo verso la Rocca.


Il Tiranno era chiuso nella sua fortezza, seduto sul suo enorme trono, in una sala che ora gli sembrava immensa. Aveva avuto paura, non appena aveva sentito gli spiriti abbandonarlo e la magia rifluire dalle sue mani lontano da lui. Ma ora era calmo; sapeva che quel giorno doveva venire, e infine era arrivato. Non c’era da temere. Il Consacrato era giunto, come aveva profetizzato quel vecchio quarant’anni prima, ma il destino era ancora nelle sue mani e lo scopo finale troppo grande perché una semplice ragazzina, una mezzelfo sfuggita alle fauci della morte, potesse spazzarlo via. Per portare a termine il suo piano, Aster era pronto a tutto. Era destino che dovesse scontrarsi con quella guerriera, ma non era detto che avrebbe perduto. Anche senza la sua magia, sapeva di essere immensamente potente, perché conosceva le creature di quel mondo e ne leggeva con chiarezza ogni pensiero e ogni sentimento. Avrebbe combattuto con quella ragazza e l’avrebbe sconfitta, per realizzare il suo ambizioso progetto.


Al primo grido di battaglia, le truppe delle Terre libere si erano gettate su un nemico spaesato e confuso, e all’inizio tutto era sembrato fin troppo facile. L’esercito avversario, però, non era composto solo da soldati semplici e traditori, ma anche da abili guerrieri e valorosi Cavalieri.

Furono proprio questi ultimi a uscire numerosi dalla Rocca, poco dopo il primo squillo del corno di guerra.

Simili a una nube nera avanzarono verso il campo di battaglia, si sparpagliarono sul fronte e si abbatterono sulle truppe delle Terre libere. Fu allora che caddero i primi soldati, bruciati dal fuoco dei draghi o feriti dalle armi dei Cavalieri di Drago Nero. Dalle retrovie si fecero avanti i Cavalieri di Drago della Terra del Sole e della Terra del Mare, e la lotta fu di nuovo ad armi pari.

Tra loro, in prima fila, c’era Raven. Da molti anni non scendeva sul campo di battaglia, ma non poteva mancare all’ultimo atto, non poteva perdere la possibilità che il destino gli offriva di recuperare la dignità che aveva smarrito fra i velluti dell’Accademia e di tornare a essere il guerriero di un tempo. Quella mattina era montato in groppa a Tharser, il suo drago, e ora erano lì entrambi, a godere della ritrovata eccitazione della battaglia.

Al Supremo Generale il cozzo delle spade e il clangore delle lance suonarono come un canto che gli parlava di cose perdute e lontane. Sentì la polvere in bocca e con un grido si lanciò nella mischia, imperversando dall’alto con il suo drago. Raven guidò i suoi uomini come faceva un tempo, levò la spada insanguinata e li incitò alla carica, e ciascuno dei soldati lo seguì abbagliato: tutti si convinsero che la vittoria era possibile, finché c’era quell’uomo con loro. Mentre calava i suoi fendenti sul nemico, a Raven parve che non fosse passato neppure un giorno dall’ultima volta che aveva combattuto, che bastava una scintilla per tornare quello di prima, e sentì che quella scintilla era scoccata. A lungo, quel giorno, Raven fu il terrore del nemico.


Al di là del fronte, nelle Terre soggette al Tiranno, quell’alba non sembrava diversa dalle altre. Un sole pallido levava raggi agonizzanti sulla terra e annunciava un nuovo giorno di schiavitù. Eppure c’era chi guardava a quel sole con occhi diversi e attendeva con ansia il momento in cui un unico grido si fosse levato da lontano, oltre la Rocca, dai luoghi dove la speranza ancora non era morta.

Aires non si era risparmiata e aveva fatto un ottimo lavoro. Poco dopo la partenza di Nihal e Sennar, si era messa in viaggio con pochi compagni fidati. Dapprima aveva battuto la Terra del Fuoco, alla ricerca di uomini che potessero unirsi alla resistenza. Poi aveva varcato il confine e si era spostata nelle altre Terre. I suoi sforzi non erano destinati solo a reclutare nuove forze, le bastava veder rifiorire la speranza nel cuore di chi si era rassegnato. Voleva che il giorno della battaglia decisiva in tutte le Terre schiave vi fossero uomini pronti a sollevarsi al grido che avrebbe risuonato da un confine all’altro. Uomini disarmati, ma decisi a tutto per la libertà e dunque inarrestabili.

Aires era riuscita a mettere insieme una sorta di esercito, composto per la maggior parte di disperati. I ribelli avevano costruito e rubato armi, e avevano ideato insolite macchine da guerra volanti. Poi, il messaggio tanto atteso era arrivato. Aires si era stupita che fosse stata Nihal e non Sennar a mandarlo, e aveva capito che doveva essere avvenuto qualcosa di grave.

La mattina della battaglia, dunque, non fu una mattina qualunque per molti degli abitanti della Terra del Fuoco. Si levarono presto e si disposero ai loro posti, pronti ad attaccare i punti nevralgici del potere del Tiranno.

Quando il grido percorse come un lampo il fronte, da un capo all’altro, nessuno degli abitanti delle Terre occupate poté rimanere indifferente. Sembrò che il tempo si fosse fermato. Gli schiavi smisero il loro lavoro e guardarono al cielo, gli aguzzini, i generali e i soldati dislocati nelle Terre occupate ebbero paura. A tutti fu chiaro che qualcosa stava per avvenire, che enormi poteri erano sul punto di scatenarsi.

Fu allora che Aires fece partire l’offensiva. Aveva organizzato gruppi armati ovunque, pronti a incanalare la rabbia degli schiavi, e in ciascuna Terra c’erano suoi uomini preparati a sobillare la rivolta. Quando l’urlo si fu estinto e la battaglia ebbe inizio, molti di quegli uomini furono martiri; riuscirono a suscitare un fuoco di paglia, violento ma breve, e vennero massacrati come agnelli. Ciascuno di loro, però, combatté fino alla fine, perché sapeva che il sacrificio di alcuni avrebbe potuto determinare la vittoria di tutti. Altrove, invece, l’incendio divampò e si diffuse rapido. Gli schiavi si ribellarono, coloro che per lunghi anni avevano sopportato il giogo di Aster impugnarono qualsiasi attrezzo assomigliasse a un’arma e combatterono.

Sembrò che il mondo fosse sul punto di capovolgersi. La rivoluzione divampò nei campi, nelle miniere di cristallo nero della Terra delle Rocce, nel buio perenne della Terra della Notte, persino nella Terra dei Giorni ci fu chi lottò. Nessuna battaglia, però, fu più grandiosa e più sanguinosa di quella che si combatté nella Terra del Fuoco. Al confronto le altre furono solo scaramucce, volte più che altro a intontire il nemico e a sottrarre forze dal fronte, in modo che l’esercito delle Terre libere incontrasse meno ostacoli.


Aires e i ribelli non diedero ai soldati neppure il tempo di riprendersi dallo spavento e piombarono su di loro come un fulmine a ciel sereno. Migliaia di uomini e gnomi uscirono dal nulla armati fino ai denti e si gettarono per prima cosa sulle fucine. Travolsero i soldati di guardia e infransero le catene che gravavano i polsi e le caviglie dei loro simili; fecero razzia di armi e urlarono che il regno del Tiranno era finito, che bisognava combattere per riconquistare la libertà. Alcuni di quelli che furono liberati scapparono impauriti, ma molti impugnarono a loro volta le armi.

Poi dal cielo spuntarono le macchine volanti e iniziarono a rovesciare fuoco sulle truppe nemiche terrorizzate e disorientate. Prima innanzi a tutti, la spada sguainata e già rossa di sangue, stava Aires. Era l’anima della rivolta, gridava ordini e sembrava trasfigurata; non era più la donna bellissima e sensuale che tutti ammiravano, era una furia vendicatrice.

L’obiettivo finale era la Rocca. I ribelli non ne sapevano molto, si diceva che neppure i grandi generali del Tiranno conoscessero la pianta di quell’immensa costruzione. Ma non bastò a fermarli, erano decisi a forzare il blocco, entrare nella Rocca e distruggere tutto ciò che incontravano.


Per tutta la mattina la Terra del Fuoco fu un unico, enorme, campo di battaglia. I soldati cercarono di tener testa ai ribelli come meglio poterono, ma la situazione era di stallo. Da ambo le parti i morti erano numerosi e non c’era modo di sedare la ribellione.

Poi giunse l’ordine, perentorio e inaspettato: «Andate e ponete fine a questa follia. Lasciate le pendici del mio palazzo e dirigetevi verso i ribelli. Annientateli. È il vostro signore che ve lo ordina».

Fu così che Semeion e Dameion, Cavalieri di Drago Nero, abbandonarono il fronte e, cosa inaudita, accorsero nella Terra del Fuoco per sedare la ribellione di quattro schiavi. Aires e i suoi videro le due figure nere avanzare quando il sole aveva da poco superato lo zenit. I due Cavalieri emersero dal fumo nero del Thal; procedevano lenti e i loro movimenti nel cielo erano perfettamente sincronizzati.

Sia i ribelli sia i nemici ci misero un po’ per prendere coscienza di ciò che accadeva, poi una voce si levò: «Siete già morti! I nostri signori giungono a salvarci e per voi non ci sarà più speranza!» urlò uno dei soldati.

Le due figure ora erano abbastanza vicine da essere distinguibili. Erano identici. Aires non li aveva mai visti, ma capì subito chi erano. Sapeva che quella Terra era governata da due gemelli, due generali del Tiranno, due spietati Cavalieri di Drago Nero. Molti dei suoi iniziarono ad avere paura. Lei strinse con più forza l’elsa della spada e si dispose all’attacco.

I Cavalieri si separarono e due immense lingue di fuoco, uscite dalla bocca dei draghi, avvolsero quella Terra di vulcani e incenerirono tutto ciò che trovarono sulla loro strada, amici e nemici.

Il coraggio che fino allora aveva animato i ribelli svanì e iniziò la fuga. Non bastavano il loro entusiasmo, le loro armi e quelle strane macchine volanti; neppure migliaia di loro sarebbero riusciti a sconfiggere uno di quei due Cavalieri.

Aires restò in piedi in mezzo al campo di battaglia, incerta sul da farsi. Nel frattempo Semeion e Dameion intrecciavano complicati balletti in aria e ogni volta, alla fine di quelle evoluzioni, scendevano a terra e la morte veniva con loro. Alcuni furono trafitti dalle spade dei due Cavalieri, altri morirono consumati dalle fiamme dei loro draghi, ardenti come le lave del Thal, altri ancora furono sbranati dai draghi e sparsi a brandelli sul campo. Non c’era nulla che i ribelli potessero fare. Di fronte a quell’avanzata inarrestabile, anche i soldati semplici ritrovarono il coraggio e si gettarono su coloro che erano sfuggiti alla furia dei Cavalieri.

Aires guardava attonita, circondata dalle fiamme. Vedeva uomini che ardevano come torce aggirarsi nel fumo, il sangue che bagnava la terra. Possibile che dovesse finire tutto così? Possibile che il loro sogno si dovesse infrangere sulle lame di quei due Cavalieri?

Levò la spada e con un urlo si lanciò su uno dei due, approfittando di un istante in cui era più vicino alla terra. Puntò al drago e vibrò il colpo con tutta la forza che aveva; affondò la spada fino all’elsa nel fianco dell’animale, con tale impeto che l’arma si ruppe e rimase conficcata nella carne. Il drago si contorse e cadde a terra, ringhiando di dolore. Il Cavaliere si voltò verso Aires e molti sguardi, amici e nemici, si appuntarono su di lei.

«Solo la paura può sconfiggerci!» urlò Aires. La sua voce era irriconoscibile. «Gli uomini veri non fuggono, gli uomini veri combattono!» urlò ancora. «Tornate indietro e battetevi, niente è perduto finché c’è vita!»

Il volto fino allora impassibile del Cavaliere si atteggiò a un sorriso di compassione. «Hai deciso di morire dunque» disse con calma, poi sfoderò una spada spaventosa, irta di aculei e ricoperta di rune malefiche.

Aires gli rispose con una risata. «Ho deciso di combattere fino alla fine, piuttosto» urlò. Gettò la spada, ormai inutilizzabile.

«Vuoi batterti a mani nude?»

«Mi batterò con te a ogni costo, anche a mani nude, perché c’è un’arma che non puoi togliermi ed è la mia determinazione» rispose Aires.

Il Cavaliere non le diede il tempo di finire di parlare. Costrinse il drago ferito a lanciare su di lei una fiammata, ma fu debole, poiché l’animale era sofferente.

Aires riuscì a schivarla e in quell’istante vide ai suoi piedi il cadavere di un soldato, e al suo fianco una spada. La afferrò.

Il Cavaliere balzò a terra e si avventò su di lei, costringendola a indietreggiare. Molte ferite segnavano già il corpo della donna e infine una stoccata andò a segno. Aires cadde, colpita a un braccio.

Rimase a terra, ma trovò il fiato per urlare ai suoi, fermi in mezzo al campo a guardarla: «Combattete, idioti! Siamo qui per vincere e riprenderci la libertà che ci spetta!».

Un nuovo colpo la raggiunse a una mano. Aires si alzò e con un urlo riprese ad attaccare. Fu allora che i suoi uomini si riebbero e si gettarono sul nemico. Assalirono in massa l’altro Cavaliere di Drago, incuranti del fatto che molti di loro morivano prima di aver potuto indirizzare verso di lui un solo colpo. Per quanti cadevano, altrettanti erano pronti a combattere. Presto furono sul Cavaliere e lo circondarono, costringendolo a terra.

Aires continuava a battersi. Dal clamore capì che la battaglia era ricominciata e sorrise, mentre il suo nemico la faceva a pezzi a furia di piccole ferite e stoccate andate a segno. Con ogni probabilità sarebbero tutti morti, per mano di quei due maledetti. Ma che scelta avevano? Non potevano fare altro che sacrificarsi per ciò in cui avevano sempre creduto. In ogni caso, non sarebbe stata una morte inutile, perché ora i due Cavalieri erano impegnati con loro e dunque non erano al fronte, a ostacolare le truppe. Nihal sarebbe potuta entrare nelle viscere della Rocca e avrebbe sgozzato il Tiranno. La loro morte avrebbe significato la salvezza di molti.


39 La guerra di Ido e Deinoforo


Ido doveva condurre Soana al sicuro; ora che l’incantesimo era stato evocato, la maga era una donna qualunque, indifesa. Lo gnomo però era restio ad andarsene e lasciare Nihal sola al di là del fronte, innanzi alla Rocca e alla desolazione della Grande Terra, dove presto sarebbero accorse schiere di nemici decisi a impedirle l’accesso alla dimora del loro sovrano.

«Non temere per me, so quel che faccio. Soana non può rimanere qui e tu hai una battaglia da portare a termine» disse Nihal al suo maestro.

Ido fece salire Soana sulla groppa di Vesa e volò via. Sapeva che il destino della sua allieva era legato a quello del Tiranno, che Nihal era da tempo destinata a varcare le soglie di quel palazzo e scontrarsi con lui.

Lasciò la maga molto al di là del fronte, dov’era certo che fosse al sicuro. Quando la salutò, capì quanto doveva essere difficile per lei attendere impotente la fine di quella giornata.

«È anche grazie a tutto ciò che hai fatto in questi anni che ora siamo qui» le disse prima di salutarla.

La maga abbassò il capo per qualche istante, poi tornò a guardarlo. «Cercherai Deinoforo?» chiese.

«Sì. E concluderò per sempre questa storia.»

Soana gli sfiorò una mano. «Stai attento.»

Ido abbassò la celata dell’elmo e alzò la spada in segno di saluto. «Ci vedremo stasera» disse e si levò in volo.


Lo gnomo si mise subito alla ricerca del suo nemico, ma Deinoforo non si fece vedere a lungo. Ido si diede da fare con i soldati semplici e con i Cavalieri minori. Non si risparmiò e lottò con tutte le sue forze. Memore del suo ultimo tragico errore, non si distrasse mai e più di una volta giunse in soccorso di un compagno in difficoltà, ma l’ansia cresceva.

Quella era l’ultima opportunità che aveva di chiudere i conti con Deinoforo. Seguitò a combattere e, a mano a mano che le ore passavano e il sangue si accumulava sulla spada, era sempre più impaziente di vedere la figura vermiglia del suo avversario stagliarsi all’orizzonte, sul grigio opaco delle nuvole di quel mattino.

Ido fu tra i migliori in campo e riuscì a guadagnare terreno, tanto che si ricongiunse a Nihal. La vide da lontano, mentre sorvolava il campo e si batteva insieme a Oarf. Era assorta nella sua missione, lo sguardo rivolto alla Rocca.

Lo gnomo riuscì ad avvicinarsi in volo alla mezzelfo. Il sole era alto, quasi allo zenit, e Ido vide che le loro truppe erano penetrate per un buon tratto nella Grande Terra. La Rocca si stagliava innanzi a loro più imponente che mai. «Vedo che hai fatto un buon lavoro» disse a Nihal, approfittando di una pausa.

La sentì respirare affannosamente sotto l’elmo e si preoccupò. Non poteva essere solo la stanchezza, quando lottava Nihal aveva una grande resistenza.

«Come vedi, me la cavo meglio se non ci sei» disse lei con una risata, poi riprese ad ansimare. «Hai sconfitto Deinoforo?»

«Non l’ho nemmeno visto» rispose Ido.

«Hai rinunciato?»

Lo gnomo si deterse il sangue e il sudore dalla fronte. «Non dire idiozie, sto solo aspettando che si faccia vivo.»


Non appena il sole superò lo zenit, annunciando l’inizio del pomeriggio, Deinoforo fece la sua comparsa sul campo. D’un tratto Ido vide alzarsi del fumo davanti a sé e numerosi soldati fuggire colti dal panico. Due ali di uomini si aprirono e lo gnomo si trovò di fronte l’imponente drago che gli sbarrava la strada. In groppa all’animale, spiccava la fiammeggiante armatura rossa del suo nemico. L’ora era giunta.

«A quanto pare siamo all’ultimo atto» disse Deinoforo.

Ido tacque. Il sangue gli salì alle tempie e lo sguardo volò al braccio del Cavaliere. Al posto della mano perduta c’era un arto meccanico, il cui metallo baluginava alla luce del pallido sole.

«Stavolta non mi accontenterò di nulla di meno della tua vita» aggiunse il Cavaliere di Drago Nero.

«Non credere che per me sia diverso» rispose Ido. Levò la spada in segno di saluto e Deinoforo fece altrettanto.

Si scagliarono l’uno contro l’altro e si alzarono in cielo facendo cantare le spade.

Dapprima si studiarono, e lo stesso fecero i draghi che, al pari dei loro Cavalieri, avvertivano la fatalità dello scontro. Ido e Deinoforo fraseggiarono con le spade, intrecciarono complessi arabeschi di parate e attacchi fra le scintille che scaturivano dall’urto delle armi. I draghi contraevano i fianchi e scartavano di lato per schivare i colpi e i Cavalieri si contorcevano in sella per dar forza ai fendenti ed efficacia alle mosse di difesa.

Ido notò subito che gli strani bagliori che illuminavano l’armatura di Deinoforo erano spenti e la sua spada brillava solo per il riverbero della luce del pomeriggio. Dunque era stato un incantesimo a rendere invincibili quella spada e quell’armatura, ma Nihal con il suo rito lo aveva spazzato via.

Combatterono a lungo, senza che nessuno dei loro colpi andasse a segno: sembravano divertirsi, a rincorrersi e sfuggirsi con le spade, quasi stessero giocando. Poi Ido fintò e una stoccata raggiunse l’armatura di Deinoforo; il colpo era stato abbastanza vigoroso e la corazza venne scalfita. I due si separarono.

Ido scoppiò in una risata, mentre cercava di riprendere fiato. «Oggi non hai nessuna diavoleria magica dalla tua» disse. Indicò il metallo danneggiato.

Deinoforo riprese fiato. «Non sarà certo questo a impedirmi di prendere la tua testa.»

Si gettò su Ido con violenza e lo scontro riprese. Sotto di loro la battaglia infuriava, migliaia di uomini cadevano per forzare i pesanti battenti della Rocca o per proteggerli, ma per i due Cavalieri c’erano soltanto il cielo e il nemico.

A ogni scontro con Deinoforo, Ido vedeva venirgli incontro tutto il suo passato, con il suo seguito di fantasmi e di rimorsi. Ripensava a suo fratello Dola, ai molti nemici che aveva sconfitto e al Tiranno, all’orribile eredità che gli aveva piantato nel cuore e a tutto ciò che gli aveva sottratto, suo padre e suo fratello per primi. Intensificò gli attacchi, ma sapeva che il duello vero ancora non era iniziato.

Poi, quando Ido non se l’aspettava, la mano meccanica di Deinoforo lo agguantò con una presa decisa, mentre cercava l’unico occhio rimasto.

Ido si difese con un fendente. La mano metallica mollò la presa, ma si portò via un brandello di pelle. Lo gnomo vide di nuovo tutto rosso, come il giorno in cui era diventato orbo. Spaventato, si rannicchiò su Vesa e fuggì.

Stavolta fu Deinoforo a ridere. «Vedo che ricordi quel giorno, Ido. Anch’io non posso dimenticarlo, perché prima di allora nessuno era riuscito a farmi neppure un graffio, sul campo di battaglia. Tu fosti il primo e per questo non potrò mai perdonarti, fino a quando non ti avrò fatto a brandelli e avrò ripagato la mano che mi rubasti. Per questo ti odio, e perché tradisti.»

Ido cercò di riprendersi dal dolore e si asciugò il sangue che gli colava sul viso e gli annebbiava la vista. Deinoforo alzò la spada innanzi a sé e si lanciò su di lui.

Iniziarono a combattere con più foga. Molti colpi andavano a segno da ambo le parti e le armature si riempirono di ammaccature. Ido riuscì a ferire Deinoforo a un fianco, in profondità, nel punto in cui la corazza si innestava sulla parte inferiore dell’armatura. L’avversario rispose colpendolo con violenza al braccio.

Sfiancati, si separarono un’altra volta. Rimasero per un po’ a studiarsi, con odio e ammirazione, e in cuor loro gioivano, perché l’avversario che avevano davanti era fuori dal comune.

«I veri guerrieri si affrontano a terra» disse Deinoforo, e ripose la spada nel fodero. «Ti propongo di continuare lo scontro senza i draghi.»

Ido annuì e ripose a sua volta la spada nel fodero; aveva troppa stima del suo avversario per sospettare che si trattasse di un trucco e che Deinoforo intendesse approfittare di quella pausa per colpirlo.


Scelsero un luogo isolato, lontano dal clamore della battaglia. Mentre si preparavano a continuare il duello, Ido dovette ammettere con rabbia che quell’uomo era un vero Cavaliere. Sapeva come stare su un campo di battaglia e, sebbene militasse nell’esercito del Tiranno e fosse spietato, aveva un suo codice d’onore.

«Non credo che il tuo capo sarebbe contento di te. Avevi l’occasione di ammazzarmi a tradimento e non l’hai fatto» disse Ido, mentre puliva dal sangue la spada.

«Il mio Signore sa com’è fatto questo suo servo, mai mi chiederebbe di venir meno a ciò in cui credo. Mi conosce meglio di chiunque altro.»

Ido rise. «Come puoi stare in quell’esercito di bestie? Proprio tu che hai militato nelle nostre file. Mi ricordo di te, Debar.»

Deinoforo sussultò. «Anch’io mi ricordo di te e dei tuoi patetici insegnamenti.»

«Insegnamenti che usi tuttora, a quanto ho avuto modo di vedere» replicò Ido.

Deinoforo si voltò di scatto. «Credi che il tuo esercito sia migliore? Non hai visto i tuoi leali uomini gettarsi sui fammin indifesi e spaesati, e ridere mentre li facevano a pezzi? Ti sembra un comportamento da guerrieri?»

Era vero. Non appena i soldati delle Terre libere si erano accorti che i fammin non erano più una minaccia, in molti si erano lanciati su di loro per massacrarli. Ido aveva cercato di impedirlo, uccidere i fammin ora che erano senza difese era da codardi, inutile e crudele, ma la strage era continuata.

«A questo non sai rispondere, eh, Ido?» continuò Deinoforo. «Hai abbandonato il nostro Signore per unirti a questa gente che striscia nel fango.»

«Io fuggii dalla spietatezza del Tiranno, da un mostro che mi costringeva a massacrare degli innocenti» ribatté Ido. «Tu combatti per chi ci toglie ogni speranza.»

«Combatto per l’unico che può dare speranza a questo mondo» rispose Deinoforo. «E lo dico perché mi parlò e mi tolse dall’errore in cui navigavo. Mi indicò la strada della salvezza. Perché questa terra non ha mai raggiunto la pace, Ido? Te lo sei chiesto?»

«Finché ci sarà gente come il mostro per il quale combatti, non ci potrà mai essere pace.»

Deinoforo non fece neppure caso a quelle parole. «Perché la gente di questo mondo è incapace di governarsi, perché lasciata a se stessa non fa altro che uccidersi. Furono l’odio e la meschinità della gente per cui ora combatti a togliermi tutto. Furono i miei stessi compagni d’armi, le persone che mi avevano visto crescere, a violentare mia sorella e a linciare la mia famiglia. Io mi salvai per miracolo. Vagai per mille contrade, fuggii da me stesso e da ciò che ero stato, senza avere più nulla in cui credere, e quando giunsi al fondo della disperazione fui fatto prigioniero dal Tiranno. Egli mi svelò tutto. Mi raccontò della guerra dei Duecento Anni, della falsa pace di Nammen, dell’odio che da sempre percorre queste lande. Mi disse che tutto sarebbe finito, con Lui. Quando le Otto Terre saranno soggette solo al Suo comando, ci saranno pace e giustizia ovunque. Per questo ho abbandonato il vostro esercito, per entrare nella Sua Luce. E per questo ti batterò, Ido, tu che hai tradito.»

Si tolse l’elmo e Ido riconobbe il giovane che aveva militato con lui, i capelli ricci, gli occhi grigi e pensosi. Non era cambiato molto, aveva il volto più adulto e tormentato, ma era lo stesso di allora. Anche Ido si tolse l’elmo ed esibì la cicatrice che gli solcava mezza faccia.

Deinoforo sguainò la spada e lo gnomo non fu abbastanza pronto. La lama nemica lo ferì a una gamba. Cadde in ginocchio e Deinoforo sollevò la sua arma, pronto a dargli il colpo di grazia. Ma Ido non era sconfitto e il combattimento riprese. Mandò a segno altri due colpi e Deinoforo iniziò a perdere molto sangue. Entrambi caddero a terra e lo scontro riprese con furia, ma ormai erano allo stremo, feriti e stanchi.

«Puoi ingannare tutti gli altri con questo tuo edificante raccontino» iniziò Ido «ma non me. Io ho combattuto con il Tiranno e so quali sono i motivi che spingono a diventare suoi gregari. Pace? Armonia? Vendetta, piuttosto. Anch’io rimasi al suo servizio per saziare la mia voglia di uccidere, perché c’erano sempre nuove battaglie da combattere, nuovi nemici da sconfiggere e sangue a volontà. Tu non lo fai per altro che per questo.»

Deinoforo si scagliò di nuovo su di lui. I loro colpi ormai erano imprecisi, ma la battaglia era giunta al culmine. D’improvviso, ciascuno dei due rappresentava per l’altro tutto ciò che aveva cercato di seppellire in fondo a se stesso, e lottavano per sopravvivere.

«Tu non sei degno di giudicare né me né il mio Signore» disse Deinoforo nella foga del duello colpendo Ido al petto.

Lo gnomo cadde a terra, ma la corazza aveva attutito il colpo. Deinoforo fu su di lui con un balzo e cercò di infliggergli la stoccata finale. Ido la schivò spostandosi di lato.

«Smettila di raccontarti menzogne» ribatté lo gnomo, e di nuovo vide gli occhi del suo avversario brillare.

«Taci!» gli intimò Deinoforo.

Ido si alzò in piedi; il dolore al petto era terribile e dovette sorreggersi alla spada. «Tu stai con il Tiranno soltanto per vendicarti» proseguì «il resto sono fandonie, e lo sai. Quanti innocenti hai ucciso? Credi di essere diverso da coloro che hanno assassinato la tua famiglia?»

Ido vide il dubbio farsi strada negli occhi del suo rivale e capì di aver toccato i tasti giusti, ma presto quel barlume di incertezza venne sommerso dall’ira. Deinoforo riprese in mano la spada e si lanciò sullo gnomo.

Ormai non era più un duello, era quasi una rissa, una lotta senza quartiere. I movimenti dei due erano scoordinati e quasi nessun colpo andava a segno. Ido si costrinse a combattere con più convinzione e quando vide l’elsa della sua spada, stretta nella mano insanguinata, d’un tratto ricordò tutto ciò che lo aveva portato su quel campo di battaglia, gli anni di guerra e la sensazione di non poter riscattare il male compiuto. Ritrovò le ragioni che l’avevano spinto ad affrontare Deinoforo. Doveva affermare la sua scelta, l’imperativo morale che lo aveva salvato quando aveva abbandonato le truppe del Tiranno.

Strinse la mano sull’elsa della spada e riprese a combattere, aggrappato alle ultime energie che gli erano rimaste. Il suo scatto stupì Deinoforo, che indietreggiò preso alla sprovvista.

Ido vide l’atteggiamento del suo avversario mutare davanti ai suoi occhi. Sembrava che le sue forze si fossero esaurite, che si sentisse già sconfitto e avesse perso la voglia di combattere, nonostante fosse in vantaggio. Un colpo raggiunse Deinoforo a tradimento al ventre, sotto l’armatura, dove già una volta la spada di Ido aveva trovato la via facile, ma stavolta la lama si immerse in profondità e il Cavaliere cadde al suolo.

Ido guardò il sangue del suo nemico bagnare la terra e allargarsi lento in una chiazza rossastra, e capì d’averlo sconfitto. Sentì, amaro, il sapore della vittoria.

«Hai smesso di combattere...» mormorò Ido, mentre riprendeva fiato. Si era accorto che Deinoforo aveva abbassato la guardia. «Perché ti sei fatto ammazzare?»

Deinoforo respirava a fatica e accennò un sorriso. «Non c’è nulla da dire, mi hai battuto. Ma sono felice che sia stato tu, morirò per mano del Cavaliere più forte del campo.»

Lo gnomo vide Deinoforo chiudere gli occhi e cadde a terra sfinito. Quando sentì che il suo nemico aveva smesso di respirare, senza sapere perché, iniziò a piangere. Piangeva per Deinoforo, per suo fratello, per la guerra e il sangue versato. Poi, il buio calò su di lui e sulle sue lacrime.


40 La guerra di Nihal e Aster


Quando Ido l’aveva lasciata, Nihal aveva indietreggiato per portarsi più vicino al confine e aveva iniziato a combattere, dapprima sola, poi circondata dalle truppe delle Terre libere, che nel frattempo avevano sfondato la linea del fronte.

Si avvicinava sempre più alla Rocca. A un tratto alzò lo sguardo e si accorse che la fortezza del Tiranno la sovrastava. Nihal non l’aveva mai vista tanto da vicino: era nera, un groviglio di pinnacoli, statue e mostruosi ornamenti. Le truppe stavano combattendo tra i suoi enormi tentacoli, ciascuno dei quali si allungava minaccioso verso una Terra del Mondo Emerso. Come tutte le cose terribili, la costruzione era di una bellezza inquietante: il tetto era acuminato e lambiva il cielo in un sogno di dominio senza fine, mentre la sua base era larga e massiccia. I nemici uscivano a migliaia dai tentacoli e dai passaggi segreti, ma molti di loro erano fammin che vagano spaesati per il campo, per poi essere trucidati.

Per qualche secondo Nihal restò con gli occhi al cielo, soggiogata dalla grandezza di quella costruzione, dal senso di oscuro mistero che emanava, insieme a un’attesa gravida di minaccia. Poi si riscosse e riprese a combattere. La potenza dell’amuleto le mozzava il fiato in gola. Nihal sentiva le energie fluire dalle otto pietre del talismano, che a poco a poco si intorbidavano sempre più.

Si batteva con coraggio e con foga, in groppa a Oarf, mentre vedeva la Rocca ingigantirsi e i portoni che la chiudevano farsi sempre più vicini.

Infine, quando il pomeriggio aveva steso le sue dita sulla piana, Nihal giunse con un drappello a ridosso dei battenti neri.

I soldati approntarono un ariete e iniziarono ad abbattere le porte; forse un tempo c’era stato un incantesimo a vincolarne la serratura, ma ora erano solo due pesanti pezzi di legno che cedevano sotto i colpi dell’ariete. Non ci volle molto per vincerne la resistenza e si abbatterono al suolo con un tonfo.

Nihal levò la spada. «Avanti!» urlò con quanto fiato aveva in corpo.

In quell’istante pensò a Seferdi, al suo portone divelto, e gioì all’idea che stava restituendo al Tiranno parte del male inflitto alla città.

Quell’attimo di distrazione rischiò di esserle fatale.

Un nemico, alle sue spalle, stava prendendo la mira con l’arco, forse inconsapevole che con quel gesto era sul punto di decidere le sorti della guerra.

Raven, occupato a ristabilire la calma in mezzo alla mischia esultante, vide l’arco lontano puntato contro la loro unica speranza e non esitò. Si lanciò nella direzione della freccia e si frappose sul suo cammino.

Nihal ebbe solo il tempo di voltarsi e vedere la freccia destinata a lei penetrare con facilità la corazza del Supremo Generale e conficcarsi nel suo petto. La mezzelfo capì che cos’era accaduto e rimase ferma a guardare la morte di un vecchio nemico che le aveva salvato la vita.

Per ironia della sorte, ad aprirle la strada era stato proprio chi in passato aveva fatto di tutto per chiudergliela.

«Vai!» disse Raven, prima di cadere dal drago e rotolare a terra.

Fu l’ultimo ordine del Supremo Generale e Nihal obbedì. Si voltò verso le porte sfondate e con un urlo si precipitò dentro, in groppa a Oarf, seguita da molti uomini.


L’interno della Rocca era invaso dall’oscurità. Nihal si trovò in un corridoio dalla volta a sesto acuto, tanto ampio che Oarf poteva passarci comodamente. Lo percorsero in un silenzio assoluto, quasi quell’immenso palazzo fosse disabitato.

Nihal non riusciva a percepire nulla, nonostante l’incantesimo avesse acuito le sue capacità. Eppure il Tiranno doveva essere lì: vie di fuga non ce n’erano, la piana era invasa dagli eserciti. A lungo, Nihal e gli uomini entrati con lei non sentirono altro che i propri passi sul pavimento. Poi, da lontano, giunse un rapido scalpiccio. Guardie in avvicinamento.

Nihal brandì la spada innanzi a sé. In breve la sala si riempì di innumerevoli creature mostruose, di una razza indefinibile. Somigliavano ai fammin, ma erano più piccoli, glabri e magrissimi; la pelle rossiccia si tendeva sulle loro ossa innaturalmente lunghe. Erano armati e si gettarono sul nemico senza esitare. Il Tiranno doveva aver dato vita a quei servi senza ricorrere alla magia, tramite l’incrocio di razze o per mezzo di qualche alchimia.

Lo scontro nel corridoio fu lungo e sanguinoso. Nihal combatté con la spada, mentre Oarf si abbatteva con la forza delle sue mascelle su quegli esseri sciancati, eppure incredibilmente forti e agguerriti. Sembravano non finire mai; non appena una fila veniva abbattuta, subito ce n’era un’altra pronta a immolarsi.

Nihal a un tratto capì che era giunto il momento di andare avanti con Oarf. Così avanzò di quel tanto che bastava per lasciarsi alle spalle i soldati, quindi ordinò al drago di sputare fuoco. Una strada lastricata di corpi bruciati si aprì innanzi a lei. «Chi può mi segua!» urlò, e riuscì a forzare il blocco con alcuni dei suoi.

Si allontanarono e sbucarono in una vasta sala. Era completamente vuota e più buia del corridoio. Le pareti però brillavano di una luce sinistra: cristallo nero. Nihal e i suoi ripresero ad avanzare. Furono attaccati da una moltitudine di quegli esseri disgustosi, ma Oarf li spazzò via con le fiamme.

Superarono molti corridoi e stanze tutte identiche e vuote, e si ritrovarono in uno spazio aperto. Doveva trattarsi di un’arena. In un angolo, infatti, c’erano enormi rastrelliere per le armi, ora vuote, e numerosi ceppi, le cui catene erano tanto massicce da poter trattenere dei draghi.

Nihal si alzò in volo con Oarf, nella speranza di individuare il luogo dove Aster si nascondeva, ma non c’era nulla che la aiutasse a orientarsi. Su un lato dell’arena si innalzava il corpo della torre centrale della Rocca, trapunta da un’infinità di finestre, di cui molte illuminate. Erano disposte in modo irregolare, quasi casuale. Quella costruzione aveva l’aria di essere una sorta di labirinto.

Nihal iniziò a scendere. Fu allora che il suo sguardo cadde su un dente lontano della Rocca. Era basso e tozzo, e in parte sembrava sprofondare nelle viscere della terra. Sui lati si aprivano anguste finestre, chiuse da pesanti sbarre. Prigioni. Nihal sentì un tuffo al cuore. Sennar poteva essere lì. Sennar era lì!

Ebbe l’impulso di correre in quella direzione e cercarlo, ma si trattenne. Aveva promesso di portare a termine la missione. Salvarlo e non abbattere il Tiranno sarebbe stato inutile, nel mondo di Aster non c’era posto per loro due. Doveva trovare quel maledetto il prima possibile.

Non appena Oarf si fu posato a terra, Nihal si guardò intorno e si rese conto che il drago non sarebbe potuto entrare nelle stanze che le si paravano di fronte; intravedeva solo aperture piccole, a misura d’uomo o poco più.

«Devo abbandonarti qui, non puoi più seguirmi» disse dopo essersi voltata verso Oarf. Il drago rispose con un grugnito di diniego, ma Nihal gli accarezzò il muso. «Combatti qui, trattieni le guardie, anche così mi sarai utile. Ci vedremo quando tornerò vittoriosa» disse, e per la prima volta da quando lei e il suo drago si conoscevano, gli diede un timido bacio sul muso. Poi si lanciò verso una delle porte.

C’era ancora qualche uomo con lei, ma erano pochi. Attraversarono molti saloni, stanze zeppe di libri, sale d’armi; sembrava di girare in tondo, senza riuscire a individuare la meta. Di tanto in tanto qualche sentinella cercava di sbarrare loro la strada, ma Nihal le spazzava via senza difficoltà. Alcuni dei suoi soldati rimasero indietro a combattere, altri caddero negli scontri.

Il tempo trascorreva inesorabile e quando la mezzelfo guardò fuori da una delle finestre, si accorse che era pomeriggio inoltrato. Doveva agire in fretta. Quando il sole fosse calato, avrebbe trascinato con sé ogni speranza.

Il dolore che le attanagliava il petto aveva iniziato a diffondersi a tutto il corpo e una stanchezza profonda si impadroniva di lei; le pietre del talismano erano sempre più scure.

Non prima di aver compiuto quel che devo. Non prima di averlo rivisto e salvato.

Giunse infine in una sala immensa, alta decine di braccia e infinitamente lunga, tanto che la parete opposta non era visibile. Era zeppa di libri; molti Nihal li aveva già visti, ma molti altri le erano sconosciuti. Alcuni erano in idiomi ormai caduti in disuso, scritti in simboli arcani e vergati in rune di morte, foriere di sventura.

La biblioteca. Era lì che il Tiranno aveva costruito la sua magia e la sua forza.

Nihal iniziò a vagare tra gli scaffali, alla ricerca dell’uscita, ma non la trovò e finì col girare in tondo. Quando per l’ennesima volta si ritrovò al punto di partenza, levò un grido e si gettò con la spada sul primo scaffale che aveva davanti. Una nuvola di fogli e schegge di legno l’avvolse, mentre lei continuava la sua opera di distruzione, finché non udì un grido e si fermò.

Ai suoi piedi, tremante, c’era un uomo magro ed emaciato, che stringeva le ginocchia tra le braccia. «Non mi uccidere, non mi uccidere!» ripeteva con una vocina stridula e servile. «Non ho fatto niente!»

Quell’assurda cantilena e il tono lamentoso della voce dell’uomo le fecero salire il sangue alla testa. Nihal sollevò la spada su di lui, ma quello le si aggrappò alle ginocchia.

«Risparmiami!» urlò.

Nihal lo allontanò con un calcio. «Dov’è il tuo padrone?»

Quello scosse la testa terrorizzato. «Io... io non lo so...»

«Dov’è il Tiranno?» gridò Nihal, mentre gli puntava la spada alla gola. «Dimmelo o ti ammazzo.»

«Nella sala del trono!» rispose subito l’omuncolo.

«Idiota! Non so dove si trovi la sala del trono. Indicami la strada!» urlò ancora Nihal.

L’uomo alzò una mano e indicò una direzione, in fondo alla sala; tremava convulsamente. «L-l-l-là in f-f-f-fondo ci sono i laboratori... s-s-s-se li a-a-attraversi trovi delle scale.» Deglutì. «Salile per v-v-venti rampe e troverai quello che c-c-c-cerchi.»

Nihal corse verso la direzione indicatale. Le ci volle qualche minuto per attraversare la biblioteca, ma infine sbucò in un nuovo ambiente, più angusto. Il buio era fitto e regnava un odore insopportabile di stantio e di muffa, assieme a quello dolciastro della putrefazione. Laboratori. Quelli erano i laboratori.

Nihal iniziò a tremare, perché immaginava cosa potesse essere celato in quel luogo. Non appena i suoi occhi si furono abituati all’oscurità, poté vedere con chiarezza. Quel posto le ricordò l’antro di Reis. Dal soffitto pendevano erbe di ogni tipo e gli scaffali erano pieni di strani barattoli e albarelli. Nihal avanzò cercando di non guardare, perché era già sazia di orrori, ma presto fu investita dall’odore del sangue. Fu allora che li vide.

C’erano corpi sezionati, barattoli colmi di organi e carne sanguinolenta. C’erano strane creature in catene, alcune delle quali cercarono di avventarsi contro di lei non appena la videro, e incroci tra razze, membra straziate, esperimenti mostruosi. Nihal non poté fare a meno di pensare a Malerba. Era da lì che proveniva, dunque.

L’ira la travolse e i suoi passi si fecero sempre più rapidi, fino a diventare una fuga precipitosa. Corse più veloce che poté, con il petto in fiamme, e quando vide le scale le parvero la salvezza. Vi si gettò e iniziò a salirle a grandi falcate.

Dove sei, maledetto, dove sei?

La salita le parve interminabile e dopo un po’ dovette fermarsi perché le mancava l’aria. Il dolore era aumentato e Nihal si accasciò sulle scale. Guardò il talismano e vide che due pietre erano ormai nere. Il tempo passava inesorabile e lei non poteva permettersi il lusso di indugiare.

Non c’era solo il Tiranno ad attenderla, ma anche Sennar. Per un istante l’immagine del mago si sovrappose agli orrori che aveva visto nel laboratorio, ma Nihal scacciò subito quel pensiero. Doveva alzarsi e andare avanti. Si sollevò, ma le mancava il fiato.

Infine, giunse alla sala. Si riposò un istante, mentre il cuore iniziava a batterle più forte. Sentiva una presenza in quel luogo. C’era qualcuno. Aster.

Nihal si guardò intorno. Era un immenso salone dalla volta acuta, diviso in cinque navate da colonne tanto grandi che tre uomini non sarebbero bastati a circondarne la base con le braccia. Non c’erano decori, non c’erano statue né bassorilievi, solo ampie pareti nude e l’imponenza delle enormi vele sul soffitto.

Nihal si sentì minuscola. Ora però percepiva distintamente l’emozione che pervadeva l’ambiente: era la disperazione, una disperazione tanto profonda da non avere parole per descriverla, e poi c’era la solitudine, schiacciante.

«Perché indugi, ora che sei arrivata?»

Nihal sentì il cuore scoppiarle in petto. Era lui. La voce però non era quella che si aspettava. Aster doveva essere anziano, ma quella non era la voce di un vecchio; sembrava una voce di donna, o di bambino. Nihal si alzò in piedi e puntò la spada innanzi a sé. Iniziò ad avanzare nella sala, il rumore dei suoi passi riecheggiava fra le pareti nude.

Attraversò due navate e giunse in quella centrale, larga almeno trenta braccia. Il fondo era buio, ma Nihal sapeva che lui era lì. Avanzò ancora e a poco a poco l’oscurità fu rischiarata da una tenue luce. Nihal intravide la sagoma di un trono altissimo.

«Non ha più senso avere paura, ora che sei qui» disse ancora la voce.

«Sei Aster?» Nihal si fermò. Ora era calma, non provava più odio, solo paura, un terrore sottile e gelido.

«Sì» disse la voce.

Era lui. Infine.

«Dopo avermi odiato per tutto questo tempo, non vuoi vedermi?» chiese il Tiranno.

Nihal avanzò e iniziò a distinguere la figura seduta sul trono. Era incredibilmente minuta, un uomo a metà. Uno gnomo, forse? La figura si alzò e fece qualche passo avanti, finché non si trovò sotto il cono di luce proiettato da una vetrata dietro il trono. Nihal raggelò e la spada le tremò fra le mani.

Dinanzi a lei c’era un bambino di una bellezza inquietante. Poteva avere al massimo dodici anni. Indossava una lunga casacca nera, con un largo colletto e un occhio blu dipinto sul petto; una casacca da mago. Gli occhi brillavano di un verde smeraldo e i capelli erano d’un blu profondo, ricci, con qualche boccolo capriccioso che scendeva sulla fronte. Sotto quella coltre del colore della notte spuntavano due orecchie appuntite.

«Aster dove sei?» chiese Nihal con la voce rotta dalla paura, non osando guardare oltre il bambino.

«Sono qui, sono io» rispose tranquillo il piccolo mago.

«Che cos’hai fatto a questo bambino, mostro!» urlò Nihal.

Il bambino si rattristò. «Ma come, Nihal, non ti sei sempre sentita sola? Non ti è sempre pesato essere l’ultima della tua razza? Dovresti essere contenta di vedermi...» Sorrise. «Non sei più sola, Nihal, anch’io sono un mezzelfo.»

Nihal indietreggiò terrorizzata. Non poteva essere. «Aster è un vecchio, sono quarant’anni che regna.»

«Sono più vecchio di quel che sembro, Nihal, sono molto vecchio e molto stanco, a dire il vero.»

«Non è possibile!»

«Fu il padre della donna che amavo a darmi questo aspetto. Era un mago potente e quando scoprì il nostro amore mi impose un sigillo. Fino al giorno della mia morte, io resterò bambino.»

Nihal continuava a indietreggiare, inorridita. Le sembrava un incubo. Aster la guardava con occhi innocenti e stupiti.

«Ti capisco, sai? Mi hai odiato per tutti questi anni, e adesso devi far coincidere l’immagine che ti eri fatta di me con il bambino che hai davanti. Eppure è così.»

Nihal si arrestò e alzò la spada, come se da un momento all’altro Aster potesse ucciderla. Era confusa, disorientata.

Aster continuò ad avanzare verso di lei. Più si avvicinava, più Nihal sentiva crescere il terrore dentro di sé. Si costrinse a guardare il suo nemico negli occhi. Ciò che vide furono i suoi stessi occhi. Non c’era odio, né la malvagità che Nihal era sicura di trovarci. Aster continuava a guardarla tranquillo, quasi accorato. Era proprio un mezzelfo.

La ragazza non aveva mai visto un suo simile, ma percepiva con chiarezza che quel bambino era come lei, come le figure sulla pergamena che Sennar le aveva dato tanto tempo prima, come le creature dei bassorilievi di Seferdi. Iniziò a tremare.

«Cos’è che ti terrorizza tanto di me? Che sono un bambino? O che sono un mezzelfo?» chiese Aster.

«Come hai potuto... tu sei uno di noi...» mormorò Nihal. «Erano i tuoi fratelli quelli che hai fatto sterminare...»

Aster sorrise. «Ho dovuto farlo» disse calmo. «Quando cominciai a costruire tutto ciò che vedi, quando iniziai la mia missione, un vecchio profetizzò che tu ti saresti messa sulla mia strada. Non mi disse di te, mi disse solo che un mezzelfo, come me, mi avrebbe ostacolato. Ciò che dovevo fare era troppo grande e troppo importante perché potessi permettere a qualcuno, chiunque fosse, di intralciarmi il cammino. Allora mandai le mie creature, i fammin che da poco avevo creato, nella Terra dei Giorni, e feci sterminare la mia stirpe.» La voce di Aster era gelida e indifferente.

«Non può essere come dici...»

«Invece sì, Nihal, l’ho fatto per causa tua. Se tu non ti fossi messa in testa di venire fin qui, dentro la mia dimora, a vendicarti, i mezzelfi sarebbero ancora nella loro Terra. Forse si troverebbero sotto il mio giogo, ma sarebbero vivi.»

Nihal riprese a indietreggiare, mentre le ultime parole del Tiranno le rimbombavano nella mente.

L’aveva sempre saputo, aveva sempre sentito di essere la causa di mille sventure, di portare la morte sul suo mantello. Molte vite si erano consumate per lei: il suo popolo, Livon, Fen, Laio, Raven... erano morti per causa sua.

«Non ti rammaricare» riprese Aster. «Alla fine sarebbero morti comunque. I mezzelfi, i tuoi amici, i popoli liberi, i popoli schiavi. Tutti.»

«Sei un mostro!» esclamò Nihal, giunta con le spalle al muro.

«Certo» disse Aster. «Non più di altri, però. Non più di te, o dei tuoi soldati, o di una qualsiasi delle creature senzienti che popolano questo mondo sciagurato. Non sono tutti là fuori a scannarsi a vicenda? Non sono davanti al mio palazzo a uccidersi senza pietà, provando gioia nel farlo?»

«Noi combattiamo per la libertà» ribatté Nihal.

«Voi vi illudete di combattere per la libertà» la corresse il Tiranno. «Eppure ormai dovresti avere capito. Sai che la pace non ha mai abitato queste lande, sai che i cinquant’anni di Nammen di cui voi ribelli vi riempite tanto la bocca furono solo cinquant’anni di guerre, silenti ma non meno sanguinose, sai che furono gli uomini ad abbattere Seferdi. Sai tutto, ma ti ostini a non voler vedere.»

«Ti sbagli. Vedo eccome. Ho visto i mostri nei tuoi laboratori, ho visto Malerba, ho visto i corpi appesi a Seferdi, ho visto i fammin costretti a combattere contro il loro volere. E sei tu l’artefice di tutto questo. Tu sei il Male, sei l’Odio» rispose Nihal tutto d’un fiato.

«Già, tu sei un’esperta in fatto di odio» ribatté Aster. Il suo sguardo si fece tanto penetrante che Nihal dovette abbassare gli occhi. «Hai massacrato centinaia di fammin senza chiederti se fosse giusto, per il piacere di uccidere. Hai amato la sensazione del sangue dei morti che ti scorreva sulle braccia, ti sei sentita potente ogni volta che hai trapassato a fil di spada uomini e gnomi. Vite spazzate via dalla tua lama nera. E non venirmi a raccontare che non eri crudele, perché non credo che sia stata una gran consolazione per tutti coloro che hai ammazzato.»

Nihal sentiva quelle parole scenderle fin nel profondo dell’anima e, una volta lì, scavare un solco dal quale uscivano a frotte tutti i fantasmi del passato, tutto ciò che credeva di aver seppellito in fondo al cuore. Era vero. Aveva amato il sangue e aveva ucciso per il piacere di farlo. «Tu non sei meglio di me!» urlò esasperata.

«Certo, ma allora che cosa ci fai qui? Ti senti in diritto di giudicarmi e punirmi? Nihal, viviamo in un mondo di imperdonabili peccatori, tutti siamo mostri» disse Aster calmo.

Nihal era colma d’ira. Quell’essere non si scomponeva, non si adirava, non la odiava. Come era possibile che la malvagità non fosse frutto dell’odio? Che sorgesse dal raziocinio? Erano la spietata freddezza di quel bambino, i suoi occhi pur sempre puri che Nihal non riusciva a comprendere e a odiare.

Aster iniziò a camminare avanti e indietro per la sala e Nihal seguì i suoi movimenti, come incantata. Il sole, dietro la vetrata, aveva iniziato la sua parabola discendente.

«Ne ho visti molti dei cosiddetti eroi delle Terre libere, e tutti dicevano le stesse cose: "Lottiamo per liberare questo mondo, per dargli una speranza". Non metto in dubbio che ci crediate, ma il vostro non è altro che un patetico tentativo di cercare una consolazione.»

«L’aspirazione a una vita pacifica e alla libertà è l’anelito più alto che un essere vivente possa avere» disse Nihal.

Aster scoppiò a ridere. «Oh, che parole poetiche! Non me le sarei mai aspettate da chi come te sa fraseggiare solo con la spada.» Riprese a camminare, poi si voltò di scatto. «Consolazione, null’altro. Vane illusioni destinate a spegnersi al soffio della brezza più lieve. Vi ci aggrappate come se fossero verità eterne, come se non ci fosse altra certezza che l’intrinseca bontà delle creature del Mondo Emerso. Ebbene, l’unica certezza è l’Odio. In questo mondo spira un vento malefico, che avvelena gli animi e corrompe i cuori; la malvagità permea ogni cosa, infetta la terra. Tutto è impregnato di odio, di desiderio di distruzione. Questa è l’unica verità che non possa essere confutata.»

«Io ho conosciuto persone pure» ribatté Nihal in tono disperato. «Persone che mi hanno aiutata quando ero rimasta sola, persone dedite al bene.»

«Lo erano solo perché non avevano ancora avuto l’occasione di comportarsi diversamente. Tutte le creature senzienti di questo mondo sono buone e gentili, finché l’odio che è in loro non trova una via per manifestarsi.» Si fermò e la fissò. «Anche il tuo caro Laio, il buon scudiero incapace di combattere, ha trovato infine la forza di uccidere.»

«Non osare infangare la sua memoria!» urlò Nihal.

«Non è mia intenzione» ribatté Aster con calma. «Ti sto solo provando che il bene è effimero e il male eterno. Ho sofferto molto per giungere a questa consapevolezza, ma l’ho accettata.» Aster tacque per un istante, e quando riprese sembrava che parlare gli costasse fatica. «Nihal, io ho creduto a lungo in ciò in cui credi tu. Io non sono un mezzelfo puro: mia madre era una mezzelfo, ma mio padre era un uomo. A quel tempo i matrimoni misti erano considerati una vergogna e le donne che se ne macchiavano erano destinate a una vita miserabile. Mia madre cercò a lungo di tenere nascosto il suo amore per mio padre, ma quando io nacqui, la verità non poté più essere celata. Non esistono mezzelfi con gli occhi verdi, Nihal. Per ordine del capo del mio villaggio, mio padre fu ucciso e mia madre marchiata a fuoco con il simbolo delle sgualdrine. Non avevo neppure tre anni quando divenne chiara la mia predisposizione alla magia. Forse fu l’effetto dell’incrocio tra le due razze, in ogni caso recitavo formule, parlavo con gli animali, e senza che nessuno me lo avesse insegnato.

«All’epoca, i maghi erano odiati nella Terra dei Giorni; il re aveva ordinato che fossero mandati in esilio, perché aveva paura del loro potere. Ebbene, fui condannato subito e senza appello; era l’occasione per togliersi di torno due scarti della società, un bastardo e una puttana. Ci costrinsero a vivere nel buio eterno della Terra della Notte.

«Eravamo poveri e non eravamo benvoluti da nessuna parte. Io per il mio aspetto e i miei inquietanti poteri, lei per il marchio che aveva sulla fronte. Fu una fanciullezza solitaria, la mia, e in quella solitudine l’Ideale fece il suo ingresso nella mia vita e infiammò il mio animo. Credevo con tutto me stesso che questo mondo potesse diventare perfetto, che tutti potessero avere pace e benessere, smettere di soffrire, e volevo contribuire a tale trasformazione. Mia madre ottenne di farmi studiare presso un mago e così iniziai il mio addestramento. In realtà non c’era molto che quel mago potesse insegnarmi e che io già non sapessi, ma quel maestro fu comunque una buona guida. Due anni dopo mia madre morì, in una delle tante guerre tra signorotti del luogo.

«Divenni mago a quattordici anni; nessuno era mai stato consacrato a un’età tanto giovane. Ricordo ancora la paura e lo stupore sui volti di coloro che mi esaminarono quel giorno. Mi ammiravano e mi temevano al tempo stesso. Poi chiesi al mio maestro di mettermi sotto la guida di un consigliere. Mia madre mi aveva parlato spesso di loro e io favoleggiavo di severi signori dalle lunghe barbe, chiusi in una sala a discutere dei destini del mondo. Volevo essere come loro. Furono due anni di studio durissimi. Ero chino sui libri giorno e notte, viaggiavo fino a biblioteche lontane, per impadronirmi di tutto lo scibile umano. Dormivo poco e mi sfinivo a furia di incantesimi. Fu così che trovai oscuri frammenti che parlavano della vita e del governo degli elfi, che scoprii che avevano unificato il Mondo Emerso sotto un unico grande principato e che avevano un solo sovrano.

«Mi parve di aver ricevuto l’illuminazione. Otto regni erano troppi e otto regnanti inutili. Il mondo aveva bisogno di un unico sovrano, un unico saggio che avrebbe guidato e plasmato al bene le anime degli uomini. A costo del proprio sacrificio, avrebbe controllato il mondo intero e l’avrebbe retto con giustizia. Non credere che volessi essere io quell’uomo, non mi reputavo abbastanza saggio, ma più ci pensavo, più mi convincevo che sarebbe stata quella la soluzione che avrebbe restituito la pace al nostro mondo.

«Entrai nel Consiglio all’età di sedici anni, e anche questo fu un primato. Non appena iniziai il mio lavoro di consigliere, mi resi conto che le cose erano molto diverse da come le avevo immaginate, ma credo che tu già lo sappia, perché il Consiglio non è cambiato da allora. C’era chi pensava al bene comune, ma la maggioranza dei consiglieri erano uomini meschini, attaccati con le unghie e con i denti al potere che si erano guadagnati con anni di intrighi e sotterfugi. Fui molto deluso, ma non mi arresi. Esposi la mia idea del sovrano unico e mi attirai l’odio di buona parte del Consiglio. Mi dissero che ero uno stolto, che quel che volevo era un despota che piegasse al suo volere gli animi, ma ciò che temevano in realtà era di perdere il loro potere.

«In quel periodo conobbi Reis. Era la figlia di uno dei più potenti membri del Consiglio, Oren, della Terra delle Rocce. Non appena la vidi, seppi che l’avrei amata per sempre. Era bellissima e altera, al suo confronto ogni altra bellezza sbiadiva. Reis fu per me il risveglio alla vita. Dapprima ci avvicinò la passione comune per la magia, poi ci amammo. Solo dopo qualche tempo lei parlò con suo padre. Oren disse che mai e poi mai avrebbe ceduto sua figlia a un bastardo arrivista come me, con la testa piena di fantasticherie pericolose, un mezzosangue dagli inquietanti poteri. Proibì a Reis di continuare a frequentarmi, ma il suo divieto non bastò a fermarci. Continuammo a vederci a sua insaputa, ci incontravamo di nascosto, nei luoghi più impensati e nei momenti più strani. Poi, tutto questo finì.

«Oren ci colse in flagrante e la sua ira fu furibonda. Trascinò via Reis per segregarla in un luogo a me ignoto e mi fece allontanare dal Consiglio e sbattere in una lurida prigione. Un giorno venne, mi condusse fuori dal cubicolo in cui mi aveva tenuto e mi trascinò fino al suo palazzo. Lì mi gettò ai piedi di una scala; sulla sommità stava Reis, splendida come sempre. Per un attimo, credetti che Oren ci avesse ripensato, che lei lo avesse convinto a lasciare che ci amassimo. La chiamai, ma non appena si voltò a guardarmi il suo volto fu trasfigurato dal disprezzo. "Come osi presentarti di nuovo alla mia vista, verme? Mi hai ingannata. Ti sei approfittato di me per i tuoi immondi scopi. Mio padre mi ha aperto gli occhi sulla tua malvagità. Non ti perdonerò mai, finché sarò in vita. Sparisci!" mi disse.

«Sentivo provenire da lei un odio profondo e inestinguibile, che mi raggelò il sangue. "Tuo padre ti ha mentito!" gridai, ma lei mi aveva già dato le spalle e si era allontanata.

«Rimasi da solo ai piedi di quella scala, le urlai la mia innocenza, ma Reis non tornò indietro. Sentii tutto l’odio che avevo percepito in lei rotolarmi addosso e soffocarmi con il suo peso. Fu allora che capii. Reis era stata plagiata da suo padre, Oren l’aveva convinta che il mio amore non fosse altro che un mezzo per arrivare al potere. Ma aveva potuto convincerla solo perché Reis odiava se stessa. Si odiava per la sua debolezza, per aver ceduto ai suoi sentimenti per me. Oren però non voleva solo vedermi morto, voleva umiliarmi, annientarmi. Mi impose un sigillo e mi ridusse nello stato in cui mi vedi. Dapprima non compresi perché lo avesse fatto; ero un mago potente e tale sarei rimasto anche sotto le spoglie di un bambino. Poi, nella solitudine della cella, capii che in quel modo aveva impedito per sempre che qualunque altra donna mi desiderasse, mi aveva privato della possibilità di essere amato. Quindi mi fece giudicare dal Consiglio e fui condannato a morte. Non poté sopprimermi, però, perché fuggii.» Dopo quelle parole, Aster tacque.

«Tu menti» disse Nihal. «Tu hai ingannato Reis, per questo ti odia. L’hai ingannata e l’hai tenuta prigioniera alla Rocca, per approfittarti di nuovo di lei.»

Aster si voltò verso Nihal e la guardò con tristezza; i suoi occhi erano lucidi. «Non dire cose in cui nemmeno tu credi. Anni fa, nonostante il mio aspetto, volli rivederla. Quando il Cavaliere a cui avevo affidato quella missione la trovò, la portò qui alla Rocca. Dapprima Reis reagì come hai fatto tu, cercò il Tiranno intorno a me. Quando capì, fu anche peggio. Il suo volto fu trasfigurato dal disgusto. Provai a ricordarle il nostro amore, a supplicarla di non fermarsi a ciò che vedevano i suoi occhi, ma fu inutile. La tenni con me per qualche tempo, nella speranza di convincerla della purezza dei miei sentimenti, ma Reis credeva che la sua bellezza fosse tutto ciò che desideravo di lei, e il suo odio per me e per se stessa cresceva. Così deturpò il proprio viso e il proprio corpo, giorno dopo giorno. Allora capii che non avrei più ritrovato la persona che avevo amato, che il suo odio era troppo potente, e la lasciai andare. Prima però volli entrare nella sua mente per cercare un’ultima traccia del suo amore per me.» A quell’ultima frase, Nihal rabbrividì. «Fu terribile, perché la sua mente era offuscata dall’odio. Riuscii però almeno a cancellare il ricordo del mio aspetto, perché non potesse rivelarlo a nessuno.»

«Tu menti!» ripeté Nihal.

«Non mento e lo sai, perché lo senti nel cuore.»

Era vero. Nihal sentiva che Aster era sincero, che mai aveva cessato d’amare Reis. Era stata lei a trasformare con il suo odio ciò che c’era stato fra loro.

Aster si avvicinò a una finestra e riprese il suo racconto, mentre l’ultima luce del giorno incorniciava la sua piccola figura. «Quel secondo rifiuto non fu che una conferma di ciò che già avevo capito. Era stato quando Reis mi aveva voltato le spalle, sulla sommità di quella scala, che avevo compreso la verità nella sua spietatezza e avevo avuto il coraggio di accettarla. Tutte le creature di questo mondo sono fatte per odiare. Gli dèi ci hanno creato perché ci odiassimo e ci uccidessimo l’un l’altro, e ora ci guardano, ridono della nostra lotta. Non siamo che un trastullo per gli dèi, burattini nelle loro mani. Pensaci bene, Sheireen, e capirai che ci sono molti più uomini disposti a morire per odio che per amore. E questo perché l’odio è eterno e l’amore è effimero.»

«Quel che dici non ha senso» rispose Nihal. «Se l’odio ti angoscia tanto, perché lo alimenti? Perché hai gettato nella barbarie questo mondo per quarant’anni?»

«Perché questa sarà l’ultima strage» disse Aster, e i suoi occhi verdi si illuminarono di una luce nuova. «Basta col sangue, con le vendette che si protraggono per anni e per secoli, avvelenando generazione dopo generazione. La pace non potrà mai esserci, perché le creature di questo mondo non sono fatte per averla. Siamo esseri malvagi, siamo un cancro della terra. L’unica cosa ragionevole da fare è annullarci e dare al Mondo Emerso una nuova possibilità.» Aster tacque per qualche istante e in quel silenzio Nihal iniziò a tremare.

«Quando avrò unificato tutte le Terre sotto il mio dominio, evocherò un incantesimo sul quale lavoro da quando fui scacciato dal Consiglio. Esso mi permetterà di distruggere tutte le creature che popolano questo mondo, nessuna esclusa. In questo incantesimo consumerò il mio spirito, che scomparirà per sempre dalla faccia della terra senza lasciare traccia di sé, così tutti i conti saranno pareggiati.»

Il terrore che aveva posseduto Nihal non appena era entrata nella sala la agguantò di nuovo con le sue mani gelide. «Non può esistere nessuno che voglia una cosa del genere... neppure tu....» disse con un filo di voce.

«Se ci pensassi bene, se ci riflettessi come ho fatto io, capiresti che la mia non è follia, è un atto di pietà. La mia è una ribellione contro gli dèi e contro il cielo. Per questo tu sei stata mandata qui, perché gli dèi non tollerano che un essere misero come me si rivolti. Eppure io lo faccio in nome della giustizia. Perché continuare a vivere, quando generazione dopo generazione i bambini vengono massacrati e le donne come mia madre passate a fil di spada? Perché sopravvivere e continuare la strage che ebbe inizio con la nostra creazione? Ebbene, che tutto il sangue venga infine versato e che impregni la terra. Forse da esso nascerà una nuova generazione che saprà reggere giustamente questo mondo.»

Nihal guardò Aster con terrore e capì che era dominato da una disperazione senza scampo.

«Sheireen, tu che conosci tanto bene gli abissi dell’odio, sai dirmi una sola ragione per cui questo mondo dovrebbe salvarsi?» chiese Aster serio.

Nihal non trovava le parole per rispondere. Tremava, e non solo perché aveva paura di ciò che il Tiranno voleva fare, ma perché comprendeva le sue ragioni, perché forse, in qualche modo, poteva essere nel giusto. Aster guardò fuori dalla finestra e al di là delle sue spalle di bambino Nihal vide che il sole calava sempre più rapido verso la linea dell’orizzonte. Non mancava più di mezz’ora al tramonto.

«I giusti esistono, loro devono essere salvati» disse infine lei. «Io non posso permettere che tu uccida i giusti che abitano questo mondo, ci sono persone che devono sopravvivere, persone che lottano per la pace.» Sentiva di essere prossima alla meta. Il discorso di Aster si sorreggeva soltanto sulla logica, ma Nihal sapeva che spesso il cuore vince sulla ragione e in lei c’era ancora speranza, c’era la convinzione che la salvezza fosse possibile.

Fu allora che il Tiranno le rivolse un sorriso ambiguo che la raggelò. «Eppure tu sai bene che l’odio è più forte dell’amore» disse.

«Questo non è vero» esclamò Nihal.

«Allora perché lasciasti Sennar ferito in territorio nemico?»

«Tu come fai a saperlo?» chiese lei con voce tremante.

«Quando lo abbandonasti potevi scegliere. Potevi vivere una vita d’amore con lui, in quella grotta, lontano da tutti, oppure venire fin sotto il mio trono e compiere la tua vendetta.»

«Dov’è Sennar?» chiese Nihal angosciata.

«E tu scegliesti. L’odio era più forte.»

«Dov’è Sennar?» ripeté urlando.

«Eppure lui ti amava, ti aveva sempre amata. Anni trascorsi al tuo fianco come amico, senza poterti sfiorare. E tu che cosa facevi? Ti perdevi in mille battaglie, presa dalla smania del sangue, ansiosa di infliggere altre morti.»

«Ti prego, portami da lui...»

«Infine ti sei concessa a lui e gli hai regalato la gioia più grande della sua vita, credimi. Lo so, perché l’ho visto nel suo cuore.»

Nihal lo guardava con gli occhi sbarrati.

«Ma l’hai fatto perché ti sentivi sola, perché avevi bisogno di appoggio e sapevi che lui poteva dartelo. Questo non è amore, Sheireen. Tu ti sei servita di lui.»

«Dimmi che sta bene...»

«Ti ha difeso fino all’ultimo. È stato torturato a lungo, ma non ha parlato. Ha urlato, certo, ma non ha detto niente su di te.»

Le lacrime iniziarono a scendere lungo le gote di Nihal.

«Infine sono dovuto intervenire io. Sono andato da lui e ho iniziato a scavare nella sua mente. Non volevo fargli del male, lo ammiravo. Per tanti aspetti era simile a me, anche lui amava una donna che non gli dava nulla. Ha resistito incredibilmente a lungo alla mia mente. Ma alla fine ho vinto, ho abbattuto le sue difese e ho violato la sua anima. Ho fatto mio ogni suo sentimento, ho vagliato il suo cuore e l’ho sezionato. È stato così che ho saputo di te e della tua missione.»

Nihal piangeva, per quanto odiasse mostrarsi debole davanti a quel mostro. «Dimmi che sta bene...»

«Ho avuto pietà di lui. Era destinato a soffrire come me, a smarrire ogni certezza, a perdere te e i suoi sogni. Io ho patito molto, Sheireen, non auguro a nessun altro la mia stessa sofferenza. È stato solo per pietà che l’ho ucciso.»

Nihal cadde in ginocchio e per la prima volta in vita sua la spada le scivolò di mano innanzi a un nemico.

Aster sorrise trionfante e avanzò verso di lei. Il sole calava rapidamente sulla pianura. «Anche la tua ultima speranza è morta, Nihal. Tu non hai più uno scopo. Ti restano due scelte: unirti a me e aiutarmi a portare a termine il mio compito, o perire subito. Per quelli come te e me non esiste pace in terra, solo la quiete della morte.»

I raggi del sole erano ora rossi. Il tramonto era iniziato e Aster aveva vinto.

Avrebbe portato a termine il suo piano, avrebbe sterminato le razze che popolavano quel mondo e infine sarebbe sprofondato nel non essere.

Nihal era a terra, incapace di muoversi, la spada poco distante dalle sue dita.

Aster la raggiunse e fece per chinarsi su di lei, ma si piegò in due, il volto contratto in una smorfia di dolore.

«Forse hai ragione, ora solo la morte può darmi pace. Ma almeno tu mi precederai nella tomba» disse Nihal fra i denti.

Aveva preso in mano la spada con la forza della disperazione e aveva trafitto il suo eterno nemico al ventre. Vide gli occhi del bambino ingigantirsi nel dolore e la sua bocca aprirsi muta. In fondo a quello sguardo, però, trovò la gioia. Tutto quello che Aster in fondo aveva sempre voluto era la morte.

Nihal estrasse la spada e il Tiranno si accasciò al suolo. In un attimo il corpo di bambino riacquistò i suoi anni e diventò quello di un vecchio. Poi, anche quell’immagine svanì e Aster si dissolse in polvere.


La vendetta era compiuta. Nihal aveva atteso quel momento per tanto tempo, lo aveva immaginato fin nei minimi particolari e aveva creduto che la gioia sarebbe stata infinita, traboccante. Ora, invece, scopriva che il suo sapore era amaro.

Aveva ucciso Aster, ma non aveva cambiato il passato. I morti giacevano sotto terra e con loro anche Sennar. Tutto ciò che Nihal aveva fatto era stato per lui o grazie a lui; ora la sua battaglia aveva perso significato e la sua stessa vita assumeva contorni sfocati.

Sola nella sala, mentre le mura attorno a lei iniziavano a tremare e a sbriciolarsi, Nihal non riusciva neppure a immaginare Sennar morto, steso a terra, in una delle celle fredde e scure che sprofondavano nelle viscere del palazzo. La morte e Sennar erano due concetti impossibili da conciliare, così come la vita e Sennar erano due pensieri impossibili da scindere. Che cosa avrebbe fatto, ora?

Nihal rimase ferma dov’era, non le importava se la Rocca crollava, non desiderava altro che restare lì, a terra, per sempre. In una cosa Aster aveva avuto ragione, per lei non c’era pace, né riscatto. Le dispiaceva per Ido, per Soana, per coloro che le avevano voluto bene, ma non trovava più il coraggio di vivere, se mai ne aveva avuto.

Le mancava il fiato e le pietre erano quasi tutte nere. Il Mondo Emerso era salvo e lei perduta.

Il pugnale che Sennar le aveva dato era ancora all’interno dello stivale. Con le lacrime agli occhi, Nihal lo prese e lo strinse tra le mani. Vedere la lama spenta l’avrebbe aiutata ad accettare la realtà, così lo sguainò.

Non appena posò gli occhi sull’arma, il suo cuore sussultò. Era illuminato. La luce era debole, morente, ma rischiarava la lama. Il Tiranno le aveva mentito, per giocare la sua ultima carta. Sennar era vivo!

Nihal non si concesse il tempo di esultare, non poteva perdere un istante. La Rocca stava crollando, se voleva salvare Sennar doveva sbrigarsi. Scattò in piedi e il movimento le mozzò il fiato in gola per la fatica. Non sentiva più nemmeno le gambe. Guardò fuori dalla vetrata, dietro il trono, e vide che il sole calava inesorabile. Si fece forza e seguì la fioca luce del pugnale.

Iniziò a correre. La terra le cedeva sotto i piedi, le scale si accartocciavano. La Rocca, priva della sua anima, si afflosciava inerte su se stessa. Nihal correva in quel palazzo morente e le pareti si sfaldavano sotto il suo tocco, lasciandole le mani coperte di polvere nera. Le colonne crollavano, brandelli di muro si abbattevano al suolo.

Lo troverò, lo troverò e saremo felici, come meritiamo.

L’aria le mancava, ma continuò a correre, nonostante le gambe fossero sempre più deboli e il dolore al petto sempre più insopportabile. Attraversò i laboratori, poi la biblioteca. I pavimenti erano già ingombri di macerie quando percorse il labirinto di sale in cui aveva rischiato di perdersi all’andata. Insieme ai detriti c’erano corpi a terra, di amici e di nemici, e sangue che rendeva il suolo scivoloso e i suoi passi insicuri.

Sono vicina, sono vicina!

Sbucò nell’arena e quando alzò gli occhi vide che la torre centrale ondeggiava paurosamente. Nihal si gettò verso le prigioni che aveva intravisto dall’alto. Scese una scala ripida e iniziò a percorrere corridoi bui e umidi, che si disfacevano al suo passaggio, poi strette gallerie che risuonavano di gemiti e lamenti. Nihal avrebbe voluto liberare tutti i prigionieri, ma le forze non le bastavano. La strada le parve infinita, le urla selvagge, i lamenti inumani; il buio era sempre più fitto e la cella di Sennar non arrivava mai.

Infine giunse a una porta e seppe che era quella giusta. Chiamò a raccolta tutto ciò che rimaneva delle sue energie, la sfondò e cadde dentro la cella.

In un angolo era appeso per le braccia un uomo, le vesti a brandelli e sporche di sangue. Aveva il corpo segnato da piaghe e ferite. Nihal si trascinò fino a lui e tremò al vederlo così ridotto.

«Sennar, Sennar...» lo chiamò fra le lacrime, ma il mago non rispose. «Ti prego, Sennar... dobbiamo andare via...»

Sollevò la mano e gli sfiorò una guancia. Lui alzò piano la testa e Nihal vide che anche il volto era coperto di lividi e ferite; gli occhi però erano gli stessi di sempre, due occhi chiarissimi, gli occhi che lei amava.

Sennar abbozzò un sorriso e mosse le labbra per pronunciare il suo nome. Nihal si aggrappò al muro e riuscì ad alzarsi, mentre tutto intorno a lei tremava e si sgretolava. Cercò la spada per infrangere le catene che legavano Sennar al muro, ma trovò soltanto la guaina vuota, che le pendeva al fianco. L’arma era rimasta nella sala in cui aveva ucciso il Tiranno. Nella foga di cercare Sennar, l’aveva dimenticata.

Si guardò intorno e trovò solo una pietra, che forse veniva usata come sedile. La agguantò e la scagliò con tutte le sue forze sulle catene, che si ruppero. Sennar si abbatté al suolo e in quello stesso istante le pareti della cella iniziarono a tremare e a sgretolarsi. Nihal sollevò il mago di peso, si mise il suo braccio attorno al collo e iniziò la risalita.

Nihal fece appello alle sue ultime energie e si issò su per la scala, mentre i muri tremavano sotto le sue dita. Un passo dopo l’altro cercava di guadagnare l’uscita. Non avrebbe rinunciato al suo sogno, non avrebbe rinunciato a ciò che le spettava.

Cadde, ma si rialzò e proseguì, sempre più debole. Infine, alla sommità della scala, nell’arena, crollò al suolo e seppe che non sarebbe più riuscita a rialzarsi. Il sole doveva sfiorare l’orizzonte, perché tutto intorno a lei era rosso fuoco. La terra tremava per i massi che cadevano a terra. Nihal era sfinita, la spada con cui avrebbe potuto infrangere il talismano e ritrovare le forze era perduta. Era destino che perissero in quell’arena, senza poter raccogliere i frutti della loro impresa.

Se almeno Sennar si potesse salvare e vivere per entrambi...

Fu allora che Nihal si ricordò delle parole di Reis e dei poteri del talismano: poteva evocare ancora un incantesimo, che l’avrebbe condannata a morte, ma che avrebbe salvato Sennar. Per lei non c’erano speranze. Non appena il sole fosse tramontato, sarebbe morta.

Non posso salvare il mondo, ma una sola vita posso salvarla.

Nihal aveva paura di morire, proprio ora che aveva imparato a vivere, ma quello era il suo destino.

Recitò l’Incantesimo del Volare e mentre si lasciava trasportare dalla forza della magia, mentre sentiva la vita fuggire, le ali nere che aveva sulla schiena si spiegarono al vento.

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