Nella città di roccia ogni cosa è del colore della montagna. Qui, più che altrove, si dimostra l’ingegnosità e la grandezza dell’arte degli gnomi. Le vie sono piene del cicaleccio dei bambini, colme di gente festante, e a mezzodì il re fa rintoccare una campana, il cui suono si diffonde rapido per ogni angolo della città.
Ido e i suoi allievi arrivarono al campo in una settimana e scoprirono che il fronte era arretrato ancora. Come previsto, i ragazzi rimasero sconvolti. Il sangue, i feriti, le cataste di morti, le spade spuntate dal troppo uso, la paura... erano tutte cose che nell’ambiente ovattato dell’Accademia non avevano mai avuto modo di immaginare.
«Questa è la guerra, è quella cosa sporca che all’Accademia vi passano per un lindo balletto di spade. Non ci sono regole, quando combatti, né lealtà. Ci sono la vita o la morte. Dimenticatevi l’onore, scordatevi i manuali di scherma e tenete bene a mente per che cosa combattiamo» disse agli allievi che lo guardavano spauriti.
Portò in giro il suo plotone anche per i villaggi, tra le macerie fumanti e i cadaveri lasciati a marcire lungo le vie. Mostrò ai ragazzi la disperazione dei sopravvissuti, gli orfani, le vedove, gli occhi spalancati sul nulla di chi ha perso tutto.
Qualcuno distoglieva la sguardo, qualcuno, la sera, singhiozzava nella sua tenda. Era giusto. Così doveva essere. Un guerriero che non è sorretto dall’orrore per la guerra e per l’ingiustizia non può combattere al meglio di sé.
Davanti alle lacrime di uno dei più giovani dei suoi allievi, Ido fu crudo e lapidario. «Piuttosto che piangere, rifletti. Fai entrare nel tuo cuore ciò che vedi e domandati perché c’è. Una volta che hai riflettuto, chiediti cosa puoi fare tu perché non accada più. Allora capirai che non impugni la spada perché tuo padre te l’ha messa in mano quando ancora neppure camminavi, perché vuoi essere più forte degli altri o perché le ragazze si girino quando passi, ma per uno scopo molto più alto.»
Ido cercava di trasmettere ai suoi allievi tutto ciò che aveva appreso nei lunghi anni di guerra, e quel lavoro lo esaltava, perché non significava solo addestrare guerrieri, ma formare uomini che un giorno avrebbero potuto reggere le sorti della pace, se mai fosse arrivata.
Forse dovrei farlo più spesso, forse dovrei prendermi altri allievi, si sorprese a pensare un giorno. In fin dei conti, non sarebbe stato anche quello un modo per riscattare il proprio passato?
Poi fu la volta delle ore di addestramento alla battaglia, dei duelli condotti tutti contro tutti, per apprendere a muoversi quando i nemici piombano da ogni direzione. Ido era un maestro severo. Richiedeva ai suoi allievi lo stesso rigore e lo stesso impegno che richiedeva a se stesso. Così li sfiniva a furia di combattimenti e di lezioni teoriche. «Non è un lavoro di tutto riposo, quello del guerriero» diceva quando qualcuno si lamentava.
Contemporaneamente all’addestramento, Ido seguiva anche le ultime fasi di preparazione della battaglia. La primavera volgeva al termine e la data stabilita per l’attacco si avvicinava. Vi furono molte riunioni di pianificazione e Ido e i suoi, un gruppo di circa quattrocento uomini, tra cui i giovani dell’Accademia, vennero assegnati alla prima linea. Gli aspiranti Cavalieri, invece, che erano già in grado cavalcare draghi, avrebbero fornito aiuto contro gli uccelli di fuoco. Il campo in quei giorni era un caos, fra i preparativi concitati e le strida delle decine di draghi ammassati nelle stalle.
Quando Ido comunicò ai suoi la data dell’attacco e la loro posizione, sentì la paura percorrere le file dei ragazzi.
«Noi non siamo veri e propri guerrieri» protestò uno.
«Lo siete, invece. L’addestramento che vi ho dato è più che sufficiente e avete alle spalle anche le nozioni dell’Accademia» replicò Ido.
«Sì, ma la prima linea è sempre la prima linea...» provò a dire un altro.
«Per questo vi abbiamo selezionati e addestrati. Non siete soldati comuni, ricordatevelo.» Ido fece scorrere lo sguardo sui volti intimoriti dei ragazzi. «Non dovete lasciarvi dominare dalla paura. Avete fatto una scelta, quando siete entrati in Accademia. Avete deciso di mettere in gioco la vostra vita per un ideale e ora è arrivato il momento di pagare il prezzo di quella scelta. La paura è una reazione normale e giusta. Dà la misura dell’amore per la vita, e ci vuole amore per la vita per fare questo mestiere. Ma dovete dominarla. Siete parte di un unico corpo. Come nella vita, la morte di uno permette agli altri di continuare. Questo dovete pensare. Non combattete invano. In ogni caso, avete tutti gli strumenti per evitare di farvi ammazzare.»
Il tempo trascorse rapido, la fredda primavera di quell’anno si stemperò lentamente nei primi caldi dell’estate incipiente e venne infine il giorno della battaglia.
Il campo traboccava di uomini e mezzi. Fin da prima dell’alba, fra le tende presero a rincorrersi gli ordini e le disposizioni, mentre i draghi venivano spostati da una parte all’altra dell’accampamento.
Ido si svegliò prestissimo, con il cuore in gola. Non gli era mai capitato, se non quando era un ragazzino e ancora combatteva per il Tiranno. Si diede dello sciocco e si alzò.
L’aria era carica di elettricità. Era una grande battaglia, lo percepivano tutti.
Ido andò dai suoi e li trovò tutti già svegli e agitati.
«Capisco la vostra ansia, ma dovete cercare di stare calmi. Scacciate i pensieri di morte e qualunque altra cosa che possa distrarvi dalla battaglia. Ora esistono solo la vostra spada e il nemico, nient’altro. Concentratevi sul vostro corpo, siate lucidi, non fatevi dominare né dalla paura né dall’ebbrezza dell’omicidio. Non è per questo che scenderete in campo.»
Li vide annuire, centoventi volti che pendevano dalle sue labbra.
Ido si trovava a corto di scudieri, da quando Laio se n’era andato, così si fece aiutare da uno dei suoi allievi, Caver, il ragazzo biondo che si era fatto avanti per duellare con lui. Poi rimase solo, a lucidare la sua spada. Lo faceva sempre prima della battaglia. Lo aiutava a rilassarsi e gli permetteva di trovare la concentrazione.
Dopo l’incantesimo di Soana, l’arma aveva assunto una trasparenza opaca, sembrava più leggera e riluceva nella penombra della tenda. Passare il panno sulla lama, però, non gli servì a calmarsi. In fondo al cuore sentiva un’ansia sorda, che somigliava in modo inquietante alla smania di combattere che provava quando militava fra le truppe del Tiranno.
Quando raggiunse Vesa, il suo stato d’animo non migliorò. Il drago era inquieto quanto il suo Cavaliere.
«Forse stiamo diventando vecchi» gli disse Ido, mentre gli accarezzava le squame rosse. «Un tempo ci bastava guardarci negli occhi per calmarci.»
Il drago sbuffò e lo gnomo restò ancora qualche istante con lui, il tempo di trovare la concentrazione indispensabile per la battaglia.
Ci volle più di un’ora perché tutti si schierassero e Ido ne approfittò per arringare le sue truppe e dispiegarle nel modo migliore per la battaglia. Intravide molti che conosceva, tra le file. Soana era in un canto, intenta ad apporre incantesimi sulle spade, seguita da un plotone di maghi. Più lontano c’era Mavern, che era stato messo a capo delle truppe dei giovani Cavalieri di Drago. Poco distante Nelgar, il generale in capo, quel giorno. Infine, gli occhi di Ido incontrarono qualcosa di insolito.
C’era un guerriero che non conosceva, a cavallo di un baio. Aveva un’armatura azzurrina finemente lavorata e impugnava una lunga spada piena di fregi. Quando il guerriero sollevò la celata dell’elmo, Ido lo riconobbe e ne fu addolorato. Capelli ricci castani, un volto ingenuo da ragazzino. Galla.
Lo gnomo credeva che la cosa fosse stata risolta. Durante una delle ultime assemblee, Galla si era alzato e aveva chiesto di poter partecipare alla battaglia.
«Mia moglie è morta per questo regno e io finora non ho fatto nulla, se non pianificare dalle stanze sicure della mia reggia. La mia gente intanto muore. Non posso più restare con le mani in mano» aveva detto.
Tutti sapevano che dalla morte della moglie Galla non era più lo stesso. L’aveva molto amata e vederla sparire così, dissolta nell’aria dalla lancia scagliata da Deinoforo il giorno della battaglia contro i morti, lo aveva annientato.
«Vostra Maestà, voi non siete un guerriero e il vostro regno ha bisogno della vostra guida. Non potete permettervi di rischiare di morire» aveva provato a farlo ragionare Mavern.
«E se la mia Terra cadesse? Cosa resterebbe di me? Io devo stare accanto al mio popolo.»
Quel giorno non erano riusciti a convincerlo, ma Ido credeva che alla fine Theris, la ninfa che rappresentava la Terra dell’Acqua nel Consiglio dei Maghi, lo avesse dissuaso.
«Ci abbiamo provato, credimi.»
Ido si voltò. Al suo fianco c’era Nelgar.
«È stato irremovibile» aggiunse il sovrintendente.
Ido sospirò. «Per certi versi lo capisco. È nobile voler condividere le sorti del proprio popolo, ma è anche immensamente stupido. Quell’uomo in realtà desidera soltanto morire.»
«Non possiamo far altro che lasciare che segua il suo destino. Oggi combatterà. Speriamo solo che sopravviva. Cercheremo di difenderlo quanto meglio possiamo.»
L’alba trovò l’esercito schierato a battaglia. Il cielo era plumbeo e scendeva una pioggerellina sottile. Il campo risuonava del rumore sordo dell’acqua che cadeva sulle tende e sulle armature.
Ido respirò a fondo. Innanzi a loro, il nemico era una marea grigia punteggiata dal nero dei Cavalieri di Drago. Uno, due... tre. Tre Cavalieri. Almeno da quel punto di vista erano pari. Anche da quella distanza lo gnomo distingueva Deinoforo, rosso come il fuoco. Era davanti a tutti, dunque avrebbe comandato lui le truppe.
Lo gnomo guardò oltre. Centinaia di fammin irrequieti e dietro di loro le bestie alate, che levavano i loro stridii. Infine, i fantasmi. Molti, come al solito. Ido non li guardò a lungo, ancora non era riuscito ad abituarsi a quella vista. La sua mente non sapeva confrontarsi con quell’orrore.
Diedero l’ordine di prepararsi. Ido sguainò la spada e ritrovò una calma improvvisa.
Finalmente.
I fammin levarono il loro urlo di guerra. Qualche ragazzo dietro Ido diede segni di insofferenza.
«È tutta scena, non preoccupatevi» cercò di tranquillizzarli.
Un attimo di silenzio precedette l’inizio. Era sempre così. Un silenzio lungo un’eternità, durante il quale ciascuno era investito da migliaia di pensieri. La vita, la morte, gli amici, gli amori... Nella mente di Ido c’era posto solo per una chiazza rosso fuoco.
Poi l’ordine di attacco, e la battaglia ebbe inizio.
Lo scontro tra i due eserciti fu violento e la battaglia infuriò sanguinosa fin dall’inizio. Come previsto, Ido dovette vedersela con gli uccelli di fuoco e contemporaneamente dare ordini ai suoi. Da principio l’assalto delle nuove truppe di Ido fu indeciso; i ragazzi restarono titubanti di fronte alla marea di fammin che avanzava, così lo gnomo fu costretto a difenderli dai primi attacchi.
«Non posso farvi da balia in eterno! Forza!» li spronò.
Aprì loro la strada con una fiammata di Vesa, quindi riprese a occuparsi della situazione in cielo.
Combattere con la pioggia non gli piaceva. A Vesa costava fatica volare e l’acqua diminuiva la visibilità. In un attimo, però, Ido si concentrò solo sulla battaglia. Ora era presente a se stesso, sentiva il peso rassicurante dell’elsa della spada nella sua mano e, sotto la palma, la superficie ruvida dove era stato inciso e poi grattato via il giuramento al Tiranno.
Lottò con la solita foga e gettò scompiglio fra i numerosi uccelli di fuoco. Accanto a lui, Mavern non si risparmiava. A terra, la mischia procedeva furibonda. Ogni tanto, però, lo gnomo non poteva fare a meno di gettare lo sguardo oltre le linee, in cerca di un baluginio rosso. Alla fine lo vide, lontano e indistinto. Deinoforo non era ancora sceso in battaglia. Guidava i suoi dalle retrovie, impartiva ordini e osservava la scena.
Ido avrebbe voluto gettarsi subito su di lui, ma rimandò quel piacere. Non avrebbe pregiudicato l’andamento della battaglia per la sua personale smania di duellare. Combatté a lungo in cielo, poi decise che poteva lasciare Vesa a vedersela con gli uccelli. Con un balzo fu a terra, si guardò attorno e controllò la posizione dei suoi uomini. Quindi li guidò alla carica, spada in resta, e si gettò con furia sulla marea di fantasmi che invadeva la piana, grigia nel grigio della pioggia.
I soldati combatterono corpo a corpo per ore, mentre i Cavalieri in cielo contrastavano gli uccelli di fuoco e i fanti a terra guadagnavano terreno palmo a palmo. Il tramonto non era lontano.
Le cose andavano più che bene e Ido era esaltato. A quanto poteva vedere, i suoi uomini non avevano subito molte perdite. Deinoforo adesso era più vicino, immobile sul suo drago nero sotto la pioggia. A intervalli regolari, uno sbuffo di fumo rossastro fuoriusciva dalle narici dilatate dell’animale, ma il Cavaliere guardava impassibile davanti a sé, senza muovere un muscolo.
Non vuoi venire? Allora ti verrò a prendere io. Quasi non ebbe il tempo di pensarlo, che una fiammata lo mancò di un pelo. Guardò in alto. Un Cavaliere metteva a dura prova le capacità degli allievi dell’Accademia sui draghi.
«Vesa!» chiamò. Saltò sull’animale e si gettò al fianco di Mavern contro il Cavaliere nemico.
Forse fu perché erano tutti impegnati, forse perché nel mezzo di una battaglia così impetuosa era impossibile fare da balia a un piccolo re reso folle dal dolore, ma Galla fino a quel momento era stato straordinario. All’inizio i generali avevano cercato di proteggerlo, lui, però, era una furia.
Non aveva ricevuto un vero addestramento militare e non poteva certo essere definito un guerriero provetto, ma era sostenuto dalla forza della disperazione. Si era gettato sul nemico senza esitare e se l’era cavata. Aveva ucciso molti avversari, era arrivato fino alle prime linee e anche lì, in groppa al suo cavallo, aveva continuato la strage. Sembrava così forte e invincibile che presto i generali avevano smesso di seguire le sue mosse. In fin dei conti, quell’uomo aveva scelto il proprio destino nel momento stesso in cui aveva messo piede sul campo di battaglia. Dunque, che al suo destino andasse incontro.
Ma nessuno sapeva cosa cercasse Galla, che cosa cercasse davvero. Era facile da immaginare, eppure nessuno ci aveva pensato, eccetto il nemico.
Galla guardava di continuo verso Deinoforo. Quando lo vide abbastanza vicino, galoppò contro di lui.
«Ti sfido, maledetto, ti sfido!» urlò.
Gli scagliò contro una lancia che aveva afferrato al volo. Lo mancò di parecchio e rallentò.
«Come desideri» rispose pacato il Cavaliere. Con un balzo fu a terra e lasciò che il suo drago volasse a dar man forte alle truppe in cielo. «È per tua moglie...» infierì, mentre estraeva la spada scarlatta.
Galla non rispose. Era colmo di rabbia e si sentiva forte abbastanza da vendicare Astrea.
«È giusto» aggiunse Deinoforo. «In fin dei conti è la vendetta che ci spinge tutti ad agire.»
Levò la spada in segno di saluto e Galla fece altrettanto. L’arma tremava fra le sue mani. Poi il re lanciò un grido e si avventò contro Deinoforo.
Si scambiarono le prime stoccate e con ogni probabilità Galla credette anche di cavarsela egregiamente. In realtà Deinoforo giocava con la sua spada, lo trattava come fa il gatto col topo. Lo teneva a bada con movimenti eleganti, parando colpo su colpo, senza mai attaccare. Galla, invece, attaccava senza sosta, mentre lacrime di rabbia scorrevano lungo le sue guance di bambino. Il viso di Astrea, il giorno della sua morte e i mille momenti felici vissuti assieme, la Terra dell’Acqua ancora rigogliosa, immagini di gioia e di dolore si mescolavano nella sua mente e lo spronavano a combattere finché il nemico non fosse morto. Forse allora sarebbe potuto giacere in pace anche lui e raggiungere la donna che aveva amato.
Il suo ultimo colpo non andò a segno e il duello si interruppe. Galla respirava con affanno, mentre Deinoforo era perfettamente padrone di sé.
«Ebbene, ti ho dato modo di sfogarti. Ora sta a me. Abbiamo finito di giocare» disse il Cavaliere.
Poi, tutto accadde rapidamente. La spada di Deinoforo volteggiò tracciando lampi sanguigni nella penombra del tramonto e Galla cercò inutilmente di parare. L’ultima stoccata gli squarciò il ventre. Non ebbe neppure il tempo di urlare. Cadde in ginocchio ai piedi del suo nemico.
«Sei degno d’onore, perché sei stato sconfitto per mano del più forte del campo» disse Deinoforo, poi lasciò Galla a terra in una pozza di sangue.
Il drago nero atterrò a pochi passi da Deinoforo. L’uomo lo cavalcò e raggiunse Nelgar. «Il tramonto è prossimo, non ha senso continuare» disse con la spada nel fodero.
Nelgar restò al suo posto, in aria, incapace di proferire verbo.
«Il vostro re è in fin di vita e fra poco sarà notte. Vi concedo di portare via il corpo. Potremo riprendere la battaglia domani.»
Poi, così com’era venuto, si dileguò e le sue truppe silenziosamente si ritirarono, tornando ad attestarsi sulla stessa linea della mattina. Un silenzio di tomba scese sul campo, mentre gli ultimi raggi di sole abbandonavano la terra.
Trasportarono Galla nella sua tenda. Era ancora vivo, quando l’avevano trovato sul campo. Chiamarono un paio di sacerdoti e la stessa Soana, ma tutti assunsero un’espressione addolorata non appena videro lo squarcio che Deinoforo gli aveva aperto sul ventre.
Il re per buona parte della notte si agitò nel delirio e urlò per il dolore.
«Uccidetelo! Che qualcuno lo uccida e vendichi Astrea!» gridava nei pochi momenti di lucidità.
Poi venne l’immobilità delle ultime fasi dell’agonia, il respiro si fece un rantolo e infine ci furono solo freddo e silenzio.
Ido era rimasto fuori dalla tenda. Aveva smesso di piovere e il campo era coperto di fango.
«La Terra dell’Acqua non ha più un re» disse laconico Nelgar, quando uscì dall’ultima dimora di Galla.
Ido si coprì il volto con la mano. Dopo Astrea, Galla. Non c’era più nessuno a governare quel piccolo regno, ormai schiacciato contro i Monti del Sole. Si erano ripromessi di aiutare il re, di proteggerlo, e invece l’avevano lasciato solo, in balia della propria follia.
Non puoi fermare un uomo disperato.
Già, forse era vero, ma loro non ci avevano nemmeno provato. Ido non sospettava che Galla in quella battaglia avesse il suo identico obiettivo. Erano stati alle calcagna dello stesso uomo. Eppure era così semplice da capire.
Lo gnomo strinse i pugni e ripensò alle ultime parole di Galla.
Lo ucciderò io per te, domani, e tu e tua moglie avrete finalmente pace.
Prima di ritirarsi, Ido passò in rassegna le sue truppe. Non avevano avuto più di una ventina di perdite, per la maggior parte ragazzi.
Non ebbe molto da dire loro. Li elogiò per come si erano comportati, ma era abbattuto e ancor meno incline alla parlantina del solito. Quindi raggiunse la sua tenda e si coricò. L’indomani la battaglia sarebbe ripresa presto e aveva bisogno di riposo.
Ma non riuscì ad addormentarsi. Pensava a Deinoforo, al suo assurdo codice d’onore. Il Cavaliere era andato da Nelgar con la spada nel fodero e gli aveva chiesto una tregua per un nemico caduto.
Un gesto di pietà inaspettato. Gli tornarono alla mente le urla del re morente. In fondo al cuore si sentiva vicino a quel re bambino, erano accomunati dal medesimo odio. Avevano cercato lo stesso nemico nel mezzo della battaglia. Galla l’aveva trovato, e per questo era morto. Era l’ennesimo innocente trucidato.
"Uccidetelo! Che qualcuno lo uccida e vendichi Astrea!"
Quelle parole di Galla erano rivolte a lui. Aveva sbagliato a non attaccare Deinoforo, a perdere tempo dietro ai fantasmi e ai fammin. Avrebbe dovuto gettarsi subito sul Cavaliere di Drago Nero, senza esitare. L’indomani non avrebbe commesso lo stesso errore. Solo con quel pensiero riuscì ad assopirsi, mentre fuori la pioggia ricominciava a bagnare il campo.
Quando Ido si svegliò pioveva ancora. Era molto presto e lo gnomo si dedicò alla sua spada. Quella mattina era calmo, come sempre alla vigilia di decisioni importanti.
Lucidò con cura l’armatura, inzaccherata dal fango del giorno prima, e fece una rapida visita ai suoi allievi.
Quando raggiunse le truppe, tutto era esattamente come il giorno precedente. Sembrava non fosse accaduto niente in quelle ventiquattro ore: stesse le linee su cui erano attestati gli eserciti, identica la pioggia fine che scorreva sulle armature e rendeva fangoso il terreno. Soltanto, nell’esercito delle Terre libere c’era più tristezza. La morte del re aveva abbattuto il morale di tutti.
Ido aveva gli occhi puntati su Deinoforo, fermo nella medesima posizione del giorno prima.
Fu dato l’ordine di attacco e Ido e i suoi partirono. Stavolta anche Deinoforo spronò il suo drago e iniziò a combattere. Lo scontro prese da subito tutta un’altra piega. Le truppe delle Terre libere faticavano a rispondere ai colpi nemici e i primi soldati caddero sotto le lame dei fammin e dei fantasmi.
Deinoforo era ovunque, imperversava dall’alto con il suo drago tenendosi fuori dalla mischia.
Quel giorno Ido non tentennò. Aveva chiaro quale fosse il suo obiettivo e l’avrebbe raggiunto a ogni costo. Tra lui e il suo uomo si frapponevano centinaia di uccelli di fuoco, ma per lo gnomo non erano un problema e non era solo a fronteggiarli. Così guadagnò un palmo dopo l’altro, lo sguardo sempre rivolto al nemico, al movimento circolare del drago nero sulla piana.
Ido aveva quasi dimenticato i suoi soldati a terra. Di tanto in tanto li spronava e dava loro indicazioni, ma Deinoforo occupava tutti i suoi pensieri e ben presto lo gnomo si sentì solo sul campo di battaglia, come molti anni prima.
«I tuoi uomini, dannazione, Ido!» gli urlò qualcuno da molto lontano, ma lui non lo ascoltò.
Era stanco di attendere, stanco di perdere tempo con quei dannati uccellacci. Fece impennare Vesa e si diresse senza altri indugi verso il suo nemico. Gli diede un primo colpo d’avvertimento, come aveva fatto la prima volta che le loro strade si erano incrociate.
Deinoforo parò il colpo, poi si volse verso di lui. «Vedo che ci tieni molto a batterti con me.»
Ido non rispose. Uno strano mugolio giunse da sotto la celata dell’elmo di Deinoforo. Rideva.
«In fondo, sei un valido nemico, nonostante la tua codardia» aggiunse il Cavaliere.
Ido attaccò senza più por tempo in mezzo. Deinoforo era pronto e parò senza difficoltà. Iniziò il fraseggio delle spade, mentre i draghi cercavano di ferirsi a vicenda.
Stavolta Ido era furioso, ma presente a se stesso, e non sbagliò un colpo. Era come se osservasse il duello dall’esterno e gli era facile prevedere ogni mossa del nemico. Erano uguali. Stesso modo di battersi, stessa calma glaciale nell’azione.
Si separarono con un nulla di fatto, i draghi che ansimavano per lo sforzo.
«A ben pensarci, anch’io ho un conto in sospeso con te» disse Deinoforo. La sua voce era lievemente affannata. «Tu hai tradito il mio Signore, ti sei votato alla causa di questi vermi della terra.»
Ido rise. «Quel che ho fatto non si chiama tradimento, ma ravvedimento, guarigione dalla follia.»
Ripresero a combattere, precisi e impeccabili come prima. Il ritmo accelerò, le spade si incrociavano rapide sotto la pioggia. Nessuno dei due però riuscì ad andare a segno: ogni colpo, dall’una e dall’altra parte, veniva parato.
Si separarono ancora, ma stavolta Ido tentò una nuova mossa. Lanciò Vesa contro il drago nero e lo incitò ad azzannare una zampa della bestia nemica. Ora che era più vicino al suo avversario, lo gnomo ricominciò ad attaccare a sorpresa, sempre più veloce.
Le cavalcature però erano diventate malsicure e Ido faticava a rimanere in equilibrio.
Dannazione! Come diavolo fa Nihal in queste situazioni?
Alla fine Vesa dovette mollare la presa, ma strappò un brandello della pelle del drago nero.
«Che cosa credi di avere ottenuto, Ido!» gli urlò Deinoforo.
La ferita del drago si rimarginò sotto gli occhi dello gnomo.
I due si studiarono per qualche istante, con il respiro affannoso. Erano stanchi e non erano ancora riusciti ad andare a segno neppure una volta. Ido sentì la spada tremargli fra le mani.
Devo concludere!
Con un urlo si lanciò sul nemico e ripresero a duellare, con una monotonia snervante. Sotto di loro la battaglia infuriava, ma i due non la sentivano.
I gesti si fecero più imprecisi, qualche colpo andò a segno dall’una e dell’altra parte, ma ancora non riuscirono a ferirsi. I draghi si allontanavano e si riavvicinavano in un balletto infinito. Poi un colpo di Deinoforo segò uno dei legacci della corazza di Ido e lo gnomo si allontanò.
«Si comincia» ghignò il cavaliere.
Devo concludere... sono stanco.
Ido passò in rassegna l’armatura del nemico, che non lasciava scoperto neppure un lembo di pelle: doveva trattarsi di una corazza magica, come quella di Dola. Contrariamente alle sue abitudini, lo gnomo decise di giocare la sua ultima carta: la forza. Impugnò la spada a due mani.
Il nemico si lanciò su di lui e Ido lo affrontò con tutte le energie che gli erano rimaste. Laddove lo gnomo riusciva a colpirla, l’armatura del nemico mandava strani bagliori.
Ormai però erano entrambi affaticati, i colpi si facevano via via più imprecisi. Deinoforo azzardò un affondo. Ido provò a scartare, ma la spada del Cavaliere cambiò subito direzione.
Lo gnomo vide l’arma venirgli incontro, verso la sua testa, verso i suoi occhi. D’istinto, mosse lateralmente la spada contro la mano nemica.
Vide un lampo e udì un urlo disumano, poi avvertì la sensazione di muscoli, ossa e tendini recisi sotto la sua spada. Al tempo stesso, sentì un dolore lancinante alla testa, una sofferenza indescrivibile, che gli tolse il fiato. Vide rosso, come se l’intero mondo si fosse tinto di sangue, e poi nero, un nulla denso e oscuro. Cercò di aprire gli occhi, mentre si sentiva afferrare e trascinare verso quel nulla. Scorse una mano rossa, la spada ancora in pugno, volare in aria e roteare verso terra. Poi il dolore ebbe il sopravvento e lui scivolò nell’incoscienza.
Prima ancora di aprire gli occhi, Nihal sentì il buio che la incalzava, le penetrava in bocca e in gola. Percepì un peso sull’addome e solo allora si chiese che cosa fosse accaduto.
Quando sollevò le palpebre e si guardò intorno ebbe la conferma: buio. Proprio ora che avevano riguadagnato la luce dopo un mese di oscurità. Si toccò il ventre e sentì una mano; tastò intorno fino a quando non incontrò una zazzera arruffata. Sennar.
«Sennar...» chiamò con dolcezza. Lo scosse. «Sennar...»
Lo sentì muoversi.
«Tutto bene?» chiese la voce stanca del mago.
«Io sì e tu?»
Sennar spostò la mano e Nihal udì le sue vesti frusciare nell’oscurità. «Credo che sia tutto a posto» disse il mago. «Hai idea di dove possiamo essere?» chiese dopo qualche istante.
«Fai un po’ di luce e lo sapremo.»
Sennar si appoggiò alla parete rocciosa. «Ma un tempo non sapevi fare anche tu qualche magia? La corsa e l’incantesimo mi hanno stancato... Fai tu un po’ di luce.»
Nihal evocò un timido fuocherello azzurrino. Le avvampò nella mano e un tenue chiarore si sparse per qualche braccio attorno a loro. Erano in una specie di galleria, dovevano aver ruzzolato per un po’ una volta caduti, perché c’era della terra smossa al loro fianco. Il tunnel era basso e stretto, tanto che per percorrerlo sarebbero dovuti avanzare carponi, e non era opera della natura; le pareti erano segnate da colpi di scalpello e di vanga.
«Non può che essere una delle gallerie per l’approvvigionamento dell’acqua» disse Sennar.
«Ma l’acqua non si sente...»
«Ido ha lasciato questa Terra vent’anni fa, da allora possono essere cambiate parecchie cose, magari dei canali si sono prosciugati.»
Nihal si voltò verso Sennar. Il mago era pallido e affaticato. «Forse è meglio che per oggi ci riposiamo qui. Quando ci saremo ripresi un po’ proseguiremo» propose e il mago accettò.
Nihal però riuscì a stare ferma solo per qualche ora, poi decise di andare in avanscoperta. Lasciò Sennar abbandonato in un sonno ristoratore e si diede all’esplorazione della parte di galleria dalla quale erano entrati. Non dovette camminare molto, perché avevano rotolato per non più di una decina di braccia; a quel punto il corridoio sembrava impennarsi e diventava piuttosto ripido. In alto, lei vide il buco nel quale erano caduti e la luce che filtrava le ferì gli occhi.
Nihal fissò per qualche istante la luce, poi tornò nel punto da cui era partita ed esplorò il condotto nell’altra direzione. Avanzò per un lungo tratto e non fu semplice, perché il passaggio si faceva sempre più stretto. Si fermò al primo bivio per timore di perdere la strada e tese l’orecchio. Si udiva un rumore lontano, ritmico, come il chiocciare dell’acqua attraverso il cannello di una fontana. Si sentì rincuorata: dunque, erano davvero arrivati ai canali.
Quando Sennar si svegliò stava meglio e nonostante le proteste di Nihal volle riprendere il cammino. Prima partivano, prima avrebbero rivisto il sole.
All’inizio dovettero avanzare accovacciati a quattro zampe. Una volta giunti al primo bivio, scelsero di dirigersi verso il rumore dell’acqua. Continuarono a proseguire carponi a lungo e alla fatica si aggiunse la preoccupazione, perché non incontravano l’acqua. La sentivano scorrere vicina a loro e cercavano di seguirne il rumore, eppure, nonostante camminassero già da un paio di ore, non ne vedevano traccia. Le pareti erano asciutte e sembrava che la strada si prendesse gioco di loro, conducendoli a un passo dalla meta e divertendosi poi a deviare e ad allontanarli. Procedettero a lungo, in salita e in discesa; in alcuni punti furono costretti a calarsi, in altri invece dovettero arrampicarsi, ma nessuno dei loro sforzi fu premiato, perché per tutto il giorno l’acqua restò un miraggio lontano.
«Non possiamo continuare ad avanzare a caso. Se almeno trovassimo questa dannata acqua potremmo seguirne il corso» disse Nihal, quando si fermarono per riposarsi.
Avevano di nuovo perso il senso del tempo. Come nella Terra della Notte, non avevano idea di che ora fosse, né da quanto fossero in marcia.
Dovettero cercare ancora il giorno seguente e quello successivo, sempre strisciando carponi sulla roccia. Il debole fuocherello magico di Nihal non bastava a illuminare la strada e più di una volta credettero di essersi persi, perché ogni tunnel era uguale a quello precedente.
All’improvviso, Nihal mise una mano in fallo e il mago la sentì gridare mentre precipitava. Raggiunse subito il punto dov’era scomparsa, si sporse e non poté fare a meno di gioire quando sentì che la caduta terminava con un tuffo. L’acqua, finalmente. Sennar si gettò di sotto senza indugi e quando riemerse Nihal era accanto a lui e rideva.
Si trovavano in un ampio salone circolare completamente pieno d’acqua, fatta eccezione per una piccola piattaforma su un lato, alla quale si accedeva da un paio di scalini. L’acqua entrava da un’apertura a una trentina di braccia sopra di loro e si gettava in quella specie di cisterna con una cascata, per poi uscire attraverso cinque larghi canali disposti a stella lungo le pareti. Nihal e Sennar salirono sulla piattaforma per riposarsi.
I viveri scarseggiavano e le radici che avevano raccolto nella Terra della Notte erano bagnate. Le mangiarono ugualmente, cercando di fare economia. Lì sotto l’acqua non mancava di certo, ma il cibo sarebbe stato un problema.
Decisero di seguire uno dei cinque canali. Erano identici e non c’era modo di indovinare dove conducessero. Nihal aveva interrogato il talismano, ma aveva visto solo molta acqua e una specie di isolotto; la direzione non era precisa, forse ovest.
Sennar recitò un incantesimo per orientarsi. Estrasse il pugnale che aveva vinto a Nihal il giorno che si erano conosciuti e recitò poche parole. Dalla punta della lama partì un raggio luminoso che andò a indicare l’ovest. La luce però cadde esattamente a metà fra due canali, così furono costretti a scegliere a caso uno dei due.
Decisero di alternarsi al fuoco magico. Dopo tre giorni di riposo dalle magie, Sennar aveva ripreso le forze e quando il fuoco era tenuto vivo da lui potevano vedere con più chiarezza il luogo dove si trovavano.
Non c’era dubbio che l’opera di fronte a loro fosse notevole: miglia e miglia di canali, grandi e piccoli, nei quali l’acqua scorreva limpida e chiara, tutti con una piccola passerella. Evidentemente un tempo quell’acquedotto veniva curato con un’assidua manutenzione e i corridoi dovevano servire allo scopo. A intervalli regolari c’erano le grandi cisterne; alcune erano maestose, alte e decorate da fregi e bassorilievi. Le più ampie avevano anche dei pozzi che davano verso l’esterno e attraverso i quali filtravano l’aria e la luce, dando un po’ di sollievo a Sennar e Nihal.
In una di quelle costruzioni, dove una lama di luce fendeva il buio e regalava invitanti trasparenze alle acque limpide, decisero di fermarsi e riposare. Si distesero sulla piattaforma e si godettero il tepore dei raggi del sole.
D’un tratto, Nihal si alzò. «Ho voglia di fare un bagno vero» disse. «Chiudi gli occhi.»
Il mago restò immobile a guardare il volto di Nihal controluce.
«Non mi hai sentito? Avanti» disse lei, e Sennar notò che un lieve rossore le copriva le guance.
Il mago sorrise imbarazzato e si portò le mani agli occhi. Sentì il fruscio delle vesti di Nihal: il rumore secco della pelle del corpetto, i laccioli che si scioglievano e i pantaloni che cadevano al suolo, il mantello che le scivolava sulle spalle. A ogni rumore premeva con più forze le mani sugli occhi. Gli tornò in mente la sera di pochi giorni prima, quando avevano mangiato i lamponi e lui aveva cercato di baciarla. Si stupì quando sentì i suoi passi sulla roccia, perché quel suono lieve, così diverso dalla marcia, sembrava non appartenerle. Era il passo di una donna.
Lentamente e involontariamente le sue dita si schiusero, ma Sennar non volle guardare. Sentì il rumore dell’acqua che si apriva al passaggio del corpo di lei, per poi richiudersi alle sue spalle. Alla fine il mago si alzò in piedi e lasciò cadere le mani. Nihal nuotava agile e leggera. Sembrava magra, più di quanto credesse. Era la prima volta che la vedeva così.
Nihal nuotò fino alla cascata in fondo alla cisterna, si arrampicò sulla pedana e rimase sotto il getto a lungo. Fu allora che Sennar le vide la schiena: era nera per una buona metà.
«Cos’hai fatto?» le chiese, ma si pentì subito, perché Nihal voltò il capo di scatto e Sennar fece in tempo a vedere un lampo d’ira attraversarle gli occhi, prima che lei si immergesse di nuovo in acqua.
«Ti avevo chiesto di non guardare!»
Sennar si portò di nuovo le mani agli occhi.
«Ora non serve a niente.»
Sennar sentì che continuava a muoversi nell’acqua, ma meno tranquilla di prima. «Pensavo che ti fossi immersa... che ne sapevo...» Era sicuro di essere arrossito e sperò che le mani fossero sufficienti a nascondergli il volto.
«Adesso non c’è più niente da guardare» disse Nihal.
Sennar scostò le dita. «Che cos’hai sulla schiena?» le chiese.
Stavolta fu lei a distogliere lo sguardo. «Sono due ali di drago, è un tatuaggio.»
«Quando l’hai fatto?»
«Quando sono diventata Cavaliere. È una tradizione. Ogni Cavaliere ha un tatuaggio» spiegò, mentre continuava a nuotare. «Non ti piace?»
«Non so» disse lui. «Sono troppo grandi, occupano praticamente tutta la schiena.»
«Voltati adesso» ingiunse Nihal. Leggera com’era entrata, uscì dall’acqua. «Quando ho compiuto diciotto anni mi sono fatta due regali: un vestito da donna e questo tatuaggio. Guarda pure ora.»
Sennar aprì gli occhi e vide che si era avvolta nel mantello. Dalla stoffa nera emergevano solo il viso, le orecchie appuntite e i capelli blu.
Così imbacuccata, Nihal si sdraiò al fianco di Sennar, sotto il raggio di sole. «Ti ho mai detto che ho sempre voluto volare via?» gli chiese.
«No, ma l’ho sempre saputo» rispose lui.
Nihal si voltò a guardarlo e sorrise. «È per questo che mi sono fatta tatuare due ali: sono di drago perché Oarf è il mio compagno e i nostri destini saranno sempre uniti; sono chiuse perché non ho ancora preso il volo. Un giorno troverò la mia strada e le mie ali sulla schiena si apriranno. Allora potrò volare via.»
Per qualche strano motivo, quelle parole riempirono Sennar di tristezza.
«A Laio piaceva, diceva che era un tatuaggio adatto a me» aggiunse Nihal.
Il ricordo dell’amico perduto li avvolse e restarono sdraiati in silenzio.
La gioia della scoperta dell’acqua non durò a lungo. Avevano creduto che una volta trovati i canali sarebbe stato facile seguire la strada, ma non fu così. Le condotte erano centinaia, si intersecavano in un reticolo fittissimo formando gli angoli più strani e si assomigliavano tutte.
Sennar e Nihal percorrevano qualche miglio e si ritrovavano in una cisterna; camminavano ancora e finivano in un’altra cisterna. Presto non riuscirono più a capire se giravano in tondo o se arrivavano in luoghi nuovi; sembrava che l’acqua non facesse altro che descrivere ampi giri e alla fine non sfociasse da nessuna parte.
Nihal cercava di affidarsi al talismano, ma l’immagine era sempre quella del primo giorno: molta acqua e un’isola, altro non riusciva a vedere. A tutto ciò si aggiunse il caldo. All’inizio i canali sembravano freschi e ben aerati, ma presto il calore si fece soffocante e l’umidità insopportabile; l’aria pareva densa, si faticava a respirare ed erano entrambi sudati fradici, in quella oscurità asfissiante.
Più avanzavano, poi, più lo stato delle passerelle peggiorava, tanto che in alcuni tratti Sennar e Nihal furono costretti a camminare con l’acqua alle ginocchia. A volte erano fortunati e l’acqua era calma, ma altrove la corrente era forte e dovevano cercare appigli sulla parete viscida per non essere trascinati via.
Nelle gallerie più profonde, che iniziarono a esplorare il quarto giorno, i segni della decadenza erano visibili. Molte passerelle erano distrutte, in alcuni punti la volta era franata e i detriti ingombravano il tunnel, i bassorilievi delle cisterne più ampie erano divorati dalla muffa.
Nihal fu la prima a mostrarsi insofferente. La penombra la esasperava, l’umidità e il caldo le mozzavano il fiato e soprattutto iniziava a scoraggiarsi, perché ormai era chiaro che si erano persi. Vagavano senza una meta e la mezzelfo aveva la sensazione che tutta la strada che avevano percorso fosse stata inutile.
«Non possiamo continuare così» disse una sera. Erano chiusi in quel posto da una decina di giorni e avevano finito le scorte di cibo. Si erano divisi l’ultima radice. «È evidente che non si può cercare il santuario sotto terra. Dobbiamo trovare una via d’uscita, ci portasse anche in bocca al nemico.»
Sennar assentì poco convinto.
«Lo so» aggiunse Nihal, dopo aver letto la sua espressione. «Sembra un’impresa disperata. Ma questo è un acquedotto, no? L’acqua dovrà pur finire da qualche parte. Con un po’ di fortuna troveremo la strada che ci porterà fuori di qui.»
Continuarono a camminare, digiuni e in quel caldo soffocante, per un tempo che parve loro interminabile. Di tanto in tanto il suolo tremava e si sentivano boati e brontolii, come se la terra si lamentasse.
«Questa è una Terra di vulcani, Ido ha detto che ce ne sono più di cento. Credo che questi rumori siano normali» commentò Sennar all’ennesima scossa di terremoto. «Così si spiega anche il caldo, è il fuoco che cova sotto la superficie della terra.»
Nihal annuì distrattamente, poco confortata dalla spiegazione.
Un giorno, mentre avanzavano carponi in un corridoio particolarmente stretto, Nihal vide qualcosa che la insospettì. «Tu resta qui» disse a Sennar.
Non gli diede il tempo di protestare e strisciò lentamente nell’acqua verso l’oggetto che aveva attirato la sua attenzione. Sembrava un fagotto, ma emanava un odore insopportabile, di carogna.
«Non sarà...» Sennar si portò una mano alla bocca.
In acqua c’era il cadavere di un uomo. Doveva essere morto da parecchi giorni, a giudicare dalla puzza e dal suo stato. Era stato spogliato di tutto quel che aveva e indossava solo un grezzo vestito di lino.
Nihal indietreggiò di qualche passo e fece per sguainare la spada, ma il luogo in cui si trovavano era troppo angusto per permetterle libertà di movimento. Restarono immobili, in silenzio, in ascolto di eventuali rumori, ma non sentirono nulla oltre al chiocciare dell’acqua.
«Era un nemico o un amico?» chiese Sennar.
«Non ne ho la più pallida idea... Gli hanno tolto tutte le armi.»
Ripresero la marcia in assoluto silenzio, ma sapevano che non sarebbe bastato a salvarli dal nemico che covava nell’ombra. Chi aveva ucciso l’uomo nel canale doveva conoscere bene l’acquedotto e forse in quello stesso momento li stava osservando, in attesa del momento più propizio per attaccarli.
Il cadavere nel canale non fu l’unico che trovarono. Quello stesso giorno, poco più avanti, ne rinvennero altri e quando giunsero all’imboccatura di una cisterna videro galleggiare sotto di loro una ventina di corpi, mollemente trasportati dalla corrente. Molti erano stati privati delle armi come l’uomo nel canale, altri avevano ancora in pugno le spade o indossavano corazze leggere. Sembrava che ci fosse stata una battaglia.
Nihal e Sennar stettero ammutoliti a guardare la scena, poi la ragazza ruppe il silenzio. Sguainò di colpo la spada e la sbatté contro la roccia. «Chi c’è nell’ombra? Fatevi avanti! Se ci dovete ammazzare, ammazzateci!» urlò con quanto fiato aveva in corpo. Nello sforzo perse l’equilibrio, cadde in acqua e venne trascinata dalla corrente.
Sennar si gettò dietro di lei e riuscì ad agguantarla per un braccio prima che imboccasse la cascata che conduceva alla cisterna. La issò di nuovo sulla passerella, la spinse contro il muro e la guardò severo.
«Ti vuoi calmare? Gridare non serve a niente!»
Il respiro di Nihal si fece meno affannoso e lei si abbandonò fra le braccia di Sennar. «Non possiamo continuare così...»
«Siamo solo stanchi» disse il mago «andrà tutto bene.»
Ma Nihal capì che era una bugia pietosa e inutile.
Raggiunsero un’altra cisterna e si riposarono sulla piattaforma. Era stretta e ci stavano a malapena.
«È meglio che stanotte tu ti faccia una bella dormita. Penserò io a fare la guardia» si offrì Sennar.
«Come se fosse facile... Dormire in un posto che sembra avere mille occhi che ci scrutano e aspettano un nostro attimo di distrazione per assalirci... Per non parlare della fame, del caldo e di questo buio insopportabile» ribatté Nihal.
«Anch’io non ne posso più, credimi. Però perdere la calma non serve a niente. Ti prego, prova almeno a dormire un po’» rispose Sennar. Il suo tono risoluto convinse infine la mezzelfo.
Nihal si accoccolò al fianco del mago e appoggiò la testa sulla sua spalla. Sennar così rimase solo a vegliare. La fiamma illuminava un raggio di poche braccia e al di fuori del suo circolo luminoso le forme si perdevano nell’oscurità. L’acqua innanzi a lui era nera come la pece. I sensi del mago erano tesi, attenti; cercava di scrutare quella notte artificiale per cogliervi un segno della presenza del nemico, ma tutto sembrava tranquillo e silente. Il suono ritmico e costante dell’acqua presto gli diede sui nervi; sembrava volerlo ipnotizzare, mentre lui doveva rimanere sveglio e presente a se stesso.
Poi, lentamente, gli parve che il rumore non fosse poi così ritmico e sempre uguale: sul basso continuo del fluire della corrente si innestavano altri suoni, come le voci in un coro. Erano rumori diversi, improvvisi. Alla fine, Sennar si convinse che fossero una creazione della sua mente, non c’era altra spiegazione. Cercò di distrarsi e di pensare ad altro per restare sveglio. Ma non c’era nulla da fare: i rumori continuavano.
Poi gli sembrò di udire delle voci; non erano parole, ma suoni indistinti. Quindi risate, sommesse, cattive. Ridevano di lui, di quel giovane mago solo nella notte, bagnato fino alle ossa e impaurito.
Le voci si fecero più distinte e si aggiunse un rumore di passi. Scalpiccio sulla roccia umida. Uno, due, tre, cento passi, mille uomini. No, non c’era nessuno.
È la tua immaginazione. Stai calmo.
Ci fu un lieve chiarore e Sennar strabuzzò gli occhi. L’aveva visto davvero? Ora di nuovo tutto era buio. Appoggiò la testa alla roccia e chiuse gli occhi. Ancora rumore di passi. Li riaprì e infine la vide: una luce intensa, un punto luminoso nel buio. Balzò in piedi.
«Che cosa c’è?» chiese Nihal mezzo assopita.
«C’è qualcuno» rispose Sennar in un soffio. La sua mano si rischiarò, pronta a lanciare un incantesimo.
Nihal si alzò e cercò la spada, ma non ebbe nemmeno il tempo di sguainarla. Sentì una mano agguantarle il braccio e torcerglielo. Prima di cadere a terra, vide Sennar innanzi a lei, preso alle spalle da un uomo che gli puntava un lungo coltello alla gola. La luce esplose intorno a loro con violenza. Nihal aveva il volto schiacciato a terra, ma poté cogliere i bagliori di mille fiaccole.
«Ma guarda un po’, abbiamo ospiti qui sotto» disse una voce.
Nihal cercò di divincolarsi. Poi fu colpita alla testa e non vide più nulla.
Sennar tentò una resistenza più agguerrita. Lanciò un primo incantesimo e riuscì a mettere fuori combattimento l’uomo alle sue spalle. Si diede alla fuga, ma fu circondato e colpito alle gambe. Cadde a terra, incapace di respirare per il dolore. La fame e la fatica gli avevano tolto ogni capacità di offesa. L’incantesimo che aveva lanciato era stato il suo canto del cigno.
Quando Ido rinvenne era avvolto dall’oscurità. Si sentiva debole e gli pareva che un chiodo gli trapanasse la testa. Provò a muoversi, ma le braccia erano pesanti e riuscì solo ad alzare le dita. Udì un fruscio, come di qualcuno che si avvicinasse.
«Dove sono?» chiese in un sussurro.
«A Dama, nella Terra del Mare.»
Era una voce nota, ma che non riusciva a riconoscere.
«Chi sei? Non ti vedo...»
«Sono Soana» rispose la voce.
Ido era confuso. L’ultima cosa che ricordava era la battaglia nella Terra dell’Acqua, non capiva come fosse arrivato nella Terra del Mare. Soana dovette intuire il suo sconcerto, perché riprese a parlare.
«Sei stato ferito il secondo giorno di battaglia e da allora sei incosciente. La Terra dell’Acqua è quasi tutta perduta, l’esercito ha riparato qui.»
«Perduta?»
Soana non rispose.
Non c’era da stupirsi. Avevano sempre saputo che sarebbe stata un’impresa disperata. Senza più Galla, poi...
«Da quant’è che dormo?»
«Da quattro giorni.»
Ido fu colto da un vago senso di vertigine. Doveva essere conciato male, non gli era mai capitato di restare incosciente per quattro giorni. «Che tipo di ferita...?» Si interruppe, parlare gli costava fatica.
«Alla testa. Per questo non ci vedi. Hai un bendaggio che ti copre gli occhi. Ora, però, l’ultima cosa di cui hai bisogno è parlare. Riposa piuttosto.»
Ido avrebbe voluto rispondere che si era riposato abbastanza, che adesso aveva bisogno di capire, e che in ogni caso non sarebbe riuscito a dormire con tutte quelle domande che gli ronzavano in testa, ma prima di poter formulare quel pensiero scivolò in un sonno senza sogni.
Quando si svegliò, la mattina seguente, si sentiva decisamente meglio. Provò ad aprire gli occhi, ma gli risultò stranamente difficile. Alla fine riuscì a sollevare le palpebre e vide che tutto era incredibilmente luminoso. Soana era ancora lì, di fronte a lui.
La maga gli sorrise. «Come va oggi?»
«Meglio, direi.»
Ido provò a tirarsi su e con qualche sforzo ce la fece. Soana gli sistemò subito il cuscino dietro la schiena.
Lo gnomo si tastò con cautela la testa. Aveva un largo bendaggio che gli copriva l’occhio sinistro.
Stava per toccarlo, ma Soana gli prese la mano e gliela scostò.
«Non ancora.»
Ido obbedì, nonostante ci fossero mille interrogativi che lo tormentavano. Quel giorno ricordava qualche particolare in più, il duello contro Deinoforo, soprattutto, però non riusciva a rammentare come fosse finito. «Ho molte cose da chiederti» esordì.
Lei cambiò espressione, poi tornò sorridente. «Chiedi.»
«Tanto per iniziare, che cosa diavolo mi è successo?»
«Sei stato ferito mentre combattevi con Deinoforo.»
Di nuovo, maledizione...
«Mi avete portato via dal duello...» disse cupo.
Soana scosse la testa. «Gli hai tranciato di netto la mano destra. È fuggito anche lui, tu sei stato condotto a terra in stato d’incoscienza da Vesa.»
Lo gnomo sorrise. Almeno si era portato via un pezzo di quel bastardo. La mano destra poi... quella con cui combatteva.
«E i miei uomini?» chiese.
Soana si rattristò. «Ido, è una storia complicata, e non sta a me raccontartela... Ora sei stanco, quando starai meglio avrai tutte le risposte.»
«Che ne è dei miei uomini?» insistette Ido. Quella reticenza iniziava a preoccuparlo. Ancora non sapeva neppure che tipo di ferita aveva riportato.
«Te ne parlerà Nelgar, quando ti verrà a trovare» aggiunse la maga, poi uscì dalla stanza, lasciandolo solo con i suoi dubbi.
Nelgar venne, la sera. Si mostrò molto premuroso, chiese a Ido come stava, se aveva mangiato e una sfilza di altre cose inutili.
«C’è molto che voglio sapere» tagliò corto Ido.
Come Soana, anche Nelgar davanti a quella domanda assunse un’espressione che non prometteva niente di buono.
«Non fare quella faccia e parla. Mi pare di essere adulto a sufficienza. Dimmi prima di tutto dei miei uomini.»
«I ragazzi dell’Accademia sono rimasti in trenta.»
Ido sentì il cuore fermarsi. «E i veterani che erano con me?»
«Se n’è salvata una cinquantina.»
«Non è possibile...»
Nelgar sospirò. «Tu non hai idea di che razza di battaglia sia stata... Prima sei stato impegnato con Deinoforo, poi sei stato ferito...»
«Raccontami» disse Ido con un filo di voce.
«Mentre tu e Deinoforo eravate impegnati in duello, sono arrivati altri due Cavalieri di Drago Nero, due esseri identici, che combattevano in coppia. Lì è iniziata la disfatta. Certo, avevi tolto di mezzo Deinoforo, non si è più fatto vedere dopo che gli hai tranciato una mano, ma anche tu eri fuori combattimento e i tuoi uomini erano allo sbando. Non ci hanno concesso tregua. La battaglia ha infuriato per tutta la notte e si è protratta fino al giorno seguente.»
Nelgar esitò, prima di riprendere trasse un profondo sospiro che gli si spezzò in gola. «Mavern è morto per mano di quei due all’alba del terzo giorno e a quel punto è stato chiaro che non ce l’avremmo fatta; era lui che aveva preso il comando dei tuoi uomini dopo che tu eri stato ferito. È stato allora che tanti dei tuoi ragazzi sono caduti. Alla fine non è rimasto altro da fare che ritirarsi... più che una ritirata è stata una fuga. Solo l’aiuto delle truppe della Terra del Mare ha impedito all’esercito del Tiranno di arrivare fino al confine. Una parte della regione a nordest è ancora libera, ma per il resto la Terra dell’Acqua è perduta.»
Ido guardò le lenzuola candide. Avrebbe dovuto aspettarselo. In fondo, aveva sempre saputo che sarebbe finita così, ma non bastava a consolarlo. Pensò a tutti i morti di quei tre giorni, a Galla che si contorceva nell’agonia, al viso triste di Mavern; poi gli tornarono alla mente i volti giovani dei ragazzi dell’Accademia, il modo adorante in cui l’avevano guardato il primo giorno di battaglia. Morti. Quasi tutti morti. Cercò di riscuotersi.
«E ora?» chiese.
«Ora ci stiamo leccando le ferite. Probabilmente rafforzeremo le truppe nella zona ancora libera della Terra dell’Acqua, usando anche gli uomini di Zalenia, ma la situazione è disperata. Possiamo solo resistere e attendere. La nostra ultima speranza è riposta nel viaggio di Nihal, ma non so se sapremo tenere duro fino al suo ritorno.»
Ido si sentiva triste e stanco, come un vecchio al quale pesassero nell’animo molti anni di dolore. Cambiò argomento. «Nessuno vuole dirmi che ferita ho riportato.»
Nelgar sospirò ancora. «Deinoforo ti ha strappato un occhio» disse tutto d’un fiato. «Sei stato fortunato, la lama per poco non ti ha trapassato la testa da parte a parte. Per due giorni sei stato fra la vita e la morte, Soana ti ha ripreso per i capelli.»
Ido ricordò. Il dolore, poi tutto rosso. «In che senso, strappato?»
«Nel senso che non era rimasto molto del tuo occhio sinistro quando ti abbiamo trovato. Abbiamo dovuto toglierlo. Ora hai solo il destro.»
Un silenzio pesante scese sulla stanza. Ido non riusciva a parlare né a pensare. Si portò la mano all’occhio sinistro e non sentì alcun gonfiore sotto le bende. Il suo occhio non c’era più.
«Mi dispiace» disse Nelgar a testa bassa.
Trascorsero alcuni giorni. Soana stette al capezzale di Ido finché lo gnomo non si stancò di rimanere steso in un letto. Era debole, ma fare il malato non gli era mai piaciuto. Volle accelerare la guarigione, nonostante la maga cercasse di dissuaderlo.
«Se forzi i tempi otterrai l’effetto contrario.»
«Mi sento bene, non ho bisogno di starmene a letto come un invalido.»
Alla fine la testardaggine dello gnomo ebbe la meglio, così si alzò e uscì.
Scoprì che quello in cui si trovava non era un vero e proprio accampamento militare. Dama era un paese come tanti, trasformato in base logistica. C’era un viavai di uomini e vettovagliamenti, ma era evidente che la guerra era lontana. Anche Nelgar se n’era andato e il paese era popolato quasi esclusivamente da feriti, come lui. A Ido pareva di trovarsi in un lazzaretto. Vedeva uomini senza gambe o senza braccia, feriti al petto o alla testa, e tutti gli rivolgevano pietosi sguardi di compatimento.
A me non manca un braccio o una gamba. La perdita di un occhio non è niente, si diceva, rifuggendo quegli sguardi compassionevoli.
Ma in cuor suo iniziava a capire che quella era una bugia. Il mondo visto con un occhio solo era completamente differente. Il sole, i boschi, le tende e i feriti, tutto pareva irreale. Ido non riusciva ad accettare quella nuova realtà. Gli oggetti sembravano sfuggirgli dalle mani, troppo vicini o troppo lontani, ed era in grado di afferrarli solo dopo qualche tentativo.
Passerà. Non è niente. Si tratta soltanto di farci l’abitudine.
Era anche un mondo più piccolo, come se si fosse improvvisamente ristretto intorno a lui. C’era sempre qualcosa che accadeva al di fuori del suo campo visivo e lui finiva spesso per urtare gli oggetti mentre camminava. Benché cercasse di non badarvi, quella goffaggine lo irritava.
Gli ci volle del tempo prima di trovare il coraggio di guardarsi allo specchio. Gli cambiavano spesso la benda, ma Ido ancora non aveva mai avuto modo di vedere la sua nuova faccia.
Una sera decise che era giunto il momento.
Sciolse la benda con cautela, perché la ferita era dolorosa. Era come se sentisse ancora l’occhio sinistro, lo percepiva come un chiodo conficcato nella testa. Glielo avevano detto in molti: i feriti continuano a sentire la gamba, dopo che è stata amputata. Ido non credeva che potesse succedere anche con gli occhi; in un certo senso, ci si accorge di possederli solo dopo averli perduti.
Quando ebbe tolto la benda, prese lo specchio che si era fatto portare da Soana. Vide la cicatrice rossastra che gli segnava una buona metà del viso, i punti neri lungo il profilo della palpebra, il sangue raggrumato sotto le ciglia.
Non seppe rapportarsi a quel nuovo se stesso. Non seppe cosa provare. Pensieri oscuri, tenuti fino allora al margine della coscienza, iniziarono ad affollargli la mente.
Sarà diverso. Non potrai più maneggiare la spada come un tempo. Vedi la metà di prima e dalla metà in ombra potrebbe giungere il nemico. Non sarai mai più il guerriero di una volta.
Mentre passeggiava per il paese, un giorno Ido intravide un volto noto, un ragazzo che si trascinava con una stampella. Lo gnomo se lo ricordava bene. Era Caver, l’allievo che si era fatto avanti per duellare con lui durante l’ultima fase delle selezioni. Lo gnomo aveva visto giusto sul suo conto, il ragazzo aveva dato gran prova di sé il primo giorno di battaglia.
Ido lo chiamò e lo raggiunse.
«Signore!» esclamò Caver con un sorriso.
Cercarono un posto isolato dove poter parlare in tranquillità e per qualche minuto stettero in silenzio, come se non avessero poi molto da dirsi.
«Come ti sei ferito?» esordì Ido.
«È stato il secondo giorno, signore, mentre voi eravate impegnato con Deinoforo. Le truppe hanno avuto un attimo di sbandamento, in vostra assenza; è stato allora che un fammin mi ha colpito.» Sorrise triste.
Ido ripensò a quel giorno. Si era gettato su Deinoforo e aveva dimenticato tutto il resto, come se fosse solo sul campo di battaglia. Un comportamento che aveva avuto spesso in passato, ma che ora gli appariva ripugnante. Si vergognò. «Mi sono fatto prendere dalla foga...» ammise a testa bassa.
«Siete stato straordinario!» ribatté il ragazzo. «Mi spiace non aver potuto vedere quando gli avete tagliato la mano, mi hanno detto che è stato incredibile. Avete tolto di mezzo il più forte dei nostri nemici. Dopo essere stato ferito, non è più tornato.»
Poi chiese a Ido di raccontargli il duello. Lo gnomo lo fece e ritrovò il piacere di vedersi guardare con occhi ammirati. Ma non poteva evitare di sentirsi a disagio. I suoi uomini erano morti e lui non era stato lì con loro, li aveva abbandonati a se stessi per condurre la sua battaglia personale. Un comportamento inqualificabile.
«E ora, che farai?» chiese alla fine Ido.
Caver alzò le spalle. «Non credo di voler tornare in guerra. Ho visto cose che non avrei mai immaginato. Non trovo nessun ideale per cui valga la pena di assistere a spettacoli del genere. In ogni caso, mi hanno detto che la mia gamba non sarà mai più come prima. Credo che tornerò a casa, ma non sarà facile riprendere la vita di una volta. Ho visto morire tutti i miei compagni.»
Già, era un dolore che Ido conosceva bene. In quarant’anni aveva visto scomparire sotto terra buona parte dei suoi affetti. Gli restava solo Nihal, ormai.
Si salutarono mentre il sole tramontava pallido all’orizzonte. Tornando al suo alloggio, Ido si sentì un reduce. Qualcosa era cambiato, dopo il combattimento con Deinoforo. Forse una storia volgeva alla fine, o forse lui doveva trovare un nuovo inizio.
Dannazione!» Nihal aveva ripreso coscienza. Aveva un mal di testa insopportabile e le mani serrate da luride corde. Lei e Sennar erano rinchiusi in quel buco puzzolente, legati e sdraiati sulla roccia umida. A un tratto, la mezzelfo aveva sentito che qualcosa non andava, come se nel quadro d’insieme ci fosse una nota stonata. Aveva voltato la testa verso il suo fianco. La spada. Le avevano portato via la spada.
Da quando l’aveva ricevuta in dono da Livon, mai la sua spada le era stata tolta contro la sua volontà. Ora le mani di qualche estraneo la stavano toccando, forse qualcuno dei nemici se l’era assicurata al fianco. Il pensiero le era intollerabile. Quella non era semplicemente la sua spada, era tutto ciò che le restava di Livon, era suo padre.
«Dannazione!»
«Tu almeno dormivi quando sono arrivati i nemici» disse Sennar. «Io ho passato mezz’ora a dirmi che i passi che sentivo erano frutto della mia immaginazione. Se avessi fatto bene la guardia, ora non saremmo qui.»
Il mea culpa di Sennar non bastò a consolare Nihal. Almeno non le avevano portato via il medaglione; sentiva il freddo del metallo a contatto col suo seno, sotto il corpetto. «Chi ci tiene prigionieri?» chiese.
«Non ne ho idea. Siamo ancora nell’acquedotto. Non vedo perché la gente del Tiranno dovrebbe avere basi qui sotto.»
Non aveva molta importanza. Chiunque fosse stato a catturarli, ora erano prigionieri. Fine della missione. Nihal ogni tanto cercava di liberarsi dai nodi che le stringevano mani e piedi, ma senza esito; erano legati con perizia e lei era esausta. La vista iniziava ad annebbiarsi per la fame e il caldo insopportabile le tagliava il respiro in gola.
Dopo qualche ora, la porta della loro cella si aprì e la luce li accecò. Non riuscirono a distinguere nulla, ma udirono delle voci.
«Li abbiamo messi qui.»
«Vedo.»
Una voce di donna, che a Sennar suonò familiare.
«Lui è un mago, ma è conciato male, e lei una specie di guerriero, credo.»
«Tirali fuori, non ho intenzione di ficcarmi in quel buco.»
Due braccia forti afferrarono Sennar e lo gettarono oltre la soglia. Quindi fecero lo stesso con Nihal.
«Vediamo un po’ chi abbiamo qui» disse la voce di donna. Poi ammutolì. «Non è possibile...»
Sennar sollevò lo sguardo e riuscì a distinguere la persona che gli stava parlando. «Sei tu...»
Aires gli saltò al collo. «Sennar!»
Nihal non capiva, ma era indispettita nel vedere quella donna sconosciuta stringere a sé Sennar con tanta foga.
Restarono abbracciati a lungo e quando si separarono ridevano fino alle lacrime. Lei non smetteva di guardarlo e di ripetere: «Non è possibile... Sei tu, Sennar!».
Gli occhi di Nihal alla fine si abituarono alla luce e lei riuscì a distinguere meglio la donna. Era bellissima. Aveva lunghi capelli neri lucidi come legno smaltato e occhi neri profondi e penetranti. Era vestita come un uomo, ma era di una femminilità prorompente. Una donna, una vera donna. Dove l’aveva conosciuta Sennar? E perché erano così in confidenza? Le sembrava che se lo mangiasse con gli occhi e che lui rispondesse con altrettanta voluttà. L’irritazione crebbe.
Dopo quelle manifestazioni di affetto, Aires ingiunse ai suoi di liberarli. Quando vide che Sennar faticava a reggersi in piedi, chiese cosa gli fosse successo. Non gli diede neanche il tempo di rispondere. Gli alzò la tunica e notò sui pantaloni, all’altezza del ginocchio, una macchia di sangue.
«I miei non ci vanno leggeri...» disse. «Ti farò curare.» Lo guardò con occhio clinico e gli prese la faccia tra le mani. «Hai l’aspetto di uno che non mangia da parecchio.»
«In effetti...» Sennar annuì.
«Prima di tutto, allora, si mangia» disse la donna, e li condusse con sé.
Nihal ebbe modo di guardarsi intorno. Erano ancora nell’acquedotto, in una delle cisterne più grandi. Nelle pareti erano stati ricavati nicchie e parapetti che ospitavano almeno una trentina di capanne, popolate da una fauna eterogenea. C’erano alcuni uomini, ma la maggioranza erano gnomi e guardavano i prigionieri con curiosità. Nihal si chiese in che razza di posto fossero finiti.
Per tutto il tragitto la donna e Sennar non smisero di confabulare. Aires li condusse in una capanna più grande delle altre e li fece sedere intorno a un tavolo, alla luce di una fiaccola che proiettava ombre guizzanti sulle pareti e sui barili sistemati in un angolo. Poi impartì degli ordini a due gnomi, che poco dopo tornarono con due piatti di riso bollito. Nihal e Sennar vi si gettarono con una voracità che lasciò la loro ospite senza parole.
«Ma da quant’è che non mangiate?»
Sennar alzò la testa dal piatto il tempo indispensabile per rispondere. «A occhio e croce sei giorni, e non abbiamo fatto altro che marciare in questo stramaledetto acquedotto.»
«Mi ricordavo che eri un osso duro, ma fino a questo punto...» commentò Aires.
Dopo che si furono saziati, Aires tirò fuori una lunga pipa, l’accese e iniziò a fumare. La cosa stupì Nihal. Non aveva mai visto donne che fumavano.
«Ora sei tutto mio» disse Aires, con una voce suadente che rese Nihal ancora più nervosa. «Sei l’ultima persona che mi sarei aspettata di vedere quaggiù.»
«Ti credevo ancora per mare» rispose Sennar.
«Bugiardo» disse lei maliziosa. «Non mi avrai pensata neppure una volta da quando ci siamo lasciati.» Gettò uno sguardo furtivo a Nihal, che era arrossita fino all’attaccatura dei capelli. Aires sorrise. «Immagino che tu sia Nihal.»
La mezzelfo si sentì punta sul vivo. Quella donna sapeva di lei, mentre lei non aveva la più pallida idea di chi fosse. «Mi conosci?»
Aires la guardò divertita. «Sennar mi ha parlato di te» rispose aspirando dalla sua pipa. «Invece sono sicura che non ti ha mai detto niente di me» aggiunse indirizzandole uno sguardo obliquo.
Nihal notò che anche Sennar era arrossito. «Perché dici così?» chiese il mago.
«Conosco i miei polli» ribatté Aires. «Comunque, Nihal, io sono Aires. Facevo il timoniere sulla nave che ha portato Sennar fino al Gorgo.» Si voltò di nuovo verso Sennar. «Basta con le presentazioni, dimmi piuttosto come hai fatto a sopravvivere. Quando ti ho visto prendere il largo con la tua barchetta, ero certa che saresti andato a morire.»
Sennar iniziò a raccontare la sua impresa, con abbondanza di particolari. Nihal lo conosceva troppo bene per non accorgersi che il mago cercava l’approvazione negli occhi di pantera della donna.
«Il buco nella barca lo fece Benares» disse Aires alla fine.
Sennar strabuzzò gli occhi. «Non è possibile.»
«Ma è così» esclamò lei, svuotando la pipa. «Me lo confessò quando arrivammo alle Vanerie. Fu la fine della sua permanenza sulla mia nave. Lo cacciai a pedate.»
Sennar si stupì della calma con cui Aires aveva parlato. Ricordava il bacio appassionato che lei aveva dato a Benares il giorno che l’aveva tirato fuori dalla nave prima che fosse venduto ai militari e tutto il tempo che avevano trascorso chiusi in cabina, all’inizio del viaggio.
«Per quel che ne so» continuò Aires «è ancora alle Vanerie, dove l’abbiamo lasciato. Era un idiota» aggiunse, ma la sua voce iniziava a incrinarsi. «Prima che lo catturassero non era così, un tempo non avrebbe mai tradito un compagno.»
«Come mai non sei più per mare?» chiese Sennar.
«È colpa tua» rispose lei guardandolo. «Mi hai rovinato la vita.» Poi si alzò e prese da uno scaffale sulla parete una bottiglia piena di un liquido violaceo. «Te lo ricordi?» chiese a Sennar.
Il mago sorrise. «Certo.»
La donna prese tre bicchieri e li colmò. Bevve il suo tutto d’un sorso, mentre Sennar lo centellinava.
Nihal guardò il liquido con sospetto, lo assaggiò e si sentì avvampare. Era forte... Niente a che vedere con la birra a cui era abituata.
Aires si sedette con il bicchiere in mano. «Dopo averti lasciato, facemmo come ci avevi consigliato.
Aggirammo il mostro e tornammo alle isole Vanerie, per aggiustare la nave e fare rifornimenti. Ti pensavo spesso» disse guardandolo maliziosa. «Ero certa che fossi morto. Pensavo a tutto quello che ci eravamo detti, alle Vanerie e sulla nave.»
Nihal bevve un lungo sorso del liquore violaceo.
«Iniziai a pensare che forse non avevi tutti i torti, quando parlavi di una vita dedicata a qualcosa di più della ricerca di avventure» continuò Aires. «Comunque, ci facemmo consigliare da Moni. La veggente ci disse che potevamo passare per altre isole, dove la tempesta non c’era. Fu così che cominciammo a esplorare quei mari. Furono tempi gloriosi, a loro modo: terre sconosciute, lidi nuovi, popoli lontani...
«Per quattro mesi non facemmo altro che esplorare, vedemmo tutto ciò che può essere visto da occhio umano. Quando fummo stanchi di vagabondare visitammo le terre al di là del Saar. Riprendemmo la vita di sempre, ma io ero insoddisfatta. Dopo tutti i luoghi che avevo visitato, le avventure che avevo vissuto, avevo l’impressione che non mi fosse rimasto più nulla da fare. Tutto mi sembrava banale, noioso. Navi da assaltare, nemici da abbattere, sempre con la spada in pugno. Ci furono molti uomini, ma finivano con l’annoiarmi anche loro. Ripensavo a te, alla tua morte, e mi domandavo che cosa stesse accadendo di tanto orribile sulla terraferma da convincere un tipo come te a sacrificare la sua vita per la gente del Mondo Emerso.
«Sul mare mi sentivo in gabbia, così decisi di sbarcare. All’inizio lo feci per curiosità: volevo vedere il posto da cui venivi, conoscere la gente a cui avevi sacrificato la tua vita. Mio padre ne fu dispiaciuto, ma non si oppose. Andai prima nelle Terre libere. La Terra del Sole mi fece orrore: tutta quella gente che non faceva altro che gozzovigliare, le donne cariche di gioielli neanche fossero delle divinità... Poi visitai la Terra dell’Acqua, ma anche lì rimasi delusa: uomini e ninfe che si guardavano in cagnesco, generali boriosi... Non capivo per chi tu avessi deciso di sacrificare la tua vita.
«A quel punto presi la decisione di andare in territorio nemico. Nottetempo varcai la frontiera con la Terra del Vento. Fu lì che iniziai a capire. Il sangue e i morti non mi spaventano, lo sai. Ma in quel luogo c’era una crudeltà che sul mare non avevo mai conosciuto. Gente in schiavitù, quelle bestie immonde, i fammin, soldati che uccidevano per diletto, esecuzioni di massa... Era il trionfo della crudeltà fine a se stessa, del sadismo. E poi quella schifosa torre, la Rocca, che troneggiava su tutto. Era visibile da qualunque luogo.
«Vagai a lungo. Visitai la Terra delle Rocce e infine approdai in questa Terra di vulcani, dove l’aria è irrespirabile. Qui per la prima volta conobbi la gente sottoposta al giogo del Tiranno. Erano uomini asserviti, calpestati nella loro dignità, non avevano il coraggio di ribellarsi e facevano tutto ciò che veniva loro ordinato, anche quando si trattava di ammazzare un amico. All’inizio li disprezzai, ero convinta che si meritassero la schiavitù. Poi, però, pensai alle parole che mi avevi detto alle Vanerie, il giorno che avevi parlato con Moni: "Perché i deboli devono soccombere?".» Aires fissò Sennar a lungo e il mago, intimidito, abbassò lo sguardo. Lei riprese a parlare. «Mi sforzai di guardare dentro quelle persone e quel che vi trovai mi condusse fin qui: vidi il seme della libertà. Erano costretti a vivere da servi, erano piagati nel corpo e abbattuti nello spirito, eppure in fondo al loro cuore erano ancora liberi, lo sentivo. Ho sempre creduto che la libertà è tutto nella vita. Far morire il seme della libertà che ogni uomo ha nascosto nel cuore è un delitto. Così decisi di restare qui, conobbi altri che la pensavano come me e insieme a loro organizzai la resistenza al Tiranno, per proteggere quel seme, per farlo crescere.
«Non dovetti far molto. Vi erano già alcuni gruppi di ribelli, gnomi per la gran parte, ma anche uomini; quello che mancava era una struttura in grado di riunirli e coordinarli. Quando mi dissero dell’acquedotto, compresi che era la nostra carta vincente. Ci rintanammo qui sotto e ci mettemmo all’opera. Alcuni degli gnomi avevano lavorato qui e conoscevano ogni canale e ogni cisterna. Scavammo altre gallerie, costruimmo le capanne, organizzammo la difesa. Qualcuno si spostò altrove e creò nuovi gruppi. Così ebbe inizio la resistenza. Viviamo qui sotto e usciamo solo quando dobbiamo compiere qualche scorreria. Colpiamo di nascosto e ci dileguiamo sotto terra. A volte la gente ci aiuta, a volte ci tradisce. Ma noi andiamo avanti.»
Aires si interruppe e buttò giù un altro sorso di squalo. «Buffo, no? Chi l’avrebbe mai detto che sarei finita così? Poco più di un anno fa ero con te sulla mia nave a tessere l’apologia della vita egoista, e ora sono qui sotto terra a parlare di libertà, a capo di quattro poveracci impegnati in una lotta senza speranza...»
Nihal aveva ascoltato quel lungo discorso in silenzio e ora guardava Aires con ammirazione. Persino quella donna, che aveva fatto il pirata e che a quanto diceva aveva trascorsi da gaudente, aveva un ideale che la guidava, sapeva ciò che faceva e perché. Al suo confronto si sentì piccola e inutile, con la sua spada insanguinata, i suoi mille dubbi e la sua incapacità di vivere, di trovare la propria strada.
«In fin dei conti sei sempre la stessa» disse Sennar. «Anche quando mi parlavi della tua vita sul mare, sapevo che era questo che avevi nel cuore. Lo vedevo nell’amore per la tua nave e nella fedeltà ai tuoi uomini.»
Aires lo fissò con uno sguardo indagatore. «Tu invece non sei più lo stesso. Ora sembri triste, abbattuto, te lo leggo negli occhi. Non sei più il ragazzo che avevo conosciuto. Ti è successo qualcosa.»
Sennar abbassò gli occhi e Aires cambiò argomento. «Come mai siete qui? Il posto di un consigliere è a Makrat, o sbaglio?»
«Non sono più un consigliere» disse Sennar, poi accennò al fatto che per quel viaggio aveva dovuto abbandonare il Consiglio.
«Allora la cosa deve essere seria. Perché vi siete messi in viaggio?» chiese Aires.
Nihal capì che era arrivato il momento di intervenire. «Non possiamo dirtelo.»
Aires si voltò verso di lei e le rivolse un’occhiata indecifrabile. «E perché?»
«Perché dalla nostra missione dipendono molte vite e la segretezza è un’arma.»
La donna guardò Sennar.
«Ha a che fare con la guerra e con il Tiranno» si limitò ad aggiungere il mago.
Aires scrollò le spalle. «Se la cosa è tanto grave, sono io stessa a non voler sapere nulla.»
Continuarono a parlare per ore, ma Nihal era tagliata fuori dai loro discorsi e dai loro ricordi comuni. Sennar sembrava contento di aver ritrovato quella donna e la guardava con affetto, mentre Aires muoveva rapida i suoi occhi da gatto su di lui, come a cercare di penetrare nelle zone più recondite del suo animo. Nihal si sentì triste e indispettita per tutto il pomeriggio.
Una volta uscita dalla capanna di Aires, Nihal sentì il bisogno di restare da sola, così scese sulla piattaforma e immerse le gambe nude nell’acqua. Nella cisterna non c’erano aperture verso l’esterno, perché era meglio che il rifugio non fosse in comunicazione con il mondo di sopra. Benché il tempo trascorso con quella donna le fosse sembrato interminabile, Nihal calcolò che doveva essere calata da poco la sera.
Era lì già da un po’ e muoveva lentamente le gambe, concentrata solo sul rumore dell’acqua e sui circoli che descriveva con i piedi, quando sentì qualcuno dietro di lei.
«Cosa fai?»
Nihal non si voltò. «Niente, mi riposo.»
Sennar si sedette al suo fianco.
«Tu cosa facevi?»
Eri da Aires, ecco cosa facevi...
«Ho dormito un po’, ero esausto» rispose il mago.
Nihal continuò a muovere i piedi. Sentiva che anche Sennar era triste e si chiese il perché, proprio ora che aveva ritrovato quella donna alla quale, a quanto pareva, teneva tanto. «Perché non mi hai mai parlato di Aires?» gli chiese.
Sennar arrossì e non rispose.
«Era il timoniere... E poi siete in confidenza, mi pare» insistette Nihal.
«Non lo so... Mi sarà sfuggito...» borbottò Sennar, poi si distese a terra e fissò la volta della cisterna.
Nihal pensò che l’amico non le era mai sembrato tanto lontano eppure tanto vicino come in quel momento. Si coricò anche lei e rimasero a guardare la roccia sopra di loro in silenzio.
Restarono ospiti di Aires per quattro giorni e lei mostrò loro la comunità sopra la quale regnava. I suoi ordini venivano eseguiti anche dagli abitanti di due cisterne contigue. I ribelli erano organizzati in piccoli gruppi e ciascuno aveva un capo. I membri di gruppi diversi non si conoscevano, solo i capi erano in contatto. In questo modo, se qualcuno fosse caduto in mani nemiche, non avrebbe potuto rivelare troppi segreti. L’organizzazione era come una belva dalle molte teste. Per ogni comunità che si estingueva, ce n’erano numerose altre celate nelle viscere della terra che continuavano la loro missione.
La loro era una continua opera di disturbo al Tiranno. Il più delle volte l’obiettivo erano le fucine che costellavano quella Terra. Esistevano già quando la Terra del Fuoco era libera e si trovavano nei pressi dei vulcani che disegnavano il profilo tormentato di quella Terra. Le armi che vi venivano forgiate erano da sempre le migliori e le più resistenti. Da quando Moli era stato trucidato dal figlio Dola, però, la quasi totalità della popolazione era stata ridotta in schiavitù e costretta a lavorare nelle fucine. Da lì uscivano le migliaia di spade con cui l’esercito del Tiranno seminava morte sul campo di battaglia.
I ribelli attaccavano le fucine, liberavano i prigionieri, uccidevano le guardie, facevano razzia di spade.
«Non è molto» spiegò Aires «però diamo fastidio. Siamo ovunque e attacchiamo di continuo, in modo che la produzione sia rallentata.»
Ma quell’oblio non poteva durare in eterno e fu Nihal la prima a pensare alla missione incombente. La sera del quarto giorno disse a Sennar che aveva intenzione di partire l’indomani. Scrutò con attenzione il volto dell’amico, per catturare anche il minimo segno di rimpianto all’idea di dover abbandonare quel luogo, come prova del suo affetto per Aires, ma non ne trovò traccia.
«Volevo parlartene anch’io» rispose Sennar. «Prima finiamo questo dannato viaggio, meglio sarà.»
Sennar lo comunicò ad Aires, da solo.
«Non potete andare via così» disse Aires con calma, tirando dalla sua pipa.
«Ti prego» insistette Sennar «non cercare di trattenermi. È fondamentale partire il prima possibile.»
Lei lo guardò tranquilla. «Non ho intenzione di trattenerti. Dico che non potete andare via da soli. Vi perdereste nel giro di un paio d’ore, finireste col vagare tra i canali per giorni e alla fine morireste di fame. Proprio come quando vi abbiamo trovati.»
«In effetti una guida ci farebbe comodo» ammise Sennar.
«Mi devi dire dove siete diretti» controbatté lei.
Sennar sospirò. «Non posso.»
«Non mi interessa il perché» spiegò Aires «e non mi interessa che cosa dovete fare. Voglio solo sapere dove, altrimenti non vi ci posso accompagnare.»
Sennar la guardò stupito. «Vuoi farci tu da guida?»
Aires tirò una lunga boccata, poi con tutta calma soffiò fuori il fumo. «Conosco bene questi posti e lo faccio con piacere.»
«Non so se i tuoi saranno contenti... Sei il capo qui, avrai delle responsabilità.»
«Non ho mai smesso di fare quel che mi pare.» Sorrise. «Proprio perché sono il capo, sono libera di accompagnare un vecchio amico. Comunque, c’è chi può sostituirmi.»
«A dire il vero non sappiamo bene dove dobbiamo andare» disse il mago. «Cerchiamo una specie di lago, credo, con un’isola al centro.»
Aires appoggiò i piedi sul tavolo e rovesciò il capo all’indietro. Sembrava che scrutasse un’immaginaria cartina sul soffitto della capanna, per individuare il luogo richiesto. Poi abbassò lo sguardo. «C’è un unico lago in questa Terra, parecchie miglia a ovest da qui. Si chiama Lago di Jol e non è proprio un bel posto. Secoli fa in quel punto c’era un enorme vulcano. L’ultima eruzione gli fu fatale; saltò letteralmente in aria e oscurò per anni tutta la Terra del Fuoco con i suoi detriti. Al suo posto si formò il lago, ma le braci di quell’inferno covano ancora sotto la superficie. Al centro si innalza un’isoletta, è un piccolo vulcano. Erutta in continuazione e la sua lava finisce in acqua, sollevando una perenne nube di vapore che nasconde il lago. Le sue acque sono tossiche e talmente salate che potresti farci galleggiare un pezzo di piombo.»
Sennar ricordò i santuari che avevano visitato e pensò che quel luogo infernale fosse adatto a custodire la pietra del fuoco. «Perfetto, temo proprio che dovrai portarci fin là.»
«Come vuoi» disse lei.
Sennar stava già per imboccare la porta, quando Aires lo fermò. «Che cos’hai Sennar?» gli chiese a bruciapelo.
Lui si fermò sulla soglia, ma non si voltò. «Nulla.»
«Non fare l’idiota con me. Siamo stati insieme solo per tre mesi, ma ti conosco bene. Non sei più il ragazzo che ho accompagnato fino al Gorgo, c’è qualcosa di diverso in te, qualcosa che ti fa soffrire. È per Nihal? Siete fatti l’uno per l’altra, basta guardarvi per capirlo.»
Sennar sorrise e le si avvicinò. «Durante questo viaggio sono successe cose che non sarebbero mai dovute accadere, ho visto verità che non immaginavo, che avrei preferito ignorare. Sono queste che mi hanno cambiato» disse in tono stanco. Aires fece per parlare, ma lui la interruppe. «Ho superato io stesso un confine che non avrei mai creduto di poter oltrepassare. Sono arrivato a chiedermi se davvero esiste qualcuno su questa terra degno di essere salvato, se non siamo tutti avviati sulla via della perdizione.»
L’espressione di Aires cambiò, fu come se d’un tratto avesse rinunciato a tutte le sue difese. «Io raggiungo la redenzione e tu ti perdi» commentò.
Sennar sorrise, un sorriso triste.
Aires prese un’altra lunga boccata dalla sua pipa. «Se non fosse stato per te, forse io non sarei qui ora. Qualunque cosa tu abbia fatto, devi perdonarti. Macerarsi nel senso di colpa non serve a nulla.»
Sennar le sorrise con gratitudine e volle lasciarle credere che lo aveva convinto. Ma non era così. Avrebbe proseguito nella sua lotta, perché ci sarebbe sempre stato qualcuno degno di essere salvato. Ma il ricordo della radura e dei corpi carbonizzati lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. Insieme alla certezza che niente sarebbe più stato come prima.
Partirono il mattino seguente e Aires mise subito in chiaro che il percorso non sarebbe stato facile e che la strada era lunga. Il viaggio iniziò nel modo peggiore, perché si dovettero infilare in un tunnel lungo e stretto, dove furono costretti ad avanzare carponi.
«Alcuni condotti sono a rischio, sono conosciuti dal Tiranno e dai suoi. Questi più scomodi sono molto più sicuri» spiegò Aires.
Camminavano spediti, Aires era una guida abilissima e si muoveva con agilità fra tunnel e gallerie.
Sembrava conoscere a menadito ogni passaggio e ogni scorciatoia, e non solo nel suo territorio, ma nell’intero acquedotto. Anche dove arrivavano a intersecarsi fino a dieci canali, la donna non esitava un solo istante e procedeva sicura.
Non incontrarono mai nemici, ma più di una volta furono costretti a deviare all’improvviso. Aires si fermava di botto e restava immobile, quasi fiutasse l’aria, oppure si accovacciava a terra e ascoltava la roccia. Poi faceva imboccare loro un’altra strada.
«Di tanto in tanto il nemico manda qualcuno in avanscoperta; abbiamo dovuto distruggere dei canali per questo» spiegò un pomeriggio a Nihal e Sennar.
La mezzelfo scoprì che sopportare Aires era meno difficile del previsto. A parte le volte in cui parlava con Sennar e gli scoccava sguardi infuocati che sembravano fatti apposta per provocarlo, era una compagna di viaggio piacevole. Se nei quattro giorni di permanenza nella cisterna aveva degnato sì e no di uno sguardo Nihal, durante il tragitto iniziò a rivolgersi a lei più di frequente.
Un giorno insistette per battersi con lei con la spada. Nihal accettò con entusiasmo, perché ardeva dalla voglia di sconfiggerla e metterla a posto una volta per tutte.
Il duello ebbe luogo sulla piattaforma di una cisterna. La prima delle due che fosse caduta in acqua o fosse stata ferita avrebbe perso. Fu una lotta accanita e Nihal si scagliò contro la donna con tutta la forza che aveva, cercando di sfruttare ogni trucchetto che aveva imparato sui campi di battaglia. Aires però non era da meno; era dotata di grande agilità, era piena di risorse e soprattutto non esitava a giocare sporco. Nihal capì presto che i duelli a cui era abituata si decidevano grazie alla sorpresa e ai tranelli.
Alla fine, dopo un combattimento lungo e appassionante, Nihal ebbe la meglio. Gettò in acqua Aires, dopo averla messa spalle al muro con una serie di attacchi serrati. La vittoria però non le diede la gioia che aveva sperato. Il duello l’aveva divertita, aveva ammirato la sua avversaria e ora si sentiva quasi rappacificata con quella tizia che le suscitava tanta antipatia.
Il passo decisivo nella trasformazione del loro rapporto fu compiuto una notte. Nihal era di guardia, seduta accanto al fuoco. Era persa nei suoi pensieri, quando sentì Aires avanzare alle sue spalle con il consueto passo felpato.
Spesso, mentre la guardava camminare innanzi a lei, Nihal ripensava a ciò che le aveva spiegato Eleusi sul modo in cui deve incedere una donna. Allora non aveva capito cosa intendesse, ma quando aveva visto per la prima volta Aires ancheggiare, aveva compreso come si muoveva una vera donna e aveva trovato che quel movimento fosse quasi ipnotico.
Nihal non si mosse.
«Il tuo turno è finito, tocca a me» disse Aires stiracchiandosi.
«Se vuoi, dormi pure. Io posso restare ancora un po’» rispose Nihal.
Quella sera non aveva voglia di dormire. Temeva che se avesse chiuso gli occhi i fantasmi sarebbero tornati. Da quando Laio era morto, poi, aveva il terrore di vedere anche lui tra le presenze che turbavano le sue notti.
«Fa’ come vuoi» disse Aires con una scrollata di spalle. «Io ho dormito abbastanza, veglierò con te.»
Estrasse la pipa dalla bisaccia che portava sempre con sé, la accese e iniziò a fumare. Persino quell’atto, che a Nihal era sempre sembrato virile, compiuto da lei aveva un che di sensuale.
«Ti immaginavo diversa» esordì Aires. «Dalla descrizione di Sennar mi ero fatta un’altra idea di te.»
«E come mi immaginavi?»
«Molto più... decisa. Mi aspettavo di vedere una furia, e invece ho trovato una ragazzina spaurita.»
Nihal mise il broncio. Quella descrizione la infastidiva: lei era un guerriero, non una ragazzina.
«Non è una critica» continuò Aires. «Una donna è sempre una donna, è bene che mantenga la sua femminilità. Ma io mi aspettavo che fossi una specie di gigantessa tutta muscoli.»
Tra loro scese di nuovo il silenzio. Nihal era a disagio, Aires invece continuava a fumare tranquilla e disinvolta.
«Perché non me lo chiedi?» disse d’un tratto la donna.
Nihal voltò la testa. «Che cosa?»
«Lo sai. Di chiarirti il dubbio che ti rode.»
«Non c’è nessun dubbio» rispose la mezzelfo, ma si accorse di essere arrossita.
Aires sospirò. «Per tutto il tempo che abbiamo vissuto insieme sulla nave io avevo un amante, l’uomo di cui ho parlato con Sennar il giorno che i miei uomini vi hanno trovati. Ero così stupida da non avere occhi che per lui, quindi non avevo tempo per pensare al tuo ragazzo.»
«Scusa?» sbottò Nihal, rossa come un peperone.
«Sennar» disse Aires con calma. «Il tuo ragazzo.»
«Sennar è il mio migliore amico, nient’altro.»
«Un tuo amico?» ripeté Aires scettica.
«Il mio unico amico» precisò Nihal, con una nota di tenerezza nella voce.
«A vedervi insieme non si direbbe...»
«Non ho tempo per cose del genere, devo pensare solo alla mia missione» rispose Nihal guardando il fuoco.
«Non sono d’accordo» ribatté Aires. Tirò una lunga boccata dalla pipa. «Per gli uomini c’è sempre tempo.»
«Non per me» disse Nihal. «Questa non è solo la mia missione. È la mia vita.»
«Sennar mi aveva detto che la tua vita era combattere.»
«Forse non più...» mormorò Nihal. «Ci dev’essere qualcosa d’altro, qualcosa che dia forma a tutto il resto, che gli dia un senso.»
«Un motivo che spinge a vivere...» commentò Aires.
Nihal annuì.
«È questo che cerchi, un motivo?»
«Quando hai parlato della libertà, il primo giorno» cercò di spiegare Nihal «mi è piaciuto quello che hai detto. Ne eri davvero convinta. Anch’io vorrei credere tanto in qualcosa, avere un punto fermo a cui appigliarmi.»
«Non capisco» disse Aires. «Tu sei un guerriero, combatti contro il Tiranno. Un motivo ce l’hai eccome, no?»
«No» rispose Nihal sconsolata. «Sto facendo questo viaggio perché devo, non perché lo voglia. Combatto perché non so fare altro. Vado avanti nella speranza di trovare qualcosa, ma non trovo mai nulla. Tutti i punti fermi che credevo di aver individuato erano malsicuri e sono crollati sotto i miei piedi. Forse non c’è nulla a cui appigliarsi, o almeno non per me.» Alzò gli occhi, imbarazzata da quella confessione involontaria, e vide che Aires la guardava con un’espressione sconcertata.
«Forse hai cercato male» disse.
«Tu come hai trovato quello in cui credi?»
«Non so spiegarlo. A un tratto la sua verità mi si è imposta, con tanta forza che non potevo rifiutarla. Probabilmente era già dentro di me da tempo e a un certo punto è venuta alla luce. Hai sempre combattuto, se non sbaglio» continuò Aires. «Ti sei mai chiesta se il senso della tua vita sia davvero nella lotta? E se fosse altrove? Se ti fosse accanto e non te ne fossi mai accorta?»
Nihal rimase interdetta e fissò il fuoco, senza rispondere.
«Non devi credere che ciò che spinge gli uomini a vivere siano solo gli ideali alti e magniloquenti. A volte è dalle piccole certezze che si deve partire per costruire grandi convinzioni, e i piccoli desideri spingono verso grandi imprese. Hai mai pensato a questo?»
Nihal continuò a osservare il fuoco in silenzio.
«E Sennar?» chiese Aires all’improvviso.
Nihal arrossì di nuovo. «Cosa c’entra Sennar?»
«Pensi di poterti fidare di lui? Credi in lui?»
«Certo che ci credo! È l’unica persona in cui possa riporre completa fiducia.»
«Allora non è vero che non hai certezze, perché una sta dormendo lì al tuo fianco» concluse Aires. Quindi si mise la pipa in bocca e riprese a fumare tranquilla.
Furono necessari tredici giorni di viaggio per giungere alla meta, il Lago di Jol. D’improvviso il canale che seguivano si impennò verso l’alto e attraverso un’apertura che sembrava lontanissima videro penetrare una luce fioca.
«Qui le cose si fanno più complicate» disse Aires. Tirò fuori dalla sacca che portava con sé una corda e una specie di piccozza. «Vado avanti io e fisso la corda; voi mi seguirete. Cercate di abituarvi a poco a poco alla luce, o vi accecherà.» Quindi prese a scalare rapida la roccia, mentre l’acqua scorreva impetuosa sotto di lei.
Quando la vide salire veloce come un furetto, Sennar sorrise. Era la stessa Aires che si arrampicava sugli alberi e le sartie della nave, qualsiasi fossero le condizioni del mare.
Il sorriso del mago però si spense presto. Dopo mezz’ora, infatti, Aires tornò indietro e disse loro che potevano procedere; dovevano afferrarsi alla corda e issarsi con la forza delle braccia. Non appena sentì quelle istruzioni, Sennar guardò preoccupato l’acqua sotto di loro.
Per Nihal la scalata non fu un problema. Sennar invece non se la cavò altrettanto facilmente. La sua lunga veste si impigliava di continuo e il mago più di una volta rischiò di cadere e si chiese come accidente gli fosse venuto in mente di cacciarsi in una situazione del genere. Alla fine, però, riuscì a salire e in meno di un’ora riguadagnarono la luce.
Quando emersero, parve loro di aver raggiunto l’inferno. Dapprima tutto ciò che notarono furono fumo, nubi dense e un odore acre di zolfo; sembrava di non poter respirare, per il fetore e per il caldo. Poi la visuale si fece più nitida e in lontananza scorsero una serie di punti luminosi rossi che si stagliavano contro il cielo giallo. Quando si furono abituati alla luce, a poco a poco si accorsero che quei punti rossi erano bocche di vulcani. Ciascuna eruttava lapilli e ceneri, e sbuffi di fumo si alzavano verso il cielo in pennacchi neri.
Tutto intorno non vi era vegetazione, solo nuda roccia dilavata dalle piogge di colori sgargianti, giallo e arancione. Anche da terra si sollevavano vapori mefitici, ma candidi come le nuvole in un cielo estivo.
«Non è tutta così la Terra del Fuoco» disse Aires, mentre li precedeva. «Questa è una delle zone peggiori, insieme ai Campi Morti. Verso nord, però, il paesaggio migliora. Si dice addirittura che dalle parti di Assa ci fosse un bosco, molti anni fa. Io però amo questa desolazione.» Lasciò vagare lo sguardo intorno. «Non so perché, ma sento che questa terra selvaggia è la mia patria, come lo era il mare.»
Iniziarono a camminare seguendo il corso impetuoso del fiume che li aveva condotti fin lì; si buttava nelle viscere della terra nel punto in cui erano emersi alla luce. Era l’emissario del Lago di Jol ed era anche l’unico fiume che scorresse per un breve tratto allo scoperto; per il resto, nella Terra del Fuoco l’acqua era tutta sotterranea e riemergeva solo in prossimità delle città. Celebre era l’acquedotto di Assa, un’enorme costruzione che circondava la capitale e portava l’acqua ai suoi abitanti.
Il fiume in realtà era poco più di un rivo, nonostante la violenza delle sue correnti. Scorreva fra rocce colorate nelle sfumature del rosso e del giallo, tormentate nella forma e rimodellate di continuo dall’erosione. Al contatto con la pietra calda, l’acqua evaporava e formava quella cortina impenetrabile di fumo che all’inizio aveva impedito loro la vista.
Non dovettero camminare a lungo, prima di giungere al lago. Anch’esso era ricoperto di una fitta coltre di fumo, tanto denso e candido da sembrare la nebbia di un mattino d’inverno. Il caldo era soffocante e l’aria impregnata di odori pungenti. A fare da sottofondo a quel panorama c’era il cupo e costante brontolio dei vulcani, che con quel suono maestoso sembravano rivendicare il possesso del luogo. Si udiva poi un rumore chiocciante, che a Sennar ricordò il gocciolio della fontanella nel giardino in cui aveva detto addio a Ondine, ma che era il lento sobbollire del lago. Grosse bolle di gas emergevano dal fondo e scoppiavano pigre sulla superficie verde smeraldo, che diventava di un blu cupo dove la profondità era maggiore. Proprio lì si innalzava dalle acque il vulcano di cui Aires aveva parlato.
Non doveva essere alto più di una cinquantina di braccia e aveva una bocca piccola e tondeggiante, dalla quale fuoriusciva una lava densa, che poi colava lenta nel lago.
«Come vi ho già spiegato, le acque sono velenose e impregnate di sale» disse Aires, quando si fermarono sulla sponda. Raccolse una pietra da terra e la lanciò nel lago. Dopo un primo tonfo, la pietra risalì lentamente a galla e rimase a fluttuare sul pelo dell’acqua.
Sennar e Nihal rimasero per un po’ a guardare stupiti.
«È questo il posto?» chiese infine il mago.
Nihal chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Sì, è questo.»
«Bene» disse Aires. «Vi ho portati dove volevate arrivare. Ora non mi interessa cosa dovete fare e, a quanto ho capito, è meglio che non lo sappia. Io me ne vado, vi aspetto nell’ultima delle cisterne dove siamo passati.»
Detto questo, voltò le spalle e si avviò nella direzione da dove erano venuti, lasciando Sennar e Nihal indecisi sulla riva.
«E ora?» chiese Sennar.
«Il santuario è nel vulcano» disse Nihal con calma.
«Perfetto!» osservò Sennar. «Come ci arriviamo?»
«Con la magia» rispose Nihal.
Il mago notò che la sua voce aveva un tono strano, privo di qualsiasi sfumatura. «Va tutto bene?»
«Evoca una passerella» continuò Nihal con la stessa voce atona.
Sennar la guardò per qualche istante, poi obbedì. Una labile passerella si disegnò sul pelo dell’acqua e la mezzelfo vi salì. Sennar stava per seguirla a ruota.
«Tu resti qui» lo fermò Nihal.
«Perché? Sono venuto con te praticamente in tutti i santuari.»
«Stavolta non puoi seguirmi. Mi attende qualcuno cui sono consacrata.»
«Però...» provò a protestare Sennar, ma Nihal si era già allontanata e i fumi che sovrastavano il lago l’avevano avvolta.
Il mago si sedette sulla riva e restò immobile, in attesa. Dunque era Shevrar che la chiamava.
Nihal camminava con la sensazione di obbedire a un comando, a un richiamo stranamente familiare al quale non sapeva resistere. Il talismano, celato sotto il corpetto, le indicava con chiarezza l’ubicazione del santuario; Nihal poteva quasi sentire sulla pelle lo splendore delle pietre.
Al centro del lago, sull’isola, avrebbe trovato il servo prediletto di Shevrar, il dio oscuro e misterioso a cui sua madre l’aveva consacrata.
Nihal giunse presto nei pressi del vulcano. Fece un giro intorno all’isola e all’inizio scorse solo lava, ovunque; nessun passaggio che conducesse all’interno. Poi, aguzzando la vista, intravide una piccola piattaforma, lambita dalla lava ma formata di terra solida. La raggiunse.
Innanzi a lei, avvolta da un muro di fiamme, c’era una porta sulla quale, vergata col fuoco, si leggeva una scritta: "Flaren". Il luogo ove Flar era custodita, il santuario di Shevrar.
Nihal d’un tratto perse tutta la sua sicurezza. Sentiva che il fuoco la chiamava e aveva paura. Che cosa poteva volere da lei? Non conosceva quel dio, non amava il suo nome, che sapeva di battaglia e distruzione. Non avrebbe voluto varcare quella soglia di fuoco, però doveva farlo. Avanzò verso la porta di fiamme e vi passò attraverso. A metà strada si fermò, perplessa. Il fuoco le lambiva la carne ma non la bruciava. Dunque era ben accolta in quel luogo.
Entrò e innanzi a lei si presentò un’immensa sala circolare, le cui pareti erano del colore del sangue e incredibilmente luminose. Lingue di fuoco si innalzavano come colonne verso il soffitto e in fondo, levata a mezz’aria su una pira, rosseggiava Flar. Nihal immaginava che il caldo dovesse essere insopportabile, eppure lei non lo sentiva, anzi, si trovava a suo agio in quel luogo, come se fosse quello il posto cui era da lungo tempo destinata. Aveva fatto bene a non portare Sennar, lui non avrebbe sopportato quel calore e forse non sarebbe neppure passato indenne attraverso la soglia.
Nihal avanzò e l’eco dei suoi passi sul pavimento riempì il silenzio.
«Rassen, Sheireen tor Shevrar» disse una voce.
Un uomo avvolto dalle fiamme si inginocchiò innanzi a lei.
Già una volta le avevano parlato in quell’idioma, ma non lo aveva compreso. Ora invece intendeva il saluto del guardiano e gli rispose: «Rassen tor sel, Flaren terphen» per poi meravigliarsi lei stessa delle parole che aveva pronunciato.
Il guardiano alzò la testa e la guardò, poi le sorrise. Era un bellissimo giovane; i suoi occhi rosseggiavano di brace e persino i capelli erano di fuoco. Quando parlò di nuovo, lo fece nella lingua del Mondo Emerso: «Dunque giungesti, infine, Consacrata».
Sei un servo di Shevrar, vero?» chiese Nihal. «Anch’io sono a lui consacrato, ma non come te, che resti pur sempre una creatura di questo mondo. Io sono un essere da lui creato per presiedere a questo luogo» rispose il giovane.
Nihal d’un tratto si sentì sciolta dall’incantesimo che l’aveva avvinta mentre avanzava verso il santuario. D’istinto, volle mettere distanza tra sé e quell’essere.
«Sono qui solo per la pietra, non come Consacrata» disse.
«Proprio perché sei Consacrata, Sheireen, sei qui per la pietra» rispose il giovane con un nuovo sorriso.
Nihal lo guardò interrogativa.
«Quando tua madre, al colmo della disperazione, pregò il mio dio perché la salvasse, Shevrar fece di te la predestinata, com’era stato predetto.»
«Io non so chi sia Shevrar» ribatté Nihal. «Reis mi parlò di lui e mi disse che era il dio della Guerra. So solo che è poiché gli sono consacrata che sono abile a combattere.»
Il giovane scosse la testa. «Egli non è solo il dio della Guerra, Reis ti disse male. Nella cecità del suo odio, Reis nel mio dio non vede altro che distruzione, ma egli non è solo fuoco e guerra. Anche Ael te ne parlò, ricordi? Lo fece con altre parole. Ti disse che egli è il principio e la fine, la morte e la vita. Questa è la sua essenza, e in tale essenza vive la tua missione.»
«Mi ha consacrata per la mia missione? Io credevo che volesse che combattessi...»
«Tu, come altri, vedi solo l’odio; è per questo che il mondo sta viaggiando verso la perdizione. In realtà ogni dolore nasconde una gioia, e ogni fine un principio. Quando anni fa il Tiranno prese il potere, un saggio del tempo svelò una profezia, che lanciò su di lui come una maledizione. Egli era l’ultimo dei sacerdoti di Shevrar, perché già allora i mezzelfi stavano dimenticando i loro dèi, gli dèi dei loro padri elfi. Egli disse che il fine che il Tiranno voleva raggiungere non si sarebbe mai avverato, perché il termine ultimo è lungi dal sopraggiungere e non è nella natura di Shevrar. Per questo la Consacrata, una mezzelfo, avrebbe fermato la sua mano sacrilega. La Consacrata sei tu, Sheireen.» Il guardiano tacque.
«Qual è il fine ultimo del Tiranno?» chiese Nihal dopo qualche istante.
Flar scosse il capo. «Non è ora il tempo che tu lo conosca. Sappi solo che egli si è ribellato agli dèi, e a Shevrar per primo, dimenticando l’eterno fluire delle cose.»
Nihal rimase interdetta. «Cosa devo fare, dunque? Perché Shevrar ha salvato me sola fra tutti i mezzelfi?»
«Perché infine giungessi qui e ricevessi dalle mie mani Flar, e con essa abbattessi il Tiranno.»
«Ma perché proprio io?» ribatté Nihal, inquieta. Sentiva l’ombra del destino stagliarsi su di lei, l’ombra della morte e della vendetta che a lungo aveva cercato di sfuggire.
«Perché tua madre impetrò per te.»
«Dunque la mia vita è tutta qui? È questa la risposta che cercavo?»
Il giovane si alzò e la fissò negli occhi. Il suo era uno sguardo di infinita saggezza e condiscendenza. «Quando fosti salvata, nel sangue di tua madre e di tuo padre, gli dèi, e Shevrar per primo, vollero donare con te una speranza a questo mondo ferito. La tua missione è la speranza in una nuova era, la speranza nella pace.»
«Alla fine, tutto è come mi disse Reis nella sua capanna nemmeno un anno fa: io sono l’arma con cui questi dèi che nessuno venera più prenderanno la loro rivincita sul Tiranno» disse Nihal con amarezza, lo sguardo rivolto a terra.
«Sarà vendetta solo se tu vorrai che lo sia. Gli dèi non posseggono il cuore degli uomini, e neppure il destino ha pieno potere su di loro. Tu sei l’unica, Sheireen, a poter ridare la luce a questo mondo, ma la decisione finale spetta a te. Quando sarai di fronte al Tiranno, nessuno potrà dire quel che farai. Il tuo destino non è una gabbia, solo il sentiero che ti è indicato.»
«Ma essere rimasta l’ultima mi ha tolto la possibilità di scegliere» ribatté Nihal.
Flar sorrise. «Thoolan vide bene in te: tu non senti la tua missione, tu non vuoi fare quel che stai facendo.»
«Io devo farlo, l’hai detto anche tu. Sono Sheireen, a questo consacrata.»
«In parte è vero, ma fosti tu ad alzarti in Consiglio e a prendere su di te tale fardello» ribatté il giovane continuando a sorridere. «Il senso della tua esistenza non si esaurisce nel tuo destino, e non credere che il mio dio non voglia la gioia anche per te. In quanto Consacrata, quel che stai facendo è giusto, ma lo scopo del tuo agire, quello non posso dirtelo io, né il mio dio. Esso è in te e in ciò che ti circonda, ed è l’essenza della tua ricerca.»
Nihal era scoraggiata. Dunque non era finito il suo girovagare, la sua ricerca non era giunta al termine. Neppure la certezza appena enunciata da Flar doveva bastarle? Il guardiano aveva detto che da anni era scritto che avrebbe intrapreso quel viaggio, che avrebbe preso le pietre e infine sarebbe andata a sconfiggere il Tiranno. Era questa la risposta. Eppure l’aveva sempre saputo, lo sentiva nel cuore, e dunque non poteva essere quel che cercava.
«Pensi bene» disse Flar. «Ciò che altri hanno deciso per te non può essere lo scopo del tuo agire. La tua missione era stabilita prima ancora che tu nascessi, prima che tua madre e tuo padre vedessero la luce di questo mondo. Perciò l’essenza della tua vita non è in questo viaggio.»
Nihal sospirò. «È scritto anche che batterò il Tiranno?» chiese.
Stavolta il guardiano rise e la sua bellezza splendette ancora più fulgida. «Sheireen, il cuore e la mente delle creature di questo mondo sono tanto profondi che neppure il mio Dio può saggiarli fin nell’intimo. Io non so cosa accadrà il giorno in cui ti leverai innanzi al Tiranno. So solo questo.» Tacque un istante, quindi si volse verso la pira e chiamò a sé Flar. La pietra galleggiò a mezz’aria nella sua mano, brillando rossa e sanguigna.
«Questa pietra era destinata a te da tempo. Altri prima di te l’hanno presa fra le loro dita, altri consacrati. Ora è tua, insieme alla vita della gente di questa terra.»
Nihal era insoddisfatta, non riusciva a comprendere appieno il significato delle parole del giovane.
«Prendila» la incoraggiò lui.
Nihal tese la mano e afferrò la pietra. Era rossa come il sangue e migliaia di fiamme animavano il suo interno; le sembrava di stringere fra le dita l’essenza stessa del fuoco. Trasse il medaglione fuori dal corpetto; anch’esso brillava.
Era sul punto di compiere il rito, quando Flar si inginocchiò davanti a lei. «Il giorno dell’ultima battaglia ci rivedremo» disse.
Nihal recitò le parole del rito e, come le altre volte, sembrò che l’intero santuario venisse risucchiato nel medaglione. D’un tratto il luogo dov’era divenne buio e oscuro, e il caldo si fece insopportabile. La mezzelfo capì che non poteva restare troppo a lungo in quel posto, l’aria era pregna di vapori velenosi, e uscì di corsa.
La passerella era ancora lì, ma più flebile di prima. Nihal vi salì e la percorse velocemente. Non appena si fu alzata dalla piattaforma, la lava ricoprì l’ingresso di Flaren, cancellando la porta e le scritte fiammeggianti.
«Com’è andata?» Sennar scattò in piedi visibilmente sollevato non appena scorse la figura di Nihal stagliarsi confusa fra i vapori del lago. Era affaticato, la magia l’aveva provato.
Nihal si fermò davanti a lui e gli mostrò il medaglione. Brillava in quel grigiore e le pietre sembravano animate da vita interiore.
Sennar trasse un sospiro di sollievo. «Chi hai trovato?» chiese.
«Un servo del dio cui sono consacrata» rispose lei.
Mentre tornavano indietro, Nihal gli riferì ciò che il guardiano le aveva detto e gli parlò della profezia.
Raggiunsero Aires, che non volle sapere nulla di ciò che era successo. «Fatto tutto?» si limitò a chiedere e Nihal annuì. Quindi la donna si alzò e si rimisero in marcia.
Quando si calarono di nuovo nelle viscere della terra, la sera stava scendendo sulla Terra del Fuoco, un’oscurità punteggiata dai mille fuochi delle eruzioni.
Il viaggio verso i confini della Terra fu più complicato. Aires non conosceva altrettanto bene la zona in cui si inoltravano e un paio di volte si trovò in difficoltà. A un certo punto rischiarono addirittura di perdersi. Vagarono per un giorno intero, con la donna innanzi a loro che voltava la testa di continuo da una parte e dall’altra, per cercare di orientarsi. Si salvarono solo perché raggiunsero una cisterna dove incontrarono dei ribelli. Fu così che, dopo quasi tre settimane di viaggio, ebbero modo di riposarsi.
La cisterna era più piccola di quella dove comandava Aires, ma non priva di comodità. Il capo della comunità era Lefe, uno gnomo arguto e vivace, che a Nihal ricordò il suo maestro. Lo gnomo non aveva mai incontrato Aires di persona, però ne aveva sentito parlare.
«Chi non conosce Aires, la donna venuta dal mare, che ci ha ridato la vita e la speranza!» esclamò non appena lei si presentò.
Quella notte dormirono in un’ampia camera e su tre comodi giacigli. Persino Nihal riposò serena, senza che nessuno dei suoi incubi venisse a farle visita.
L’indomani mattina, quando Nihal e Sennar si svegliarono, Aires non era nella stanza. Rientrò poco dopo, portando del pane e del latte con cui fecero colazione.
«Io non posso più aiutarvi» disse la donna senza giri di parole. «Non conosco questa zona dell’acquedotto; ho già rischiato di farvi perdere.»
Scese il silenzio.
«Non vi lascio soli» continuò. «Uno degli uomini di Lefe si è offerto di accompagnarvi fino all’uscita dei canali. Purtroppo terminano prima del confine e vi toccherà attraversare a piedi i Campi Morti.»
Fu un addio triste. Persino per Nihal, che aveva iniziato a provare simpatia per Aires, benché non sopportasse gli sguardi languidi che la donna lanciava a Sennar di tanto in tanto.
Fu proprio la mezzelfo a parlare. «Non posso dirti della nostra missione, però ho un favore da chiederti» iniziò.
Aires piantò i suoi occhi neri come la notte in quelli di Nihal e si fece attenta.
«Voglio che raduni un esercito.»
Aires smise di masticare e la guardò incredula. «L’esercito siete voi, se non sbaglio. Ora avete anche i rinforzi del Mondo Sommerso.»
«Ascoltami.» Nihal le si avvicinò e parlò sottovoce. «Tra breve, forse tra un mese o due, tre al massimo, spero, sferreremo un attacco al Tiranno.»
Stavolta Aires scoppiò a ridere, ma la risata le morì in gola non appena vide le facce serie di Nihal e Sennar. «È una follia» disse senza mezzi termini. «Non puoi parlare sul serio. Siamo in guerra da quarant’anni e in tutto questo tempo non abbiamo fatto altro che perdere terreno. Siamo inferiori in numero e in forze. Loro hanno i fammin, per non parlare dei morti... Attaccare in massa vuol dire suicidarsi.»
Nihal si guardò intorno. Non sembrava ci fossero orecchie o occhi indiscreti nei dintorni, ma la prudenza non era mai troppa. «Non posso dirti il perché del nostro viaggio, né a che cosa condurrà, ma il giorno che lo porteremo a termine, se mai ci riusciremo, sferreremo l’attacco decisivo al Tiranno, e ti giuro che sarà tutt’altro che un suicidio. Devi fidarti di me.»
Aires sospirò. «Dimmi cosa vuoi.»
Nihal si rilassò. «In questi due mesi o tre, quanti saranno, devi preparare uno schieramento che sia in grado di combattere come un vero esercito. Saccheggiate le fucine, fate incetta di spade e armature, elmi, scudi, ogni arma che troverete. Addestratevi alla guerra, reclutate uomini. Se possibile, estendete la rivolta.»
Aires scosse la testa. «Ci ho già provato, e altri prima di me hanno fatto lo stesso. La gente è stanca e afflitta, non c’è margine per una resistenza altrove.»
«Riprova» intervenne Sennar. «Sarebbe bene che in ogni Terra vi fosse un nucleo pronto alla battaglia.»
Aires era dubbiosa. «Quanti uomini servono?»
«Dovrete combattere contro tutti gli uomini e gli gnomi che si trovano tra le file del Tiranno. Non ci saranno fammin, né fantasmi» rispose Nihal.
Stavolta Aires si fece attenta. «Cosa intendi dire?»
Nihal scosse la testa. «Non ci pensare, tu raduna uomini a sufficienza per una battaglia del genere. Al momento giusto, quando sarà tempo, ti avviseremo.»
Aires si rivolse a Sennar. «Con una diavoleria magica delle tue, suppongo.» Il mago si limitò a sorridere.
«Attaccheremo da tutti i fronti» proseguì Nihal. «Dovrà essere un’azione fulminea, perché avremo solo un giorno a disposizione. Ciò che ti ho detto, però, deve rimanere segreto. Ti prego di condurre l’operazione nel modo più discreto possibile, affinché nessun nemico ne possa venire a conoscenza. Tieni segreta la notizia dell’attacco, addestra i tuoi uomini, ma non dire loro nulla di ciò che accadrà.»
«Due mesi sono pochi, e non posso fare tutto da sola. Qualcuno dovrà pur sapere.»
«Solo se e quando sarà strettamente indispensabile» intervenne Sennar. «La segretezza è la chiave della nostra missione. Ora che sai quel che ti abbiamo detto, sebbene non sia molto, hai le nostre vite fra le tue mani, e con esse il futuro di tutto il Mondo Emerso.»
Aires non sembrò spaventata da quelle parole. Un sorriso complice le illuminò il volto. «D’accordo» disse. «Lo sai, Sennar, che le sfide mi sono sempre piaciute. Farò il possibile e quando mi chiamerete, state pur certi che ci sarò.»
Nihal e Sennar partirono dopo pranzo. La loro guida era un ragazzo magro, rosso di capelli e lentigginoso, uno dei pochi uomini che militassero nelle file dei ribelli. Il seguito del viaggio nell’acquedotto fu esasperante e monotono. I canali erano tutti identici, il buio sempre più fitto, l’umidità e il caldo insopportabili. La loro guida era taciturna e agile come un furetto; più di una volta la videro arrampicarsi e scomparire in qualche condotto, e dovettero chiamarla perché non li lasciasse indietro. Neppure loro parlarono molto, perché la presenza di quel ragazzino lentigginoso li metteva a disagio. Trascorsero quasi tutto il viaggio in silenzio, ciascuno immerso nei propri pensieri.
«Siamo arrivati» disse all’improvviso il ragazzo, interrompendo il lungo silenzio. Indicò un punto di luce lontano. «Qui finisce l’acquedotto. Lassù c’è Hora, la Bocca Meridionale. Andate sempre verso ovest e passerete il confine» aggiunse.
Poi, furtivo come sempre, sgattaiolò via, senza dar loro nemmeno il tempo di ringraziarlo o di chiedergli qualche informazione riguardo alla strada che dovevano percorrere.
D’un tratto, Nihal e Sennar furono di nuovo soli.
Uscirono a fatica verso la luce e si ritrovarono alle pendici di un enorme vulcano, il cui boato riempiva l’aria per miglia. Era completamente diverso da quello che avevano visto vicino al Lago di Jol. Era una montagna spaventosamente elevata, nera di fuliggine e di lava, imponente come una possente divinità. A vederlo, sembrava davvero un dio che giaceva disteso. Una propaggine poco scoscesa si allungava verso sud, ma per il resto erano tutti pendii ripidissimi. La bocca era rossa come il sangue e spruzzi di lava si innalzavano alti verso il cielo.
Aguzzando la vista, Nihal e Sennar poterono vedere a nord una seconda montagna, che anche da quella distanza sembrava più imponente di quella sotto la quale si trovavano. Un altro vulcano, con ogni probabilità il più grande della regione.
«Aires mi ha detto che Assa, la capitale, sorge ai piedi di un vulcano enorme, che si vede da qualsiasi luogo di questa Terra. Si chiama Thal. Dev’essere quello» spiegò Sennar.
Nihal guardò quel punto lontano e ripensò al suo maestro. Assa era il luogo dove aveva vissuto a lungo, la città cui aveva anelato negli anni di esilio nella Terra delle Rocce, dov’era tornato per uccidere il re usurpatore, diventando un assassino. Chissà come stava Ido, quali battaglie combatteva assieme a Vesa. Nihal pregò che stesse bene e di poterlo rivedere sano e salvo, quando sarebbe tornata a calcare il suolo delle Terre libere.
Ci volle un intero giorno solo per girare intorno a Hora, poi presero la strada che portava a ovest, com’era stato loro indicato, diretti verso un luogo che non doveva essere molto rassicurante, almeno a giudicare dal nome che gli avevano dato: Campi Morti. Era difficile immaginare un posto più morto di quello che stavano attraversando. Non c’era un solo filo d’erba, l’aria era impregnata di mille odori nauseabondi e il sole era perennemente coperto da una coltre di nubi fitte e scure. C’era però qualcosa di rassicurante in quel panorama, che lo rendeva meno triste di quello che avevano visto nella Terra dei Giorni. La desolazione davanti a loro almeno non era frutto della follia distruttiva del Tiranno. Quel territorio, a suo modo, era ancora intatto, selvaggio: il suo suolo era sempre stato morto e la sua aria appestata, e proprio in ciò risiedeva la sua bellezza. Era il regno della natura allo stato primordiale, il luogo ove gli spiriti naturali erano puri e possenti. Vi regnavano il fuoco e l’acqua, e il loro era un dominio incontrastato, che neppure il Tiranno era riuscito a usurpare.
«A vedere questo posto viene da pensare che gli uomini, gli gnomi e tutti gli esseri che popolano questo mondo in realtà siano solo degli intrusi» disse Sennar, mentre avanzava a fatica.
Nihal fu d’accordo con lui. Di fronte alla potenza assoluta che la natura manifestava in quel luogo, tutte le loro guerre e il sangue versato sembravano una cosa da nulla. Le parve di comprendere che cosa avesse voluto dire Flar, quando le aveva parlato dell’infinito fluire delle cose. Tutto era un circolo destinato a non chiudersi mai, e un domani del Tiranno non si sarebbe neppure più sentito parlare. Le vicende degli uomini si sarebbero consumate in una lenta agonia, per poi essere dimenticate. Alla fine di tutti i tempi, di quel luogo sarebbero rimasti soltanto il fuoco, la roccia dei monti, l’acqua dei fiumi, le onde dell’oceano, il vento che spazzava la terra.
Dopo quattro giorni di viaggio giunsero ai Campi Morti e capirono subito che il nome rendeva giustizia a quella vasta piana, che si stendeva fin dove lo sguardo poteva spingersi, piatta e gialla. La punteggiavano miriadi di crateri fumanti; alcuni eruttavano sbuffi di fumo, altri lasciavano colare lenti rivoli di lava che si diramavano sul terreno disegnando strane geometrie. Altri ancora lanciavano verso il cielo a intervalli regolari ampi spruzzi di acqua. Non c’era nulla di vivo, solo la potenza della terra.
Attraversare i Campi Morti si dimostrò molto più complicato del previsto. Spesso la terra era piagata da ampie fenditure e la lava che ne fuoriusciva sbarrava loro la strada. Inoltre non era raro incontrare qualche crepaccio e dovevano aggirare anche i vulcani e i getti d’acqua. Infine faceva caldo e l’aria era irrespirabile. Non ci volle molto perché il loro morale crollasse: si trascinavano lungo la strada con una lentezza che sembrava loro esasperante, madidi di sudore e con i polmoni in fiamme per il caldo. Li consolava solo l’idea che almeno lì non avrebbero incontrato nemici. A che pro il Tiranno avrebbe dovuto far sorvegliare un posto in cui nemmeno le mosche osavano avventurarsi?
«Forse sarebbe il caso di avvisare Ido che presto arriveremo» disse una sera Nihal.
Erano distesi a terra e contemplavano uno scorcio della volta stellata attraverso una fessura fra le nuvole. «Mancano solo due pietre.»
«Non so, il nostro viaggio non è ancora terminato...» rispose Sennar. Gli sembrava di cattivo auspicio parlare della fine della missione.
«L’attacco non sarà facile da preparare, dovremo avvisare prima del nostro arrivo, in modo che tutto possa essere organizzato a dovere» insistette Nihal.
Sennar continuò a guardare il cielo. «Potrebbe accadere qualcosa che ci ritardi...» esitò. «Potremmo non arrivare affatto...»
Nihal sorrise e si sollevò per guardarlo. «Hai paura che porti sfortuna?»
Sennar ricambiò il sorriso. «Forse.»
Era inquieto da quando aveva lasciato Aires. Aveva provato una strana sensazione mentre la salutava, quasi che quel saluto potesse essere l’ultimo, e da allora gli pareva di essere circondato da un alone di morte. Scosse la testa per scacciare quei pensieri e si voltò verso Nihal. «Poniamo di giungere alla fine di tutta questa storia» disse «e di battere il Tiranno. Ti sei mai chiesta che cosa faremo dopo?»
Nihal tornò a stendersi e a guardare il cielo. «Non lo so» rispose. «La verità è che sono stanca di combattere. Forse, se tutto finisse, metterei via la spada per un po’.»
Stavolta fu Sennar a tirarsi su e a fissarla, sorpreso. «Non ci credo... È da quando ti conosco che non desideri altro che combattere e ora vorresti fermarti?»
«Ho parlato con Aires qualche sera fa» rispose lei. «Mi ha detto delle cose che mi hanno fatto riflettere. Ho già cercato a lungo me stessa nel combattimento. Forse è ora che cerchi altrove, nel riposo e nella solitudine magari, non lo so... So solo che di sangue ne ho visto abbastanza, almeno per ora.»
Sennar cercò di mascherare la sua delusione.
Nella solitudine... Perché non puoi cercare con me, Nihal? Perché non vuoi che ti aiuti?
«E tu?» chiese Nihal.
«Non lo so bene nemmeno io, ma di sicuro continuerò a fare il mago» disse. «Per prima cosa, se mi vorranno tornerò al Consiglio. Lì c’è sempre da lavorare, con o senza la guerra. Riprenderò le attività di sempre e mi godrò la pace, vedrò come si sta. Dev’essere bello» concluse in un tono più malinconico di quello che avrebbe voluto. Poi tornò a distendersi e a fissare le poche stelle che facevano capolino sopra di loro.
Il terzo giorno di cammino giunsero nel centro dei Campi Morti. Erano stanchi di marciare in quella desolazione, dove non cresceva neppure un filo d’erba. Desideravano incontrare qualcosa di vivo e le loro preghiere furono esaudite, ma non nel modo in cui avrebbero voluto.
D’improvviso, mentre camminavano affaticati sotto la coltre di nubi, sentirono delle voci. Fino allora l’unico suono che avevano udito era stato il rombo dell’acqua che fuoriusciva dal terreno o il rumore dei getti di lava e degli sbuffi di fumo che salivano in superficie.
Si nascosero dietro uno strano spuntone di roccia e rimasero in attesa, col cuore in gola. Dopo interminabili minuti, videro avanzare due gnomi vestiti da guerrieri e con insegne che non lasciavano dubbi sull’esercito al quale appartenevano. Nihal e Sennar si appiattirono quanto più poterono contro la roccia e trattennero quasi il respiro per non farsi sentire. Che cosa ci facevano dei nemici in quel posto dimenticato dagli dèi?
«Secondo me sono morti.»
«Lo credo anch’io.»
«E allora che senso ha questa ricerca?»
«Senti, non conviene farsi troppe domande. Sai bene che gli ordini sono ordini e questo in particolare, a quanto pare, viene da molto in alto.»
«Lui...?»
«Credo di sì.»
«Questi intrusi devono essere davvero micidiali se persino Lui si è scomodato...»
Sennar sentì il cuore sobbalzargli nel petto e pregò che smettesse di battere con tanta violenza, perché gli pareva che i palpiti fossero così forti che gli gnomi avrebbero potuto udirli.
«Le nostre spie ci hanno riferito che è scomparso un consigliere da Makrat. È successo parecchio tempo fa, tre mesi prima che trovassero quel ragazzo nella Terra dei Giorni. Sembra che sia quello di cui si è parlato parecchio, quello che andò nel mondo sotto il mare.»
«Mi hanno detto che il Tiranno non si aspettava una mossa simile da quel ragazzino.»
«È quello che ho sentito anch’io. Comunque, si sospetta che uno dei fuggitivi sia proprio lui.»
Era braccato. Sennar cercò di ripetersi che andava tutto bene, che l’importante era che non sapessero di Nihal. Cercò la mano della mezzelfo e la trovò stretta sulla spada. La strinse.
«I morti trovati nella foresta erano stati inceneriti da una magia. Chi pensi che possa fare fuori sette fammin e un uomo se non un consigliere?»
«Sarà, ma perché in un mese non siamo riusciti a trovarli?»
«Gli uomini della squadra che li cercava hanno detto di averli visti scomparire sotto i loro occhi nel bel mezzo della foresta. Dev’essere un tipo in gamba, quel mago.»
Si fermarono poco distanti da loro.
«Chi c’era con lui?»
Sennar pregò che non avessero visto Nihal.
«Un tipo strano, un guerriero. Ha fatto fuori quattro fammin.»
«Hanno idea di chi sia?»
«No, nessuna. Non credi che sia ora di rientrare? Il sole sta calando e la base è lontana.»
«Ma sì, in fin dei conti il nostro dovere l’abbiamo fatto.»
Si volsero e tornarono sui loro passi.
Nihal si rilassò e appoggiò la testa a terra. Sennar invece rimase teso come una corda di violino.
«Sanno di noi» disse lei guardandolo.
«Ma non sanno di te.»
Nihal imprecò. «Siamo stati degli stupidi. Ci siamo illusi che avessero smesso di cercarci... E ora? Dobbiamo ancora attraversare la Terra delle Rocce e la Terra del Vento.»
«L’unica cosa sensata da fare è restare calmi. Evidentemente in questa zona c’è una base nemica. Viaggeremo di notte d’ora in poi, e possibilmente camuffati. Dobbiamo uscire di qui il prima possibile.»
Per quel giorno non si fermarono e proseguirono la loro marcia per tutta la notte. La base nemica non era molto distante. Non doveva essere l’unica, poiché da essa si dipartivano varie strade. Perché i nemici fossero stanziati in un territorio tanto desolato restava un mistero.
Quando l’alba iniziò a illuminare l’est cercarono un luogo dove nascondersi e riposare, ma vagarono a lungo senza trovarlo. Solo quando il sole fu alto nel cielo riuscirono a individuare una buca nel terreno che poteva servire da rifugio.
Marciarono per giorni. Sennar impose a Nihal lo stesso incantesimo con il quale aveva cambiato il suo aspetto nella Terra dei Giorni. «A questo punto è di fondamentale importanza che nessuno sappia che sei una mezzelfo» disse.
Più avanzavano, però, più nemici incontravano sulla loro strada. I Campi Morti pullulavano di accampamenti e costruzioni di ogni genere: torrioni che dominavano la piana, città molto simili a quelle che avevano visto nella Terra dei Giorni, cittadelle fortificate, ma soprattutto strani campi recintati, circondati da alti muri di cristallo nero oltre i quali non si riusciva a scorgere nulla. Mentre li oltrepassavano, attenti a tenersi il più lontani possibile, più di una volta Sennar e Nihal udirono ruggiti riempire l’aria e sentirono il terreno tremare sotto i loro piedi, come scosso da passi pesanti.
«Mi sembrano suoni familiari» disse una volta Nihal. «Potrebbero essere draghi.»
Una notte, sentirono un insolito trambusto provenire da uno di quei recinti, voci concitate e ruggiti selvaggi. Videro un enorme animale stagliarsi sul buio della notte e levarsi maestoso sulla recinzione del campo. Lanciò una fiammata verso il cielo e spalancò le sue ampie e diafane ali nella densa aria di quel luogo. Un drago nero. Ecco spiegata la presenza di tutti quegli accampamenti: quello era il luogo dove i draghi neri venivano creati.
«Ci sono molti maghi da queste parti, li sento distintamente» disse Sennar, e tremò, perché se era in grado di percepire la presenza dei maghi, allora anche loro avrebbero potuto percepire la sua.
Da quel momento, il loro viaggio si trasformò in una fuga. Sentivano di continuo l’alito del nemico sul collo e non trovarono più pace, né di giorno né di notte.
Una sera, mentre avanzavano guardinghi nella piana illuminata soltanto dal rosso incandescente della lava, Nihal udì un rumore. Si bloccò e portò la mano alla spada. Anche Sennar si fermò, in ascolto. L’aria era piena di suoni, su tutti il rombo dei vulcani, ma Nihal aveva sentito qualcosa di diverso. Un rumore metallico... Chiuse gli occhi e le sembrò di percepire un ritmico tremore della terra sotto i suoi piedi. Passi probabilmente. O forse no. Era comunque un segnale di pericolo.
Nihal sguainò la spada. «Credo che stia arrivando qualcuno» disse.
Sennar si guardò intorno. «Non ci sono ripari.»
«Non ci resta che la magia» disse Nihal.
«Sarebbe meglio evitarla. Proprio ora che potremmo essere sotto lo sguardo del nemico.»
«Non abbiamo altra scelta» tagliò corto Nihal.
Sennar si concentrò e recitò la formula. Subito dopo, Nihal assunse l’aspetto di un fammin e Sennar quello di un semplice soldato. La mezzelfo rinfoderò la spada. I suoi sensi non si erano sbagliati, i passi ora erano più distinti; Nihal percepiva addirittura il rumore metallico dell’armatura indossata dai nemici.
Ripresero a marciare, col cuore in gola. I passi si facevano a mano a mano più vicini. Alla luce della lava incandescente apparvero alcune figure, quattro forse. Tre erano chine a terra e non potevano che essere fammin. Nihal sussultò. Stavano fiutando il terreno. Vrašta lo faceva spesso mentre era con loro, quando andava a caccia.
Le figure si avvicinarono. Il quarto era uno gnomo, forse più di un semplice soldato, almeno a giudicare dall’armatura elaborata e dal mantello.
Lo gnomo rallentò non appena li vide. Quando li ebbe raggiunti, Nihal notò che aveva un’espressione stupita. Sennar si tirò il cappuccio sul volto.
«Fatevi riconoscere» intimò lo gnomo.
Brividi freddi iniziarono a scendere per la schiena di Nihal. Pregò che l’amico riuscisse ancora una volta a inventarsi una buona scusa.
«Veniamo dall’accampamento, siamo in ricognizione per trovare i due fuggiaschi» disse Sennar.
Nihal si accorse che la sua voce tremava. Nel frattempo, uno dei fammin si era levato in piedi e aveva iniziato ad annusare l’aria rivolgendo al mago uno sguardo truce.
«Stasera sono io di pattuglia e, a quel che mi risulta, non sono stati mandati altri in avanscoperta» disse lo gnomo.
«È stata una decisione dell’ultimo minuto, per questo non ne siete stato informato» replicò Sennar.
Il fammin iniziò a ringhiare, gli altri sollevarono le asce.
«Come vi chiamate?» chiese lo gnomo. La sua mano era già sulla spada.
Fu allora che Nihal afferrò Sennar e lo trascinò via di corsa. I fammin scattarono dietro di loro.
«Cosa diavolo...?» chiese Sennar, mentre fuggivano attraverso la pianura.
«Non ti ha creduto, non ci restava che scappare» rispose Nihal.
I loro inseguitori guadagnavano rapidamente terreno. I respiri affannosi e le grida gutturali erano sempre più vicini.
«Non ha senso scappare!» urlò Sennar. «Sanno chi siamo, ci saranno addosso!»
Nihal continuò a correre stringendogli la mano.
«Dobbiamo combattere» disse Sennar.
«Tu non vuoi farlo, so cosa significherebbe per te.»
Sennar lasciò la mano di Nihal e si fermò nella piana, quindi si voltò verso i nemici.
A Nihal non restò altro da fare che fermarsi a sua volta e predisporsi alla battaglia. Affrontò lo gnomo, mentre Sennar se la vedeva con i fammin. Di nuovo, com’era accaduto nella radura, fu una strage. Per qualche tempo avevano creduto di poter dimenticare la guerra, ma la morte li aveva seguiti e, mentre guardavano i corpi dei nemici riversi a terra, sentivano che niente era cambiato. Erano di nuovo soli e perduti.
Varcarono la frontiera il giorno seguente e abbandonarono per sempre la Terra del Fuoco. Sembrava passato un secolo dalla sera in cui avevano parlato della fine della missione. Mancavano due pietre, ma erano braccati e la battaglia nella piana avrebbe attirato contro di loro nuovi nemici.
«Non combatteremo più» disse Nihal, mentre camminavano. «Se continueremo a muoverci di notte, nessuno ci troverà. Faremo attenzione.»
Sennar taceva. Quando si decise a rompere il silenzio, fece qualcosa d’inatteso. Rise. «Non devi preoccuparti per me» disse. «Ho smesso di fare la mammoletta e di sconvolgermi per ogni goccia di sangue che scorre sotto i miei occhi. Combatterò ancora, non temere. Ogni volta che sarà necessario.»
Nihal non disse nulla, confidando che il silenzio potesse più di mille parole.
Ido si stufò presto di restare a Dama. L’estate era inoltrata e lo gnomo immaginava che a breve si sarebbe tenuta una nuova assemblea per discutere le mosse successive contro il Tiranno. Sentiva che era tempo di tornare alla vita militare.
Lo gnomo era stupito che nessuno dell’esercito si fosse fatto vivo. La sua licenza non poteva protrarsi in eterno e lui si aspettava che da un momento all’altro gli giungessero ordini. Ma i giorni passavano senza che arrivasse alcuna notizia.
Così, un mattino di sole in cui si sentiva meglio del solito, lo gnomo decise di partire per Makrat. Sapeva che i vertici militari erano tutti lì, compresa Soana.
Si vestì da guerriero e chiese all’attendente che si prendeva cura di lui dove fossero le sue armi. Ebbe una brutta sorpresa. Accanto all’armatura mancava qualcosa.
«Dov’è la mia spada?» chiese irritato.
«Deinoforo l’ha spezzata» rispose il ragazzo intimorito.
Ido ebbe un tuffo al cuore. Quel duello aveva minato tutti i punti fermi della sua esistenza. La spada era la sua vita, non poteva combattere senza.
«Ma ve ne ho procurata una nuova» aggiunse subito l’attendente e indicò un’arma appoggiata al muro. Non vi erano fregi sull’elsa, doveva essere appartenuta a un soldato semplice caduto in battaglia.
«Dov’è quel che resta della mia spada?» chiese Ido, a voce più alta.
Il ragazzo sussultò. «La maga me l’ha consegnata prima di partire. L’ho messa in magazzino, con le altre armi.»
Ido vi si fiondò. L’idea della sua spada mescolata ai rottami lo faceva imbestialire. Il ragazzo lo seguì affannato.
La vide subito, gettata in un angolo. La lama era troncata a qualche pollice dalla guardia. Ido sentì il cuore stringersi. La prese in mano. L’elsa era incrostata di sangue. Il suo, o forse quello di Deinoforo. Anche ciò che restava della lama era vermiglio. Lo gnomo pensò a tutti gli anni durante i quali la sua spada l’aveva servito e sentì salirgli le lacrime agli occhi. «La porto con me» disse.
«Ma, signore, è rotta...» protestò il ragazzo.
Ido lo ignorò e uscì dal magazzino a passo deciso.
Almeno Vesa era al suo posto, fiero come sempre. Il drago era uscito praticamente illeso dal duello e salutò Ido con uno sbuffo dalle narici. Appena gli montò in groppa, lo gnomo ritrovò le sensazioni che più gli erano mancate in quei giorni di convalescenza e riuscì quasi a convincersi che in fondo non fosse accaduto nulla di grave.
«Forza, ci tocca tornare all’Accademia a ricevere ordini» disse con un sorriso, poi spronò Vesa al volo.
Al suo arrivo, Ido trovò Makrat molto cambiata. L’eco della sconfitta nella Terra dell’Acqua era giunta fin lì e la gente era spaventata. Per le vie della città giravano numerosi soldati e gli abitanti avevano abbandonato il loro consueto fare sfacciato e ciarliero: il viavai per le strade era diminuito, c’erano meno mercanzie nei mercati e persino i bambini erano più misurati nei loro giochi. La situazione era seria, ormai lo capivano tutti.
Ido andò dritto all’Accademia e chiese udienza a Raven. Prima si toglieva di torno quell’incombenza, meglio sarebbe stato. Dovette fare la consueta anticamera, quindi Raven lo accolse. Il Supremo Generale era seduto sul suo scanno, gelido, e neppure lo salutò. Ido non era in vena di beghe, così si inginocchiò rapidamente.
Lo sguardo di Raven corse alla benda che copriva l’occhio. «Come va la tua ferita?»
«Rimarginata. Non era nulla di grave.»
Il silenzio scese sulla sala per qualche minuto.
«Ebbene? Cosa sei venuto a chiedermi?»
«Mi sembra evidente. Voglio sapere che cosa devo fare. Mi avete lasciato marcire a Dama senza uno straccio di ordine.»
«Sei in licenza.»
«Sono guarito.»
«Vedo che ti rifiuti di capire...»
«No» disse Ido spazientito. «In effetti non capisco.»
«Sei in licenza a tempo indeterminato.»
Quelle parole gli piombarono addosso come un masso. Questa non se l’era davvero aspettata. «Ti ho detto che sto bene» protestò.
Raven si alzò e andò verso di lui. «Non avevo intenzione di essere così duro con te, ma mi hai costretto» disse in tono brusco. «Ci sono due motivi per cui sei stato dispensato dai tuoi compiti di Cavaliere.»
«Cos’è, un altro patetico tentativo di farmi fuori? Credevo che avessimo appianato una volta per tutte le nostre divergenze» sbottò Ido.
Raven sembrò non badare neppure a quelle parole. «Il tuo comportamento in battaglia è stato inqualificabile. Hai lasciato allo sbando le tue truppe per dedicarti a un insignificante duello personale, hai condotto alla morte più di trecento uomini.»
Ido si sentì avvampare. «Ero ferito, che cosa pretendevi, che li seguissi dall’infermeria?»
«Non sto parlando di questo, e lo sai. Ti sei gettato su Deinoforo all’inizio della battaglia, incurante delle strategie. Hai abbandonato al loro destino i tuoi uomini. Sono morti quasi tutti quel giorno, o non lo sai?»
In un lampo, Ido vide i volti di coloro che aveva addestrato e gli parvero terribilmente giovani, dei bambini. Poi ricordò una voce lontana che lo chiamava sul campo di battaglia, la voce di Nelgar: "I tuoi uomini, dannazione, Ido!".
«Io...» provò a schermirsi, ma non trovò le parole. Lo sapeva, fin dal giorno in cui aveva parlato con il suo allievo.
«Mi hai dato la prova che non sbagliavo a non fidarmi di te» continuò Raven. «Non sei cambiato dai tempi in cui combattevi per il Tiranno, una bestia assetata di sangue, e la tua sete ha fatto molte vittime.»
«Non è così, e lo sai. Sì, ho sbagliato, ma...»
«Nessun ma. Non tollero errori così grossolani neppure da uno sbarbatello, figuriamoci da chi ha calcato centinaia di volte il campo di battaglia.»
Ido restò al suo posto, i pugni serrati. Quasi non riusciva a respirare, gli sembrava di soffocare.
«In ogni caso, non è solo questa la ragione della tua licenza» disse Raven. Si voltò e si allontanò di qualche passo. «Sei stato gravemente ferito e ti manca un occhio. Non potrai mai più essere il guerriero di un tempo.»
Ido sentì la rabbia ribollire. «Non dire idiozie» sibilò.
«Dico semplicemente la verità. Un occhio in meno non è un problema da nulla per un guerriero.»
«Io sono esattamente come prima, vuoi che te lo dimostri?»
«Non fare il ragazzino. Tutto per te si riduce a sfoderare la spada, sempre e comunque. Credi che non mi sia giunta voce della tua bravata in Accademia? Ido, non puoi negarlo, hai difficoltà a percepire le distanze e il tuo campo visivo è assai ridotto. Non potrai tornare a combattere come prima.»
Ido cercò di controllarsi, ma la rabbia che aveva in corpo era troppa. «Prendi quella maledetta spada e provami che non sono più quello di un tempo. Provamelo! Io e te avremmo dovuto chiudere i conti anni fa.»
Raven rimase impassibile. «Ido, non costringermi...»
«Te lo sto chiedendo, dannazione!» L’urlo di Ido fece trasalire le guardie all’ingresso.
«Sei fuori di te» rispose calmo Raven. «Non ha senso continuare questa conversazione. Va’ via, ne discuteremo quando sarai disposto a ragionare.»
Raven si volse e fece per raggiungere lo scranno. Ido non ci vide più, con un grido sguainò la spada che gli aveva procurato l’attendente e attaccò il Supremo Generale.
Raven parò il colpo con facilità. «Ricorda che sono un tuo superiore. Non provocarmi, Ido.»
Come se non lo avesse sentito, lo gnomo attaccò di nuovo, e ancora Raven parò quasi senza scomporsi. Poi il Supremo Generale gli inferse un colpo laterale. Ido non lo vide arrivare, ebbe appena il tempo di sentire un vago fruscio alle sue spalle. Si scostò e si rese conto che una delle due guardie era accorsa.
«Sei convinto ora? Non hai visto il mio colpo, non hai visto arrivare la guardia.»
Ido urlò ancora e riprese ad attaccare, ma non riusciva a vedere molti dei colpi che Raven e la guardia gli indirizzavano. Non capiva dov’era, non percepiva lo spazio intorno a sé e presto iniziò a muoversi in modo scoordinato. D’improvviso fu colpito alla schiena e Raven ne approfittò per disarmarlo. La spada tintinnò lontano, sul pavimento lucido. Ido cadde in ginocchio, senza fiato.
«Non sei in grado di combattere» sentenziò il Supremo Generale. «Mi spiace Ido, ma non abbiamo bisogno dei servigi di un Cavaliere a metà.»
Raven lasciò la sala. Il rumore dei suoi stivali sul marmo suonò odioso alle orecchie di Ido.
Lo gnomo rimase a terra, ansante. La spada giaceva qualche braccio più in là.
Non sarà più come prima. Non sarà mai più come prima. Ha ragione lui. Sono un Cavaliere a metà.
Lanciò un grido di rabbia verso l’alta volta della sala.
Ido entrò nella stanza di Soana come una furia. Era pallido e sconvolto, e la maga si spaventò.
«Cosa ci fai qui?»
Non sapeva neanche che fosse a Makrat, lo credeva ancora convalescente a Dama.
«Ridammi il mio occhio.»
Soana non capiva.
«Cosa...?»
Ido prese a rovistare fra i suoi libri, fra le sue cose, come un folle. «Tu sei una maga, giusto? Ebbene, ridammi il mio occhio, dannazione! Ci sarà un maledetto incantesimo in grado di farmelo ricrescere, di farmi tornare quello di prima!»
Soana andò verso di lui e cercò di fermarlo, ma lo gnomo continuava a gettare libri a terra. «Ido, non esiste alcuna magia che possa fare una cosa del genere, ci sono dei limiti che nessuno...»
«Non è possibile! Non è possibile che finisca così!» Si gettò ancora sugli scaffali, ma quando fece per prendere un altro libro, alla sua sinistra, ne mancò il dorso. «Dannazione!» Con un urlo di rabbia e disperazione cadde a terra, in lacrime.
Mai Soana l’aveva visto piangere. Rimase ferma al suo posto, in attesa che Ido si calmasse.
«Deinoforo mi ha tolto anche la possibilità di combattere, l’ultima cosa che mi fosse rimasta. Senza l’occhio non potrò tornare sui campi di battaglia e che cosa sono io, senza la battaglia? Che cosa sono se non un traditore?»
Rimase a terra a singhiozzare. Soana si chinò e lo abbracciò in silenzio.
A poco a poco Ido si calmò. La ferita all’occhio si era riaperta e Soana lo medicò.
Lo gnomo non avrebbe tollerato di farsi vedere in quello stato da nessun altro. «Scusami» le disse.
«Non ti preoccupare» rispose la maga. «Mi sembra vada bene, ora.»
Ido portò la mano all’occhio. Non si sarebbe mai abituato a trovare l’incavo sotto le dita. Fuori dalla finestra, il sole calava lento sulla città e la sera arrivava a mitigare il caldo soffocante dell’estate. Soana accese le candele.
«Ora dimmi che cosa è successo.»
Ido le raccontò il colloquio con Raven.
«Non l’ho vista, la guardia. Mi è apparsa di fronte all’improvviso. E non vedevo neanche molti dei colpi di Raven. È come se oggi, per la prima volta, la perdita dell’occhio fosse diventata vera. Non potrò più combattere.» La guardò. «La battaglia era l’unico modo per rimediare ai miei errori.»
Soana sorrise malinconica. «Ido, a te non serve un nuovo occhio. Ti servono coraggio e forza di volontà. Imparerai a muoverti, a combattere con un occhio solo, affinerai il tuo udito e tornerai sul campo di battaglia.»
Rimasero in silenzio, mentre il buio si infittiva intorno all’alone di luce delle candele.
«Grazie» mormorò Ido.
«Resta qui, stasera» disse Soana. «Hai bisogno di riposo.»
Lo gnomo annuì.
Ido restò da Soana per qualche tempo. Aveva bisogno di riflettere e la compagnia della maga gli infondeva serenità.
«Chiederò aiuto a Parsel» disse lo gnomo una sera, mentre con Soana si godeva la brezza che entrava dalla finestra. Il cielo stellato era tanto luminoso da rischiarare con la sua luce argentata le vie quiete di Makrat.
La maga sorrise. «Dunque sei pronto.»
«C’è un’altra cosa che devo fare» aggiunse Ido, dopo qualche minuto di silenzio.
Soana lo guardò interrogativa.
«Ho bisogno di sapere chi è Deinoforo.»
La maga sospirò.
«Non è come credi» ribatté lo gnomo. «Ho smesso i panni del vendicatore solitario, non mi si addicono e mi rendono ridicolo. Ma devo sconfiggerlo.»
«Stai attento. La via che vuoi percorrere è pericolosa.»
Ido sentiva che Soana era combattuta, come se fosse sul punto di dirgli qualcosa, ma non fosse convinta dell’opportunità di farlo.
«È strano come certe persone tornino sempre, in alcune storie» disse infine la maga. «E in genere sono le persone sbagliate.»
Ido la guardò senza capire.
«Quando dopo molti anni riuscii finalmente a ritrovare la mia maestra, Reis, lei mi chiese di vedere Nihal. Io cercai di oppormi e lei allora pronunciò una frase che quel giorno non capii. Mi disse che i fantasmi al seguito di una corazza scarlatta avrebbero infine condotto Sheireen al suo destino, così come lei era andata incontro al suo al seguito di quella stessa corazza.»
Ido abbassò gli occhi. «La battaglia contro i morti...» mormorò.
Soana annuì e un’ombra le passò sul volto. «Non so cosa intendesse con la seconda parte di quella frase... e non voglio saperlo» concluse mesta.
Lo gnomo tacque per qualche istante. «Devo andare da lei.»
«È ammattita, Ido, non assomiglia neanche più alla mia maestra di un tempo. È colma di odio, un odio così profondo che ha deformato persino il suo aspetto.»
«Non ha importanza. Ho avuto a che fare con molte persone piene di rancore.» Il pensiero volò subito a suo fratello, ma Ido lo scacciò. «Voglio sapere chi è Deinoforo, voglio guardare dentro la mia ossessione.»
«Sai come la penso in proposito. Fai attenzione, almeno.»
Ido annuì.
Lo gnomo partì il giorno seguente e si diresse all’Accademia.
Per prima cosa andò a salutare Vesa e ottenne il permesso di lasciare il drago nelle scuderie dell’Accademia per qualche tempo. La sua permanenza in quel luogo almeno era servita a qualcosa.
Poi cercò Parsel. Gli dissero che era impegnato con i suoi allievi, così Ido gli lasciò un messaggio e sperò che il maestro non si facesse attendere troppo.
Si incontrarono fuori dall’Accademia, in una locanda di Makrat. Quando Parsel arrivò, aveva un’espressione imbarazzata.
«Non fare quella faccia» esordì Ido. «Non sono un invalido.»
Parsel ne prese atto e tornò ai modi bruschi che lo contraddistinguevano.
Parlarono della battaglia, del duello contro Deinoforo, delle perdite subite. Poi il discorso cadde sull’incontro con Raven.
«Non so vivere senza combattere, immagino che tu lo capisca» disse Ido.
Parsel annuì poco convinto.
«Io non voglio credere che la perdita di quest’occhio sia la fine. Mi addestrerò, ci proverò almeno, e imparerò a combattere come prima, meglio di prima, con l’unico occhio che mi resta.»
Parsel rimase in silenzio.
«Non lo credi possibile?»
«Resta il fatto che hai un punto cieco più ampio di un uomo normale. È un problema che non puoi risolvere» rispose il maestro.
«Da quando in qua si combatte solo con gli occhi? Ci sono l’udito, l’olfatto, il tatto... imparerò a usarli e sarà come avere occhi dappertutto, sulla schiena, sulla punta delle dita... Ma non posso farlo da solo. Ho bisogno del tuo aiuto. Credi di poter trovare il tempo per aiutarmi nell’addestramento?»
«Io...» iniziò Parsel titubante.
«Noi non siamo amici, lo so. E so anche che in passato hai disapprovato il mio comportamento. Ma ci uniscono tutti quei giovani che sono morti per causa mia.» Ido si interruppe e lo fissò. «Ti chiedo di farlo per loro. Aiutami a rimediare al mio errore.»
Parsel non rispose, tenne lo sguardo basso e fece scorrere il dito sul bordo del calice, a lungo. Ido pendeva dalle sue labbra.
«Allora?» sbottò alla fine.
«E sia» capitolò Parsel. «Sei un grande guerriero, lo so, e la tua perdita sarebbe grave per l’esercito. Potrò aiutarti solo di notte, di giorno sono occupato in Accademia.»
Ido buttò giù in un solo sorso la sua birra. «Devo imparare a vedere con tutto il corpo, il buio mi sarà d’aiuto.»
Ido trovò una piccola casa dentro le mura di Makrat. Non era confortevole come quella dove viveva Soana, ma per le sue abitudini spartane andava più che bene. Il tempo della consolazione era finito, ora iniziava una nuova fase della sua vita nella quale avrebbe dovuto contare solo sulle proprie forze.
Scoprì presto che vivere da civile gli pesava più di quanto avesse creduto. Le giornate, trascorse in giro per la città o a fissare il soffitto della sua stanza, erano tutte identiche e mortalmente noiose. Poi scendeva la sera e Ido tornava a respirare. Si incontrava con Parsel in un bosco poco discosto da Makrat, dove si allenavano per tutta la notte.
All’inizio fu dura. Era come se il mondo si muovesse troppo in fretta per lui, come se lo spazio che lo circondava fosse pieno di esseri invisibili. Era incredibile quanto la forza dell’abitudine avesse ottenebrato i suoi sensi.
Nella prima fase dell’allenamento si bendò anche l’occhio sano. Era il modo migliore per sviluppare udito e tatto. Le prime settimane gli esiti non furono incoraggianti e spesso tornava a casa con qualche ferita superficiale, ma presto la lunga frequentazione dei campi di battaglia diede i suoi frutti. Ido si abituò a distinguere i rumori e la loro provenienza, a percepire lo spazio che lo circondava affidandosi al suono del vento fra i rami, a intuire la direzione dei colpi dal fruscio della spada nell’aria e dallo scricchiolio dei passi sulle foglie secche. Gli pareva di essere tornato ragazzo, di avere ritrovato un entusiasmo che gli era sconosciuto da tempo. Migliorava notte dopo notte e, benché non fosse ancora in grado di battere Parsel, sentiva di essere prossimo alla meta.
All’inizio dell’autunno, quando gli parve di essere a buon punto con l’addestramento, decise che poteva permettersi qualche giorno di riposo. Era giunto il momento di recarsi da Reis.
Aveva saputo da Soana che la maga viveva nella Terra dell’Acqua, alle cascate di Naël, nella zona che aveva resistito alle armate del Tiranno, e si era fatto spiegare con dovizia di particolari dove si trovasse la casupola.
Arrivò da Reis in una giornata grigia e cupa. Nonostante le indicazioni di Soana, lo gnomo dovette passare e ripassare sotto la cascata e bagnarsi fino al midollo, prima di capire dove fosse la capanna, ma alla fine riuscì a individuarla.
Era una squallida catapecchia e Ido fu stupito che una maga così potente, la donna che aveva svelato a Nihal la chiave per salvare il Mondo Emerso, vivesse in un tugurio simile. Titubante, bussò alla porta, ma nessuno gli rispose. Appoggiò la mano alla maniglia e si accorse che l’uscio era socchiuso.
Quando entrò, il tanfo di muffa e di erbe stantie lo prese alla gola. L’interno della casupola gli parve ancora più squallido dell’esterno. A una prima occhiata, sembrava l’antro di una strega, più che di una maga; i libri che giacevano aperti a terra, fitti di rune che avevano un che di malvagio, dovevano essere zeppi di formule proibite.
Belle amicizie che ha Soana...
«Chi è?» chiese allarmata una voce gracchiante.
Ido sussultò. «Il Cavaliere di Drago Ido, un amico di Soana.»
Si fece avanti una figura avvizzita, una vecchia che pareva ripiegata su se stessa. Era uno gnomo, indubbiamente, ma era molto più bassa di Ido, di una statura quasi innaturale. Sembrava che la terra la stesse divorando a poco a poco. Il suo volto era deturpato dalle rughe, gli occhi colorati soltanto da un cerchio biancastro. Aveva capelli lunghissimi, che strisciavano a terra come un tappeto.
La vecchia appuntò i suoi occhi sullo gnomo e lo scrutò a lungo. «Il Cavaliere gnomo...» disse alla fine. «Il maestro di Sheireen... Non avevo percepito che saresti venuto. Che cosa vuoi?»
Ido sentì di detestare quel luogo marcescente e quella vecchia dai modi sgarbati. «Sono qui per chiederti informazioni.»
«Una maga non sa nulla che possa interessare un guerriero.»
Ido la guardò meglio; in passato doveva essere stata molto bella, ma sembrava che quella bellezza fosse avvizzita, come i mazzi di erbe che pendevano nell’aria irrespirabile della capanna.
«Sono qui per chiederti di Deinoforo, il Cavaliere dall’armatura rossa.»
Reis ebbe un fremito. La maga Soana aveva detto il vero, dunque.
«Non conosco nessuno con quel nome.»
«Invece sì. E non me ne andrò da qui finché non mi avrai detto quello che sai. Ho combattuto contro di lui qualche mese fa» aggiunse Ido. «Questo» si toccò l’occhio sinistro «è opera sua.
Voglio sapere chi è.»
Reis piantò gli occhi biancastri sul viso di Ido e lo gnomo capì che anche lei, come lui, in quel momento pensava a Nihal. Si fissarono per qualche istante e Ido ebbe l’inquietante sensazione che la maga cercasse di rivendicare un oscuro privilegio sull’anima della sua allieva.
Poi Reis sorrise, un sorriso maligno. «Siediti» disse secca.
Ido si accomodò su una sedia polverosa. La vecchia prese posto su uno scanno, dietro un tavolo ingombro di pergamene ed erbe curative. Al centro, c’era un piccolo braciere colmo di cenere.
«Il nome Debar ti dice niente?» chiese Reis.
All’udire quel nome, lo gnomo sentì montare una rabbia antica. Quando l’aveva conosciuto, Debar era un ragazzo simpatico e promettente; bruno, con gli occhi chiari, aveva militato nelle truppe di Ido e per un po’ lui l’aveva preso sotto la sua ala protettiva, fino a quando Debar non era salito di grado e aveva fatto una rapida carriera nell’esercito. Poi però la sua famiglia era stata accusata di tradimento, sulla base di una manciata di prove. I suoi genitori erano stati linciati, sua sorella violentata; Debar era sfuggito ai suoi accusatori, ma era gravemente ferito e in fin di vita. Quando Ido l’aveva saputo, aveva cercato di rimediare a quella che gli sembrava un’imperdonabile ingiustizia, ma era stato troppo tardi.
«Mi ricordo perfettamente di lui» disse in tono cupo. «La sua morte pesa sulla coscienza degli uomini delle Terre libere.»
«Debar non è morto» spiegò Reis con voce aspra e risentita. «Debar è Deinoforo.»
Ido raggelò. Non gli sembrava possibile. Non riusciva a conciliare l’immagine pacifica di quel ragazzino con il guerriero spietato contro il quale aveva combattuto. «Stai mentendo» disse con un filo di voce. «Come puoi sostenere un’idiozia simile?»
La vecchia ebbe un nuovo tremito e tacque per un po’. «Molti anni fa» proseguì poi «prima di scoprire la verità su Sheireen e trovare il medaglione, fui catturata da un Cavaliere di Drago Nero e condotta alla Rocca. Viaggiavamo da soli, una sera lo vidi senza elmo e riconobbi il volto di Debar. Quel Cavaliere, come ormai avrai capito, era Deinoforo.»
Reis tremava, era inquieta. Nella sua ansia di ferire Ido, si era evidentemente spinta troppo in là.
Lo gnomo ancora non riusciva a credere a ciò che aveva appena sentito. Erano troppe le cose che non gli tornavano nel racconto di quella vecchia. «Qual era il destino di cui hai parlato a Soana?» chiese. «Cosa voleva da te il Tiranno?»
«Nulla» tagliò corto Reis.
«Eppure ti fece condurre alla Rocca scortata da un suo Cavaliere...»
«Non ha niente a che fare con la tua ricerca, non ti riguarda.»
«Sei stata sua prigioniera?» insistette Ido.
«Per poco. Fuggii.»
«Non si scappa dalle segrete della Rocca. Quello è un luogo di morte.»
Reis roteò i suoi occhi biancastri, come a cercare una via di fuga.
«Cos’hai visto alla Rocca? Perché non ne vuoi parlare?» quasi urlò Ido. D’istinto, portò la mano all’elsa della spada. Se quella megera sapeva qualcosa del Tiranno, lui non sarebbe uscito da lì senza averlo sentito.
«Non osare minacciarmi!» strillò la vecchia.
Ido sguainò l’arma. «Che cosa sai del Tiranno?» chiese scandendo le parole e in un tono più calmo, questa volta. Reis non gli rispose. Lui allora rinfoderò l’arma e si diresse a passi tranquilli verso l’uscita. Era quasi giunto alla porta, quando si voltò. «Farò convocare il Consiglio domani stesso. Non lascerò il destino del Mondo Emerso nelle mani di una traditrice.»
Con sommo stupore di Ido, la vecchia iniziò a piangere. «Perché vuoi costringermi a rivangare ciò che ho sepolto a fondo nel mio cuore? Perché vuoi conoscere la mia colpa?»
Reis singhiozzava, ma Ido non aveva pietà di lei. Sentiva qualcosa di oscuro promanare da quella vecchia, qualcosa di sordido, l’odio di cui Soana gli aveva raccontato.
«Parla» intimò, mentre tornava verso il tavolo.
Reis lo fissò con gli occhi arrossati dal pianto. «Nel mio passato si distende una lunga ombra, che come un male assassino ha succhiato via la mia gioia.»
Si alzò e prese alcune erbe da un barattolo. Tornò a sedersi, con un gesto della mano accese un fuocherello azzurro nel braciere e vi gettò le erbe. Si levò un fumo denso e bluastro, che Reis governava con gesti calmi delle mani.
Il volto di una giovane venne disegnandosi nel fumo. I contorni erano confusi, ma appariva di una bellezza accecante. Era uno gnomo. Solo dopo qualche istante Ido capì che doveva trattarsi di Reis e fissò sconcertato la vecchia distrutta dagli anni che aveva di fronte.
«Non sono sempre stata come mi vedi ora» disse infatti la maga. «Un tempo il mio aspetto era ben diverso. Fu allora che conobbi Aster. Era un giovane bellissimo e sembrava dedito a tutto ciò che è bene. Era consigliere, come mio padre, e io mi innamorai perdutamente della sua fulgida bellezza. Nella mia ingenuità, credetti che anche lui mi amasse e gli donai il mio cuore. Tutto quello che volevo era compiacerlo, vederlo realizzare i suoi sogni. Impetrai quindi per lui presso mio padre, lo aiutai nella sua ascesa. Ci misi molto a capire. Troppo. E quando accadde era già tardi.»
Ido sentì lo stomaco contrarsi. Non voleva credere a ciò che la ragione gli suggeriva. «Troppo tardi per cosa? Chi è Aster?»
«Aster non esiste più» rispose la vecchia con un sussurro. «Ora esiste solo il Tiranno.»
Ido restò immobile al suo posto, muto.
«Fu mio padre, infine, ad aprirmi gli occhi» proseguì Reis. «Vidi quanto orrore fosse celato sotto il velo della sua pelle diafana, vidi che il suo aspetto angelico celava le sembianze di un mostro. Mio padre piegò il mio cuore restio con le sue parole e mi sottrasse a quel giogo. Quando seppi la verità, quando capii che ero stata ingannata, usata al servizio del male, rinnegai Aster e gli gettai in faccia il mio odio, perché nulla di sincero c’era nel suo amore, perché si era servito di me per costruire il suo potere. Ero stata così stolta e ingenua da cadere nella sua trappola, da credere alle sue lusinghe e ai suoi abbracci. Essergli sfuggita, aver rifiutato quell’amore impuro, non bastò a scacciare dalla mia anima il rimorso che mi lacerava giorno dopo giorno, che mi faceva odiare la mia bellezza, la stessa bellezza che mi aveva esaltata agli occhi di quell’uomo.»
Il fumo si dissolse, mentre le lacrime scendevano lungo le gote avvizzite della vecchia. Stordito da quelle rivelazioni, Ido attese che la storia giungesse al termine.
«Il mostro non mi dimenticò. Mi fece catturare e mi condusse alla Rocca.»
La sagoma imponente della Rocca si stagliò nel fumo e sembrò inghiottire ogni altra immagine.
«Mi trascinarono in catene da lui. Ora che non aveva più bisogno di me per stendere le sue avide mani sul mondo, reclamava per sé la mia bellezza, il mio corpo. Allora iniziai l’opera che ora vedi davanti ai tuoi occhi. La mia bellezza scomparve, perché quello fu il mio desiderio più profondo. Lentamente iniziai a invecchiare: le rughe deturparono il mio volto, la pelle si fece grinzosa e mi si afflosciò addosso come un abito vecchio, i capelli ingrigirono. Più invecchiavo, più ero brutta, più gioivo.» Reis si portò una mano al volto e scoppiò in un’aspra risata, gli occhi accesi da una sorta di furore. «Egli mi odiò per quel che feci e tentò con la sua magia di farmi tornare quella di un tempo, ma non poté nulla contro il mio desiderio. Sapeva bene, il Mostro, che non poteva lasciarmi andare, e mi trattenne con la forza presso di lui. Marcii a lungo nelle segrete del suo palazzo, ma riuscii a fuggire, perché anche il Tiranno non può nulla contro la negligenza di una sentinella. Fu allora che mi misi sulle tracce del passato di Sheireen e trovai il talismano.» Reis alzò i suoi occhi vecchi e folli su Ido. «Quando il Tiranno cadrà, sarà per mano mia. Io sola sarò la responsabile della sua rovina» concluse.
Lo gnomo la guardò a lungo, con disprezzo, e sentì un brivido. Aver conosciuto la storia di quella vecchia gettava un’ombra inquietante sulla missione di Nihal. Inoltre, c’era qualcosa che non quadrava, Reis non gli aveva raccontato tutta la verità. Non si sfugge alla Rocca, e se quell’essere debole e avvizzito c’era riuscito, era perché il Tiranno l’aveva permesso. Ma per quale ragione?
«Terrai tutto questo per te» disse la vecchia in tono cupo. «Ciò che ti ho raccontato non uscirà da queste mura.»
«Ovviamente» ribatté lo gnomo, ma le sue intenzioni erano assai diverse.
Quella notte, a Makrat, Ido fu meno concentrato del solito durante l’addestramento. Continuava a rimuginare sulle parole di Reis, sulla storia del giovane consigliere traviato dal male, e non riusciva a smettere di pensare a Debar. Era una sua creatura, per certi versi; Ido aveva insegnato molto a quel giovane abile e dall’aria simpatica. Ora finalmente si spiegava perché il modo di combattere del Cavaliere fosse tanto simile al suo e più ci pensava, più si sentiva soffocare dalla rabbia.
Deinoforo aveva compiuto esattamente il percorso contrario al suo e questo li rendeva stranamente affini. C’era qualcosa che li legava, che li riconduceva di continuo l’uno all’altro. Aver combattuto insieme, aver compiuto scelte diametralmente opposte, essere entrambi mutilati. Forse era questa la spiegazione della sua ossessione per quell’uomo.
Arrivò un colpo inatteso. Lo gnomo perse l’equilibrio e cadde.
«Non sei il solito» disse Parsel mentre lo aiutava a rialzarsi. «Cosa diavolo hai in testa oggi?»
Lo gnomo scosse il capo. «Niente, pensieri.»
Ido si confidò con Soana e le raccontò la storia di Reis. La maga lo ascoltò con attenzione, ma senza tradire alcuna sorpresa. «Lo sapevi?» chiese lo gnomo.
«No, ma lo immaginavo. Mi sembrava strano quell’odio così feroce verso il Tiranno. Tutti noi lo detestiamo, ma non con la sua pervicacia. E non riuscivo neppure a spiegarmi l’aspetto decrepito di Reis: deve avere al massimo dieci o vent’anni più di te.»
Ido provò un brivido di repulsione. «Non so se possiamo fidarci di lei... è stata pur sempre la sua amante» disse. «E questa storia che è fuggita dalle segrete... non si scappa dalla Rocca, è impossibile. Il Tiranno deve averla lasciata andare. Ma perché?»
Soana scosse la testa. «Il suo odio è genuino. Reis non finge e non ci venderebbe mai al nemico. Il problema è un altro. È accecata dal suo rancore, è disposta a tutto pur di abbattere il Tiranno.»
A quel punto, a mezza voce, Soana rivelò a Ido ciò che la maga aveva fatto a Nihal, gli incubi che le aveva inviato. Lo gnomo strinse i pugni con rabbia.
«È questo ciò che intendo. Ero contraria a che Nihal la incontrasse ed ero contraria al viaggio, ma Reis aveva architettato tutto nei minimi dettagli. Non possiamo fare altro che assecondare ciò che ha deciso per noi.»
«Maledetta...» sibilò Ido.
«In ogni caso» riprese Soana «la nostra ultima speranza è legata a lei. Forse anche dal suo odio può nascere qualcosa di buono.»
Le settimane passarono rapide e presto iniziò a fare freddo. Ido si allenava ogni giorno, sotto la pioggia e sotto il sole, e le cose andavano sempre meglio. Era tornato quello di un tempo. L’aveva capito quando, per la prima volta, aveva sconfitto Parsel. Ormai erano rare le occasioni in cui il maestro riusciva a superarlo. Ido si sentiva pronto. Decise allora che era tempo di riforgiare anche la sua spada.
La portò da un armaiolo di Makrat, un tizio che pareva avere più muscoli che cervello. «Secondo me non vale la pena di aggiustarla» disse l’uomo, dopo avere guardato la lama con occhio clinico. «Ti verrebbe a costare più che ricomprarla.»
«Non mi interessa quanto ci vorrà e sono disposto a pagarti quello che mi chiederai. Falla tornare come nuova» rispose Ido.
L’armaiolo non doveva essere molto intelligente, ma il suo lavoro lo sapeva fare egregiamente. In capo a una settimana, la spada di Ido era davvero tornata come nuova.
Quando lo gnomo la prese in mano, si sentì quello di un tempo. Andò subito da Soana, che impose all’arma lo stesso incantesimo che aveva usato sulla vecchia spada.
Ora Ido avrebbe potuto affrontare Raven e riprendersi il posto che gli spettava.
Lo gnomo entrò in Accademia vestito di tutto punto, con l’armatura e la spada, e chiese di essere ricevuto. Nella sala, le guardie lo guardarono con stupore.
Stranamente, Raven non si fece attendere e si presentò a Ido in una veste ancora più sobria di quella che aveva indossato nelle ultime occasioni. Per la prima volta in vita sua, Ido si prostrò a terra e rimase inginocchiato innanzi a lui, facendogli atto d’obbedienza.
Raven dovette esserne stupito, perché Ido sentì i suoi passi fermarsi all’improvviso.
«Alzati pure» disse infine il Supremo Generale, e Ido obbedì.
Quando lo gnomo sollevò lo sguardo, Raven era seduto nel suo scanno, imperturbabile come al suo solito.
«Ebbene?»
Ido chinò il capo. «Chiedo di essere riammesso in servizio.»
«Mi pare di averti dimostrato che non ci sono le condizioni perché ciò possa avvenire.»
«Dimenticati di quello smidollato che si è messo a piagnucolare nel bel mezzo della tua sala» disse Ido, sempre a capo chino. «È morto e sepolto. Mi sono allenato, ho faticato in questi mesi e sento di essere tornato quello di un tempo. L’errore che ho commesso nei confronti dei miei uomini è stato imperdonabile, e il minimo che potessi fare era congedarmi. Apprezzo che tu mi abbia lasciato una porta aperta.»
«Credi che questa falsa deferenza basterà a farmi tornare sui miei passi?»
Finalmente Ido alzò il capo e lo guardò dritto negli occhi. «La mia non è falsa deferenza. Dovresti conoscermi abbastanza per averlo capito. Io non mi sono mai umiliato, per nessuna ragione, e non lo faccio certo adesso.»
Raven e Ido si fissarono per qualche secondo.
«Non posso affidarti un manipolo di uomini» disse infine il Supremo Generale.
«Lo capisco perfettamente.»
«Non è crudeltà, ma il tuo errore è stato grave.»
«Ti chiedo solo di lasciare che torni a combattere. Sai che sono un ottimo guerriero e sai altrettanto bene che la perdita di un occhio non può avere pregiudicato le mie capacità.»
«Sei stato sconfitto in questa sala, da me.»
«Mi sono allenato, puoi chiedere a Parsel, che mi ha aiutato. Dammi un’altra possibilità e non ti deluderò.»
Raven rimase in silenzio per qualche istante. «Andrai nella Terra del Sole, sotto il generale Londal. È una prova, Ido, soltanto una prova. Se non la supererai, non avrai altre opportunità.»
Ido si prostrò ancora. «Ti ringrazio» mormorò.
Raven avanzò verso di lui. «Sono costretto ad ammettere che conosco il tuo valore. Oggi me ne hai dato prova» sussurrò.
Poi girò i tacchi e uscì dalla sala.
Il fronte innanzi a sé. Vesa che fremeva sotto le sue gambe. In mano, la spada. Al posto della pioggia dell’ultima volta che era sceso in battaglia, c’era una nebbiolina insidiosa. Ido non cercò Deinoforo. L’avrebbe incontrato, lo sapeva, e quel giorno avrebbero chiuso i conti in sospeso una volta per tutte. Era nelle retrovie, ma non aveva importanza. Ciò che contava era essere lì per ricominciare, per poter dire di essere nato una seconda volta.
Chiuse gli occhi e vide i volti dei suoi uomini. C’erano anche loro, ora, a chiedere riscatto, e non li avrebbe delusi. Il cuore batteva calmo, la mente era concentrata.
L’urlo dell’attacco non lo colse di sorpresa. Vesa spalancò le sue immense ali e Ido sentì l’aria fredda investirgli il viso. Il primo nemico gli arrivò di fronte e lo gnomo non ebbe alcuna difficoltà ad abbatterlo. Poi, un lieve fruscio, un impercettibile spostamento d’aria. Si girò e colpì l’avversario che stava per attaccarlo alle spalle.
Sì, era tutto come prima.
Nihal e Sennar si fermarono per una breve sosta e la mezzelfo interrogò il talismano sulla direzione da prendere. Ogni volta che lo traeva fuori dal corpetto, le sembrava che luccicasse più vivido. I colori delle pietre erano più accesi e illuminavano il buio della notte. Il potere dell’amuleto era aumentato, Nihal lo sentiva.
Chiuse gli occhi e la visione fu nitida come non lo era mai stata. Ciò che vide la lasciò senza parole. Era un bosco, o almeno a prima vista così sembrava, ma la vegetazione era di un colore strano, della terra o delle rocce. Nihal si concentrò di più: era una foresta pietrificata. C’erano cespugli, alberi, foglie, perfino qualche fiore, tutto di pietra.
Quando aprì gli occhi, parte della visione doveva essere rimasta nelle sue pupille, perché Sennar la guardava stupito.
«Cos’hai visto?» chiese.
«Qualcosa di straordinario» rispose, quindi gli disse della foresta pietrificata. Anche la direzione da prendere era chiara: verso nord.
Si spostavano solo di notte, ma più di una volta rischiarono di imbattersi in gruppi di fammin sulle loro tracce. Dunque la voce del loro ingresso nei territori occupati era giunta fin lì.
Per i primi due giorni il panorama non fu molto diverso da quello che avevano abbandonato. Non c’erano più vulcani imponenti, ma la terra era martoriata da centinaia di crateri inattivi. Il fuoco che si erano lasciati alle spalle alitava il suo soffio distruttore verso quella regione.
Il terzo giorno videro in lontananza una linea scura segnare l’orizzonte, che ricordò a entrambi il giorno della distruzione di Salazar, l’esercito che marciava contro la torre. Temettero che potesse trattarsi di insediamenti o valli fortificati. Quando furono più vicini scoprirono che era qualcosa di ben più imponente.
Erano montagne, nere e aguzze, che si elevavano maestose verso il cielo. A Nihal tornarono alla memoria alcune parole dette da Livon, molto tempo addietro. Ricordò suo padre intento a lavorare un blocco nero e lei al suo fianco, che come al solito ne spiava i gesti.
«Questo è cristallo nero, il materiale più resistente che esista al mondo. La Rocca stessa è fatta di questa sostanza» aveva detto Livon, mentre batteva con il maglio sul blocco nero posato sull’incudine. «Me l’ha dato di contrabbando uno gnomo che conosco. Il cristallo nero si trova solo nella Terra delle Rocce.»
A ogni nuovo colpo, dall’incudine si sollevavano migliaia di scintille. «Ci sono montagne immense, laggiù. Sono nere e splendono al sole come brillanti. Tra la roccia semplice infatti si insinua il cristallo nero, che dà loro quel colore.»
«Tu le hai mai viste?»
«Da giovane. All’epoca la Terra delle Rocce non era tutta in mano al Tiranno e andai fin laggiù proprio per cercare il cristallo nero, per il mio maestro. Le montagne sono immense, una muraglia nera contro il cielo. Quando le vedi rimani senza fiato. Chissà che un giorno anche tu non possa arrivare fin lì.»
C’era arrivata infine, e le aveva viste. Si stagliavano lucenti contro il grigio del cielo all’alba. Rischiarate da un tenue chiarore, brillavano debolmente.
Quando iniziarono a costeggiarle, scoprirono che nemmeno quel luogo era stato risparmiato. Erano stati scavati numerosi tunnel, dai quali uscivano gnomi incatenati che trascinavano carrelli colmi di cristallo nero. Anche la popolazione di quel luogo era stata ridotta in schiavitù, come quella della Terra del Fuoco, ed estraeva il prezioso cristallo con cui venivano forgiate le armi del nemico.
Nihal e Sennar costeggiarono le montagne tenendosi il più possibile lontani dalle miniere. I nemici continuavano a braccarli. Più di una volta dovettero cambiare strada o restare nascosti a lungo per non essere scovati da pattuglie di fammin e gnomi.
A mano a mano che procedevano, avevano modo di vedere con quanta crudeltà fosse stata perpetrata l’opera di distruzione di quei monti: completamente scavati nell’interno, non erano ormai che pareti rocciose in bilico sul vuoto.
Quando si inoltrarono in una zona ingombra di detriti dovuti agli scavi, notarono qualcosa di curioso. Fra la polvere e i blocchi di pietra c’erano macerie che sembravano resti di abitazioni: frammenti di pavimenti, porte, qua e là qualche pezzo di muro ancora in piedi. Tutto era fatto interamente di roccia.
Alla fine decisero che era più conveniente salire sulle montagne. I pendii che davano verso valle erano sfruttati per l’estrazione del cristallo nero e dunque la zona era piena di nemici. Superati i primi contrafforti, la solitudine divenne la loro compagna di viaggio e le voci, il tramestio, le urla e i lamenti provenienti dalle miniere si stemperarono nella quiete delle montagne. Così poterono camminare anche di giorno.
Procedettero sui monti a lungo, mantenendosi a bassa quota, ma lontani dalle pendici più sfruttate per l’estrazione. Fu così che si imbatterono nel fiore segreto di quella Terra.
Stavano percorrendo una lunga gola incassata fra due montagne, larga non più di un paio di braccia e disagevole perché ingombra di massi franati dalla parete di roccia che li sovrastava minacciosa. D’improvviso, sbucarono in una valle, nella quale sgorgava una piccola cascata di acqua limpida. La valle era circondata da monti elevati che la chiudevano in un circolo. Nihal e Sennar alzarono gli occhi e compresero infine l’origine delle macerie che avevano incontrato durante il viaggio.
Le cime dei monti ospitavano delle città, ma gli edifici non erano stati costruiti sulla roccia. Erano le cime stesse dei monti a essere state scolpite a foggia di abitazioni.
Nei tempi d’oro, dunque, gli gnomi vivevano sui monti, in quelle città dure ed eterne come la roccia. Ora invece il silenzio era palpabile e parlava con la sua lingua muta dell’abbandono di quelle costruzioni. Molte infatti mostravano i segni del tempo e dell’incuria. Le case più alte erano diroccate o erose dal vento, sgretolate. Le guglie che le adornavano non erano più aguzze, i contorni apparivano smussati, le sagome deformate dall’opera incessante del vento.
Sennar ricordò di aver già visto costruzioni del genere alle Vanerie, ma allora non aveva capito che cosa fossero. Ora invece comprendeva che erano la copia di un modello grandioso, dell’opera eretta nei secoli dalle mani di un popolo operoso.
Nihal e Sennar non seppero trattenersi. Muti per lo stupore, ascesero una delle vette e visitarono la città di roccia. Era un intrico di case addossate le une alle altre, di vicoli stretti e tortuosi, di porte che si aprivano ovunque. Tutto era fermo, immobile. Più che abbandonata, la città sembrava fossilizzata, come se qualche mago vi avesse scagliato un’oscura maledizione. Iniziò a scendere una pioggerellina triste, fitta e incessante, e subito la polvere sulle strade si fece fango e parve che tutte le costruzioni, già corrose dal vento, si sciogliessero nell’acqua. Ma Nihal e Sennar non si fermarono e continuarono la loro visita.
Non c’erano segni di devastazione come a Seferdi. Tutto era in ordine, perfetto, né sangue né cadaveri. Non era stata la furia degli uomini a rendere deserto quel luogo, ma l’opera silente e incessante del tempo. In ogni angolo si indovinava l’ingegnosità dei costruttori della città. Nelle case c’erano tubi che portavano l’acqua fin dentro le mura. C’erano terme e strani sistemi di riscaldamento, con intercapedini che correvano lungo i muri e in cui passava il calore. Gli gnomi, che ora erano schiavi, un tempo dovevano essere stati ricchi e felici.
Nihal e Sennar girarono per le strade della città, mentre la pioggia, preludio di un autunno precoce, lavava la pietra sotto i loro occhi. Salirono sulla rocca, fino al palazzo reale, desolatamente vuoto. Solo il rumore delle gocce sulla pietra rompeva un silenzio irreale. E altrettanto irreale parve loro quel che scorsero d’un tratto all’angolo di una strada.
Sotto la pioggia, seduta su una sedia, c’era una vecchia. Si dondolava avanti e indietro e canticchiava, incurante di tutto. Era minuta e portava una veste di lino verde, piena di strappi e di macchie. Nihal le si avvicinò, ma la donna non sembrò prestarle attenzione e continuò a cantare, mentre i suoi lunghi capelli ingialliti si inzuppavano. Sembrava una vecchia bambola malridotta.
Nihal la toccò sulla spalla con delicatezza e lei trasalì; la guardò con uno sguardo vuoto.
«È già ora di mangiare?» chiese con un sorriso. «È finito presto oggi il mercato.» Riprese a cantare.
«Sei sola qui?» chiese Sennar.
«Oh, no. Non sono sola. C’è la mia gente dentro, la mia famiglia...»
Nihal gettò uno sguardo all’interno e vide un tugurio ingombro di ogni genere di rifiuti, maleodorante e buio. Non c’era anima viva.
«Le stagioni non sono più quelle di un tempo...» sospirò la vecchia. «Sarà per questo che il mercato è finito presto.»
«Non c’è nessuno...» sussurrò Nihal a Sennar.
«È da molto che sei qui sola?» chiese Sennar guardandola con dolcezza.
La vecchia continuò a dondolarsi. «Io non sono sola, dentro ci sono i miei... È già ora di mangiare?» ripeté, mentre rivolgeva al mago uno sguardo infantile.
Sennar guardò a terra, poi si voltò verso Nihal. «Abbiamo provviste a sufficienza?»
Nihal controllò nella sua sacca.
«I bambini oggi non fanno confusione» continuò la vecchia. «Di solito fanno tanto rumore e io non posso riposare... Che ci vuoi fare? Sono piccoli, devono godersi la vita. Siete stranieri?» chiese a Sennar.
«Sì» rispose lui.
Nihal aveva tirato fuori dalla sacca un tozzo di pane. «Questo glielo possiamo dare.»
«Andate a vedere il palazzo reale, sulla vetta. È stupendo» continuò la vecchia. «A mezzogiorno il re fa suonare la campana. La città si ferma e tutti vanno a mangiare. È già ora di mangiare?»
Sennar le allungò il pane. «Sì, è ora di mangiare» disse piano.
«Gran re, il nostro re, buono e magnanimo. Ha fatto costruire nuovi canali, nuovi bacini per l’acqua, e tutti hanno di che mangiare e di che vivere. Sia onore a Ler della Terra delle Rocce e che lungo possa essere il suo regno.» La vecchia addentò il pane con avidità, strappandone grossi pezzi.
Nihal e Sennar si allontanarono, mentre la donna ricominciava a cantare.
«Come credi abbia fatto a sopravvivere lì da sola?» chiese Nihal.
Sennar scrollò le spalle. «Forse ci sono ancora delle provviste stivate da qualche parte, magari ci sono degli orti, non ne ho idea... Qualunque sia la ragione, però, non durerà ancora per molto.»
La cantilena riempiva i vicoli della città ed echeggiava da un muro all’altro, sovrastando perfino il rumore della pioggia, e lentamente parve che vi fossero mille voci a cantare, mille anime perdute a vagare per quella città morta. Mentre Nihal e Sennar abbandonavano la città, la pioggia seguitava a cadere incessante e, goccia dopo goccia, corrodeva la pietra.
Per due giorni Nihal e Sennar dormirono al coperto, rifugiandosi fra le mura di quelle città. Ce n’erano parecchie nei dintorni, tutte disabitate e in rovina. La vecchia probabilmente era l’unico essere vivente nel raggio di miglia.
«A volte mi pare che questo mondo sia già morto» disse Sennar una sera «e che non possiamo fare nulla per salvarlo. Le nostre sofferenze non potranno essere cancellate, nemmeno se alla fine sconfiggeremo il Tiranno.»
Nihal guardò in alto, fra le crepe del tetto di roccia.
«Chissà se sapremo ricostruire dalle macerie...» aggiunse Sennar.
Nihal abbassò lo sguardo. «Non so, a volte credo che tutto questo non avrà mai fine, che si soffrirà in eterno. Sono quarant’anni che il Tiranno regna incontrastato... forse non c’è modo di batterlo.»
«Non è quello che ti ha detto il guardiano di Flaren» commentò Sennar. «Lui sostiene che ogni cosa fluisce, che il bene si alterna al male in una spirale eterna. Se è così, battere il Tiranno forse servirà a qualcosa.» Le parole si spensero nel buio.
A quel punto del viaggio dovettero scendere dai monti. Nihal sentiva che il luogo dove erano diretti si trovava a ovest e dunque non potevano più godere della protezione delle montagne nere. Scelsero il versante che parve loro più accessibile e iniziarono la discesa. La piana si presentò ai loro occhi immensa e desolata. In fondo, vi era un macchia marrone cupo.
«Quella è la foresta» disse Nihal. «È lì che dobbiamo andare.»
Ricominciarono a viaggiare di notte, con la sensazione di essere incalzati di continuo. All’alba dell’undicesimo giorno di marcia, giunsero in vista della loro meta.
La foresta si stagliava innanzi a loro. Era una lunga linea marrone che segnava tutto l’orizzonte, non se ne vedevano i confini. Nihal e Sennar vi si inoltrarono il più rapidamente possibile. Lì si sarebbero sentiti più protetti.
Dapprima incontrarono solo ceppi di alberi pietrificati. Anche parte della foresta era stata distrutta, per il cristallo nero di cui erano fatti alcuni dei tronchi. Poi la vegetazione si infittì e iniziarono a vedere i primi alberi. Presentavano tutte le fogge e varietà degli alberi di legno, ma erano interamente di pietra: tronco, rami e foglie. Ciononostante, sembravano vivi. Era una foresta immobile, come congelata in un istante della sua esistenza. Non c’era stormire di fronde, non c’erano animali; nemmeno l’acqua.
Nihal capì che quel luogo era sacro: percepiva le forze naturali che si celavano nei tronchi, che la chiamavano. Intitolata agli antichi dèi, la foresta era un posto dove le creature del Mondo Emerso potevano entrare in contatto con la natura, con gli spiriti nella loro incarnazione. Nihal e Sennar la attraversarono con l’attitudine del devoto pellegrino, a testa bassa e in religioso silenzio.
Una sera, Nihal si fermò. «Siamo vicini» disse. «Non manca più di un giorno di viaggio.»
La mezzelfo chiuse gli occhi, quindi si voltò e indicò la strada che dovevano seguire. Iniziarono a camminare più spediti, come se nel bosco pietrificato fosse tracciato solo per loro un invisibile sentiero che conduceva alla meta. Erano stanchi e affamati, emozionati dalla prossimità del traguardo. Per questo non si accorsero di alcuni suoni lontani, dell’eco confusa di passi sulla roccia, del tintinnare appena percettibile di spade lontane.
A un tratto, Nihal si bloccò.
«Siamo arrivati?» chiese Sennar.
Prima che lei potesse rispondere, un rumore metallico rimbombò da un tronco all’altro. Nihal sguainò la spada.
«Non possiamo permetterci di combattere adesso, dobbiamo andare al santuario» esclamò il mago.
Nihal guardò innanzi a sé. «Per di là» disse, e iniziarono a correre veloci fra gli alberi.
Per qualche istante non udirono altro e stavano già per tirare il fiato, quando sentirono dei passi pesanti calcare la roccia sempre più rapidi. Nemici in corsa. Poi iniziarono le urla alle loro spalle. Li avevano scoperti.
«Non devono sapere del santuario» disse Sennar ansimando. «È vicino?»
«Sì, manca poco, lo sento.»
A quel punto, Sennar seppe cosa doveva fare. «Io li tengo occupati, tu corri al santuario e prendi la pietra.»
«Sono troppi» rispose Nihal. «Non ce la puoi fare. Proviamo a seminarli.»
Sennar si fermò. «Non sottovalutarmi. Hai già dimenticato com’è andata nella radura?» Subito dopo averlo detto, le voltò le spalle.
«Sennar...»
«Vai!» urlò lui. Si girò a guardarla e sorrise. «Non ti preoccupare, so badare a me stesso. Ci vediamo dopo.»
La mezzelfo restò immobile per qualche istante. Poi si voltò e fuggì.
Nihal cercava di correre più veloce che poteva e non smetteva di ripetersi che non avrebbe dovuto abbandonare Sennar. Le tornò in mente il giorno in cui lo aveva lasciato da solo con Laio a combattere, ma cercò di scacciare quel pensiero.
Ho bisogno di lui. Non può accadergli nulla di male.
Nessuno la seguiva, dunque Sennar stava facendo il suo lavoro. Si impose di correre ancora più in fretta, mentre iniziava a mancarle il fiato. Sentiva con chiarezza dove doveva andare e vi si diresse a rotta di collo.
A un tratto capì di essere arrivata. Si fermò, cercò di calmarsi e si guardò intorno. Innanzi a lei c’era una collinetta e su uno dei fianchi si intravedeva una cavità nera. Era lì che doveva andare. Quando vi fu davanti non esitò, non aveva tempo per le incertezze; con la spada in pugno, tesa nel buio, entrò.
Si trovò in un luogo stretto e umido, una lunga galleria buia che digradava verso il basso. Proprio mentre pensava che forse era il caso di ricorrere alla magia per fare un po’ di luce, si accorse del luccichio sotto il corpetto. Estrasse il talismano e le pietre emanarono un forte bagliore, che rischiarò la strada per un paio di braccia innanzi a lei. Doveva trovarsi in una specie di miniera; il tetto era puntellato da travi in legno ammuffito e le pareti della galleria mostravano i segni di colpi di piccozza e di vanga. Si mise carponi e iniziò a scendere.
Al primo bivio, fu presa dallo sconforto. Guardò i due tunnel e solo dopo mille indecisioni intuì qual era la strada da prendere. Ricominciò a scendere sempre più veloce.
La miniera era un labirinto, un dedalo di corridoi strettissimi. Presto Nihal perse l’orientamento e le parve di non aver fatto altro che girare intorno allo stesso punto da quando era entrata. Ormai procedeva a caso e le lacrime le rigavano il viso.
D’improvviso, il terreno sotto le sue mani si aprì e lei cadde nel vuoto. Quando si rialzò, scoprì di essere in un ampio salone. Sotto di lei troneggiava un’enorme scritta, tanto grande che riuscì a leggerla a fatica: "Tarephen". Al centro della sala c’erano due imponenti colonne e tra di esse l’altare su cui era posata la pietra. Brillava fulgida.
«Dammi la pietra, sono Sheireen, la Consacrata!» urlò Nihal. Non c’era tempo per i convenevoli.
Nessuno le rispose.
«Ne ho già sei» disse alzando il talismano, che brillava più che mai. «Se me lo permetti, prendo la pietra e vado via!» urlò ancora, ma di nuovo fu il silenzio a risponderle.
Benissimo, lei non aveva tempo per discussioni o giochetti, doveva prendere quella dannata pietra. Andò verso l’altare a passi decisi. Quando vi fu arrivata, non poté neppure porre il piede sul primo gradino che l’intera sala fu scossa da un forte tremito. Nihal si fermò e tutto sembrò tornare normale. Si accinse a salire di nuovo e allungò le mani verso la pietra. Di nuovo sembrò che un terremoto scuotesse la sala e stavolta il contraccolpo fu tanto forte che la mezzelfo cadde a terra.
Mentre si rialzava, vide che le due colonne a poco a poco si trasformavano in due uomini giganteschi, le cui teste sfioravano il soffitto. La loro forma era rozza, appena sbozzata, e le loro proporzioni mostruose, le gambe corte e tozze, le braccia innaturalmente lunghe, le mani gigantesche. Sulla fronte di entrambi vi era qualcosa, un’incisione o una scritta. Nihal indietreggiò e la spada le tremò fra le mani.
Non ora... non ora...
«Siete voi i guardiani?»
In tutta risposta uno dei giganti cercò di colpirla e Nihal fece appena in tempo a schivarlo. Quando l’essere alzò il suo pugno smisurato, al suo posto c’era un cratere. Nihal sentì una risata e una figura che ricordava un satiro apparve sopra l’altare.
«Sono io il guardiano.»
Era impossibile stabilirne l’età o il sesso; era alto poco più di un braccio, indossava una corta tunica marrone e aveva gli occhi di un blu crudele.
«Io sono qui per la pietra» disse Nihal, mentre cercava di ricomporsi.
«So perché sei qui» ribatté quello in tono annoiato. «Per questo ho chiamato i miei amici.»
Nihal non capiva, percepiva soltanto una vaga minaccia provenire da quell’essere. «Ho preso le altre pietre, vedi?» insistette mostrando l’amuleto. «Mi servono per battere il Tiranno.»
«Non mi interessa quante pietre hai preso, né chi te le ha date» replicò il guardiano. «Per avere questa devi batterti con i miei amici.» Uno dei giganti si fece avanti.
Nihal indietreggiò. «Che significa?»
Il satiro balzò dall’altare e si piazzò innanzi a lei, gli occhi blu puntati in quelli viola della mezzelfo. Aveva fra le mani un lungo bastone nodoso che terminava con una sfera luminosa. Sorrise, il sorriso di un bambino dispettoso. «Da secoli... che dico, da millenni, la pietra che cerchi è custodita in questo luogo, e da millenni è stata concessa solo a chi ne è stato degno ed è riuscito a battere i giganti. Se davvero la vuoi, non ti resta che combattere.» Sorrise ancora e fece una mezza capriola.
Quell’essere non assomigliava affatto ai guardiani precedenti. Nihal non riusciva a decifrarlo. La stava prendendo in giro?
Più i minuti passavano, più lei temeva per la sorte di Sennar. «Saprai di certo che altri guardiani mi hanno concesso la pietra. Questo non basta a convincerti che sono la persona giusta?» chiese.
Tareph scrollò le spalle. «A me non interessa, la mia pietra non è come le altre. Te la devi guadagnare.» Fece una risatina, spiccò un balzo e fu di nuovo in piedi sull’altare. Quindi mosse il suo bastone e uno dei giganti si fece sotto a Nihal.
«Non ho tempo, non posso stare qui a lungo!» urlò lei. «Un mio amico sta rischiando la vita per me!» Schivò un pugno.
«Oh, a me non interessa» disse il satiro con un mugolio annoiato. «È da tanto tempo che me ne sto rinchiuso qui, la noia è mortale. Divertimi, avanti!»
Il gigante avanzò a grandi passi, ma Nihal cercava solo di evitarlo. Alla fine capì che non avrebbe mai convinto il guardiano a esimerla da quello scontro. Tutto ciò che voleva era prendersi gioco di lei, farsi quattro risate e trattarla come una marionetta. Non aveva alcuna intenzione di valutare le sue capacità, quella non era una vera prova, il satiro voleva solo divertirsi.
Nihal allungò un primo colpo di spada sulla creatura che la stava attaccando, ma forse non fu abbastanza forte o fu male assestato, perché non ebbe alcun effetto.
«Uno a zero per me!» urlò il guardiano. Fece un cenno all’altro gigante, che subentrò al primo.
Nihal si voltò e cercò di parare i colpi con la spada, ma era inutile. Quei giganti erano incommensurabilmente più forti di lei e la sua arma non poteva nulla contro di loro. Inoltre non riusciva a concentrarsi, pensava al tempo che stava sprecando lì dentro, a Sennar solo contro i nemici.
D’improvviso, un braccio del gigante la colpì in pieno e la mandò a sbattere con violenza contro il muro. Per un istante Nihal non vide altro che buio. Quando rinvenne, Tareph era a cavallo del colosso, e avanzava impettito verso di lei.
«Ma così non posso saggiare la tua forza» disse con un risata stridula. «Così è troppo facile. Impegnati!»
La raggiunse un nuovo colpo, che la mezzelfo però evitò rotolando di lato.
«Ti dico un segreto» ghignò allora il guardiano, mentre il gigante si preparava a colpire. «Questi sono due golem, li ho creati io. La scritta sulla loro fronte significa "vita" e finché sarà lì vergata loro resteranno in vita, appunto. Sono più forti di te, e indistruttibili. Non li puoi battere con la spada né in altro modo. Però, se cancelli la prima lettera della scritta sulle loro fronti, otterrai la parola "morte" ed essi si dissolveranno nella polvere da cui provengono. Questo è il solo modo che hai di batterli» concluse con una risata furba.
Arrivò un nuovo colpo, violento, ma Nihal lo evitò. Per quanto ci provasse, la mezzelfo non riusciva a concentrarsi e sapeva che era questo che stava segnando la sua sconfitta.
Sentiva di odiare quel satiro posto a guardia della pietra, desiderava soltanto buttarlo giù dal golem e fargliela pagare.
Tareph la guardò obliquo. «È la prova, Sheireen, o credevi che tutti i guardiani sarebbero stati come Flar, pronti a prostrarsi davanti a te?»
La battaglia continuava e Nihal si limitava a schivare, senza che le venisse in mente una sola idea.
Sennar, dove sei? Tu avresti già escogitato il modo per tirarmi fuori da questa assurda situazione...
«C’è chi guarda nel cuore per giudicare il Consacrato, e chi come me guarda alla sua forza, alla sua capacità di battersi, di trovare la concentrazione quando la mente e il corpo vorrebbero essere altrove.»
Nihal voltò lo sguardo verso quell’essere e colse una luce di verità e sapienza nei suoi occhi gelidi. Dunque sapeva... Non era ingenuo e infantile come voleva sembrare. Sapeva, eppure la tratteneva lì.
«Non vuoi battere il Tiranno? Credi che sarà tanto facile? Anche quel giorno penserai ad altro, anche quel giorno, quando avrai tutto l’esercito nemico contro, non riuscirai a dimenticare quel che ti sta più a cuore. Questa battaglia non è inutile come credi...»
Nihal chiuse gli occhi. Se continuava così non avrebbe salvato Sennar. Doveva concentrarsi e battere quel mostro, era l’unico modo per uscire da lì e poter tornare da lui. Doveva stare calma.
Sentì arrivare un nuovo colpo. Aprì gli occhi, saltò e lo schivò. Ne approfittò per aggrapparsi al braccio del mostro. Il golem lo agitò, per cercare di farla cadere, ma non riuscì nell’intento. Quelle scosse erano una bazzecola per un Cavaliere abituato a stare in piedi su un drago lanciato in volo.
Nihal si issò fino alla spalla, allungò la mano e finalmente riuscì a cancellare la lettera. La parola emeth divenne meth, e il golem si sbriciolò sotto le sue gambe.
Ebbe appena il tempo per guardare negli occhi maliziosi il guardiano, che questi era già in groppa al secondo golem.
«Non crederai che sia finita qui?» disse beffardo, e il golem si abbatté sulla mezzelfo.
Ma ora Nihal era presente a se stessa, era tornata l’abile guerriero freddo e determinato, e non si scompose. Schivò un paio di colpi, quindi estrasse il pugnale dallo stivale. Con un lancio preciso colpì la e della parola emeth e il secondo gigante fu anch’esso polvere. Stavolta Tareph fu preso alla sprovvista, non si attendeva una vittoria così fulminante, e cadde. Non appena si ricompose, si ritrovò la spada di Nihal puntata alla gola.
«Dammi la pietra, ora» sibilò la mezzelfo.
Il guardiano scoppiò a ridere, alzò un dito e la scagliò via lontano. «Credevi di essere in grado di competere con un guardiano?» disse, mentre si alzava in tutta tranquillità. «Comunque hai vinto. Il mio gioco è finito. Peccato, mi stavo divertendo.» Alzò la mano e la pietra si sollevò dall’altare per poi ricadere sulla sua palma.
Con un cenno chiamò Nihal e la mezzelfo avanzò verso di lui.
«Te la sei meritata» disse Tareph. «Ricorda questa battaglia, quando sarai davanti al Tiranno, perché egli allora avrà in pugno qualcosa in grado di soggiogarti. Ma tu, per la salvezza tua, di chi ami e della gente di questo mondo, dovrai essere fredda e compiere il tuo dovere.» Le mise in mano la pietra e Nihal la guardò.
«Be’?» chiese il guardiano. «Non avevi fretta? Il tuo amico ti aspetta, circondato dai nemici e allo stremo delle forze, a due miglia da qui. La mia pietra ti ci condurrà.»
Nihal lo guardò con riconoscenza.
«Fai quel che devi» disse lui con un sorriso, il primo senza malizia.
Nihal recitò le parole rituali e pose la settima pietra nel suo alveo. Tutto quel che c’era intorno a lei vorticò e del santuario non restò che la nuda roccia. Avrebbe potuto credere di aver sognato, se non fosse stato per la pietra, che brillava al suo posto insieme alle altre.
Iniziò a correre più rapida che poté, mentre l’amuleto le indicava con chiarezza la via da seguire.
Sennar stava svolgendo bene il suo compito. Non appena Nihal era corsa via, aveva iniziato a lanciare lampi colorati, blande magie offensive per attirare i nemici sviandoli dalla mezzelfo.
D’un tratto, gli alberi intorno al mago si erano spaccati con uno schianto e ne erano emersi altri fammin, almeno una decina.
Troppi per lui.
Ne pietrificò quanti più poteva con un incantesimo ed evocò una barriera per imprigionarne altri, infine si dedicò ai nemici rimasti. Tre fammin, troppi comunque, ma forse poteva farcela.
Combatté con la spada, difendendosi al contempo con una barriera magica e cercando di lanciare qualche incantesimo offensivo. Non era facile recitare più formule contemporaneamente e presto sentì che le forze lo abbandonavano.
Cancellò dalla sua mente ogni pensiero estraneo alla battaglia e non vi furono più né rimorso né dolore, nemmeno la furia delle prime battute del combattimento. Riuscì ad abbattere un avversario. Ne restavano due. La barriera intorno ai fammin iniziò a dare cenni di cedimento. Fu allora che un lampo verdognolo rischiarò il buio e abbatté uno dei nemici davanti a lui.
«Sennar!»
Il mago si voltò ed ebbe appena il tempo di vedere Nihal che avanzava con la spada in pugno, prima di cadere a terra, esausto. Sentì il rumore di spade che cozzavano, il suono della lama che penetrava la carne, infine un tonfo.
«Dobbiamo scappare. Ce la fai a correre?»
Sennar si limitò ad annuire. Nihal gli passò un braccio intorno alla schiena e lo aiutò ad alzarsi.
«Ti hanno vista, non possiamo lasciarli in vita» disse Sennar, mentre si sollevava da terra.
In quel momento la barriera si infranse e i fammin che fino a quel momento vi erano confinati si sparsero intorno a loro urlando.
Nihal sollevò il mago di peso e i due cominciarono a correre a capofitto tra gli alberi.
Sentivano i nemici alle calcagna e iniziarono a piovere frecce. Sennar provò ad alzare una barriera, ma le sue forze magiche erano quasi del tutto esaurite.
Procedevano a zigzag, inciampando e rialzandosi. Si imposero di continuare anche se le gambe non riuscivano più a sostenerli, ma il vantaggio che avevano sui nemici diminuiva a ogni passo. A un tratto, Nihal sentì il corpo di Sennar contrarsi e accasciarsi con un mugolio di dolore.
Si voltò di scatto e inorridì. Nella gamba del mago era conficcata una lancia che l’aveva trapassata da parte a parte. Il sangue che usciva dalla ferita si sparse sulla roccia in mille rivoli, mentre Sennar si ripiegava su se stesso.
Nihal lo sollevò da terra e lo costrinse a camminare. «Coraggio! Dobbiamo andare!» urlò, mentre le lacrime iniziavano a rigarle il volto.
Una smorfia di dolore si disegnò sul volto di Sennar e il mago cadde di nuovo a terra. «Lasciami qui...» mormorò.
Nihal si voltò e vide le figure dei nemici stagliarsi a poca distanza da loro. C’era un’ultima speranza: l’Incantesimo del Volare. Non l’aveva mai provato, ma ora non aveva altra scelta.
Chiuse gli occhi e recitò la formula che aveva sentito pronunciare da Sennar, mentre cercava di pensare a un posto nelle vicinanze dove potessero rifugiarsi. Le venne in mente solo il santuario. Non era lontano e forse era un luogo sicuro. Si concentrò intensamente e chiese aiuto al potere del talismano. Un istante dopo, scomparvero dalla vista dei loro nemici.
Nihal non sentiva altro che il respiro affannoso di Sennar. Il resto era silenzio. Rimase per un po’ a occhi chiusi, perché aveva il terrore che se li avesse aperti avrebbe visto la loro fine: i fammin che li circondavano, gli gnomi con le spade puntate.
Quando alla fine li aprì si accorse che erano innanzi al tunnel che conduceva al santuario. Non ebbe il tempo di gioire, perché vide Sennar a terra, con una mano sulla lancia conficcata nella gamba, e capì che non c’era un minuto da perdere.
«Avanti! Qui saremo al sicuro, è il santuario» disse mentre lo sollevava.
Il mago trattenne un urlo di dolore e si sforzò di sorridere. «Sei diventata una maga provetta» mormorò.
Nihal non rispose e lo aiutò a entrare. Prima di seguirlo, spezzò alcuni rami dagli alberi e camuffò l’ingresso, nella malaugurata ipotesi che i nemici passassero da quelle parti. Quindi estrasse l’amuleto dal corpetto e lo usò per fare luce mentre avanzavano.
Sennar soffriva molto più di quanto desse a vedere. Nihal lo sosteneva e lo incoraggiava, ma il mago aveva il terribile sospetto che la sua ferita non potesse essere curata. Come quella di Laio. Forse era giunto al termine del suo viaggio.
«Hai preso la pietra?» le chiese con voce affannata.
La mezzelfo annuì.
«È stato difficile?»
«Smettila di parlare, sei ferito.»
Sennar sentiva che l’aria iniziava a mancargli. «È una sciocchezza...» mentì.
I contorni delle cose si facevano sempre più sfumati e gli pareva che tutto intorno a lui scomparisse nell’oscurità. Stava morendo, ma non aveva paura. L’unico dolore era lasciare Nihal da sola, proprio ora che aveva più bisogno di lui. E senza aver mantenuto la promessa fatta a Ondine.
«Cerca di resistere, Sennar, la sala dove ho preso la pietra non è lontana» continuava a ripetere Nihal, ma anche la sua voce gli giungeva alle orecchie come un’eco distante.
Prima di morire, Laio aveva detto che gli sembrava di essere sul punto di addormentarsi. Era vero, era come assopirsi, persino il dolore taceva. Le percezioni sfumavano nel nulla, la consapevolezza di sé si allontanava.
«Ecco, manca davvero poco, manca pochissimo. Ti curerò subito, vedrai che presto ti sentirai meglio» lo incoraggiò Nihal.
Sennar non riusciva più a risponderle. La sentì singhiozzare e si accorse che lo stringeva con più forza. «Non piangere...» mormorò dall’abisso in cui stava scivolando.
«Ci siamo!» urlò lei quando sbucarono nella sala. Era illuminata solo dall’amuleto e quella tenue luce non bastava. Nihal accese un piccolo fuoco magico, poi depose Sennar sull’altare e vide lo squarcio sulla sua gamba. Per prima cosa doveva svellere la lancia.
Gli appoggiò la mano sul collo e tirò un sospiro di sollievo quando percepì il battito del cuore. Non era troppo tardi. Sennar respirava a fatica e la sua fronte era imperlata di un sudore gelido.
«Non sono granché come maga, ma questa ferita posso curarla facilmente» gli mormorò all’orecchio, mentre pregava le potenze che abitavano quel luogo di darle la forza di guarirla.
Sennar aprì gli occhi. Non si appuntarono su di lei, sembravano inseguire un sogno lontano, figure fuggevoli. «Ho fatto una promessa...» iniziò.
«Sta’ zitto, non parlare, penso a tutto io» lo interruppe Nihal, premendogli un dito sulle labbra.
«... mentre ero nel ventre del mare ho fatto una promessa...»
Nihal studiò la lancia, per cercare il modo di estrarla dalla gamba senza far troppo male a Sennar.
Non appena la sfiorò, il mago lanciò un urlo di dolore.
«... ho promesso che ti avrei amata...»
Nihal si bloccò e avvicinò il capo al volto di Sennar.
«... perché ti ho amata sempre e tu non lo sai...»
«Non dirlo...»
«... ti ho amata da quando ti ho vinto il pugnale sulla terrazza di Salazar, e ora muoio...»
«Non morirai, non dirlo nemmeno per scherzo!» esclamò lei, ma Sennar aveva chiuso gli occhi.
Nihal si fece coraggio, afferrò saldamente la lancia e la estrasse dalla ferita. L’urlo di Sennar fendette il vuoto della sala.
La mezzelfo iniziò a recitare la formula di guarigione più potente che conoscesse. Sennar ora respirava appena. Quando gli pose di nuovo la mano sul collo, sentì che il battito era lento e debole. Proseguì imperterrita.
Nihal non si arrese e continuò a recitare incantesimi per tutta la notte, uno di seguito all’altro, tentando persino magie che non aveva mai provato ma che aveva sentito formulare da Sennar. Non si concesse un attimo di tregua e non si lasciò scoraggiare dal fatto che la ferita non dava segni di miglioramento. Per la prima volta in vita sua, lottò con tutta l’anima e con tutto il coraggio di cui era capace.
A poco a poco, il sangue si fermò e si rapprese sullo squarcio, e il respiro di Sennar si fece più lento e regolare. La mattina, il mago aveva ripreso un po’ di colore e sembrava che il dolore fosse diminuito. Nihal si fermò e si asciugò il sudore dalla fronte. Era sfinita, ma Sennar stava meglio, forse la sua battaglia non era stata inutile.
La mezzelfo si avventurò fuori dal santuario per cercare qualche pianta medicinale. Ricordava l’aspetto di alcune di quelle che Laio aveva usato per lei, quando era stata ferita alla spalla, e le cercò ovunque. Si mosse furtiva e ne trovò un paio; erano un po’ avvizzite, ma meglio che niente. Incontrò persino un rivoletto d’acqua. Era fangosa, ma Nihal non ci fece caso e riempì la fiasca che aveva con sé.
Quando fece ritorno e vide che le frasche all’ingresso del santuario erano ancora come le aveva lasciate, trasse un sospiro di sollievo. Nessuno aveva scoperto Sennar.
Il mago giaceva sull’altare. Il suo respiro era tornato normale e il battito del cuore era forte e regolare. Nihal guardò la gamba. La lancia aveva rotto l’osso e Sennar aveva perso molto sangue, ma la ferita non sembrava mortale.
Nihal accese un piccolo fuoco e lo usò per riscaldare l’acqua. Quindi fece un impacco con le erbe che aveva trovato e lo applicò sulla ferita. Sennar sospirò di sollievo.
Continuò a curarlo finché si accorse che il mago si era addormentato. Solo allora si concesse anche lei un po’ di riposo e sognò di lui e della loro infanzia a Salazar.
Fu svegliata da un rumore di passi sopra la sua testa. Trasalì e sguainò la spada. I passi però proseguirono oltre e lei si tranquillizzò. Fu allora che alzò lo sguardo verso l’altare e vide che Sennar aveva gli occhi aperti. Balzò in piedi. «Sennar!» urlò.
Il mago si voltò verso di lei e le sorrise debolmente.
Nihal corse da lui e lo abbracciò. «Ho avuto paura che morissi...»
«Anch’io» ammise Sennar.
Nihal lo curò senza sosta per il resto della giornata. Sennar si sentiva molto debole, però la gamba non gli faceva male, era come addormentata. Quando guardò la ferita, scoprì che era un brutto taglio, ma convenne con Nihal che non era mortale.
«Sei stata davvero brava» le disse con un sorriso. «La tua strada è quella della magia, altro che spade.»
Lei rise, senza smettere di recitare l’incantesimo di guarigione.
Dunque, pensò il mago, la sua ora non era ancora arrivata. Non ricordava cosa fosse avvenuto da quando Nihal lo aveva trascinato nel santuario; rammentava solo di essersi sentito male e di avere creduto di essere sul punto di morire.
La serata trascorse tranquilla. Mangiarono, parlarono e risero, inebriati dallo scampato pericolo.
Fu la mattina del terzo giorno di permanenza al santuario che Sennar, all’improvviso, ricordò. Dopo anni di dedizione e amore silenziosi, durante i quali aveva rinunciato a ogni speranza di poter essere ricambiato, aveva trovato il coraggio di fare quella confessione. Aveva mantenuto la promessa con la quale si era congedato da Ondine, ma l’aveva fatto solo perché pensava che sarebbe morto. Si sentì un idiota, avrebbe voluto che esistesse un incantesimo per tornare indietro nel tempo, in modo da poter cancellare quella patetica confessione.
Per tutto il giorno quel pensiero lo tormentò, mentre Nihal lo curava, mentre mangiavano, mentre chiacchieravano. La sera infine, davanti al fuoco che illuminava la sala con i suoi bagliori, Sennar decise di parlare. Stava meglio e credeva di essere pronto per sostenere qualsiasi tipo di emozione, per sentirsi dire che era un grande amico, ma che nessuno nel cuore di Nihal avrebbe potuto sostituire Fen.
«Riguardo a quel che è accaduto il giorno che sono stato ferito...» iniziò Sennar sfruttando un momento di silenzio, ma gli mancò subito il coraggio, perché vide Nihal avvampare. «Ecco... io volevo solo... chiarire...» Tacque di nuovo.
Nihal non lo guardava.
«Quando ti ho detto che... insomma, quando ti ho detto... quella cosa... io deliravo» disse infine. «Sì, non sapevo quello che dicevo... ero intontito... scusami. Dimentica quelle parole» concluse, e guardò il fuoco.
Quando alzò gli occhi, Nihal era davanti a lui, vicinissima.
«Mi premevano dentro da tanto tempo» confessò allora lui, mentre vedeva una lacrima scendere sulla guancia di Nihal. «Da quando ci siamo conosciuti, credo. Ma non avrei mai dovuto dirtelo, e meno che mai in quel momento. Scusami. Fai come se nulla fosse.»
Il volto di Nihal sfiorava il suo, i capelli blu lambivano la sua fronte. Sennar abbassò gli occhi.
«Guardami» mormorò lei.
Sennar lo fece. Nihal si avvicinò ancora di più e appoggiò le labbra sulle sue. Rimase così per qualche secondo, poi si scostò.
«Anch’io ti voglio bene, e ti voglio per me» disse lei.
Sennar le prese la testa fra le mani e la baciò. Gli parve di fondersi con lei, dopo averlo desiderato per tanto tempo.
Quando aveva accostato le labbra a quelle di Sennar, Nihal era tornata con il pensiero all’unico bacio che aveva dato in vita sua, a Fen, nel santuario di Thoolan. Ma con Sennar era diverso, era reale.
Ciò che le stava accadendo era nuovo e sconosciuto, eppure antico e noto allo stesso tempo. Nihal sapeva esattamente cosa fare, come se il tocco delle labbra di Sennar avesse risvegliato qualcosa che covava in lei da molto tempo. Poteva essere solo Sennar, ora ne aveva la certezza. Non seppe come, ma si ritrovò anche lei sull’altare, stesa al fianco del mago, mentre continuavano a baciarsi. Lo sentì lamentarsi debolmente e si ricordò della sua gamba ferita.
«Perdonami, io...» iniziò.
«Va tutto bene» la interruppe lui, poi riprese a baciarla.
Fu allora che Nihal ricordò ciò che le aveva detto Aires a proposito della verità, quando le aveva chiesto come si fa a sapere di aver trovato la propria strada: A un tratto la sua verità mi si è imposta, con tanta forza che non potevo rifiutarla. Ora anche Nihal si sentiva così: la verità le si presentava in tutta la sua sorprendente chiarezza, e lei non poteva fare altro che accettarla. Adesso tutto le era chiaro, tutto aveva acquistato un senso: il viaggio, l’angoscia, la ricerca.
Sentiva le braccia di Sennar stringersi intorno ai suoi fianchi e capiva che poteva finalmente riposare in quell’abbraccio pieno di desiderio. Era come se il suo corpo non le appartenesse più; si sentiva diversa, quasi che una parte nascosta di lei d’un tratto fosse stata liberata. Sotto il tocco delle mani di Sennar la sua pelle rinasceva, il suo fisico si rimodellava. Sennar la stava richiamando alla vita; più le sue mani indugiavano su di lei, più Nihal sentiva che il ponte gettato con il suo intimo diveniva solido. E quando infine si vide nuda, capì che quella nudità era un dono, e che aveva valore perché a farglielo era lui.
Nei gesti che seguirono, si dissero ciò che avevano taciuto per tutti quegli anni: che erano sempre stati l’uno dell’altra, che non potevano essere separati, che non sarebbero mai stati soli, perché si appartenevano. E alla fine Nihal, per la prima volta, si sentì unica, completa, vera. Era giunta alla fine della sua ricerca.
Per un paio di giorni Nihal dimenticò tutto. Passava il tempo a curare Sennar, senza preoccuparsi del fatto che le sue scarse capacità magiche non potevano nulla contro quella ferita. Non c’erano più nemici fuori, non c’era alcuna missione da compiere. Per lei il mondo iniziava e finiva nella grotta dove si trovavano.
Per questo non sentiva i passi che rimbombavano sempre più frequenti sul tetto della grotta e non udiva le voci che si rincorrevano sopra le loro teste.
«Passerà parecchio tempo prima che io possa camminare di nuovo» disse Sennar, la mattina del sesto giorno di permanenza.
«Ci vuole solo un po’ di pazienza» rispose lei tranquilla. «Lo sai che come maga sono una frana, ma mi sto impegnando.»
«Nihal, l’osso è rotto e la tua magia non può nulla, lo sai. Non sarò in grado di uscire da qui prima di un mese» insistette Sennar.
«Vorrà dire che aspetteremo.»
«Oggi le voci dei fammin erano più vicine» continuò lui.
«Qui non ci troveranno mai.»
Sennar la strinse fra le braccia. Nihal lo baciò, poi si scostò sorridente. Quando vide il volto di lui, però, il sorriso le si spense sulle labbra. «Che cos’hai?»
«Non possiamo più permetterci di restare fermi qui.»
«Non sei in grado di camminare, con te conciato così non andremmo da nessuna parte.»
«Lo so.»
«Sennar...» disse lei a bassa voce. Iniziava a capire.
«Sai bene perché siamo qui.»
Nihal si portò le mani alle orecchie. «Sta’ zitto!»
«Molte vite dipendono da noi, e molti sono morti per questo. Non possiamo ignorarlo.» Le scostò le mani dalla testa. Nihal aveva già gli occhi lucidi. «Tu devi andare» disse.
La mezzelfo si accorse che la voce gli tremava, benché cercasse di non darlo a vedere. «Non puoi chiedermi questo» ribatté scuotendo la testa. «Non mi chiedere di lasciarti proprio ora che ti ho trovato! Non posso.»
«Nemmeno io lo vorrei, ma non si può fare altrimenti.»
Le lacrime iniziarono a scendere sulle guance di Nihal. «Non mi interessa il motivo per cui siamo qui! Non mi importa della gente là fuori! Noi siamo qui, ora, tutto il resto non conta. Non ti posso lasciare in territorio nemico, ferito per di più. Non posso! Non posso e non voglio!»
«Se davvero io sono ciò che hai cercato in tutto questo tempo, allora proprio per questo devi andare» le spiegò Sennar.
«Non dire idiozie da oracolo!»
«Non sono idiozie» esclamò Sennar. Adesso la sua voce era dura. «Cercavi uno scopo che desse un senso alla tua vita, un motivo per agire e la forza per farlo. Se resti qui, la tua scoperta sarà inutile.»
«Cosa c’è di male a voler stare con te? Io ti amo. Non hai visto che razza di posto è questo mondo? La gente si odia, si uccide... Far fuori il Tiranno non servirà a nulla. Finché noi due siamo qui non saremo mai soli, potremo crearci il mondo che vogliamo. Questa terra non merita il tuo sangue o il mio sacrificio.»
«Non è vero, e lo sai» ribatté Sennar. «Laio ha dato la vita perché tu potessi andare avanti e adesso, mentre noi siamo qui, Soana e Ido continuano a combattere per salvare questo mondo. È per loro che devi andare, altrimenti il sangue sparso finora sarà stato inutile.»
Nihal iniziò a singhiozzare, lo abbracciò e lo strinse più forte che poté. «Ti prego, non chiedermi di lasciarti. Senza di te non posso farcela. Ho avuto il coraggio di arrivare fin qui solo perché c’eri tu. Io ho bisogno di te...»
Sennar la strinse al petto. Aveva il respiro affannato e Nihal percepì tutto il dolore che provava, quanto gli fosse costata quella decisione. «Non mi succederà nulla. Sono un mago potente, lo sai. Nell’ultima battaglia sarò al tuo fianco e quando tutto sarà finito potremo godere della felicità che ci spetta. Anch’io voglio stare con te, ma se ora rimani qui, non ci sarà più un mondo dove vivere...» La strinse con più forza.
Nihal si allontanò da lui e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. «Se non è pericoloso stare qui, perché non posso aspettare che tu guarisca?»
«Perché il Mondo Emerso non ha tempo. Le Terre libere stanno cadendo a una a una e presto saranno tutte soggiogate al Tiranno. Ho dedicato la mia vita a cercare di salvare questo posto, non rendere vano ciò che ho fatto...»
«Tu mi lasceresti qui?» chiese lei.
Sennar tacque.
«Rispondi.»
«Sì» mormorò, ma Nihal non gli credette. Sapeva che sarebbe morto, piuttosto. Sennar la afferrò per le spalle. «Ti prego, va’. Ce la puoi fare anche senza di me. Non abbiamo bisogno di essere vicini per appartenere l’uno all’altra, e lo sai. Quanto a me, appena starò bene uscirò da qui e ti raggiungerò alla base. Nihal, ti prego...»
La mezzelfo si voltò e pianse in silenzio.
Nihal batté la foresta per l’intera mattinata e radunò più provviste possibile. Le stipò nella grotta e fece anche riserva d’acqua. Calcolò quanti vettovagliamenti servissero per un mese di permanenza e abbondò. In fondo, sapeva che Sennar aveva ragione, ma in quel momento odiava la sua missione e il talismano che le pesava al collo. Se a Sennar fosse accaduto qualcosa in sua assenza, non se lo sarebbe mai perdonato.
Per tutto il pomeriggio fecero entrambi finta di niente, benché la tristezza dell’addio imminente fosse nell’aria, palpabile. Sennar si sforzava di essere allegro, ma Nihal sapeva che aveva paura e che non avrebbe voluto lasciarla andare. Poi giunse la notte.
«Tieni» disse Sennar, quando lei fu pronta a partire. In mano aveva il pugnale di Livon, quello che li aveva fatti conoscere.
Non appena lo vide, Nihal capì quanto fosse reale quella separazione e scoppiò a piangere. «Perché vuoi darmelo?» chiese fra i singhiozzi.
Sennar sorrise. «Sciocca... Di che hai paura? Non piangere...» Le asciugò una lacrima. Poi estrasse il pugnale dalla custodia e Nihal vide che la lama risplendeva di una luce bianca. «Ho fatto un incantesimo: la lama brillerà finché starò bene e la luce ti indicherà dove sono.»
Nihal lo prese e lo mise al posto di quello che teneva nello stivale con cui aveva quasi ucciso Dola. «Questo tienilo tu, e usalo se necessario» disse allungandogli l’altro pugnale. Lo abbracciò e lo riempì di baci. «Non morire, Sennar, ti prego, non morire!»
«Nemmeno tu...» disse il mago, e le diede un ultimo lungo bacio sulle labbra.
Quando allontanò il volto da quello di lei, Nihal vide che anche lui piangeva.
«Nihal, se... se non dovessi arrivare per l’ultima battaglia... se non mi troverai alla base... non cercarmi, non prima di aver abbattuto il Tiranno. Ma non mi succederà niente, vedrai... Ti aspetterò alla base» disse con un sorriso.
Nihal si alzò e si incamminò per la via che portava in superficie. Non si voltò indietro, perché sapeva che se l’avesse fatto non sarebbe mai più partita. Dopo pochi passi, la solitudine la strinse in una morsa dolorosa.