Fra i nemici

Ogni notte il Cacciatore percorre l’intero arco del cielo, da est a ovest. È composto da venti stelle, di cui le prime due assai brillanti. Una di esse ha il colore dell’acqua del mare, l’altra delle braci fumanti. Sono gemelle nel cielo, e danzano l’una attorno all’altra in un moto perfetto e perpetuo.

Iresh, le ho chiamate, i Danzatori.

Appunti dell’Astronomo reale,

Osservatorio di Seferdi, frammento

10 Cattivi presagi

Sennar e Nihal partirono dalla base a cavallo, decisi a mettere più leghe possibile fra loro e Laio. Mentre cavalcavano a briglia sciolta, alla luce della luna, Nihal tendeva l’orecchio a ogni rumore che provenisse alle loro spalle: fruscii, sussurri, suono di zoccoli. Ma a quanto pareva nessuno li seguiva.

In otto giorni furono alle pendici dei Monti della Sershet e dopo altri due giorni giunsero in prossimità del primo valico. Abbandonarono i cavalli in un villaggio e iniziarono la scalata a piedi. Da quel lato il pendio era più dolce e solo nell’ultimo tratto la salita si fece impegnativa. Il mattino del terzo giorno giunsero al valico.

In passato, prima che il Tiranno allungasse la sua mano su quelle regioni, i commerci tra la Terra del Sole e quella dei Giorni erano fiorenti, e l’ingegno di uomini e mezzelfi aveva provveduto a costruire numerosi valichi sulle montagne. In tempo di pace, quei passi erano stati molto frequentati e i monti non erano così desolati, sebbene fossero impervi. Da lì si dipartivano le strade che congiungevano le due Terre, costellate di locande e mercati, dove i viandanti potevano rifocillarsi e vendere le loro merci.

Le cose ora erano cambiate, ormai più nessuno dei valichi era utilizzato. Molti erano stati cancellati dalle battaglie che avevano seguito la strage dei mezzelfi; altri erano stati distrutti in seguito, per evitare sconfinamenti; altri ancora, quelli più impervi, erano caduti semplicemente in disuso. Nessuno sapeva quali fossero tuttora agibili. Nihal e Sennar speravano che il primo fosse quello buono, ma la fortuna non arrise loro.

Il valico era in buone condizioni e vi giunsero con il bel tempo, la mattina del tredicesimo giorno dalla partenza dalla base. Non appena ebbero superato il passo e guardarono a valle, però, videro qualcosa che avrebbe reso le cose molto più difficili.

«Avremmo dovuto immaginarlo...» disse Sennar.

Un’enorme muraglia si stendeva fin dove l’occhio poteva spingersi, si arrampicava su per le montagne e sbarrava loro la strada qualche centinaio di braccia più in basso. Il muro era tozzo e imponente, fatto di massi rozzamente squadrati. Ogni trecento braccia c’era una torre di vedetta e i fammin facevano la spola dall’una all’altra.

Prima di iniziare il loro lungo viaggio, Nihal e Sennar avevano discusso con Ido della situazione nelle Terre soggette al Tiranno e lo gnomo aveva parlato di un muro, ma aveva anche detto che non toccava la parte più interna dei monti; ora invece se lo trovavano davanti. Il Tiranno non era restato inoperoso in quei vent’anni.

«Di qui non si passa» commentò Sennar.

«E ora, che si fa?»

«C’è poco da fare: bisogna provare con un altro valico.»


Scesero più a valle e risalirono. Il tempo non era clemente e si ritrovarono sotto una violenta nevicata.

Nihal temeva il momento in cui avrebbe messo piede nella sua patria perduta, perché più si avvicinava al luogo in cui era avvenuta la strage, più gli spiriti la tormentavano.

Dopo altri cinque giorni di marcia raggiunsero il secondo valico, dove trovarono un’altra brutta sorpresa: il passo non esisteva più. Al posto della strada che doveva insinuarsi fra i monti c’erano roccia e massi che occludevano il passaggio. Opera dei fammin, probabilmente.

Così ripresero il cammino, curvi sotto la neve, alla ricerca di un nuovo passo. Dopo altri quattro giorni arrivarono in vista di un terzo valico, ma la tormenta impediva di verificarne le condizioni.

«Tu resta qui, vado a vedere io» propose Sennar.

«Che ti salta in mente? Andiamo insieme.»

«Non sono venuto per fare una gita. Aspettami qui.»


Sennar avanzò nella bufera, facendosi scudo con un braccio. Procedeva così da qualche minuto, quando si arrestò di botto. Scostò il braccio per vedere meglio e fu preso dallo sconforto. Davanti a lui si apriva uno strapiombo.

Fece ancora qualche passo e si sporse appena dal bordo. Poco più in basso c’era una strada molto stretta che si insinuava fra due monti. Il passo era libero.

Tornò subito da Nihal. «Il valico è libero» annunciò.

«Traccia di fammin?» chiese Nihal.

Quelle parole ebbero l’effetto su Sennar di una doccia fredda. «A dire il vero non ci ho guardato... Però il muro fortificato non si vede.»

«Tieniti pronto a lanciare un incantesimo» disse lei, e avanzò.

Quando giunsero ai margini dello strapiombo, cercarono di analizzare meglio la situazione. Non avevano corde per calarsi e la discesa era di una decina di braccia. Nihal rise.

«Potrei sapere che cosa c’è da ridere?» chiese Sennar.

«Ti immaginavo mentre ti cali giù.»

«Non sarò io quello che avrà qualche problema» rispose Sennar. Raggiunse il precipizio e si gettò giù con un salto.

«Sennar!» urlò Nihal.

Il mago alzò gli occhi e la vide sporgersi e tirare un sospiro di sollievo. Quindi riprese a planare in aria.

La levitazione a volte era proprio utile.

«Sei un vero Cavaliere...» protestò Nihal. «Si lascia così una dama?»

«Io non vedo dame» rispose lui «solo audaci Cavalieri...»

Nihal rise e iniziò la discesa. Per il primo tratto se la cavò senza problemi. All’ultimo però la mano sinistra la tradì e lei cadde rovinosamente al suolo. Si tirò su in fretta e furia.

Sennar non perse l’occasione. «La prossima volta mi toccherà portarti in braccio...»

«È colpa del freddo» si giustificò la mezzelfo, imbarazzata. «Non sento più le mani, sono congelate.» Si ricompose e sguainò la spada.

Anche Sennar tornò serio e si preparò a recitare un incantesimo.

La strada si snodava per alcune braccia innanzi a loro. Era così stretta che avrebbero dovuto camminare in fila indiana. Da un lato c’era una ripida parete di roccia, dall’altro un profondo baratro; oltre, ancora roccia.

«Vado avanti io» propose Sennar.

Nihal non mosse obiezioni e si incamminò dietro di lui. Procedettero con cautela, perché il terreno era ghiacciato e sarebbe bastato un passo falso per cadere di sotto. Una volta arrivati in fondo a un rettilineo, il sentiero continuava intorno al fianco della montagna. Nessuna traccia di fammin. Il paesaggio non era cambiato, tanto che avrebbero potuto credere di trovarsi ancora nella Terra del Sole. Ma adesso erano in territorio nemico.


Per completare la discesa dai Monti della Sershet impiegarono quattro giorni. Il versante delle montagne che dava sulla Terra dei Giorni era meno aspro di quello della Terra del Sole e il secondo giorno la tempesta era cessata.

Nihal sapeva che erano partiti dalla base i primi di marzo e dunque calcolò che doveva essere marzo inoltrato, ma a giudicare dal freddo si sarebbe detto che fosse ancora pieno inverno. Il panorama adesso era ben diverso dai pendii boscosi delle montagne della Terra del Sole; qui l’erba era rada, di un giallo malaticcio. Per il resto nient’altro che roccia. Roccia contorta, mangiata dal vento e dal gelo, aspra e scolpita. In quattro giorni di marcia, neppure una volta avevano visto il sole; non riuscivano neanche a intuire dove fosse, attraverso la cappa delle nubi.

«Sarà un bel guaio se il tempo non migliora» osservò Sennar con il naso al cielo.

«Perché? Possiamo usare la magia per orientarci.»

«Preferirei non farlo da queste parti; i maghi sentono gli altri maghi. Potrebbero riconoscerci.»

Mentre scendevano a valle, Nihal si coprì con il mantello e Sennar fece lo stesso.

Camminavano in fila indiana, al tramonto, quando, svoltata una curva, capirono di essere arrivati. Innanzi a loro apparve il panorama della Terra dei Giorni.

11 Il viaggio di Laio

La mattina della partenza di Sennar e Nihal, Laio si svegliò tardi e pensò che i suoi compagni di viaggio fossero in giro per la base, così si voltò nel letto e riprese a dormire. Si alzò che il sole era alto e uscì dalla tenda.

Dopo qualche tempo si stupì di non avere incontrato Nihal o Sennar e iniziò ad avere i primi dubbi. La base non era grande, se fossero stati in giro li avrebbe incrociati.

Quando neanche a pranzo li vide, non perse tempo a mangiare e corse da Nelgar.

Non appena lo vide entrare, il generale si fece cupo in volto. «Come mai qui?» chiese.

«Vorrei sapere dove posso trovare Nihal. Alla mensa non c’è ed è tutta la mattina che non la vedo.»

Nelgar abbassò lo sguardo. «Manderò a cercare lei e Sennar dopo pranzo» disse sbrigativo.

«Non sapete dove possano essere?» insistette Laio.

«Non lo so» rispose Nelgar, poco convinto.

«Cosa mi state nascondendo?» I sospetti di Laio aumentavano.

Nelgar cedette al primo assalto. Infilò una mano sotto la casacca e tirò fuori una pergamena. Gliela porse senza dire una parola.

Laio aprì il foglio e lesse.

Mi spiace, mi spiace davvero. Ci ho pensato a lungo, ho riflettuto e ponderato; credimi, non è stato facile. Alla fine, questa mi è sembrata la decisione migliore. Sono partita. Se tutto va bene, quando leggerai questa lettera sarò già in marcia. Spero che tu mi possa perdonare.

Non lo faccio perché penso che tu sia inutile, né perché non ti voglio con me. Mi hai salvato la vita e non lo dimenticherò mai. Io ho bisogno di te, proprio per questo non posso permetterti di venire. Non potrei sopportare che ti accadesse qualcosa di male. Non mi seguire, fallo per me. Resta alla base o vai da Ido, forse sarebbe la cosa migliore. L’esercito ha ancora bisogno di te e a Ido serve un bravo scudiero.

Per fare la tua parte non devi venire con me. Il tuo lavoro ti attende nelle Terre libere e io te le affido. Quando tornerò, sarà per il giorno che tutti aspettiamo. Tu mi metterai addosso la mia armatura e mi passerai la spada, come sempre.

Abbi cura di te,

Nihal

Laio piegò la lettera senza lasciar trapelare alcuna emozione, anche se quella che aveva dipinta sul volto era un’espressione troppo seria per lui. «Vorrei una spada e un cavallo» disse in tono pacato.

«Hai letto bene?» chiese Nelgar.

«Certo» rispose Laio, sempre serissimo.

«A cosa ti servono un cavallo e una spada?»

«Mi conoscete, non c’è bisogno di chiederlo.»

Nelgar sospirò. «Mi è stato detto di impedirti in ogni modo di seguirla.»

«E io farò di tutto per seguirla. Per questo vi chiedo, in nome di tutto il tempo in cui ho vissuto qui, di evitare scenate inutili e lasciarmi andare.»

«Non posso.»

Laio sentì d’aver ritrovato la stessa determinazione che quasi un anno prima lo aveva spinto a mettersi contro suo padre, pur di poter scegliere da solo il proprio destino. Neppure questa volta si sarebbe fermato. «Datemi il cavallo e la spada.»

«Se non la pianti, ti faccio mettere ai ferri» intimò Nelgar.

«Non basteranno a fermarmi.»

«Questi sono capricci!» sbottò Nelgar. «Lo sai che è pericoloso andare in territorio nemico. Nihal ha solo voluto salvarti la pelle.»

«Nihal ha voluto decidere per me, ma io non sono un bambino, anche se tutti continuate a trattarmi come tale. Sono più utile con lei che qui. Non è un capriccio, è la mia decisione» disse con voce dura.

«Se questa è la tua decisione, non mi dai molta scelta.» Nelgar chiamò due guardie. «Chiudetelo in una stanza e sorvegliatelo.»

I due uomini si guardarono, poi uno di loro parlò: «Ma... è uno dei nostri...».

«Non discutete e obbedite!» tagliò corto Nelgar.

I soldati si volsero verso Laio. Lo scudiero tentò una debole difesa, ma i due erano molto più forti di lui. In breve le guardie lo immobilizzarono.

«Se credete che mi arrenderò, siete un illuso» urlò lo scudiero mentre veniva portato via.


Laio trascorse la notte rinchiuso in una stanza umida e buia. All’inizio gli vennero le lacrime agli occhi. Provava una frustrante sensazione di impotenza, ma soprattutto si sentiva uno stupido. Gli sembrava di essere tornato ai tempi dell’Accademia, quando era il più debole degli allievi e tutti lo prendevano in giro.

Passò la notte a pensare a un modo per fuggire dalla base. Con un po’ di fortuna, forse non sarebbe stato troppo difficile. Non era un nemico e dunque non lo sorvegliavano con eccessivo rigore. Non gli avevano legato le mani e non lo avevano neppure perquisito prima di imprigionarlo.

Studiò le pareti della stanza; erano fatte di grosse pietre squadrate ammassate l’una sull’altra e una pareva leggermente smossa. In un giorno di lavoro sarebbe riuscito a spostarla abbastanza da ritagliarsi una via di fuga. Controllò nelle tasche e scoprì di avere ancora con sé il vecchio coltello che usava quando viveva da solo nella foresta, prima di diventare lo scudiero di Ido e poi di Nihal. La lama era poco affilata, ma per i suoi scopi sarebbe andata bene. Doveva solo grattare via la calce che ancora univa quella pietra alle altre.

Per tutto il giorno Laio poté affaccendarsi intorno alla parete quasi senza interruzioni. Solo a metà mattina e a metà pomeriggio entrò una guardia, per portargli il cibo e controllare cosa faceva, e in quelle occasioni Laio si rese conto di quanto il lungo viaggio con Nihal e Sennar avesse affinato le sue percezioni. Entrambe le volte, infatti, sentì arrivare la guardia in tempo per accumulare la polvere di calce in un angolo e gettarvi sopra le coperte, poi si sedette innanzi alla pietra, in modo tale che chi entrava non si accorgesse di nulla.

La seconda notte di prigionia fu pronto a evadere. Quando fece buio, Laio sgattaiolò fuori. Ebbe la fortuna dalla sua: la sentinella sonnecchiava in un angolo. Laio si avvicinò in punta di piedi e gli sfilò la spada che gli pendeva al fianco. Quindi si avvolse in un mantello nero e si apprestò a uscire dal recinto che circondava la base.

A malincuore dovette rinunciare all’idea del cavallo: andarsene per la porta principale sarebbe stato troppo complicato, meglio scavalcare. Scelse un punto che gli sembrava più agevole e meno sorvegliato, si arrampicò e si calò dall’altra parte.

Una volta fuori, iniziò a correre attraverso il bosco.


Procedette più spedito che poté, dapprima di corsa, poi, quando iniziò a mancargli il fiato, a passi rapidi. Voleva allontanarsi il più possibile dalla base, prima che facesse giorno e che qualcuno si mettesse sulle sue tracce.

Vagò per tutta la notte, senza meta. Fu solo al sorgere del sole che si pose il problema di dove andare. Sapeva che doveva dirigersi verso il confine cercando di evitare di incappare nella linea del fronte, ma le sue informazioni in proposito risalivano a un anno prima, quando ancora viveva alla base, e non aveva idea di quanto fosse avanzato l’esercito nemico.

Si fermò al limitare della foresta, a ponderare il da farsi. Non conosceva neppure la geografia della Terra del Sole, fatta eccezione per la strada per Makrat. Mentre si sforzava di ricordare almeno com’erano i confini, si sentì perduto. Non aveva la più pallida idea di cosa fare e gli sembrò che il suo viaggio fosse finito prima ancora di iniziare.

Lasciata la foresta iniziò a camminare nella piana. Attraversò una vasta zona dove non sembrava esserci traccia di eserciti e pensò che forse era quello il punto migliore per valicare il confine. Marciò per l’intera mattinata. Tutta la sua sicurezza era svanita e iniziava a pensare che era stato da stupidi disobbedire agli ordini di Nelgar e Nihal.

Quando fu a poca distanza dalla frontiera, intravide una linea nera all’orizzonte. Davanti a lui, in lontananza, c’era l’esercito schierato. Non poteva varcare il confine in quel punto. Come se non bastasse, si rese conto di non avere provviste e il viaggio si prospettava lungo. L’unica cosa che gli restava da fare era cercare un villaggio.

In mezza giornata di marcia riuscì a intravedere le prime case di un paesello. Non erano altro che poche abitazioni, una decina in tutto, raccolte attorno a una piazza centrale oblunga. Il fronte non era distante e la paura aveva svuotato le strade. C’era però una locanda ancora aperta, con un locale dove rifocillarsi e una stalla adibita a ricovero per uomini e animali. Per fortuna, Laio aveva parecchi soldi con sé. Era lui a custodire il denaro quando viaggiava con Nihal e Sennar e non lo abbandonava neppure quando dormiva.

Mangiò e decise di chiedere consiglio a qualcuno della locanda. Il gestore, un omone con la pancia rotonda e l’espressione gioviale, gli ispirava fiducia. Si avvicinò e gli chiese quale fosse la situazione del fronte.

L’uomo lo squadrò insospettito e posò gli occhi sulla sua spada. «Non sei un soldato?» domandò.

Laio arrossì. «Sono uno scudiero, devo raggiungere il mio Cavaliere.» In un certo senso, era stato sincero.

«Si combatte a una decina di miglia da qui» rispose il locandiere, più rilassato. «Ci sono postazioni dell’esercito lungo quasi tutto il confine. L’unica zona sguarnita è quella dei Monti della Sershet. Lì, solitamente, non si spingono nemmeno i fammin.»

Dunque, doveva valicare la montagna. Il tragitto, a quanto gli disse il locandiere, era piuttosto lungo e Laio aveva già un bello svantaggio su Nihal e Sennar. Lo scudiero fece un paio di conti e giunse alla conclusione che se spendeva tutto quello che aveva era in grado di comprare provviste sufficienti per il viaggio e anche un cavallo. Così fece e subito dopo avere finito di mangiare montò sulla sua nuova cavalcatura e partì.


Galoppò più veloce che poté. Ammesso che fosse riuscito a superare il confine, si poneva il problema di come trovare Nihal. Non sapeva dove fosse diretta, non aveva idea di dove si trovasse il santuario e non poteva neppure fermarsi a chiedere in giro, visto che sarebbe stato in territorio nemico.

Cercò di ragionare con calma. Il santuario doveva trovarsi in un luogo poco accessibile, come i precedenti, e una volta ottenuta la pietra Nihal e Sennar avrebbero preso la via più breve per passare il confine della Terra della Notte. Avrebbe potuto raggiungerli in quella Terra. Suo padre era fuggito da là quando lui era ancora un bambino e gliela descriveva spesso nei suoi racconti. Laio era abbastanza sicuro di potersi orientare. Consolato da quel pensiero, procedette verso i Monti della Sershet.


Iniziò la scalata quattro giorni dopo la partenza. Rammentava per sommi capi come funzionavano i valichi; Ido gliene aveva parlato molto tempo prima, mentre lui gli lucidava l’armatura. Il ricordo dei racconti dello gnomo, però, erano vaghi e contraddittori, così alla fine Laio decise di gettarsi sul primo passo che incontrò. Fu proprio questo che lo tradì.

Galoppò rapido verso il valico, senza prendere precauzioni. Quando lo raggiunse imperversava una bufera e Laio non riuscì a distinguere il muro fortificato che gli si parava di fronte. Il passo gli sembrò in buone condizioni, così ringraziò la sua buona sorte e spronò il cavallo.

Procedeva spedito, quando tutto d’un tratto si imbatté in una pattuglia di fammin che ispezionava le pendici della montagna.

Laio ebbe appena il tempo di vedere i nemici che avanzavano verso di lui, quindi si diede alla fuga. Il primo a essere abbattuto fu il cavallo, ma lo scudiero non si perse d’animo. Cadde a terra, si rialzò e iniziò a correre a perdifiato su per la montagna, la spada in pugno. L’ultima volta che aveva combattuto era stato a casa del padre, quando Pewar l’aveva costretto a duellare contro uno dei suoi soldati per convincerlo a diventare Cavaliere. Cercò di non scoraggiarsi e strinse con più forza la spada. Se fosse morto in quel luogo, tutto sarebbe stato inutile.

La sua corsa ebbe fine ai piedi di una parete rocciosa. Non c’era speranza di valicarla. Restava un’unica cosa da fare: Laio si voltò e si scagliò sui suoi inseguitori. Riuscì a ferirne uno, ma in breve fu sopraffatto; sentì la lama di una spada ferirgli una spalla e un dolore lancinante attraversarlo da capo a piedi. Svenne e fu in potere dei nemici.

12 Nel deserto

Nihal si era spesso chiesta come fosse la sua Terra e si era convinta che fosse un luogo meraviglioso, pieno di boschi e di fonti di acqua pura, dove il sole splendeva sempre e la primavera era eterna. A volte, in sogno, aveva visto panorami, città, maestosi palazzi. Quel che si presentava ai suoi occhi non poteva essere più lontano da ciò che aveva immaginato.

Ai suoi piedi si stendeva una sterminata pianura di un colore giallo spento, in mezzo alla quale spiccavano agglomerati informi di costruzioni, che volevano assomigliare a città, ma non erano altro che una grottesca caricatura. Erano collegati da strade bianche, larghe e dritte, a formare una ragnatela che feriva la terra. Da più punti si alzavano fitte colonne di fumo che appestavano l’aria. Qualche macchia di alberi si faceva largo in quella desolazione, ma erano di un verde smorto e agonizzante.

Nihal spaziò con lo sguardo su quel paesaggio. Non c’erano altro che desolazione e sconfortante monotonia. A est, si stendeva molle il deserto, che allungava le sue mani sabbiose verso la pianura. A ovest, si notava una vasta zona verdognola, segnata da larghe pozze nere. Una palude.

Fu lì che Nihal scorse qualcosa che attirò la sua attenzione. Strane costruzioni bianche si stagliavano su quel verde malato. Non seppe perché, ma le fecero tornare alla mente qualcosa di noto. Chiuse gli occhi e sul nero delle palpebre si affollarono i ricordi. Vide la Terra dei Giorni, com’era stata cinquant’anni prima, quando ancora non conosceva la furia dei fammin e la crudeltà del Tiranno. Vide una terra rigogliosa, ricca di foreste, alternate a vaste pianure dove i fiori dipingevano un mosaico di colori. E c’erano molte città, bianche alte e splendenti, con pinnacoli. In fondo, a sud, si intravedeva un lago, nelle cui acque il cielo si specchiava tanto limpido che sembrava che un pezzo del firmamento fosse stato precipitato sulla Terra dagli dèi come dono a quel popolo operoso. E boschi ovunque, rigogliosi, in tutte le tonalità del verde: cupo dove la vegetazione era più fitta, chiaro dove gli alberi avevano da poco messo le foglie, color smeraldo dove l’acqua fluiva dalle sorgenti. Quella era la Terra dei Giorni, la Terra in cui i suoi antenati avevano vissuto per secoli, la Terra che lei sentiva di amare e a cui sentiva di appartenere. Era il luogo dove non poteva sentirsi straniera.

Sono a casa... finalmente sono a casa...

Poi aprì gli occhi e la realtà ebbe il sopravvento. Nulla di quello che aveva visto esisteva più. I boschi erano stati divorati dal deserto, abbattuti dai fammin per costruire armi e far posto alle caserme. I prati e i fiori erano stati soffocati dal fumo. L’acqua pura e l’aria limpida erano state risucchiate dal Tiranno. Anni di dominio di quel mostro avevano spazzato via tutto quanto vi era di bello in quella regione, neppure il ricordo era rimasto. Gli unici brandelli di memoria erano affidati a Nihal, che poteva vedere quei luoghi con lo sguardo di chi un tempo vi aveva vissuto.

«Nihal, che hai?» chiese Sennar preoccupato.

Nihal si riscosse. Sentì le guance bagnate e si accorse di aver iniziato a piangere. Si asciugò gli occhi con il dorso della mano e indicò lontano, verso la palude. «Là sorgeva Seferdi, la capitale, la Bianca. Si diceva che il cristallo del palazzo reale fosse il più lucente di tutto il Mondo Emerso e che lo si vedesse brillare a leghe di distanza.» Indicò un altro punto. «Laggiù c’era la Foresta di Bersith, che Nammen amava.»

«Tu come lo sai?» chiese Sennar in un sussurro.

«L’ho visto, tramite gli spiriti. Che hanno fatto della mia Terra?»

Sennar andò da lei e la abbracciò.


Per scendere a valle presero ogni precauzione, cercarono i sentieri meno battuti e le vie più impervie. Avrebbero allungato il cammino, ma era il modo più sicuro. A quel che avevano visto, l’immensa pianura che ora era la Terra dei Giorni brulicava di fammin.

Impiegarono un giorno in più di marcia e quando calò la sera si rifugiarono in una caverna buia e umida, che avevano individuato nel fianco della montagna. Lì Nihal si apprestò a interpellare il talismano. Le fu difficile concentrarsi, perché le voci che le riempivano la testa erano diventate incessanti. Alla fine riuscì a vedere la direzione da seguire.

«Nel deserto, un palazzo... ancora a est.»

«Fantastico, questa Terra è tutta un deserto...» commentò Sennar. «Soltanto per raggiungere questo maledetto posto ci abbiamo messo due settimane. E si gela, nonostante sia primavera.»

Decisero che avrebbero costeggiato le montagne fino a lasciarsi alle spalle le città e raggiungere le prime propaggini del deserto. Durante i primi giorni di cammino si sentirono sicuri, sembrava che a ridosso dei Monti della Sershet non vi fossero né guardie né villaggi, solo zone desolate.

Col passare del tempo, Nihal era sempre più scostante e distratta. Quando Sennar cercava di rivolgerle la parola, la mezzelfo rispondeva a monosillabi. Non riusciva più a scacciare le voci, le parlavano in continuazione. Era come un canto, un suono ritmato che scandiva i suoi passi e di cui spesso non capiva neppure il significato. Erano parole, voci, sospiri, urla a volte, frasi sconnesse che raccontavano storie di morte e stragi. Quando calava la notte e riusciva ad assopirsi, i sogni la tormentavano al punto che aspettava con ansia i suoi turni di guardia.


Quando Nihal immaginava il deserto, pensava a tramonti vermigli su mari di sabbia increspata dalle dune, a un luogo desolato, ma di una bellezza particolare e selvaggia.

Il luogo in cui giunsero all’alba del quinto giorno di marcia, però, era ben diverso. Qua e là si ergeva qualche duna, ma per lo più era un terreno duro e arido, ricoperto di ciottoli grigi. Anche la scarsa vegetazione aveva un che di minaccioso. Erano piante marroncine o verde acido, ricoperte di lunghe spine e di strani fiori. Si allungavano verso il cielo plumbeo in forme grottesche e proiettavano sul terreno ombre lugubri.

Faceva freddo. Il sole non riusciva a fendere la coltre delle nubi e le ore si susseguivano identiche: non vi erano cambiamenti nella luminosità del cielo. L’alba si manifestava con un triste chiarore pallido a est, che tingeva appena di bianco le nubi grigie, poi la giornata si srotolava fra la perenne penombra delle nubi e lo stridore dei corvi; infine arrivava uno squallido tramonto giallino, che si portava via quel po’ di luce che aveva illuminato le ore diurne. Le notti erano gelide e silenziose.

Di lì a tre giorni i vettovagliamenti finirono e dovettero iniziare a cibarsi delle radici che avevano raccolto al limitare del deserto. Avevano ancora acqua, ma non sarebbe durata più di una settimana e loro non avevano idea di quanta strada avessero ancora davanti. Ovunque guardassero c’erano solo deserto, ciottoli e quelle maledette piante contorte, che sembravano ridere di loro.

Lentamente, persero la cognizione del tempo. Non sapevano più da quanto stessero vagando per quel deserto. Le notti si susseguivano ai giorni, la luce diminuiva e aumentava, ma nessuno dei due avrebbe saputo dire dove fosse l’est, o l’ovest. Erano nel bel mezzo del nulla. Nihal era sul punto di impazzire e Sennar si sentiva impotente.

«Non un passo di più!» urlò a un tratto Nihal. Cadde in ginocchio. «Portami via da questo posto! Portami via! Falli tacere! Tacete!»

Sennar si gettò su di lei e la abbracciò. In quel momento, un vento gelido si alzò e piombò rapido sul deserto.

«Dobbiamo allontanarci da qui! È una specie di tempesta!» gridò Sennar. Nihal restò a terra, come se non lo sentisse. «Ti prego, alzati!» insistette il mago, ma lei era immobile.

Sennar allora la prese tra le braccia e iniziò a camminare alla cieca nel vento. La polvere che si era alzata gli impediva di vedere dove andava e non poteva neppure recitare una formula per orientarsi, perché non aveva la più pallida idea di che cosa cercare.

«Tieni duro! Vedrai che passerà presto» la esortò, senza ottenere risposta. «Parlami! Dimmi qualcosa!»

Sentì soltanto una mano fredda stringergli la casacca vicino al petto.

13 Thoolan o dell’oblio

Sennar e Nihal furono travolti dalla tempesta. In pochi minuti tutto si tinse del grigio della polvere.

Era impossibile proseguire. Sennar andava avanti alla cieca e trascinava con sé la ragazza, che sembrava aver perso conoscenza. Alla fine il mago cadde in ginocchio e pensò che non restava nulla da fare se non lasciarsi seppellire dalla sabbia. Poi, una flebile voce lo chiamò.

Sennar abbassò il capo e scoprì che era Nihal a parlare, in tono tranquillo. «Sento una gran pace... va’ avanti, dritto davanti a te.»

Il mago capì che dovevano proseguire. Così si fece forza e riprese ad avanzare.

«Avanti... ancora... sento che piano piano la testa si svuota...» continuò Nihal.

Alla fine anche a Sennar parve di intravedere qualcosa in fondo a quel grigio, una luce. Il vento a poco a poco si fece meno teso, poi cessò del tutto. D’un tratto, calò una calma innaturale.

Innanzi a loro c’era uno strano palazzo, dal quale sembravano avere origine tutti i venti che li avevano sferzati fin lì. La costruzione aveva una struttura cubica, sulla quale si innestava una serie di parallelepipedi, piramidi e poliedri che lo rendevano una sorta di guazzabuglio. La cosa più insolita era una grande ruota di mulino, in legno, che troneggiava in un angolo. Un rivolo d’acqua scorreva in una condotta che seguiva il perimetro esterno del muro, poi colava sulla ruota e la metteva in movimento. Invece di formare un fiumiciattolo, però, proseguiva il suo corso sfidando la legge di gravità e scorreva nella direzione opposta, in un’altra condotta che costeggiava il basamento del palazzo, sollevato di qualche spanna da terra. Saliva infine per il muro e di nuovo si incanalava nella prima condotta. Era un ciclo infinito e inspiegabile.

Le mura erano quasi tutte decorate, ma non c’era un dipinto che fosse in stile con l’altro. Da una parte c’erano disegni geometrici, da un’altra un ampio affresco, altrove un mosaico, più in là una vetrata. I colori erano tutti in stridente contrasto fra loro. Non sembrava un palazzo, ma un insieme raffazzonato di pezzi di edifici diversi assemblati da un cieco.

«Ora puoi mettermi giù, sto bene» disse Nihal.

Sennar distolse lo sguardo dal palazzo e obbedì. «Sei sicura che sia tutto a posto?» le chiese.

Nihal gli sorrise. «Tutto d’un tratto, sento la testa sgombra» disse. Prese un respiro profondo e assaporò l’improvviso silenzio nella sua mente. Era stato davvero terribile. Levò gli occhi sulla costruzione. «È il santuario.»

«Che ne pensi?» chiese Sennar.

«Mi sembra che voglia proteggermi e mi invita a entrare.»

Una scalinata conduceva all’ingresso, una porticina sulla facciata principale. Sopra vi era una specie di ballatoio da cui penzolavano alcune piante. Tra esse spiccava un albero maestoso, benché non si capisse come potesse stare in quello spazio angusto.

«Può darsi che tu abbia ragione, ma a me questo posto mette i brividi» disse Sennar. La scostò da parte per passare avanti. «Almeno, se c’è qualche pericolo, ne farò io le spese.»

«Guarda che non c’è bisogno che tu faccia sempre questa manfrina» ribatté Nihal, ma lui era già entrato.

Lei lo seguì e appena mise piede in quel luogo, perse tutta la sicurezza che aveva provato fino a poco prima. L’interno era a dir poco sconcertante, non si riusciva a decidere da che parte guardare quella costruzione. Era tutto un intrico di scale che salivano, scendevano, svoltavano a destra, a sinistra, ovunque. Non si capiva da dove provenissero e dove conducessero, basso e alto non sembravano avere alcun senso. C’erano porte su quello che avrebbe dovuto essere il soffitto e lampade che pendevano dal pavimento. Un labirinto. Eppure, Nihal sentiva che il silenzio nella sua testa e l’improvviso benessere che sperimentava provenivano da quel luogo.

«E ora?» chiese Sennar.

«Non ne ho idea.»

Il mago avanzò e Nihal cercò di guardarsi meglio intorno. In alto c’erano due porte, altre tre pendevano a destra, cinque erano aperte sulla sinistra, una sbucava dal pavimento. Tutto intorno, scale a non finire.

«Forse potresti fare un incantesimo» propose la mezzelfo.

«Per cercare cosa? Qui non si capisce nemmeno qual è il sopra e qual è il sotto.»

«Allora non resta che tentare» disse Nihal, quindi prese la prima scala che vedeva innanzi a sé.

Sennar la seguì. La salita parve non finire mai. Una volta in cima, trovarono solo un muro che sbarrava loro la strada.

«Evidentemente mi sono sbagliata» disse Nihal.

Iniziò a scendere. La scala lungo la quale procedevano, però, non aveva nulla a che fare con quella che avevano percorso per salire. Era la stessa identica scala, eppure era completamente diversa. La discesa infatti fu molto più breve e la stanza in cui arrivarono non quella da cui erano partiti.

«Ma non siamo saliti per questa scala?» chiese Sennar.

«Direi di sì. Io sono arrivata al muro, mi sono girata e sono scesa. Non ce n’erano altre.»

Eppure la stanza era diversa: innanzi a loro, ora, c’era una sola porta. La varcarono e giunsero in un’altra stanza. Anche lì c’era solo una porta, passarono oltre e trovarono una terza porta. La attraversarono, ma ce n’era ancora una, e poi un’altra, e poi un’altra ancora, e ancora. Superarono un’infinità di porte, sempre più piccole, e alla fine giunsero in un’ennesima stanza, stavolta tappezzata solo di scale, senza porte.

Nihal si gettò sulla prima che le capitò e la salì con rabbia fino in cima. Quando fu in alto, un baratro senza fondo si spalancò innanzi ai suoi piedi.

Fu Sennar a prendere in mano la situazione. «Ho letto qualcosa sui labirinti. Mi sembra di ricordare che bisogna tenere una mano appoggiata a una parete e procedere senza mai staccarla. Forse possiamo venirne fuori.»

Sennar appoggiò la mano destra sulla parete più vicina e iniziò a camminare, Nihal lo seguì. Scesero una serie di scale, varcarono varie porte e giunsero infine in un grande salone privo di uscite. Si guardarono intorno e, quando si voltarono, anche l’ingresso da cui erano entrati era scomparso.

«Ma che diavolo...» mormorò Sennar.

Nihal si guardò intorno sperduta.

E ora?

Vide Sennar innanzi a lei, che le dava le spalle. Vide la sua schiena fremere, poi il mago alzò una mano. Un raggio partì e sfondò il muro.

Sennar si voltò verso di lei. «Ora c’è una porta» disse, poi si diresse spedito verso il varco.

Quella però fu solo una soluzione momentanea. Una volta fuori dal salone si trovarono di nuovo a vagare in un labirinto di sale, scale e porte.

Camminarono per un tempo indefinibile, si arrabbiarono, cercarono la concentrazione, Sennar provò con mille incantesimi, alla fine si arresero e si sedettero su un piccolo ballatoio.

«Io non so più che inventarmi» disse Sennar.

Nihal teneva la testa fra le ginocchia e guardava il pavimento. Almeno non sentiva nessuna voce. Era già qualcosa. «Quanta strada avremo fatto finora?» chiese.

«Non so... saranno un paio d’ore che giriamo, ma se va avanti così, non so se usciremo mai da qui.»

«Che cosa stai dicendo?» sbottò lei, stupita. «Saranno almeno due giorni che vaghiamo.»

«Sei pazza? Non abbiamo mai mangiato... E poi non è possibile, se conti le sale che abbiamo visitato non saranno più di una trentina... Non è molto che siamo qui.»

«Altro che trentina... io ho perso il conto a cento» disse lei. Sentì un rivolo di sudore freddo colarle per la schiena.

«Hai contato le sale?» chiese Sennar in tono impaurito.

«Fino a un certo punto... ieri sera ho perso il conto.»

«Nihal, non c’è stata nessuna sera!»

«Sì che c’è stata! Ci siamo fermati nella sala tonda, quella con le colonne, e abbiamo dormito un paio d’ore.»

«Io non ho dormito.»

«L’hai fatto, hai usato il mantello come cuscino.» Prese il suo mantello e glielo porse. «Non vedi che è stropicciato?»

Sennar lo afferrò. In effetti sembrava fosse stato arrotolato. «Abbiamo mangiato?» chiese.

«Sì.»

«Cosa?»

«Due di quelle radici che abbiamo raccolto, e abbiamo finito il secondo orcio d’acqua.»

Sennar prese il sacco con le radici e lo aprì. Non ne mancava nessuna e l’orcio era pieno.

Nihal lo guardò. «Io sono sicura che abbiamo mangiato, sono sicura che abbiamo dormito...»

«E io sono altrettanto sicuro che non l’abbiamo fatto.»

La mezzelfo scattò in piedi e sguainò la spada. «C’è qualcuno che sta giocando con noi...» Si guardò intorno, ma non vide nulla.

«Non può che essere il guardiano.»

Nihal si voltò di scatto.

«Che c’è?» chiese Sennar.

«Un rumore. Seguimi.»

Nihal iniziò a salire la scala e Sennar la imitò. Corsero su e giù per i gradini, alla ricerca di qualcosa o qualcuno che potesse tirarli fuori da quell’incubo. Presto però Nihal si rese conto di aver perso la traccia che credeva di avere trovato.

«Niente da fare» disse sconsolata. «Devo essermi sbagliata.» Si voltò e non vide nessuno nella sala. Non riusciva nemmeno a capire da dove fosse entrata. «Sennar...» chiamò debolmente, ma le rispose solo la sua eco. «Sennar!» ripeté con più decisione. Nulla. «Sennar!» gridò, poi iniziò a correre a perdifiato.

Dove sono? Che fine ha fatto Sennar?

Era talmente fuori di sé che non badò a dove andava e non si accorse che la luce si faceva sempre più fioca, fino a scomparire del tutto. Infine fu sola, nel buio più totale. Non sapeva quanto fosse grande la sala dove si trovava, né che forma avesse. Non sapeva da dov’era entrata. Si fermò e il cuore iniziò a batterle all’impazzata. Fu presa dal panico. Tese le braccia al buio per cercare una parete, ma le sue dita toccarono l’aria.

«Dove sono? Sennar! Sennar! Dove sei?» Avvertì una presenza e allungò la spada innanzi a sé. «Chi sei?» urlò.

Una debole luce illuminò lo spazio intorno a lei e si udì una voce.

«Benvenuta.»

«Dov’è Sennar?» chiese Nihal, prima ancora di domandarsi dove fosse e con chi stesse parlando.

«È al sicuro, sta visitando il mio palazzo» disse la voce.

Nihal si guardò intorno, ansiosa. Sulle pareti della stanza si aprivano ampie arcate sorrette da massicce colonne. Ce n’era perfino una sul tetto. Attraverso di esse Nihal poteva vedere il cielo notturno: aveva un aspetto strano, luminoso, ed era denso di enormi stelle e pianeti che lei non conosceva.

«Portami da Sennar, ti prego...» implorò.

Dall’arcata sul tetto emerse la figura di una vecchia, i lunghi capelli bianchi annodati in una candida coda. Aveva un volto sereno ma severo e portava una lunga veste bianca, stretta in vita da una corda argentata. Incedeva maestosa e la prima cosa che Nihal notò furono i suoi occhi, d’un blu profondo.

«Lui è al sicuro, non vedi?» disse.

Attraverso un’arcata, Nihal vide il mago che saliva una scala.

«Perché non parliamo un po’ io e te da sole, Sheireen?» aggiunse la vecchia.

Quando udì quel nome, Nihal trasalì.

La vecchia ricomparve in un’altra arcata, al suo fianco. «Perdonami, non avrei dovuto chiamarti con il nome che odi. Tu sei Nihal, vero?»

«Chi sei?» chiese la ragazza.

«Thoolan» rispose la vecchia «la guardiana del Tempo, colei che custodisce la quarta pietra che tu brami, perché è per questo che sei qui, giusto?» Indicò con il dito una gemma grigia che le brillava sulla fronte, fra gli occhi.

Nihal si sentì sollevata. «Sì, è per questo che sono venuta» disse con più calma.

«Bene» continuò Thoolan «perché io ho intenzione di dartela, non temere. Credo che tu molto più d’altri ne sia degna.» Tacque un istante, poi aggiunse, quasi a mezza voce: «Se la vuoi te la darò».

Finalmente un guardiano ragionevole, pensò Nihal. «Allora dammela e lasciami andare. Questo luogo mi rende nervosa.»

La vecchia sorrise. «Posso capirti... Io invece lo amo. Qui è tutto come io desidero: il tempo, lo spazio, la vita.»

«Come sai che cerco le pietre?» chiese Nihal. «Gli altri guardiani non ne erano informati.»

«Io governo il tempo» disse Thoolan. «So molte cose che altri ignorano.»

Nihal tacque e attese che le venisse data la pietra, ma la vecchia continuò a guardarla in silenzio. Nihal abbassò lo sguardo.

«Ti chiedi perché non ti do la pietra? Perché so che tu non la vuoi» disse Thoolan sorridendo.

«Sì che la voglio... Mi serve per battere il Tiranno.»

«Non fingere con me, Nihal. Io vivo da mille e più anni, in tanti sono giunti qui ove ora sei tu, in cerca di quel che io posso darti. Riesco a vedere con chiarezza in te, conosco bene la tua stirpe. Tu non vuoi la pietra.» La vecchia si sedette a gambe incrociate e Nihal fece lo stesso. D’improvviso, si fidava di quella donna.

«Nihal, tu non vuoi fare quel che stai facendo. Tu non vuoi questa pietra, così come non volevi le altre. Però devi prenderla, perché se non lo fai il Mondo Emerso sparirà sotto gli artigli del Tiranno. Allora, pur odiando questa missione e il talismano che ti pende al collo, fai quello che devi, perché non sai cos’altro fare. È questo quello che pensi.»

Era vero.

«Ebbene, Nihal, quel che fai non è necessario.»

Nihal sollevò di scatto la testa.

«Tu credi che dal Tiranno venga tutto il male e ti hanno detto che se sarà sconfitto la pace tornerà. Ebbene, non è vero. La pace qui non c’è mai stata.»

«E i cinquant’anni di Nammen?» chiese Nihal stupita.

Thoolan sorrise. «Nammen regnò per un decennio, poi una febbre mortale lo uccise nel fiore degli anni. Dopo di lui ascese al trono un despota, regnò come se tutto, acqua, aria, terra e vita, gli appartenesse. Perché nessuno fosse più potente di lui, uccise e costrinse all’esilio molti maghi, li bollò con il marchio dell’infamia. Condusse una guerra contro i suoi nemici interni e spaccò in due la Terra dei Giorni. Nella Terra del Fuoco, negli stessi anni, Marhen prese il potere versando il sangue del padre di Moli, Daeb, che era divenuto re uccidendo suo padre. Nella Terra dell’Acqua si combattevano invece uomini e ninfe, e i primi volevano scacciare le seconde. Era così ovunque: non c’era la guerra tra le varie Terre, ma in ciascuna di esse si combatteva o v’era ingiustizia.»

«Non può essere come dici» insorse Nihal. «Tutti mi hanno detto che prima del Tiranno regnava la pace!»

«Te lo disse Soana» ribatté la vecchia «ma già Ido ti fece capire che non era così. Non c’era guerra tra Terra e Terra, ma questo non significa che regnasse la pace. Chi non ha vissuto quegli anni ne parla come tempi felici, poiché se gli esseri di questa terra sapessero che mai vi fu pace, perderebbero la speranza e morirebbero.»

«Non può essere come dici...» ripeté Nihal, meno convinta.

«La crudeltà e l’odio sono radicati nel cuore delle creature di questo mondo, e il Tiranno non è altro che il figlio di questo odio: da esso è stato generato e di esso si nutre. Se anche tu oggi lo battessi, domani un nuovo Tiranno sorgerebbe; la vita e la morte si inseguono da sempre, per sempre il bene e il male si combatteranno, è l’essenza di questo mondo. Non è stato il Tiranno a condurre il male in queste Terre.»

Nihal non sapeva più cosa pensare. «Mi stai dicendo che quel che faccio è inutile?»

«Ti sto dicendo che non devi farlo, se non vuoi.»

«Ma i miei simili sono stati sterminati e la gente continua a morire.»

Thoolan sorrise. «Per quelli che sono morti, sai bene di non poter fare nulla. Quanto a quelli che sono vivi, non li puoi salvare tutti, e io so che non è questo il tuo obiettivo. Hai iniziato questo viaggio perché dovevi, ma non senti davvero tua la missione.»

Nihal non seppe che cosa rispondere. La vecchia aveva detto il vero: stava raccogliendo le pietre perché credeva che quello fosse il suo destino, di non avere altro scopo, e perché se non lo avesse seguito, forse non avrebbe saputo che farsene della sua vita.

La vecchia posò su di lei uno sguardo carico di compassione. «Io so quanto tu abbia sofferto: la morte di Livon, lo sterminio del tuo popolo, lo smarrimento. Conosco il tuo cuore e le pene che vi si agitano.»

Nihal si rese conto che nei suoi occhi ora vi era una supplica, un profondo desiderio di essere compresa e consolata.

«So anche che molte volte, in battaglia, hai sperato che la morte ti prendesse.»

«No, ti sbagli» ribatté Nihal. «Io non ho mai desiderato morire; come potrei, sapendo che con me sparirebbe la mia stirpe?»

«Perché menti?» chiese Thoolan addolorata. «Quando combattesti contro il volere di Ido, mentre uccidevi, in cuor tuo sperasti di essere uccisa a tua volta. E quando ti scontrasti con Fen redivivo al confine della Terra dell’Acqua, guardasti con gioia alla sua spada che si abbatteva su di te. In quel momento, non volevi altro che annullarti ed eri contenta, perché la morte veniva per mano dell’uomo che amavi.»

«Non è come dici, ti sbagli...» tentò di controbattere Nihal, ma la sua sicurezza già vacillava. Come faceva quella vecchia a sapere ciò che neppure lei aveva mai ammesso con se stessa?

«Non devi vergognarti del tuo desiderio di morte» disse la vecchia in tono pacato. «È comprensibile e giusto che chi come te ha sofferto molto desideri la cessazione di quel dolore. Del resto, ogni creatura ha diritto alla felicità e sfuggire il male è un bene.»

«Perché mi dici tutto questo e non mi dai la pietra?» chiese Nihal.

«Te lo dico perché ho compassione di te e voglio offrirti la possibilità di raggiungere anche tu la felicità che ti spetta. Questo è il mio regno» proseguì Thoolan «qui io sono padrona e sovrana. Non esistono passato o futuro, l’alto o il basso, tutto è nelle mie mani ed è come io desidero che sia. Ebbene, ti offro di restare per sempre in questo luogo.»

«Anche tu sei impazzita come Glael?» scattò Nihal. «Anche tu non sopporti più la solitudine?»

«No, io amo questo luogo e il suo silenzio. La solitudine è un balsamo per il mio animo, perché grazie a essa io trovo me stessa e comprendo il mondo. Io non ho bisogno d’altri. Quel che ti sto proponendo è molto differente da quel che ti ha chiesto Glael. Io ti offro di stare qui e io ti darò la gioia. In questo luogo il tempo non esiste, pertanto nulla di quanto è accaduto nella tua vita ha importanza qui: tuo padre è ancora vivo, il tuo popolo non è mai stato sterminato, Fen vive e ricambia il tuo amore.»

Mentre Thoolan parlava, lentamente le arcate si popolarono di figure. Nihal vide Livon al lavoro nella sua officina, le strade e le piazze affollate delle città dei mezzelfi, e Fen, con indosso la sua armatura d’oro. Nihal guardò commossa tutte quelle immagini. Quando tese la mano per sfiorare suo padre, intento a forgiare una spada, Livon si volse verso di lei e le sorrise. «Perché non torni a stare nella fucina con me? Ti ricordi quanto ti divertivi da piccola ad aiutarmi?»

Nihal ritrasse la mano spaventata, ma Livon continuava a guardarla. «Da quando in qua hai paura di me?»

«Tutto questo non può essere» disse Nihal. Si voltò verso Thoolan. «Ho visto con i miei occhi Livon morire, e Fen, i mezzelfi, nessuno di loro esiste più. Queste sono solo stupide illusioni!»

Il volto di Thoolan si illuminò in un enigmatico sorriso. «Perché chiami stupide le illusioni? Quelle che vedi sono tutte le persone che hai amato. Le puoi toccare, parlano con te, ti aspettano.»

«Ma non sono reali!»

«Fuori di qui forse non lo sono, ma tra queste pareti sono vere» ribatté la vecchia. «E se anche fossero illusioni, qual è in fin dei conti la differenza con la realtà? Se deciderai di rimanere, questa diventerà la tua realtà e quelle che ora chiami illusioni diventeranno cose reali. Chi può dire se la realtà sia il mondo di dolore che c’è fuori di qui o le consolanti presenze che abitano questo luogo? Solo tu puoi scegliere: sta a te decidere.»

Nihal guardò Livon negli occhi. Sembrava aspettare solo che lei varcasse l’arcata e andasse da lui.

«Qui io esaudirò ogni tuo desiderio. Potrai ricominciare la tua vita daccapo, come se nulla fosse successo. Non avrai più alcun ricordo del dolore patito e diventerai la ragazza normale che hai sempre voluto essere.»

Nell’arcata sul soffitto, apparve l’immagine di una ragazza dalle orecchie a punta e i capelli blu, intenta a riordinare una casa e a dare da mangiare a un’orda di ragazzini vocianti.

«Quella potresti essere tu» disse Thoolan.

Sì, qualche volta l’aveva pensato. Nihal aveva sognato di avere una famiglia, di essere una ragazza come tante, di vivere una vita normale. Non era per realizzare quel sogno che aveva vissuto da Eleusi?

«Nihal, io ti offro quel che hai sempre desiderato: la morte senza la morte. Poco fa, nel deserto, mentre le voci dei fantasmi ti straziavano, hai sognato la pace, una pace che non vuole più farti visita da tempo. La tua pace ora è qui nella mia mano e te ne voglio fare dono. Devi solo allungare le dita e prenderla.»

La pace... Desiderava quella pace? Sì, la voleva. Desiderava ricominciare tutto daccapo? Sì, era l’unica cosa cui tenesse davvero.

«Qui finirebbe la tua ricerca, perché in questo luogo non c’è nulla da cercare e la vita è semplice. Nihal, là fuori ti attende altro dolore, se esci accadranno cose che ti faranno molto soffrire, lo so perché l’ho visto. Ma qui non permetterò mai che ti succeda qualcosa di male.»

Nihal allungò le dita verso l’immagine di Fen. Erano passati più di due anni dalla sua morte, ma ora che lo vedeva, sentiva di amarlo come un tempo. Fen tese la sua mano verso di lei e le loro dita si sfiorarono. Poi la abbracciò, accostò il suo viso a quello di lei e infine la baciò, come tante volte aveva fatto nei suoi sogni. Solo che ora era tutto reale, la sensazione delle labbra sulle sue, il battito accelerato del suo cuore, le mani di lui sulla schiena. Quella era davvero la pace. Perché avrebbe dovuto dire di no a quel sogno? Aveva già patito abbastanza e la sua ricerca non la stava conducendo da nessuna parte. La sua vita era tutta sbagliata e l’unico modo per essere felici era abbandonarla. Del resto, l’aveva detto anche Thoolan, no? Quando si soffre troppo, è giusto sfuggire al dolore.

Era vero, tutto quello che la circondava era reale e, se anche non lo fosse stato, era reale la gioia che provava davanti a quelle visioni. Sì, avrebbe accettato, avrebbe infranto quel maledetto talismano, avrebbe dimenticato tutto e sarebbe rimasta lì. Era da folli rifiutare. Allontanò il volto da quello di Fen. Egli le sorrise benevolo e lei ricambiò, in pace con se stessa. Stava per voltarsi verso Thoolan e dirle che avrebbe accettato, quando sentì una voce rimbombarle nella testa.

«Cosa c’è, Nihal?» chiese Fen preoccupato.

«Io...» iniziò lei, ma non sapeva cosa rispondere. La voce continuava a echeggiarle nella testa.

«Resta qui, Nihal, te ne prego, qui con me. Non badare a null’altro che non sia noi» la implorò Fen.

Nihal si volse verso di lui e gli sorrise distratta, ma sentiva un richiamo in quella voce, sempre più distinto. Si sciolse dall’abbraccio.

Qualcuno chiamava il suo nome, in tono allarmato. Individuò la direzione dalla quale proveniva la voce e vi si diresse. Innanzi a lei si stagliò una delle arcate della stanza e oltre l’arcata c’era Sennar, che vagava per il palazzo e la chiamava. Era sua la voce, suo il richiamo.

«Sono qui, Sennar!» urlò Nihal.

Varcò l’arcata e lo raggiunse.

Sennar si voltò di scatto e la guardò stupito. «Da dove arrivi?»

«Ero con la guardiana» rispose Nihal. Mentre lo diceva, si ricordò dell’offerta, di Fen e di tutto il resto. Si voltò e vide che Thoolan era dietro di lei.

«Questa è la tua risposta?» le chiese grave.

Nihal chinò il capo. «Sì.»

Un sorriso di comprensione illuminò il volto di Thoolan. «Ebbene, se questa è la tua scelta...» Si portò la mano alla fronte e prese la pietra. «Eccoti dunque la pietra. Ti ho messa alla prova, Sheireen, ma sappi che davvero desidero per te la gioia, e che se avessi accettato, tutti i miei poteri sarebbero stati al tuo servizio e ti avrei dato ciò che ti avevo promesso.»

Nihal prese la pietra, mentre Sennar la guardava sempre più confuso.

«Perché ti preoccupi per me?» chiese alla vecchia.

«Perché ho amato molto i mezzelfi e volevo proteggerli prendendomi cura di te.» Sospirò. «Del resto, è meglio che tu trovi da sola la tua strada. Ora, però, hai fatto una scelta, hai deciso di prendere la via più ardua. Tieni fede a questa scelta e cerca la felicità. Sarà difficile, perché prima che il tuo viaggio giunga al termine dovrai patire molto, ma io ho fiducia in te. Sii forte. Per quanto mi riguarda, cercherò di proteggerti dai tuoi sogni. In verità non c’è molto che io possa fare, perché Reis ha impresso un sigillo sul suo incantesimo, ma almeno eviterò che ti tormentino giorno e notte. La mia pietra, dall’amuleto, farà il possibile.»

Nihal la guardò con profonda gratitudine. «Grazie» disse commossa.

«Che aspetti, ora?» rispose brusca la vecchia. «Compi il rito.»

Nihal estrasse il talismano, ma si fermò. «Un’ultima cosa, prima di lasciarci. È vero quel che mi hai detto circa i cinquant’anni di pace o era solo un modo per tentarmi?»

«È tutto vero, purtroppo. È bene che tu ci rifletta, se vuoi comprendere a fondo la natura della tua missione.»

Nihal restò per un istante con l’amuleto a mezz’aria.

«Non indugiare più, Nihal, il mondo che hai scelto ti aspetta» la incoraggiò la vecchia.

Nihal prese la pietra e recitò la formula rituale: «Rahhavni sektar aleero».

Sentì il potere fluire nelle sue mani e la pietra si incastrò nel suo alveo. Tutto d’un tratto, un vento improvviso spazzò le sale di quell’enigmatico palazzo e portò via con sé Thoolan e le sue magie.

Quando il vento si fu calmato, Nihal e Sennar si trovarono al centro di una sala disadorna e scura. Niente scale, niente porte, niente stanze. L’incanto che li aveva avvinti per due giorni era svanito.

14 Il brindisi del traditore

«Come ti senti?» chiese Sennar a Nihal, non appena ebbero lasciato il santuario e furono di nuovo nel deserto.

Nihal rimase un istante in silenzio. «Bene» rispose alla fine. In effetti, le voci erano diminuite, ora erano solo flebili eco.

Sennar tirò un sospiro di sollievo, poi la sommerse di domande. Chi era quella vecchia? Dov’era stata mentre lui la cercava dappertutto? Quale scelta aveva fatto?

Nihal non sapeva che cosa rispondere, era frastornata. Raccontò che Thoolan era la guardina della pietra della Terra dei Giorni, raccontò delle stanze e di ciò che vi aveva visto, raccontò perfino di Fen, ma non parlò del bacio.

«Perché hai deciso di non restare?» chiese Sennar.

«Non lo so... forse tutto mi sembrava troppo falso» rispose, ma non era sicura di quel che diceva. «Forza, dobbiamo rimetterci in viaggio» aggiunse, per porre fine a quella conversazione.

Thoolan aveva lasciato loro un prezioso regalo: orci colmi d’acqua e un po’ di cibo. Sarebbero riusciti a superare il deserto.


Camminarono per sei giorni in quel paesaggio desolato, mentre il vento spazzava la pianura e alzava turbini di polvere. Nihal fu taciturna per tutto il tragitto.

La sesta sera si fermarono per decidere il percorso da seguire.

«Se proseguiamo dritti per il deserto saremo sicuri di non trovare nessun nemico» disse Sennar.

Tirò fuori la mappa sgualcita che usavano nei loro spostamenti. Era molto vecchia, ma era tutto ciò che Sennar aveva trovato sui territori soggetti al Tiranno. Da cinquant’anni a quella parte non erano più state tracciate nuove carte dei territori occupati. D’altra parte, in cinquant’anni le montagne non scompaiono.

«Se andiamo verso sud finiremo su questi monti, i...» Si sforzò di leggere il nome.

«Rehvni» lo interruppe Nihal. «Vuol dire meridionali.»

Lui la guardò. «Certo. Insomma, con un po’ di sacrifici e razionando i viveri, credo che possiamo farcela.»

Nihal era assente.

«Se mi concedessi un po’ più d’attenzione te ne sarei grato» sbottò Sennar. «Da quando sei uscita da quel maledetto santuario mi guardi appena.»

Nihal si riscosse e lo fissò negli occhi. «Se credi che sia la cosa migliore...»

«Certo che lo è» tagliò corto Sennar, infastidito dal disinteresse della ragazza.

Chiuse la mappa e si rimisero in viaggio.

Più procedevano, meno Sennar era convinto della sua scelta. Non incontravano altro che pianura e sassi, e quel biancheggiare di ossa tra le rocce. Continuarono ad arrancare in silenzio.

«Voglio andare a Seferdi» disse Nihal all’improvviso, una sera.

A Sennar cadde a terra il pezzo di carne secca che stava per addentare. «Cosa?»

Nihal abbassò gli occhi. «Hai capito.»

Erano giorni che non faceva altro che pensarci. Sapeva che era un’idea folle e sciocca, che non doveva essere rimasto molto delle città dei mezzelfi e che sarebbe stata una visita straziante, ma era diventato un bisogno insopprimibile. Ciò che aveva visto da Thoolan e le voci dei fantasmi che l’avevano tormentata con il ricordo dello sterminio dei suoi simili avevano lasciato un segno che non poteva ignorare. A mano a mano che proseguivano nel viaggio e si avvicinava il momento di lasciare la sua Terra, Nihal era sopraffatta dalla nostalgia e dalla necessità di vedere qualcosa che le parlasse del suo popolo.

«No, non ho capito» disse Sennar. «Spero di non aver capito.»

«Lo so che è una follia, ma... ne sento il bisogno.»

«Qualche sera fa ti ho chiesto se andava bene per te tagliare per il deserto e mi hai detto di sì. Nella Terra dell’Acqua sei quasi morta, pur di poter viaggiare in fretta, e adesso vuoi attardarti in un territorio nemico?» La voce del mago era tagliente.

«Va bene, hai ragione, ti ho dato poco retta in questi giorni» ammise lei, rispondendo all’accusa nascosta in quelle parole. «E so anche che può essere pericoloso, però...»

«Io non ti capisco» disse Sennar, in un tono più comprensivo. «Perché vuoi rischiare tanto?»

«Perché voglio trovare le mie radici.»

Sennar scosse la testa. «Ti capisco ancor meno. Sei stata allevata da un umano, sei sempre vissuta in mezzo a umani, perché non riesci a considerarti una di noi? Non troverai nulla a Seferdi che non hai già: solo dolore e morte.»

Nihal guardò a terra. «Forse hai ragione, ma non posso rinunciare. Non è facile da spiegare... Sento che qui ci sono le mie radici, a questa Terra è legato quel che sono, quel che avrei potuto essere, quel che sarò. Voglio vedere ciò che è rimasto del mio popolo.»

«Perché vuoi farti del male?» chiese Sennar a bassa voce.

«Devo farlo. Non sarò mai umana, e non sarò mai neppure una mezzelfo, se non vedo Seferdi la Bianca innalzarsi candida tra i boschi. Cerca di capirmi.»

«Faremo come vuoi» si arrese Sennar.


Procedettero dunque verso ovest e in due giorni furono fuori dal deserto. Il panorama che li accolse quasi li costrinse a rimpiangerlo: una sterminata pianura costellata di bubboni neri. Erano torri che si innalzavano nella piana, collegate da vie bianche come cicatrici e circondate da una manciata di costruzioni addossate disordinatamente l’una all’altra. Non c’era nemmeno un albero, solo il grigio accecante della pianura. Inoltre, il deserto almeno era un luogo sicuro, nella sua desolazione, mentre in quella regione c’erano fammin ovunque.

«Pensaci bene» disse Sennar a Nihal, al limitare della piana. «Se vuoi, sei ancora in tempo per cambiare idea. Io andrò a prendere provviste in una di queste... città, e tu mi aspetterai nel deserto. Poi proseguiremo a sud.»

Nihal si calò il cappuccio del mantello sul volto. «Prima ci entriamo, prima ne usciremo» dichiarò inoltrandosi nella piana.

L’ultimo giorno di permanenza nel deserto avevano dovuto digiunare. Era rimasta loro solo dell’acqua. Ora erano affamati e non avrebbero potuto evitare a lungo i centri abitati. Nella mattinata non avevano incontrato fammin, ma nel pomeriggio individuarono delle sagome in lontananza e si stupirono nel vedere che erano uomini.

Il primo era un tizio a cavallo, armato, che non li degnò neppure di uno sguardo e proseguì tranquillo per la sua strada. Il secondo uomo era alla guida di un carro, sul quale era ammassata una decina di fammin in catene. A quella vista, Nihal strinse l’elsa della spada e attese che il carro e quelle bestie che odiava scomparissero dalla sua visuale. Quando infine furono lontani, tirò un sospiro di sollievo e si rilassò.

Verso sera, si avvicinarono a uno di quegli agglomerati di costruzioni che sembravano città. Si trattava di cittadelle fortificate. Erano costruzioni basse, case, locande e armerie, circondate da un alto muro. Nel mezzo dell’agglomerato si innalzava un torrione, il centro nevralgico della cittadella. Tutto era in pietra scura, basalto probabilmente, che conferiva a quelle città un aspetto tetro. Una pioggerellina fitta aveva iniziato a bagnare la pianura e riempiva l’aria di un vago sentore di marcio.

«Non abbiamo scelta, dobbiamo entrare» osservò Sennar.

Fecero il giro delle alte mura che circondavano la città. Vi era una sola entrata, una porta controllata da due fammin. Di sgusciare dentro di nascosto non se ne parlava, dovevano passare dall’ingresso.

«Parlo io. Tu copriti e sta’ zitta» le ordinò Sennar.

Si avvicinarono guardinghi alla porta. Non appena furono a pochi passi, la sentinella spianò la lancia.

«Chi è là?» disse con voce gutturale.

«Mercanti d’armi» rispose Sennar.

«Da dove venite?»

A quanto pareva la scusa era plausibile.

«Dalla Terra del Fuoco.»

«Non sembrate gnomi.»

Nihal pose la mano sulla spada e iniziò a sudare freddo.

«Infatti non lo siamo; siamo uomini dalla Terra del Fuoco. Cerchiamo riparo per la notte.»

Il fammin lo guardò con sospetto. «Cosa porta sotto il mantello l’uomo che è con te?»

Prima che Nihal potesse fare qualcosa, Sennar le scostò il mantello e mostrò la spada. «Una mia opera. Bella, no? Il miglior cristallo nero della Terra delle Rocce, un saggio della mia bravura per eventuali compratori.»

Il fammin abbassò la lancia. «Potete entrare» disse e aprì la pesante porta.

Sennar si affrettò a passare e Nihal lo seguì.

Subito dopo la porta, c’era una bassa muraglia nera, tanto addossata alle mura della città da lasciare appena lo spazio perché vi passasse un uomo, in cui si apriva una serie di vicoli angusti, stretti tra quelle basse pareti.

Sennar avanzò di qualche passo con prudenza, poi spinse Nihal in un vicolo.

«Che ti prende?» sbottò lei.

Odiava quel posto, le mura la soffocavano e la pioggia iniziava a esasperarla. Preferiva la desolazione del deserto a quel luogo inquietante che traboccava di fammin.

«Sta’ zitta» le ordinò Sennar, portandosi un dito alla bocca. Quindi, iniziò a recitare una litania, chiuse gli occhi e quando li riaprì le mise una mano sulla fronte. Nihal sentì una strana sensazione, una specie di calore.

«Che cosa mi hai fatto?» chiese spaventata.

«È un incantesimo che mi insegnò Flogisto nella Terra del Sole; permette di camuffarsi come si vuole. Ora hai l’aspetto di un bel ragazzo» disse Sennar con un sorriso.

Nihal si portò le mani al volto e non si riconobbe. Al posto della sua pelle liscia, sentiva il ruvido di una barba mal fatta; il naso si era allargato, la fronte innalzata. Si portò subito le mani alle orecchie. Tonde. Le fece uno strano effetto.

«Durerà per tutta la sera, non di più. Quando saremo nella locanda non parlare, non ti scoprire il volto e limitati a mangiare. Quest’incantesimo è solo una precauzione; meno ci faremo notare, meglio sarà.»

Sennar si coprì di nuovo con il mantello e ripresero il cammino.


Girovagarono a lungo per i vicoli che tagliavano quelle costruzioni. Era un intrico inespugnabile di viottoli e stradine che si intersecavano nelle maniere più impreviste e con le angolature più strane. Non c’era modo di orientarsi in quel labirinto e presto si resero conto di essersi perduti.

«Non so più dove siamo» ammise Sennar.

Nihal taceva e si sforzava di reprimere il fastidio e il disgusto; camminava a capo chino cercando di non guardarsi intorno. Poi sentì un rumore sordo e si fermò, la mano sulla spada.

«Che cosa c’è?» chiese Sennar.

Nihal si guardò intorno, ma non vide nulla. Le ci volle un po’ per capire che il rumore proveniva dalle costruzioni. Tese l’orecchio e percepì un suono che pareva quello di molti corpi che si agitavano in uno spazio angusto, respiri affannosi e grida gutturali. Una sensazione di dolore le attraversò la mente, si sentì soffocare e sperimentò l’angoscia della prigionia.

Vagarono per circa un’ora e si inzupparono fino all’osso sotto quella pioggia lenta ma inesorabile.

Stavano per arrendersi, quando intravidero qualcuno. Nihal si fermò.

«Chi è là?» disse l’ombra, che si trovava a qualche passo da loro. La voce non sembrava minacciosa, era quasi gioviale.

Sennar prese in mano la situazione. «Mercanti. Siamo in cerca di una locanda.»

L’ombra si avvicinò. «Se cercate una locanda, come diavolo siete finiti da queste parti? Non ci sono locande nella Caserma.»

Ora che era più vicino, poterono distinguere il loro interlocutore: era un uomo, coperto da un ampio mantello rosso. Stringeva in mano una lancia, doveva essere una guardia.

«È la prima volta che veniamo da queste parti e non siamo pratici...» rispose Sennar in tono già meno sicuro.

L’uomo li squadrò per un po’ e si attardò sulla figura di Nihal. Poi scrollò le spalle per togliersi di dosso la pioggia. «Si vede che siete stranieri... Qui ci sono solo le celle dei fammin, se volete trovare una locanda dovete salire alla città; se proseguite verso quella salita, lassù in alto, non potete sbagliare.»

Sennar lo ringraziò, prese Nihal per un braccio e si dileguò lungo la strada che l’uomo aveva indicato.

Nihal era turbata. Dunque i sentimenti che aveva percepito provenivano dai fammin. Le sembrava impossibile. Non si trattava semplicemente di rabbia, ma anche di prostrazione e sofferenza per qualcosa di ineluttabile.

Dovettero camminare a lungo, poi le celle lasciarono il passo a una cittadella abbarbicata su un cucuzzolo. Erano case povere e tutte identiche, dominate da una tozza fortezza che era probabilmente il centro di comando di quel posto.

Presto si imbatterono in quella che sembrava una taverna; si sentivano fischi e urla provenire dall’interno. Nihal e Sennar entrarono.

Un penetrante odore di birra li investì non appena misero il naso dentro, insieme a urla e risa sguaiate. Il locale era piccolo, soffocato dal fumo di troppe pipe e stracolmo di soldati assiepati intorno ai tavoli.

Nihal sarebbe voluta uscire, ma si trattenne; del resto, se l’era davvero cercata. Sennar andò difilato da quello che doveva essere il locandiere. Il vociare era talmente alto che Nihal non sentì cosa si dicevano, si limitò a farsi guidare da Sennar.

Il mago la condusse a un tavolo appartato, sistemato in un angolo. Nihal si rifugiò sulla sedia che le sembrò più riparata, quella contro il muro, e Sennar prese posto accanto a lei.

«Le stanze sono di sopra» disse il mago. «Mangiamo, appena abbiamo finito saliamo e domani, alle prime luci dell’alba, togliamo le tende.»

Un servo portò loro una specie di brodaglia degna del rancio di una truppa di mercenari, dove galleggiavano strani filamenti su cui Nihal pensò fosse meglio non indagare; a condire il tutto, due boccali di birra, almeno quelli abbondanti, e un tozzo di pane nero.

L’atmosfera nella locanda era allegra e chiassosa. Un gruppo di soldati a un tavolo non faceva altro che brindare e ridere, levando i calici colmi di birra. Evidentemente festeggiavano qualcosa.

Nihal era disgustata da quella gente. Traditori, ecco cos’erano, un mucchio di luridi traditori rintanati in una locanda di infimo ordine. Rimpianse di non essere sul campo di battaglia. Era in territorio nemico e doveva fare buon viso a cattivo gioco. Chinò la testa sul piatto e bevve il più in fretta possibile la sua minestra.

A un tratto uno dei soldati si levò in piedi, il calice in mano. «Ehi, statemi a sentire!» urlò con la lingua impastata dall’alcol. «Maledetto chi stasera non festeggia con noi! Voi due, lì, nell’angolo, anche voi!» disse in direzione di Nihal e Sennar.

«Trattienimi» sussurrò Nihal a Sennar.

Il mago la prese in parola e senza farsi notare mise una mano sulla sua spada.

«Stasera tutti si devono dare alla pazza gioia. Le nostre truppe hanno conquistato altre due città della Terra dell’Acqua, fra breve tutta la Terra sarà nelle nostre mani! Brindiamo al Tiranno e a una sua rapida vittoria sul Mondo Emerso!»

Tutti gli astanti levarono in alto i calici urlando. Neppure Sennar poté astenersi e sollevò il suo poco convinto. Nihal non si mosse e continuò a bere la sua minestra.

«Be’? Che cosa c’è da essere tanto cupi?» chiese una voce.

Quando Nihal alzò gli occhi, si trovò a un palmo dal volto rubicondo di un soldato. Puzzava d’alcol, aveva la pelle segnata dal sole come un contadino e un sorriso beffardo e spavaldo. La mezzelfo non desiderava altro che cancellargli quel ghigno idiota dalla faccia. Tirò la testa dentro il cappuccio e distolse lo sguardo.

«Il mio amico è poco socievole» si affrettò a dire Sennar.

«Lo vedo, diamine!» sbottò l’uomo, agitando la caraffa traboccante di birra e versandone una buona dose sul pavimento. Senza indugi, prese una sedia e si sedette accanto a loro. Poi, incurante dell’occhiataccia di Sennar, avvicinò di nuovo la faccia a quella di Nihal. «Allora, amico? Che ti è successo?»

«È muto» intervenne Sennar. «E sordo» aggiunse.

Nihal continuò a mangiare.

«Proprio un peccato» commentò quello. «Una così bella festa e non se la può godere.»

Seguì un attimo di silenzio imbarazzato. Invece di andarsene, l’uomo tese una mano a Sennar. «Avaler, comandante delle truppe di stanza a Tanner, al confine con la Terra del Sole.»

Nihal ebbe un sussulto. Aveva sentito nominare quel villaggio, era vicino a dove viveva Eleusi.

«Varen, dalla Terra del Fuoco» ribatté Sennar, senza stringere la mano che l’uomo gli porgeva «mercante d’armi. Lui è Livon, il mio apprendista.»

«Però! Sei giovane per avere già un apprendista...»

«A dire il vero è la prima volta che vengo qui a vendere la mia mercanzia. Fino all’anno scorso lavoravo per uno gnomo.»

Sotto il tavolo, Sennar tese una mano a Nihal. Lei la afferrò e sentì che era gelata. Alzò gli occhi sull’amico e vide che aveva la fronte sudata.

«Si dice che gli gnomi siano i migliori armaioli» commentò l’uomo.

«Già, ho avuto un ottimo maestro.» Sennar strinse la presa sulla mano di Nihal.

«Siete fortunati, è un periodo che la guerra fila liscia. Certo, la morte di Dola è stata un brutto colpo, ma in fin dei conti non era il nostro unico bravo condottiero e ora le cose vanno molto meglio.»

Sennar abbassò la testa e riprese a mangiare.

«Dove siete diretti?» chiese Avaler.

«Devo andare da un vecchio cliente del mio maestro, mi hanno detto che vive nei pressi delle rovine di Seferdi, ma non conosco la strada.»

«Non ci sono città verso Seferdi» rispose cupo il comandante.

Nihal trattenne il respiro. Sennar aveva osato troppo.

«Ah, ma certo! Forse intendi la base di Rothaur» esclamò alla fine Avaler.

«Proprio quella, mi hai tolto le parole di bocca» ribatté Sennar.

«Non me la ricordavo perché non è proprio vicino a Seferdi, Rothaur è l’ultima roccaforte prima delle paludi. Andarci è facile: da qui dovete proseguire sempre a ovest; una volta giunti a Messar, dirigetevi a sud per un paio di miglia. La strada è agevole e si incontrano parecchi villaggi. Se siete buoni camminatori, non ci metterete più di quattro giorni.»

Parecchi villaggi... certo, è proprio la compagnia quella che ci manca.

Il soldato riprese imperterrito: «Mio padre partecipò al sacco di Seferdi».

Nihal fremette e Sennar le strinse la mano.

«Davvero?» disse il mago in tono incolore, mentre riprendeva a mangiare.

«Eccome! Mio padre fu tra i primi a mettersi sotto il potere del Tiranno. Aveva capito da subito che aria tirava, il mio vecchio.»

Nihal posò rumorosamente il cucchiaio nella ciotola e Sennar fece per alzarsi.

«Dove vai?» chiese Avaler. «La notte è giovane e bisogna festeggiare.» Costrinse Sennar a tornare a sedersi e riempì dalla caraffa il suo boccale di birra e quello di Nihal. «Questa ve la offro io, alla memoria del mio vecchio.» Si scolò il suo boccale e riprese a parlare. «Mio padre mi raccontava sempre della distruzione di Seferdi. Fu la prima volta che scesero in campo i fammin, quei maledetti. Allora però non erano ancora tanti e poi quelle sono bestie, se non c’è qualcuno che comanda non sanno neppure dove andare. Mio padre era uno di quelli che comandavano. Quand’ero piccolo mi raccontava quanto fosse bianca e grande la città. Loro arrivarono di notte, si gettarono parte sui mezzelfi e parte sul palazzo reale. Trucidarono metà della gente della città in una notte sola. Per primo uccisero il re.»

Si versò un nuovo boccale e bevve. «Brutta gente i mezzelfi, superbi. Mio padre li odiava e anch’io, ovvio. Prima che arrivasse quel maledetto di Nammen, noi della Terra della Notte eravamo a tanto così dal vincere la guerra dei Duecento Anni. E poi erano tutti dei malefici stregoni, leggevano nei pensieri della gente e facevano riti strani contro gli dèi, nei loro palazzi... Hanno avuto la fine che meritavano.»

Nihal si alzò di scatto e Sennar la seguì.

Avaler fece altrettanto e si parò innanzi a Nihal. «E diamine! Vi ho detto che è presto per andare!»

Sennar si frappose tra loro. «Lascialo stare, non ti può sentire. Però ha ragione, è tardi e oggi abbiamo camminato tanto. Credimi, è stato davvero un piacere ascoltarti, ma ora dobbiamo andare, casco dal sonno.» Si slogò quasi una mascella per imitare uno sbadiglio credibile.

«Fa’ un po’ come credi...» borbottò Avaler.

Nihal scattò verso la scala e la salì in tutta fretta. Sennar la inseguì e la afferrò per un braccio.

«Stai calma!» le intimò a mezza voce.

Appena furono entrati nella loro stanza, Nihal gettò a terra il mantello. «Quel bastardo...» mormorò. «Io credevo che fossero stati solo i fammin a sterminare i mezzelfi... invece... Maledetti!»

Sguainò la spada e la abbatté su un tavolinetto accanto a uno dei due letti. Il legno si schiantò in mille pezzi.

Partirono prima del sorgere del sole. Quando uscirono dalla città pioveva ancora, una pioggia lenta e incessante, simile a un pianto rassegnato.

Dovettero fermarsi in una locanda solo un’altra volta. La città era identica a quella che avevano già visitato, forse solo un po’ più piccola. Entrarono nella locanda dopo mezzanotte e non trovarono quindi molta animazione. Mangiarono in silenzio e sempre in silenzio si ritirarono, per poi svegliarsi all’alba e ripartire.

La sera del giorno seguente si accorsero che l’aria iniziava ad avere un odore fetido. Conoscevano bene quel puzzo, era lo stesso che avevano sentito nelle paludi della Terra dell’Acqua. Nihal ricordava che un tempo in quel luogo c’era una splendida foresta, la Foresta di Bersith. A quanto sembrava, era stata colpita da un male oscuro, forse provocato dai liquami delle città dei fammin, che avevano avvelenato i fiumi che la irrigavano; adesso al suo posto c’era una palude maleodorante.

«Siamo vicini» mormorò Nihal, mentre le ombre si allungavano e annunciavano la notte.

Il terreno su cui camminavano si faceva via via più molle e Nihal vide sparire all’orizzonte le città che odiava. Davanti a loro ora si stendeva solo la macchia scura del terreno intriso di acque putride.

A Nihal balenarono nella mente alcune immagini confuse, accompagnate dal mormorio degli spiriti: alberi secolari tra i cui rami il sole giocava festoso, lo splendore di una città mirabile e dei suoi marmi, sulla quale si stagliava maestoso e candido il palazzo reale, con la sua immensa torre di cristallo. Ora invece nessun chiarore accendeva il buio della notte. Eppure Seferdi era lì, Nihal ne era sicura.

A un tratto la mezzelfo si fermò.

«Che c’è?» chiese Sennar.

«È dietro quella collina» mormorò Nihal.

«Non sei obbligata a farlo» disse Sennar, dopo essersi avvicinato. «Possiamo passare oltre e procedere per la palude.»

Nihal non rispose e avanzò verso la collina. Non appena ebbe iniziato ad aggirarla, vide stagliarsi il profilo della città.

Al posto delle mura alte e immacolate che conosceva grazie alle visioni degli ultimi giorni, vi erano rovine ingiallite, un muro di mattoni sbrecciato in più punti, ai cui piedi giacevano grossi blocchi frastagliati. Sopra, dove un tempo spiccavano gli edifici più elevati e la mole della città, ora vi era un lugubre vuoto, avvolto nella pallida luce della luna.

Nihal avanzò piano in quel silenzio spettrale e si trovò infine a ridosso delle mura, sotto la porta. Era un’apertura ogivale stretta e altissima, e sull’architrave vi erano le statue di due leoni accucciati, che sembravano fare la guardia alla città. A terra, divelta, c’era una porta in legno con intarsi in metallo; le borchie erano divorate dalla ruggine e il legno era marcito fino all’osso. Nihal si chinò e vide i segni sbiaditi di un bassorilievo, ormai quasi indistinguibile. Nel mezzo, poi, si apriva uno squarcio, probabilmente il segno dell’ariete che aveva sfondato la porta in una notte come quella, quarant’anni prima. L’altro battente pendeva divelto a metà dai cardini. Era incredibile che avesse resistito in quella posizione per tutti quegli anni.

Nihal si alzò e, intimorita e in soggezione, oltrepassò i leoni, che sembravano indagarla con i loro sguardi privi d’occhi. Una volta entrata, le parve di aver messo piede in un altro mondo.

15 Laio e Vrašta

Laio non ebbe subito la certezza di essersi svegliato. Quando aprì gli occhi vide solo buio. Fu il peso delle catene che gli cingevano i polsi e le caviglie, assieme al dolore alla spalla, a riportarlo alla realtà.

Cercò di voltare la testa per vedere dove fosse, poi ricordò quel che era accaduto e capì di essere prigioniero. Le lacrime gli vennero agli occhi, come qualche giorno prima, nella cella della base. Non solo non era riuscito a raggiungere Nihal, si era anche fatto catturare.

Cercò di muoversi per capire quanto fosse grande la cella, ma le catene glielo impedivano e la spalla gli doleva. Sentiva rumori di catene provenire da altre celle, urla di uomini, voci gutturali, risa. Era un universo di suoni cupi che lo frastornavano e lo spaventavano.

Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse trascorso, ma a un tratto vide aprirsi una finestrella davanti a lui; doveva essere uno sportello nella porta. La luce, seppur fioca, lo accecò. Quando si fu abituato, vide che la cella era piccolissima, bastava appena a contenere il suo corpo minuto.

Dalla porta emerse il volto spaventoso e feroce di un fammin. Laio raggelò quando vide le zanne giallastre, i piccoli occhi porcini, gli arti innaturalmente lunghi e dotati di artigli.

«Cosa volete da me? Cosa mi vuoi fare?» urlò terrorizzato.

Il fammin entrò e Laio vide che portava con sé un piatto, la sua cena probabilmente, o il suo pranzo. Non aveva idea di che ora del giorno fosse.

Il fammin imperterrito entrò e posò il pasto a terra. Volse sul ragazzo uno sguardo strano, incuriosito, che a Laio sembrò non corrispondere affatto al suo volto feroce. Quegli occhi erano velati di tristezza, era uno sguardo quasi umano.

Il fammin andò via in silenzio e chiuse la porta dietro di sé; lasciò però lo sportellino semiaperto, in modo che una luce fioca potesse illuminare la cella.


Il secondo incontro di Laio con un fammin non fu rassicurante come il primo. Due giorni dopo, vide la porta spalancarsi e una di quelle bestie entrare a passo deciso. Questo fammin era più alto di quello che di solito gli portava il pranzo e la lanugine ispida che gli copriva le braccia era di un colore più scuro; i suoi occhi, poi, erano malvagi. Laio non avrebbe mai creduto che i fammin potessero essere tanto diversi l’uno dall’altro.

La bestia gli sciolse le catene, lo trascinò a terra e lo condusse fino a un’altra stanza, dove c’erano un uomo e alcuni fammin. Laio intuì cosa stava per accadere e tremò. Si disse che doveva farsi coraggio, che quello era il momento di provare quanto valesse, ma sentiva già le gambe tremare.

L’uomo dapprima si limitò a rivolgergli qualche domanda, di fronte alle quali Laio tacque ostinato. La voce dell’uomo si fece minacciosa, sempre più alta, ma Laio continuò a tacere. Doveva prendere su di sé tutta la responsabilità della sciocchezza che aveva fatto. Mai e poi mai avrebbe rivelato che anche Nihal e Sennar erano in quella Terra.

Lo misero a dorso nudo e per quel giorno non fecero altro che frustarlo, fino a rigare la sua schiena di sangue. Laio urlò, pianse, si sentì perduto e disperato, ma si morse la lingua e non disse nulla di quel che sapeva. Il dolore era insopportabile, peggiore persino di quello della ferita alla spalla, ma resistette.

Il fammin si interrompeva solo perché l’uomo potesse porre altre domande, poi ricominciava con più foga di prima, fino a quando Laio non fu inghiottito dal buio e credette di essere sul punto di morire.


Si risvegliò nella sua cella. La schiena gli bruciava come se fosse lambita da un tizzone ardente. Lo consolò soltanto il pensiero che almeno aveva tenuto la bocca chiusa. Ma per quanto ancora ci sarebbe riuscito?

Per due giorni Laio subì quel trattamento, e per due giorni non parlò. Urlò e si morse le labbra fino a farle sanguinare pur di non rivelare ciò che sapeva. Quando lo riportavano in cella era sempre svenuto, ma avevano la cura di medicargli le ferite. Non potevano permettere che morisse prima di aver rivelato il motivo della sua presenza oltre i confini.

Presto Laio non riuscì a pensare più a nulla. Non aveva consapevolezza nemmeno del proprio corpo e giaceva semincosciente in un canto della cella.

La terza sera accadde qualcosa. Quando il fammin che gli portava la cena aprì la cella, Laio da principio neppure se ne accorse. Attraverso le palpebre socchiuse percepì una pallida luce, poi sentì una presenza al suo fianco. Aprì gli occhi e vide che il fammin lo guardava.

«Perché stai zitto?» chiese quell’essere con voce gutturale.

Laio non rispose.

«Ti stanno uccidendo, perché non dici quello che sai?» continuò il fammin. «Non ha senso morire così. Solo per un ordine si muore, perché non si può fare altro.» L’essere tacque pensieroso. «Qualcuno ti ha ordinato di stare zitto?»

Laio stavolta aprì gli occhi e sollevò il volto su quella creatura. Non capiva che cosa volesse.

«Qualcuno te l’ha ordinato?» ripeté il fammin.

Laio scosse la testa, poi la lasciò cadere sul petto.

«Allora perché non parli?»

«Non ho niente... niente da dire...»

«O sei una spia o cerchi qualcosa: questo dice il capo» insistette il fammin.

«Sbaglia» rispose Laio stremato.

«Perché stai zitto?» ripeté allora la bestia.

«Ci sono cose che si fanno... perché si vuole farle. Io morirò... perché ho deciso che è giusto così...»

«Non capisco» disse il fammin.

Lo guardò stupito, poi prese un’ampolla sudicia, voltò il suo prigioniero e iniziò a spalmargli il contenuto sulla schiena. Un subitaneo senso di freschezza invase Laio e lo fece sentire un po’ meglio.

«E tu perché fai questo?» chiese il ragazzo al fammin.

«Tu non puoi morire prima di aver detto la verità: così ha detto il capo. Allora ti medico» rispose l’essere.

«Ci sono cose che si fanno solo perché si sente che sono giuste.»

«Cosa vuol dire "giusto"?»

«Non lo so... qualcosa che porta il bene.»

L’essere lo guardò interrogativo. Laio ancora una volta si chiese come fosse possibile che un fammin avesse quegli occhi.

«Come ti chiami?» chiese Laio.

«Vrašta.»

Quella parola gli rammentò qualcosa. «Grazie» mormorò.


Dal quarto giorno iniziarono a usare con lui dei ferri arroventati. L’uomo continuava a porre domande, poi ordinava al fammin di bruciare Laio. Il ragazzo urlava, implorava perfino perdono, ma non parlava.

«Non potrai continuare così per sempre, te ne rendi conto?» disse a un tratto l’uomo, avvicinando il suo volto a quello del ragazzo. «Io non mi stancherò mai di torturarti e non ti permetterò di morire prima di aver detto quello che voglio sentirti dire. Potremmo andare avanti per anni.»

Laio tacque, quelle parole non lo spaventavano più.

L’uomo sorrise. «Vi conosco bene, voi delle Terre libere. Se fai così, può essere solo per proteggere qualcuno. Be’, la tua protezione non servirà a nulla. Se qualcuno è entrato in questa Terra, io lo troverò. Forse l’ho già trovato. Stai soffrendo invano, ragazzino, non sei un eroe, sei solo un pezzo di carne sanguinolenta tra le mie mani.»

Laio non provava più nulla, non paura, non odio per il suo aguzzino, nulla. La vita era solo dolore, mangiare e bere. Nient’altro. Non aveva la forza per pensare e non aveva neppure più voglia di sopravvivere. L’unica cosa che gli importava era tacere.

Ogni sera Vrašta andava da lui e lo curava. Laio iniziò ad amare la sensazione di freschezza delle medicazioni sulle ferite e ad affezionarsi a quell’essere mostruoso. Attraverso le mani irsute che percorrevano la sua schiena sentiva scorrere la pietà e cominciò a credere che il fammin non lo curasse più soltanto perché gli veniva ordinato.

Quel mostro poi continuava a rivolgergli domande.

«Tutti gli uomini fanno quello che vogliono?»

«Chi è abbastanza forte sì» rispose Laio e pensò a Nihal.

«Tutti gli uomini sono come te?»

«Per fortuna no.»

«Perché tremi?»

«Ho paura.»

«Cos’è la paura?»

«È quella che ti assale in battaglia, mentre combatti.»

«Quando combatto, io non penso a nulla. Devo solo uccidere.»

«Non hai paura della morte?»

«Perché dovrei? Non c’è differenza tra vivere e morire» rispose Vrašta.

«Ti piace uccidere?» chiese Laio.

«Non lo so. Non c’è qualcosa che mi piace e qualcosa che non mi piace. Ci sono solo gli ordini.» Si soffermò un attimo, pensieroso. «Alcuni di noi, gli Errati, non amano uccidere, non lo vogliono fare. Rispondono agli ordini come tutti gli altri, ma non sono altrettanto feroci. Se li scoprono vengono uccisi. Loro piangono quando muoiono, ma dicono che è meglio morire che vivere.»

«Tutti amano qualcosa più di qualcos’altro. Non ti piace spalmarmi la pomata? A me sembra di sì.»

«Non lo so. Forse.»


«Lo sto facendo per qualcuno» disse una sera Laio al fammin, nel delirio della febbre. «L’uomo che mi tortura ha ragione, questo si fa solo per proteggere qualcuno.»

«Per chi lo fai?» chiese Vrašta.

«Per un’amica, la persona a cui tengo di più al mondo.»

«Cos’è un’amica?»

«Qualcuno di cui non puoi fare a meno, qualcuno a cui vuoi bene e con cui stai bene» disse Laio, fra i gemiti del delirio.

«Tu sei mio amico» concluse Vrašta.

Per tutta la notte, il fammin gli stette accanto, sebbene non glielo avessero ordinato. Il ragazzo ripeté più volte il nome di Nihal e quello di Sennar, e la sua voce arrivò anche a chi mai avrebbe dovuto sentirla.

Vrašta fu chiamato dal suo capo il mattino dopo. «Voglio che tu faccia fuggire il ragazzo.»

Vrašta non si chiese il senso di quella richiesta: era un ordine, un fammin non può trasgredire a un ordine.

«Gli dirai che vuoi accompagnarlo dai suoi amici; ti farai guidare fin da loro e quando li avrai trovati li ucciderai.»

Il fammin restò in silenzio, turbato dal suo primo dubbio. Sentiva di non volere uccidere Laio, era suo amico, per gli amici si fanno grandi cose e di sicuro non si uccide.

«Cosa diavolo ti prende?» chiese l’uomo, dopo averlo scrutato con attenzione. «Non ti metterai anche tu a dire che non vuoi più uccidere? Non sarai diventato anche tu un Errato?»

«Farò come dici» rispose Vrašta. Era un ordine, non si discuteva.

L’uomo si rilassò sulla sedia. «Fagli credere di volerlo aiutare. È un allocco, ci cascherà. Non ucciderlo prima che ti abbia portato dai suoi amici. Allora li potrai massacrare come vorrai.»

Vrašta sentì qualcosa di spiacevole in fondo allo stomaco, ma rispose ancora che avrebbe obbedito.


Quella sensazione sgradevole era ancora lì, quando poco dopo il fammin entrò nella cella di Laio. La aprì e vide il ragazzo appeso al muro per le braccia, il capo abbandonato sul petto. Lo avevano torturato ancora. Era notte fonda, il comandante gli aveva detto di andare da lui dopo il tramonto e di portarlo fuori con circospezione, perché credesse davvero che stessero facendo tutto in segreto.

Vrašta si avvicinò a Laio e lo scosse. Laio aprì gli occhi e il suo volto si illuminò al vedere il fammin.

«Sei venuto a curarmi?»

Il peso dallo stomaco era risalito e occludeva la gola di Vrašta. Il fammin si chiese cosa fosse quella strana sensazione che non aveva mai provato, ma non esitò; parlò a Laio come il comandante gli aveva ordinato di fare.

«Ti faccio scappare.» Mentre lo diceva, sciolse le catene che vincolavano Laio alla parete. Il ragazzo lo guardava intontito.

«Ti hanno dato questo ordine?» chiese.

Vrašta restò interdetto. «No, lo faccio perché lo voglio» disse alla fine. In un certo senso era vero. Voleva che Laio stesse bene, voleva che smettessero di torturarlo e fuori di lì avrebbe cessato di soffrire.

«Ti uccideranno se fai una cosa del genere» disse Laio. Scostò il braccio libero. «Lascia stare.»

Il fammin era sorpreso. Questa il comandante non l’aveva prevista. «Ma io vengo con te e ti porto dalla tua amica. Non mi faranno nulla.»

Laio a quel punto accettò. Vrašta lo liberò dalle catene, lo avvolse in un sacco, se lo caricò sulle spalle e iniziò a cercare la via per uscire dalla prigione. Fece come gli aveva detto il comandante, si mosse furtivo, finse di essere guardingo, ma le sue premure furono inutili, perché il ragazzo si era riassopito fiducioso sulle sue spalle.


Il mattino dopo, Laio si svegliò appoggiato a un albero e socchiuse gli occhi alla luce acida che rischiarava il luogo in cui si trovava. Si sentiva tutto indolenzito e la schiena gli bruciava. Sollevò le braccia e si accorse che per gran parte erano fasciate; evidentemente Vrašta gliele aveva medicate. Si voltò e vide che il fammin era disteso di fianco a lui e lo guardava. Gli rivolse un sorriso riconoscente.

«Se vuoi, posso condurti dai tuoi amici» disse Vrašta.

«Sono partiti due giorni prima di me e non ho idea di dove siano. Non vedo come potremmo raggiungerli» rispose Laio.

«Io ho un buon fiuto, se hai qualcosa di loro, qualcosa che abbiano maneggiato più di una volta...»

Laio era intontito e faticava a raccogliere le idee, così gli ci volle un po’ per ricordarsi della borsa con i soldi. Nihal l’aveva toccata spesso durante il viaggio. Si mosse per prenderla, ma sentì un dolore acuto attraversargli il corpo.

Vrašta si avvicinò premuroso. «Ti fa male?»

«Ho con me una borsa che usava la mia amica, ma non riesco a prenderla. Dovrebbe essere sotto la mia casacca.»

Vrašta annuì per nulla stupito.

Laio allora si ricordò della lettera di Nihal e si diede dello stupido. Se Vrašta sapeva della borsa, doveva sapere anche della pergamena. Era ovvio che l’uomo che lo torturava gliel’avesse trovata addosso. Probabilmente proprio grazie alla lettera aveva capito che potevano esserci altri nemici in quella Terra.

Vrašta rovistò con delicatezza sul petto del ragazzo e prese la borsa. Era vuota e macchiata di sangue. Se la portò al naso, dopodiché annusò l’aria.

«Non sono passati di qui, bisognerà cercarli a lungo» disse.

Quella mattina restarono nella piana, perché Laio era troppo stanco per proseguire. Vrašta lo curò ancora, cercò per lui dell’acqua, gli portò del cibo, sempre sorridente e premuroso.


Per tutto il tempo della loro ricerca, Vrašta tenne Laio sulle spalle. Il fammin aveva gambe veloci e un olfatto molto fino, ed entrambi gli furono utili per seguire le tracce di Nihal e Sennar. Attraversò di corsa l’immensa piana desolata e si fermò solo per curare Laio, per farlo mangiare e bere.

Il ragazzo iniziò a chiacchierare sempre più spesso con il fammin, nel tono affettuoso di un fratello maggiore. Una sera gli raccontò di Nihal, dell’esercito, della sua vita. «Sono contento di non aver parlato» disse alla fine.

«Se avessi parlato non saresti ridotto così» rispose Vrašta.

«Però avrei tradito i miei amici e non c’è nulla di peggio che tradire.»

«Cosa vuol dire "tradire"?»

«Vuol dire mentire, dire di fare una cosa e farne un’altra. I miei amici sanno che io li proteggerei a ogni costo e che non farei mai loro del male. Bisogna sempre essere sinceri con i propri amici.»

Vrašta sentì una fitta al cuore, iniziava a capire: se lui era davvero amico di Laio, non avrebbe dovuto fare quel che stava facendo. In quei giorni, il fammin era travolto da sensazioni che non conosceva e non riusciva a identificare.

Prima di conoscere Laio, Vrašta non sapeva nemmeno cosa significassero parole come "amicizia" o "stare bene". La sua vita era solo combattere. Aveva avuto a che fare con migliaia di prigionieri e qualcuno lo aveva anche torturato. Non ne ricavava né piacere né dolore; erano ordini e i fammin non possono trasgredire gli ordini.

Adesso, invece, iniziava a comprendere che al di fuori dei doveri cui non poteva sottrarsi c’era un mondo, una vita che lo attendeva, fatta di mille sensazioni che solo in quel momento iniziava a sfiorare e che lo incuriosivano, anche quando erano spiacevoli e dolorose. Si ricordò ciò che gli aveva detto un Errato, prima che lo uccidesse: «Non desideri mai vivere e basta? Fare quello che vuoi?». Vrašta non aveva capito, perché non sapeva cosa fosse la vita. Ora invece lo intuiva, e sapeva anche che non voleva tradire Laio. Ecco cos’era quel peso allo stomaco, quel nodo alla gola: era non voler fare una cosa.


Un pomeriggio, infine, Vrašta trovò la strada che gli amici di Laio avevano percorso e capì che erano diretti a Seferdi.

La sera, Laio era assopito al suo fianco e respirava tranquillo. Vrašta gli diede un paio di scossoni; il ragazzo aprì gli occhi e li stropicciò. «Ci sono nemici?» chiese, sforzandosi di mettersi all’erta.

«Io ti ho tradito.» Appena lo ebbe detto, Vrašta si sentì meglio.

Laio non capì. «Cosa?» chiese assonnato.

«Un uomo mi ha ordinato di liberarti, mi ha detto di trovare i tuoi amici e di ucciderti con loro.»

A quel punto Laio era del tutto sveglio, si alzò a sedere. «È solo per questo che mi hai liberato?»

«Mi era stato ordinato» disse Vrašta.

«Tu vuoi uccidermi?»

«No» disse Vrašta d’impulso.

Laio fissò il fammin. «Io sono qui, se vuoi uccidermi fallo ora, avanti.»

Vrašta abbassò lo sguardo. «Io ti ho tradito...» ripeté.

«Tu non mi hai liberato perché te lo hanno ordinato, e non mi hai portato fin qui per tradire me e i miei amici. L’hai fatto perché lo volevi.»

Vrašta lo guardò. «Un fammin non può trasgredire un ordine. Gli Errati che ho conosciuto non volevano uccidere, eppure dovevano farlo, perché sono stati creati così dal Tiranno.»

«Hai scelto tu di dirmi la verità, e hai scelto tu di curarmi, non te lo ha ordinato nessuno. Anche tu puoi fare quello che vuoi, anche tu puoi scegliere.»

«Io non voglio essere costretto a ucciderti... Io non ti voglio tradire... Tu sei un mio amico» disse triste Vrašta.

Laio allungò una mano verso di lui e gli accarezzò una guancia. Quel contatto fece un effetto strano a Vrašta; si sentì d’un tratto consolato, rinfrancato.

«Io mi fido di te e so che non mi ucciderai. Ora che mi hai detto tutto, non ho più nulla da temere. Guidami da Nihal e Sennar.»

16 Orrore indicibile

Davanti a Nihal si apriva una lunga strada lastricata da pietroni squadrati. Era ampia quanto bastava perché ci passassero comodamente due carri e si inoltrava nella città. Le pietre erano smosse e nelle fessure crescevano piante ritorte e piene di spine. Probabilmente era la via principale e un tempo doveva essere fiancheggiata dalle fronde di alberi imponenti. Di alcuni restava solo il ceppo carbonizzato; altri erano scheletri che si stagliavano contorti contro il cielo plumbeo. Su quei rami morti erano appollaiati numerosi corvi e il loro gracchiare era l’unico suono che riempisse la solitudine della notte.

La via era ingombra di calcinacci, vetri e qualche arma, forse caduta di mano a chi aveva cercato di salvare la città. Tutto intorno, i resti di case bruciate o distrutte. Nihal prese una strada secondaria. Trovò la stessa distruzione e le stesse macerie. C’erano addirittura pezzi di stoffa, salvatisi chissà come in tutti quegli anni.

La mezzelfo entrò in una casa. Alcuni mobili erano intatti, ma per la maggior parte erano a terra, distrutti e marciti. C’era una tavola ancora imbandita, come se attendesse solo i padroni di casa. Nelle altre stanze lo scenario era simile: mobili gettati a terra, fogli di carta sparsi ovunque, lenzuola intrise di sangue.

Uscirono e continuarono a percorrere le vie della città. Videro altre case, altri segni di incendi e macchie di sangue sulla strada e sui muri.

«Non è normale che il sangue mantenga un colore così vivo dopo quasi quarant’anni» commentò Sennar. «Qualcuno ha preservato con un incantesimo questa desolazione.»

Nihal si aggirava tra le macerie intontita. Era incapace di provare alcunché, tutto le sembrava estraneo. Non c’era nulla in quella città che le parlasse, il silenzio della morte copriva ogni rumore e le impediva di capire fino in fondo quel che osservava.

Sbucarono in un’ampia piazza. Nihal ricordò vagamente che era il luogo dove si teneva il mercato ogni settimana. Di solito era gremito di gente e al centro si alzavano gli spruzzi di una fontana, una candida vasca circolare con un’esile colonna di marmo nero che si alzava al centro. Ora la piazza era ingombra degli scheletri di ferro e contorti di quelle che dovevano essere state bancarelle. Tutto il selciato era annerito dalle tracce dell’incendio. Al centro, incredibilmente candida, si innalzava la fontana di cui Nihal aveva memoria. La vasca era piena di un’acqua torbida e palustre, dalla quale si levava il gracidare delle rane, come una litania funebre.

Continuarono a camminare e giunsero a ridosso del palazzo reale. Era ridotto in macerie e il terreno era costellato di frammenti del cristallo di cui era fatto. La torre crollando aveva sfondato il tetto dell’edificio principale e aveva scoperto così la sala del trono. Le colonne della sala si alzavano verso il cielo intatte, candide nello splendore del cristallo, ma l’unica volta che sorreggevano era la cappa delle nubi. In fondo a tutto, solitario in mezzo alle rovine, spiccava il trono, una poltrona di cristallo, con la seduta di un velluto ormai stinto, ma che si indovinava essere stato rosso scarlatto. Nihal immaginò Nammen seduto su quel trono al colmo della sua potenza, mentre comunicava ai regnanti lì riuniti che non avrebbe preso possesso delle terre vinte in guerra da suo padre, ma che avrebbe rimesso a ognuno il suo potere. Quel trono in mezzo alle rovine era uno spettacolo desolante e ridicolo: il simbolo del potere si ergeva sulle macerie. La memoria di quella civiltà era stata spazzata via e Nihal, che sapeva così poco di quel popolo e aveva sempre avuto solo visioni di morte e brandelli di sogni, ne era rimasta l’unica depositaria.

Si aggirarono per un po’ per le stanze del palazzo, finché giunsero in un’ampia sala, probabilmente usata per i banchetti. Una parete in fondo era miracolosamente intatta e occupata da un enorme bassorilievo. Nihal vi vide raffigurati i suoi simili, intenti nelle attività della vita quotidiana. In un angolo, qualcosa attirò la sua attenzione. Era un simbolo, uno stemma. Lo stemma del suo popolo. Nihal tornò a guardare il bassorilievo e notò che quello stemma era inciso sulle corazze di ogni guerriero dell’esercito. Lo osservò a lungo e se lo impresse bene in mente.

In un’altra sala, si trovarono di fronte ai resti di quello che doveva essere stato un osservatorio, testimonianza dell’interesse dei mezzelfi per il cosmo e i suoi misteri. C’erano brandelli di una carta stellare su una parete e a terra, distrutto, un telescopio. Gli invasori avevano infranto le lenti e colpito in più punti il metallo. Il pavimento della sala era cosparso di fogli di carta, molti dei quali bruciati. Su alcuni si potevano ancora leggere frasi in lingue sconosciute o appunti sul moto delle stelle e dei pianeti, il lavoro di una vita, sparso come cenere ai quattro venti.

Continuarono a vagare per le sale e si imbatterono in una statua. Rappresentava una donna, una mezzelfo, catturata in un movimento che sembrava quello di un ballo. Il suo volto esprimeva una gioia e una serenità profonde, ma il corpo giaceva a terra con le braccia spezzate. Fu allora che i sentimenti repressi fino a quel momento ebbero il sopravvento. Davanti a quella donna, Nihal si accasciò e iniziò a piangere.

«Vieni via, hai avuto quel che volevi, il nostro viaggio ci attende» disse Sennar. Si chinò su di lei e la aiutò ad alzarsi.

«Era giusto che venissi» disse Nihal tra i singhiozzi. «Sì, ho fatto bene, per non dimenticare ciò che è stato e ricordare i morti.»

«Non potrai dimenticarli neppure se vorrai» rispose Sennar. «E nemmeno io potrò, dopo quel che ho visto» aggiunse cupo.

Uscirono dal palazzo e cercarono di allontanarsi da quel luogo funereo. Fu così che finirono in una strada che non avevano ancora percorso. D’un tratto, Nihal si sentì afferrare da Sennar, che la strinse a sé per impedirle di vedere.

«Cosa c’è?»

«Non c’è bisogno che guardi» rispose il mago.

«Lasciami.»

«Non è necessario che tu veda anche questo» disse lui. La voce gli tremava. «Non guardare.»

Nihal si divincolò da Sennar e si voltò.

I lati di quella strada erano fitti di patiboli, una prospettiva infinita di cadaveri che pendevano da cappi, sospesi nel vuoto. Sulle forche erano appollaiati centinaia di corvi, come spiriti di demoni a guardia dei morti. Appesi c’erano uomini, donne, bambini, i volti irriconoscibili, le vesti a brandelli, le orbite vuote e colme d’orrore.

«Qualcuno ha voluto che i segni della strage restassero, qualcuno ha usato una formula proibita per impedire che il tempo cancellasse lo scempio» disse Sennar a bassa voce.

Un urlo d’orrore uscì dalla bocca di Nihal.

Sennar accorse da lei e la costrinse a distogliere lo sguardo. «Non saremmo mai dovuti venire. Avanti, andiamo» disse mentre la sosteneva, tenendole il volto premuto contro il suo petto.

Camminarono fra due ali di cadaveri, poi iniziarono a correre, fino a quando furono finalmente fuori dalla città. A quel punto Sennar lasciò Nihal e si sedette, a riprendere fiato.

Dopo qualche istante di silenzio, il mago si alzò e prese sottobraccio la mezzelfo, che ancora piangeva. «Allontaniamoci da qui» disse.


Nihal si lasciò guidare da Sennar e ripresero il cammino. Era notte fonda. Non sarebbe stato facile trovare un rifugio nella palude. Quando arrivarono in una zona dove il terreno era un po’ più solido, Sennar decise che come ricovero notturno poteva andare. Approntò una specie di giaciglio con i loro mantelli e accese un piccolo fuoco.

«Stanotte pensa solo a riposarti» disse a Nihal. «Starò io di guardia.»

«Ma anche tu devi dormire...» protestò piano lei.

«Non ne ho bisogno e non ne ho neppure voglia» rispose secco Sennar, poi la coprì con il suo mantello. Era primavera; se i conti che aveva fatto erano giusti, doveva essere metà aprile, eppure si gelava.

Sennar si accoccolò accanto al fuoco e rimase solo con i suoi pensieri, fra il gracidare delle rane e il fetore asfissiante che saliva dal terreno putrido. Si sentiva svuotato. Davanti alle vittime che penzolavano nel vuoto, gli era parso che i morti avessero iniziato a gridare e che lo invitassero alla vendetta. Era stato invaso da una rabbia che non aveva mai provato. Per la prima volta, aveva compreso ciò che aveva spinto Nihal a gettarsi nella guerra. Per la prima volta in vita sua, aveva sperimentato il desiderio di uccidere.


Proseguirono il viaggio, mesti e silenziosi. Per due giorni camminarono attraverso la palude, poi cominciò a calare il buio. Era un buio differente da quello della notte. Iniziò una mattina e parve che tutto a un tratto il sole avesse deciso di tramontare. Le nubi si tinsero del giallino spento che caratterizzava i tramonti nella Terra dei Giorni; eppure non era neanche mezzogiorno.

«Ci avvinciamo alla Terra della Notte» disse Sennar.

Continuarono a camminare e nel pomeriggio la palude avvolta nella penombra cedette il passo a una cupa foresta. A un tratto, Nihal sentì un rumore.

Si fermò, tese l’orecchio e portò la mano alla spada. Anche Sennar si immobilizzò e si mise in ascolto. Per un po’ non si sentì nulla, poi di nuovo un fruscio. Stavolta Nihal capì da dove proveniva e si avviò in quella direzione con la spada sguainata. Con un salto si gettò fra i cespugli.

Piombò su una creatura che nella foga non ebbe il tempo di vedere, sentì soltanto delle setole sotto le dita. La gettò a terra, la immobilizzò e le premette la spada sulla gola. A quel punto sentì un altro rumore al suo fianco, come se le creature fossero due.

«Fermati, è un amico!» disse una voce quasi infantile, ma con una nota di sofferenza.

Nihal si riscosse e guardò la creatura che giaceva sotto la lama della sua spada: era un fammin e la fissava. Lei si perdette in quello sguardo e sentì svanire l’ira e la voglia di uccidere. Aveva visto qualcosa in quegli occhi che non sapeva spiegare.

«E tu da dove diamine esci fuori?» chiese Sennar.

Nihal allentò la presa e si voltò verso il mago. Davanti a lui c’era Laio, pallido e con la casacca sporca di sangue, ma sorridente.

17 Ido in Accademia

Ido provò la sua nuova spada in battaglia e il risultato fu più che soddisfacente. I fantasmi evaporavano sotto i colpi potenti della sua arma e le cose procedevano al meglio. Con un certo rammarico, però, lo gnomo non poté sperimentare l’arte di Soana sul suo bersaglio principale. A lungo infatti non vide traccia del Cavaliere vermiglio.

Ido si sforzava di tenere a mente le parole della maga – "per quanto male possa aver fatto a te o a Nihal, non è che un nemico come tutti gli altri" – ma non gli era facile. Quando scendeva in campo, per prima cosa si guardava intorno alla ricerca di un baluginio rosso, senza mai trovarlo. In breve riprese ad annoiarsi. Le battaglie si susseguivano tutte uguali e la situazione si faceva di giorno in giorno più deprimente.


Una primavera tardiva aveva iniziato a intiepidire le giornate, quando fu ordinata un’assemblea del Consiglio, nella Terra del Sole, a cui furono invitati anche i generali.

C’erano davvero tutti, una moltitudine di persone: i regnanti delle tre Terre libere, i generali più importanti e i maghi del Consiglio. I membri dell’assemblea erano quasi un centinaio, ma la riunione si svolse con ordine e rigore. Un’aria di morte e desolazione aleggiava sul consesso e rendeva gli animi più calmi del solito.

A quattro mesi dalla comparsa dei fantasmi sui campi di battaglia, le cose non andavano affatto bene. Più di metà della Terra dell’Acqua era in mano al Tiranno e l’altra metà era seriamente minacciata. Gran parte delle truppe disponibili era ammassata lungo quel labile confine, ma il numero dei soldati non era comunque sufficiente ad arrestare l’avanzata nemica. Distaccare altre truppe era impossibile, perché anche la Terra del Sole era in pericolo e doveva essere protetta.

«Non possiamo andare avanti a lungo in questo modo. Finiremo con l’indebolirci lungo entrambi i confini, con il rischio che il Tiranno invada la nostra Terra» disse Sulana, la regina della Terra del Sole.

Il consesso tacque. I rapporti fatti dai generali non lasciavano prevedere nulla di buono e ormai un’unica idea circolava per l’assemblea: ben presto la Terra dell’Acqua avrebbe capitolato.

«Io non permetterò che il mio regno sia sconfitto.»

Le parole di Galla, regnante della Terra dell’Acqua, calarono improvvise sul consesso.

«Mia moglie è morta per questo regno, migliaia di ninfe hanno dato la vita per salvarlo, è in loro onore che devo continuare a combattere e a proteggerlo.»

«Vostra maestà, stiamo combattendo, ma le nostre forze non bastano, come abbiamo avuto modo di spiegare...» protestò Mavern.

«Occorre attaccare una volta per tutte» disse Galla, senza lasciare che il generale terminasse di parlare. «Organizzeremo una grande offensiva, che ci permetta di riprendere fiato per qualche tempo.»

Ido scosse la testa. Capiva quell’uomo, ma la sua era un’idea folle. Galla del resto non era un soldato, bensì il re di una Terra pacifica.

«Non servirà a nulla. Siamo allo stremo, sarebbe il canto del cigno» obiettò Soana.

«Preferite lasciare che la Terra dell’Acqua venga sacrificata? Preferite perderla del tutto? Gli uomini di questo regno combattono al vostro fianco, sebbene non siano mai stati uomini d’armi. Se la Terra dell’Acqua cadrà in mano al nemico, non potrete più contare sul nostro appoggio, e solo gli dèi sanno quanto bisogno abbiamo di uomini, proprio ora che il Tiranno ha trovato il modo per avere di continuo nuovi guerrieri.»

«Io credo che Sua Maestà abbia ragione» intervenne Theris, la ninfa che rappresentava la Terra dell’Acqua. «Nelle condizioni in cui ci troviamo, la perdita di un’altra Terra sarebbe rovinosa. Dobbiamo rischiare e tentare, almeno per avere il tempo di organizzare le difese.»

Alla fine si decise per l’attacco. Ido non vi riponeva molte speranze. La Terra dell’Acqua era ridotta a meno della metà e nel regno albergavano miseria e disperazione. Nonostante le parole di Galla, le truppe che quella Terra riusciva a fornire erano in realtà ben poca cosa, e per di più composte quasi esclusivamente da uomini che mai avevano calcato il campo di battaglia. Salvarla dal Tiranno sarebbe servito solo a innalzare il morale dei soldati. Lo gnomo però non manifestò le sue perplessità al consesso. Sarebbe stato crudele infierire su chi cercava disperatamente un briciolo di speranza, e un miglio guadagnato al nemico era pur sempre meglio di niente.

L’offensiva venne pianificata per il mese seguente.


Un giorno, un messo giunse all’accampamento e chiese di Ido. «Il Supremo Generale Raven vi convoca all’Accademia» disse, non appena lo ebbero condotto nella tenda dello gnomo.

Ido dapprima rimase perplesso, poi si spazientì. Se Raven lo chiamava, era di certo per qualche motivo antipatico. Non correva buon sangue fra i due. Raven non era mai riuscito a fidarsi di Ido e lo gnomo lo detestava perché non aveva fatto altro che mettergli i bastoni fra le ruote, fin da quando era entrato nell’esercito delle Terre libere.

In ogni caso, se il Supremo Generale ordinava, non si poteva fare altro che obbedire. Così Ido montò su Vesa e andò ancora una volta a Makrat, nell’odiata Accademia.

Dovette fare la solita trafila perché Raven si degnasse finalmente di parlargli e solo dopo un’ora di inutile e irritante attesa fu ammesso nella sala delle udienze.

Come al solito, Ido si limitò a una rapida riverenza. Non si era mai inginocchiato davanti a quel pallone gonfiato e non aveva certo intenzione di iniziare adesso.

«Non credi che potresti smetterla con questi gesti infantili?» disse Raven seccato.

Con lui, stranamente, non c’era il suo amato cagnolino e anche l’armatura che indossava era insolitamente sobria, almeno per i suoi standard.

«Dovresti esserci abituato, ormai» rispose Ido.

«I gradi sono pur sempre gradi.»

Ido sbuffò. «È una conversazione sgradevole per entrambi, vediamo di concluderla al più presto.»

«La situazione militare non è rosea, lo sai meglio di me. Gli uomini scarseggiano, soprattutto in confronto al numero spropositato di guerrieri di cui dispone il Tiranno. La situazione è critica e richiede misure drastiche.»

«La cosa non mi è nuova, se non erro ne abbiamo già discusso al Consiglio.»

Era evidente che Raven tratteneva a stento l’ira e Ido quasi si pentì di averlo stuzzicato fino a quel punto.

«Perfetto, visto che vuoi che arriviamo rapidamente al sodo... Ho discusso con i maestri dell’Accademia e abbiamo preso una decisione. Faremo combattere anche gli allievi che hanno raggiunto un addestramento avanzato.»

Ido non poté fare a meno di strabuzzare gli occhi. «Stai parlando dei ragazzi che ancora non hanno iniziato l’addestramento privato con un Cavaliere?»

«Esattamente.»

«Ma si tratta di bambini che non hanno mai messo piede sul campo di battaglia, non vedo che utilità...»

«Saranno debitamente addestrati e mi sembra di averti già detto che la situazione è drammatica. Ci servono uomini, quanti più possiamo trovarne. Un soldato con un addestramento parziale è meglio di contadini e pastori che prendono in mano la spada per la prima volta, a cui tra l’altro abbiamo già fatto ricorso in altre battaglie. Comunque, saranno impegnati anche i giovani che si stanno addestrando con i Cavalieri.»

«D’accordo, ma tutto questo cosa c’entra con me?» chiese Ido spazientito. Già mentre formulava la domanda, un dubbio andò profilandosi nella sua mente.

Non sarà mica che...

«Sei stato scelto per la selezione e l’addestramento dei ragazzi» gli comunicò Raven.

Ido restò imbambolato al suo posto.

«Ovviamente, avrai anche il compito di guidarli in battaglia. Saranno le tue truppe personali, un manipolo di un centinaio di ragazzi, ai quali avrò cura di aggiungere trecento soldati di una certa esperienza.»

Ido guardò fuori dalla finestra. Si attendeva come minimo di vedere qualche asino volare. Ma non c’erano altro che nuvole.

«In fin dei conti hai fatto un buon lavoro con quel demonio dai capelli blu, credo tu sia la persona più indicata per questo incarico» concluse Raven.

Nella sala regnò un silenzio assoluto, finché Ido non sbottò in una sonora risata.

«La situazione è drammatica, tutt’altro che comica!» esclamò Raven. «O forse non ti senti all’altezza del compito?»

Ido si ricompose. Non era il caso di fare troppo a lungo il buffone davanti al Supremo Generale. Benché lo ritenesse un imbecille tronfio e pieno di sé, era pur sempre un suo superiore.

«Il problema non è che io mi senta all’altezza» disse lo gnomo con un sorriso ironico «quanto che tu mi reputi degno...»

«Credi che sia diventato Supremo Generale per caso? Credi che sia uno sciocco?» si inalberò Raven. «Siamo in guerra, e in una situazione difficile, te l’ho già detto. Sai bene che non ho molta fiducia in te e puoi immaginare quanto detesti offrirti questo compito, ma sei un guerriero abile e astuto, di grande esperienza, e le circostanze richiedono uomini come te. Il bene delle Terre libere viene prima di qualsiasi sciocca ripicca o dei nostri odi personali.»

Ido rimase inchiodato al suo posto, a bocca aperta, incapace di controbattere. Raven non gli sembrava più lo stesso di un tempo.

«Sarai affiancato da Parsel nella scelta dei ragazzi» riprese il Generale «e ovviamente ti verrà assegnato un alloggio all’Accademia. Se non hai altre stupidaggini da dirmi, questo è tutto. Parsel ti attende qui fuori.»

Non diede a Ido neppure il tempo di rispondere. Si voltò e uscì con l’alterigia di sempre.

Ido lasciò scornato la sala delle udienze. Era orgoglioso per quel nuovo incarico, ma irritato con se stesso per aver fatto la figura dello sciocco. La fine del mondo doveva davvero essere prossima: lui era ossessionato da un nemico qualsiasi e si faceva battere in duello, e Raven era diventato tutto d’un tratto una persona ragionevole.


Ido aveva sentito già parlare di Parsel, Nihal lo aveva nominato più di una volta. A quanto sembrava, era stato l’unico insegnante che l’avesse trattata decentemente durante la sua permanenza all’Accademia.

Il maestro era un uomo alto e dinoccolato, bruno, con due baffoni e modi piuttosto rudi. Ido ebbe difficoltà a far combaciare il tizio sgarbato che aveva davanti con l’immagine che se n’era fatto dai racconti di Nihal, ma non si stupì più di tanto. L’Accademia era piena di gente che lo guardava storto e lo trattava con sufficienza. Per questo la detestava.

Innanzitutto coloro che la frequentavano erano quasi esclusivamente ragazzini viziati, figli di tronfi guerrieri. Nihal era una rarissima eccezione, Laio una regola. Se volevi essere ammesso, tuo padre doveva come minimo essere un Cavaliere, o magari un alto dignitario di corte. I morti di fame non erano ben accetti. Come se non bastasse, erano praticamente tutti uomini. Uomini e ricchi, dunque in pratica una genia di ragazzini spocchiosi che non facevano che giudicarsi a vicenda. Certo, c’era qualche eccezione, ma fra quelle mura la maggioranza degli allievi era costituita da manichini senza cervello. Fino a quando mettevano piede in battaglia e cambiavano per sempre.

Dopo la morte di Dola, la storia di Ido era trapelata nell’ambiente militare e dunque egli era doppiamente malvisto: era un ex nemico ed era uno gnomo. Il breve percorso per i corridoi dell’Accademia assieme a Parsel gli confermò il ricordo negativo che aveva di quel luogo. Tutti coloro che incrociò lo guardarono con sospetto.

Parsel gli mostrò quello che sarebbe stato il suo alloggio per le settimane successive: una stanza piccola e spartana. La poca luce che c’era proveniva da un’unica finestrella, posta molto in alto. A Ido ricordò la cella in cui era stato rinchiuso quando si era consegnato spontaneamente al Consiglio, dopo aver ripudiato il Tiranno, e si sentì soffocare.

«Di meglio non abbiamo» fece secco Parsel.

Ido si riscosse. «È comunque più confortevole delle tende a cui sono abituato.»

Discussero brevemente dei compiti che li attendevano, poi Parsel gli diede appuntamento per il giorno successivo, quando avrebbero iniziato le selezioni, e uscì.

Non ci volle molto perché Ido ricordasse il secondo motivo per cui detestava l’Accademia. Bussarono alla porta e Malerba fece il suo ingresso zoppicando.

Ido non riusciva neppure a guardarlo. La prima volta che l’aveva incontrato era inorridito. Non conosceva la storia di quell’essere, ma bastava vederlo per capire che era uno gnomo che era stato torturato. Sotto le sue parvenze deformi, Ido intuiva quanto gli somigliasse e la rabbia rischiava di soffocarlo. Pensava al suo popolo ridotto in quelle condizioni, a laboratori pieni di gnomi usati come cavie per gli esperimenti del Tiranno. Per vent’anni, invece di proteggere il suo popolo, aveva assecondato i piani di Aster, lo aveva aiutato a torturare i suoi simili nelle segrete della Rocca. Era un pensiero intollerabile e altrettanto intollerabile era, di conseguenza, la compagnia di quell’essere.

Quando vide Ido, Malerba sorrise con la sua bocca sdentata. Forse, nella sua mente malata, sentiva che qualcosa li accomunava. «Il grande guerriero...»

Ido si voltò dall’altra parte. «Sì, sì, il grande guerriero... Fa’ quel che devi e vattene.»

Sentì la risatina di Malerba, simile a quella di un bimbo felice, e alcune parole farfugliate e senza senso. Poi l’essere gli si avvicinò e iniziò ad accarezzargli il braccio.

«Ti aspettavo... bello... bello... contento. Il grande guerriero...»

Ido si sottrasse a quel contatto. Sapeva di essere crudele, ma la vicinanza di Malerba era troppo dolorosa per lui. «D’accordo, grazie. Ma va’ via.»

Lo gnomo uscì camminando indietro come un gambero, gli occhi puntati su Ido, poi chiuse piano la porta.

Ido guardò le pareti spoglie della stanza, il letto spartano, e sentì il vociare confuso di Makrat che proveniva dalla stretta finestra. Cominciamo proprio bene...

Iniziò il suo lavoro la mattina successiva. Parsel in persona venne a svegliarlo di buon’ora.

«Credevo di trovarti già in piedi. Prima finiremo questa storia, meglio sarà» si lamentò il maestro.

È iniziata male e continua anche peggio...

Ido si vestì e si preparò in fretta. Non perse tempo neppure a mangiare, quell’acida osservazione mattutina gli aveva tolto la fame, e scese subito nell’arena.

Parsel era già lì. Da una nebbiolina acida emergevano le figure di circa trecento ragazzi, una buona metà degli studenti dell’Accademia. Erano di età e aspetto piuttosto disparati e Ido ebbe il sospetto che non fossero giovani soldati prossimi alla fine dell’addestramento, ma allievi pescati a caso nel mucchio.

«Li hai selezionati tu?» chiese a Parsel.

Il maestro scosse la testa. «I miei non sono più di una decina, gli altri sono stati scelti dai loro insegnanti.»

Ido sbuffò. Si preannunciava un lavoro lungo e noioso.

Ido e Parsel si divisero i ragazzi e iniziarono le selezioni. Si trattava di farli combattere tra loro, in modo da operare una prima scrematura. L’esame di ciascun allievo durava almeno mezz’ora e i due dovettero quindi imporsi ritmi serrati, paralizzando per altro il normale svolgimento del lavoro all’Accademia.

Il malumore circolò presto in tutto l’edificio. I maestri erano spazientiti per l’interruzione delle attività e molti degli allievi non accettavano di buon grado il giudizio dei maestri. Quando non era impegnato nelle selezioni, Ido non usciva dalla sua stanza. Quel clima pesante lo esasperava.

Del resto, neppure i suoi compiti lo rendevano entusiasta. Altro che impegno di responsabilità, altro che la prova di una rinnovata stima nei suoi confronti da parte di Raven. Era solo l’ennesima seccatura.

Quanto ai suoi futuri allievi, non facevano che guardarlo infastiditi. Era evidente che quei ragazzini incapaci non avevano alcun rispetto per lui.

Ido cercò comunque di svolgere il lavoro con imparzialità. Osservava gli allievi, cercava di ignorare i commenti e le occhiatacce, dispensava persino qualche consiglio, accolto di solito con borbottii poco convinti.

Quando scartava qualcuno, notava a volte sguardi carichi d’ira.

Curioso come siano tutti ansiosi di rimetterci le penne quando non hanno mai combattuto, e come invece diventino pavidi non appena sentono l’odore della battaglia.

Dei centocinquanta allievi che Ido aveva esaminato, in una settimana ne rimasero solo sessanta. Parsel invece ne aveva selezionati un centinaio, ma si trattava soltanto di una prima scrematura. Come ultimo passo, avrebbero combattuto con ciascuno dei ragazzi per testarne le capacità.


Dopo la prima fase delle selezioni, il clima all’Accademia si fece ancora più teso. Quando Ido si muoveva fra i corridoi, ovunque si girasse c’erano capannelli di ragazzini che discutevano a mezza voce. Lo gnomo era stanco di tutti quei commenti e degli sguardi di supponenza che gli venivano rivolti.

Oltretutto, Parsel non riceveva il medesimo trattamento. C’era stato qualche allievo scontento del suo giudizio, ma tutto si era sempre risolto con un’amichevole chiacchierata, mentre le decisioni di Ido venivano messe ogni volta in discussione.

Lo gnomo però non era tipo da tenersi per sé le sue angustie; se aveva un sassolino nella scarpa, se lo levava il più presto possibile.

Così, una sera, la situazione degenerò.

Ido sorbiva la sua zuppa nella sala del refettorio e cercava di estraniarsi dal consueto borbottio che lo circondava. Intuiva che se si fosse messo ad ascoltare avrebbe colto discussioni poco piacevoli e non aveva intenzione di perdere tempo a litigare. Voleva solo concludere il suo incarico e andarsene da quel posto. Due allievi, però, parlavano a voce troppo alta e troppo vicino a lui. Se li ricordava, li aveva esaminati la sera prima. Uno dei due, un ragazzo allampanato dai capelli così biondi da sembrare albino, non era stato ammesso all’ultima prova.

«Mi ha scartato...»

«Non ci pensare, avrai altre occasioni in futuro.»

«La guerra non aspetta certo me.»

«La guerra è ben lontana dal concludersi.»

«Dici così perché tu sei stato scelto. Non ha capito niente di me, quel tizio, proprio niente. Sono sempre stato lo spadaccino migliore della mia classe.»

«Sst, non alzare la voce, che ti sente...»

«E che mi senta, quell’idiota. Sarebbe stato meglio se fossi capitato con il maestro Parsel.»

Ido posò il cucchiaio e si voltò con calma verso l’allievo. «Ripeti quel che hai detto» disse in tono tranquillo.

I due ragazzi ripresero a mangiare.

Lo gnomo allora si alzò, andò da loro e toccò su una spalla l’allievo che aveva scartato.

Un tremito percorse il corpo del ragazzo, che però si voltò fingendo indifferenza. Aveva occhi chiarissimi, mani nervose e un’irritante espressione strafottente.

«Dico a te. Abbi il coraggio di ripetere anche a me quello che hai detto al tuo amico. Dimmelo in faccia.»

Il silenzio scese su tutto il refettorio.

Il ragazzo rimase dubbioso per qualche istante, poi assunse un’espressione decisa. «Ho detto che avete sbagliato a scartarmi alle selezioni» disse in tono supponente. Il suo amico gli diede una gomitata, ma lui lo ignorò.

Ido sorrise. «Non immaginavo che ne sapessi più di me, che combatto da quarant’anni, su quali siano le doti del bravo guerriero.»

«L’esperienza non può certo migliorare un mediocre combattente.»

A un tavolo poco distante, un maestro si alzò. «Dohor! Ti sembra il modo di rivolgerti a un tuo superiore?»

«No, lascia che il piccoletto si sfoghi» disse Ido, senza smettere di sorridere. Si rivolse di nuovo a Dohor. «Ti hanno mai detto che il coraggio lo devi conservare per la battaglia, piuttosto che usarlo per fare lo spaccone?»

Dohor si alzò in piedi. «Io non faccio lo spaccone! Sono perfettamente consapevole delle mie forze e di essere pronto per la battaglia. Tutti qui dentro possono confermare che sono il primo della mia classe, tutti conoscono la mia abilità con la spada e tutti pensano quel che penso io: che è una cosa indegna essere giudicati da uno come voi.»

Il silenzio si fece imbarazzato.

«Questo linguaggio è intollerabile!» tuonò ancora il maestro.

«Me la vedo io» rispose calmo Ido. Tornò a guardare Dohor. «Mi sembrava di averti chiarito la situazione, il giorno in cui mi sono presentato. Non so che farmene di damerini come te, che combattono con il libro di tecnica in mano, gente con la testa piena di solenni idiozie sui duelli e sull’onore. Ma vedo che sei più stupido di quanto credessi. Perfetto, non ti fidi del mio giudizio? Non sia mai che io non sappia mettere in dubbio le mie valutazioni. Prendi la tua arma e seguimi fuori.»

Il ragazzo rimase al suo posto.

«Mi hai sentito? Andiamo nell’arena, lì mi mostrerai quel che sai fare.»

Dohor guardò il suo maestro, seduto al tavolo assieme agli altri insegnanti, ma ne ricevette solo un’occhiata perplessa.

Fu Parsel a intervenire. «Ido, il ragazzo ti ha evidentemente mancato di rispetto e sarà punito. Tu però non metterti al suo livello...»

«Non mi sto mettendo al suo livello» replicò Ido in tono seccato. «Vuole una seconda possibilità? D’accordo, gliela concedo. Se è il grande guerriero che dice di essere, me lo dimostri e venga fuori con me. Anzi, venite fuori tutti e giudicate voi stessi.» Guardò di nuovo Dohor. «Ti aspetto tra dieci minuti nell’arena.» Quindi uscì dal refettorio e andò nella sua stanza a prendere la spada.

Mentre percorreva i corridoi deserti, non si sentiva irato, né offeso. Era calmo, forse solo un po’ rattristato. Avrebbe potuto combattere una vita intera, ma non sarebbe bastata a conquistargli il rispetto altrui.

In meno di dieci minuti fu fuori. L’arena era già gremita, ma Dohor ancora non c’era.

Alla fine arrivò, pallido come un cencio. Indossava un giustacuore in cuoio e al fianco gli dondolava una spada che aveva tutta l’aria di essere il classico cimelio di famiglia. Ido aveva visto giusto. Un rampollo viziato di qualche borioso comandante.

Parsel tentò l’ultima mediazione. «Ido, non farai altro che renderti ridicolo... Insomma, è un ragazzino che è andato troppo oltre, tutto qui. Gli altri maestri non vedono di buon occhio questa tua alzata di ingegno.»

«Se l’avesse fatto uno qualunque di voi, sareste tutti qui ad applaudire i suoi metodi educativi. Risparmiami la predica, sai bene che sto facendo la cosa giusta e sai altrettanto bene che non si tratta semplicemente di un ragazzino che si è spinto oltre.»

Parsel tacque e rinunciò ai suoi propositi.

L’allievo si fermò al centro dell’arena e rimase perplesso al suo posto.

«Be’? Hai intenzione di combattere o cosa?» lo provocò Ido.

«Non siete in posizione d’attacco...»

«Tra i fammin non si usa... Un gran guerriero come te dovrebbe saperlo. Forza, fatti sotto.»

Dohor partì con un potente affondo e a Ido bastò semplicemente scostarsi. Il ragazzo dovette intuire mentre vibrava il colpo che la strategia non era vincente, così tentò subito dopo un colpo laterale. Ido si limitò a saltare e Dohor perse l’equilibrio. Lo gnomo quindi gli puntò la spada alla gola.

«To’, sembra che io abbia vinto. Ma forse eri distratto, non hai avuto il tempo di mostrarmi le tue grandi doti. Mettiamola così, la faremo al meglio di tre assalti, va bene?»

Il ragazzo doveva iniziare a rendersi conto del pasticcio in cui si era cacciato, perché annuì poco convinto.

I due si separarono. Anche questa volta, Ido rimase fermo al suo posto e Dohor tentò di attaccarlo. Provò con un colpo dall’alto, ma lo gnomo si spostò lateralmente e lo schivò. Da quando quella farsa era iniziata, non aveva usato la spada neppure una volta. Dohor tentò ancora, e ancora, ma Ido era sfuggente come un furetto. Poi, lo gnomo inferse un rapido colpo alla spada del suo avversario e quella volò via lontano. Ancora una volta, puntò l’arma alla gola del ragazzo.

«A quanto pare la tua presa non è poi troppo salda...»

Dohor ansimava spaventato a un braccio da lui.

«Due a tre, ragazzo. Sembra che abbia vinto. Ma non importa. Sono magnanimo oggi, quindi direi che possiamo anche fare così: se vinci la prossima, entrerai a far parte delle mie truppe. Sei d’accordo?»

«Io...» provò a obiettare il ragazzo con uno sguardo supplice, ma Ido non gli diede il tempo di finire la frase.

«Perfetto, vedo che sei d’accordo. Sono magnanimo, però non sono stupido, quindi stavolta sarò io ad attaccare.»

Ido e Dohor si separarono ancora. Non appena Ido vide che il ragazzo era pronto al suo posto, partì alla carica. Come al suo solito, giocò di polso. Le sue gambette, che tanta ilarità suscitavano in quel branco di ragazzini viziati, erano ben salde a terra e anche la parte superiore del corpo era pressoché immobile. Solo il braccio si muoveva.

Dohor non sapeva come reagire, tentava di parare, ma la spada di Ido era rapidissima e colpiva da più direzioni. Il ragazzo ce la mise tutta, ma non fece altro che indietreggiare, finché non si ritrovò a pochi passi dalla rastrelliera posta sul fondo dell’arena. Fu preso dal panico, inciampò e cadde a terra. Di nuovo la spada di Ido puntò al suo collo.

«Serata no? Come mai uno bravo come te non ha saputo rispondere a neppure uno dei miei colpi? Che ne dici?»

Dohor, al limite delle lacrime, tacque affannato, ancora disteso a terra.

«Non c’è bisogno che sprechi altre parole, ti spiego io com’è andata. È andata che sei un soldato immaturo, è andata che ti sopravvaluti come un idiota. È andata che forse potresti anche avere talento, se non fossi così borioso e sicuro di te. Hai ancora molto da imparare sulla tecnica della spada, figurarsi sulla guerra. Invece di frignare perché non ti ho preso con me, ringraziami, perché ti ho salvato la vita. In battaglia non saresti durato il tempo di questo duello.»

Ido rinfoderò la spada e tornò nel refettorio, nel silenzio generale, rotto soltanto dai singhiozzi di rabbia e vergogna di Dohor.


Dopo l’episodio nell’arena, il clima all’Accademia cambiò radicalmente. I ragazzi guardavano Ido con timore, i maestri lo evitavano. Non era esattamente quel che lo gnomo aveva sperato, ma il timore era comunque meglio dello scherno, così si accontentò del risultato ottenuto.

La sua impresa di quella sera ebbe però anche alcuni sgradevoli effetti collaterali. Ido se ne accorse il giorno in cui iniziò la seconda fase delle selezioni, durante la quale ciascuno degli allievi scelti era chiamato a combattere con il maestro.

Lo gnomo fece il suo ingresso nell’arena in tenuta da battaglia, con la lunga spada che gli pendeva al fianco. Gli allievi erano già schierati, un’ottantina in tutto. Regnava un silenzio assoluto e Ido se ne meravigliò. Scorse rapidamente i volti lì assiepati e vide solo sguardi impauriti.

Cominciò col presentare la prova e si dilungò in qualche chiacchiera inutile, ma continuava a sentirsi a disagio, fra tutti quegli occhi che lo scrutavano allarmati. Alla fine decise che era tempo di tagliare corto.

«Tu, in prima fila, cominciamo con te.»

«Io?» rispose il giovane perplesso.

«Non mi sembra di essere strabico, quindi sì, tu.»

Ido aveva scelto un allievo piuttosto esperto. Era un ragazzo grandicello, bruno e scuro di carnagione, che gli era sembrato promettente. Si era detto che fosse il caso di cominciare con uno bravo, per rompere il ghiaccio.

Il ragazzo avanzò verso di lui con passo insicuro. Sotto il colore brunastro della sua pelle, si notava un evidente pallore.

Ido era indeciso sul da farsi. «In guardia» disse secco.

Il ragazzo obbedì poco convinto.

Lo gnomo iniziò ad attaccare e l’allievo sembrò essere finito nel pallone. Movimenti scoordinati, colpi imprecisi e fuori tempo, un campionario dell’incapacità nella scherma, finché la sua spada volò via dopo pochi assalti.

«Be’?» esclamò Ido, spiazzato.

Il ragazzo rimase al centro dell’arena con le braccia lungo i fianchi. Aveva lo sguardo terrorizzato. «Perdonatemi... io...»

Ido poteva fiutare la sua paura anche a quella distanza. Sentiva perfino il battito esasperato del suo cuore. Iniziò a capire. «Va bene, come se nulla fosse successo. Sei agitato. Mi rendo conto...» In verità, non se ne capacitava, ma insistere nel ruolo del maestro intransigente non l’avrebbe portato da nessuna parte. «Prima che mi veniate davanti a uno a uno bianchi come cenci, mettiamo in chiaro un paio di cose. Io non sono qui per mangiare nessuno, né per umiliarvi. Dimenticate gli episodi a cui avete assistito in questi giorni. È ovvio che non mi attendo che mi battiate. Ed è altrettanto ovvio che non sono qui per battervi. State calmi e fate del vostro meglio. Va bene?»

Il "sì" di quell’ottantina di ragazzi fu quasi impercettibile.

Ido sbuffò. Che razza di compito mi hanno assegnato... «Forza, riprendi la tua spada e attaccami. Io sono qui.»

Il ragazzo si fece coraggio, riafferrò la spada e provò ad attaccare. Ido per parte sua non fece praticamente nulla. Si limitò a parare, senza neppure troppa convinzione, colpo su colpo. Dopo una decina di minuti di un duello inutile e noioso, abbassò l’arma.

«È stato così terribile?» chiese con un sorriso forzato.

Il ragazzo sembrò apprezzare il tentativo e con un timido sorriso di comprensione disse un "no" che sapeva tanto di sospiro di sollievo.

«Perfetto. Il prossimo.»

Nessuno si mosse.

«Il prossimo, ho detto» ripeté in tono più autoritario.

Subito si fece avanti un biondino magrolino ma molto tenace; Ido lo aveva già notato durante la prima fase delle selezioni. Non era un grande spadaccino, ma un ottimo guerriero, infiammato dall’ardore e dalla determinazione.

Il ragazzo assunse un’aria concentrata e si mise in posizione di attacco. Ido sorrise; finalmente aveva davanti qualcuno consapevole di quello che faceva. Iniziò a duellare con piacere, orgoglioso del suo ruolo di insegnante.


Le selezioni richiesero all’incirca tre giorni e alla fine Ido si ritrovò con il suo manipolo di giovani reclute, centoventi ragazzi in tutto, meno della metà del gruppo iniziale.

Quando per la prima volta li vide schierati, si sentì prendere dallo sconforto. Aveva due settimane per fare di quei ragazzi dei guerrieri e il compito gli sembrava improbo. Con Nihal ci aveva impiegato mesi. Era vero che in quel caso si trattava di addestrare un Cavaliere, ma era anche vero che la mezzelfo era assai dotata. Qui invece aveva un gruppo di ragazzini con una propensione alle armi appena passabile.

Parsel parve leggergli nel pensiero. «Non devono diventare il corpo più forte dell’esercito. Solo buoni guerrieri che aiutino le truppe d’assalto» gli disse.

Ido sospirò.


Per l’addestramento, lo gnomo esigette che i ragazzi abbandonassero l’Accademia e si sistemassero in un accampamento nella Terra dell’Acqua. La cosa fu fonte di una lunga e sfibrante discussione con Raven.

Il Supremo Generale piantò parecchie grane, brontolò e disse che i ragazzi erano comunque allievi e dunque il loro posto era lì, in Accademia.

«Devono diventare guerrieri, devono imparare ad avere familiarità con certi spettacoli. Sul fronte avranno modo di assaporare l’aria che si respira in guerra, così non si troveranno impreparati il giorno dell’attacco» replicò Ido.

«Tu vuoi semplicemente andartene» rispose Raven. «Non sopporti questo posto, lo so, e non vedi l’ora di levare le tende. È questo l’unico motivo.»

«E l’unico motivo per cui tu fai tutte queste storie è che vuoi mettermi i bastoni fra le ruote.»

Dovette intervenire Parsel, che inaspettatamente appoggiò l’idea di Ido. Solo così lo gnomo ebbe il via libera e poté finalmente lasciare l’Accademia.

Non appena mise il naso fuori dal portone, gli parve di tornare a respirare, e si sentì ancora meglio una volta che ebbe lasciato Makrat. Volò piano con Vesa, mentre la carovana degli allievi scorreva lenta sotto di lui. A mano a mano che si allontanava dalla capitale, gli sembrava di rifiorire; persino il compito dell’addestramento si prospettava meno noioso.

Si fermavano spesso e Ido ne approfittava per qualche breve lezione di strategia, per rinfrescare le nozioni che i ragazzi avevano appreso in Accademia. Lo gnomo sapeva per esperienza che la strategia era la materia meno seguita dagli studenti, che erano sempre ansiosi di menare le mani.

Raccontò quindi alle sue reclute delle numerose battaglie che aveva combattuto, illustrò loro gli schieramenti degli eserciti e le strategie adottate. Lo trovò quasi divertente, era come far rivivere il passato e provava un curioso piacere a rievocare le sue imprese. I ragazzi poi pendevano dalle sue labbra e lo ascoltavano assorti. Ogni tanto qualcuno si lasciava andare a esclamazioni di stupore, oppure qualcun altro gli rivolgeva una domanda. Ido iniziava ad affezionarsi a quei ragazzi.

Lo gnomo si dilungava anche nella descrizione del nemico, delle sue armi, dei suoi guerrieri. I ragazzi avevano sentito parlare dei fammin e degli uccelli di fuoco, ma erano argomenti su cui all’Accademia si sorvolava, perché sarebbero stati affrontati alla vigilia della prima battaglia, quella che concludeva la fase iniziale dell’addestramento.

Ma i giorni di viaggio non erano occupati solo dalle lezioni alle reclute. Finalmente Ido poteva iniziare il proprio addestramento. Pensava con ansia alla battaglia che di lì a breve l’avrebbe impegnato e rievocava sempre più di frequente l’immagine del Cavaliere vermiglio, che aveva quasi dimenticato nei giorni trascorsi all’Accademia. Spesso se ne andava nel bosco, con Vesa, a esercitarsi per aumentare la propria agilità, benché non ne avesse davvero bisogno. Era ossessionato dall’idea di battere quel Cavaliere e l’epiteto che lui gli aveva lanciato nel bel mezzo della battaglia – "codardo" – gli fischiava di continuo nelle orecchie.

18 L’errato

La felicità di Nihal alla vista di Laio si trasformò presto in preoccupazione. Il ragazzo aveva un colorito terreo, le braccia fasciate e la sua casacca era insanguinata.

«Che cosa ti è successo?» chiese mentre gli si avvicinava.

Laio sorrise. «È una storia lunga.»

Per prima cosa, Nihal volle legare il fammin. Sentiva provenire da lui sentimenti strani, simili a quelli che aveva percepito fuori dalle celle dove erano rinchiusi quegli esseri, ma più intensi. La mezzelfo non riusciva a capire da dove scaturissero, non si capacitava che un fammin potesse essere così sconsolatamente triste e mansueto.

Poi mangiarono e durante il pasto Nihal e Sennar si fecero raccontare tutta la storia da Laio. Lo scudiero descrisse con fierezza la sua fuga dalla cella, l’arrivo al valico, la tortura, senza risparmiare neppure un particolare. Dalla sua espressione, Nihal capì quanto fosse orgoglioso di meritarsi finalmente la loro ammirazione e notò che spesso si rivolgeva a Sennar, come in attesa di un riconoscimento. Infine Laio parlò di Vrašta.

«Sarà meglio che ti curi quelle ferite» disse Sennar alla fine del suo racconto.

Laio lo fissò e distolse lo sguardo solo quando il mago gli concesse un sorriso. Quindi si voltò verso Nihal. «Sei arrabbiata?»

Nihal esitò prima di rispondere. «Non lo so.»

«Non l’ho fatto per capriccio» disse Laio e Nihal notò che la sua voce non era più cristallina come prima, era la voce di un uomo. «Voglio essere padrone del mio destino, per questo l’ho fatto. Credo di essere più utile qui con te che alla base o in qualsiasi altro posto.»

«Però... come ti sei ridotto...» mormorò Nihal.

«Ho pagato per la mia scelta. Nella vita è così» disse. Poi sorrise e si allontanò con Sennar.


Le ferite non erano gravi, fatta eccezione per quella alla spalla, che rischiava di infettarsi, ma erano numerose e Sennar dovette faticare un bel po’ per curarle. Quando il mago ebbe terminato, Laio si assopì tranquillo.

Sennar quindi tornò da Nihal, assorta vicino al fuoco. «Cos’hai intenzione di fare con il fammin?» le chiese.

«Non si può far altro che ucciderlo» rispose in tono freddo Nihal.

«Non credi a quel che ci ha detto Laio?»

«I fammin sono macchine di morte, nient’altro.»

Nihal sentiva il bisogno di uccidere dal momento in cui aveva abbandonato Seferdi, e ora le si presentava l’occasione di soddisfarlo. Aveva visto il corpo di Laio, mentre Sennar lo curava; non c’era un brandello di pelle che non fosse stato lacerato dalla frusta o bruciato dai ferri roventi. Di tutte le abiezioni, la tortura era quella che faticava di più a tollerare.

«Laio è affezionato a quell’essere» disse Sennar. «Se il fammin avesse voluto ucciderci, non avrebbe confessato tutto. So che sei ancora furiosa per quello che abbiamo visto a Seferdi, ma credo che tu debba riflettere...»

Nihal lo zittì con un gesto di stizza. «Sai benissimo anche tu che i fammin sono nemici.»

«Questo però ha salvato la vita di Laio» ribatté Sennar.

«Sì, per venire fin qui a ucciderci.»

«Parlagli» disse Sennar calmo. «Interrogalo e cerca di capire cosa vuole, poi decideremo che fare di lui.»


Nihal non riusciva a dormire al pensiero di avere quell’essere al suo fianco, così volle parlare con lui quella notte stessa. Lo svegliò con un calcio e gli si parò davanti. La sua mano strinse automaticamente l’elsa della spada, ma si trattene dall’ucciderlo. C’erano quegli occhi che la frenavano, la tristezza che sentiva provenire dal fammin le impediva di sguainare la spada e tagliargli la testa. «Dobbiamo parlare» gli disse.

Il fammin si limitò a guardarla con tranquillità.

Nihal si sedette. «Hai un nome?»

«Vrašta.»

La mezzelfo sussultò. Era una parola della formula proibita. Solo udirla la fece rabbrividire.

«È una parola che il Tiranno usa per le sue magie» spiegò infatti l’essere. «Tutti i fammin hanno nomi del genere, in modo che quando li si chiama siano avvinti da un incantesimo e non possano disobbedire.»

«È così che i comandanti vi danno gli ordini?»

«Sì» disse Vrašta. «Se si tratta di un ordine normale, un fammin può anche non obbedire, ma quando siamo chiamati per nome perdiamo quella possibilità.»

«Sei qui per ucciderci, vero?» chiese Nihal.

«Non voglio fare del male a Laio» rispose Vrašta.

«Io vi conosco bene» iniziò Nihal. «Quasi tre anni fa, due tuoi degni compari vennero in casa mia e uccisero mio padre sotto i miei occhi. Si divertirono a farlo. So riconoscere la gioia dell’uccidere e vidi quella gioia nei loro occhi. Voi siete tutti così: amate il sangue.»

«Io non amo nulla. Mi piace solo che Laio stia bene.»

«Ti sei approfittato di Laio perché è ingenuo però me non mi freghi. Io sono un Cavaliere di Drago, ho già avuto a che fare con voi.»

«Allora perché non mi hai ucciso?»

La domanda spiazzò Nihal. Non riusciva a confrontarsi con quell’essere. Sentiva di odiarlo, ma per certi versi lo percepiva simile a sé. Non assomigliava ai fammin contro i quali era solita combattere.

«Io non sono come voi» rispose alla fine. «Io non uccido per il gusto di farlo.»

«Tu sei una mezzelfo.» Quelle parole fecero trasalire Nihal. «Lo so perché molti uomini si vantano di averli sterminati» spiegò Vrašta.

«Foste voi a ucciderli.»

«No, ti sbagli» rispose Vrašta. «Sono passati molti anni, ma alcuni di quelli che assistettero alla strage vivono ancora e adesso sono grandi comandanti. Spesso li ho sentiti raccontare di Seferdi. Numerose città della Terra dei Giorni furono distrutte dai fammin, ma Seferdi la vollero radere al suolo gli uomini.»

«Menti» disse Nihal.

«Portarono una truppa di fammin per gettare scompiglio, ma erano quasi tutti uomini, e tra loro c’erano molti maghi. L’ultimo re dei mezzelfi aveva bandito i maghi dalla Terra dei Giorni e volevano vendicarsi. Entrarono con i guerrieri più forti e iniziarono la strage; poi, uno dei maghi più potenti gettò un incantesimo su Seferdi, perché i cadaveri impiccati non si decomponessero e restassero per sempre appesi dov’erano.»

Nihal sguainò la spada e gliela puntò contro. «Rimangiati tutte queste menzogne!» gridò.

«È la verità» disse calmo Vrašta. Nihal sentì che non aveva alcuna paura della morte. «Noi uccidiamo, ma sono gli uomini che ci comandano, da soli non sappiamo fare niente. Loro ci dicono di sterminare e noi lo facciamo; loro ci hanno creati perché amassimo uccidere e noi lo amiamo; loro ordinano e noi non possiamo dire di no.»

Nihal fremeva di rabbia, ma sapeva che era la verità. Si era già imbattuta nei traditori quando combatteva e li aveva visti nella locanda in cui si erano fermati giorni addietro. Accostò la spada alla gola del fammin.

«Tu non conosci davvero i fammin, altrimenti non avresti questi dubbi» rispose Vrašta. «Ci sono alcuni fammin che chiamiamo gli Errati. Gli uomini non sanno bene perché, però gli Errati non amano uccidere. Parlano di sentimenti, dicono che massacrare non è giusto e cose del genere.»

«Non esistono fammin così» sbottò Nihal, ma già mentre lo diceva il dubbio si era insinuato in lei. Questo spiegava i sentimenti dei fammin in cella, le emozioni che percepiva in Vrašta.

«Gli Errati dicono di soffrire mentre uccidono. Non vogliono farlo, ma devono, perché gli uomini glielo ordinano. Quando un uomo ci chiama per nome, non ha più senso quel che vogliamo o quel che sentiamo.» Il fammin fece una pausa, pensieroso. «Io so che non voglio uccidere Laio, è tutto quello che so.»

«Sono molti gli Errati?» chiese Nihal.

«Ancora no, ma stanno aumentando. Gli uomini li odiano. Li fanno combattere e si divertono a dare loro ordini crudeli chiamandoli per nome, per vederli soffrire. Alcuni, alla fine, si fanno uccidere.»

«Tu non sei uno di loro» disse Nihal.

«No» rispose Vrašta, ma Nihal capì che era titubante.

Era un Errato, Nihal lo sentiva, ma non voleva crederci, come non voleva prestare fede alle sue parole. I fammin erano mostri e lei ne aveva sterminati a migliaia in battaglia. Eppure sapeva che Vrašta aveva detto la verità. Ma allora, dov’era il bene e dove il male? Erano gli uomini i veri mostri? Non era peggiore chi, come lei, uccideva per scelta, piuttosto che quelli che lo facevano perché vi erano costretti?

Vrašta la fissò. «Uccidimi» disse.

Nihal restò in silenzio, stupita.

«Io non voglio ammazzare Laio. Lui mi ha fatto conoscere la vita. Lui è mio amico, mi ha spiegato cos’è l’amicizia. Ma se qualcuno mi chiamerà per nome, dovrò ucciderlo, e anche te. E non voglio.

Uccidimi.»

Nihal strinse i denti e cercò una decisione che in quel momento non aveva. «Certo che lo faccio, non hai bisogno di pregarmi.»

Preparò il colpo. Impugnò la spada con due mani e la levò verso l’alto, guardando la gola del fammin. L’avrebbe abbattuta in quel punto e tutto sarebbe finito. Quell’essere era un pericolo, doveva toglierlo di mezzo. La spada le tremò tra le mani.

«Uccidimi» disse ancora Vrašta. La sua adesso era una voce umana, non aveva più quei toni gutturali che ogni volta ricordavano a Nihal la morte di Livon. Non era un assassino a chiederle la morte, era un prigioniero. Nihal abbassò la spada.

«Ora no, non voglio» disse.

«Ma io sono una minaccia...» protestò Vrašta.

«Non ti permetterò di uccidere né me, né i miei compagni» disse Nihal. «Finché ci sarò io, tu sarai inoffensivo.» Poi se ne andò, accompagnata dal dolore del fammin.


Il mattino seguente, quando tutti furono svegli, Nihal comunicò la sua decisione: «Vrašta verrà con noi, sarà una specie di prigioniero. Indietro non possiamo mandarlo, perché parlerebbe di noi, e se lo uccidessimo...». Esitò. Non le andava di ammettere che non aveva avuto il coraggio di ammazzarlo. Vide lo sguardo speranzoso di Laio e si rincuorò. «Se lo uccidessimo manderebbero a cercarci altri suoi compari e rischieremmo di essere scoperti.»

La spiegazione non stava in piedi, ma nessuno glielo fece notare.

«All’occorrenza potremo fingere che ci tenga prigionieri, sarà un modo per passare attraverso il territorio nemico» concluse Nihal. Non attese repliche, sfuggì gli occhi di Vrašta, che era l’unico per niente contento della decisione, e si alzò. Quindi ripresero la marcia.


Entrarono nella Terra della Notte il giorno dopo l’incontro con Laio. La luce nelle paludi era crepuscolare, ma d’un tratto il buio calò su di loro. Era un buio strano. Non c’erano stelle in cielo, e neppure la luna, solo un’insolita luce diffusa, come in una notte di plenilunio.

«Ci siamo» disse Laio. Nihal lo guardò. «Questa è la mia Terra, la Terra della Notte.»

Laio era stato portato via da quei luoghi quando aveva all’incirca due anni e non ne conservava praticamente ricordo. I suoi vi si erano trattenuti finché erano riusciti a tenere nascosto il loro dissenso al regime del Tiranno e a dare man forte alla resistenza locale. Quando erano sorti i primi sospetti nei loro confronti avevano preferito proteggere il figlio e partire. Si erano rifugiati nella Terra dell’Acqua, dove suo padre aveva costruito la dimora tenebrosa in cui Nihal era stata ospite. La madre di Laio era morta durante la seconda gravidanza e Laio e suo padre erano rimasti soli. Pewar parlava spesso al figlio di quella Terra che amava, avvolta nel buio perenne. Laio aveva custodito insieme ai racconti anche la nostalgia che li circondava e aveva sempre desiderato vedere la sua Terra natia.


La prima sera, accampati nella palude e protetti dall’oscurità, Nihal interrogò il talismano. Si accorse che il suo potere era aumentato. Del resto, metà delle pietre erano alloggiate nei loro alvei. In effetti, le indicazioni furono molto più precise del solito: Nihal vide il sud e alberi contorti, con i rami protesi verso il cielo. Una foresta morente.

«Mio padre me ne parlava spesso» disse Laio, quando Nihal ebbe riferito le sue visioni. «C’è una grande foresta a sud, chiamata Foresta di Mool. Era uno dei boschi più belli di tutto il Mondo Emerso, ma da quando c’è il Tiranno sta morendo lentamente.»

Si avviarono verso sud. Dopo i primi due giorni di marcia, compresero cosa significasse vivere in una notte perenne. Era quasi impossibile dormire con regolarità e finirono con l’addormentarsi quando capitava. Inoltre, se i terreni paludosi erano ostici da attraversare in piena luce, figurarsi al buio, senza vedere dove posavano i piedi. Come se non bastasse, era difficile orientarsi, così Sennar fu costretto a usare la magia, con il rischio che altri maghi li scoprissero. Più di una volta smarrirono la strada e si ritrovarono a girare in tondo. Poi le scorte di cibo terminarono e dovettero accontentarsi di quel che trovavano lungo la strada: radici ed erbe varie. Di tanto in tanto, Vrašta riusciva a catturare qualche animaletto.

Quando superarono il fiume Looh, si trovarono di fronte una pianura stepposa, ricoperta da una lanugine che si faticava a chiamare erba. Abbattuti, si prepararono a guadarlo.

Fu in quei giorni che per la prima volta Vrašta diede segni di inquietudine. Fino a quel momento era stato tranquillo e servizievole; solo Nihal ne conosceva il tormento interiore. Il fammin portava Laio sulle spalle, metteva il suo fiuto al servizio dei compagni di viaggio, marciava senza mai stancarsi. Di sera, vegliava di guardia anche se non gli era richiesto. Con il passare dei giorni, la voce del fammin si era fatta meno gutturale e sembrava quasi umana, e i suoi occhi erano più limpidi.

«Perché stai male?» gli chiese una sera Nihal, mentre condividevano il turno di guardia davanti al fuoco.

Il fammin la guardò stupito. «Cosa vuol dire?»

«Sento che sei triste, che provi dolore.»

Vrašta sospirò. «Penso al mio destino. Stando con Laio mi accorgo di tante cose che non capivo e non so se sono contento di averle capite. Forse preferirei non aver mai scoperto il mondo.»

Nihal rimase in silenzio.

«Forse sono come gli Errati» continuò Vrašta. «Se ripenso a quel che mi dicevano, credo di capirli adesso. Vorrei non essere quello che sono, vorrei non dover più uccidere, ma so che un giorno sarò costretto a farlo. Preferisco morire. Mi ucciderai se te lo chiederò?»

Nihal ci pensò a lungo prima di rispondere. «Non ti permetterò mai di farci del male» rispose infine.


Un giorno, mentre camminavano nella steppa, Sennar si accorse che Vrašta annusava l’aria di continuo.

«C’è qualcosa che non va?» chiese il mago, ma il fammin scosse la testa.

Arrivarono alla Foresta di Mool durante la terza settimana di viaggio. La pallida luce che aleggiava su quella Terra d’ombra si posava su un intrico di rami spogli, che intrecciavano orditi contro il cielo e si estendevano a perdita d’occhio. Anche così, asfissiata dagli artigli del Tiranno, la foresta conservava parte dell’antica magnificenza.

Non tutto però era morto. A mano a mano che si inoltravano nel folto, iniziarono a incontrare qualche alberello con i rami ricoperti di foglie. Avevano un aspetto malaticcio, eppure resistevano. Un giorno trovarono una piccola radura circondata da alberi frondosi e decisero di fermarsi per riposare.

Vrašta partì per la caccia e Nihal ne approfittò per interrogare di nuovo il talismano. Preferiva farlo quando il fammin non era nei pressi. La mezzelfo chiuse gli occhi e capì dalle visioni che erano vicini al santuario. Forse, per una volta, non avrebbero incontrato ostacoli.

Quando Vrašta tornò, Nihal e Sennar si accorsero subito che qualcosa non andava.

«Va tutto bene?» chiese Nihal. D’istinto, portò la mano alla spada.

«Sì» rispose Vrašta, ma non la guardò negli occhi.

«Sicuro?» Sguainò la spada e gliela piazzò sotto la gola.

«Lascialo stare, possibile che ancora non ti fidi di lui?» esclamò Laio facendosi avanti.

Nihal abbassò la spada. Sapeva che Vrašta non temeva la morte, ma la desiderava. In quel modo non avrebbe cavato niente da lui.

«Meglio andare» disse. Così rinunciarono al riposo e si avviarono.


Camminarono a lungo, finché non furono esausti e si fermarono in una radura, più ampia e più spoglia della precedente. Laio non era ancora in forma e avevano marciato per diciotto ore filate. Vrašta continuava a essere inquieto.

Un paio d’ore dopo, solo Nihal vegliava. Sennar aveva ceduto alla stanchezza e si era assopito; quanto a Laio, dormiva della grossa. Sembrava che anche Vrašta riposasse. D’un tratto, il fammin spalancò un occhio rosso nel buio e si alzò di scatto. Il suo respiro era affannoso, gli occhi non erano più limpidi e tristi, bensì accesi di furore.

Non appena lo vide, Nihal portò la mano alla spada.

«Mi stanno chiamando» mormorò Vrašta. La sua voce era roca, quasi un grugnito.

Nihal svegliò Sennar e Laio, poi sguainò la spada. «Chi ti chiama?» chiese a Vrašta.

«Sono vicini» rispose lui. La sua voce era sempre più feroce.

«Qualunque cosa sia, va’ al santuario» disse Sennar.

Nihal si voltò e lo vide prepararsi al combattimento. Laio era accanto a lui, assonnato e con la spada in pugno.

«Cosa?» chiese Nihal.

«Non puoi morire. Se verremo attaccati, scappa verso il santuario» ripeté il mago.

«E vi lascio qui?»

«Noi abbiamo il compito di proteggerti» rispose Laio.

Nihal esitò.

«Non fare storie» insistette Sennar in tono più deciso, poi tese l’orecchio.

Nihal sentì il respiro affannoso di Vrašta alle sue spalle, un respiro da bestia braccata. Si voltò e vide i suoi occhi rossi di furore.

«Vattene!» gridò Sennar. Ora si sentivano distintamente dei passi avvicinarsi attraverso gli alberi.

Vrašta afferrò Nihal per un braccio e la trascinò lontano dai suoi amici, dove non potessero vederla. Lei si divincolò e rimediò un livido. «Che cosa ti prende?» urlò.

«Mi hanno seguito» disse Vrašta, con una voce così feroce che era difficile distinguere le parole. «Li ho visti ieri, da lontano. Sono i miei compagni della prigione. Mi stanno chiamando. Sanno che li ho traditi e ora mi dicono di ammazzarvi, di ammazzare Laio.» Sorrise feroce.

Nihal impugnò la spada, ma non la calò. Non aveva paura di Vrašta come di un nemico, temeva il suo mutamento. Il fammin scosse la testa e per un istante i suoi occhi tornarono quelli di prima, ma vi era un tale terrore che Nihal ne ebbe ancora più paura.

«Ti ho portata qui perché tu mi uccida» disse con una voce che a tratti tornava ad assomigliare a quella umana e a tratti era un grugnito minaccioso. «Non volevo che mi ammazzassi davanti a Laio.»

«Non posso...»

«Uccidimi!» urlò Vrašta.

«Tu hai salvato Laio, hai viaggiato con noi, hai cacciato per noi... Non posso...» Aveva ucciso migliaia di fammin, ma quello che aveva davanti non era un nemico. Sarebbe stato un omicidio.

«Non voglio uccidere Laio, non voglio uccidere... Ammazzami!» gridò Vrašta e la sua voce riempì la foresta.

Nihal udì rumore di spade e alcuni scoppi. I suoi amici avevano iniziato la battaglia. Sentì passi confusi fra gli alberi, grida gutturali, e vide Vrašta mutare sotto i suoi occhi. La strinse con forza e il suo volto si trasformò in un ghigno feroce.

«Uccidimi. Perché non vuoi farlo, dannata mezzelfo? Mi odi così tanto? Tra poco non sarò più me stesso!»

Ora anche Nihal sentiva il nome di Vrašta riecheggiare nella foresta. Il fammin si prese la testa fra le mani ed esercitò una pressione così forte sulle tempie che il sangue iniziò a scorrergli tra le dita. Si alzò, la guardò con occhi da folle e la implorò di ucciderlo.

Nihal scattò in piedi, chiuse gli occhi e affondò la spada fino all’elsa nel ventre di Vrašta. Quando li riaprì, il fammin era in ginocchio in un lago di sangue, e la guardava felice. I suoi occhi erano di nuovo limpidi, il suo volto era disteso e sorrideva.

«Grazie...» mormorò, poi cadde al suolo.

Nihal rimase immobile. Per la prima volta aveva compreso cosa significasse uccidere. La spada le tremava fra le mani e si sentì lorda di sangue innocente. Non udì i passi dei nemici che avanzavano verso di lei e quando quattro fammin sbucarono tra i rami spogli, la presero di sorpresa. Allungò innanzi a sé la spada.

Mai aveva esitato di fronte al nemico; aveva avuto paura della battaglia, una volta, ma mai di uccidere. Stavolta era diverso. Era sazia di sangue, provava disgusto all’idea di spargerne ancora.

I fammin si lanciarono su di lei e un’ascia la ferì a una spalla. Nihal balzò indietro, la spada tesa verso di loro. «Non voglio combattere contro di voi! Andatevene!» urlò.

In ciascuno dei volti feroci che le si paravano innanzi vedeva riflesso il sorriso di Vrašta; ognuno dei suoi avversari poteva essere un Errato, che obbediva agli ordini perché non poteva fare diversamente. Come poteva combattere con loro?

Si diede alla fuga, cercò di correre più veloce che poteva, si graffiò tra i rami, cadde, si rialzò e continuò a correre. Sentiva i passi dei nemici dietro di lei.

Un secondo colpo le squarciò il corpetto sulla schiena. No, non poteva fuggire, doveva lottare. Si fermò e si voltò. Quando la videro pronta al combattimento, i fammin esitarono.

«Non voglio uccidervi. Andatevene e non vi farò nulla» disse Nihal.

In tutta risposta ottenne ghigni sprezzanti. Nihal chiuse gli occhi e iniziò a combattere. Non voleva vedere i loro volti, aveva il terrore di scorgervi una traccia di umanità. Le ci volle un po’ per abbattere il primo, quindi si gettò sul secondo, fu ferita ancora, ma continuò a lottare, fino a quando a terra rimasero solo i corpi dei fammin uccisi. Ricominciò a correre, inseguita dal disgusto che provava per se stessa.

A un tratto si fermò. Sentiva di essere arrivata.

Davanti a lei c’era una sorta di caverna, le pareti erano fusti d’alberi morti e i rami intrecciati formavano la volta. Nihal entrò e continuò a correre; più correva, più il buio intorno a lei si infittiva.

Le sembrò di correre per un’eternità. L’aria aveva assunto una strana consistenza, la avvolgeva come una coperta, come fosse acqua. Inciampò in qualcosa e cadde a terra. Fu allora che sentì il nodo che aveva in gola sciogliersi e si abbandonò a un pianto senza freni. Mille pensieri le affollavano la mente: l’immagine di Vrašta che moriva sorridendo, la strage appena compiuta nel bosco, i suoi amici che combattevano da soli, Laio ferito e torturato, Sennar.

Pianse così a lungo che credette che non avrebbe mai smesso, che sarebbe rimasta per sempre sola nel buio a versare le sue lacrime.

Fino a quando non sentì una voce: «Chi sei?».

19 Goriar o della colpa

Laio si sforzò di riaversi dal sonno e si mise in posizione d’attacco, con la spada in mano. Sentiva i passi farsi sempre più rapidi e distinti.

«Sei sicuro di poter combattere?» chiese Sennar. «Le tue ferite non sono ancora guarite del tutto.»

Laio sorrise, ma non abbandonò la posizione. «Sono stanco di fare il peso morto. Non sono venuto fin qui per farmi difendere.»

Sennar ricambiò il sorriso, si voltò e preparò la formula che avrebbe recitato all’arrivo dei fammin.

I passi si fecero più vicini, accompagnati da una voce che urlava a squarciagola il nome di Vrašta. La voce di un uomo. Laio strinse la spada. L’ultima volta che aveva combattuto non aveva dato gran prova del suo valore, ma ora sarebbe stato diverso.

Dagli alberi innanzi a loro sette fammin fecero irruzione nella radura. Sennar lanciò su di loro un incantesimo e riuscì a metterne uno fuori combattimento. Gli altri restarono disorientati e questo permise al mago di organizzare la difesa. Attirò quattro dei sei fammin verso di sé, eresse una debole barriera difensiva e iniziò la battaglia.

Laio approfittò della confusione e colpì a tradimento uno dei nemici. Quindi iniziò a battersi. Fu come se in un istante gli fosse tornato alla mente tutto ciò che aveva imparato all’Accademia. Parava e assaltava con precisione, concentrato. Sapeva che fra i suoi nemici potevano esserci degli Errati, ma non volle pensarci.

Il primo fammin era ancora a terra e lo scudiero poté dedicarsi al secondo. Era forte e molto più abile di lui nel combattimento, ma Laio aveva dalla sua l’ardore e l’agilità. Fu ferito a un braccio, approfittò di una distrazione del fammin e lo colpì.

Quando vide il nemico cadere, Laio esultò. Ce l’aveva fatta. Aveva difeso Nihal.

All’improvviso, un colpo di spada lo raggiunse alla gamba e lo scudiero capì che i conti con il secondo fammin non erano chiusi. Riprese a combattere. Erano entrambi feriti, ma lo scudiero usciva da una lunga convalescenza. Presto i dolori dei vecchi tagli tornarono a farsi sentire, la vista si annebbiò e ogni colpo gli parve più duro del precedente.

Con la forza della disperazione menò un deciso fendente e il fammin crollò a terra. Laio cadde in ginocchio, senza fiato. Sollevò lo sguardo e vide Sennar ancora alle prese con due fammin; altri due erano ai suoi piedi.

«Vengo da te!» urlò Laio al mago e fece per alzarsi. In quell’istante sentì un dolore improvviso alla schiena e il suo corpo non gli obbedì più.

«Credo proprio che tu abbia finito di fare l’eroe» disse una voce dietro di lui.

Laio si abbatté al suolo senza un lamento. L’uomo a capo della truppa di fammin l’aveva preso alle spalle e ora era in piedi accanto a lui, con un sorriso stampato sul viso.


Sennar aveva sentito il grido di Laio e si era voltato appena in tempo per vederlo cadere a terra. Fu invaso dalla stessa ira che aveva provato a Seferdi, non vide più altro che il corpo del ragazzo a terra e il sorriso sul volto di quell’uomo, di quel traditore.

Con un balzo schivò un colpo del nemico e corse dallo scudiero. Aveva gli occhi chiusi e una larga macchia di sangue sulla schiena.

I fammin si fermarono e l’uomo avanzò verso Sennar. «È inutile che provi a difenderti» disse, quindi alzò la spada per colpirlo.

D’un tratto si bloccò, il braccio a mezz’aria. Una strana salmodia usciva dalle labbra del mago; un raggio verde partì dalla sua mano e l’uomo cadde al suolo, senza più vita.

Sulla piana scese un silenzio mortale. I fammin restarono al loro posto. Ora che non c’era più nessuno a dare ordini, non sapevano che fare. Sennar cominciò a recitare una formula, dapprima a bassa voce, poi in un tono sempre più alto, e fra le sue mani comparve un piccolo globo d’argento luminoso. Il globo crebbe e quando fu abbastanza grande, con un urlo Sennar lo lasciò andare.

Quella che aveva appena recitato per la prima volta in vita sua, spinto dalla forza dell’odio che aveva scoperto dentro di sé, era una formula proibita.

La luce inondò lo spazio intorno a lui, nel raggio di dieci braccia, e quando scemò vi erano solo cenere e corpi carbonizzati. Non più alberi, non più nemici.

In quel silenzio irreale Sennar sentiva soltanto il proprio respiro affannoso. Gli parve di aver sconfinato nella follia, di essere sprofondato negli abissi dell’inferno. Ritornò in sé quando ebbe la consapevolezza di aver ucciso per la prima volta in vita sua, e provò orrore quando si rese conto che la cosa non solo non gli dispiaceva, ma gli dava una gioia selvaggia. Guardò Laio.

Una lunga ferita di spada attraversava da parte a parte la schiena del ragazzo e il suo volto era terreo. Sennar gli appoggiò una mano sul collo. Era ancora vivo, non tutto era perduto.

Il mago si guardò intorno, cercando di non indugiare su quel che restava dell’uomo e dei fammin. Si sforzò di riflettere. L’incantesimo che aveva usato era visibile a molte leghe di distanza, a maggior ragione in una Terra dove l’oscurità era perenne. Qualcuno doveva averlo scorto, non era prudente rimanere lì. Non poteva cercare di curare Laio, perché non aveva abbastanza energie. Il combattimento contro i fammin prima e la formula proibita poi gli avevano sottratto tutte le forze magiche. Non restava che andarsene. Sarebbe stato meglio nascondere i cadaveri, ma non c’era tempo e al solo guardarli Sennar inorridiva. Quindi prese Laio in braccio e iniziò a correre alla ricerca di un luogo sicuro.


Corse come un disperato, a lungo, e più di una volta ebbe l’impressione di passare per un luogo dov’era già stato. Infine intravide una tana, un buco nel terreno. Non aveva un aspetto molto rassicurante, però era grande abbastanza per loro due. Prima vi introdusse Laio, poi entrò e depose il suo amico a terra.

Un tempo quella doveva essere stata la tana di qualche animale, perché sul suolo erano sparse delle ossa e in un canto c’era un giaciglio di foglie. Lì Sennar stese Laio, prono, poi si appoggiò alla parete e cercò di recuperare le forze.

Non appena ebbe chiuso gli occhi, gli tornarono alla mente le immagini della battaglia: Laio che cadeva a terra, il ghigno dell’uomo che aveva ammazzato, la strage che egli stesso aveva compiuto. Non aveva mai ucciso nessuno prima di allora, nemmeno il mago che aveva attentato alla vita di Nereo, e si sentì perduto, sconvolto dal pensiero della facilità con cui l’aveva fatto in quell’occasione. Nella mente gli vorticavano parole sentite tempo prima da Soana e dagli altri suoi maestri: uccidere un uomo è il massimo sovvertimento della natura, la magia del Tiranno è basata sull’omicidio. Aveva usato una formula proibita, una delle peggiori, aveva ceduto la sua anima all’inferno. E in fondo al cuore, ancora gioiva della strage. L’orrore lo sopraffece.

Dopo circa un’ora si sentì pronto per un incantesimo. Prima mandò un messaggio a Nihal, quindi si chinò su Laio e pronunciò la formula più potente che le sue forze gli consentivano. Fu in quel momento che si accorse della gravità della ferita: attraversava tutta la schiena ed era piuttosto profonda; inoltre Laio aveva perso molto sangue. Sennar iniziò a curarlo, ma scoprì che la ferita era refrattaria alla magia. Non si diede per vinto e continuò a recitare l’incantesimo, richiamando verso le sue mani, ora calde e luminose, tutte le forze che gli erano rimaste.


«Chi sei?»

Era la voce di un uomo, eppure aveva qualcosa di inumano. Era tenebrosa, profonda, come se provenisse dai recessi più bui della notte, la voce dei morti che si levava dal fondo delle cripte. Nihal non rispose.

«Perché sei giunta fin qui, in questo luogo santo?»

Nihal continuò a piangere in silenzio.

«Frena il tuo dolore e parlami» disse la voce.

Nihal ebbe l’impressione che un braccio le cingesse le spalle. Si calmò e si sforzò di aprire gli occhi, ma l’oscurità era completa. Le sembrava di essere immersa nel nulla.

«Sono in un santuario?» chiese alla fine.

«Questo è Goriar, il santuario dell’Oscurità: l’oscurità dell’Oblio, l’oscurità della grande consolatrice, la Morte che seda ogni dolore, l’oscurità di un Sonno senza sogni, in cui l’anima riposa» rispose la voce.

«Allora ho bisogno di te, perché il mio cuore anela al nulla, ora» disse Nihal.

«Qual è il tuo nome?»

«Sheireen» rispose, usando il nome che odiava. «Dammi l’oblio, sono un’assassina.»

Nihal ebbe la sensazione che qualcuno si fosse seduto innanzi a lei. Il braccio si spostò dalle spalle al volto e una mano calda e rassicurante le sfiorò la guancia.

«Ti conosco» disse la voce. Nihal prese in mano l’amuleto, che ora brillava in quella oscurità. «Hai condotto con te mia sorella Glael, strappandola alla sua solitudine.»

«Sei il fratello di Glael?» chiese la ragazza.

«Luce e Ombra sono la stessa cosa, Sheireen. Ella è la mia metà e me stesso, ella mi nega ma al contempo mi afferma. Senza Ombra la Luce non brillerebbe tanto fulgida, ma senza Luce l’Ombra non potrebbe essere così netta.»

Nihal abbassò lo sguardo. «Ero giunta fin qui per la pietra, dovevo implorarti di darmela, ma ora non so più che cosa devo fare. Le mie mani grondano del sangue di innocenti. Non sono più degna di ricevere l’amuleto.»

Le sembrò che l’oscurità l’avvolgesse più stretta.

«Sento che il tuo cuore è colmo di dolore e sento anche che le tue parole sono vere. La tua spada ha visto mille morti e tra queste anche quelle di chi era innocente. Eppure nel profondo il tuo animo conserva la purezza.»

«Io non volevo uccidere Vrašta!» urlò Nihal. «Lo consideravo un amico, stava diventando un compagno, ha salvato Laio. Io non volevo!»

«Questo lo so» disse Goriar.

«Non volevo uccidere i fammin nella foresta, non volevo uccidere degli innocenti!» Le lacrime ripresero a rigarle le guance. «Desidero da te l’oblio. Dammelo.»

Il senso di protezione che aveva provato fino a quel momento cessò. Si sentì sola e abbandonata.

«Ti fu già offerto, presso Thoolan, ma lo rifiutasti» disse la voce.

«Ora quel che voglio è l’incoscienza, e so che puoi darmela» ribatté Nihal.

«Non è questo ciò di cui hai bisogno» disse Goriar.

«Non voglio più sentirmi tanto sporca! Non voglio più sentirmi così crudele, così colpevole!»

La mano le prese il mento e la costrinse ad alzare il capo. Nihal sentì sul volto il soffio di un caldo respiro. Quando Goriar parlò, la sua voce era vicinissima. «Il dolore che senti ora, il senso di colpa, sono indispensabili. Non puoi sfuggirvi. Quando lasciasti Thoolan, ti fu detto che avresti sofferto, ma tu scegliesti di andare avanti. Quel che provi ora è nulla; altro ancora dovrà accadere che dilanierà il tuo cuore, e avverrà presto. Sarà attraverso questo dolore che imparerai la vita.»

«Ora so che sbagliavo, quando credevo di essere nel giusto uccidendo i fammin, ma ormai è troppo tardi» disse Nihal.

«È vero, ma dalle rovine di questa consapevolezza puoi innalzare nuove certezze. Hai compreso che il male permea ogni cosa, che non è stato condotto fin qui dal Tiranno, ma che è una forza da sempre presente nel mondo.»

«Cosa devo fare?» chiese Nihal.

«Questa è la tua ricerca, io non posso dirti nulla.»

«Sono come gli assassini di mio padre...»

«A nulla ti varrà crogiolarti in questo dolore. Devi trovare la via per uscirne, la via che ti condurrà fuori da questa oscurità, verso la luce.»

Nihal iniziava a calmarsi. «È tutta la vita che non so dove andare...» mormorò.

«Questa è l’essenza della ricerca che ti sei proposta di fare. Se non ci si sente sperduti, non si può trovare la via.»

«E ora?»

«Ora devi riflettere, su di te, sul mondo e sulla tua missione. Io posso solo dirti che la tua anima non è perduta ed è per questo che sento di poterti dare la mia pietra.»

Nihal si asciugò gli occhi e le guance. D’un tratto, vide delinearsi innanzi a sé la pallida figura di un uomo. Spiccava come un bagliore grigiastro sul fondo oscuro della caverna e sorrideva maestoso e composto. Al centro del petto aveva una macchia scura.

«Se oggi tu non avessi compreso quel che ti è costato tanto dolore, io non avrei potuto darti questa.» La macchia scura si staccò dal petto e si sollevò in aria verso Nihal.

«Questa è la pietra che cercavi, la quinta pietra, e l’hai pagata a prezzo della sofferenza che nasce dalla consapevolezza. Essa è come la fiammella che ti condurrà fuori da queste tenebre. Fanne buon uso e falla crescere dentro di te.»

Nihal allungò la mano verso la pietra.

«Non dimenticare mai il dolore di oggi. Non ti resta che compiere il rito» disse Goriar. Il suo sorriso era diventato benevolo.

Nihal prese in mano la pietra e mentre la deponeva nell’alveo recitò la formula. La tenebra si dissolse e il talismano brillò di una luce nuova. La mezzelfo si trovò d’un tratto sola, in mezzo a una galleria di alberi morti.


Nihal restò nella galleria per un po’. Era esausta, come se in quelle poche ore avesse vissuto lunghi anni. Aveva bisogno di quiete. D’improvviso, fu cosciente del tempo che era passato e si ricordò di Sennar e Laio. Erano in pericolo. Sennar non era un guerriero e Laio era solo uno scudiero ferito.

Balzò in piedi e iniziò a correre con la spada in pugno.

La foresta era immersa nel silenzio. Quando Nihal arrivò nella radura dove tutto era cominciato, si fermò e guardò attonita davanti a sé.

Non aveva mai visto una distruzione tale. Nel raggio di dieci braccia gli alberi erano scomparsi, come se fossero stati carbonizzati da una fiammata. A terra giacevano otto corpi irriconoscibili, anneriti dalle fiamme. Il buio non permetteva di distinguere le loro fattezze, ma Nihal era sicura che sette fossero fammin, mentre l’ultimo sembrava un uomo.

Si gettò su di lui, con il dubbio che potesse essere uno dei suoi amici, ma intravide subito una corazza che non era né di Laio né di Sennar. Nel mezzo c’era uno squarcio. Nihal capì che quella strage era opera di Sennar. Lui e Laio dovevano essere in salvo. Una furia simile, però, sembrava estranea al Sennar che conosceva. Il mago non si era solo difeso dal nemico, aveva sterminato i fammin. Nihal ebbe un brutto presentimento.

Fu allora che si accorse del fumo bluastro che la avvolgeva. Un messaggio. Tirò fuori dalla bisaccia le pietre per l’incantesimo e lo lesse. Era breve e lapidario: "Alla tana nel bosco. Presto".

Nihal si alzò di scatto e cercò le orme dei suoi amici. Trovò un solo paio di impronte, profonde e scomposte, come di chi ha trascinato i piedi. Iniziò a correre.


Non le ci volle molto per trovare la tana. Una volta lì, sporse il capo all’interno. «Siete qui?»

Nessuna voce le rispose, ma Nihal scorse in un bagliore funereo l’immagine di Sennar accovacciato su Laio. Tutti gli indizi si composero nella sua mente e divennero terribilmente chiari. Si gettò dentro la tana.

«Che cosa è successo?» urlò. Ma la domanda fu superflua, perché vide la ferita sulla schiena di Laio e il suo volto livido.

«Non c’è tempo per le spiegazioni, aiutami!» esclamò Sennar.

Nihal era come imbambolata, non riusciva a staccare gli occhi dalla macchia di sangue sulla casacca del suo scudiero.

Nihal, là fuori ti attende altro dolore, se esci accadranno cose che ti faranno molto soffrire, lo so perché l’ho visto... Altro ancora dovrà accadere che dilanierà il tuo cuore, e avverrà presto... Le parole di Thoolan e Goriar le turbinavano nella mente.

Sennar la afferrò per le spalle. «Vuoi aiutarmi o no?»

Nihal annuì, ricacciò indietro le lacrime, si concentrò e iniziò anche lei a prodigarsi per Laio.


Nihal e Sennar recitarono formule di guarigione per ore. Sennar sembrava infaticabile; il sudore gli scorreva a rivoli sulla fronte, ma il volto restava concentrato, le mani ferme.

Nihal non poté fare a meno di chiedersi che cosa sarebbe successo se non si fosse attardata nella galleria d’alberi. In quelle ore le tornarono alla mente tutti i ricordi che aveva condiviso con il suo scudiero: il giorno in cui si erano conosciuti, i tempi dell’Accademia, il viaggio per raggiungere Pewar e il modo in cui Laio aveva saputo tenere testa al padre. Ricordò ogni battaglia, il momento prima di scendere in campo, quando Laio le porgeva la spada che aveva affilato, o quando le stringeva i lacci dell’armatura e le raccomandava di stare attenta. L’immagine che conservava di lui non aveva nulla a che fare con il ragazzo che giaceva sotto le sue mani. Quello non era Laio, non poteva essere lui.

Nel cuore di quella che doveva essere la notte, se non si fossero trovati in una Terra dove l’oscurità era permanente, Nihal vide che Sennar era stremato. Il suo capo oscillava e le sue mani tremavano. Solo allora si accorse che anche lui era ferito: aveva un braccio insanguinato.

«È meglio che ti riposi» gli disse.

Il mago non rispose e non si fermò. La luce che promanava dalle sue palme si faceva sempre più fioca.

Nihal gli prese una mano. «Non puoi essere utile, se sei così stanco. Riposati.»

«Io...»

«Ci penso io, non preoccuparti.»

Riuscì a convincerlo a scostarsi da Laio. Non appena Sennar posò la testa sul pavimento della tana sprofondò nel sonno.


Il nuovo giorno arrivò senza luce, nell’oscurità che avvolgeva quella Terra. Sennar fu il primo a destarsi e per un attimo gli parve di aver sognato tutto. Poi vide Nihal assopita al fianco di Laio e comprese quanto ineluttabile fosse la realtà. Si sentiva riposato nel fisico, ma vecchio e stanco nell’animo. Scostò Nihal e considerò le condizioni di Laio. Il sangue si era fermato, ma la ferita non era migliorata. Il respiro del ragazzo era irregolare.

In quel momento Sennar comprese quel che sarebbe accaduto ed ebbe il coraggio di accettarlo. Non poteva fare nulla per Laio. Se i suoi incantesimi non avevano effetto, significava che presto il fantasma dello scudiero avrebbe combattuto fra le truppe del Tiranno. Ricominciò a curarlo, perché aveva giurato a se stesso che non avrebbe lasciato nulla di intentato, ma sapeva che era inutile.

Quando Nihal si svegliò, Sennar non ebbe il coraggio di guardarla.

«Come sta Laio?»

«È presto per dirlo» tagliò corto. «Perché non vai a prendere qualche erba medicinale?»


«Quando credi che si sveglierà?» chiese Nihal la sera.

Sennar la osservò. Sembrava che avesse scelto di ignorare la verità e si fosse convinta che Laio era fuori pericolo. Non trovò parole per risponderle.

«Non mi hai ancora detto che cosa è successo nella radura» insistette lei.

«Laio ha ucciso due fammin, poi l’uomo che era con loro lo ha colpito alle spalle» rispose il mago con voce stanca.

«Quando si sveglierà mi toccherà complimentarmi con lui. Ormai è proprio un guerriero provetto» commentò Nihal con un sorriso.

Sennar appoggiò il capo alla parete di terra; quanto sarebbe potuta andare avanti quella finzione?

«Non credi che sarebbe il caso di provare con qualche altro incantesimo?» chiese lei.

«Ho provato di tutto.»

La mezzelfo cambiò espressione. «Che cosa intendi?»

«Non conosco altri incantesimi che possano guarirlo. Ho fatto tutto il possibile. Non c’è nient’altro che possa escogitare.»

«Ma lui ancora non si è svegliato...» protestò Nihal.

In tutta risposta, Sennar le rivolse uno sguardo impotente.

«Non devi abbatterti. Sono sicura che andrà tutto bene» disse lei, ma la sua voce non aveva più la sicurezza di prima.

«Nihal, non ha senso sperare in qualcosa che non può avvenire» mormorò Sennar.

«Come puoi dirlo? Non ricordi tutte le volte che mi hai salvato la vita? La mia ferita, a Salazar, era ben più grave di quella di Laio.»

«La tua ferita non era come questa e poi ti sbagli, Laio sta molto peggio di quanto stavi tu.»

Nihal afferrò Sennar per la casacca e lo scosse. «Tu sei un consigliere, uno dei maghi più potenti di questa terra. Ci deve pur essere qualcosa che puoi fare! Conosci migliaia di incantesimi!»

Sennar non cambiò espressione. «La sua ferita non può essere guarita» disse piano.

Nihal lo colpì con uno schiaffo. «Lui è il mio scudiero, mi ha salvato la vita! È mio amico! Non posso permettere che muoia!»

Sennar non rispose e guardò altrove.

Nihal riprese, con più furia: «Tu devi fare qualcosa! Finché avrà respiro devi curarlo. Non puoi lasciarlo morire!».

«Lo vorrei con tutto me stesso, ma più recito formule più sento che la sua vita fugge. È come cercare di arginare un fiume in piena con le mani.»

Nihal iniziò a piangere. «No... non voglio...» mormorò con una voce che non sembrava più la sua.


La speranza rifiorì il terzo giorno. Non appena si svegliò, Nihal vide due punti luminosi nel buio della tana. La mano corse rapida alla spada, nel timore che qualche nemico li avesse scoperti, poi capì che le luci erano il riflesso negli occhi di qualcuno, il riflesso del chiarore che penetrava nel nascondiglio attraverso l’apertura della tana.

«Laio!» urlò. Si fiondò su di lui e gli accarezzò la testa. Un debole sorriso animò le labbra del ragazzo.

«Nihal...»

Anche Sennar si svegliò e anche lui credette che non tutto fosse perduto, non appena vide il ragazzo vivo e cosciente. Per qualche istante tutti e tre si confortarono in quella speranza.

Laio era molto debole e parlava a fatica. Spesso lo coglievano attacchi di tosse che gli mozzavano il fiato in gola. Per prima cosa chiese di Vrašta.

Nihal non seppe cosa rispondere. Anche Sennar la guardava interrogativo, così lei disse che l’aveva mandato a controllare che non vi fossero nemici nei dintorni e che presto sarebbe tornato. Laio sembrò crederci, ma Sennar assunse un’espressione sospettosa. Per fortuna di Nihal, non vollero perdere tempo in chiacchiere.

Nihal e Sennar ripresero a formulare incantesimi di guarigione, convinti che il peggio fosse passato e che presto il loro amico si sarebbe ripreso. La ferita però non diede alcun segno di miglioramento, anzi, cominciò a infettarsi.

«Ricordi quali erbe hai usato quando Nihal era ferita?» chiese il mago a Laio.

Lo scudiero sussurrò un paio di nomi e chiuse gli occhi, come per ritrovare le forze.

«Valle a cercare e portane quante più puoi, insieme a dell’acqua. Sta’ attenta, potrebbero esserci nemici in giro» disse il mago a Nihal.

La ragazza uscì furtiva dalla tana.


Sennar riprese il suo lavoro, ma vide che Laio si era fatto pensieroso.

«Come sto?» chiese a un tratto.

Il mago temeva quella domanda. Tacque.

Dopo un breve silenzio, la flebile voce di Laio si fece sentire di nuovo. «Sono già stato ferito, nella prigione in cui mi hanno torturato. Ora però è diverso...» Fece una pausa per riprendere fiato. «È come se non avessi più il mio corpo, non mi fa nemmeno male la ferita... Mi sembra di essere sul punto di addormentarmi.»

Sennar continuava a tacere.

«Dimmi come sto» insistette Laio, cercando di alzare un po’ la voce. «Voglio sapere la verità.»

Sennar non smise di curarlo. «La tua ferita è lunga e profonda, non riesco a farla guarire. Si sta infettando e non ho più incantesimi da recitare.»

Laio tacque per qualche istante. Il suo volto era ancora più serio di prima. «Mi salverò?» chiese alla fine.

«Non lo so, credo di sì» disse Sennar con un sorriso forzato.

«Se sto per morire, me lo devi dire» mormorò Laio.

Sennar pensò alla battaglia nella radura, alla sicurezza che aveva notato negli occhi dello scudiero, a come tutto d’un tratto avesse visto in lui un uomo. «Io non posso più fare niente» disse infine.

Il mago vide Laio chiudere le palpebre per scacciare le lacrime, ma una gli sfuggì dalle ciglia e gli scivolò sulla guancia.

«Se fossi davvero un uomo non avrei paura...» disse infine lo scudiero.

«Solo gli stupidi non hanno paura di morire» controbatté Sennar.

«Nihal non ha mai paura di morire.»

«Lei non è certo contenta di questo.»

Laio sorrise debolmente.

«Hai combattuto bene nella radura, per non parlare di tutto quello che hai fatto per noi quando sei stato catturato. La tua paura non può cancellare quello che sei stato capace di fare.»

«Vorrei crederci...» disse Laio. Un nuovo attacco di tosse lo soffocò.

«Nessuno ora può dire che non sei un uomo» concluse Sennar, e stavolta fu lui a ricacciare le lacrime.

Laio sorrise, sembrava quasi calmo. «Non dire a Nihal che ho pianto.»

«Non lo farò.»


Nihal non sapeva più che ora fosse. Doveva essere trascorso poco più di un giorno da quando Laio aveva aperto gli occhi, ma non ne era sicura. Le sembrava di essere rintanata in un quel buco e in quell’oscurità da secoli. Sennar aveva coperto l’apertura della tana con alcune frasche e aveva acceso un fuocherello magico che spandeva una luce azzurrina. Le foglie e i rami ammassati all’ingresso, però, non lasciavano filtrare l’aria e dentro la tana ora faceva un caldo esasperante. Un paio di volte, inoltre, Nihal aveva sentito alcuni passi far tremare la terra sopra di lei. Probabilmente si era trattato solo di qualche animale, ma la mezzelfo non era tranquilla. Non appena qualcuno avesse scoperto la strage nella radura, i nemici si sarebbero messi sulle loro tracce.

Sennar dormiva accoccolato in un angolo; era caduto a terra mentre curava Laio, pallido ed esausto come Nihal non l’aveva mai visto. Avevano applicato un impacco di erbe sulla ferita dello scudiero e continuavano anche con gli incantesimi. Intorno alla ferita era comparso un alone giallognolo che aveva iniziato a diffondersi velocemente su tutta la schiena. Nihal recitava le formule magiche con poca convinzione.

Laio aveva gli occhi chiusi. «Smetti di curarmi» disse a un tratto.

«Cosa...?»

«Basta con gli incantesimi, ti prego» insistette Laio.

«Come fai a guarire se non ti curo?» disse lei, sforzandosi di sorridere.

«Non sento niente dal collo in giù, riesco a malapena a muovere le dita... Ti prego, non mi curare più.»

Nihal obbedì. Tolse le mani dalla ferita e rimase in silenzio.

«Che viaggio inutile è stato il mio...» mormorò Laio.

Nihal era sul punto di piangere. «Non dire sciocchezze.»

«Avrei voluto aiutarti, invece nelle Terre libere sono stato solo un impiccio, poi mi sono fatto catturare e ho rischiato di farvi scoprire dal nemico. Ora vi sto tenendo fermi qui.» Le sue parole finirono in un accesso di tosse e le foglie sotto il suo volto si macchiarono di sangue. Quando riprese a parlare, la sua voce si era affievolita. «Vi ho raggiunti solo per farti assistere alla mia morte.»

«Tu non morirai!»

«Sarei voluto arrivare con te fino alla fine e aiutarti a indossare l’armatura il giorno dell’ultima battaglia, come mi hai scritto nella lettera.» Prese fiato. «Avrei voluto vederti vincere ed essere finalmente felice. Non sono riuscito nemmeno a proteggerti.»

«Tu mi hai salvato la vita, mi hai sostenuta quando ero sola, sei stato un vero amico. Hai fatto tanto... Sennar mi ha detto dei fammin nella radura. Sei un guerriero, un eroe.» Nihal ora piangeva.

Laio sorrise, poi si fece serio. «Dimmi la verità: Vrašta è morto?»

Nihal annuì.

«Lo immaginavo...» disse Laio con tristezza, quindi rimase in silenzio per qualche istante. «Mi abbracci?» chiese infine a Nihal.

Lo scudiero si sforzava di sorridere, ma Nihal vide la paura nei suoi occhi. Lo sollevò piano dal giaciglio e gli passò le braccia intorno ai fianchi. Laio appoggiò la testa sulla sua spalla.

«Non mi fa male... Ora sto bene» disse lui. Il suo respiro era diventato calmo e regolare.

Nihal lo tenne stretto a sé a lungo, fino a quando sentì il suo corpo immobile tra le braccia.

20 Un motivo per continuare

Nihal avrebbe voluto tributare a Laio gli onori che spettavano ai Cavalieri e bruciare il suo corpo su una pira, com’era stato fatto per Fen. Ma la Terra in cui si trovavano era sede di una oscurità perenne e non era possibile accendere nemmeno un focherello senza essere scoperti, figurarsi un rogo. Così Nihal avrebbe potuto dare a Laio solo una semplice tomba che lo proteggesse dai nemici, in quella che era la sua Terra natale e che lo scudiero aveva fatto appena in tempo a visitare.

Attesero un giorno prima di lasciare il nascondiglio, un po’ perché il dolore toglieva loro le forze e la voglia di rimettersi in marcia, un po’ perché sentivano la terra sopra la tana tremare sotto i passi dei nemici. Erano braccati, gruppi di fammin battevano la foresta alla loro ricerca.

Il giorno seguente Nihal compose il corpo di Laio e strinse fra le mani la spada con cui aveva combattuto da eroe pochi giorni prima. Si recise una ciocca di capelli e gliela depose sul petto, perché una parte di lei restasse con lui.

Quando uscirono circospetti dalla tana, tutto taceva intorno a loro. Evidentemente la caccia si era spostata altrove. Nihal iniziò a smuovere la terra davanti all’ingresso a mani nude. Si graffiò le dita, si ruppe le unghie, ma continuò a scavare e a spostare terra e sassi fino a quando l’apertura non fu celata, a custodire per sempre la tomba di Laio.

«Basta così» disse a un tratto Sennar, prendendola per le spalle. Si sedette innanzi al tumulo, concentrato. «Ci ho pensato a lungo, per tutto il tempo che abbiamo trascorso accanto a lui. Se non faccio qualcosa, diventerà un fantasma.» Abbassò gli occhi. «Non conosco formule per salvare i vivi, ma forse ne conosco una per dare pace allo spirito dei morti. Qualche tempo fa, lessi di una formula proibita che permette di imprigionare con un sigillo l’anima dei defunti. Ne parlai a Flogisto ed egli mi disse di dimenticarla, perché era frutto del male. Ma non posso permettere che Laio diventi un fantasma e combatta per il Tiranno. Proverò a sigillare il suo spirito.»

Alzò lo sguardo su Nihal, come a cercare il suo assenso per quel che si accingeva a fare, ma il volto della ragazza era impenetrabile. «Ci vorrà parecchio tempo e dopo credo che non potrò usare la magia per un po’. Ti chiedo solo di controllare che non arrivi qualcuno.»

Nihal annuì. Sennar si voltò verso la tomba e cercò di riportare alla memoria la formula, che aveva letto una volta soltanto. Dopo aver fatto ricorso alla magia proibita nella radura, era disposto a ripetere quell’errore per salvare lo spirito di Laio.

Quando iniziò a pronunciare la formula, una cantilena che gelava il sangue nelle vene, Nihal abbassò il capo e si coprì le orecchie con le mani. Il mago continuò a recitare, con l’animo colmo di odio e di disperazione. Fu per questo che la formula si piegò al suo volere e la barriera iniziò a tessersi sotto le sue dita. Avrebbe imposto alla tomba un sigillo che si sarebbe rotto solo nel momento in cui il potere del Tiranno fosse stato annientato; allora lo spirito di Laio sarebbe tornato libero. L’incantesimo gli costò un’ora e tutte le sue forze magiche, prosciugando la speranza che l’aveva sostenuto fino a quel punto. D’un tratto Sennar sentì che la magia fuggiva da lui, si ritrovò sperduto e senza meta, le sue mani si fecero fredde e la formula lo abbandonò. Laio era salvo.

«Ho finito» disse mesto.

Nihal non gli rispose.

Rimasero per un po’ innanzi alla tomba. Fu Sennar a riscuotersi per primo. «Ciò che è puro non può resistere a questo mondo» disse, senza sapere se parlava a se stesso, a Nihal o all’amico che stavano per lasciare. «Forse tu eri l’unico a poter salvare il Mondo Emerso, le tue mani erano monde e il tuo spirito innocente.»

Si alzò e costrinse Nihal a fare lo stesso. «Dobbiamo andare, mi sembra di sentire dei passi.»

Ripresero la loro strada.


Marciarono nel buio in silenzio, uno dietro l’altra, con i sensi vigili. Più di una volta dovettero nascondersi nel bosco, dietro qualche cespuglio, perché avevano udito dei passi o un rumore sospetto. Erano stanchi di uccidere e non erano in vena di combattere. A Nihal ora la spada, che le sbatteva sulla coscia durante il cammino, sembrava un peso. Sennar era ferito, ma avendo esaurito le forze magiche non poteva curarsi e si limitava a medicarsi con alcune erbe che aveva visto usare a Laio.

In tre giorni di marcia giunsero presso il Ludanio, il grande fiume che tagliava in due la Terra della Notte. Si preannunciò con un largo greto asciutto, irto di pietre aguzze. Un tempo doveva essere stato un fiume imponente, ma ora era quasi del tutto prosciugato e al suo posto c’era quel letto pietroso, che si estendeva per un paio di miglia. Lo attraversarono più rapidi che poterono: allo scoperto erano una facile preda.

Poi il fiume si presentò ai loro occhi. Le sue acque torbide e maleodoranti scorrevano pigre, fra l’erba rinsecchita della riva. A Nihal ricordò il fiumiciattolo di liquami che circondava Salazar, nel quale si era gettata il giorno della morte di suo padre. Non si fermarono a riposare, ripresero subito il cammino e attraversarono l’altro lato del greto asciutto. Questa volta la marcia allo scoperto durò un giorno intero e quando si trovarono di nuovo fra gli alberi moribondi di quella che era stata la Foresta di Mool, tirarono un sospiro di sollievo.

Continuarono ad avanzare nel bosco. Riposavano solo quando erano sfiniti e più di una volta, mentre uno dei due dormiva, furono costretti a riprendere la marcia perché avevano udito voci o passi. Compirono quel viaggio desolante in silenzio, ma non era il silenzio di chi non ha nulla da dirsi. Tacevano perché sapevano che condividevano il medesimo dolore e che nessuna parola avrebbe potuto recare loro conforto.


Il viaggio continuò così per dieci giorni. Avanzavano in una boscaglia sempre più fitta di alberi morti e rovi secchi irti di spine, ma non furono più sorpresi da passi e voci improvvise. Evidentemente i loro nemici avevano deciso di cercarli altrove.

Erano esasperati dall’oscurità, da quell’ombra perpetua insopportabile. Pareva di sentire nell’aria odore di stantio e di chiuso, come se il buio avesse fatto ammuffire ogni cosa. Così, quando riguadagnarono la luce, sembrò loro di tornare finalmente a respirare. Il decimo giorno, infatti, intravidero un lieve chiarore illuminare l’ovest, come una pallida alba paradossale, che spuntava a occidente invece che a oriente.

«Siamo quasi al confine» disse Sennar. «È meglio che interroghi il talismano.»

A mano a mano che procedevano, il chiarore si faceva più intenso, conferendo contorni più netti a ciò che li circondava: il profilo degli alberi si stagliava preciso contro il cielo, si iniziavano a intravedere tenui colori. Era come nascere di nuovo e il mondo sembrava diverso da come lo conoscevano; persino la desolazione in cui erano immersi alla luce appariva più rassicurante. La foresta iniziò ad animarsi, come se si risvegliasse da un lungo sonno: chiazze di verde si aprivano all’improvviso tra felci ingiallite, rami coperti di foglie si levavano tra le fronde secche.

Il giorno seguente la luce era abbastanza intensa e la vegetazione sempre più rigogliosa. Camminavano in silenzio, Sennar innanzi e Nihal dietro, quando il mago d’un tratto si fermò.

«C’è qualcosa che non va?» chiese Nihal, la mano già sull’elsa della spada.

Sennar si voltò, sul suo volto era stampato il primo sorriso da molto tempo. «Aspetta qui» disse e si gettò tra i cespugli.

«È successo qualcosa?» chiese di nuovo Nihal, mentre sguainava la spada.

«Non ti preoccupare!» le rispose una voce lontana.

Nihal restò sola nel bosco con la spada in pugno, senza sapere cosa fare. Guardava preoccupata nella direzione in cui il mago era scomparso e quando non sentì più alcun rumore lo chiamò, ma non ricevette risposta.

«Sennar!» gridò ancora. «Sennar!»

In quel momento lo vide uscire dagli arbusti. Aveva alcuni graffi sulle guance e le mani arrossate dai tagli; le teneva unite a coppa e si stringeva qualcosa al petto.

Nihal gli corse incontro. «Si può sapere cosa sta succedendo?» chiese irritata.

Sennar sorrise ancora e dischiuse le palme. Nihal intravide qualcosa di rosso.

«Cosa...?»

«È passato tanto tempo che non ricordi più quando andavamo nella foresta a coglierli?» chiese Sennar. «Sono lamponi.»

Quei frutti le riportarono alla mente molti ricordi. Guardò Sennar e le parve di rivederlo com’era quando l’aveva conosciuto, prima che tutta quella storia avesse inizio. Gli appoggiò una mano sulla guancia. «Non voglio più che ti faccia del male per me...» disse, mentre sfiorava un graffio, poi lo abbracciò.


Si sedettero a mangiare i lamponi. Mentre quel sapore intenso, dolce e al contempo un po’ asprigno, gli riempiva la bocca, Sennar tornò a essere sereno dopo molto tempo. Aveva perduto la speranza e aveva voluto immergersi nel dolore fino in fondo, ma ora sentiva che era tempo di risalire, di ricordare le ragioni di quel viaggio. Il mondo dove aveva la ventura di vivere non era perfetto, e neppure lui lo era, soprattutto ora. Eppure c’era sempre qualcosa o qualcuno che aveva bisogno di essere salvato, che non meritava di scomparire. Non doveva permettere all’odio di sopraffarlo ancora, doveva serbare la fiducia e non arrendersi. Se ci avesse creduto, alla fine forse dalle macerie sarebbero riusciti a creare una nuova epoca.

Guardò Nihal, che mangiava i lamponi in silenzio.

«Non ti devi abbattere» le disse a un tratto. «È un momento disperato, ma se anche noi ci facciamo prendere dallo sconforto è finita.»

Nihal smise di mangiare. «Non riesco a non pensare a Laio, a tutto quello che abbiamo fatto insieme. Mi manca tanto...»

Sennar guardò a terra. «Laio è morto dopo aver raggiunto il suo scopo. Ti ha protetta, ha sconfitto la sua paura ed è diventato un guerriero.» Alzò lo sguardo su di lei. «Dobbiamo andare avanti e accettare il dolore, per lui prima di tutto. Quando hai lasciato Thoolan hai fatto una scelta, hai scelto la vita. Non rendere inutile quella decisione.»

A quel punto Nihal raccontò al mago di quando aveva ucciso Vrašta e della battaglia prima di giungere al santuario. «Sono stanca del sangue, della morte, della guerra. Sono stanca di uccidere» concluse e il suo tono era più sereno.

Sennar distolse gli occhi da lei e guardò a terra. Nihal lo osservò preoccupata, poi anche lei abbassò lo sguardo. «Se non fosse drammatico, sarebbe quasi buffo...» mormorò il mago.

«Che cosa?»

Sennar levò gli occhi. «Nella radura in cui abbiamo combattuto io e Laio, ho ucciso un uomo e i fammin che erano con lui.» Esitò. «Ho usato una magia proibita.» Nihal alzò di scatto la testa. «Non l’ho fatto per difendere me o Laio, l’ho fatto solo per la smania di uccidere, perché desideravo che non rimanesse nulla di loro.» Pronunciò quelle parole con rabbia, ma anche con una sorta di tragica calma. Sapeva che Nihal poteva capirlo, che condivideva il suo stesso dolore. «Come vedi, mentre tu scoprivi l’orrore dell’uccidere, io ne sperimentavo la voluttà» concluse il mago con un triste sorriso.

Nihal lo guardava in silenzio.

«Ora anch’io sono un assassino, ma non lascerò che questo mi impedisca di andare avanti, non finché ci sarà qualcuno che ha bisogno di me.»

Le sue parole si spensero sulla spalla di Nihal, che gli si era buttata al collo e lo stringeva con forza.

Anche lui la abbracciò, le accarezzò la schiena, seguì la morbida curva della spina dorsale, risalì verso le spalle, quindi si soffermò con dolcezza sul collo, sotto l’attaccatura dei capelli. In quel momento sentì di avere bisogno di lei, provò il desiderio di esserle il più vicino possibile. Stava per baciarla, quando Nihal d’improvviso si allontanò e si sciolse dall’abbraccio. Era rossa in volto e non ebbe il coraggio di guardarlo. Anche Sennar abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi. Ritrovò la calma, si diede dello stupido e si mise in bocca un paio di lamponi, sempre con lo sguardo basso.

«Riposiamoci qui, per oggi...» disse Nihal piano, con una voce turbata, quasi spaventata.

Finirono di mangiare in silenzio. Per la prima volta da quasi un mese videro un tramonto e l’oscurità calò sul loro imbarazzo.


La sera, dopo una cena parca e silenziosa, fecero il punto della situazione, la mappa spiegata davanti a loro. Si trovavano in prossimità del confine con la Terra del Fuoco; grazie ai racconti di Ido, sapevano che in quella Terra c’era un centinaio di vulcani e che tutti erano fucine. Il popolo del maestro di Nihal aveva costruito le città nelle valli, tra un vulcano e l’altro, e le aveva collegate con ponti e gallerie.

«Tutte le vie di comunicazione saranno sorvegliate e pulluleranno di nemici» osservò Sennar.

Nihal sospirò. «E allora? Cosa possiamo fare?»

Sennar fissò un punto nell’oscurità davanti a lui. «Non ne ho idea.»

Dopo qualche istante di silenzio, Nihal raddrizzò di scatto le spalle. «Il sistema di approvvigionamento dell’acqua!» esclamò.

Sennar la guardò senza capire.

«Me ne ha parlato Ido» continuò lei. «Fu costruito dagli gnomi della Terra delle Rocce, per gli abitanti della Terra del Fuoco. È un sistema di canali sotterraneo che attraversa tutta la regione e la collega alla Terra delle Rocce.»

«Ma non sappiamo dove si trovi l’ingresso» obiettò il mago.

«Invece sì» rispose Nihal con un sorriso. Indicò un punto sulla mappa. «Ido me lo mostrò. È poco distante dal confine con la Terra della Notte.»

Sennar alzò lo sguardo su di lei. «Dobbiamo andare sotto terra, dunque» disse poco entusiasta.

«È l’unico modo» rispose Nihal. «O almeno il più sicuro.»


Fino a quel giorno avevano sempre stabilito turni di guardia, ma quella sera Sennar non resistette. Tra la fatica del viaggio e le emozioni del pomeriggio, era rimasto senza energie. Nel bel mezzo del suo turno, il sonno lo colse e lui si addormentò sereno, con la testa appoggiata a un tronco. Ma era la notte meno indicata per assopirsi.

Furono i sensi acuti di Nihal a salvarli. Fu svegliata all’improvviso da una sensazione di pericolo che non riusciva a identificare. Impugnò subito la spada e svegliò Sennar.

«Che c’è?» chiese lui sbadigliando.

«Non lo so...» rispose la mezzelfo. Si mise in ascolto. «Hai ripreso i tuoi poteri?»

«Non del tutto, ma forse un paio di formule offensive degne di questo nome sono in grado di lanciarle» disse il mago.

Nihal balzò in piedi. «Scappa!» urlò e si diedero entrambi alla fuga.

I nemici uscirono allo scoperto e le loro grida e i loro passi concitati risuonavano con chiarezza nella foresta. Nihal non aveva fatto in tempo a vedere quanti fossero, ma distingueva almeno tre voci e rumori di passi da quattro direzioni.

La mezzelfo raggiunse Sennar e gli prese una mano. Non voleva perderlo, sarebbero fuggiti insieme. Corsero a perdifiato, alla cieca. Ovunque andassero, sembrava che il sentiero fosse sbarrato da grovigli di arbusti. Erano fammin i loro inseguitori, Nihal lo sentiva, per questo aveva terrore di combattere. Non voleva uccidere ancora.

I passi e le grida si fecero sempre più vicini. Nihal si sentì abbrancare per una caviglia, perse il contatto con la mano di Sennar e cadde a terra. Il mago si fermò e in quell’istante un fammin calò l’ascia sulla ragazza. Nihal però fu più rapida. Si voltò, estrasse la spada e colpì in tempo l’avversario. Il fammin si abbatté al suolo e Nihal scattò di nuovo in piedi. La corsa riprese.

«Quanto credi sia lontano l’ingresso alle cisterne della Terra del Fuoco?» chiese Sennar mentre correva.

Una freccia fischiò sopra le loro teste. Nihal evocò una labile barriera che li proteggeva a stento. «Un paio di miglia, forse» rispose affannata.

«Non ce la faremo mai...»

Una scarpata interruppe la loro corsa e caddero rovinosamente per qualche braccio. Nihal riuscì ad aggrapparsi al volo a una radice sporgente e afferrò Sennar. Sentirono i passi avvicinarsi sopra di loro.

«Posso tentare...» mormorò Sennar.

«Cosa?» ansimò Nihal.

«L’Incantesimo del Volare» rispose il mago.

«Ce la fai?»

«Non abbiamo molta scelta. Devo riuscire a concentrarmi sul confine e ricordare il punto che mi hai indicato sulla mappa.»

Sennar chiuse gli occhi. I passi erano sempre più vicini e le grida incalzavano. Il mago recitò la formula e in un attimo i due giovani scomparvero.

Si ritrovarono in un luogo inondato di luce, una piana desertica senza traccia di vegetazione. Dopo giorni e giorni di buio completo, il sole li accecò.

Fu Nihal la prima ad aprire gli occhi. Si volse indietro e vide la foresta. Era a un centinaio di braccia alle loro spalle. Sentì Sennar respirare faticosamente al suo fianco.

«Stai bene?» gli chiese.

Il mago riprese fiato. «Abbastanza, ma per oggi ho chiuso con gli incantesimi.»

«Non siamo ancora abbastanza lontani, dobbiamo scappare.» La mezzelfo si rialzò e costrinse Sennar a fare lo stesso.

Ricominciarono a correre. Il luogo dove si trovavano era anche più pericoloso di quello dal quale erano fuggiti; non c’erano ripari, niente dietro cui nascondersi, il terreno era piatto e riarso e loro erano un facile obiettivo.

«Avrei voluto fare di meglio, ma non ricordavo il punto esatto e non conosco la zona» si scusò Sennar, senza fiato.

«Almeno ci siamo allontanati da lì» replicò Nihal.

I pozzi che consentivano l’accesso ai canali sotterranei della Terra del Fuoco non dovevano essere molto distanti, ma quando si guardava intorno Nihal vedeva i contorni delle cose stemperarsi in quella luce insopportabile e scomparire in un’unica vampata di calore. A un tratto, notò qualcosa che si stagliava all’orizzonte, nubi nere e dense, e monti altissimi. Sennar arrancava dietro di lei, sfinito.

«Quanto credi che manchi?» chiese il mago.

«Non ne ho la più pallida idea...» rispose Nihal in un soffio.

All’improvviso, la mezzelfo sentì aprirsi la terra sotto i suoi piedi. Lei e Sennar caddero e sprofondarono nell’oscurità. L’ultima cosa che Nihal sentì fu una forte fitta alla nuca, poi più nulla.

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