Terre libere

Fu così che gli dèi, irati per il comportamento stolto e superbo degli abitanti di Vemar, decisero la loro fine. Essi riversarono la loro ira su quella terra che anni prima avevano benedetto, e vi fu un grande sconvolgimento. Il mare si sollevò fino a toccare il cielo, la terra sprofondò negli abissi, fiumi di fuoco si disputarono Vemar con i loro flutti impazziti. Per tre giorni e tre notti il mare e la terra si mescolarono, mentre gli uomini pregavano gli dèi per placare la loro ira. Il quarto giorno, Vemar si sollevò in cielo e fu capovolta, sostituita da un ampio golfo, un cerchio perfetto. Vemar, Primizia degli Dèi, non esisteva più. Al suo posto, il golfo di Lamar, Ira degli Dèi. Al centro, le torri che annunciano che nessuno è così grande da innalzarsi fino agli dèi.

Antiche storie, paragrafo XXIV, dalla Biblioteca Reale

della città di Makrat

1 Inizio di un lungo viaggio

Nihal si coprì fino al naso con il mantello. Nel bosco faceva freddo per quel periodo. I pini frusciavano sotto le sferzate di un vento gelido e il fuoco stava per spegnersi.

Ultima dei mezzelfi, come testimoniavano i suoi capelli blu e le sue orecchie a punta, Nihal era indebolita dalla febbre e tormentata dalle voci dei fantasmi che popolavano i suoi incubi. Guardò il medaglione che portava al collo, il talismano che avrebbe potuto rubarle la vita e decidere della salvezza del Mondo Emerso. Gli otto alvei vuoti sembravano risucchiarla con il loro carico di interrogativi.

I suoi compagni, Sennar e Laio, erano appoggiati a un tronco, assopiti. Anche Oarf, il suo drago, dormiva; poteva sentirne il respiro lento e regolare sulla schiena, posata sulle squame verde smeraldo.

Il viaggio era cominciato sei giorni prima, dopo l’ultimo incontro con Reis, la maga.

Davanti al fuoco, la mezzelfo chiuse gli occhi e si concentrò sul respiro rassicurante di Oarf, per scacciare quel ricordo. Rivedeva ancora gli occhi quasi bianchi della vecchia, le dita adunche, e le sembrava di udire la sua voce carica di odio.

Il vento era gelido, eppure la mezzelfo sudava. Guardò di nuovo il talismano. La pietra centrale brillava nel buio, fra i bagliori rossastri del fuoco, così come aveva rischiarato l’aria fetida della capanna della maga. Le parole che Reis aveva pronunciato le riecheggiarono nella mente.

"Il talismano rivelerà la posizione dei santuari a te, Sheireen, e a te soltanto. Quando avrai raggiunto il luogo in cui la pietra è custodita, reciterai le parole dell’iniziato: Rahhavni sektar aleero, ‘Impetro per il potere’. Prenderai la pietra, la metterai nell’alveo che le spetta, nell’amuleto, e il potere scenderà in te. Quando sarai nella Grande Terra chiamerai a raccolta gli Otto Spiriti, pronunciando il loro nome: Ael, Acqua; Glael, Luce; Sareph, Mare; Thoolan, Tempo; Tareph, Terra; Goriar, Oscurità; Mawas, Aria; Flar, Fuoco. Ciascuna delle otto pietre si attiverà e gli spiriti saranno evocati. Il talismano ti succhierà la vita, se ne alimenterà per richiamare gli spiriti. L’energia che ti verrà strappata si accumulerà nel medaglione. Potrà essere usata per evocare un’altra magia, ma in quel caso andrà perduta e tu morirai, oppure potrà essere liberata, infrangendo il medaglione con una lama di cristallo nero. Ma ricorda, il talismano è destinato a te, se un altro dovesse indossarlo, perderà fulgore e potere, e assorbirà le energie vitali della persona che ha osato tanto."

Nihal rabbrividì. Tornò a nascondere il medaglione sul petto e si strinse nel mantello.

Erano partiti in fretta, la loro missione era della massima urgenza. Lei stessa aveva insistito per mettersi in viaggio prima che la ferita alla spalla, infertale da un fantasma, fosse guarita.

Nihal avrebbe preferito che Laio, il suo scudiero, rimanesse alla base, ma era stato impossibile impedirgli di seguirla. Persino Ido, il suo maestro, aveva dovuto ammetterlo. «Probabilmente sarebbe meglio che non venisse» aveva bofonchiato lo gnomo, tra un tiro di pipa e l’altro. «Non è un guerriero e la battaglia non fa per lui. Ma Laio non accetterà mai di restare qui ad aspettarti. Anche se partissi di nascosto, ti seguirebbe e si farebbe ammazzare. L’unica è portarlo con te.»

Lo scudiero non si era fatto pregare, aveva subito raccolto le sue cose, con un sorriso che gli illuminava il viso incorniciato dai riccioli biondi, e aveva scalpitato fino al momento della partenza.


La prima volta che Nihal aveva interrogato il talismano, l’aveva fatto di malavoglia. Finché non metteva alla prova i suoi poteri poteva illudersi di essere solo Nihal, Cavaliere di Drago. Sheireen, la Consacrata, il nome odioso con cui la chiamava Reis, non era che l’ombra di un incubo.

Ma non appena aveva preso in mano il medaglione la sua mente era stata invasa da una visione.

Un’immagine confusa. Nebbia. Una palude. Nel mezzo, una costruzione bluastra, evanescente. Una parola: "Aelon". E una direzione: "A nord, costeggiare il Grande Fiume, fino a dove si getta nel mare". Poi più nulla.

Dunque era vero. Era la Consacrata.

Circondata dalle sagome cupe degli alberi, Nihal non riusciva a dormire. La febbre era salita e la spalla pulsava. La ferita doveva avere fatto infezione.

Nihal guardò il mago e lo scudiero che dormivano sereni. La mezzelfo si soffermò sulla zazzera rossa del mago che spuntava da sopra il mantello e si chiese ancora una volta se sarebbero mai riusciti ad arrivare fino in fondo.


Il mattino dopo ripartirono che il sole era già alto, diretti a nord, mentre la neve ricominciava a scendere silenziosa e il vento scuoteva le cime degli alberi e contrastava le ali di Oarf.

Volarono sopra distese di foreste imbiancate e sugli affluenti del Saar. Fra i rami secchi e grigi intravidero i villaggi degli uomini e gli alberi dove vivevano le ninfe. Nihal sentì che erano vicini alla meta.

«Ci siamo» disse, e fece abbassare di quota Oarf.

Sotto di loro, il Grande Fiume si divideva in migliaia di rivoli che impregnavano la terra e gli alberi cedevano il passo a un terreno acquitrinoso. Doveva essere la palude che Nihal aveva visto quando aveva interrogato il talismano. Volarono verso quella zona, ma ben presto la visuale fu offuscata da una fitta nebbia. Qua e là si intravedevano i rami rinsecchiti di qualche albero.

«Dobbiamo abbassarci o non vedremo nulla» suggerì Laio.

Non appena misero piede a terra, avvolti nella luce resa opaca dalla nebbia, furono aggrediti da un odore di acqua stagnante. Erano giunti all’imboccatura della palude.

Si sedettero su un tronco per valutare la situazione.

«Non si può procedere con Oarf, almeno finché la nebbia non si alza» disse Sennar.

«Ma non sappiamo quanto è distante il santuario, né quanto sia vasta la palude» obiettò Laio.

Nihal taceva. Sentiva brividi freddi lungo la schiena e il volto le avvampava per il calore. Cercò di concentrarsi, senza ascoltare Laio e Sennar. Infine decise. «Dobbiamo procedere a piedi» disse.

«Va bene» rispose Laio e fece per alzarsi.

«Tu non vieni» lo fermò Nihal.

Laio si bloccò. «Perché?»

«Voglio che resti con Oarf» disse.

«No, tu vuoi che mi levi di torno» esclamò lo scudiero, per poi assumere un’espressione pentita.

Nihal guardò Laio severa. «Hai detto bene prima, non sappiamo quanta strada dovremo percorrere. Oarf è stanco, devi prenderti cura di lui.»

«Sì, ma...»

«Niente ma, ho deciso. Sennar e io partiremo domani mattina. Tu resterai qui.»


Quella sera, Nihal non riuscì a prendere sonno. La febbre era salita e il pensiero che di lì a breve avrebbe visitato il primo santuario la emozionava e la terrorizzava al tempo stesso. Sennar sarebbe stato con lei, ma la decisione del mago di accompagnarla in quel viaggio, mettendo a repentaglio il suo posto nel Consiglio, era un fardello che si aggiungeva al carico già pesante di quella missione.


Quando Nihal aveva comunicato al Consiglio dei Maghi la sua decisione di partire per la missione, Sennar si era alzato di scatto.

«Chiedo di poter partire con lei.»

Nihal si era voltata verso di lui. «Sennar!»

«È fuori discussione» aveva risposto Dagon. «È grazie alla tua magia che la nostra disfatta è stata più leggera. Ci servi qui.»

«Chiedo il permesso di accompagnarla» aveva insistito lui. «La magia può esserle d’aiuto.»

Dagon lo aveva guardato a lungo. «Vorrà dire che manderemo con lei un altro mago. Sei troppo prezioso per il Consiglio.»

«Anche Nihal è preziosa per l’esercito.»

«Resterai qui, Sennar. L’argomento è chiuso.»

Sennar a quel punto aveva fatto un gesto inaudito. Si era strappato dal collo il medaglione che attestava la sua appartenenza al Consiglio, il simbolo di tutto ciò in cui credeva e per cui aveva combattuto. «Allora lascerò il Consiglio.»

Un mormorio di stupore aveva percorso la sala.

«Vale così poco il Consiglio, per te?» aveva detto Sate, il rappresentante della Terra del Sole.

«Il Consiglio è la mia vita, ma ci sono molti modi per servire il Mondo Emerso. Accompagnare il Cavaliere Nihal nella sua impresa è uno di questi.»

«Chi prenderà il tuo posto?» aveva chiesto la ninfa Theris.

Soana si era alzata dal suo scanno. «Finché Sennar sarà lontano, mi offro come sua sostituta.»

Dagon era rimasto pensieroso a lungo. «Va bene» aveva detto infine. «Acconsento alla tua partenza. Ma sappi che, quando ritornerai, il Consiglio si riserva di non ammetterti più nel suo consesso.»

Sennar aveva assentito.


Nihal fissò le fiamme che rischiaravano con un bagliore rossastro l’aria gelida della notte. Intorno a lei, la nebbia sembrava inghiottire ogni cosa.

2 Aelon o dell’imperfezione

Quando il mattino dopo Nihal e Sennar si addentrarono nella palude, furono presi dallo sconforto. La nebbia era fittissima; dovevano stare attenti a non allontanarsi l’uno dall’altra, o avrebbero rischiato di non ritrovarsi.

Mettere piede in quel posto fu come uscire dalla realtà. L’odore era nauseabondo e il terreno così impregnato d’acqua che a ogni passo affondavano fino alle caviglie. Il silenzio era rotto solo dal gracidare delle rane e dagli urli striduli dei corvi.

Nihal avanzava sempre più a fatica e rimase indietro. Sennar andò da lei e le afferrò la mano.

«Cosa...»

«Così non ci perdiamo» rispose il mago. «Se sapessimo dov’è il posto, potremmo raggiungerlo con la magia.»

«Sai fare magie del genere?»

«Sì, ma solo per viaggi brevi e per arrivare in luoghi di cui conosco l’ubicazione. Si chiama Incantesimo del Volare, anche se in realtà non si vola.»

«Non sembra male.»

Sennar sorrise. «Un giorno te lo insegnerò.»


Presto persero il senso del tempo. Intorno a loro era tutto grigio e uniforme. Era come se non avessero fatto altro che girare in tondo, ogni albero era identico all’altro, ogni pietra si assomigliava.

All’improvviso, calò il buio e fu notte. Erano in mezzo alla palude, senza la minima idea di quanta strada avessero ancora davanti. Non potevano fermarsi lì, dovevano trovare un rifugio, ma in quella pianura sarebbe stato difficile.

Nihal non sapeva dove fosse Sennar fino a quando non lo sentì avvicinarsi. Un globo luminoso si accese nella mano del mago e gli illuminò il volto; era provato e stanco, la cicatrice che Nihal aveva lasciato più di un anno prima sulla sua guancia in un attimo d’ira spiccava sul pallore del viso. Negli occhi azzurri, però, c’era una luce rassicurante.

«Non ti abbattere, troveremo una soluzione» disse Sennar. «Non possiamo dormire nel fango.»

Il mago si incamminò, preceduto dal chiarore del globo luminoso.

Vagarono per un bel po’, poi Sennar indicò una pietra che spuntava dal fango, abbastanza larga da poterci approntare un giaciglio. Si rannicchiarono sotto i mantelli, al buio, e crollarono entrambi addormentati per la stanchezza.


Il mattino dopo, la fronte di Nihal era madida di sudore e le tempie scottavano. La ferita non accennava a rimarginarsi.

«Non è niente e poi siamo vicini» si schermì Nihal.

«Non sei in condizioni di proseguire, ti sei già stancata troppo. Possiamo avvisare Laio e andare in qualche villaggio. Torneremo quando ti sarai riposata.»

Nihal scosse la testa. «Non sarò tranquilla fino a quando non avrò preso la prima pietra. Alla mia guarigione penseremo poi» disse. Fece per alzarsi, ma sentì le gambe tremare.

Sennar la costrinse a tornare a sedersi. «Fatti portare sulle spalle, almeno.»

Nihal scosse di nuovo la testa.

«Quando ti deciderai ad ammettere che non puoi cavartela sempre da sola?» sbottò Sennar. «Credi che avrei osato lasciare il Consiglio, se non fossi stato sicuro che avevi bisogno di me?»

Nihal si arrese e salì sulla schiena del mago.


Procedettero così per tutta la mattina. Sennar avanzava immerso nel fango fino alle ginocchia. Poi, finalmente, la nebbia si diradò e qualcosa apparve all’orizzonte. Dapprima Nihal credette che la febbre fosse salita al punto da provocarle un’allucinazione. Vedeva una costruzione emergere dalla nebbia, ma pareva sospesa nel nulla, come se fluttuasse. Più si avvicinavano, più sentiva che erano prossimi alla meta.

«Dev’essere quello» disse. «Forse ci siamo.»

La costruzione non sembrava distante, ma dovettero camminare a lungo prima di raggiungerla. A poco a poco, iniziarono a distinguerne la sagoma. Era un edificio squadrato, adornato da numerosi pinnacoli, del colore dell’acqua cristallina.

Arrivarono ai suoi piedi e si fermarono. Al centro della facciata si apriva una porta a sesto acuto; le mura parevano un enorme ricamo e la luce entrava e usciva da tutte quelle aperture. Ma ciò che stupiva del santuario era il materiale di cui era fatto: acqua. L’acqua dalla palude saliva a formare le mura, quindi vorticava e si avvolgeva intorno alle guglie, per poi scendere a cascata e plasmare la porta. Era acqua di ruscello, sospesa in aria a formare l’edificio.

Nihal allungò la mano verso la costruzione e le sue dita affondarono nella parete, investite dalla corrente dell’acqua. Ritrasse la mano e se la portò al volto: era bagnata.

«Che prodigio» mormorò Sennar.

La ragazza alzò gli occhi e notò che sulla porta troneggiava una scritta, in caratteri aggraziati e pieni di fregi: "Aelon". «Entriamo» disse.

Sguainò la spada e varcò per prima la soglia. Sennar la seguì, guardingo.


Anche il pavimento era d’acqua, eppure sosteneva i loro passi. L’interno era completamente vuoto. Se visto da fuori l’edificio sembrava piccolo, una volta dentro dava tutt’altra impressione. Vi era un lungo corridoio, abitato soltanto dal rumore del ruscello che riecheggiava tra le pareti. Sembrava non avere fine e il fondo si perdeva nell’oscurità.

Nihal percepì una vaga sensazione di pericolo e strinse l’elsa della spada nel pugno. Guardò il medaglione: la pietra centrale brillava nel suo alveo.

In fondo al corridoio, dove con ogni probabilità si trovava la pietra, non si vedeva nulla. Nihal avanzò e Sennar la seguì. Camminavano così, quando la mezzelfo si fermò di botto.

Sennar si guardò intorno. «Che cosa c’è?» chiese.

Nihal non rispose. Le era parso di sentire una voce o, piuttosto, una risata.

La mano di Sennar si illuminò, pronta a lanciare un incantesimo.

«Mi era sembrato...» Nihal tese di nuovo l’orecchio, ma non sentì altro che lo scorrere dell’acqua. «Ma era solo un’impressione.»

Ripresero il cammino. Lo scroscio iniziò a scemare, finché divenne impercettibile. Nihal non avrebbe saputo dire quanta strada avessero percorso nel santuario. Si fermò e abbassò la spada.

Fu allora che, d’improvviso, mille facce emersero dalle pareti liquide e si protesero verso lei e Sennar, per poi trasformarsi in corpi eterei di fanciulle. Sembravano ninfe, se non fosse stato per la luce maligna che avevano negli occhi. Sennar e Nihal si strinsero l’uno all’altra. La mezzelfo provò a colpire quegli esseri con la spada, ma erano fatti d’acqua e la lama vi affondava senza risultato.

Poi, d’un tratto, sentirono qualcosa alle loro spalle. Con la spada in pugno, Nihal si girò e vide che dal pavimento d’acqua iniziava a emergere una donna, anch’essa d’acqua. Prima il volto, e due occhi gelidi e cattivi si appuntarono su di lei, poi le spalle e il seno, infine la parte inferiore del corpo.

La donna continuò a crescere, fino a diventare gigantesca e sovrastare Nihal e Sennar con la sua mole. Era maestosa e bellissima, e dai suoi lineamenti perfetti emanava un’energia spaventosa.

La spada tremò nelle mani di Nihal.

Di colpo, nel volto della donna si aprì un taglio e si delineò un sorriso enigmatico. Rapido come si era acceso, il sorriso si spense. «Chi sei?» chiese la donna.

La risposta salì automatica alle labbra di Nihal. «Sheireen» disse con voce tremante.

«Sheireen tor anakte?»

Nihal era confusa. «Sono Sheireen, non vengo con cattive intenzioni» rispose.

La donne tacque un istante. «Consacrata a chi?» ripeté, in una lingua comprensibile a Nihal.

«Sono consacrata a Shevrar.»

La donna sembrò rasserenarsi. «Shevrar, il dio del Fuoco e della Fiamma da cui tutto è generato, ma anche il dio della Vampa che tutto estingue. Da Egli tutto viene, in Lui tutto muore. Nelle fucine dei vulcani a Lui cari, la lama che uccide viene forgiata per la guerra, ma la luce del Suo fuoco dà vita e calore a chi lo ama. Vita e morte sono in Lui, fine e principio.»

Nihal ascoltò senza capire.

«E lui?» chiese la donna. «Chi è l’essere impuro che conduci con te?»

«Sennar» rispose il ragazzo con voce sicura. «Sono un mago del Consiglio.»

La donna lo squadrò, poi due propaggini della sua veste si mossero verso di lui, si avvolsero attorno alle sue braccia e lo immobilizzarono. «Non saresti dovuto venire fin qui. I tuoi piedi impuri sono indegni di toccare il pavimento della mia dimora.»

Sennar provò a divincolarsi, ma sebbene fosse solo acqua a trattenerlo, non vi riuscì.

«Lascialo andare! È a me che devi rivolgerti, lui mi ha soltanto accompagnata nella mia missione» urlò Nihal.

La donna rimase per un po’ in silenzio, i suoi occhi si posarono su Nihal e la scrutarono. «Sento in te qualcosa di oscuro, qualcosa che non dovrebbe esservi in un Consacrato.»

Nihal era consapevole di non essere pura e sapeva quanto fosse forte l’odio che provava per il Tiranno. «Io non sono perfetta, e forse non sono neppure degna di avere fra le mani il tuo potere» disse «ma il destino ha voluto che fossi l’unica a poter riunire le pietre. Non te la chiedo per me. Te la chiedo per tutti coloro che sono morti, per coloro che soffrono: è per loro che devo farlo. È la loro ultima speranza e io non posso negargliela. Spero che neppure tu vorrai farlo.»

Nihal sentiva lo sguardo indagatore di quella creatura penetrarle nell’animo e sperò che non arrivasse a vedere l’oscurità che vi era celata.

Un sorriso conciliante apparve sulle labbra d’acqua della donna. «E sia, Sheireen, ho compreso quel che chiedi e ho visto nel tuo animo. So che ne farai buon uso.»

La donna richiamò a sé le propaggini della sua veste liquida e Sennar fu di nuovo libero; poi si portò una mano al volto, divelse dall’orbita uno degli occhi e lo porse a Nihal. La mezzelfo prese la pietra. Era liscia, di un azzurro pallido e brillante. Sembrava racchiudere le vorticose correnti del Saar.

«Sheireen, sei solo all’inizio, dovrai ancora percorrere molte leghe e altri dopo di me incontrerai. Non tutti saranno come me, bada, alcuni ti ostacoleranno nel tuo compito. Ora un immenso potere è nelle tue mani. Non abusarne, o verrò io stessa a cercarti per ucciderti. Che possa la strada correre lieve sotto i tuoi passi e il tuo cuore giungere ove anela» disse la donna. «Fa’ quel che devi» concluse.

Nihal strinse la pietra fra le dita e la pose nell’alveo. «Rahhavni sektar aleero» mormorò.

Le acque che componevano il santuario iniziarono a vorticare. Le pareti si dissolsero, i fregi scomparvero, la donna stessa venne risucchiata nel vortice. Sembrava che tutta quell’acqua fosse sul punto di precipitare addosso a Nihal, invece confluì nella pietra.

La mezzelfo chiuse gli occhi e quando li riaprì intorno a lei c’erano solo la nebbia e la palude.

Sentì un sospiro di sollievo alle sue spalle, si voltò e vide il volto sorridente di Sennar.

«In fin dei conti è stato facile» disse il mago.

Nihal annuì. «Forse aveva capito le nostre intenzioni. Ora non ci resta che ripartire.»

D’un tratto le forze la abbandonarono. Cadde in ginocchio nel fango.

«Che cosa c’è?» chiese Sennar.

«Non è niente... solo un giramento di testa...»

Il mago le posò subito una mano sulla fronte.

«Sei bollente. Fa’ vedere la ferita» ordinò.

Prima che Nihal potesse schermirsi, le scostò le fasciature. Alcuni punti si erano riaperti e c’erano i segni evidenti di un’infezione. Sennar cercava di non darlo a vedere, ma lei capì che era preoccupato.

«Dobbiamo chiamare Laio» disse il mago.

Nihal non riusciva a pensare. Gli occhi le bruciavano e sentiva i brividi ghiacciati della febbre in tutto il corpo. «Non ha senso... Non può venire con Oarf» protestò.

Sennar le gettò addosso il suo mantello, perché si scaldasse. «Gli indicherò io la strada. Tu non sei in condizioni di camminare e io non posso aiutarti. La mia magia è in grado di curare le ferite, ma non può nulla contro le malattie, quelle sono appannaggio dei sacerdoti. Forse le erbe del tuo scudiero saranno più utili.»

«Ma io...»

«Tu stai tranquilla e riposati.»

La costrinse a coricarsi su un tronco lì vicino, poi fischiò e un corvo nero scese dal cielo. Il mago strappò una parte della stoffa della tunica e su di essa vergò con la magia alcune parole per Laio. Avvolse il messaggio alla zampa dell’animale e gli sussurrò qualcosa all’orecchio. Il corvo si alzò in volo. Il mago tornò da Nihal, scoprì la ferita infetta e iniziò a recitare la formula di guarigione.


Laio giunse dopo un paio d’ore. Sennar aveva acceso un fuoco magico sopra il luogo dove si trovavano e il ragazzo li individuò senza difficoltà. Più problematico fu salire su Oarf, perché il drago non poteva scendere sulla palude o avrebbe rischiato di rimanervi impantanato per sempre. Sennar dovette issare Nihal fino a un’altezza sufficiente perché Laio potesse afferrarla, poi saltò e si arrampicò sulla groppa del drago, aiutato dallo scudiero.

Non appena Laio vide la mezzelfo, assunse un’espressione preoccupata. «Cosa è successo? Come stai?»

Nihal fece per rispondergli, ma la febbre e i brividi ebbero il sopravvento.

«La ferita si è riaperta, ed è infetta» intervenne Sennar.

«E ora cosa facciamo? Non ho con me le erbe e non so dove cercarle, e poi siamo così lontano e fa freddo...»

Prima di chiudere gli occhi, Nihal vide Sennar afferrare le spalle esili di Laio. «Sta’ calmo, innanzitutto. Dobbiamo raggiungere un luogo riparato, meglio ancora un villaggio, al resto penseremo poi. Per ora posso usare la mia magia, almeno per la ferita. Muoviti, avanti!» sentì dire al mago.

Poi cadde assopita in preda alla febbre, mentre il drago spiegava le ali e partiva.

3 La decisione di Sennar

Oarf volò più veloce che poté e presto oltrepassarono la palude e tornarono a sorvolare i boschi. La neve aveva ripreso a cadere e Sennar stringeva a sé Nihal per proteggerla dal vento.

Di villaggi non c’era traccia, sotto le ali del drago scorrevano soltanto le fitte cime degli alberi. Era da parecchio che volavano, ma ancora non avevano incontrato un posto che facesse al caso loro.

A un tratto, Laio indicò un punto all’orizzonte. «Sennar, che cosa c’è laggiù?»

Sennar guardò in quella direzione. In lontananza c’era una linea nera che si distingueva appena. Presto i contorni si delinearono e la realtà apparve in tutta la sua crudezza: era il fronte.

«Non è possibile...» mormorò Laio.

«Lo è, invece. È da due settimane che siamo partiti e la situazione era disperata, te lo ricordi.»

«Ma non possono essere avanzati di tanto» esclamò Laio.

«Stiamo volando alti, sono meno vicini di quanto sembri. Ma è comunque una tragedia.»

Sennar fece rapidamente i suoi calcoli: il Tiranno doveva aver conquistato tutta la zona meridionale e parte di quella occidentale, avanzando lungo il corso del Saar. Dove potevano andare? Loos era distante e lui non conosceva altri villaggi. Restava solo il bosco.

«Credo che la cosa migliore sia spostarci verso nord-est, lì saremo abbastanza lontani» disse alla fine il mago.

«C’è un villaggio da quelle parti?» chiese Laio.

«No. Ci accontenteremo del bosco.»

«C’è un posto... nel bosco...» La voce di Nihal era affaticata.

«Come?» chiese Sennar.

«Nel bosco c’è qualcuno che può aiutarci. Vi dirò io dove andare, ma dobbiamo arrivarci di notte.»


Nihal indicò loro la strada a fatica. Volarono finché calò la sera e un’altra notte gelida avvolse la Terra dell’Acqua. Solo allora scesero in una piccola radura, dove Oarf aveva a stento lo spazio per posarsi. Al centro del cerchio d’erba innevata vi era soltanto una pietra.

«Nihal, qui non c’è niente...» disse Sennar.

«Aspetta e vedrai.»

Non dovettero attendere a lungo. La pietra prese vita lentamente sotto la coltre di neve che la ricopriva e Sennar vide comparire nel chiarore lunare un vecchio, con il viso incartapecorito dalle rughe e una lunghissima barba bianca.

Il vecchio li scrutò a uno a uno, con calma, e sorrise del loro stupore. Poi, i suoi occhi vivaci si appuntarono in quelli lucidi di Nihal. «Avevo ragione a credere che ci saremmo rivisti» disse.

«Non sei cambiato, Megisto.» Nihal sorrise. «Io e i miei amici abbiamo bisogno di un ricovero.»

«La mia caverna è fin troppo grande per me. Sarò lieto di ospitarvi.»

Li condusse nella sua grotta e, per prima cosa, Sennar distese Nihal sul giaciglio del vecchio. La mezzelfo aveva la febbre alta e dormì un sonno agitato.

Megisto si diede da fare, scaldò l’acqua sul fuoco e radunò la paglia per i nuovi giacigli. Ovunque si muovesse, era seguito dal sinistro cigolio delle catene che portava alle caviglie e ai polsi.

Sennar lo osservava con stupore. Come può un uomo tanto vecchio muoversi così agilmente con tutto quel peso addosso? Infine distolse gli occhi dal loro ospite e provò a rendersi utile a Nihal in qualche modo, ma Laio lo scostò con gentilezza.

«Credo che sia un lavoro per me» disse con un sorriso.

Con occhio clinico, lo scudiero analizzò le condizioni di Nihal. Infine si rivolse a Megisto e gli chiese se aveva alcune erbe che Sennar non conosceva.

«No, ma so dove crescono. Ti ci accompagnerò, se vuoi» rispose il vecchio.

Laio assentì. Sennar dovette ammettere a malincuore che lo scudiero sembrava essere diventato padrone della situazione, molto più di lui.

«Resti tu qui con lei, vero?» chiese Laio.

«Certo» borbottò il mago.

Lui e Nihal rimasero soli nel silenzio della grotta. Sennar provò ad aiutarla con la sua magia, ma fu inutile.

D’un tratto, Nihal aprì gli occhi, gonfi e arrossati.

«Come ti senti?» chiese subito Sennar.

«Non permettere che diventi una di loro» mormorò lei.

«Cosa stai dicendo?» domandò il mago, benché avesse capito; anche lui non aveva potuto fare a meno di pensarci. Se Nihal fosse morta, sarebbe entrata a far parte delle schiere di fantasmi che combattevano per il Tiranno.

«Piuttosto di permettere che io diventi un fantasma, disperdi per sempre il mio spirito.»

«Non dire sciocchezze» esclamò Sennar.

«La tua magia potrà farlo, no? Devi trovare il modo di farmi morire per sempre...»

«Tu non morirai» disse Sennar, per convincere prima di tutto se stesso.

Ma Nihal era già sprofondata nel sonno.

In quel momento arrivarono Laio e Megisto, carichi di erbe di ogni tipo.

Laio si diede da fare. Fece una poltiglia con le erbe e la spalmò sulla spalla ferita di Nihal. La curò per buona parte della notte, fino a quando la fronte cessò di essere bollente e Nihal si assopì serena.

Megisto posò una mano sulla spalla di Sennar. «Credo che sia tempo che tu e il tuo amico vi riposiate.» Poi preparò una zuppa di castagne e diede loro del pane nero.

Mentre bevevano la zuppa, il mago non riusciva a smettere di osservare l’ospite. Appena arrivato, era troppo stanco e preoccupato per Nihal per pensare a quando aveva sentito quel nome, ma presto se n’era ricordato. Subito dopo il ritorno di Soana, Nihal gli aveva parlato di Megisto e della sua iniziazione alla magia proibita, a cui aveva fatto ricorso per sconfiggere Dola. Sennar squadrò il vecchio; era impossibile riconoscere in quel corpo martoriato dagli anni e dalle catene uno dei più crudeli luogotenenti del Tiranno.

La stanchezza li colse a tradimento non appena ebbero finito di cenare e si coricarono nei giacigli che Megisto aveva preparato per loro.

Sennar però non poteva dormire, continuava a pensare alle parole che Nihal aveva sussurrato nel delirio.

Cosa sono venuto a fare, se non posso aiutarla neppure in una situazione così semplice?

Adesso Sennar doveva ammettere di essere stato ingiusto con Laio. Aveva creduto che sarebbe stato un peso, invece per tutto il viaggio fino alla palude lo scudiero non si era mai lamentato, benché qualche volta, la sera, il mago lo avesse sorpreso a massaggiarsi la schiena dopo le lunghe ore sul dorso del drago. Lo aveva sempre guardato con scetticismo mentre trafficava con le sue erbe, eppure quegli impiastri dai colori improbabili si erano rivelati efficaci contro la febbre di Nihal.

Sennar tese l’orecchio per cogliere il respiro della mezzelfo. Era preoccupato per lei. Leggeva nei suoi occhi viola che avrebbe sacrificato tutto alla riuscita della missione e intuiva che dentro di lei si era riaperta una ferita che rischiava di risucchiarla verso il fondo. Gli sembrava che Nihal non fosse mai stata così distante da lui. Ripensò alle ultime parole che aveva detto a Ondine, in fondo al mare, e si maledisse perché non riusciva a tenere fede a quella promessa.


Il giorno successivo trascorse lentamente, mentre la neve calava sul bosco. Quando si erano svegliati, Megisto non era più lì, già prigioniero della pietra.

Aveva lasciato tazze di ambrosia e un po’ di pane. Dopo aver bevuto e mangiato, Sennar e Laio si alternarono accanto a Nihal.

Nel pomeriggio, mentre lo scudiero curava la mezzelfo, il mago rifletté sul seguito della missione.

La prossima pietra era quella della Terra del Mare, casa sua. Non poteva dire di conoscerla bene, da piccolo aveva visto solo i campi di battaglia, ma almeno si sarebbero mossi in una Terra che gli era familiare.

La sera Nihal era ancora assopita e sembrava che la febbre fosse diminuita. Megisto entrò nella grotta dopo il tramonto e portò formaggio e pane. Sennar accese il fuoco e i tre si sedettero a mangiare.

Il mago addentò il formaggio e lanciò un’occhiata a Nihal, che dormiva tranquilla, quindi si voltò verso Laio. «Le tue erbe hanno potuto dove la mia magia ha fallito» ammise.

Per poco a Laio non cadde il pane di mano. Il suo sguardo si ravvivò di una luce orgogliosa e Sennar non poté fare a meno di sorridere.


La mattina del terzo giorno della permanenza da Megisto, Nihal aprì gli occhi. Accanto a lei c’era Sennar, mezzo assopito.

«Ci siamo svegliati, finalmente» disse il mago.

Nihal alzò a fatica la testa dal giaciglio. «Da quanto tempo siamo qui? Dobbiamo rimetterci in marcia, non c’è...»

Sennar la interruppe. «Laio non ha permesso che tu morissi, a quanto pare. Non vorrai rendere inutili le sue fatiche.»

Nihal lasciò ricadere la testa. «Sono affamata» disse.

«Appena Laio sarà qui mangeremo.»

Lo scudiero arrivò presto, con qualche bacca e un po’ di noci che aveva trovato nel bosco. Quando vide che Nihal era sveglia, le si gettò al collo, dimenticandosi della ferita. A Nihal sfuggì un gemito. «Oh, scusa, scusa» disse goffo Laio, mentre si staccava da lei, le guance rosse per l’imbarazzo.

Quel pomeriggio, quando rimase sola con Sennar, Nihal iniziò a scalpitare. Disse che stava bene, che avevano perso fin troppo tempo e che era giunta l’ora di ripartire.

«È presto, lo sai anche tu» provò a dissuaderla il mago. «Se ti metti in viaggio adesso, fra pochi giorni starai di nuovo male.»

«La guerra non aspetta i miei comodi. Non posso permettermi di perdere altro tempo» rispose Nihal.

«Non ti sto dicendo questo.»

«È inevitabile, se resto qui.»

«Andrò io al posto tuo.»

Nihal tacque e lo guardò. «Non puoi farlo, e lo sai. Solo io posso indossare il talismano e toccare le pietre.»

«Sono un mago. Non ho più il mio medaglione, ma resto sempre un consigliere.»

«Non capisco come...»

Sennar si voltò. Non poteva guardarla, temeva che lei avrebbe letto la menzogna nei suoi occhi. «Conosco centinaia di incantesimi che sono in grado di sigillare enormi poteri, uno di questi riuscirà di certo a isolare il talismano, almeno per un po’, in modo che io possa portarlo con me.»

«Ma il guardiano...»

«Quando mi vedrà con il talismano, non avrà nulla da obiettare.»

«Non sai dov’è il santuario...» protestò Nihal.

«Me lo indicherai tu.»

Sennar tacque. Un silenzio carico di dubbi avvolse la caverna.

«È pericoloso. Non voglio.»

Sennar si inginocchiò accanto a Nihal e le prese le mani. «Non ti permetterò di andartene da qui prima che la tua spalla sia del tutto guarita.» Si sforzò di sorridere. «Cosa vuoi che sia entrare in un santuario, per uno che è sceso nel Mondo Sommerso?»

Lei non ricambiò il sorriso. «Sembra un ricatto...»

«Cerco solo di aiutarti.»

Nihal rimase in silenzio e Sennar le strinse le mani con più forza. «Giurami che non rischierai più del dovuto, giurami che se l’incantesimo non funziona tornerai da me» disse lei alla fine.

Sennar deglutì. «Te lo prometto.» Poi si alzò. «Forza, controlliamo questo amuleto e vediamo dove dovrò andare» disse, sforzandosi di sembrare allegro.

Nihal esitò qualche istante, poi prese il medaglione.

Sennar la vide chiudere gli occhi e concentrarsi. Quando la mezzelfo parlò, la sua voce era strana, come se provenisse da un abisso. «Nel mare, dove la roccia abbraccia le onde e le onde consumano la roccia. Ci sono alti spruzzi di schiuma e vento, un forte vento che ulula tra le feritoie. La costa. Due ombre nere che si stagliano a pochi passi. Due torri. No, due alte figure, due guglie.» Nihal riaprì gli occhi.

«È tutto?» chiese Sennar deluso.

«Sì, non ho visto altro.»

Sennar sospirò. «Non sai indicarmi una direzione?»

Nihal chiuse di nuovo gli occhi, ma Sennar vide le sue guance arrossarsi per lo sforzo e la interruppe. «Lascia stare se sei stanca» disse.

Nihal aprì gli occhi. «Devi seguire il corso del sole, mentre sorge.»

«A est...»

«Quella parola, "guglie", ce l’ho stampata in mente. Credo che sia importante» aggiunse Nihal.

«Me ne ricorderò.» Sennar si alzò. «Vado a cercare delle erbe nel bosco» disse.

Uscì a passo deciso dalla grotta, come se volesse allontanarsi dalla menzogna che aveva raccontato a Nihal e dall’enormità della decisione che aveva preso.


Sennar rimase a lungo davanti alla pietra, nel freddo pungente del tramonto. Aveva bisogno di parlare con Megisto, da solo.

Mentre aspettava che scendesse la notte, ripensava all’amuleto. Aveva mentito a Nihal, non conosceva un incantesimo che potesse sigillarlo.

A poco a poco, la pietra riprese vita. Megisto non parve stupito di vedere Sennar. «Devi parlarmi?» chiese, nel tono di chi conosceva già la risposta.

Sennar annuì, poi ripeté tutto d’un fiato quello che aveva detto a Nihal.

Megisto ascoltò con attenzione. Quando Sennar ebbe terminato, restò in silenzio. «Non esiste alcuna magia, né proibita né del Consiglio, che possa intrappolare un tale potere» disse poi.

Sennar abbassò lo sguardo. Avrebbe dovuto immaginare che non poteva mentire a quel vecchio. «Ma posso rallentarne gli effetti, e se rinnovo la formula di continuo...»

«È molto rischioso» tagliò corto Megisto.

Il mago cominciava a innervosirsi. Non erano quelle le parole che aveva bisogno di sentire. «Vuoi ospitarla mentre non ci sarò o no?»

«Tu vuoi che la rassicuri, che copra il tuo inganno, che le dica che non ci sono rischi.»

Mi guarda nell’animo, scruta cosa penso... «Sì» ammise Sennar.

«Lo farò finché potrò» disse Megisto. «Ma sappi che non approvo.»

«Mi interessa solo che tu lo faccia. Non ho altra scelta.»

Megisto si alzò. «Fa’ attenzione, almeno.»


Sennar partì il giorno successivo, all’alba. Megisto era scomparso e loro tre erano rimasti soli.

Il mago aveva preparato tutto. Aveva infilato i suoi pochi effetti in una sacca e aveva disposto a terra una serie di striscioline ottenute da foglie lunghe e fibrose, di un verde stinto. Su ciascuna, in azzurro, era vergata una runa. L’incantesimo di confinamento più potente che conoscesse.

«Dammi l’amuleto» disse a Nihal.

La mezzelfo allungò la mano. Nell’istante in cui le dita di Sennar sfiorarono il medaglione, la pietra della Terra dell’Acqua cominciò a oscurarsi e il mago sentì le sue forze scemare. Nascose il talismano nel pugno e cercò di non lasciar trapelare la sua debolezza. Poi si girò e pose il medaglione sulle foglie. Non appena lasciò la presa, la pietra tornò del suo colore naturale.

Sennar avvolse l’amuleto nelle foglie e recitò una cantilena. Quindi lo prese in mano e con un sorriso lo mostrò a Nihal. «Come vedi, adesso è innocuo.»

Nihal non cambiò espressione. «Ripensaci. In due giorni credo di potermi rimettere in piedi.»

Sennar si gettò la sacca da viaggio sulle spalle. «Quando avrò recuperato la pietra, vi chiamerò e vi dirò dove mi trovo. Non temere, andrà tutto per il meglio» disse.

«Sta’ attento» gli raccomandò Laio mentre si salutavano.

Nihal si sporse dal giaciglio e lo abbracciò. Lo baciò sulla guancia e prima di staccarsi gli sussurrò all’orecchio: «Non morire».

Sennar si voltò e si incamminò per la sua strada.


4 Sennar nella Terra del Mare


Dopo aver camminato per quattro giorni sotto la neve, Sennar entrò nella sua Terra e si ritrovò nel Bosco Marino, dove l’odore acre del mare gli riportò alla mente i ricordi della sua infanzia.

Fu il quinto giorno di marcia che si rese conto di quanto fosse grande la menzogna raccontata a Nihal. Nel tirare fuori parte delle provviste, vide uno strano fumo alzarsi dalla tasca. Vi infilò una mano ed estrasse il talismano. Il medaglione aveva iniziato a corrodere le foglie e adesso parte della pietra della Terra dell’Acqua era visibile. Il mago sentì che le sue energie venivano risucchiate verso l’amuleto e di nuovo la pietra si fece torbida e minacciosa.

Sennar non perse tempo. Gettò a terra il medaglione e preparò nuove foglie. Quando ebbe riavvolto il talismano si rimise in marcia.


Nel giro di un giorno e mezzo raggiunse Laia, il villaggio dov’era nata sua madre e che lui non aveva mai visto. Ai suoi occhi si presentò un borgo che gli ricordò il paese in cui aveva trascorso i primi anni della sua vita: piccolo e raccolto, impregnato dell’odore pungente della salsedine. In giro non c’era un’anima e le finestre delle case erano sbarrate.

Il paese si affacciava su una delle affascinanti stranezze di quella Terra: il Piccolo Mare. In corrispondenza di uno dei due grandi golfi che costeggiavano la penisola centrale, il golfo di Barahar, per una rientranza della costa le acque si insinuavano nell’entroterra e si allargavano a formare un piccolo mare interno. Sembrava un vasto lago salato e profumato d’oceano.

Il mago vi giunse di pomeriggio, sotto un cielo grigio che si rispecchiava nelle acque argentate del Piccolo Mare. Minacciava tempesta e si era alzato un forte vento.

Per quella sera Sennar trovò rifugio in una piccola locanda, un edificio in legno e pietra che si protendeva nel mare. Il posto era misero e dimesso, nient’altro che un salone tondo con qualche rozza panca, ma la birra era buona e a buon mercato. Mentre si godeva la vista notturna del Piccolo Mare, con la neve che scendeva lenta sullo specchio d’acqua, Sennar rifletté sulla direzione da prendere. Nihal aveva detto a est, quindi forse il santuario si trovava dall’altra parte della penisola. Doveva raggiungere al più presto la costa e il modo più diretto era recarsi a Barahar, il porto più grande della Terra del Mare. Una volta lì, avrebbe costeggiato il litorale e iniziato a sperare.

Il giorno seguente si alzò di buon mattino e incontrò la locandiera, un donnone rubicondo, con la pelle lucida per il sudore e il seno che erompeva dalla camicia, intenta a lucidare bicchieri con una tale foga che Sennar si domandò come fosse possibile che non si infrangessero. Le chiese subito se conosceva un luogo chiamato "guglie".

«Mi pare di aver sentito parlare di qualcosa del genere, una specie di scoglio» disse lei pensierosa.

«Dove?»

La locandiera scosse la testa. «Non ne ho idea, mi spiace. Non credo che sia da queste parti.»

Sennar riprese il viaggio. Le ultime case di Laia sparirono alle spalle del mago e davanti a lui si dispiegò la vasta pianura innevata che univa il Piccolo Mare alla costa.

Per tre notti Sennar dormì sotto le stelle. Il mattino del quarto giorno di marcia vide la città di Barahar stagliarsi in lontananza, sullo sfondo blu intenso del mare.

Dovette deviare per raggiungere il ponte che varcava lo stretto, poi finalmente arrivò sotto le porte di Barahar. Erano imponenti, scolpite in un unico enorme blocco di marmo. Quando Sennar vi passò sotto, lacero e affamato, si sentì piccolo e smarrito come mai gli era capitato prima.

Della Terra del Mare il mago conosceva solo i piccoli villaggi, sospesi tra la terra e l’acqua, sferzati dalle onde d’inverno e sostentati dalla pesca nella bella stagione. Quella città invece era grande e impersonale, e il profumo dell’oceano era coperto da mille altri odori. Sennar riconobbe l’architettura tipica delle case, capanne in muratura con il tetto di paglia, accanto ad altri edifici in pietra, ma il resto gli era estraneo: vie larghe e ordinate al posto del consueto dedalo di vicoli; ampie piazze squadrate invece dei piccoli sagrati tondi dei villaggi. Soprattutto gli era estranea la gente, che non era cordiale e alla buona, ma fredda e indaffarata.

Ora che era sulla costa, Sennar non sapeva che fare. Il santuario poteva anche trovarsi lì, le fatidiche guglie forse si ergevano da qualche parte nei dintorni, ma come poteva saperlo?

Per buona parte della mattinata si aggirò per le vie della città, in cerca di qualcuno che sapesse indicargli la direzione giusta, ma nessuno gli fu d’aiuto. Soltanto un vecchio mercante gli disse che ne aveva sentito parlare e che dovevano trovarsi verso est, forse a Lome.

Quando entrò nell’ultima locanda, Sennar aveva bisogno di mangiare qualcosa, ma non aveva soldi.

Il locandiere, un uomo basso, stempiato, con la pancia prominente di chi alza il gomito, si impietosì. «Se passi più tardi ti farò trovare qualche avanzo» disse.

Sennar lo ringraziò.

«Non ti prometto nulla, però» aggiunse subito l’uomo. «Sono giorni particolari, questi, con il viavai continuo dei soldati.»

«Come mai? C’è stato un attacco?»

«No, niente del genere» rispose il locandiere. «È che sono arrivati strani soldati, le loro navi hanno attraccato ieri sera tardi al porto. Dicono che vengono dal Mondo Sommerso, ma nessuno capisce chi siano.»

«Al porto, avete detto? Come faccio ad arrivarci?» chiese Sennar tutto d’un fiato.

L’uomo lo guardò con sospetto. «Quando esci, gira a destra, poi sempre diritto...» Non ebbe il tempo di finire il discorso che il ragazzo era già scomparso.


Erano arrivate le truppe, le truppe tanto attese. Mentre si dirigeva a passo spedito verso il porto, Sennar ripensò a tutte le persone che aveva conosciuto a Zalenia: il conte Varen, il re Nereo... e Ondine. Voleva vedere quei soldati che venivano ad aiutarli e che erano arrivati fin lì anche grazie a lui. Seguì le indicazioni del locandiere e presto iniziò a sentire lo sciabordio del mare.

Vide subito le navi. Erano una cinquantina, lunghe e maestose, dell’eleganza limpida e trasparente che era il segno distintivo di Zalenia. Erano disposte in fila nel porto, con le vele ammainate. I soldati avevano armature molto leggere, lunghe lance e spade sottili che pendevano al fianco. Gli ricordarono le guardie che lo avevano maltrattato a Zalenia, ma al vederli Sennar provò comunque nostalgia del Mondo Sommerso.

Mentre il mago si godeva lo spettacolo della flotta all’ancora, qualcuno lo notò da una delle navi, scese a terra e si avvicinò a lui. «Sapevo che prima o poi ci saremmo incontrati.»

Sennar si voltò di scatto, conosceva quella voce. Quando vide il conte Varen accanto a sé, gli parve di aver ritrovato un vecchio amico. Il conte era ancora un uomo imponente e robusto, i pochi capelli raccolti in un codino come si usava fra la sua gente, ma la sua pelle candida s’era colorata d’ambra; doveva avere abbandonato i fondali di Zalenia già da un po’. Sennar dimenticò la riverenza e lo abbracciò, ricambiato da una stretta vigorosa.

Il conte lo invitò a seguirlo in una cabina della nave, avvolta in una penombra che ricordava l’azzurro che imperava a Zalenia. Varen si mosse a suo agio in quella luce fioca e prese una bottiglia dal contenuto violaceo. Squalo, si disse Sennar. Era un anno che non ne beveva.

Il conte posò la bottiglia sul tavolo e, presi due bicchieri, li riempì. «Me lo ha portato ieri sera un mio soldato, ha detto che è la bevanda di questa Terra.»

Sennar sorrise. «Vi ha detto bene.»

Il conte vuotò il suo bicchiere in un sorso solo. Sennar cercò di imitarlo, ma dovette trattenersi dal tossire quando l’alcol gli aggredì la gola.

«Non credevo che fosse tutto così luminoso, quassù» disse il conte. «Non so se riuscirò ad abituarmi.»

«Non temete» lo tranquillizzò Sennar, mentre si riempiva nuovamente il bicchiere «alla fine io mi ero abituato alla luce azzurra della vostra Terra. Sarà solo questione di tempo.»

Lo sguardo paterno del conte si posò su di lui. «Non sapevo che il Consiglio fosse riunito in questa Terra» disse Varen.

Sennar sospirò. «In effetti quest’anno doveva riunirsi nella Terra dell’Acqua, ma come avrete saputo è caduta quasi totalmente in mano nemica e il Consiglio è dovuto fuggire.»

«Mi hanno parlato dell’esercito dei morti» disse cupo Varen. «Molti dei miei uomini sono preoccupati.» Si versò anch’egli un secondo bicchiere, poi lo guardò. «Come mai non sei con gli altri consiglieri?»

«Non sono più consigliere.»

«Ti hanno cacciato?»

Sennar sorrise. «No, sono andato via io.»

Varen lo fissò con un’espressione interrogativa. Sennar si sottrasse al suo sguardo e volse gli occhi alla luce che filtrava attraverso le assi di legno che coprivano gli oblò. «Devo compiere una nuova missione» spiegò, e gli sembrò che l’amuleto pesasse di più nella sua tasca. «Per farlo, ho dovuto abbandonare momentaneamente il mio posto nella Terra del Vento.»

«Momentaneamente» ripeté il conte sollevato. «Dunque, al tuo ritorno sarai di nuovo consigliere.»

«Sì» mentì Sennar. «E voi, come mai siete qui?»

Il conte sorrise. «Dopo la tua partenza sono tornato a fare il mio dovere a Sakana, e per un po’ tutto è andato tranquillo. Però sentivo qualcosa in me, qualcosa che non sapevo definire... D’un tratto la mia vita mi sembrava squallida e vuota. Mi annoiavo. Guardavo al cielo, verso il pelo dell’acqua, e pensavo che lassù, fra le nuvole che non avevo mai visto, c’era qualcuno che combatteva. Alla fine ho capito che la vita e la lotta che cercavo erano lì. Così ho convinto Sua Altezza a scegliermi come capo delle truppe» concluse.

Sennar fissava il bicchiere e ne sfiorava il bordo con un dito. Non seppe trattenersi. «E Ondine?» domandò.

«Quando sei andato via, ho fatto come mi avevi chiesto: l’ho aggregata al mio seguito e l’ho condotta a Sakana.»

«E... come stava?»

«Era molto triste.»

Sennar abbassò lo sguardo.

«Le ho proposto di entrare al mio servizio a palazzo. Era meglio che prendersi cura dei carcerati. Da principio ha declinato l’offerta, non voleva lasciare soli i genitori, ma alla fine l’ho convinta.»

Sennar continuò a seguire il bordo del bicchiere con il dito. Alla fine bevve lo Squalo in un unico sorso.

«Non ho mai capito perché l’hai lasciata a Zalenia» riprese il conte. «So che le volevi bene e che lei ricambiava i tuoi sentimenti.»

Il pensiero di Ondine riscaldò il cuore di Sennar; avrebbe potuto rivedere il suo volto di bambina, i suoi morbidi capelli, le sue labbra rosa. Però sapeva che sarebbe servito solo a ferirla ancora di più.

«Mi ha chiesto di farti una domanda, se ti avessi visto» aggiunse il conte. Sennar levò gli occhi dal tavolo. «Voleva che ti domandassi se hai mantenuto la promessa e che ti riferissi che, se non l’hai fatto, troverà prima o poi il modo di vendicarsi.»

Il mago sorrise. «A essere sinceri, non l’ho davvero mantenuta, ma questo viaggio è parte di quella promessa. Voi, però, quando la rivedrete, ditele che sì, l’ho mantenuta. Che adesso sono felice.»

Il conte sorrise, poi tornò serio. «Sei sporco e affamato. Dimmi la verità, Sennar, che cosa ti è accaduto? Qual è la tua missione?»

Il mago non seppe che cosa rispondere. Il conte era un uomo degno di fiducia, ma la missione di Sennar era tanto delicata che non poteva rivelarla neppure a lui.

«Non posso dirvelo, mi spiace; il fine di questo viaggio deve restare segreto.»

«Non te lo chiedo per curiosità» spiegò il conte. «Sono preoccupato per te. Vorrei aiutarti, se posso.»

«Sì, forse potete aiutarmi...»

«Dimmi come» lo incalzò Varen.

«Devo recarmi in un luogo lungo la costa. Finora mi sono mosso a piedi, attraverso la Terra dell’Acqua. Una cavalcatura mi sarebbe molto utile.»

Il conte si appoggiò allo schienale della sedia, pensieroso. «Oggi stesso devo incontrarmi con il generale delle truppe della Terra del Mare, Falere. Se verrai con me, gli chiederò se è possibile che un Cavaliere di Drago ti accompagni.»

Sbalordito, Sennar sbatté il bicchiere sul tavolo. «Un Cavaliere di Drago? Ma i Cavalieri sono impegnati nella guerra! Insomma... io volevo soltanto un cavallo... non credo...»

Il conte si sporse verso di lui. «Quant’è importante la tua missione ai fini di questa guerra? Perché riguarda questa guerra, vero?»

«È di vitale importanza» disse Sennar.

Il conte tornò ad accomodarsi sullo schienale. «Allora un Cavaliere che ti scorti è poca cosa» disse. Quindi ingollò l’ultimo sorso di Squalo.


Sennar venne rifocillato e nel pomeriggio andò con il conte a incontrare Falere.

Il generale arrivò su uno splendido drago e, quando il mago vide calare dal cielo quell’animale, trattenne il fiato per la commozione.

Era un Drago Azzurro, e Sennar non ne vedeva dalla sua infanzia. Era più piccolo dei draghi usati di solito dall’Ordine e somigliava a un serpente. Aveva un lungo corpo affusolato, zampe piccole e agili ed enormi ali membranose ripiegate lungo i fianchi. Il corpo era d’un azzurro chiaro lucente, le ali d’un blu cupo. Sennar era cresciuto tra quei draghi, suo padre era scudiero di un Cavaliere di Drago Azzurro, e restò incantato a guardarlo, perso in ricordi lontani.

Falere era un generale piuttosto giovane, un biondino dall’aria anonima e con il volto coperto di efelidi. Una lunga cicatrice gli attraversava la parte sinistra del volto. Fece una riverenza a entrambi, ma guardò Sennar con sospetto.

«Costui è il membro della Terra del Vento nel Consiglio dei Maghi, Sennar» si affrettò a spiegare il conte.

Sennar non fece in tempo a interromperlo. Forse quel generale sapeva già che ora la responsabile della Terra del Vento era Soana. Notò con preoccupazione che Falere aveva assunto un’espressione stupita.

«Ah, siete voi, perdonatemi» rispose invece il generale, poi gli fece una nuova riverenza. Evidentemente, lo conosceva di nome e non aveva saputo le ultime notizie.

Si diressero in una delle caserme di Barahar, una costruzione tozza e squadrata, come tutti gli edifici dell’Ordine dei Cavalieri di Drago. Entrarono in una vasta stanza disadorna, illuminata da una sola finestrella, e discussero di strategie, decisero quanti uomini mandare e dove, e altro ancora. Sennar diede informazioni utili, ma cercò di tenersi sul vago e, non appena la conversazione glielo permise, parlò con chiarezza. «Nella Terra del Vento ora c’è una persona che fa le mie veci. Io sono in viaggio per... per...» Sul più bello, non gli veniva in mente una buona scusa.

«È in missione per conto del Consiglio» intervenne il conte.

«Capisco» si limitò a osservare Falere, poi riprese a discutere di uomini e armamenti.

Ci vollero altre due ore perché il conte trovasse il momento giusto per avanzare la sua richiesta. «Il mio amico consigliere è sprovvisto di una cavalcatura. La questione è della massima urgenza, quindi mi domandavo se fosse possibile chiedere a un Cavaliere di accompagnarlo.»

Questa volta Falere non rimase impassibile e guardò Varen con un’espressione sconcertata. «Signore, non so come vadano le cose giù da voi, ma qui la guerra sta volgendo al peggio e abbiamo bisogno di tutti gli uomini disponibili.»

«Basterà anche un semplice cavallo» intervenne Sennar, ma il conte lo zittì con un cenno.

«Come vi ho detto, è in missione per il Consiglio. Per questo credevo che la richiesta fosse lecita.»

Sennar iniziava a sentirsi a disagio. Varen, invece, era calmo e con noncuranza infilava una bugia dopo l’altra.

«E perché costui non ha con sé una pergamena o un documento che lo autorizzi?»

«La cosa è stata decisa in fretta» disse il conte.

Sennar desiderò trovarsi altrove. Lo sguardo di Falere si posò scettico su di lui e al mago parve di essere in trappola. Inoltre, l’amuleto doveva avere ricominciato a corrodere le foglie, perché fu assalito da un lieve malore. «In effetti... è stata una decisione improvvisa. Il drago mi sarebbe utile, ma se proprio non è possibile...» disse allora, decidendo di reggere il gioco al conte.

Il volto di Falere si illuminò. «E sia. Ho sentito parlare molto bene di voi. Se non sbaglio, siete l’artefice di questa alleanza.»

«Proprio così» confermò Sennar. Un velo di sudore lo copriva e sentiva il fiato mancargli.

Falere prese una pergamena e iniziò a scriverci sopra. «Il Cavaliere di Drago Aymar sarà a vostra disposizione per tre giorni, di più non posso concedervene. Lo troverete domattina al porto.» Poi gli consegnò la pergamena.

Sennar capì che doveva andare immediatamente a rinnovare l’incantesimo, perché il malessere si faceva sempre più acuto; ora avvertiva un forte senso di oppressione al petto. «Vi ringrazio infinitamente» disse, mentre prendeva la pergamena «ma ora ho una faccenda urgente da sbrigare. Vogliate scusarmi» concluse, e si dileguò in fretta e furia seguito dagli sguardi allibiti del conte e di Falere.

Corse fuori dalla sala e si fermò nell’angolo di un vicolo. Quando tirò fuori l’amuleto nella penombra sentì che le forze lo abbandonavano, mentre un dolore acuto gli attanagliava il petto. Per fortuna aveva con sé altre foglie. Col fiato corto, vergò nuove rune e sigillò il talismano. Non appena anche l’ultimo spiraglio della pietra fu nascosto, Sennar sentì l’aria tornare a gonfiargli i polmoni e riprese fiato.

Quando alzò gli occhi, vide il conte innanzi a lui.

Varen si inginocchiò e lo fissò preoccupato. «Sei pallido come un cencio... Vuoi dirmi che sta accadendo?»

«Nulla» disse Sennar, sforzandosi di sorridere. «Nulla.» Poi si fece serio. «Se davvero mi siete amico, vi prego, non indagate oltre. Dimenticate qualsiasi cosa abbiate visto in questo vicolo e, quando sarò partito, scordatevi di avermi incontrato.»

«Devi...»

«Ve ne prego» insistette Sennar.

«Se è per la buona riuscita della tua impresa...»

«È così» concluse il mago. Appoggiò la testa al muro dietro di lui e guardò il conte con gratitudine.


Per quella notte Sennar dormì in una cabina che Varen gli aveva messo a disposizione sulla sua nave e il giorno seguente partì molto presto. Si congedò in fretta dal conte, senza riuscire a sostenere il suo sguardo preoccupato.

«Abbi cura di te e non rischiare più del dovuto» gli disse Varen.

Sennar si sforzò di sorridere. «Quando questa storia sarà finita, ci ritroveremo e festeggeremo.»

Sulla banchina del porto trovò il Cavaliere ad attenderlo. Aveva un drago piuttosto piccolo, un Drago Azzurro, ed egli stesso pareva giovane e inesperto. Non appena vide arrivare Sennar, fece una confusa riverenza. «Il Cavaliere di Drago Aymar ai vostri ordini» si presentò.

Se Falere gli era sembrato molto giovane, Aymar era proprio un ragazzino. Aveva capelli castani riccioluti che gli cadevano sulle spalle e un corpo da adolescente che dava l’impressione di essere cresciuto troppo in fretta e senza preavviso, tanto da rendere impacciato il suo proprietario. Un bambino nel fisico di un ragazzo. Il mago lo scrutò con sospetto.

«Dunque, abbiamo tre giorni per percorrere tutta la costa della Terra del Mare» esordì Sennar. Il giovane Cavaliere strabuzzò gli occhi. «Per questo dovremo viaggiare a ogni ora del giorno e della notte, senza sosta.»

«Ma... il mio drago non può sostenere un volo troppo lungo...» ribatté Aymar.

Sennar lo interruppe con un gesto della mano. «Lo so, conosco i Draghi Azzurri. Il fatto è che ti avrò a disposizione per tre soli giorni, e il tempo è determinante in questa missione. Ti prego quindi di fare del tuo meglio.»

L’altro annuì, poco convinto.

Sennar stava per salire sul drago, quando Aymar lo fermò. «Signore, il mio drago non vi terrà in groppa se non glielo chiedo io.»

Sennar sorrise. «Sono un mago, vedrai che mi terrà» disse, e infatti, quando montò su con un balzo, il drago non diede alcun segno di irritazione. Quindi si voltò verso il giovane, fermo a terra a guardarlo perplesso. «Prima partiamo, prima arriveremo» lo esortò.

Allora il Cavaliere si decise e montò a sua volta sul drago. Fu un’operazione insolitamente complessa e Aymar la coronò con successo solo al secondo tentativo. Una volta in groppa, sembrò impacciato, teneva la schiena innaturalmente dritta. I dubbi di Sennar aumentarono.

«Tutto a posto?» provò a chiedere.

«Certo» balbettò il ragazzo. Diede un deciso strattone alle briglie e l’unico risultato che ottenne fu un brontolio scocciato del drago. Aymar strattonò ancora le briglie, finché il drago non ruggì inferocito. «Non mi era mai capitato... è che sono Cavaliere da poco...» provò a giustificarsi.

Sì, come no? «Permetti?» fece Sennar.

Aymar arrossì fino alla radice dei capelli. «Certo.»

Il mago si piegò sul collo del drago e gli mormorò all’orecchio qualche parola. «Prova ora, ma con delicatezza» disse poi al ragazzo.

Aymar tirò le briglie e stavolta riuscirono finalmente a partire.

«Ci vogliono pazienza e polso, ma anche rispetto» spiegò Sennar.

Aymar incassò. «Vi ringrazio infinitamente» mormorò.

«Un’ultima cosa...» aggiunse Sennar. «Dammi pure del "tu".»

«Come volete» rispose il Cavaliere.


Sennar fu di parola. Esigette che volassero più veloci possibile e quando il sole andò a morire nel mare, e il giorno cedette il passo alla notte, volle proseguire. Fu un viaggio estenuante, una corsa contro il tempo. Solo a notte inoltrata si fermarono, quando erano ormai nel deserto centrale.

Dovettero accamparsi sotto le stelle e il freddo era pungente. Non appena fu sicuro di non essere visto, Sennar controllò l’amuleto e tirò un sospiro di sollievo. Le foglie erano ancora intatte.

Il mago si svegliò che il sole non si era ancora levato, ma si limitava a imbiancare pallidamente l’orizzonte. Aymar dormiva accanto a lui, la testa appoggiata al lungo collo del drago.

Sennar lo scosse, ma quel primo invito non ebbe effetto. Il drago aprì gli occhi, il Cavaliere invece restò immobile, con un’espressione di sonno beato dipinta sul volto.

Ma che razza di Cavaliere è, uno che non si sveglia al tocco di un estraneo?

Sennar insistette e fu molto meno delicato. Il ragazzo si svegliò di soprassalto e la sua mano corse d’istinto alla spada, senza per altro trovarla.

«Calma, sono io» disse il mago spazientito.

Aymar si stropicciò gli occhi, poi si guardò attorno. «Non è ancora l’alba...»

Sennar levò gli occhi al cielo. «Te l’ho già spiegato, puoi stare con me solo tre giorni e gradirei che sfruttassimo al meglio questo tempo.»

Il ragazzo avvampò. «Avete ragione, perdonatemi.» Iniziò a prepararsi, ma era evidente che cascava dal sonno.

Per Nihal hanno fatto mille storie; un incapace come questo, invece, è diventato Cavaliere di Drago senza problemi.

Riuscirono infine a partire. Il mago calcolò che era in viaggio già da tredici giorni e ancora non era giunto alla meta. Pensò a Nihal; ormai doveva essersi ripresa e probabilmente era impaziente di rimettersi in marcia. Sennar non avrebbe voluto essere nei panni di Laio, in quei giorni.

Viaggiarono più rapidi che poterono, miracolosamente senza intoppi, e giunsero a Lome a metà mattina. La città si affacciava sulla mezzaluna del golfo di Lamar ed era uno dei porti principali della Terra del Mare. La caserma verso cui erano diretti si trovava fuori dal caos del centro, sul mare.

«È lì che ho studiato» disse Aymar mentre si avvicinavano.

«Non a Makrat?» obiettò Sennar.

Aymar sorrise. «Anche se facciamo parte dell’Ordine, noi Cavalieri di Drago Azzurro passiamo buona parte del nostro addestramento nella Terra del Mare, come vuole la tradizione.»

La caserma in effetti era diversa da quelle tipiche dell’Ordine, la sua forma slanciata ricordava gli antichi palazzi della Terra del Mare. Molti anni prima, i Cavalieri di Drago Azzurro si erano separati dai Cavalieri di Drago e avevano costituito un piccolo corpo a sé stante. Solo con la pace di Nammen si erano aggregati all’Ordine.

Atterrarono in un’arena che si apriva al centro della costruzione e il drago si accasciò al suolo non appena toccarono terra. Sennar saltò giù e andò subito in giro per la città, in cerca di notizie.

Vagò di locanda in locanda e chiese informazioni a chiunque, ma la sera dovette ritirarsi abbacchiato, perché nessuno gli aveva saputo dire nulla.

Rientrò alla caserma e consumò il suo pasto in silenzio, nella stessa sala in cui veniva servito il rancio ai Cavalieri. Ancora un giorno, un giorno soltanto e poi avrebbe dovuto arrangiarsi da solo. Forse, pensò scoraggiato, aveva già superato il luogo esatto senza accorgersene. Non aveva controllato tutta la costa settentrionale della penisola, e il santuario poteva essere lì. La verità era che stava cercando un ago in un pagliaio.

«Sono alte e sembrano splendere alla luce della luna.»

Aveva puntato troppo in alto. E aveva fallito.

«Da Lamar si vedono in lontananza, stanno in mezzo al mare.»

Non era riuscito a essere utile a Nihal. Non aveva saputo guarirla e ora si era cacciato in quella situazione senza uscita.

«Il vento ulula tra le loro feritoie e il mare innalza spruzzi altissimi.»

Non gli restava che battere palmo a palmo tutta la costa, in attesa di Nihal.

«Da lontano, di notte, sembrano due ombre che si stagliano nell’oscurità, come due torri.»

Sennar si voltò di scatto. Gli erano giunti solo frammenti della discussione dei due soldati al suo fianco, non sapeva nemmeno di cosa stessero conversando, ma quelle ultime parole catturarono la sua attenzione.

«Cosa si alza come una torre?» chiese. Quando Nihal gli aveva parlato del santuario, aveva usato quasi le stesse parole di quel soldato.

L’altro lo guardò un po’ stupito. «I due grandi scogli al largo del golfo di Lamar, le Meridiane del Mare, le Arshet.»

Forse non c’entravano nulla con la sua ricerca... ma forse sì. «Sto cercando un posto simile a quello che mi hai descritto, o almeno credo... Insomma, queste Arshet possono avere qualcosa a che fare con delle "guglie"?» chiese Sennar.

Il soldato sorrise. «Mia nonna dice che arshet è un’antica parola elfica, che significa appunto "guglia". In effetti, le Arshet sono due immensi scogli, alti e appuntiti, e sembrano le guglie di qualche strana costruzione.»

«Grazie, grazie infinite!» urlò Sennar al soldato, mentre già correva dal suo Cavaliere.


5 Sarephen o dell’odio degli uomini


Nihal recuperava le forze rapidamente. Non avrebbe mai voluto ammetterlo, ma aveva davvero bisogno di riposarsi. La mezzelfo sentiva il corpo rigenerarsi, i muscoli riacquistare vigore. Era da quando era stata ferita da Dola che non si prendeva una vera pausa e ora capiva quanto le fosse mancata.

Di giorno era Laio ad accudirla, con i suoi impiastri caldi e puzzolenti; di notte c’era anche Megisto, che le preparava ottime zuppe. Ma Nihal non poteva godere del tutto di quel riposo. Da quando Sennar era partito, sentiva un’impercettibile inquietudine in fondo allo stomaco. Le parole del mago, quando le aveva detto addio, erano state sicure e ottimiste, ma c’era qualcosa nel tono della sua voce che non la convinceva. Il talismano era un pericolo per lui.

Una sera, Nihal notò che Megisto era strano. Laio si era già coricato e lei era rimasta a fissare le fiamme che si spegnevano nella nicchia del focolare.

Il vecchio era taciturno e rimestava le braci con un bastoncino. Nihal si sentì inquieta. Sapeva che Megisto aveva il dono della preveggenza. Di tanto in tanto, senza preavviso, il futuro si schiudeva davanti a lui e il vecchio conosceva, per un istante e in maniera nebulosa, il corso delle cose. La prima volta che si erano incontrati, Megisto aveva previsto, a modo suo, il ritorno di Soana.

«Che cos’hai? Perché sei così silenzioso?»

Il vecchio si riscosse. Gli occhi che volse verso Nihal erano cupi. La mezzelfo si spaventò.

«Perché mi guardi così? Che cosa è successo?»

Il vecchio tacque ancora e continuò a rimestare le braci. Ne usciva un fumo indolente. Nel focolare, ormai, c’era solo cenere.

«Cosa è successo? Dimmelo!»

Nihal lo scosse, ma Megisto non si scompose. Con delicatezza si sciolse dalla sua stretta e si voltò verso di lei. «Prima di partire, Sennar mi ha chiesto di avere cura di te e di non farti preoccupare per lui.»

Lei iniziò a sentire qualcosa che le saliva alla gola, un oscuro presagio che lentamente prendeva consistenza.

«Credo di non poterlo più fare» aggiunse mesto il vecchio.

«Che cos’è che Sennar non mi ha detto?»

«Oggi, quando mi sono svegliato, le porte del tempo si sono schiuse e ho visto ciò che gli accadrà. Non esiste alcuna magia che possa limitare i poteri del talismano. La forza dell’unica pietra che vi è racchiusa sta già corrodendo Sennar. Quando arriverà nel santuario sarà stanco e provato. Allora morirà.»

Quella profezia cadde nel silenzio come un masso.

«Quando?» chiese Nihal con la voce strozzata.

«Non so dirlo. La visione è sempre confusa, lo sai... Presto, però, a giorni.»

«Dov’è ora?»

«Non so dove si trovi, ma so che accadrà in un ampio golfo, il golfo di Lamar. Al centro si innalzano due grossi scogli. Lì.»

Nihal prese la spada e iniziò a raccogliere le sue cose. Scosse Laio, che non dava segni di volersi svegliare, e si voltò di nuovo verso Megisto. «Perché non mi hai detto che mi aveva mentito?» chiese con rabbia.

«Sai per quale ragione Sennar è venuto con te. Ho voluto assecondare il suo desiderio. L’ho fatto finché ho potuto.»

Nihal e Laio balzarono su Oarf appena furono pronti, quando l’alba aveva iniziato da poco a rischiarare il cielo.

«Grazie» mormorò la mezzelfo al vecchio, prima di alzarsi in volo.

Ma Megisto era già tornato a essere roccia.


Aymar dovette usare tutta la sua capacità di persuasione, che a dire il vero era assai limitata, e tutto il suo buon senso per convincere Sennar ad attendere l’alba per partire.

Appena il sole iniziò a colorare l’oriente, il mago si fiondò nella stanza del Cavaliere e lo buttò giù dal letto. «È ora di andare» disse.

Lo trascinò ancora mezzo addormentato fino al drago e spiccarono il volo.

Sennar sperava che Aymar lo conducesse su una delle Arshet, ma il Cavaliere gli disse che non era possibile. Il drago lì non avrebbe potuto atterrare: non c’era uno spiazzo dove posarsi e gli scogli erano affilati e taglienti. Avrebbe dovuto accontentarsi di arrivare con il drago fino a Lamar; da lì avrebbe preso una barca. Per fortuna il conte gli aveva dato qualche soldo.

Giunsero a Lamar quando il sole era già calato da un paio d’ore. Sennar balzò giù dal drago, si congedò da Aymar quasi senza ringraziarlo e scappò via, diretto al porto.

La città era vasta, un dedalo di vicoli che sfociavano in piccole piazze, e Sennar per poco non si perse. Quando finalmente arrivò alla banchina del porto, lo accolse una selva di navi alla rada. La luna era alta, a quell’ora sarebbe stato difficile trovare una barca. Al quinto imbarcadero, però, il mago incontrò un’anima pia che volle starlo a sentire.

«Una barca? A quest’ora?» chiese il vecchietto a cui si era rivolto. Era curvo, per il peso degli anni, e completamente calvo. «Per fare cosa?» aggiunse, mentre avvolgeva una gomena con le mani callose e scheletriche.

«Devo andare alle Arshet» spiegò Sennar frettoloso. «Di soldi ne ho» aggiunse, mostrando il denaro.

«Non è questo il problema» replicò il vecchio, che diede comunque una fugace occhiata al denaro. «Navigare di notte è complicato. La sai governare una barca?»

«Non sarà poi tanto difficile...» commentò Sennar e si sentì rispondere con una sonora risata.

Quando ebbe smesso di ridere, il vecchio lo guardò di nuovo. «Più tardi c’è un gruppo di pescatori che esce in mare. Meglio se ti unisci a loro.»

«Dove li trovo?»

«È ancora presto» disse il vecchio. «Non so di dove sei, ma dalle nostre parti a quest’ora si cena.»

Come se avessi tempo per mangiare...

I pensieri di Sennar furono smentiti dal suo stomaco, che si mise a brontolare. Il mago arrossì.

Il vecchio lo guardò divertito. «Senti, ragazzino, mi sembri piuttosto male in arnese e così combinato non andrai lontano. Perché non ceni con me? Dopo ti porterò da un mio amico pescatore.»

«Non so se i soldi basteranno per la barca e la cena...»

Il vecchio cambiò espressione. «Ma da dove vieni? Qui nella Terra del Mare siamo ospitali, quindi non uscirtene con discorsi idioti.» Poi spalancò la porta e lo fece entrare nella sua capanna, affacciata sul molo.

Gli offrì una zuppa di pesce, la stessa che anche sua madre gli cucinava spesso. Il profumo e il sapore di quel piatto riportarono alla mente di Sennar molti ricordi e lo addolorò non avere il tempo per andare al suo villaggio, a trovare la madre.

Poi venne l’ora. Uscirono e mentre camminavano sulla banchina il vecchio fece la domanda che Sennar temeva. «Perché vuoi andare alle Arshet?»

Sennar tacque un istante. Non gli veniva in mente nessuna bugia plausibile. «Cerco una cosa, lì» bofonchiò.

«Ossia?» insistette il vecchio.

Sennar sospirò. «Mi spiace, ma è quasi un segreto... anzi, è un segreto... Non posso dirvelo.»

«Be’, ognuno ha i suoi scheletri nell’armadio» concluse il vecchio con filosofia, e Sennar benedisse fra sé la riservatezza della sua gente.

Raggiunsero una banchina gremita di pescatori. Vi erano ormeggiate alcune barche, ciascuna con una lanterna a poppa che diffondeva un tenue chiarore. Il vecchio si avvicinò a uno dei pescatori, un omone nerboruto e nero quanto la notte, e stettero per un po’ a confabulare. Poi chiamarono Sennar e l’uomo, senza dire una parola, gli fece cenno di salire sulla barca. Il mago obbedì e di lì a breve salparono e presero il largo.

Il mare era calmo, perché il golfo di Lamar era riparato e le onde si infrangevano prima che potessero raggiungere la costa. Sennar guardava l’acqua scorrere placida sotto di lui e la schiena curva dell’uomo che remava.

Fu l’altro a rompere il silenzio. «Conosci la storia di questo golfo? Del perché è tondo, intendo.»

Sennar rispose di no.

L’uomo allora iniziò a spiegare. «Si racconta che in un tempo antico una popolazione felice abitasse su quella montagna e vi avesse costruito la sua bellissima città, tutta d’oro. Quel popolo era benvoluto dagli dèi, che gli avevano donato ricchezza e prosperità. Ben presto, però, la cupidigia s’impadronì dei cuori di quella gente. Non si accontentarono più della loro splendida città e della loro pace. Scesero nella valle e iniziarono a depredare e distruggere le città che incontravano sul loro cammino. Divennero potenti e temuti, mantenevano il loro dominio con il terrore e le armi, e fu questo a tradirli. Gli dèi, non potendo più tollerare quell’indegna condotta, decisero di sprofondare la loro città e di gettarli nella miseria. Fu così che, in una sola notte, abbatterono la loro montagna e la capovolsero. La città fu sommersa e al suo posto restò questo cratere tondo. Gli dèi fecero poi emergere dal mare le Arshet, immense e imponenti, elevate dalla terra fino al cielo. Nessuno è mai riuscito a salirvi, perché le pareti sono formate da gradini di roccia taglienti come lame. Ciò dimostra che non c’è uomo che possa innalzarsi fino agli dèi» concluse soddisfatto il pescatore, fissando Sennar.

«Io non voglio innalzarmi fino agli dèi. Ci vado per un altro motivo» disse il mago, poi tornò a guardare l’acqua nera che avvolgeva la carena della barca.

No, lui non andava alle Arshet per erigersi al di sopra degli dèi, ma sapeva di essere comunque un profanatore, perché le sue mani erano impure e non potevano toccare le pietre. Scosse la testa e decise di non pensarci.

La barca scivolava lenta, mentre la luna splendeva minacciosa in cielo. Sennar vi lesse una specie di monito e sentì un brivido freddo percorrergli la schiena. L’amuleto nella sua tasca emanava un calore sempre più forte. Le foglie avevano iniziato di nuovo a corrodersi e Sennar dovette inspirare profondamente per combattere il senso di oppressione al petto.


Nihal non diede riposo a Oarf; lo costrinse a volare per tutto il giorno, e poi ancora per la notte seguente, senza sosta. I muscoli del drago tremavano per lo sforzo.

«Coraggio, coraggio!» lo supplicava Nihal.

All’alba del giorno successivo si fermarono, ma Nihal non toccò cibo. Durante la notte, quando nonostante i suoi sforzi si era addormentata per qualche istante, aveva intravisto in sogno il volto di Sennar. Era fra quelli degli altri morti. Un viso spento, pallido, con lo stesso sguardo vacuo che aveva avuto Fen. Si era svegliata di soprassalto.

Laio, che mangiava accanto al drago ansimante, cercò di tirarla su. «Non temere, ce la faremo. Il vecchio non ti avrebbe mai parlato in quel modo se non fosse stato sicuro che potevi salvare Sennar. Andrà tutto per il meglio, stai tranquilla.»

Quelle parole, però, non le diedero alcun conforto. C’era una sola persona che potesse rassicurarla, ed era in pericolo di vita.

Si rimisero in viaggio e sorvolarono il Piccolo Mare e il deserto centrale. Quando giunse il tramonto, Nihal e Laio videro il sole immergersi nel mare. Erano in prossimità del golfo di Lamar.


Dopo un’ora di navigazione silenziosa, Sennar poté finalmente scorgere da lontano la sagoma delle Arshet. Erano davvero due enormi ombre nell’oscurità della notte. Erano altissime e anche da quella distanza si distinguevano con chiarezza gli spuntoni aguzzi che ne costellavano le pareti. Il loro profilo risplendeva di strani bagliori argentei, come se le rocce riflettessero la luna. Sennar sentì crescere la paura.

«Sei ancora in tempo a cambiare idea» disse l’uomo.

Sennar restò in silenzio, a contemplare quelle figure che si ingigantivano. «No» esclamò infine. «Quel che devo fare è troppo importante.»

L’uomo scosse la testa. «Io ti lascio a qualche braccio, per il resto te la vedi tu. Quelle non sono semplici rocce, sono idoli sacri agli dèi, nessun piede profano può toccarle. Io non voglio averci nulla a che fare.»

Giunsero in un paio d’ore e, come stabilito, l’uomo si fermò a una certa distanza dalla roccia. Ora che erano più lontani dalla costa, il mare era più agitato e le onde si infrangevano sulla base delle Arshet per poi innalzarsi in muri di spuma. Il vento ululava. Era tutto come aveva detto Nihal.

«Siamo a destinazione. Scendi e fila» ordinò il pescatore.

Sennar si alzò, ma sentì le gambe cedere e la testa girare. Dovette appoggiarsi al fianco dell’imbarcazione per non cadere.

«Tutto bene?» chiese l’uomo.

Sennar annuì. Nella tasca sentiva il peso dell’amuleto e il suo calore. Si fece forza e guardò l’acqua.

Doveva essere gelida. «Grazie del passaggio» disse, ma l’altro non rispose. Gli fece soltanto cenno di andarsene e voltò le spalle al mago e a quelle rocce tenebrose.

Sennar recitò la formula e una tenue passerella luminosa si disegnò sull’acqua. Per fortuna soltanto poche braccia lo separavano dal muro di roccia e le percorse rapido. Vide l’uomo remare a tutta forza per allontanarsi, quindi si ritrovò solo dinanzi ai due colossi. Già il loro aspetto sembrava rifiutare la sua presenza.

Sennar vi girò intorno, ma non riuscì a scorgere un’entrata. Erano due scogli, due blocchi di pietra. Che il santuario fosse sulla vetta?

D’un tratto la passerella cedette, senza preavviso, e Sennar cadde nell’acqua gelida. Evidentemente il potere dell’amuleto era cresciuto, la seconda pietra doveva essere lì.

Il mago pensò che fosse meglio risparmiare le forze per lo scontro con il guardiano e non fece altri incantesimi. Nuotò fino alla base di una delle due Arshet e per poco un’onda non lo sbatté contro la roccia. Si aggrappò con entrambe le braccia alla pietra e riprese fiato.

Quando alzò lo sguardo, notò una fenditura, a tre braccia di altezza. L’ingresso del santuario. Sopra c’era una scritta, che però Sennar non riuscì a leggere.

Iniziò ad arrampicarsi sulla roccia viscida e tagliente. Gli ci vollero parecchi minuti, ma alla fine giunse alla meta. Si issò con un ultimo sforzo e fu davanti all’ingresso. Minacciosa, sull’architrave, troneggiava una scritta: "Sarephen".

Sennar fece mente locale. Sareph, "mare", aveva detto Nihal. Era arrivato. Esitò un istante davanti all’ingresso, mentre cercava di riprendere fiato. Guardò sotto di sé e rabbrividì.

Tra il nero delle rocce appuntite baluginava qualcosa di bianco. Ossa. Ossa di naufraghi, forse, o ossa di chi, prima di lui, aveva tentato la sua stessa impresa blasfema. Per scacciare la paura, Sennar entrò senza indugiare e il buio lo avvolse.


La notte era scura e gelida. Oarf era sfinito. Fu allora che dall’oscurità emerse la sagoma delle Arshet. Immense, sinistre, più nere della notte. Ricordavano in modo inquietante la Rocca.

«Eccoci!» urlò Nihal. «Siamo arrivati!»

Resisti, Sennar, ti prego, resisti!


Spesso, in passato, Sennar si era soffermato a guardare la Rocca e a immaginarne l’interno. Ora che era dentro il santuario, scoprì meravigliato che coincideva con le sue fantasie sulla dimora del Tiranno.

C’era un foro, sulla sommità, tanto in alto da sembrare minuscolo, benché dovesse essere enorme; illuminava l’interno e lasciava intravedere uno spicchio di cielo e la luna. La base era larga e tondeggiante, e al centro si innalzava un pinnacolo di roccia, che si elevava fino a sfiorare il foro. Lungo il pinnacolo si avvolgeva una scala, dai gradini piccoli e malsicuri, scavata nella roccia. Sulle ripide pareti si aprivano strette feritoie, attraverso le quali di tanto in tanto il mare penetrava con spruzzi di candida schiuma.

Sennar rimase per un po’ in contemplazione, senza avere il coraggio di avanzare. Quando si incamminò verso il pinnacolo, il rumore dei suoi passi produsse un’eco spettrale.

Sennar appoggiò il piede sul primo scalino, viscido e stretto, e iniziò a salire. Sembrava non ci fosse nessun guardiano. Si sentivano solo l’urlo del mare, che sbatteva contro gli scogli, e il sibilo straziante del vento. E i passi incerti del mago sulla roccia, il suo respiro sempre più affannoso.

Sennar aveva paura, ma non era quello a rendere malsicuri i suoi passi. Era l’amuleto che scalpitava nella tasca, che cercava di ricongiungersi alla seconda pietra. Più di una volta scivolò e fu sul punto di cadere, ma continuò quella salita che sembrava non avere fine. Quando guardava in basso, il punto da cui era partito pareva a miglia di distanza; quando guardava in alto, la vetta era altrettanto lontana.

La cosa peggiore era che il luogo sembrava deserto, ma non poteva esserlo, Sennar ne era sicuro. Nell’ombra doveva esserci un guardiano, che attendeva che lui fosse sfinito per colpirlo. Il mago sentiva una presenza, la avvertiva, ma non vedeva nulla.


Nihal fece fare a Oarf un giro attorno alle Arshet. Nessuno. Solo il baluginio bianco di ossa e teschi sul nero della roccia e l’urlo del mare agitato.

Cercarono un luogo dove Oarf potesse fermarsi, ma non lo trovarono. A quel punto, Nihal prese una decisione. «Laio, torna a riva con Oarf.»

Lo scudiero la guardò, stupito. «Ma...»

«Niente ma, qui non c’è un posto dove Oarf possa appoggiarsi. Andate a riva e aspettatemi là.»

Nihal non aggiunse altro e sguainò la spada. Fece planare Oarf e con un balzo atterrò davanti a una fenditura che doveva essere l’ingresso. Col cuore in gola, entrò nell’oscurità.


A un tratto Sennar si fermò. «So che ci sei!» urlò. «Vieni fuori!»

Gli rispose solo l’eco, che si rifletté sulle pareti della sala tessendo un coro di voci confuse. Poi, silenzio.

«Vengo per il potere! Per la pietra!» insistette Sennar, ma l’eco coprì le sue parole. In quella confusione di suoni, lui perse la testa. «Dannazione, vieni fuori! Non sono qui per combattere, sono qui per la pietra!»

Le voci continuarono a sovrapporsi e a riecheggiare intorno a lui.

«Esci!» urlò il mago fuori di sé.

Non ebbe nemmeno il tempo di rendersi conto di quel che stava accadendo: un enorme tentacolo lo afferrò per il collo, lo sollevò fino alla luna, fino all’aria gelida, e poi lo gettò di nuovo giù nell’abisso. Sennar avrebbe voluto urlare, era terrorizzato, ma non riuscì a emettere un suono perché la stretta lo soffocava. Fu sbattuto di nuovo sulla scalinata e perse i sensi.

Quando rinvenne, uno strano mostro, con dieci teste e infiniti tentacoli ritorti, si avvolgeva lungo il pinnacolo.

Da dove diavolo è uscito?

Una delle facce si fece incontro a lui e ghignò, mostrando una chiostra di denti lucenti e affilati. Di nuovo, un tentacolo lo afferrò e lo sollevò, questa volta per un piede. Il mago urlò con quanto fiato aveva in gola e sentì l’amuleto scivolare fuori dalla tasca e sprofondare nell’oscurità.

Il mostro continuò a issarlo e Sennar capì che voleva schiantarlo contro il pinnacolo. Provò a recitare una formula, ma nessun potere fluì dalle sue mani. Era in balia del nemico.

È la fine. Questa è davvero la fine.

Poi udì un urlo, e un liquido caldo e vischioso lo coprì da capo a piedi. La stretta si sciolse e Sennar si trovò a precipitare nel vuoto. Quando cadde sulla scala e sbatté contro i gradini, la coscienza l’aveva già abbandonato.


Nihal si ergeva davanti al mostro con la spada in pugno, ansimante. Stette solo un istante a contemplare il nemico, poi si avventò di nuovo su di lui.

Si mosse con agilità, schivando le sferzate dei tentacoli che arrivavano da ogni direzione. Sgusciò come una serpe e si portò fin sotto il corpo della bestia, quindi inflisse il secondo colpo.

Uno dei tentacoli si contorse e cadde nel vuoto. Un liquido maleodorante e caldo sgorgò dal moncherino e l’urlo della bestia sovrastò il ruggito del mare.

Nihal non si fermò. Schivò, parò, approfittò del momento di debolezza della bestia e gli balzò addosso. Un nuovo colpo, poi un altro ancora, e ancora, e a ogni affondo un nuovo grido del mostro, altro sangue.

Il mostro infine perse l’equilibrio e si abbandonò nel vuoto. Nihal lo seguì, cadde con lui. Quando furono a terra, la mezzelfo si rialzò in posizione di combattimento e si preparò a un nuovo balzo. Qualcosa però la fermò.

Sentì un’enorme ondata infrangersi sullo scoglio. Una montagna di schiuma penetrò nel santuario attraverso le fenditure sulle pareti, si innalzò rapida verso il foro sulla sommità, poi scese a precipizio, fragorosa come una cascata, e quando toccò terra assunse la forma di una figura che pareva umana, armata di un tridente. La punta centrale del tridente brillava con intensità.

«Placa la tua furia» tuonò.

Nihal con un urlo si avventò sul guardiano. «Levati di mezzo!»

L’uomo di spuma piantò a terra il tridente, a poca distanza dalla faccia di Nihal. «Non credere di potermi battere» mormorò. La sua voce era così bassa e tonante che la spaventò. «Cosa siete venuti a cercare, tu e il tuo amico?»

Per la mezzelfo tutto era lontano e nebuloso, in quel momento: la missione, il talismano, ogni cosa. Erano rimaste soltanto una furia cieca e l’angoscia per la sorte di Sennar.

«Dunque?»

Nihal cercò di ordinare i suoi pensieri. Poi vide un luccichio in un angolo della sala. Il talismano.

«Siamo... siamo qui per l’amuleto.»

L’essere sorrise beffardo. «Ancora brama di potere, altri due sciocchi...» Rise, una risata crudele. «Perché siete così stolti?» chiese con voce stentorea. «Da secoli veglio su Sarephen, nella solitudine di queste torri che gli dèi innalzarono a monito per voi. Ho visto tanti giungere fino alla bocca di questo santuario: molti erano eletti, e ho concesso loro la pietra, ma molti altri erano impuri, e calcavano questo sacro suolo unicamente per ottenere il potere. I loro cuori ardevano della brama di soggiogare altri cuori, tutto ciò che li animava era il desiderio smodato di regnare, di possedere, di disporre a piacimento della vita altrui. Molti di loro sono morti prima ancora di giungere al mio cospetto, i rimanenti li ho uccisi io stesso. Eppure non temevano la morte; per il potere, per la brama di dominio, erano pronti a pagare ogni prezzo. Come il tuo amico, che pur sapendo di non essere degno di sfiorare Sarephen è giunto fin qui.»

«Non è per questo... non è per il potere.»

L’uomo la contemplò a lungo. «Una mezzelfo» mormorò.

«Sì» urlò Nihal. «Sì! Una mezzelfo! Io posso toccare la pietra! Lasciaci andare, dacci la pietra e permettimi di salvare il mio amico...»

«A cosa ti serve la pietra?»

«Per battere il Tiranno.»

L’uomo sorrise beffardo. «Il Tiranno... un altro omuncolo accecato dal potere.»

«Ho con me il talismano.» Nihal corse verso il brillio, prese in mano l’amuleto e dimostrò che poteva toccarlo. «Vedi? Ho già una pietra con me!» Indicò Ael.

Il guardiano fissò la pietra. «Com’è possibile che Ael sia stata data a te, un essere così colmo d’odio e di furia?»

Nihal non seppe che cosa rispondere. Era vero. Ma la smania a poco a poco svaporava lasciando posto all’angoscia per il destino di Sennar.

«Perché vuoi la pietra? Non per ciò che mi hai detto...»

«No...» mormorò Nihal. «Voglio solo uscire di qui, adesso. Desidero semplicemente abbracciare il mio compagno e sentire che è vivo. Prendere la pietra è l’unico modo per poter andare avanti.»

Il guardiano la osservò, impassibile. Con un colpo del tridente, fece cadere l’amuleto dalle sue mani.

Nihal cadde a terra, come se fosse stata svuotata di ogni forza.

Il guardiano girò il tridente e liberò una pietra dalla punta luccicante. Era di un blu cupo e sembrava racchiudere le profondità dell’oceano. Lui la sollevò e la pietra dapprima brillò alla luce della luna, poi parve assorbirne il riflesso. Quindi il guardiano la depose sul pavimento, innanzi a Nihal.

«Sei appena all’inizio del tuo viaggio, il tuo cuore è confuso e spaventato. Guardiani meno indulgenti di me non ti avrebbero concesso la pietra. Ma non smettere di cercare, mai, o il potere non sarà mai tuo.»

Quindi, com’era venuto, il guardiano si dissolse in mille rivoli di acqua marina e tornò all’oceano dalle fessure dell’Arshet. Anche il mostro si dileguò e Nihal restò sola nell’immensità del santuario, di nuovo silenzioso. Si gettò rapida sulla pietra, la levò in alto e mentre la alloggiava nell’alveo pronunciò la formula rituale. «Rahhavni sektar aleero.» La voce le tremava.

La pietra si collocò salda nel suo alveo. Nihal si alzò di scatto e corse verso Sennar.

Il mago giaceva riverso sugli scalini, la mano appoggiata sulla roccia viscida era fredda e bianca.

Nihal lo girò e iniziò a chiamarlo, ma lui, pallido, non le rispondeva. Lei continuò a chiamarlo, a voce sempre più alta. Poi prese a singhiozzare. «Mi avevi promesso che non saresti morto...» disse tra le lacrime.

Vinta dalla disperazione, non si accorse che lentamente gli occhi di Sennar si aprivano. Quando volse il suo sguardo su di lui, il mago abbozzò un debole sorriso.

«Sei un po’ in ritardo» disse con voce flebile.

6 Gelo

La sera, mentre mangiavano, Nihal fu insolitamente parca di parole. Sennar fu stupito da una simile freddezza nei suoi riguardi, tutto il contrario del calore che aveva dimostrato nel santuario. Non ci mise troppo a immaginare il motivo di quel malumore. Le aveva raccontato una menzogna e presto ne avrebbe pagato il prezzo.

Il giorno seguente si svegliarono all’alba. Il colore roseo del sole che illuminava pigro l’oriente mise Sennar di buonumore. Nihal, però, ruppe subito l’idillio; buttò giù dal letto Laio e intimò a tutti di sbrigarsi, perché si ripartiva.

Il viaggio riprese. Si diressero a sud; sarebbero andati nella Terra del Sole passando per la Foresta Interna.

L’impressione che Sennar aveva avuto la sera dopo il suo ritrovamento fu confermata nei giorni seguenti. Nihal si mostrò fredda e scostante, e quasi non gli rivolse la parola per tutta la durata del tragitto. Di giorno volavano in assoluto silenzio, la sera si accampavano per mangiare e guardavano il fuoco muti come pesci.

Il quarto giorno, Sennar decise di parlare. Quella tensione era insopportabile.

Colse l’occasione del cambio di guardia. Era notte fonda e il turno di Nihal volgeva al termine.

Sennar si era svegliato un po’ prima per prepararsi il discorso da fare. Quando fu l’ora, Nihal si limitò a toccarlo sulla spalla. Sennar si voltò subito verso di lei. «Cosa c’è che non va?» Non appena lo ebbe detto, si diede dello stupido. Era davvero valsa la pena di lambiccarsi il cervello, per poi iniziare la conversazione in quel modo idiota?

«Secondo te?»

Sennar abbassò lo sguardo. «L’ho fatto per te...» Perfetto... Un’altra frase da manuale...

«Non te l’ho mai chiesto.»

«Ho rischiato il meno possibile, te lo giuro. Ho preso tutte le precauzioni... Non sono un incosciente, lo sai.»

«Smettila di mentirmi!» urlò Nihal. «Tutta quella storia sul fatto che esisteva una formula in grado di sigillare il potere dell’amuleto... E hai coinvolto anche Megisto!»

«Che cosa avrei dovuto fare? Stavi male e non volevi fermarti. Non avevo altra scelta.» La pazienza di Sennar iniziava a venir meno.

«Possibile che tu non ti renda conto?» Nihal scattò in piedi. «Hai idea di come mi sarei sentita se tu fossi morto? Ne hai almeno una vaga idea?»

Sennar rimase a bocca aperta; la rabbia che aveva provato poco prima gli era morta in gola.

Nihal si voltò. «Non voglio altri morti sulla coscienza!»

Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Sennar non avrebbe saputo dire che cosa si aspettava da Nihal al suo ritorno. Forse un grazie, ma certo non quelle parole fredde e ostili. «Non temere, lungi da me volerti appesantire la coscienza inutilmente. Credevo di poterti essere utile, ma a quanto pare continui a considerarmi un peso. Puoi stare tranquilla: a differenza di qualcuno che conosco, non ho alcuna fretta di morire.»

Lo schiaffo che Nihal diede a Sennar risuonò nel silenzio del bosco.

Il mago restò al suo posto, stupito, mentre davanti a lui Nihal cercava di trattenere il pianto. Solo allora capì l’enormità di quanto le aveva detto. Ma non ebbe il tempo di scusarsi, perché lei si voltò e si distese nel suo giaciglio.


Il mattino seguente, mentre i suoi compagni di viaggio ancora dormivano, Nihal si apprestò a interrogare il talismano. Dopo la discussione con Sennar, la ragazza aveva trascorso una notte insonne.

Chiuse gli occhi e vide qualcosa di molto luminoso, che risplendeva come mille soli. Doveva essere il santuario. Poi scorse un’alba, il sole che si alzava fra i monti. Le sembrava di contemplare quel panorama da un tetto, un’immensa spianata circondata da alte vette. Un pianoro, dunque. Infine, una direzione: a est. Riaprì gli occhi.

Poco più tardi si rifocillarono in fretta e salirono in groppa a Oarf, diretti all’ultima meta del loro viaggio in territorio amico. Dopo quel santuario, sarebbe arrivata la parte più difficile.


In sei giorni di volo giunsero a Makrat. Laio aveva insistito per fermarsi nella capitale della Terra del Sole e rivedere l’Accademia, dove lui e Nihal si erano conosciuti. L’idea di un letto fresco e pulito nel quale riposarsi, del resto, allettava tutti. Così trovarono una locanda fuori mano e decisero di sostare lì per una notte.

Al calar del sole, Nihal uscì a fare un giro per la città. Si immerse nel caos di Makrat e vide che ben poco era cambiato dai tempi dell’Accademia. Ritrovò il caos, la gente indaffarata, la ressa dei profughi appena fuori dalle porte della città, in una selva di tende ammassate contro le mura. Era questo che Nihal odiava di quel posto, l’opulenza sposata alla miseria più nera, quell’allegria ostentata in modo sfacciato, lo splendore dei gioielli delle donne in giro per le strade. Era un luogo di ignoranza e spocchia, un posto che negava il dolore, quando lei, invece, era sempre stata triste fra quelle mura.

Si avvicinò all’Accademia, ma non andò fin sotto le sue porte; non voleva correre il rischio di incontrare Raven, il Supremo Generale che l’aveva sempre ostacolata. La vista di quella costruzione massiccia, però, non fu insopportabile quanto aveva temuto. Sperò quasi di incrociare Parsel, il suo maestro, colui che per primo aveva creduto in lei, e Malerba, quell’essere deforme con cui aveva tanto in comune.

Alla fine, i piedi la condussero al parapetto dove spesso si rifugiava, quello dal quale la vista della Rocca era più minacciosa. Si sedette e si immerse nei suoi pensieri.

«Ti disturbo?»

Nihal sobbalzò. Quando vide che la persona alle sue spalle era Sennar, assunse subito un atteggiamento sostenuto.

Il mago si sedette e la guardò per un po’, prima di parlare. «Ero sicuro di trovarti qui» disse alla fine.

La mezzelfo non gli rispose e continuò a fissare la sagoma scura della Rocca.

«Scusami per l’altro giorno» aggiunse Sennar. «Ti ho detto una cosa stupida e cattiva. Non la pensavo davvero.»

«Non ti devi scusare, quello che hai detto è vero. Sono stata sciocca e insopportabile da quando è iniziato questo maledetto viaggio. Mi spiace.» Tornò a guardare dal parapetto. «Forse speravo davvero di non portare a termine questa missione, forse per questo non volevo fermarmi. Non è che abbia paura, capisci?» Sennar assentì. «È solo che mi sembra di non avere avuto scelta. E l’idea che questo sia il mio destino mi terrorizza.» Lo guardò negli occhi.

«Io credo che questo sia il tuo destino, in un certo senso» ribatté lui. «Ma penso anche che il tuo destino non si esaurisca in questa missione. È vero, partire non è stata proprio una tua scelta. Però non c’è solo questo viaggio nella tua vita. Quando tutto sarà finito, avrai davanti a te nuove strade. Nessuno potrà obbligarti a scegliere, solo tu saprai cosa fare. Questo viaggio non è che una tappa.»

«Forse hai ragione» disse Nihal. «Ma sento che da questa missione non dipendono soltanto le sorti del Mondo Emerso, c’è qualcos’altro che devo ancora scoprire, e non so neppure dove cercarlo.» Nihal sospirò. «In passato sono sempre venuta qui per ritrovare lo scopo della mia vita, l’odio per il Tiranno.» Indicò la sagoma scura e inquietante della Rocca. «Adesso invece è diverso. Continuo a odiare il Tiranno, certo, ma non so più che cosa devo fare, sento che non è in quell’odio che è racchiuso il fine ultimo. Ma allora, qual è il fine ultimo?» chiese scoraggiata, mentre si voltava a guardare Sennar.

Il mago non le rispose e restarono in silenzio, a osservare la dimora del Tiranno che incombeva su di loro.

«Una cosa però la so» mormorò Nihal dopo qualche istante. «Quello che hai detto in Consiglio è vero. Senza di te non ce la posso fare.»

Sennar le sorrise, la cinse con le braccia e la strinse a sé. Dopo un po’ Nihal si liberò e gli restituì un sorriso. Al buio, presero insieme la via della locanda.


Il mattino seguente Sennar andò in giro per la città a chiedere informazioni circa la loro meta. Tornò per l’ora di pranzo e disse che il pianoro che cercavano era sui Monti della Sershet, al confine con la Terra dei Giorni, verso est. A quanto ne sapeva chi gliene aveva parlato, un vecchio mendicante appostato alle porte della città, non ci andava più nessuno da secoli, perché, a parte la neve, il gelo e il ghiaccio perenne, non c’era nulla.

Nihal pensò che fosse un posto ben strano per collocarvi il santuario del sole. Ora, poi, erano nel pieno dell’inverno, chissà che cos’avrebbero trovato lassù.

«Qual è il problema?» chiese tranquillo Laio. «Oarf si è riposato a sufficienza, ci porterà lui fin lì. Sarà un gioco da ragazzi.» Poi gli occhi dello scudiero si illuminarono. «Sarà la prima volta che metto piede in un santuario.»

«Fossi in te non sarei così contento» ribatté Sennar.


Le cose non si prospettarono facili come sperava Laio e quando, dopo un giorno di viaggio, giunsero alle pendici dei Monti della Sershet, fu chiaro che l’impresa non sarebbe stata una passeggiata.

Innanzi a loro si ergeva una parete di nuda roccia. I monti si alzavano pigri dalla pianura, in dolci pendii erbosi, ma poi la salita si faceva ripida e infine vertiginosa. Le vette erano invisibili, avvolte nelle nubi. Persino Laio, che non era portato al pessimismo, assunse un’espressione scoraggiata di fronte a quella vista.

«A giudicare dalle nuvole sulla cima» commentò Sennar «lassù non dev’esserci bel tempo.»

Nihal guardò preoccupata la parete di roccia. «Oarf non ce la farà. Le sue ali si stancano quando il volo è verticale, e il maltempo non migliora le cose...»

«Non abbiamo scelta» tagliò corto il mago. «O andiamo con Oarf, o passeremo la vita su quei monti.»

Per quella sera si accamparono ai piedi delle montagne e il mattino dopo partirono che il sole si era appena levato.

«Ti devo chiedere di nuovo un grande sforzo, Oarf» disse Nihal al drago. «Ma ti giuro che farò in modo che sia l’ultimo.»

Oarf la guardò fiero con i suoi occhi rossi e si eresse in tutta la sua statura. Nihal sorrise. Quindi montarono in groppa e iniziarono l’ascesa.

Da principio non incontrarono troppe difficoltà. Il drago volava ad ali spiegate, mantenendo un’andatura sostenuta e senza sforzo. Ma il peggio doveva ancora venire.

Per tutta la mattina sorvolarono i pascoli erbosi che costeggiavano i piedi della montagna, ma d’un tratto la massa rocciosa si eresse minacciosa innanzi a loro, e la vera e propria scalata ebbe inizio. Oarf non poteva più volare orizzontalmente, doveva tendere le ali per procedere in diagonale. Dapprima la pendenza fu lieve, poi si fece sempre più ripida. Nihal sentiva i muscoli delle ali del drago tendersi sotto le sue gambe.

«Coraggio, coraggio» gli sussurrava in un orecchio, china sulla testa dell’animale, e Oarf si sforzava ancora di più.

La sera si accamparono ad alta quota e Laio si prese cura di Oarf. Di ora in ora il vento si faceva più gelido e il cielo più minaccioso. Prima ancora che potessero coricarsi, arrivò la neve.

«Perfetto!» commentò Sennar.


Per tre giorni non fecero che salire. Il terzo giorno si accamparono proprio sotto il limitare delle nuvole. Quando guardarono speranzosi verso l’alto, non riuscirono a distinguere nemmeno la parvenza di una cima.

La prima sera Sennar aveva provato ad accendere un fuoco magico perché li riscaldasse, ma quel debole tepore durava poco e cessava appena il mago si addormentava. Così furono costretti a dormire avvolti nei mantelli e rannicchiati sotto le ali di Oarf, per non rischiare di morire assiderati.

Il giorno successivo si addentrarono nelle nuvole, e le cose si misero ancor peggio. Il vento era gelido e la neve impediva loro di vedere e di respirare. Oarf faceva del suo meglio, ma la salita era ardua e la strada che riuscivano a percorrere dall’alba al tramonto era sempre più breve.

«Forse saliremo così per sempre. Forse la cima di queste montagne non esiste e oltre le nuvole ci sono gli dèi» disse a un tratto Laio, e Nihal non capì se il pensiero lo spaventasse o lo eccitasse.

I due giorni seguenti volarono fra le nuvole e quando ne riemersero e alzarono gli occhi quello che videro parve loro uno spettacolo straordinario. Fu allora che Nihal capì perché proprio quel luogo fosse stato scelto per il santuario.

Quelle montagne erano il trionfo della luce. Il sole era incredibilmente luminoso e perfino il blu cobalto del cielo sembrava rifulgere; il ghiaccio che li circondava, poi, rifletteva i raggi del sole e li rifrangeva in mille tonalità accecanti. Tutto intorno vi erano centinaia di altre cime, a perdita d’occhio; solo roccia, ovunque. Quello sfoggio di bellezza li rincuorò; ora che la salita era finita, credettero che tutto sarebbe andato per il meglio.

Il tepore della luce abbagliante non riusciva a combattere il freddo e il vento, ma l’ultima parte del viaggio si prospettava più facile. Volarono fra centinaia di picchi marrone stagliati contro il cielo, che si innalzavano da un mare bianco e lanuginoso, e Laio si sporgeva in continuazione da Oarf per guardare in basso.

«C’è il nulla sotto di noi!» esclamò divertito lo scudiero, mentre indicava le nuvole che celavano la valle.

Nihal e Sennar invece iniziavano a preoccuparsi. Non riuscivano mai a volare abbastanza in alto da poter dominare tutte le montagne e individuare il pianoro. Non restava che interrogare di nuovo il talismano. Nihal si concentrò e tutto quel che vide fu ancora il fulgore abbacinante del santuario; percepì vagamente che dovevano proseguire verso est e che al centro esatto delle montagne avrebbero trovato quel che cercavano.

Il loro viaggio durò altri due giorni. All’alba del terzo, l’oggetto delle loro ricerche si presentò di fronte ai loro occhi stupiti. Restarono ammutoliti a fissarlo, chiedendosi come fosse possibile che in pieno inverno e a quelle altezze esistesse un luogo simile.

7 Glael o della solitudine

Nihal, Sennar e Laio guardavano allibiti la macchia di verde che si stagliava sul marrone delle montagne. Videro il sole rischiarare una piana ricolma di fiori colorati e talmente profumati che il loro aroma giungeva fino a loro. Meravigliati, scesero su quel pianoro e non appena vi posero piede furono stupiti dalla mitezza del clima. In quel lembo sperduto di terra era già primavera. Era l’alba e i raggi rosei del sole si posavano su migliaia di petali carnosi e sull’erba bagnata di rugiada. Sembrava un mondo a parte, isolato e lontano da tutto.

Laio gettò subito il mantello e iniziò a rotolarsi tra i fiori, con una risata cristallina. «Questa è davvero la dimora gli dèi!»

Il pianoro non era molto vasto e, quando si avvicinò al limite, Nihal scoprì che gran parte della Terra del Sole e qualche lembo di altre Terre erano visibili da lassù. Vide la macchiolina chiara di Makrat, distesa pigra a poca distanza dal Grande Affluente, e poi il Piccolo Affluente, suo fratello minore, e il lago Hantir, argenteo alle prime luci dell’alba. Vide la Foresta della base e le parve persino di intravedere la base stessa. Da lassù forse poteva scorgere anche la regione dove si trovava il villaggio di Eleusi e Jona. Poi, il suo sguardo si spinse oltre e il cuore rallentò i battiti.

In fondo, dove i lussureggianti boschi della Terra del Sole cedevano il passo a un deserto, c’era la sua Terra d’origine, la Terra dei Giorni, tutto ciò che restava del suo popolo.

«Guarda laggiù» esclamò Laio. «Vedi quella macchia nera a sud?»

«Cos’è?» chiese Sennar, che era avanzato per ammirare anche lui il panorama.

«È la Terra della Notte» disse lo scudiero. «Io ci ho vissuto poco, non la conosco bene, ma è la mia Terra...»

«Dobbiamo cercare il santuario» disse Nihal.

«E c’è bisogno di cercarlo?» Laio si voltò e puntò il dito innanzi a sé.

Nihal seguì la sua indicazione e vide un’immensa costruzione sorgere in un angolo del pianoro. Era imponente, completamente d’oro. La mezzelfo si chiese come avesse potuto non notarla. Il corpo centrale era tondo e schiacciato, chiuso da una vasta cupola d’oro a cipolla che terminava con una sfera: un sole, anch’esso d’oro. Ai lati c’erano altre costruzioni più basse e tutte terminavano con cupole simili. L’intero edificio era un tripudio di pinnacoli e volte, e riluceva accecante.

Nihal si fece scudo con un braccio dalla luce che proveniva dal santuario, sguainò la spada e avanzò.

«Chissà che meraviglie ci sono là dentro!» urlò Laio, e si lanciò di corsa verso la costruzione.

«Aspetta!» Nihal lo afferrò per un braccio. «Nei santuari ci sono i guardiani, e loro non vogliono che gli uomini varchino la soglia. È meglio che tu e Sennar restiate qui.»

«Neanche per idea!» protestò Laio divincolandosi. «Cosa saremmo venuti a fare, allora, io e il mago? Se c’è da combattere e aiutarti, dovremo essere al tuo fianco. O entriamo tutti, o non entra nessuno.»

Nihal guardò Sennar, interrogativa.

«Se le cose si mettono male, corriamo fuori. Tu va’ avanti» disse il mago.

Procedettero in fila indiana e arrivarono sotto l’ingresso, dove in caratteri contorti e arzigogolati, tanto che era difficile leggerli, era scritto: "Glael". Luce. Nihal non si soffermò a guardare ed entrò con la spada sguainata.

«Seguitemi a qualche passo» disse ai suoi compagni, ma Laio si era già gettato innanzi.

Sennar lo afferrò per la spalla. «Capisco la tua ansia di cacciarti nei guai» disse in tono acido «però credo sia saggio seguire il consiglio del tuo Cavaliere.»

Laio lo guardò seccato, ma rallentò il passo.

L’interno del santuario era opprimente nel suo splendore: un tripudio di oro e fregi ovunque. C’era un’ampia navata centrale, delimitata da colonne che si innalzavano a sorreggere l’ampia volta interamente traforata, in modo tale che i raggi del sole, penetrando dalla cupola, disegnavano decori geometrici sul pavimento. C’erano poi due navate laterali, più piccole, e sulle pareti molte nicchie, stracolme di statue. Sotto ciascuna di esse, un nome in caratteri che Nihal non riconobbe. La sua attenzione fu attirata dalla rappresentazione di un uomo imponente. Era alto, aveva uno sguardo fiero e indomito. In una mano troneggiava una fiamma gagliarda, che lui sembrava dominare con la forza delle dita, e nell’altra c’era una lunghissima lancia.

Senza sapere perché, Nihal fu affascinata da quella figura e restò per un po’ a guardarla. Le sembrava che gli occhi di quell’uomo fossero puntati su di lei, le pareva quasi che la chiamasse.

«Qualcosa non va?» sentì la voce di Sennar sussurrare dietro di lei.

Si riscosse. «Tutto bene.»

Nihal riprese il cammino e notò che la navata centrale si apriva su un altare, decorato con i rami dorati di una pianta rampicante. Sospesa su un alto piedistallo e investita da un sottile raggio di luce c’era la pietra, che brillava di una luce innaturale.

«È quella?» chiese Laio circospetto.

«Credo... credo di sì» mormorò Nihal.

Era confusa. Possibile che fosse tutto così semplice? Niente guardiani? Rinfoderò la spada e si avvicinò all’altare. Fu allora che iniziò a sentire qualcosa di strano. Tese l’orecchio.

«Cosa...» fece per chiedere Laio, ma Sennar lo zittì.

L’aria iniziava a riempirsi di una specie di canto, una nenia, forse, o una filastrocca. Non proveniva da un punto preciso della sala, era ovunque, e non c’era eco, non c’era profondità in quel suono. Sembrava esistere soltanto nelle loro menti, al punto che si guardarono l’un l’altro per avere conferma che anche gli altri la udissero.

Dapprima le parole non furono chiare, poi si iniziarono a distinguere suoni articolati, frasi forse. Il senso era oscuro, ma all’orecchio di Nihal le parole suonarono simili a quelle che le aveva rivolto il guardiano del santuario dell’acqua, o alla formula rituale che lei stessa recitava quando si appropriava del potere racchiuso nella pietra. Era un canto elfico, dunque. La voce era di fanciulla, triste e inquietante.

«Chi sei? Chi è che canta?» chiese Nihal.

La voce tacque.

«Sono Sheireen, una mezzelfo, e sono qui per Glael» disse Nihal a voce alta.

Ancora silenzio.

«Voglio il potere per sconfiggere il Tiranno che sta distruggendo questo mondo. Sei il guardiano?»

La voce riprese a cantare, ma stavolta le parole erano chiare, non più nella lingua degli Elfi:

Luce, mia luce,

Dov’è la mia luce?

L’ombra l’ha avvolta

Nel suo tenebroso seno l’ha accolta.

Sole, mio sole,

Dov’è andato il mio sole?

La notte l’ha rubato

Nel buio profondo l’ha agguantato.

Vita, mia vita,

Dov’è la mia vita?

Dalle mia dita è fuggita

Come un fiore tra i rovi è appassita.

Una risata suggellò l’ultimo verso e una fredda inquietudine iniziò a farsi strada nel cuore di Nihal. Estrasse la spada e il rumore del cristallo nero che scivolava nella guaina risuonò nel silenzio.

Un grido seguì quel rumore. «Niente sangue, su questi pavimenti! Niente odio tra queste mura!

Abbassa la lama!»

Nihal rinfoderò subito l’arma. «Sono Sheireen, te l’ho già detto... ti prego, fatti vedere.»

«Oh, io conosco Sheireen, e conosco Shevrar. Del resto, la luce possiede il fuoco, no? Ma Shevrar distrugge e la luce crea, non è così?» fu la risposta della voce. «Però, se la luce è vita, perché qui tutto è morto? Fa tanto freddo... Io ho tanto freddo... Riscaldami fanciullo...»

A quel punto Laio strillò.

Sennar corse subito da lui. «Che c’è?» chiese.

«Niente... È solo che mi è sembrato di sentire una mano che mi toccava, una mano gelida...» rispose il ragazzo.

«Dannazione!» Sennar si guardò intorno.

«Non c’è ragione di temere, fanciullo, io ho solo freddo...» disse la voce. «Il calore è celato nella carne e non nell’oro di queste pareti.» Quindi ricominciò a cantare.

Nihal non capiva che cosa dovesse fare. Aguzzava gli occhi, guardava in ogni direzione, ma non vedeva nulla. Eppure la pietra era lì, davanti a lei, incustodita. Che la voce continuasse pure a cantare, a lei serviva solo il potere. Avanzò in direzione dell’altare e tese le dita verso la pietra. Il buio calò improvviso. Rimase un solo raggio di luce, al centro della sala.

«Ferma!» urlò la voce. D’un tratto il tono era divenuto deciso e autorevole. «È mia, nessuno deve prenderla... Coloro che potevano stringerla nelle mani sono tutti morti.»

«No, ti sbagli! Non sono tutti morti! Io sono una mezzelfo, posso controllare il potere. Sono qui per questo.»

Il raggio di luce iniziò a danzare per la sala, da un angolo all’altro, ma soprattutto intorno a Laio.

«Tu menti, tu menti!» cantilenava la voce. «Non vedi che sono sola? Tanti anni fa mi misero qui a vegliare su quella pietra e io ho atteso, ho atteso a lungo... Il sole saliva nel cielo e tramontava, poi risaliva e ancora calava... Così per anni, per millenni. Io ero sempre sola, qui, in questo freddo. L’ultima volta che venne qualcuno fu forse mille anni fa, ma non gli diedi la pietra...»

«Cosa vuoi che faccia, perché tu me la dia?» chiese Nihal.

Il raggio di luce si fermò. «Voglio il calore.»

«Fatti vedere e spiegami cos’è questo calore.»

Il raggio di luce ricominciò a muoversi per la sala, mentre il buio si faceva a poco a poco meno fitto. «Sono qui, non mi vedi? Sono la luce. Molto tempo fa anch’io avevo un corpo, ma poi lentamente è sparito... E ora ho freddo, sono sola...»

«Io non ti capisco...» protestò Nihal.

«Tu dammi il calore, e poi potrai prenderti la pietra» disse la voce ridendo.

Il raggio di luce iniziò ad accarezzare Laio, passò sui suoi riccioli biondi, sulle sue guance rosse. Lo scudiero sembrava divertito da quel gioco, le sue dita seguivano il raggio luminoso.

«Sì» continuò la voce «tu ce l’hai il calore... Io non voglio poi molto... solo andarmene da questa prigione d’oro, vedere il mondo e non essere più sola. Che senso ha stare qui dentro? Gli elfi se ne sono andati tanti anni fa, e io sono qui a far la guardia a una cosa senza valore... Portatela pure via, ma lasciami la carne...»

«Non mi sembra che questa specie di guardiano sia molto in sé» commentò Sennar mentre si avvicinava.

«Cosa devo fare?» gli chiese Nihal in un sussurro, ma in tutta risposta ottenne uno sguardo confuso.

«Desideri la pietra?» chiese la voce.

«Sì» rispose Nihal.

«Allora dammi lui, e io te la darò.»

«Lui chi?»

«Il fanciullo» rispose suadente la voce.

Laio lanciò uno sguardo preoccupato verso Nihal e iniziò a indietreggiare.

«Di chi... di chi parli?» balbettò la ragazza.

«Mi hai capita. Il bambino che porti con te, il fanciullo. È così caldo... Il suo tepore già ritempra il mio cuore solitario... Concedimi la sua carne e il suo calore, e la pietra sarà tua.»

Laio si lanciò rapido verso l’uscita, ma il raggio prese le sembianze di una donna, protese un braccio e chiuse l’ingresso. Non ci furono più porte, solo la gelida consistenza delle mura d’oro. Il braccio si allungò poi verso l’altare e prese la pietra.

«Carne in cambio del potere...» disse la voce e dalla luce emerse un volto di donna, un volto bellissimo, ma folle e triste. «Accetti questo scambio? In fondo, cosa ti chiedo? Non vedi il dolore che provo nella mia solitudine?» La voce si era fatta lamentosa. «Tu che puoi, aiutami a fuggire da questo luogo che odio...»

Nihal guardava quel volto terrorizzata e ammaliata, come se fosse avvinta da una magia. Gli occhi le si chiudevano.

«Nihal!» la chiamò Sennar.

Il mago corse verso di lei e la mezzelfo si riscosse. Si allontanò dalla luce e sguainò la spada.

«Forse preferisci concedermi l’uomo? Non è fresco e puro come il fanciullo, ma accetto anche lui...»

«Non dire idiozie! Non ho intenzione di separarmi dai miei amici per nessuna ragione al mondo!» esclamò Nihal.

«Allora dammi il tuo, di corpo» rispose la voce.

«No!» urlò Nihal. «Lasciaci andare e dammi la pietra!»

Il volto divenne iroso, la guardò a lungo, poi d’improvviso la luce tornò a inondare la sala e il raggio scomparve.

Nihal rimase spaesata e anche Sennar si guardò intorno perplesso.

«Dove diamine...?» borbottò il mago. Poi si voltò verso Laio. «Nihal...» mormorò terrorizzato.

Anche lei guardò lo scudiero. Laio lentamente sollevò le palpebre e la paura invase Nihal. Gli occhi del ragazzo erano diventati d’oro, senza iride né pupilla. Uno strano sorriso si disegnò sulle labbra di Laio e quando parlò, la sua voce era quella che avevano sentito risuonare nella sala fino a poco prima.

«Non hai voluto acconsentire? Non hai voluto aiutarmi? Ebbene, non solo ho preso da me quanto desideravo, ma ti punirò per la tua crudeltà.»

Nihal fece qualche passo indietro. «Lascia stare Laio...»

«Ti avevo chiesto solo aiuto, null’altro, e tu me l’hai negato...» disse Laio mentre avanzava verso di lei.

Nihal non riusciva a fare altro che indietreggiare impaurita.

Laio allungò una mano verso la mezzelfo e quando aprì la palma, un raggio di luce accecante la investì e la precipitò nel buio.


Lo scudiero corse verso il fondo della sala e la porta che era scomparsa riapparve, più grande e imponente di prima.

«Che restiate voi qui, nella solitudine e nella disperazione, a soffrire il freddo che ho sofferto io!» urlò dalle labbra di Laio la voce femminile.

Il guardiano era a un passo dalla porta, quando Sennar si piazzò davanti a Laio. Un secondo raggio di luce partì dalla mano dello scudiero, ma si infranse su una barriera circolare argentea evocata dal mago.

«Aspetta un istante, prima di andare» disse Sennar in tono ragionevole. Guardò dietro Laio e vide Nihal ancora a terra. Non poteva andare da lei, o sarebbero rimasti lì dentro in eterno.

«Io ti capisco, sai?» iniziò. «Tutti questi anni in solitudine... non dev’essere stato facile...»

Laio, guardingo, lo scrutò con sospetto.

«Conosco la solitudine e il freddo... sì, ti capisco.» Sennar vide Nihal muovere una mano.

«Chi sei? Un mago?» chiese Laio.

«Non c’è bisogno di prendere questo giovane» continuò Sennar. «Del resto, non sei stata messa qui per la pietra?»

Laio continuò a fissarlo, interdetto.

«È sempre stato il tuo compito vegliare sulla pietra, o sbaglio? È per questo che sei stata creata...»

«Tu hai ragione, ma io sono sola...» Un’ombra di tristezza passò negli occhi d’oro di Laio, mentre lentamente Nihal si rialzava e tornava in sé.

«Stai facendo del male a un innocente. Io non credo che ti sia permessa una cosa del genere.»

«No, ma ho freddo, tanto freddo...»

«Tu devi solo stabilire chi sia degno di possedere la pietra, null’altro, o sbaglio? Il ragazzo che vuoi per te non ha nessuna colpa. Non puoi prenderlo, è grave quello che stai facendo, e lo sai.»

Laio abbandonò le mani lungo il corpo e guardò a terra sconsolato. Nihal sguainò la spada, ma Sennar le fece un cenno perché capisse che non era il momento di agire.

«Conosci Ael?» chiese Sennar.

Laio alzò la testa. «La Somma Signora delle Acque, custode della pietra nella Terra dell’Acqua... Certo che la conosco.»

Sennar si volse verso Nihal. «Sheireen, mostrale dov’è ora Ael» disse, ma Nihal lo guardò senza capire.

«Il talismano» spiegò Sennar.

Nihal frugò sotto il mantello e lo trovò. Con calma e circospezione si avvicinò a Laio, che la fulminò con uno sguardo gelido. Quando la mezzelfo mostrò il talismano, gli occhi del ragazzo si rabbuiarono.

«Conosci questo amuleto?» chiese Sennar.

Laio fece cenno di sì con la testa.

«Allora saprai anche cosa sono le pietre. Quella è Ael, la sua essenza è racchiusa lì dentro.»

Laio guardò, interessato.

«Ael non è più sola, ha lasciato il suo santuario e ora fa la guardia alla pietra che possediamo. È questa l’unica possibilità che hai di lasciare il santuario, se tanto lo odi: vieni con noi. Non sarai più sola, viaggerai di Terra in Terra alla ricerca della pace, vedrai mille meraviglie. Solo così potrai andartene da qui.»

«No, non voglio! La carne di questo fanciullo è così calda...» protestò Laio.

«Lascialo» ordinò Sennar. «Egli non ti appartiene, non è tua la sua vita. Quella che stai commettendo è una grave colpa.» Prese il talismano dalle mani di Nihal e lo sollevò davanti al volto di Laio. «È qui la soluzione, è questo il tuo posto, e vi troverai altrettanto calore. Tu non vuoi fare altro male a questo ragazzo dal cuore puro, vero?»

Nihal, nel frattempo, si era spostata dietro la schiena di Laio e attendeva, la spada in pugno.

«Lascialo» insistette Sennar. «Liberalo e fa’ il tuo dovere.»

Il talismano oscillò davanti allo sguardo di Laio, che lo seguiva come ipnotizzato. Destra, sinistra, destra, sinistra... Infine lo scudiero chiuse gli occhi e d’improvviso calò il buio. Poi una luce accecante ruppe l’oscurità e si gettò a capofitto nella pietra, che ora giaceva a terra. A quel punto si sentì il rumore di un corpo che cadeva al suolo.


«Laio!» urlò Nihal. Cercò a tentoni sul pavimento e alla fine lo trovò. «Stai bene?» chiese, mentre gli teneva il capo fra le mani.

«Andiamo via al più presto, forza» intervenne Sennar.

Al buio, Nihal cercò la pietra, poi si caricò Laio sulle spalle e corsero verso la porta, che pareva lontanissima. Infine uscirono nella luce del pianoro.

Nihal depose a terra Laio e iniziò a chiamarlo. Dopo qualche istante, lo scudiero aprì gli occhi e si portò una mano al petto.

«È... è tutto a posto?» chiese il ragazzo con una voce strana.

Nihal tirò un sospiro di sollievo. «Sì, è tutto a posto» rispose con un sorriso. Quindi recitò la formula rituale e collocò la pietra nel suo alveo.

8 L’ossessione di Ido

Quella sera Ido era solo. E non aveva sonno. Seduto fuori dalla sua tenda, in cima alla collina, guardava il panorama con sguardo vacuo. Si sentiva malinconico, e la vista che aveva davanti non lo aiutava a tirarsi su di morale. Osservava la piana inondata dalla luna, il nastro d’argento del fiume che la attraversava, e trovava quel panorama di struggente bellezza. Se non fosse stato per ciò che si vedeva all’orizzonte. Una linea scura e sfocata, là dove il cielo si univa alla terra. L’accampamento nemico.

Lo gnomo non era tipo da scoraggiarsi, ma quella sera si sentiva vecchio e stanco.

Fece scorrere la mano sulla lunga barba, poi tirò una boccata dalla sua pipa.

Vecchio stupido. Non è certo il momento di abbattersi. La verità è che ti manca Nihal...

Già, era quella la verità. Nihal se n’era andata da quasi due mesi ormai.

Ido non era tipo da emozionarsi facilmente, ma quando aveva visto la sua allieva spiccare il volo su Oarf e partire per la missione, si era sentito stringere il cuore. Era rimasto di nuovo solo.

Si era detto che la tristezza sarebbe passata presto, che la guerra lo avrebbe ripreso nelle sue spire e si sarebbe sentito forte e spavaldo come sempre. Ma non era andata così. I giorni scorrevano lenti. Si era stabilito nell’accampamento della Terra dell’Acqua più prossimo al fronte e lì aveva prestato il suo aiuto. Aveva cercato di scacciare la malinconia gettandosi anima e corpo nella battaglia. Mentre l’inverno avanzava assieme all’esercito nemico, Ido non si risparmiava: pianificava attacchi, guidava manipoli, lottava con tutte le proprie forze, divorato dal bisogno di combattere.

Le sere però erano solitarie, trascorse nella tenda a fumare nervosamente. Ido era divenuto taciturno, perché in verità non aveva voglia di parlare con nessuno. Si era accorto di non essere riuscito, in tutti quegli anni, a legare davvero con qualcuno.

Gli sembrava di essere tornato indietro di anni, ai primi tempi passati nell’esercito delle Terre libere. La sua vita era costretta nei ranghi della consuetudine: allenamenti, battaglie, riposo, ogni giorno uguale al precedente. Di tanto in tanto montava su Vesa, il suo drago scarlatto, e si allontanava anche per un’intera giornata. Ogni volta che si innalzava in volo, però, constatava con tristezza che la linea del fronte era ulteriormente regredita. Non riuscivano a guadagnare terreno. Inanellavano una sconfitta dietro l’altra.

Smettila di rimuginare!

Distolse gli occhi dalla piana e svuotò la pipa dopo un’ultima tirata. L’indomani ci sarebbe stato un nuovo attacco, un’altra occasione di annegare quelle stupide malinconie nella battaglia. Quindi si ritirò nella sua tenda.


Il mattino seguente l’aria era gelida. L’alito si rapprendeva in nuvolette compatte.

Ido era in groppa a Vesa, pronto ad affrontare l’ennesima battaglia. Mavern era al suo fianco, anche lui sul suo drago.

«Ti vedo stanco, Ido» disse il generale.

«Sarà la vecchiaia» cercò di scherzare Ido.

«Gli gnomi non invecchiano velocemente come gli uomini.»

«Però accade anche a loro.»

Mavern sorrise. Ido sospirò e guardò innanzi a sé. Vedeva chiaramente le linee nemiche, immerse in un silenzio glaciale, il silenzio che può circondare solo un esercito di fantasmi. Era una scena che conosceva bene, ma ancora non si era abituato. Non si concentrò su quella prima linea grigiastra ma sui fammin schierati dietro, gli esseri mostruosi dalle lunghe zanne e dal pelo rossiccio, che almeno non gli riempivano le ossa di quel gelo mortale.

L’urlo della carica lo colse quasi di sorpresa, ma lui prontamente spronò Vesa con un grido e fu subito in cielo.

Si gettò nella battaglia imperversando dall’alto sulle truppe nemiche con il suo drago. Di tanto in tanto veniva attaccato dagli uccelli che sputavano fuoco, ma non era difficile vedersela con loro. Sembrava davvero una battaglia come le altre.

Finché non arrivò lui. Ido sentì l’aria vibrare e capì che era sopraggiunto un Cavaliere di Drago. Solo le ali di un drago producevano quel suono sordo e cupo. Qualcosa in lui si risvegliò.

Un avversario degno di questo nome, finalmente.

Prese quota e si voltò a vedere chi fosse il suo nemico. La prima cosa che lo colpì fu il rosso, e un’immagine gli tornò improvvisamente alla memoria.

C’era un Cavaliere vestito di rosso, il giorno in cui la barriera delle ninfe era stata abbattuta. Ido non poteva dimenticarlo. Era stato lui a costringere Nihal a combattere contro Fen. In un attimo, davanti alla figura di quel Cavaliere scarlatto in groppa a un drago nero, lo gnomo ricordò tutto.


Nihal era immobile innanzi a Fen, mentre il fantasma la attaccava. Ido era corso da lei e aveva sentito un’odiosa risata di scherno.

«Uccidere o essere uccisi, Cavaliere!» Il guerriero scarlatto volteggiava sopra di lei, in groppa a un drago nero.

«Nihal! Combatti, maledizione!» aveva urlato Ido.

Quindi si era scagliato su di lui, il tempo di qualche stoccata, mosso da una rabbia inesprimibile. Non lo aveva visto neppure in faccia, non aveva badato alla sua armatura. Lo aveva colpito, poi la battaglia li aveva separati. Nelgar si era affiancato a Ido e lo gnomo aveva perso di vista il Cavaliere.


Ido sentì montare dentro di sé la stessa rabbia di quel giorno. Stavolta non ci sarebbe stato nessuno a dividerli. Gli avrebbe fatto pagare il prezzo della sofferenza di Nihal. Lo gnomo sentì qualcosa in fondo allo stomaco, un vigore nuovo. Spronò Vesa, si lanciò sul Cavaliere di Drago Nero e colpì con forza la sua spada, poi si allontanò.

«Sono io il tuo nemico» mormorò fra i denti.

Il Cavaliere si voltò verso di lui. Era imponente, l’armatura rossa non lasciava un lembo della sua pelle scoperto e anche il volto era celato. Un demone rosso come il sangue. Aveva una spada, anch’essa rossa, dello stesso colore di Vesa. Ido non poteva vedere neppure i suoi occhi. Gli sembrava di affrontare un guerriero inanimato.

Il Cavaliere gli mostrò la spada a mo’ di saluto, poi si gettò su di lui. Iniziarono a combattere accanitamente. Il guerriero in rosso aveva uno stile assai simile a quello di Ido: si muoveva poco, anche il suo era soprattutto un gioco di polso. Questo avrebbe reso la competizione più interessante, se Ido non fosse stato accecato dalla furia.

Lo gnomo sentì un colpo raggiungerlo alla mano e Vesa si ritirò.

Calma, stai calmo, maledizione!

Sentì una risatina di scherno provenire dalla celata dell’elmo del suo nemico.

«Vedo che ti stai scaldando...»

Ido si gettò di nuovo contro di lui e prese ad assaltare con più foga. In anni di battaglie non si era mai sentito così, non aveva mai odiato nessuno dei suoi nemici, e mai aveva perduto la calma.

Si avvicinò più che poteva con Vesa e costrinse il suo drago ad attaccare la bestia nera con le unghie e con i denti. Il ritmo del duello accelerò, ma il Cavaliere di Drago Nero non parve turbato e rispose a ogni stoccata.

Era un grande spadaccino, Ido doveva ammetterlo. Forte e vigoroso, ma anche agile e furbo. Un nemico fuori dal comune. Da quanto tempo non si misurava con un avversario simile?

Bastò un attimo di distrazione, un gesto più avventato degli altri, un piccolo errore di calcolo. La stoccata del nemico andò a segno e l’elmo di Ido prese il volo. Lo gnomo perse l’equilibrio e dovette aggrapparsi a Vesa per non cadere. Quando si riprese, la spada del Cavaliere puntava dritta alla sua gola. Ido ebbe appena il tempo di imprecare.

È finita.

«Sembra sia finita» chiosò il Cavaliere e la sua spada fendette l’aria con un movimento rapido e preciso.

Ido d’istinto chiuse gli occhi e avvertì la lama strappargli la carne del petto.

Gli mancò il fiato e si sentì trascinare via. Quando riaprì gli occhi si accorse che Mavern lo portava con sé in groppa al suo drago. Vesa rimase a ostacolare il volo del drago del Cavaliere scarlatto.

«Non finisce qui, codardo!» urlò il suo nemico.


Ido si fece curare di malavoglia. Era furioso, aveva già fatto una scenata a Mavern.

«Che diamine ti sei messo in testa di intervenire?» gli aveva detto tra un rantolo e l’altro, quando la battaglia era terminata.

«Se non ti fosse chiaro, ti ho salvato la vita» aveva risposto il generale.

«Me la stavo cavando egregiamente da solo!»

«A giudicare dallo squarcio che hai sul petto, non si direbbe.»

«Non dovevi intrometterti e basta!»

Mavern non aveva voluto continuare la discussione. «È ovvio che non sai neppure quello che dici.»

Ido quindi era rimasto solo con il mago che lo curava. Aveva un brutto taglio, ma la ferita non era profonda.

Lo gnomo era furioso con se stesso. Si era comportato come un idiota. Quarant’anni passati a combattere e mai, mai, aveva portato avanti un duello in modo tanto vergognoso. Si era fatto fregare come un pivello ed era scappato. Non aveva mai girato le spalle al nemico prima di allora.

Proprio io che ho insegnato a Nihal la calma finisco con l’infervorarmi come un soldato semplice.

Ben più della ferita, era la sconfitta che gli bruciava, e quell’ultima parola, lanciata con noncuranza dal suo nemico: "Codardo".


Per qualche giorno Ido dovette rimanere a letto. La ferita si era infettata e il mago a cui lo avevano affidato era stato categorico. Lo aveva confinato nella sua tenda e gli aveva vietato persino la sua unica consolazione, la pipa.

Allo gnomo non rimase altro che rimuginare sull’accaduto e sul suo nemico. Iniziò a esserne ossessionato.

Trovava indegne la gioia e l’eccitazione che aveva provato durante il combattimento, gli ricordavano i tempi oscuri nei quali aveva lottato per il Tiranno. Poi c’erano la vergogna per la sconfitta e il ricordo di quell’insulto urlatogli contro con disprezzo, che ancora gli rimbombava nelle orecchie. E infine il loro primo incontro sul campo di battaglia, la crudeltà con cui quell’uomo aveva trattato Nihal. Tutto si mescolava nella sua mente, si confondeva nel delirio della febbre. Solo nella tenda, Ido era tormentato dal suo passato. Ricordava bene la scelta che aveva fatto, i motivi per cui ora combatteva, ma non poteva smettere di pensare al guerriero scarlatto. Nel vuoto lasciato da Nihal, la battaglia aveva acquistato un nuovo significato.


Quando Ido fu guarito, molti dei fantasmi della convalescenza si dileguarono, ma non la voglia di incontrare di nuovo il Cavaliere di Drago Nero. Per prima cosa, lo gnomo decise che era ora di rendere più efficiente la sua spada. Era stufo di passare la metà del tempo sul campo a trafiggere ombre. Anche con l’incantesimo che i maghi evocavano sulle armi prima della battaglia, erano necessari almeno sei o sette colpi per aver ragione di uno solo dei morti resuscitati dal Tiranno.

Così Ido si prese un giorno di licenza e andò a trovare Soana.

La maga che aveva addestrato Nihal alle arti magiche in quel periodo si trovava nell’accampamento principale della Terra dell’Acqua, dove aiutava la ninfa Theris nel coordinamento delle truppe. Il luogo non era distante e in un’ora Ido lo raggiunse.

La trovò indaffarata e affascinante come sempre. Da quando Fen, l’uomo che amava, era morto, Soana indossava soltanto tuniche nere, che facevano risaltare il suo pallore. Era invecchiata, fra i capelli color ebano c’era qualche filo grigio e una rete di rughe sottili le circondava gli occhi scuri. Però era ancora bellissima.

La maga lo accolse come un vecchio amico. Aveva modi un po’ freddi e alteri, una sorta di alone che la faceva sembrare irraggiungibile, ma Ido apprezzava il distacco che c’era fra loro. Del resto, c’era qualcosa che li univa al di là di ogni divergenza, e quel qualcosa era Nihal.

Parlarono della battaglia e del fronte e Ido le spiegò la situazione.

Quando lo gnomo ebbe terminato, Soana lo guardò pensierosa. «Devi dirmi con precisione a quali scopi ti serve la spada, in modo che possa usare il giusto incantesimo. Non ti bastano le formule che già utilizziamo prima della battaglia?»

Ido sospirò. «Non sono abbastanza efficaci. In ogni caso, i generali del Tiranno non sono guerrieri normali. Hanno armi potenziate da formule oscure ed è con loro che devo vedermela. Ho bisogno di una spada che possa combattere alla pari con le diavolerie del Tiranno.»

Soana si accigliò. «Mi stai chiedendo una magia proibita?»

«Sai bene che non ti domanderei mai una cosa simile.»

«Che cosa ti serve, allora?»

Ido esitò. «Mio fratello aveva una strana armatura, quasi viva; quando veniva colpita si riparava da sola. Cosa si può fare contro una corazza del genere?» Lo gnomo tacque e abbassò lo sguardo. Era la prima volta che parlava di suo fratello da quando era stato giustiziato, dopo che Nihal lo aveva sconfitto.

Soana ci pensò a lungo. «Non sono incantesimi facili da contrastare, soprattutto usando formule permesse.»

A quel punto Ido decise di confessarle come stavano le cose. «Mi serve per vendicarmi di un Cavaliere che mi ha battuto e che ha fatto del male a Nihal.»

«Il Cavaliere scarlatto... Deinoforo» disse cupa Soana.

Ido si limitò ad annuire. Dunque era quello il nome del suo nemico.

«Quanto ti tratterrai qui?» chiese la maga, alzandosi.

«Domani devo ripartire.»

«Lasciami la tua spada e stanotte per pensare.»


Ido trascorse la notte nell’accampamento. L’indomani si svegliò di buon’ora e andò subito da Soana.

La maga era già in piedi. Di fianco a una sedia c’era la spada di Ido. Mandava bagliori azzurri e aveva assunto una strana trasparenza. Lo gnomo si preoccupò, quella spada era la sua vita.

«Non è stato facile» disse Soana. Aveva la voce stanca e gli occhi cerchiati. «Ho dovuto esaurire quasi tutta la mia magia.»

Ido si sentì in colpa. «Non volevo che trascorressi la notte in bianco per colpa mia...»

Soana sorrise. «L’ho fatto con piacere. Mi ha ricordato i bei tempi, quando andavo nella fucina di Livon e passavo ore a consacrare le sue spade.»

Una nube oscurò i suoi occhi, ma Soana era come Ido, controllata e glaciale. Porse allo gnomo la spada e il suo volto affaticato tornò sereno. «Le ho imposto una versione potenziata dell’incantesimo di fuoco che evochiamo sulle armi prima della battaglia. Inoltre ne ho indurito la tempra con un incantesimo di luce, il più potente che conosca. Sono formule particolari, assai vicine a quelle proibite, ma ancora permesse. Ne ho fatto uso pochissime volte.»

Ido chinò il capo mentre prendeva la spada. «Grazie...»

«Questa nuova arma ti permetterà di sconfiggere con facilità i morti e allo stesso tempo ti aiuterà nel caso te la dovessi vedere con armature rafforzate da qualche incantesimo che ha il suo fondamento nel buio. Purtroppo, però, l’ombra si sconfigge solo con un’oscurità ancora più fitta. L’unica cosa che può battere davvero una formula proibita è una magia proibita di potenza superiore.»

«Non temere, il tuo lavoro basterà. Non conta solo la spada, ma anche il braccio che la impugna.»

Soana sorrise, mentre Ido rinfoderava l’arma.

«È tempo che vada» concluse lo gnomo. «Grazie infinite.»

«Questo e altro per un caro amico» disse Soana. «In ogni caso, cerca di non perdere la lucidità.»

Ido assunse un’espressione stupita, ma la commedia non funzionò con Soana.

«Ora sei solo, è facile cadere in balia dell’ossessione per la battaglia. Ma un Cavaliere di Drago, per quanto male possa aver fatto a te o a Nihal, non è che un nemico come tutti gli altri.»

Ido sorrise. «Cercherò di ricordarlo.»

9 Un addio

Nihal, Sennar e Laio si rimisero in viaggio il giorno seguente. Volarono al di sopra delle nubi, passando di cima in cima, per godere del tepore del sole invernale. Solo il terzo giorno scesero sotto le nuvole e dopo altri quattro arrivarono alla pianura.

La sera prima di giungere alla base dove Nihal aveva completato con Ido il suo addestramento a Cavaliere di Drago, la mezzelfo prese Sennar da parte.

«Resteremo alla base un giorno solo, giusto il tempo di informarci su come varcare il fronte, poi ripartiremo» gli disse.

«Perché tanta fretta?» chiese Sennar.

«Perché Laio sarà convinto che ci tratterremo tre giorni» rispose lei senza guardarlo.

«Non vorrai...»

Nihal si voltò di scatto. «Devo farlo.»

Sennar scosse la testa. «Non riuscirai a lasciarlo lì, lo sai.»

«Non può venire con noi. È troppo pericoloso.»

«Se vuoi un consiglio, ripensaci» le disse Sennar. «Non puoi fargli un affronto del genere.»

Nihal guardò a terra a lungo e il mago capì che era combattuta. «Non ho scelta» disse alla fine. «Hai dimenticato cos’è successo nel santuario?»

«Non essere stupida, poteva capitare a me, o anche a te, se è per questo. Laio ti ha salvato la vita.»

«Laio non è un guerriero e non è un mago. È stato un errore fin dal principio portarlo con noi. Questa è l’ultima occasione che ho per salvargli la vita.»

«Ma...»

«Che ti prende?» lo interruppe brusca Nihal. «Tu e Laio non vi siete mai sopportati. Cosa credi, che non me ne fossi accorta? Perché tutto d’un tratto insisti tanto per portarlo con noi?»

Sennar non trovò le parole per risponderle. La verità era che sapeva che adesso toccava allo scudiero, ma che un giorno Nihal avrebbe potuto fare lo stesso con lui. Restò in silenzio, gli occhi puntati a terra.

«Ormai ho deciso» tagliò corto Nihal.

Per tutto il giorno seguente Sennar evitò lo sguardo dello scudiero. Gli sembrava di avere di fronte un condannato a morte a sua insaputa. Laio, intanto, continuava a rievocare i mesi trascorsi alla base.

«Per quanto resteremo?» chiese dopo avere raccontato un aneddoto, che ruotava intorno a uno dei frequenti scoppi di malumore dello gnomo e agli sbuffi di fumo rivelatori della sua pipa.

«Tre giorni» rispose Nihal, e quelle parole sancirono il destino del giovane scudiero.


L’aria era più tiepida quando arrivarono. Erano partiti da più di due mesi e la primavera non era lontana.

Nihal e Laio ritrovarono la base come l’avevano lasciata, neppure un anno prima: la palizzata attorno all’accampamento, l’ordine spartano delle capanne in legno, la vasta arena.

Molti li riconobbero e li festeggiarono. Con somma sorpresa di Nihal, fra i tanti che accolsero festosamente il suo scudiero c’erano anche parecchie ragazze. Tutto si sarebbe immaginata, tranne che Laio potesse far strage di cuori.

Nihal lasciò il giovane alle sue ammiratrici e andò a fare un giro per la base da sola. Passò innanzi all’alloggio che le era stato assegnato per il mese che aveva trascorso alla base e poi davanti alla casa di Ido. Aveva quasi sperato di incontrare il suo maestro, ma lo gnomo di certo ora si trovava al fronte, nella Terra dell’Acqua, dove la situazione era più critica. Rivide l’arena dove aveva conosciuto Oarf e si era allenata con lui. Era lì che per la prima volta aveva combattuto contro Ido, ed era stata sconfitta. Quindi raggiunse il punto nei pressi della scuderia dove, un pomeriggio di quasi un anno e mezzo prima, aveva ferito Sennar. La cicatrice sulla guancia del mago ora si distingueva solo in controluce, ma era comunque lì, a ricordarle il male che gli aveva fatto.


Il pomeriggio, Nihal andò dal sovrintendente della base e gli chiese come superare il fronte e varcare il confine.

Nelgar studiò a lungo la cartina. La sua faccia pacifica era seria e concentrata; nessuno avrebbe potuto sospettare che quell’uomo basso e dal fisico tozzo fosse uno dei generali più potenti dell’esercito delle Terre libere.

«L’unica è per i Monti della Sershet» disse infine. «La zona è troppo impervia perché vi siano truppe e credo che nessuno vi noterà. Ma dovrete affrontare la scalata e sarete in territorio nemico» aggiunse. «Perché ci vai?» chiese a bruciapelo.

«La segretezza della mia missione mi impedisce di dirlo. Vi prego di far finta che da qui non sia passato nessuno» rispose Nihal a disagio. «C’è un altro favore che devo chiedervi.»

«Dimmi.»

«Partirò stanotte, ma non voglio che Laio venga con me, sarebbe troppo pericoloso. Vi prego di impedirgli di seguirmi, quando scoprirà che me ne sono andata.»

«Se ricordo bene, Laio non si separava quasi mai da te. Non sarà facile trattenerlo qui.»

«Se è necessario, chiudetelo in cella» rispose lei. Nelgar la guardò stupito. «Non voglio che gli accada nulla di male.»


La sera, Laio si ritirò tardi, e Nihal e Sennar dovettero posticipare la partenza. La mezzelfo rimase sveglia nel suo giaciglio, in attesa che il respiro dello scudiero si facesse pesante. Quando capì che si era assopito, decise che era giunta l’ora di andare. Si alzò, guardò un’ultima volta l’amico, gli posò un lieve bacio sulla guancia e uscì in fretta, prima di potersi pentire.

Sennar la attendeva fuori. Nihal evitò il suo sguardo e corse verso le scuderie.

«Vado da Oarf» disse mentre si allontanava.

Quella sera erano molti i draghi nelle scuderie, ma solo uno era sveglio. Nihal si avvicinò a lui, sorrise e gli accarezzò la testa. Oarf le rivolse uno sguardo triste e supplichevole. Nihal odiava l’idea di doversi separare da lui, ma entrare in territorio nemico con un drago significava farsi ammazzare.

«Perdonami, Oarf. Sai che vorrei stare sempre con te, ma non posso. Dobbiamo entrare nei territori occupati senza che nessuno si accorga di noi. Mi spiace.»

Il drago scosse la testa per allontanare la mano di Nihal.

«Non fare il sostenuto con me, so che puoi capire.»

Lo sguardo fiero dell’animale per la prima volta la mise in soggezione.

«Tornerò presto te lo prometto.»

Oarf la fissò con i suoi occhi rossi.

«Addio» concluse Nihal e uscì dalle scuderie senza voltarsi indietro.

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