Pipino sbirciò da sotto il manto protettivo di Gandalf. Si domandava se era sveglio o se dormiva ancora, trasportato dal rapido sogno nel quale era immerso fin dall’inizio della grande cavalcata. Il mondo buio scompariva veloce ed il vento rumoreggiava nelle sue orecchie. Non vedeva altro che stelle fuggitive, e all’estrema destra, come ombre imponenti, le montagne del Sud. Cercò di ricostruire le tappe del viaggio e di valutare il tempo trascorso, ma la sua memoria era ancora torbida e incerta.
Rammentava una prima cavalcata a velocità travolgente e senza soste, quindi un pallido barlume dorato intravisto all’alba ed il loro arrivo nella città silenziosa e nella grande casa vuota sulla collina. Vi si erano appena rifugiati, quando l’ombra alata li sorvolò nuovamente, facendo tremare tutti di terrore. Ma Gandalf gli aveva rivolto parole rassicuranti e Pipino si era addormentato in un angolo, stanco ma inquieto, vagamente conscio di andirivieni e conversazioni e di Gandalf che dava ordini. E poi di nuovo cavalcare, cavalcare, cavalcare nella notte. Era passata una, no, due notti da quando aveva scrutato la Pietra. Quell’orrendo ricordo lo destò completamente, ed egli rabbrividì, e il rumore del vento gli parve pieno di voci minacciose.
Una luce appariva in cielo come una vampata di fuoco giallo dietro oscure barriere. Pipino si rincantucciò tremante domandandosi in quale spaventoso paese Gandalf lo conducesse. Si strofinò gli occhi e si accorse allora che la luna, ormai quasi piena, stava sorgendo a oriente sopra le ombre. La notte non era ancora invecchiata, e il loro viaggio nelle tenebre sarebbe durato ancora molto. Si mosse e domandò:
«Dove siamo, Gandalf?».
«Nel reame di Gondor», rispose lo stregone. «La terra di Anórien fugge ancora sotto di noi».
Vi furono alcuni attimi di silenzio; poi, ad un tratto: «Che cos’è quello?», esclamò Pipino, stringendosi intorno il manto di Gandalf. «Guarda! Fuoco, fuoco rosso! Vi sono dunque draghi in questa regione? Guarda, lì ve ne è un altro!».
L’unica risposta di Gandalf fu un incitamento al cavallo. «Su, Ombromanto! Dobbiamo affrettarci. Il tempo è breve. Guarda! Gondor ha acceso i suoi fuochi e invoca aiuto. La guerra è scoppiata. Vedo fuoco su Amon Dîn e fiamme ad Eilenach; e lì ad occidente vedo Nardol, Erelas, Min-Rimmon, Calenhad e l’Halifirien alle frontiere di Rohan».
Ma Ombromanto rallentò l’andatura e camminando al passo levò alto il capo e nitrì. Dall’oscurità gli rispose il nitrire di altri cavalli, seguito dallo scalpitare di zoccoli. Tre cavalieri apparvero e scomparvero nuovamente come fantasmi alati verso occidente. Ombromanto allora ripartì veloce, squarciando la notte e il ruggito del vento.
Pipino si sentì vincere dalla sonnolenza; non riusciva a seguire Gandalf che gli spiegava gli usi di Gondor, e perché il Signore della Città avesse fatto costruire dei fari sulla vetta dei colli circostanti, ove manteneva postazioni fornite di cavalli sempre freschi e pronti a condurre i suoi messaggeri su nel Nord a Rohan, o al Sud a Belfalas. «Da molto tempo non venivano accesi i fuochi del Nord», disse Gandalf; «nei tempi che furono Gondor non ne aveva bisogno, poiché possedeva le Sette Pietre». Pipino si agitò inquieto.
«Dormi pure e non temere!», lo esortò lo stregone. «Non sei diretto a Mordor come Frodo, bensì a Minas Tirith, ove sarai al sicuro, ammesso che vi sia sicurezza in questi tempi. Se Gondor cade o se l’Anello viene catturato, la Contea non sarà certo più un rifugio».
«Non mi tranquillizzi minimamente», disse Pipino, mentre tuttavia la sonnolenza s’impadroniva di lui. L’ultima cosa a imprimersi nella sua memoria prima che piombasse nel profondo dei sogni fu la visione di alte vette bianche che scintillavano come isole galleggianti sulle nubi al riverbero della luna d’occidente. Si domandò dove fosse in quel momento Frodo: se era già giunto a Mordor o se era morto; ma non sapeva che da lontano Frodo guardava quella stessa luna mentre si coricava dietro i monti di Gondor prima del sorgere del giorno.
Pipino fu svegliato dal suono di voci. Avevano trascorso un altro giorno nascosti, ed un’altra notte a cavallo. Albeggiava: la fredda aurora li circondava con la sua grigia nebbiolina. Ombromanto grondava di sudore ma teneva la testa alta, e non mostrava segni di stanchezza. Molti uomini alti e avvolti in manti pesanti erano in piedi tutt’intorno, e nella nebbia dietro di essi si ergeva un muro di pietra; sembrava in parte distrutto, ma prima della fine della notte si udì il rumore di lavoro febbrile: battere di martelli, vibrare di cazzuole e scricchiolio di ruote. Qua e là nella nebbia venivano accese delle pallide torce. Gandalf stava parlando con gli uomini che gli sbarravano la strada, e Pipino si rese conto che discutevano proprio di lui.
«Sì, a dire il vero ti conosciamo, Mithrandir», disse il capo degli uomini, «tu sai la parola d’ordine dei Sette Cancelli e sei quindi libero di proseguire. Ma il tuo compagno non lo conosciamo. Di che razza è? Un Nano sceso dalle montagne del Nord? Non desideriamo stranieri nel nostro paese, in questi tempi, a meno che non si tratti di poderosi uomini d’arme fedeli e valorosi».
«Rispondo io di lui, e presterò giuramento innanzi al seggio di Denethor», disse Gandalf. «Quanto al valore, non è proporzionato alla statura. Egli ha vissuto più battaglie e più pericoli di te, Ingold, benché tu sia il doppio d’altezza; egli è di ritorno dalla distruzione d’Isengard, di cui rechiamo molte notizie, ed è colto da grande fatica, altrimenti l’avrei svegliato. Il suo nome è Peregrino, Uomo di grande valore». «Uomo?», ripeté dubbioso Ingold, mentre gli altri ridevano. «Uomo!», esclamò Pipino ora del tutto sveglio. «Uomo! Direi proprio di no! Sono un Hobbit, e per nulla valoroso, tranne qualche volta per pura necessità. Non vi lasciate ingannare da Gandalf!».
«Un eroe non avrebbe parlato meglio di te», disse Ingold. «Ma che cos’è un Hobbit?».
«Un Mezzuomo», rispose Gandalf. «No, non è colui di cui parlavo prima», soggiunse vedendo l’espressione di meraviglia sui volti degli uomini. «Non lui, ma uno della medesima famiglia».
«Sì, e uno che ha viaggiato con lui», interloquì Pipino. «E Boromir della vostra Città era anch’egli con noi e mi salvò dalle nevi del Nord, e fu infine ucciso mentre mi difendeva da molti nemici».
«Silenzio!», disse Gandalf. «La notizia di quella sventura doveva prima essere annunciata al padre».
«La si prevedeva già», disse Ingold; «vi sono stati strani presagi di recente. Ma adesso, affrettatevi a passare! Il Signore di Minas Tirith sarà ansioso di vedere chiunque rechi notizie di suo figlio, sia egli Uomo o…».
«Hobbit», disse Pipino. «Ben pochi servigi posso offrire al tuo signore, ma tutto ciò che mi sarà possibile lo farò, in memoria di Boromir il valoroso».
«Buon viaggio!», disse Ingold, mentre gli uomini facevano largo a Ombromanto che attraversò uno stretto cancello nel muro. «Che tu possa recare buoni consigli a Denethor che ne ha gran bisogno, e a tutti noi, Mithrandir!», esclamò Ingold. «Eppure giungi con notizie di dolore e pericolo, e pare che sia questa la tua abitudine».
«Perché sono solito venire quando c’è bisogno del mio aiuto», rispose Gandalf. «E in quanto a consigli, ti direi che stai riparando assai in ritardo il muro del Pelennor. Il coraggio sarà d’ora in poi la migliore arma di difesa contro la tempesta incombente, insieme alla speranza che reco con me. Non tutte le mie notizie, infatti, sono nefaste. Lasciate tuttavia i vostri martelli e affilate le spade!».
«Il lavoro sarà finito prima di sera», disse Ingold. «Questo è l’ultimo tratto di muro da adoperare come difesa: è il meno soggetto agli attacchi, poiché è rivolto verso i nostri amici di Rohan. Sai nulla di loro? Credi che risponderanno alle nostre esortazioni?».
«Sì, verranno. Ma hanno combattuto molte battaglie alle vostre spalle. Né questa né alcun’altra strada è sicura ormai. Siate cauti! Se non fosse per Gandalf, avreste veduto un esercito di nemici arrivare da Anórien, e niente Cavalieri di Rohan. E chissà che ciò non accada. Coraggio, e non dormite!».
Gandalf s’inoltrò nelle vaste regioni al di là del Rammas Echor. Era questo il nome dato dagli Uomini di Gondor alla muraglia eretta con grande fatica dopo il soccombere d’Ithilien all’ombra del Nemico. Partiva dai piedi delle montagne e circondava tutti i campi del Pelennor per un percorso di dieci leghe e forse anche più, terminando quindi nuovamente ai piedi delle montagne: racchiudeva fertili e dolci pendii e terrazze che scendevano giù sino al letto dell’Anduin. Il punto più lontano dal Grande Cancello della Città, a nord-est, distava quattro leghe: lì, da un argine più elevato, la muraglia dominava le piatte distese lungo il fiume; gli uomini l’avevano costruita particolarmente alta e robusta poiché proprio in quel punto una strada rialzata proveniente dai guadi e dai ponti di Osgiliath attraversava una porta ben custodita fra torri merlate. Il punto più vicino alla Città ne distava poco più di una lega verso sud-est. In quel luogo, l’Anduin descriveva un largo gomito intorno ai colli dell’Emyn Arnen nel Sud Ithilien per poi girare verso ovest, mentre la muraglia si ergeva proprio sulla riva, sorvegliando banchine e attracchi dell’Harlond destinati alla flotta che risaliva la corrente venendo dalle terre del Sud.
I possedimenti protetti dalle mura erano terreni ricchi e ben coltivati, cosparsi di orti, fattorie, granai, stalle e ovili, attraversati da mille ruscelli che gorgogliavano giù dai verdi altipiani sino all’Anduin. Eppure mandriani e fattori ve n’erano pochi, poiché la maggior parte della gente di Gondor abitava entro le sette cerchie della Città, o nelle alte vallate lungo i fianchi delle montagne, nel Lossarnach o più a sud nel ridente Lebennin coi suoi cinque rapidi fiumi. Lì, fra i monti ed il mare, viveva della gente intrepida e vigorosa: venivano considerati Uomini di Gondor, ma il loro sangue era misto e ve ne erano alcuni, piccoli e scuri di pelle, che discendevano da coloro che negli Anni Oscuri prima della venuta dei Re abitavano all’ombra delle colline. Ma più a sud ancora, nel grande feudo di Belfalas, il Principe Imrahil dimorava nel suo castello di Dol Amroth sul mare: era uomo di antico lignaggio, come tutto il suo popolo, alto e fiero con occhi grigi come il mare.
Gandalf cavalcava ormai da qualche tempo quando il cielo si fece più chiaro e Pipino svegliatosi levò lo sguardo verso l’alto. A sinistra un oceano di nebbia penetrava fin nelle tetre e fredde ombre a oriente; a destra ergevano il fiero capo imponenti montagne, un susseguirsi di vette da occidente che terminava in modo ripido e brusco, come se il Fiume fosse penetrato di forza attraverso un’immensa barriera, scavando così un’ampia vallata destinata a divenire in tempi lontani terra di battaglie e di contese. Ultimo dei Monti Bianchi dell’Ered Nimrais, Pipino vide, come promesso da Gandalf, la cupa massa del Monte Mindolluin, le ombre viola e profonde delle sue alte valli, la sua imponente figura rischiarata dal sorgere del giorno. Sopra una propaggine sporgente s’innalzava la Città Protetta, con le sue sette cerchie di mura, così antiche e possenti che non parevano costruite, ma scolpite da giganti nell’ossatura del mondo.
Sotto lo sguardo meravigliato di Pipino le grigie mura volgevano al bianco, macchiandosi del pallido rossore dell’alba. Il sole, improvvisamente emerso dalle ombre dell’Oriente, proiettò il suo raggio sul volto della Città. Allora Pipino gridò di stupore, perché la Torre di Ecthehon, che s’innalzava entro la cerchia interna, sfavillò nel cielo come una cuspide d’argento e perle, slanciata e splendente, e il suo pinnacolo brillò come cristallo sfaccettato; bianchi vessilli svolazzavano dalle torri merlate alla brezza del mattino, e lontano si udì come un limpido squillare di trombe d’argento.
Gandalf e Pipino giunsero così al Grande Cancello degli Uomini di Gondor al sorgere del sole, e le porte si spalancarono innanzi a loro.
«Mithrandir! Mithrandir!», gridava la gente. «Ora sappiamo che la tempesta è davvero vicina!».
«È proprio su di voi», rispose Gandalf. «Ho cavalcato sulle sue ali. Lasciatemi passare! Devo vedere il vostro Signore Denethor finché è ancora il sovrano. Accada quel che potrà, è giunta ormai la fine del paese di Gondor quale lo conoscevate voi. Lasciatemi passare!».
Gli uomini cedettero all’imperiosità del suo tono e smisero d’interrogarlo, pur osservando stupefatti l’Hobbit seduto davanti a lui e il destriero che li portava. La gente della Città cavalcava di rado, e si vedevano pochi cavalli per le strade, eccezion fatta per quelli adoperati dai messaggeri del Re. Alla vista del destriero di Gandalf si domandarono: «Codesto è certamente uno dei magnifici purosangue del Re di Rohan. Chissà che i Rohirrim non giungano presto con dei rinforzi!». E Ombromanto, con fiera andatura, salì per la lunga strada serpeggiante.
Minas Tirith infatti era stata edificata su sette diversi livelli, come delle sporgenze scolpite nella collina, circondate ciascuna da mura e chiuse da sette cancelli. Ma i cancelli non erano allineati: il Gran Cancello delle Mura Maggiori era situato nel punto più orientale del circuito, mentre il seguente era leggermente rivolto verso sud ed il successivo verso nord, e così via sino in cima; la strada selciata che conduceva su alla Cittadella serpeggiava in tal modo da un lato all’altro della collina. In linea con il Gran Cancello vi era invece una grossa sporgenza rocciosa la cui mole mastodontica divideva a metà tutte le cerchie della città eccetto la prima: una galleria a volta permetteva alla strada di attraversare questo bastione di pietra, dovuto in parte al travaglio dei secoli e in parte alle opere e al possente lavoro degli antichi abitanti: esso s’innalzava dall’estremità dello spiazzo antistante il Gran Cancello, tagliente e affilato come la chiglia di una nave rivolta verso oriente. Si ergeva imponente fino al livello della cerchia più alta, sormontato da un bastione che permetteva a coloro che si trovavano nella Cittadella di scrutare dalla cima impervia, come marinai dall’alto di una nave di roccia, il Gran Cancello situato settecento piedi più in basso. L’ingresso della Cittadella era anch’esso rivolto verso oriente, ma scavato nel cuore della roccia; di lì, un lungo pendio illuminato da lanterne conduceva al settimo cancello. In tal modo gli Uomini di Minas Tirith raggiungevano l’Alta Corte e la Piazza della Fontana ai piedi della Torre Bianca: alta e proporzionata, misurava cinquanta tese dalla base sino al pinnacolo, in cima al quale sventolava l’insegna dei Sovrintendenti, mille piedi al di sopra della pianura.
Era davvero una fortezza possente, e non certo facilmente espugnabile da un esercito nemico se qualcuno dei suoi abitanti sapeva maneggiare le armi; l’unica speranza per gli avversari era di sorprenderli alle spalle, inerpicandosi sui pendii inferiori del Mindolluin, per raggiungere la stretta sporgenza che univa il Colle di Guardia alla montagna stessa. Ma quella sporgenza, che si ergeva sino al livello della quinta cinta di mura, era fiancheggiata da imponenti bastioni fino alla sua estremità occidentale che dominava uno strapiombo; in quel luogo si trovavano le abitazioni e le tombe di sovrani e di signori del passato, per sempre muti fra il monte e la torre.
Pipino osservava con crescente meraviglia l’imponente città di pietra, più grande e più splendida di tutto ciò che egli avesse mai visto o sognato; più vasta e più forte di Isengard, e assai più bella. Eppure d’anno in anno andava cadendo in rovina, e la popolazione era ormai ridotta alla metà. In ogni strada si ergevano palazzi e cortili sulle cui porte ed arcate erano incise molte lettere dalle strane forme arcaiche: Pipino supponeva che si trattasse dei nomi di uomini e famiglie importanti che un tempo abitavano in quelle dimore; eppure ora erano silenziose, non si udivano passi sui vasti pavimenti, né voci negli ampi saloni, né apparivano volti dalle porte e dalle vuote finestre.
Infine uscirono dall’ombra, giunti al settimo cancello, e quello stesso sole che splendeva sul fiume allorché Frodo passeggiava nelle radure d’Ithilien, illuminava qui mura lucide e slanciate colonne ed il grande arco la cui chiave di volta era stata scolpita nelle sembianze di un re coronato. Gandalf smontò, perché i cavalli non erano ammessi all’interno della Cittadella, ed Ombromanto si lasciò condurre via all’invito del suo padrone.
Le Guardie del cancello erano vestite di nero e portavano elmi di una strana forma, alti e con guanciali stretti contro il volto, sormontati da bianche ali di gabbiano; e gli elmi risplendevano come fiamme d’argento, poiché erano di mithril e testimoniavano la gloria dei tempi passati. Sui loro neri manti era ricamato un albero bianco dai fiori come fiocchi di neve, sormontato da una corona d’argento e da stelle con molte punte. Era questa l’uniforme degli eredi di Elendil, e ormai a Gondor nessuno più la portava, eccetto le Guardie della Cittadella innanzi al Cortile della Fontana, ove in passato s’innalzava l’Albero Bianco.
Pareva che la notizia del loro arrivo li avesse preceduti; furono fatti entrare immediatamente, in silenzio e senza interrogatorio. Con passo veloce Gandalf attraversò il bianco pavimento del cortile. Una dolce fontana gorgogliava al sole del mattino, circondata da una zolla erbosa d’un verde intenso; ma nel mezzo, stanco e ricurvo sulla fonte, vi era un albero morto, e gli spruzzi gocciolavano giù tristemente dai suoi rami nudi e spezzati per poi ricadere nell’acqua limpida.
Pipino l’osservò un attimo mentre si affrettava a seguire Gandalf. Si disse che aveva un aspetto sconsolato, e si domandò per quale motivo lasciavano un albero morto in un luogo ove ogni altra cosa era così ben curata.
Sette stelle e sette pietre
E un albero bianco.
Le parole mormorate da Gandalf gli tornarono alla mente. Improvvisamente si trovò innanzi al portale dell’imponente dimora ai piedi della torre splendente, e seguendo lo stregone passò oltre gli alti e silenziosi guardiani e s’inoltrò nelle fresche ombre del palazzo di pietra.
Mentre percorrevano un lungo corridoio pavimentato, Gandalf sussurrò a Pipino: «Attento alle tue parole, Messere Peregrino; non è questo il momento adatto all’insolenza degli Hobbit. Théoden è un vegliardo buono e gentile. Denethor è di tutt’altra razza, orgoglioso e perspicace, uomo di assai più alto lignaggio e grande potere, pur non essendo chiamato re. Ma si rivolgerà soprattutto a te e ti potrà numerose domande, poiché gli puoi parlare di suo figlio Boromir. Egli lo amava molto: troppo, forse, e proprio perché erano tanto diversi. Ma col pretesto del suo amore riterrà assai più facile apprendere da te ciò che desidera sapere, piuttosto che da me. Non gli svelare più di quanto non sia necessario, e non accennare allo scopo della missione di Frodo. Me ne occuperò io quando sarà giunto il momento. E non dire nulla di Aragorn, a meno di non esservi proprio costretto».
«E perché no? Che cos’ha Grampasso che non va?», bisbigliò Pipino. «Aveva intenzione di venire anch’egli a Minas Tirith, vero? E comunque starà di certo per arrivare».
«Forse, forse», rispose Gandalf. «Ma in tal caso è molto probabile che giunga in maniera del tutto inaspettata, sorprendendo persino Denethor; meglio così, ma allora è bene che la sua venuta non sia annunciata da noi».
Gandalf si arrestò davanti a un’imponente porta di metallo lucidissimo. «Vedi, Messer Pipino, non ho tempo adesso per insegnarti la storia di Gondor; sarebbe stato meglio che ne aveste appreso qualcosa voi stessi, quando nella Contea andavate a caccia di nidi d’uccelli e marinavate la scuola per esplorare i boschi. Fa’ ciò che ti dico! È assai poco saggio recare a un potente sovrano la notizia della morte del suo erede e al tempo stesso insistere troppo sulla venuta di colui che al suo arrivo rivendicherà il trono. Ti pare questo un motivo sufficiente?».
«Trono?», ripeté Pipino allibito.
«Sì», rispose Gandalf. «Se durante tutti questi giorni hai camminato con le orecchie e il cervello addormentati, ormai è ora di svegliarti!». E bussò alla porta.
La porta si aprì ma non videro nessuno che la manovrasse. Pipino si trovò in un grande salone, illuminato da profonde finestre che si aprivano nelle ampie navate laterali, oltre i filari di alte colonne che sorreggevano il soffitto: monoliti di marmo nero sormontati da imponenti capitelli scolpiti con strane figure di foglie e di bestie; nell’ombra, molto più in alto, le possenti volte rilucevano d’un oro matto incastonato d’arabeschi dai mille colon. Non vi erano tende né tele ricamate, né alcun altro oggetto in tessuto o in legno in quell’immenso e solenne salone; ma fra le colonne si ergevano silenziose alte figure intagliate nella fredda pietra.
Subito a Pipino tornarono alla mente le rocce scolpite di Argonath, ed egli fu colto da meraviglia nell’osservare quel lungo viale di re morti in tempi remoti. Alla estremità opposta, sopra una pedana dai molti gradini e sotto un baldacchino in marmo raffigurante un elmo incoronato, si ergeva un alto trono; sul muro dietro di esso era scolpita l’immagine d’un albero in fiore incastonata di pietre preziose. Ma il trono era vuoto. Ai piedi della scalinata, sul gradino inferiore, largo e profondo, vi era una sedia di pietra nera e disadorna sulla quale un vegliardo sedeva con il capo chino. Teneva in mano un bastone bianco dal pomello d’oro, e non alzò la testa. Essi attraversarono solennemente il vasto pavimento finché furono a tre passi dal suo posapiedi. Allora Gandalf parlò.
«Salve, Sire e Sovrintendente di Minas Tirith, Denethor figlio di Ecthelion! Giungo a te in codesta ora buia con notizie e consigli».
Allora il vegliardo levò lo sguardo. Pipino scorse il suo volto solcato, la fiera ossatura, la pelle simile ad avorio ed il lungo naso arcuato fra gli occhi scuri e profondi; più che Boromir, gli rammentava Aragorn. «È davvero buia quest’ora», disse il vecchio, «ed è in momenti come questo che tu sei solito venire, Mithrandir. Ma benché tutti i presagi annuncino che il destino di Gondor sta per compiersi, ormai per me quell’oscurità è meno cupa del mio animo. Mi è stato detto che rechi con te qualcuno che vide mio figlio morire: è forse costui?».
«Lo è», rispose Gandalf. «Uno dei due. L’altro è con Théoden di Rohan, e forse ci raggiungerà. Mezzuomini ambedue, come vedi, eppure non è questo colui di cui parlava il presagio».
«Pur sempre un Mezzuomo, però», disse amaramente Denethor; «nutro ben poco amore per questo nome, da quando quelle maledette parole vennero a turbare le nostre menti e a trascinare via mio figlio in quel folle viaggio verso la morte. Il mio Boromir! Ed ora abbiamo gran bisogno di lui. Faramir doveva partire, e non lui!».
«E sarebbe partito», replicò Gandalf. «Non essere ingiusto nel tuo dolore! Boromir pretese a tutti i costi l’incarico e non permise a nessun altro di rivendicarlo. Era un carattere autoritario, e ciò che voleva lo prendeva da sé. Ho viaggiato a lungo con lui ed ho appreso molto sul suo temperamento. Ma tu hai parlato della sua morte: te ne è dunque giunta notizia prima del nostro arrivo?».
«Ecco che cosa mi è giunto», rispose Denethor, e posando il bastone prese dal grembo ciò che guardava prima, e mostrò loro in ciascuna mano una metà d’un grande corno spaccato in due: un corno di bisonte con rifiniture in argento.
«Ma quello è il corno che Boromir recava sempre con sé!», esclamò Pipino.
«Proprio così», disse Denethor. «E anch’io ai miei tempi lo portavo, e così pure tutti i primogeniti della nostra casata sin dai tempi scomparsi prima della caduta dei re, sin da quando Vorondil padre di Mardil cacciava i bisonti di Araw nelle remote pianure di Rhûn. Lo udii suonare fioco e lontano presso i confini settentrionali tredici giorni or sono, e il fiume lo condusse sino a me, rotto: mai più suonerà». Tacque, ed il silenzio era greve. Ad un tratto volse il suo nero sguardo su Pipino. «Che cos’hai tu da aggiungere a ciò, Mezzuomo?».
«Tredici giorni, tredici giorni», ripeté esitante Pipino. «Sì, mi pare che corrisponda. Sì, ero accanto a lui quando suonò il corno. Ma nessuno arrivò in aiuto: arrivarono soltanto molti altri Orchi».
«Allora è così», disse Denethor osservando ansioso il viso di Pipino. «Tu eri presente? Di’ tutto ciò che sai! Perché non giunsero aiuti? E come mai tu sei scampato e non lui, uomo possente, al quale quei pochi Orchi non dovevano certo fare paura?».
Pipino arrossì e dimenticò il proprio timore. «L’uomo più valoroso può essere ucciso anche da una sola freccia», disse; «molte frecce colpirono Boromir. Quando lo vidi per l’ultima volta era accasciato ai piedi di un albero e si strappava un dardo piumato di nero da un fianco. Poi svenni e fui fatto prigioniero. Non lo vidi più e non so altro. Ma onoro la sua memoria, perché era molto valoroso. Egli morì per salvare il mio parente Meriadoc e me, sorpresi nel bosco dall’esercito dell’Oscuro Signore; dovette soccombere e fallire nel suo intento, ma gli serbo tuttavia eterna gratitudine».
Allora Pipino guardò il vegliardo dritto negli occhi, colto da una strana fierezza ed ancora ferito dal disprezzo di quella voce fredda e sospettosa. «Indubbiamente un così potente sovrano pensa di trovare ben poca utilità in un Hobbit, un Mezzuomo della Contea settentrionale; tuttavia, anche se insufficienti, io desidero offrire i miei servigi, in pagamento del mio debito». E aprendo il grigio mantello Pipino estrasse la sua piccola spada e la posò ai piedi di Denethor.
Un pallido sorriso, come il raggio di un sole freddo in un pomeriggio invernale, passò sul viso del vecchio; chinò il capo e tese la mano dopo aver messo da parte i pezzi del corno. «Dammi quell’arma!», disse.
Pipino gliela tese presentandone l’impugnatura. «Donde proviene?», chiese Denethor. «Porta il segno di molti e molti anni. Non è forse una lama forgiata dal mio popolo su nel Nord in un passato assai remoto?».
«Essa proviene dai tumuli che si trovano lungo i confini del mio paese», rispose Pipino. «Ma ormai vi dimorano soltanto spiriti maligni di cui non desidero parlare».
«Vedo che storie arcane circondano il tuo passato», disse Denethor, «ed ecco provato una volta ancora che l’aspetto di un Uomo o di un Mezzuomo può indurre in errore. Accetto i tuoi servigi. Vedo che le parole non ti turbano e che il tuo è un parlare cortese, anche se suona in modo alquanto strano per noi del Sud. E nei giorni a venire avremo gran bisogno di persone cortesi, siano esse grandi o piccole. Ed ora presta giuramento innanzi a me!».
«Tieni l’impugnatura», disse Gandalf, «e ripeti ciò che dirà Sire Denethor, se sei risoluto nella tua decisione». «Lo sono», rispose Pipino.
Il vecchio depose la spada sul proprio grembo e Pipino poggiò le mani sull’impugnatura, ripetendo lentamente le parole di Denethor:
«Giuro di essere fedele e di prestare i miei servizi a Gondor e al Sovrano Sovrintendente del regno, nelle parole e nel silenzio, con l’azione e con la quiete, andando e tornando, nel bisogno e nell’abbondanza, in pace ed in guerra, con la vita o con la morte, da questo momento in poi e sino a quando il mio signore non mi avrà rilasciato, o sino all’ora della mia morte o della fine del mondo. In fede ho parlato io Peregrino figlio di Paladino della Contea dei Mezzuomini».
«Ed io ti ho udito, io Denethor figlio di Ecthelion, Sire di Gondor, Sovrintendente dell’Alto Re, e non oblierò le tue parole, né mancherò di ricompensare ciò che mi sarà dato: fedeltà con amore, valore con onore, tradimento con vendetta». Poi la spada fu restituita a Pipino che la ripose nella guaina.
«Ed ora», disse Denethor, «ecco il mio primo ordine: parla, non nascondermi nulla! Narrami l’intera storia e cerca di rammentare tutto ciò che ti è possibile sul conto di Boromir, mio figlio. Ora siedi e comincia!». Mentre parlava, suonò un colpo su di un piccolo gong d’argento appoggiato accanto al suo posapiedi ed immediatamente apparvero dei servitori. Pipino si accorse allora della presenza, su ambedue i lati della porta, di alcove che Gandalf e lui non avevano notato e nelle quali attendevano i servitori.
«Portate vino e cibo e seggi per gli ospiti», ordinò Denethor, «e non permettete a nessuno di disturbarci per un’ora.
«Più di tanto non posso purtroppo dedicarvi, perché molte altre faccende mi attendono», disse a Gandalf. «E molte di esse parrebbero di maggior importanza, eppure sono per me meno pressanti. Ma forse potremo scambiare ancora qualche parola alla fine della giornata».
«Ed anche prima, spero», disse Gandalf. «Perché certo non sono giunto da Isengard, distante centocinquanta leghe, cavalcando veloce come il vento, unicamente per portarti un piccolo guerriero, per quanto cortese. Non vuol dir nulla per te che Théoden abbia condotto una grande battaglia, che Isengard sia distrutta e che io abbia spezzato il bastone di Saruman?».
«Vuol dire molto. Ma conosco sufficientemente codesti fatti per decidere da solo come lottare contro la minaccia dell’Est». Posò i suoi occhi scuri su Gandalf e Pipino vide ad un tratto una rassomiglianza fra i due, e sentì la tensione fra loro, come se una linea di fuoco covasse fra i loro occhi, pronta ad avvampare improvvisamente.
Denethor, assai più di Gandalf, aveva l’aspetto del grande stregone: era più regale, più bello e potente; sembrava più vecchio. Eppure un sesto senso rivelava a Pipino che Gandalf aveva maggior potere e una saggezza più profonda, e una maestà occulta. Ed era anche più anziano, molto più anziano. «Quanto più anziano?», si domandò Pipino, e si meravigliò di non avervi mai pensato prima. Barbalbero aveva detto qualcosa a proposito degli stregoni, e persino allora non gli era venuto in mente che Gandalf era uno di loro. Che cos’era esattamente Gandalf? In quale epoca ed in quale luogo remoto era comparso al mondo, e quando se ne sarebbe andato? Ma poi smise di rimuginare e vide che Denethor e Gandalf stavano ancora fissandosi negli occhi come per leggersi reciprocamente il pensiero. Ma fu Denethor il primo a distogliere lo sguardo.
«Sì», disse; «benché le Pietre, dicono, siano andate perdute, tuttavia i signori di Gondor hanno una vista più acuta degli Uomini comuni, e captano molti messaggi. Ma ora sedete!».
Degli uomini giunsero recando una sedia ed uno sgabello, ed uno di essi portò un vassoio, una brocca d’argento, tazze e focacce dolci e bianche. Pipino sedette, ma non riusciva a distogliere lo sguardo dall’anziano sovrano. Si trattava della sua immaginazione, oppure parlando delle Pietre il vecchio gli aveva effettivamente lanciato un’occhiata?
«Ora narrami le tue vicende, o mio vassallo», disse Denethor, con tono al tempo stesso gentile e sarcastico. «Le parole di chi godeva di tanta amicizia da parte di mio figlio sono assai benvenute».
Pipino non scordò mai più quell’ora trascorsa nel grande salone sotto lo sguardo penetrante del Signore di Gondor, trafitto di tanto in tanto dalle sue domande astute e costantemente conscio della presenza al suo fianco di Gandalf, che lo ascoltava e l’osservava controllando a stento (tale fu l’impressione che ne ebbe l’Hobbit) la collera e l’impazienza crescenti. Quando fu trascorsa l’ora e Denethor suonò nuovamente il gong, Pipino si sentiva sfinito. «Non può essere più tardi delle nove», si disse. «Sarei capace di mangiare tre colazioni di seguito».
«Conducete Sire Mithrandir all’alloggio che gli è stato preparato», disse Denethor, «ed il suo compagno può dimorare con lui per il momento, se lo desidera. Ma sappiate che ha prestato giuramento ed è ormai al mio servizio, che sarà chiamato Peregrino figlio di Paladino, che gli verranno insegnate le parole d’ordine di primo grado. Mandate a dire ai Capitani di attendermi costì non appena sarà suonata la terza ora.
«E tu, mio nobile Mithrandir, anche tu potrai venire da me come e quando preferirai. Nessuno t’impedirà di avvicinarmi in qualsiasi momento, eccezion fatta per le mie brevi ore di sonno. Lascia sbollire la tua collera per la follia di un vecchio e torna poi a confortarmi!».
«Follia?», ripeté Gandalf. «No, mio signore, quando sarai un vecchio rimbambito morrai. Sei persino capace di adoperare il tuo dolore come un velo. Credi forse che io non abbia compreso il tuo intento nell’interrogare per un’ora colui che ne sa di meno e lasciando me seduto lì accanto?».
«Se l’hai compreso, sii dunque soddisfatto», replicò Denethor. «Sarebbe follia e non orgoglio disdegnare aiuto e consigli nell’ora del bisogno; tu però distribuisci questi doni secondo i tuoi fini personali. Ma il Signore di Gondor non sarà uno strumento nelle mani di un altro uomo, per quanto sia valoroso. E per lui non vi è oggi al mondo scopo più importante del bene di Gondor; ed a comandare a Gondor, mio nobile amico, sono ancora io e nessun altro, a meno che non ritorni il re».
«A meno che non ritoni il re?», disse Gandalf. «Ebbene, mio signore, è tuo compito salvare parte del reame nella prospettiva di un tale evento che pochi uomini ormai attendono. E in tale compito riceverai tutto l’aiuto che desidererai. Ma voglio che una cosa sia chiara: io non comando in nessun reame, né a Gondor né in altri, grandi o piccoli che siano. Ma di tutte le cose di valore che in un momento come questo si trovano in pericolo, io mi preoccupo. E per quanto mi riguarda, non fallirò del tutto nel mio intento, dovesse anche perire Gondor, se questa notte apparirà qualcosa che possa ancora crescere in bellezza e portare frutti e fiori nei tempi a venire. Sono anch’io un sovrintendente. Non lo sapevi?». E con queste parole si voltò allontanandosi a grandi passi, mentre Pipino lo seguiva correndo.
Gandalf non rivolse a Pipino né uno sguardo né una parola. La loro guida li condusse alla porta del salone; poi, attraverso il Cortile della Fontana, s’inoltrò in una via fiancheggiata da alti edifici in pietra. Dopo parecchie curve giunsero a una casa vicina al lato settentrionale delle mura della cittadella. E lì, in cima a un’ampia scala scolpita, al primo piano sulla strada, mostrò loro una stanza accogliente, piena di aria e di luce, con graziose tende di un tessuto color oro matto e senza disegni. Era arredata con pochi mobili: un piccolo tavolo, due sedie ed una panca; ma da ambedue le parti vi erano alcove con drappeggi, letti già preparati, bacinelle e recipienti per lavarsi. Tre finestre alte e strette davano sul lato nord, rivelando alla vista la grande curva dell’Anduin ancora avvolto dalle nebbie, ed in lontananza l’Emyn Muil e Rauros. Pipino dovette arrampicarsi sulla panca per vedere oltre il profondo davanzale in pietra.
«Sei forse in collera con me, Gandalf?», domandò quando la guida fu uscita chiudendosi alle spalle la porta. «Ho fatto del mio meglio».
«Eccome!», esclamò Gandalf ridendo improvvisamente; si avvicinò a Pipino e gli circondò le spalle con il braccio, guardando fuori della finestra. Pipino osservò con un certo stupore quel volto vicino al suo, perché il suono di quella risata era allegro e gioioso. Eppure sul viso dello stregone egli non vide dapprima che tracce di pene o di preoccupazioni; ma guardando con maggior attenzione si accorse che nel profondo della sua anima vi era una grande gioia: una fonte di allegria che, se fosse sgorgata, sarebbe bastata per suscitare risa nell’intero reame.
«Hai davvero fatto del tuo meglio», disse lo stregone; «e spero che per un bel po’ di tempo non ti accada più di trovarti stretto in una morsa fra due così terribili vecchi. E tuttavia il Sire di Gondor ha appreso da te più di quanto tu non supponga, Pipino. Non hai potuto nascondere il fatto che non fu Boromir a condurre la Compagnia da Moria in poi, e che ve n’era uno fra voi di alto lignaggio e diretto a Minas Tirith, il quale possedeva una spada famosa. A Gondor la gente riflette molto sulle storie dei tempi che furono, e Denethor ha considerato lungamente le parole il flagello d’Isildur e i versi che le riguardano, dopo la partenza di Boromir.
«Egli è assai diverso dagli altri uomini del suo tempo, Pipino, e quali che siano i suoi avi ed i suoi padri, per uno strano caso il sangue dell’Ovesturia scorre quasi puro nelle sue vene e in quelle dell’altro suo figlio, Faramir; non così invece in quelle di Boromir, che pur era il suo preferito. Egli sa vedere molto lontano e percepire, se lo vuole davvero, molto di quel che accade nella mente degli uomini, persino di quelli che dimorano lontani. È difficile ingannarlo, ed alquanto pericoloso il tentarlo.
«Ricordatelo, perché ormai gli hai prestato giuramento. Non so che cosa ti abbia spinto o incapricciato a fare una cosa del genere. Ma comunque è ben fatta. Non l’ho impedita, perché le azioni generose non devono venir frenate da freddi consigli. La tua l’ha commosso e al tempo stesso (permettimi di dirtelo) gli ha fatto piacere. Perlomeno ora sei libero di passeggiare a tuo piacere per Minas Tirith, quando non sei di servizio. Perché vi è l’altro lato della medaglia: tu sei ai suoi ordini, ed egli non lo scorderà. Stai attento!».
Tacque e sospirò. «Bene, inutile preoccuparsi di quel che il domani porterà. Innanzi tutto quel che è certo è che per molti giorni il domani recherà cose sempre peggiori. E non vi è nulla ch’io possa fare per prevenirlo. La scacchiera è pronta e le pedine stanno per muoversi. Un personaggio che desidero vivamente trovare è Faramir, ormai erede di Denethor. Non credo che sia nella Città, ma non ho avuto tempo per raccogliere notizie. Devo andare, Pipino. Devo recarmi presso i consiglieri del sovrano ed apprendere il possibile. Ma il Nemico si è già mosso e sta per giocare tutte le sue carte. E le pedine vi potranno assistere da vicino, Peregrino figlio di Paladino, soldato di Gondor. Affila la tua lama!».
Gandalf si avviò verso la porta e giuntovi si volse verso il suo compagno. «Ho molta fretta, Pipino», disse. «Fammi un favore quando esci, anche prima di riposare, se non sei troppo stanco. Va’ a trovare Ombromanto per vedere come l’hanno sistemato. Questa gente tratta bene le bestie, perché è un popolo buono e savio, eppure è meno abile di altri nel maneggiare i cavalli».
Detto ciò, Gandalf uscì; in quel momento risuonò limpida e dolce la nota di una campana in una torre della cittadella. Si udirono tre rintocchi, come argento nell’aria, e poi di nuovo il silenzio: era la terza ora dopo il sorgere del sole.
Dopo un minuto Pipino si recò anch’egli alla porta e discese le scale per affacciarsi sulla strada. Il sole splendeva ormai caldo e luminoso, e torri e case più alte proiettavano verso occidente le loro lunghe ombre nette. Su nell’aria azzurra il Monte Mindolluin ergeva il suo bianco elmo ed il suo manto nevoso. Uomini armati percorrevano avanti e indietro le vie della Città, come se fossero diretti a un cambio di guardia al tocco dell’ora.
«Nella Contea diremmo che sono le nove», mormorò Pipino fra sé e sé. «L’ora giusta per una deliziosa prima colazione presso una finestra aperta sul sole di primavera. E come desidererei fare colazione! Questa gente forse non ne ha l’abitudine, oppure è ormai troppo tardi? A che ora cenano, e dove?».
Ad un tratto notò un uomo, vestito di bianco e di nero, che percorreva la stretta via proveniente dal centro della cittadella e si dirigeva verso di lui. Pipino si sentiva solo e decise di rivolgergli la parola quando gli fosse passato davanti; ma non fu necessario. L’uomo si diresse dritto verso di lui.
«Sei tu Peregrino il Mezzuomo?», domandò. «Mi è stato detto che hai giurato fedeltà e obbedienza al nostro Signore ed alla Città. Sii il benvenuto!». Tese la mano a Pipino che la strinse.
«Il mio nome è Beregond figlio di Baranor. Non sono di servizio stamattina, e mi hanno inviato qui da te per insegnarti le parole d’ordine e per dirti alcune delle numerose cose che indubbiamente vorrai sapere. Anch’io dal mio canto desidero apprendere da te alcune notizie. Infatti in questo paese non abbiamo mai veduto un Mezzuomo, e pur avendone udito parlare, ciò che sappiamo su di voi è ben poco ed è impreciso. Inoltre, sei amico di Mithrandir. Lo conosci molto bene?».
«Ebbene», rispose Pipino, «ho sentito parlare di lui durante tutto il corso della mia breve esistenza, direi; e recentemente ho viaggiato a lungo insieme con lui. Ma è un libro lungo e misterioso, e non posso dire di averne letto più di una o due pagine. Eppure probabilmente assai pochi sono coloro che lo conoscono meglio di me. Aragorn era l’unico della Compagnia che ritengo lo comprendesse davvero».
«Aragorn?», ripeté Beregond. «Chi è Aragorn?».
«Oh!», balbettò Pipino, «era un uomo che stava sempre insieme con noi. Credo che adesso sia a Rohan».
«Vedo che sei stato a Rohan. Vi sono molte cose che desidero chiederti a proposito di quel paese, perché gran parte delle poche speranze che ancora nutriamo riposano sulla gente di Rohan. Ma sto dimenticando il mio compito, che è di rispondere innanzi tutto alle tue domande. Che cosa desideri sapere, Messere Peregrino?».
«Beh…», rispose Pipino, «oserei dire che ora come ora la domanda più pressante concerne la prima colazione e altre cose del genere. Intendo dire, quali sono gli orari dei pasti, non so se mi spiego, e dove si trova la sala da pranzo, se esiste, e le locande? Ho osservato attentamente al nostro arrivo, ma non sono riuscito a vederne una, malgrado fossimo giunti alle dimore di uomini savi e cortesi ove speravo davvero in un sorso di buona birra».
Beregond lo guardò gravemente. «Vedo che sei davvero un veterano», disse. «Pare che coloro che combattono sui campi di battaglia pensino sempre con desiderio al prossimo sperato compenso di bevande e di cibo; io personalmente non sono un grande viaggiatore. Oggi non hai dunque ancora fatto colazione?».
«Beh, a dire il vero sì, ho preso qualcosa», rispose Pipino. «Ma nulla di più di una coppa di vino e di un paio di dolcini bianchi dovuti alla gentilezza del vostro Sire; ma in compenso mi ha torturato con un’ora di domande, ed è un lavoro che mette molta fame».
Beregond rise. «Dicono che a tavola sono gli uomini piccoli a compiere le maggiori stragi. Tu hai interrotto il tuo digiuno in modo altrettanto sostanzioso di chiunque nella Cittadella, ma con maggiore onore. Questa è una fortezza, una torre di guardia in assetto di guerra. Ci leviamo prima del sole e mangiamo un boccone nella luce ancor grigia, per poi avviarci alle nostre mansioni. Ma non disperare!». Rise di nuovo, vedendo lo sconforto dipinto sul volto di Pipino. «Coloro che hanno svolto compiti pesanti prendono qualcosa per rinvigorire le loro forze verso la metà della mattinata. Quindi vi è il pranzo, verso mezzogiorno o più tardi, secondo gli orari di servizio; infine, tutti si riuniscono per cenare e intrattenersi con tutta l’allegria rimasta, verso l’ora del tramonto.
«Vieni! Faremo una passeggiata e poi cercheremo qualcosa da mettere sotto i denti, cibi e bevande che consumeremo sui bastioni guardando questo splendido mattino».
«Un momento!», esclamò Pipino arrossendo. «L’ingordigia o, come cortesemente l’hai chiamata tu, la fame, mi hanno fatto scordare qualcosa. Gandalf, o se preferisci Mithrandir, mi ha raccomandato di andare a trovare il suo cavallo Ombromanto, un possente destriero di Rohan, pupilla degli occhi del re, anche se questi l’ha donato a Mithrandir in ringraziamento per i suoi servigi. Credo che il nuovo padrone ami l’animale più di quanto non ami molti uomini, e se per questa città la sua buona disposizione d’animo è di qualche peso, sarà opportuno trattare Ombromanto con i dovuti onori: ancor più gentilmente di come avete trattato questo Hobbit, se possibile».
«Hobbit?», disse Beregond.
«È così che ci chiamiamo», replicò Pipino.
«Sono felice di apprenderlo», rispose Beregond, «poiché ora posso dire che un accento strano non deturpa un nobile favellare, e nobile invero è degli Hobbit la favella. Ma suvvia, andiamo! Mi farai conoscere questo buon cavallo. Io amo molto gli animali; se ne vedono pochi in questa città rocciosa, ma io discendo da un popolo di valligiani che prima risiedeva nell’Ithilien. Ma non temere! La visita sarà breve, un semplice cenno di cortesia e poi proseguiremo nel nostro itinerario».
Pipino trovò Ombromanto ottimamente accomodato e curato. Nella sesta cinta di mura, appena fuori della cittadella, vi erano delle scuderie ove venivano custoditi alcuni veloci destrieri, in prossimità delle abitazioni dei messaggeri di Sire Denethor: araldi sempre pronti a partire ad un urgente comando del sovrano o dei suoi maggiori capitani. Ma ora tutti i cavalli e tutti i cavalieri erano fuori.
Ombromanto nitrì e voltò il capo udendo Pipino entrare nella scuderia. «Buon giorno!», disse Pipino. «Gandalf verrà non appena possibile. È molto occupato, ma ti manda a salutare ed io sono venuto a vedere che tutto sia in ordine e che tu ti prenda un po’ di riposo, spero, dopo le tue lunghe fatiche».
Ombromanto scrollò il capo e scalpitò. Ma permise a Beregond di carezzargli gentilmente la testa ed i possenti fianchi.
«Sembra pronto per una corsa e non di ritorno da un lungo viaggio», disse Beregond. «Com’è forte e nero! Dov’è la sua bardatura? Sarà certo ricca e splendida!».
«Non ne esiste alcuna che sia sufficientemente ricca e splendida per lui», rispose Pipino. «Egli non vuole finimenti. Se consente di portarvi in groppa, lo farà, nel caso contrario non vi sono morsi, né briglie, né fruste, né corregge che possano domarlo. Addio, Ombromanto! Sii paziente. La battaglia si avvicina».
Ombromanto alzò la testa e nitrì, e l’intera scuderia tremò ed essi furono costretti a coprirsi le orecchie. Poi, dopo aver visto che la mangiatoia era ben piena, se ne andarono.
«Ed ora occupiamoci del nostro pasto», disse Beregond e si avviò nuovamente verso la cittadella, conducendo Pipino ad una porta nella parte settentrionale della grande torre. Ivi discesero una lunga scala fresca che li portò in un ampio viale illuminato da lanterne. Vi erano delle mezze porte nei muri laterali, ed una era aperta. «Questo è il magazzino e la dispensa della mia compagnia delle Guardie», disse Beregond. «Salve, Targon!», gridò affacciandosi alla mezza porta. «È ancora presto, ma ho qui con me un nuovo arrivato che Sire Denethor ha accolto al suo servigio. Ha cavalcato a lungo e lontano con la cinta stretta, ed ha affrontato stamane ardui compiti, ed è affamato. Dacci quel che hai!».
Ricevettero pane, burro, formaggio e mele: le ultime rimaste della provvista invernale, piene di grinze ma sode e dolci; ricevettero altresì un recipiente in cuoio pieno di birra e coppe e piatti in legno. Misero il tutto in un paniere di vimini e ritornarono alla luce del sole; Beregond portò Pipino in un luogo sito all’estremità orientale del grande bastione sporgente ove, sotto il davanzale di una feritoia, vi era un sedile di pietra. Da lì potevano guardare il mattino levarsi sul mondo.
Mangiarono e bevvero, parlando ora di Gondor e dei suoi usi e costumi, ora della Contea e degli altri paesi stranieri che Pipino conosceva. E man mano che parlavano lo stupore di Beregond cresceva, ed egli osservava con meraviglia crescente l’Hobbit seduto sul sedile con le gambe ciondoloni o in piedi su di esso intento a sbirciare al di là del davanzale.
«Non ti nasconderò, Messere Peregrino», disse Beregond, «che a noi sembri quasi un bambino, un ragazzo di nove estati o giù di lì, eppure hai affrontato pericoli e veduto meraviglie di cui pochi dei nostri vegliardi canuti possono vantarsi. Credevo che si trattasse di un capriccio dei nostro Sire, desideroso di prendere un nobile paggio, secondo l’usanza degli antichi re. Ma mi accorgo che non è così, e devi perdonare la mia stoltezza».
«Ti perdono», disse Pipino. «E tuttavia non sei lontano dalla verità. Sono tuttora appena più di un ragazzo anche nel mio paese, e ci vorranno ancora quattro anni prima che entri nell’età adulta, come si dice da noi nella Contea. Ma lascia perdere me: vieni a guardare e spiegami ciò che vedo».
Il sole stava salendo nel cielo e le nebbie si erano diradate nella valle sotto di loro. Le ultime gareggiavano nell’aria sopra le loro teste, come batuffoli di nubi bianche trascinati dalla forte brezza proveniente da est che sventolava e tormentava le bandiere e gli stendardi bianchi della cittadella. Lontano in fondo alla vallata, distante circa cinque leghe a volo d’uccello, scorreva da nord-ovest grigio e scintillante il Grande Fiume: dopo un’ampia curva verso sud-est scompariva nuovamente dalla vista, nascosto da brume luccicanti oltre le quali, a ben cinquanta leghe di distanza, si stendeva il Mare.
Pipino vedeva tutto il Pelennor innanzi a lui, cosparso di fattorie e muretti, granai ed ovili, ma non riuscì a scorgere né bovini né altri animali. Numerosi sentieri e strade attraversavano i verdi campi, e vi era un grande andirivieni: file di carri diretti verso il Grande cancello ed altre file che ne uscivano. Di tanto in tanto arrivava un cavaliere che, balzato da sella, si affrettava ad entrare nella Città. Ma la maggior parte del traffico si svolgeva lungo la grande via che, dirigendosi verso sud con una curva più stretta ancora di quella del Fiume, oltrepassava le colline scomparendo dalla vista. Era una strada ampia ed accuratamente pavimentata, accompagnata lungo la banchina orientale da una larga e verde pista per cavalli, fiancheggiata a sua volta da un muro. I cavalieri galoppavano rapidi e veloci, mentre la via sembrava ingombra di grandi carri coperti diretti verso sud. Ma presto Pipino si accorse che tutto si svolgeva invece in modo molto ordinato: i carri avanzavano su tre file, una più veloce trainata da cavalli, un’altra più lenta composta di grossi carrozzoni adorni di gualdrappe di tutti i colori, ed infine sul lato ovest della strada un’infinità di piccoli carretti trascinati da uomini.
«Quella è la via che conduce alle valli di Tumladen e Lossarnach, ai villaggi di montagna ed infine al Lebennin», disse Beregond. «Vedi gli ultimi carri recare al riparo gli anziani, i bambini e le donne che li accompagnano. Prima di mezzogiorno devono essere tutti fuori del Cancello e la strada sgombra per almeno una lega: sono questi gli ordini. È purtroppo una triste necessità». Emise un sospiro. «Pochi, chissà, sono coloro che separatisi oggi si rivedranno un giorno. Vi sono sempre stati troppo pochi bambini in questa città; ma ormai non ve n’è più alcuno, eccezion fatta per qualche giovane che si è rifiutato di partire, e che forse troverà proprio qui qualche altro compito da adempiere; mio figlio è uno di essi».
Tacquero per qualche istante. Pipino scrutava ansioso l’Oriente, come se da un minuto all’altro migliaia di Orchi comparsi improvvisamente dovessero invadere i campi. «Che cos’è ciò che vedo laggiù?», domandò mostrando un punto al centro della grande curva dell’Anduin. «Forse una città, o qualcosa d’altro?».
«Era una città», rispose Beregond, «la capitale di Gondor, di cui Minas Tirith era solo una fortezza. Quelle che vedi su ambedue le rive dell’Anduin sono infatti le rovine di Osgiliath, conquistata e bruciata dai nemici molti anni or sono. Tuttavia noi ce ne impadronimmo nuovamente ai tempi in cui Denethor era ancora giovane: non per abitarvi, ma come avamposto, onde poter ricostruire il ponte per il passaggio delle nostre armi. E poi arrivarono i Crudeli Cavalieri da Minas Morgul».
«I Cavalieri Neri?», chiese Pipino, sgranando gli occhi, fatti grandi e cupi dall’antico terrore che si era risvegliato.
«Sì, erano neri», disse Beregond, «e vedo che ne sai qualcosa, pur non avendovi accennato in nessuno dei tuoi racconti».
«Sì, so qualcosa di essi», rispose Pipino a voce bassa, «ma non ne voglio parlare ora, così vicino, così vicino». S’interruppe e levò lo sguardo al di sopra del Fiume; gli parve di non vedere altro che una grande ombra minacciosa. Forse non erano altro che montagne imponenti all’orizzonte, con picchi e vette smussati da ben venti leghe di aria brumosa; o forse era soltanto un muro di nuvole che nascondeva dietro di sé un’oscurità ancor più cupa. E più guardava, più gli sembrava che il buio aumentasse, s’infittisse pian piano, e che lentamente salisse ad adombrare la regione del sole.
«Così vicino a Mordor?», ripeté bisbigliando Beregond. «Sì, eccolo laggiù. Lo nominiamo di rado; eppure abbiamo sempre vissuto all’ombra di quell’oscurità. A volte pare più pallida e distante, a volte più cupa e più vicina. Adesso sta aumentando e infittendosi e con essa crescono anche la nostra angoscia e il nostro timore. E i Crudeli Cavalieri riconquistarono meno di un anno addietro l’incrocio delle vie uccidendo gran parte dei nostri migliori uomini. Fu infine Boromir ad allontanare definitivamente il nemico dalla riva occidentale, permettendoci di salvare la parte più vicina di Osgiliath. Ma sarà una vittoria di breve durata: attendiamo un attacco da un momento all’altro, forse l’attacco più violento di tutta la guerra imminente».
«Quando?», domandò Pipino. «Hai un’idea? Perché ho visto i fuochi accesi ieri notte, ed i messaggeri a cavallo; e Gandalf mi ha detto che è segno che la guerra è iniziata. Lui sembrava avere una fretta terribile. Ma ora il ritmo dei preparativi sembra rallentato».
«Soltanto perché ormai tutto è pronto», rispose Beregond. «È il profondo respiro che precede il tuffo».
«Ma allora perché i fuochi ieri notte?».
«È inutile andare in cerca di aiuti quando si è già assediati», disse Beregond. «Ma non conosco le decisioni del Sovrano e dei suoi capitani. Hanno molti mezzi per raccogliere informazioni. E Sire Denethor è diverso dagli altri uomini: vede lontano. Alcuni dicono che quando suole sedere da solo di notte nella sua alta stanza nella Torre, scrutando con il pensiero questo e quello, riesca a leggere nel futuro; e che a volte sondi persino la mente del Nemico, lottando accanitamente contro di lui. Per questo è tanto anziano, e logoro prima del tempo. Ma comunque sia, poiché il mio signore Faramir è all’estero, impegnato in una pericolosa impresa al di là del Fiume, forse è stato lui ad inviare notizie.
«Ma se vuoi sapere che cosa io pensi abbia fatto accendere i fuochi, ritengo che si tratti delle notizie giunte ier l’altro dal Lebennin. Una grossa flotta si sta avvicinando alle foci dell’Anduin, capeggiata dai corsari di Umbar, una città del Sud. Da tempo ormai hanno smesso di temere la potenza di Gondor ed alleatisi con il Nemico tentano ora un potente assalto per facilitargli il gioco. Questo attacco ci priverà infatti di gran parte della gente di Lebennin e Belfalas, su cui contavamo molto perché è numerosa e ardita. Il nostro pensiero si rivolge quindi verso il Nord, in direzione di Rohan, e puoi capire la nostra felicità all’udire le notizie di vittorie che ci avete portate.
«E tuttavia», s’interruppe e levatosi in piedi guardò intorno a sé, a nord, est e sud, «i fatti accaduti a Isengard dovrebbero servire ad avvertirci che siamo presi in una grande rete ed in una pericolosa trama strategica. Non si tratta più ormai di guerriglie ai guadi, di incursioni dall’Ithilien e dall’Anórien, di imboscate e saccheggi. Questa è una grande guerra preparata a lungo, e di cui noi non siamo che una pedina, benché il nostro orgoglio si rifiuti di ammetterlo. Le cose si stanno muovendo nell’estremo Oriente, oltre il Mare Interno; e così pure nel Bosco Atro e oltre, e giù a sud nello Harad. Ed ora tutti i reami saranno messi alla prova: resistere o soccombere all’Ombra.
«Eppure, Messere Peregrino, godiamo di un grande onore: siamo noi a sopportare il maggior peso dell’odio dell’Oscuro Signore, poiché è un odio che proviene dagli abissi del tempo e dal più profondo del Mare. È su di noi che il colpo piomberà con maggior violenza; ed è per questo motivo che Mithrandir si è affrettato a venire qui così velocemente. Se cadiamo noi, chi rimarrà in piedi? E tu, Messere Peregrino, credi che sia possibile per noi rimanere in piedi?».
Pipino non rispose. Guardò le grandi mura, le torri e i possenti bastioni e il sole alto in cielo, e poi guardò l’oscurità che si infittiva ad oriente; pensò ai lunghi artigli di quell’Ombra: agli Orchi nei boschi e sulle montagne, al tradimento d’Isengard, agli uccelli dall’occhio malvagio, ai Cavalieri Neri che percorrevano persino le strade della Contea… ed al terrore alato, i Nazgûl. Rabbrividì, e gli parve che la speranza si affievolisse. Proprio in quell’attimo il sole vacillò oscurandosi per un istante, come se un’ala oscura vi fosse passata sopra. Quasi impercettibile gli sembrò di udire un grido alto nei cieli: debole ma raccapricciante, gelido e crudele. Pipino impallidì e si accasciò contro il muro.
«Che cos’era?», domandò Beregond. «Anche tu hai sentito qualcosa?».
«Sì», balbettò Pipino. «È il segnale della nostra sconfitta, l’ombra del destino, un Crudele Cavaliere dell’aria».
«Sì, l’ombra del destino», ripeté Beregond. «Temo che Minas Tirith cadrà. Sento svanire in me persino il calore del sangue».
Rimasero seduti per qualche tempo in silenzio con la testa china. Poi ad un tratto Pipino levò lo sguardo e vide che il sole brillava ancora, che gli stendardi svolazzavano al vento. Si scosse. «È passato», disse. «No, il mio cuore si rifiuta di disperare. Gandalf cadde, eppure è ritornato ed è qui fra noi. È ancora possibile rimanere ritti, anche solo su di una gamba, o almeno sulle ginocchia».
«Ben detto!», esclamò Beregond, levandosi in piedi e camminando su e giù. «No; benché ogni cosa debba un giorno scomparire del tutto, per Gondor l’ora non è ancora giunta. Anche se le mura saranno conquistate da inesorabili nemici che vi innalzeranno davanti una montagna di carogne, vi sono ancora altre fortezze e sentieri segreti per fuggire nelle montagne. La speranza ed i ricordi potranno sopravvivere in qualche valle nascosta ove l’erba è verde».
«Tuttavia vorrei che tutto fosse già finito, bene o male che sia», disse Pipino. «Non sono assolutamente un guerriero, e il pensiero di una battaglia non mi piace; ma attendere ai margini di una guerra senza scampo è la peggiore cosa che mi potesse accadere. Come sembra già lunga la giornata! Sarei più contento se non fossimo costretti ad aspettare guardando, senza poter fare il minimo movimento, senza poter colpire per primi. Credo che se non fosse per Gandalf mai nessun colpo sarebbe stato vibrato a Rohan».
«Ah, ecco che hai messo il dito dritto nella piaga!», esclamò Beregond. «Ma le cose potrebbero cambiare al ritorno di Faramir. Egli è ardito, più di quanto molti sospettino; di questi tempi gli uomini difficilmente credono che un capitano possa essere saggio e colto e conoscere come lui canti e tradizioni, e al tempo stesso essere sul campo un uomo coraggioso e dalle rapide decisioni. Eppure, tale è Faramir. Meno spregiudicato e ansioso di Boromir, ma non meno risoluto. E tuttavia cosa può fare? Non possiamo lanciarci all’assalto dei monti di… di quell’oscuro reame. La portata delle nostre armi è insufficiente, e non ci permette di colpire quando i nemici sono ancora all’esterno del paese. Ma poi il colpo vibrato dovrà essere davvero violento!». Accarezzò l’impugnatura della spada.
Pipino lo guardò: era alto, fiero e nobile come tutti gli Uomini che aveva sinora veduti in quel paese; ed al pensiero di una battaglia, nei suoi occhi si accendeva una scintilla. «Ahimè!», si disse Pipino, «la mia mano par più leggera di una piuma», ma non parlò. «Se non erro, Gandalf mi ha definito una pedina; forse, ma su di una scacchiera sbagliata».
Parlarono così finché il sole fu alto, ed improvvisamente suonarono le campane del mezzogiorno e nella cittadella vi fu un gran movimento; tutti eccetto le sentinelle si recavano a pranzare.
«Vuoi venire con me?», disse Beregond. «Per oggi puoi desinare alla nostra mensa. Non so a quale compagnia verrai assegnato, e può anche darsi che Sire Denethor ti tenga al suo servizio personale. Ma sei il benvenuto fra noi. È bene che tu faccia conoscenza del maggior numero possibile di uomini, finché sei in tempo».
«Sarò felice di venire con te», rispose Pipino. «Mi sento solo, a dire il vero. Ho lasciato il mio migliore amico a Rohan, e da allora non ho avuto più nessuno con cui conversare o scherzare. Forse potrei sul serio far parte della tua compagnia? Sei tu il capitano? Se è così, potresti assumermi, o pronunciarti in mio favore?».
«No, no», esclamò ridendo Beregond, «non sono un capitano. Non ho né incarichi, né rango, né titolo, essendo soltanto un semplice uomo d’arme della Terza Compagnia della Cittadella. Eppure, Messere Peregrino, essere uno dei guerrieri della Guardia della Torre di Gondor è considerato assai meritevole nella Città, e la nazione ci tratta con molto onore».
«In tal caso si tratta di una mansione che supera di gran lunga le mie possibilità», disse Pipino. «Riconducimi alla mia stanza, e se Gandalf non è tornato verrò con te… come tuo ospite».
Gandalf non era in camera, e non aveva lasciato messaggi; quindi Pipino andò con Beregond, che lo presentò agli uomini della Terza Compagnia. Tanto Beregond quanto il suo ospite furono accolti con molti onori e simpatia. Si era già chiacchierato molto nella cittadella del compagno di Mithrandir e del suo lungo e misterioso colloquio con il sovrano; delle voci dicevano che un Principe dei Mezzuomini era giunto dal Nord per offrire a Gondor la sua alleanza e cinquemila spade; ed alcuni sussurravano che al loro arrivo i Cavalieri di Rohan avrebbero ciascuno recato con sé un Mezzuomo guerriero, piccolo forse ma valoroso.
Benché Pipino fosse purtroppo costretto a distruggere tali speranzose illusioni, non riuscì tuttavia a liberarsi del suo nuovo rango, l’unico che gli uomini ritenessero degno di un amico di Boromir onorato da Sire Denethor; lo ringraziarono di essersi unito a loro e pendevano dalle sue labbra mentre narrava le sue avventure nei paesi stranieri, offrendogli cibo e birra in quantità. Il suo unico problema era di essere «cauto», come gli aveva raccomandato Gandalf, e di non lasciar correre liberamente la lingua, come suol fare un Hobbit in compagnia di amici.
Infine Beregond si alzò. «Ora ti devo salutare!», disse. «Sono di servizio fino al tramonto, come tutti gli altri miei compagni, credo. Ma se, come dici, ti senti solo, forse ti farà piacere un’allegra guida che ti accompagni in Città. Mio figlio sarà felice di tenerti compagnia. È un bravo ragazzo, devo dire. Se sei d’accordo scendi alla cerchia inferiore e chiedi della Vecchia Foresteria nel Rath Celerdam, la Strada dei Lanternieri. Lo troverai lì con altri ragazzi rimasti in Città. Vi saranno forse delle cose interessanti da vedere laggiù, prima della chiusura del Grande Cancello».
Uscì, e gli altri lo seguirono dopo pochi istanti. La giornata era ancora bella, nonostante una leggera caligine, e faceva assai caldo per essere in marzo, anche in un paese così meridionale. Pipino aveva sonno, ma la camera gli sembrava triste e decise quindi di scendere a esplorare la Città. Prese con sé alcuni bocconi che aveva conservati per Ombromanto e che furono graziosamente accettati, nonostante la razione già generosa. Poi continuò la sua discesa lungo molte vie serpeggianti.
La gente lo guardava con molta curiosità. Davanti a lui gli uomini erano gravemente cortesi e lo salutavano secondo le usanze di Gondor, chinando il capo con le mani sul petto; ma dietro udiva molti commenti, come se la gente per la strada dicesse a coloro che erano nelle case di uscire a vedere il Principe dei Mezzuomini, il compagno di Mithrandir. Molti parlavano un idioma diverso dalla Lingua Corrente, ma egli apprese velocemente il significato di Ernil i Periannath e capì che il suo titolo l’aveva preceduto nella Città.
Percorrendo strade con arcate, splendidi viali e comodi selciati giunse fino all’ultima cerchia, la più larga, e là gli fu indicata la Strada dei Lanternieri, un’ampia via che conduceva al Gran Cancello. Trovò facilmente la Vecchia Foresteria, un grande edificio in pietra grigia e consunta, con due ali laterali ed in centro un piccolo prato dietro il quale si innalzava la facciata dalle numerose finestre, ornata da un portico con colonnato preceduto da una rampa di gradini. Alcuni ragazzini giocavano fra le colonne e poiché erano gli unici bambini che Pipino avesse sinora visti a Minas Tirith, si fermò a guardarli. Ad un tratto uno di essi si accorse della sua presenza e con un balzo attraversò il prato e giunse gridando nella strada, seguito da molti altri. In piedi di fronte a Pipino lo osservò dall’alto in basso.
«Salve!», disse il ragazzo. «Da dove vieni? Sei uno straniero in questa Città».
«Lo ero», rispose Pipino; «ma dicono che sono diventato uno degli Uomini di Gondor».
«Suvvia!», esclamò il ragazzo. «Allora qui siamo tutti Uomini. Ma quanti anni hai, e come ti chiami? Io ho già dieci anni e fra non molto misurerò cinque piedi. Sono più alto di te. Ma è normale perché mio padre è una Guardia, ed una delle più alte. Cosa fa tuo padre?».
«A quale domanda risponderò per prima?», chiese Pipino. «Mio padre coltiva i campi nei pressi dei Bianchi Poggi, vicino a Tucboro, nella Contea. Ho quasi ventinove anni e quindi in questo ti batto; tuttavia misuro soltanto quattro piedi e non vi sono molte probabilità che cresca, se non orizzontalmente».
«Ventinove!», esclamò il ragazzo e fece un fischio. «Ma sei già abbastanza vecchio! Hai l’età di mio zio Iorlas. Eppure», soggiunse speranzoso, «scommetto che sarei capace di metterti a testa sotto, o con le spalle in terra».
«Forse ne saresti capace, se io te lo permettessi», disse ridendo Pipino. «E forse potrei fare io lo stesso con te: conosciamo qualche mossa di lotta libera nel nostro piccolo paese dove, lascia che te lo dica, sono considerato straordinariamente grande e forte; e non ho mai permesso a nessuno di mettermi a testa in giù. Quindi se facessimo la prova e non mi rimanessero altre risorse, sarei forse costretto a ucciderti. Quando sarai più grande apprenderai che la gente non è sempre come sembra; malgrado tu mi abbia potuto prendere per un ragazzo straniero e una facile preda, lascia che ti metta in guardia: non sono come credi, sono un Mezzuomo, crudele, ardito e malvagio!». Pipino lo guardò in modo così spietato che il ragazzo fece un passo indietro, ma immediatamente ritornò all’assalto stringendo i pugni e con una luce di battaglia negli occhi.
«No!», esclamò ridendo Pipino. «Non credere nemmeno a ciò che uno straniero dice di se stesso! Non sono un lottatore. Ma comunque sarebbe più educato che colui che lancia la sfida si presenti».
Il ragazzo alzò fiero il capo e disse: «Sono Bergil, figlio di Beregond delle Guardie».
«È quel che pensavo», disse Pipino, «perché rassomigli a tuo padre. Lo conosco, e mi ha mandato a cercarti».
«Allora perché non l’hai detto subito?», esclamò Bergil, e improvvisamente parve costernato. «Non dirmi che ha cambiato idea e che vuole mandarmi via con le femmine! Ma no, gli ultimi carri sono già partiti».
«Se non buono, il suo messaggio è comunque meno cattivo di quanto tu non creda», disse Pipino. «Dice che se invece di scaraventarmi a testa sotto preferissi mostrarmi la Città, potresti tenermi compagnia per un po’ e allietare la mia solitudine. Io in compenso posso narrarti storie di paesi lontani».
Bergil batté le mani e rise di sollievo. «Tutto bene», gridò. «Vieni! Fra poco saremmo andati al Cancello a guardare che cosa succede. Andiamoci subito».
«Che cosa succede al Cancello?».
«Attendiamo i Capitani dell’Estero che dovrebbero giungere sulla Via del Sud prima del tramonto. Vieni con noi e vedrai».
Bergil si dimostrò subito un ottimo compagno, il migliore per Pipino da quando questi aveva perduto Merry, e presto risero e conversarono allegramente per le strade, noncuranti dei numerosi sguardi che si posavano su di loro. A un tratto si trovarono presi in una folla che si dirigeva verso il Grande Cancello. Fu allora che Pipino salì molto nella stima di Bergil, perché quando pronunciò il proprio nome e la parola d’ordine, la sentinella gli fece un saluto e lo lasciò passare, non solo, ma gli permise altresì di portare con sé il compagno.
«Questa sì che è una bella cosa!», disse Bergil. «Noi ragazzi non abbiamo più diritto di passare il Cancello senza un adulto. Ora potremo vedere meglio».
Al di là del Cancello scorsero una quantità di uomini lungo il bordo della strada e intorno al grande spazio lastricato, sbocco ditutte le vie che conducevano a Minas Tirith. Tutti gli sguardi erano rivolti verso sud, e si udì levarsi un mormorio: «Vi è della polvere laggiù! Stanno arrivando!».
Pipino e Bergil si aprirono un varco fra la folla e attesero in prima fila. Dei corni risuonarono in lontananza ed il rumore di grida gioiose giunse loro come un vento impetuoso. Poi udirono un possente squillo di tromba mentre tutto intorno la gente gridava. «Forlong! Forlong!», urlavano alcuni uomini.
«Che cosa dicono?», chiese Pipino.
«È arrivato Forlong», rispose Bergil; «il vecchio Forlong il Grasso, Signore di Lossarnach. È lì che vivono i miei avi. Urrà! Eccolo che arriva. Buon vecchio Forlong!».
In testa alla fila procedeva un grosso cavallo dall’ossatura poderosa, sul quale sedeva un uomo dalle spalle larghe ed estremamente corpulento; era anziano e con la barba grigia, eppure portava un’armatura, un elmo nero ed una lunga e pesante lancia. Dietro a lui marciava fiera una fila di uomini polverosi, bene armati e muniti di possenti asce; avevano visi spietati ed erano più piccoli e leggermente più scuri degli altri uomini che Pipino aveva veduti a Gondor.
«Forlong!», gridava la folla. «Cuore fedele! Amico fedele! Forlong!». Ma quando furono passati anche gli Uomini di Lossarnach tutti mormorarono: «Così pochi! Non saranno più di duecento. E noi ne aspettavamo dieci volte tanti! Sarà colpa delle recenti notizie riguardo alla flotta nera. Non vogliono privarsi di più di un decimo delle loro forze. Comunque, anche un guadagno minimo è già qualcosa».
E così giunsero anche le altre compagnie, applaudite ed incitate quando passavano dal Cancello: uomini che marciavano dall’Estero per difendere la Città di Gondor in un’ora cupa; ma sempre troppo pochi, insufficienti a colmare speranze e bisogno. Giunsero gli uomini della Valle del Ringló, trecento fanti al seguito di Dervorin figlio del loro sovrano. Dalle alte terre del Morthond, la grande Valle Cepponero, arrivò l’alto Duinhir accompagnato dai figli Duilin e Derufin e da cinquecento arcieri. Dall’Anfalas, la lontana Rivalunga, giunse un gran numero di Uomini d’ogni genere, cacciatori e pastori e abitanti di piccoli villaggi, scarsamente equipaggiati ad eccezione della scorta privata del loro sire Golasgil. Dal Lamedon vennero pochi montanari truci e senza capitano. Poi, dei pescatori dell’Ethir, cento o anche più, tolti dalle navi, e Hirluinil Bello delle Verdi colline di Pinnath Gelin, con trecento eleganti guerrieri vestiti di verde. Ultimo e più fiero di tutti arrivò Imrahil, Principe di Dol Amroth, parente di Sire Denethor, seguito da stendardi dorati con l’emblema della Nave e del Cigno d’Argento e da cavalieri su destrieri grigi bardati di tutto punto e da settecento uomini d’arme, imponenti, dallo sguardo grigio e dalle capigliature scure, che cantavano marciando.
Non ve n’erano altri: meno di tremila in tutto. Nessun altro sarebbe giunto. Le loro grida ed il rumore dei loro passi s’inoltrarono nella Città e scomparvero lentamente. Gli spettatori rimasero fermi e silenziosi. La polvere galleggiava nell’aria perché il vento era caduto e l’atmosfera serale era pesante. Già l’ora della chiusura si avvicinava, e il sole rosso era scomparso dietro il Mindolluin. Le ombre calarono sulla Città.
Pipino levò lo sguardo, e gli parve ad un tratto che il cielo fosse grigio cenere, come nascosto da una grande nube di polvere e fumo, attraverso la quale la luce penetrava difficilmente. Ma ad occidente il sole morente aveva incendiato i fumi ed ora il Mindolluin si ergeva nero contro ceneri ardente puntellate di tizzoni. «Ecco concludersi adirata una bella giornata!», disse, dimentico del ragazzo al suo fianco.
«Sarà come dici tu se non sarò rientrato prima delle campane del crepuscolo», disse Bergil. «Vieni! Squilla già la tromba per la chiusura del Cancello».
Tornarono in Città con la mano nella mano, e furono gli ultimi a passare il Cancello prima che chiudesse; arrivati alla Strada dei Lanternieri tutte le campane delle torri suonavano solenni. In molte finestre apparvero delle luci, e dalle case e dagli alloggi dei guerrieri lungo le mura giunsero dei canti.
«Addio, per ora», disse Bergil. «Porta i miei saluti a mio padre, e ringrazialo per la compagnia che mi ha mandato. Torna presto, ti prego. Adesso spero quasi che la guerra non abbia luogo, perché ci saremmo divertiti insieme. Avremmo potuto visitare il Lossarnach e la casa dei miei avi: è meravigliosa lì la primavera, con tutti i campi ed i boschi pieni di fiori. Eppure, chissà, forse un giorno ci andremo. Sire Denethor non soccomberà mai, e mio padre è molto valoroso. Addio, e a presto!».
Si lasciarono e Pipino tornò in fretta verso la cittadella. La strada sembrava lunga ed egli era accaldato e affamato; la notte s’infittiva veloce e buia. Non vi era una stella in cielo. Arrivò alla mensa in ritardo per la cena, e Beregond l’accolse con gioia facendolo accomodare accanto a sé per avere notizie di suo figlio. Pipino si trattenne un po’ dopo il pasto ma presto si congedò, colto da una strana tristezza e da un forte desiderio di rivedere Gandalf.
«Sai trovare da solo la strada?», gli chiese Beregond all’uscita della piccola sala situata a nord della cittadella in cui si erano intrattenuti. «La notte è cupa, e resa ancor più nera dal fatto che sono giunti ordini di ridurre le luci all’interno della Città e di spegnerle del tutto all’esterno delle mura. E sono anche in grado di darti notizie di tutt’altra specie: sarai convocato da Sire Denethor domattina presto. Temo che non farai parte della Terza Compagnia. Tuttavia abbiamo buone speranze d’incontrarci nuovamente. Addio e riposa in pace!».
La stanza era buia, salvo una piccola lanterna sul tavolo, e Gandalf non c’era. La tristezza di Pipino si fece più pesante. Si arrampicò su di una panca cercando di sbirciare fuori da una finestra, ma era come affacciarsi su uno stagno d’inchiostro. Scese e chiuse le persiane e si mise a letto. Rimase qualche tempo sdraiato in ascolto, sperando di udire Gandalf tornare, e poi piombò in un sonno inquieto.
Fu destato nel mezzo della notte da una luce, e vide che Gandalf era rientrato e passeggiava su e giù nella stanza al di là delle tende dell’alcova. Sul tavolo vi erano candele e rotoli di pergamena. Udì lo stregone sospirare mormorando: «Quando tornerà Faramir?».
«Salve!», disse Pipino tirando fuori la testa dalle tende. «Credevo che ti fossi completamente dimenticato di me. Sono contento di rivederti. La giornata è stata lunga».
«Ma la notte sarà troppo breve», disse Gandalf. «Sono tornato perché ho bisogno di un po’ di pace, di stare solo. Tu dovresti dormire, approfittando del fatto che hai ancora un letto. Al levar del sole ti condurrò nuovamente da Sire Denethor. No, quando sarai convocato, non al levar del sole. È cominciata l’Oscurità: l’alba non esiste più».
Gandalf era scomparso e lo scalpitio degli zoccoli d’Ombromanto si era perso nella notte. Merry tornò da Aragorn. Possedeva soltanto un piccolo fagotto, poiché aveva perduto la sua roba a Parth Galen e non aveva altro che le poche cose raccolte fra le rovine d’Isengard. Hasufel era già sellato. Legolas e Gimli erano anch’essi pronti sul loro cavallo.
«Così rimangono ancora quattro membri della Compagnia», disse Aragorn. «Continueremo a cavalcare insieme. Ma non saremo soli, come credevo. Il re è ormai deciso a partire immediatamente. Da quando è comparsa l’ombra alata, ha espresso il desiderio di tornare verso le colline al riparo della notte».
«E dopo, dove andremo?», domandò Legolas.
«Non so ancora», rispose Aragorn. «Quanto al re, tornerà presso coloro che comandava a Edoras quattro notti or sono. E penso che là avrà notizie della guerra, e che i Cavalieri di Rohan si recheranno a sud, a Minas Tirith. Eccetto me e coloro che mi vorranno seguire».
«Io per primo!», gridò Legolas. «Ed anche Gimli!», soggiunse il Nano.
«Ebbene, per quel che mi riguarda», disse Aragorn, «vedo buio innanzi a me. Anch’io devo recarmi a Minas Tirith, ma non vedo ancora per quale via. Si avvicina un istante a lungo atteso».
«Non mi abbandonare!», disse Merry. «Non sono stato molto utile sinora, ma non voglio essere messo da parte, come bagaglio da ritirare quando tutto sarà finito. Non credo che i Cavalieri vogliano avermi sulle spalle per il momento, anche se il re disse che al mio ritorno avrei dovuto sedere accanto a lui e narrargli la storia della Contea».
«Sì», disse Aragorn, «e credo davvero che tu debba seguirlo. Ma non sperare in una conclusione gioiosa. Temo che molto tempo dovrà trascorrere Prima che Théoden possa tranquillamente regnare a Meduseld. Molte speranze moriranno nel corso di questa primavera amara».
Presto furono tutti pronti per partire: ventiquattro cavalli, con Gimli in sella dietro Legolas e Merry davanti ad Aragorn. Cavalcarono veloci nella notte. Avevano passato da poco i Guadi dell’Isen quando uno dei Cavalieri che chiudeva la fila li raggiunse al galoppo.
«Mio sire», disse rivolgendosi al re, «vi sono dietro di noi uomini a cavallo. Mi parve di udirli quando attraversammo i Guadi; ora ne sono certo. Ci stanno per superare, galoppando velocissimi».
Théoden ordinò immediatamente di fermarsi. I Cavalieri si voltarono impugnando le lance. Aragorn smontò e posò in terra Merry, e sguainando la spada rimase immobile accanto alla staffa del re. Éomer e il suo scudiero tornarono alla retroguardia. Merry si sentì più che mai un inutile bagaglio, e si domandò che cosa dovesse fare, in caso di battaglia. E se la piccola scorta del re venisse intrappolata e sopraffatta, e lui riuscisse a fuggire nell’oscurità… solo, in mezzo alle pianure di Rohan, senza la minima idea di dov’era? «Inutile!», si disse. Sguainò la spada e strinse la cinta.
La luna calante era oscurata da una grande nube che si allontanò improvvisamente rivelando l’astro limpido e luminoso. Tutti udirono lo scalpitare di zoccoli, e nello stesso istante videro delle figure scure percorrere velocemente il sentiero in provenienza dai guadi. Il chiaro di luna brillava qua e là sulla punta di una lancia. Era impossibile precisare il loro numero, ma sembravano numerosi almeno quanto i Cavalieri di Rohan, se non di più.
Quando furono distante una cinquantina di passi, Éomer gridò con voce tonante: «Alt! Alt! Chi siete voi che cavalcate a Rohan?».
Gli inseguitori arrestarono bruscamente i loro destrieri. Seguì un momento di silenzio; poi nel chiarore lunare videro uno dei Cavalieri smontare e avvicinarsi a piedi lentamente. Bianca era la mano che teneva levata in alto con il palmo rivolto all’infuori in segno di pace: ma gli uomini del re strinsero le loro armi. A dieci passi di distanza l’uomo si fermò: era alto, un’ombra buia e diritta. Improvvisamente udirono la sua voce limpida.
«Rohan? Avete detto Rohan? È una parola lieta. Siamo giunti da molto lontano in cerca di questa terra, e abbiamo molta fretta». «L’avete trovata», disse Éomer. «I guadi ne segnano il confine. Ma questo è il regno di Re Théoden. Nessuno ha diritto di cavalcarvi se non con il suo permesso. Chi siete? E perché avete fretta?».
«Halbarad Dúnadan, Ramingo del Nord, io sono», rispose l’uomo. «Cerchiamo un certo Aragorn figlio di Arathorn, ed abbiamo saputo che si trova a Rohan».
«E l’avete anche trovato!», esclamò Aragorn. Consegnate le sue redini a Merry, corse ad abbracciare il nuovo arrivato. «Halbarad!», disse. «Di tutte le gioie questa è la più inaspettata!».
Merry trasse un sospiro di sollievo. Aveva creduto che si trattasse di qualche altro inganno di Saruman per sorprendere il re quando non aveva che pochi uomini intorno a sé; ed invece sembrava che non vi fosse alcun bisogno di morire per difendere Théoden, non ancora, comunque. Ripose la spada nella guaina.
«Tutto bene», disse Aragorn rivolto verso i compagni. «Sono uomini della mia stessa stirpe giunti dal remoto paese in cui vivevo. Ci diranno loro stessi il perché della loro venuta, e quanti sono».
«Ho trenta uomini con me», rispose Halbarad. «Tutti coloro che riuscii a radunare in fretta; ma anche i fratelli Elladan ed Elrohir fanno parte del gruppo, desiderosi di partire in guerra. Abbiamo cavalcato il più velocemente possibile non appena ricevuto il tuo appello».
«Eppure io non vi ho invocati, se non con il pensiero», disse Aragorn. «Spesso la mia mente si è rivolta a voi e mai con tanto desiderio come questa notte, eppure non vi ho mandati a chiamare. Ma suvvia! Sono questioni che possono attendere. Stiamo viaggiando in fretta, minacciati dal pericolo: accompagnateci per il momento, se il re ve ne concede il permesso».
Théoden fu molto contento della notizia. «Magnifico!», disse. «Se questi uomini della medesima tua stirpe ti rassomigliano, mio nobile Aragorn, trenta simili cavalieri sono una forza di gran lunga superiore al numero».
I Cavalieri ripresero la via ed Aragorn cavalcò per qualche tempo a fianco dei Numenoreani; quando ebbero narrato le vicende del Nord e del Sud, Elrohir gli disse:
«Ti porto un messaggio di mio padre: I giorni sono brevi. Se hai premura, rimembra i Sentieri dei Morti».
«I miei giorni mi sono sempre parsi troppo brevi per realizzare i miei desideri», rispose Aragorn. «Ma dovrà essere davvero impellente la fretta perché io prenda quella via».
«Lo si vedrà fra non molto», disse Elrohir. «Ma non discorriamo più di tali cose lungo la strada!».
Allora Aragorn disse ad Halbarad: «Che cos’è che porti, fratello?». Vide infatti che invece di una lancia portava una lunga asta che pareva uno stendardo ed era strettamente avvolta in un tessuto nero legato da molti spaghi.
«È un dono Per te da parte della Dama di Gran Burrone», rispose Halbarad. «L’ha fatto in segreto ed è stato un lungo lavoro. E ti invia anche un messaggio: Brevi ormai sono i giorni. Giunta è l’ora della nostra speme, o della fine di ogni speranza. Invio dunque a te ciò che per te ho fatto. Addio, Gemma Elfica!».
Ed Aragorn disse: «Ora so che cosa porti. Portalo ancora per qualche tempo, ti prego!». Si volse, e il suo sguardo si perse lungi al Nord sotto le grandi stelle, e tacque e più non parlò durante tutto il viaggio notturno.
Vecchia era ormai la notte e grigio l’Oriente quando conclusero la loro spedizione alla Conca Fossato giungendo al Trombatorrione. Ivi, dopo un breve riposo, avrebbero discusso il da farsi.
Merry dormì finché Legolas e Gimli non lo destarono. «Il Sole è già alto», disse Legolas. «Tutti gli altri sono alzati e si danno da fare. Coraggio, Messer Pigro, dà uno sguardo a questo posto finché sei ancora in tempo!».
«Ci fu una battaglia qui tre notti fa», interloquì Gimli, «e fu qui che Legolas ed io ci sfidammo a un gioco, vinto da me con il vantaggio di un solo Orco. Vieni a vedere come si svolsero le cose! E vi sono anche delle caverne, Merry, meravigliose caverne! Pensi che le potremo visitare, Legolas?».
«No! Non abbiamo tempo», rispose l’Elfo. «Non sciupare la meraviglia con la fretta! Ti ho promesso di ritornarvi insieme con te, se avremo di nuovo giorni di pace e di libertà. Ma ora mezzogiorno è troppo vicino, ed è ora di desinare per poi rimetterci in cammino».
Merry si alzò sbadigliando. Le sue poche ore di sonno erano di gran lunga insufficienti; era stanco e piuttosto triste. Sentiva molto la mancanza di Pipino, ed aveva l’impressione di essere soltanto un peso inutile, mentre tutti erano intenti a preparare piani per sollecitare qualcosa che non comprendeva bene. «Dov’è Aragorn?», domandò.
«In un’alta stanza del Torrione», rispose Legolas. «Credo che non abbia né dormito né riposato. Vi si recò alcune ore orsono dicendo che aveva bisogno di riflettere, accompagnato solamente da Halbarad; oscuri dubbi o preoccupazioni lo tormentano».
«Sono una strana compagnia, questi nuovi arrivati», disse Gimli. «Sono uomini robusti e aristocratici, ed accanto a loro i Cavalieri di Rohan sembrano quasi dei ragazzi; hanno volti decisi, consunti, come rocce logorate dalle intemperie, proprio come Aragorn; e sono silenziosi».
«Ma come Aragorn, quando interrompono il loro silenzio sono cortesi», interloquì Legolas. «E avete notato i fratelli Elladan ed Elrohir? Le loro vesti sono meno scure di quelle degli altri; essi sono nobili e belli come Signori Elfi; e ciò non è sorprendente nei figli di Elrond di Gran Burrone».
«Perché sono venuti? Lo sapete?», domandò Merry. Era ormai vestito, e dopo essersi gettato sulle spalle il grigio manto seguì i compagni verso il distrutto cancello del Torrione.
«Come hai inteso anche tu, risposero a un appello», disse Gimli. «Raccontano che giunse a Gran Burrone questo messaggio: Aragorn ha bisogno della sua gente. I Numenoreani lo raggiungano a Rohan! Ma donde venisse questo messaggio è per loro un mistero. Suppongo che l’abbia inviato Gandalf».
«No, fu Galadriel», disse Legolas. «Non parla forse della cavalcata della Grigia Compagnia giunta dal Nord?».
«Sì, hai ragione tu», disse Gimli. «La Dama della Foresta! Leggeva nei cuori e indovinava i desideri. Perché non abbiamo desiderato anche noi la compagnia dei nostri, Legolas?».
L’Elfo era in piedi innanzi al cancello con lo sguardo perso a nord-est, e il suo bel volto era turbato. «Non credo che ci avrebbero raggiunti», rispose. «Non hanno alcun bisogno di partire per la guerra; la guerra sta già avanzando sulle loro terre».
I tre compagni passeggiarono insieme, discorrendo dei vari episodi della battaglia, e allontanatisi dal cancello distrutto passarono davanti alle tombe dei caduti, lungo il prato che fiancheggiava la strada, per giungere così alla Diga di Helm; guardarono il Fosso, ove già si ergeva la Duna della Morte, alta, nera, e pietrosa. L’erba calpestata tutt’intorno recava i segni del passaggio degli Ucorni. I Dunlandiani e molti altri uomini della guarnigione del Torrione lavoravano sulla Diga, nei campi o intorno alle mura semidistrutte; eppure tutto sembrava stranamente calmo: una valle sfinita che riposava dopo un’impetuosa tempesta. I tre amici tornarono sui propri passi e si recarono nella grande sala del Torrione per prendere parte al pasto di mezzogiorno.
Il re era già lì, ed appena li vide entrare chiamò Merry facendolo accomodare accanto a sé. «Vorrei poterti offrire di più», disse Théoden; «questo luogo è ben diverso dalla mia bella dimora a Edoras. Ed anche il tuo amico, che dovrebbe essere con noi, è partito. Ma forse trascorrerà molto tempo prima che tu ed io possiamo sedere all’alta tavola a Meduseld; e al mio ritorno non vi sarà tempo per festeggiare. Suvvia! Mangia e bevi, e discorriamo insieme finché è possibile. Poi cavalcherai con me».
«Posso?», chiese Merry sorpreso ed esultante. «Sarebbe davvero meraviglioso!». Mai aveva provato tanta riconoscenza per una cortesia. «Temo proprio di essere un peso inutile per tutti», balbettò; «ma desidero fare tutto ciò che mi sarà possibile, ti assicuro».
«Non lo metto in dubbio», disse il re. «Ho fatto preparare un buon cavallino apposta per te. Galopperà per i sentieri che percorreremo, veloce come un destriero. Intendo infatti prendere i sentieri di montagna e non attraversare la pianura; giungerò a Edoras passando per Dunclivo ove mi attende Dama Éowyn. Se vuoi, sarai tu il mio scudiero. Esiste in questo luogo, Éomer, qualche arma che il mio fido possa utilizzare?».
«Non disponiamo qui di grandi scorte d’armi, sire», rispose Éomer. «Forse potremmo trovare un elmo leggero della sua misura; ma non abbiamo né corazze né spade di dimensioni adatte».
«Io posseggo una spada», esclamò Merry scendendo dal suo seggio e sguainando dal fodero nero la sua piccola lama sfavillante. Colto da un improvviso impeto d’amore per il vegliardo piegò un ginocchio e, presagli la mano, la baciò. «Permetti che deponga la spada di Meriadoc della Contea ai tuoi piedi, Théoden Re?», gridò. «Accetta, ti prego, i miei servigi!».
«Li accetto con piacere», disse il re, e posando le lunghe e venerande mani sulla testa bruna dell’Hobbit lo benedisse. «Alzati adesso, Meriadoc, scudiero di Rohan della casata di Meduseld!», disse. «Prendi la tua spada e portala nella buona ventura!». «Sarai per me come un padre», disse Merry.
«Lo sarò, per qualche tempo», disse Théoden.
Conversarono e mangiarono, e finalmente Éomer disse: «Si avvicina l’ora stabilita per la nostra partenza, sire; posso dire agli uomini di suonare i corni? Ma dov’è Aragorn? Il suo posto è vuoto ed egli non ha desinato».
«Ci prepareremo a partire», disse Théoden; «ma avvertite il nobile Aragorn che l’ora è vicina».
Il re con le sue guardie e Merry al suo fianco si recarono attraverso il cancello del Torrione al prato ove i Cavalieri si stavano radunando. Molti di essi erano già a cavallo. Era una scorta numerosa, poiché il re aveva deciso di lasciare nel Torrione solo una Piccola guarnigione, portando seco a Edoras il maggior numero di guerrieri possibile. Già mille lance erano partite al galoppo nella notte, ma altre cinquecento o più avrebbero accompagnato il re, per la maggior parte uomini provenienti dai campi e dalle valli dell’Ovestfalda.
I Raminghi sedevano un po’ da parte, silenziosi, ordinati, armati di lance, d’archi e di spade. Portavano manti d’un grigio cupo, e avevano abbassato il cappuccio onde coprire sia l’elmo che il capo. I loro cavalli erano forti e dal portamento fiero, ma dal ruvido pelame; uno di essi era senza cavaliere, il destriero di Aragorn che gli avevano portato dal Nord: Roheryn era il suo nome. Non vi era brillare di pietre o d’oro o d’altre preziose rifiniture sui finimenti e sulla bardatura dei destrieri; e i Cavalieri stessi non portavano altro simbolo oltre la spilla d’argento a forma di stella che tratteneva il manto sulla spalla sinistra.
Il re montò sul suo destriero Nevecrino e Merry sul suo pony di nome Stybba. Infine Éomer comparve dal cancello, e con lui erano Aragorn e Halbarad con la lunga asta strettamente avvolta nella stoffa nera, e due Uomini assai alti, né giovani né anziani. Si rassomigliavano talmente, i due figli di Elrond, che pochi riuscivano a distinguerli: capelli scuri, occhi grigi, volti d’una elfica bellezza, vesti di maglia brillante sotto manti grigio-argento. Li seguivano Legolas e Gimli. Ma Merry non aveva occhi che per Aragorn, stupefatto del mutamento che vedeva in lui, come se in una sola notte molti anni gli fossero improvvisamente calati addosso. Tetro era il suo volto, grigio e stanco.
«La mia mente è turbata, mio signore», disse avvicinatosi al cavallo del re. «Ho udito strane parole, e scorgo in lontananza nuovi pericoli. Ho riflettuto a lungo e temo di dover ora cambiare intento. Dimmi, Théoden: sei diretto a Dunclivo; quanto tempo impiegherai per giungervi?».
«È trascorsa già un’ora da mezzogiorno», disse Éomer. «Prima della notte del terzo giorno a partire da oggi dovremmo giungere al Forte. Sarà la prima notte dopo il plenilunio, e l’assemblea presieduta dal re comincerà a radunarsi il giorno successivo. Non possiamo agire più in fretta di così, se vogliamo raccogliere tutta la forza di Rohan».
Aragorn rimase per un minuto silenzioso. «Tre giorni», mormorò, «e Rohan avrà appena incominciato a radunarsi. Ma vedo che non è possibile procedere con maggiore velocità». Levò lo sguardo verso il cielo e sembrò aver preso una decisione, perché il suo viso era meno tormentato. «Allora, con il tuo permesso, sire, devo stabilire un piano d’azione diverso per me e per i miei. Dovremo percorrere la nostra strada, e non più in segreto. Passato ormai è il tempo di agire furtivamente. Cavalcherò per la via più veloce e percorrerò i Sentieri dei Morti».
«I Sentieri dei Morti!», ripeté tremando Théoden. «Perché pronunci questo nome?». Éomer si volse a scrutare Aragorn, ed a Merry parve che a quelle parole tutti i Cavalieri presenti impallidissero. «Se in verità esistono tali sentieri, il loro cancello si trova a Dunclivo; ma nessun uomo vivo lo può varcare».
«Ahimè! Aragorn, amico caro!», esclamò Éomer. «Speravo che saremmo partiti in guerra insieme; ma se tu cerchi i Sentieri dei Morti, allora è giunto il momento di separarci, ed è assai poco probabile che ci si incontri nuovamente sotto il Sole».
«Tuttavia prenderò quella strada», disse Aragorn. «Ma a te, Éomer, dico che forse ci ritroveremo in guerra, anche se separati da tutti i nostri nemici di Mordor».
«Farai come meglio credi, mio nobile Aragorn», disse Théoden. «È forse tuo destino percorrere strani sentieri che altri non osa calpestare. Questa separazione mi rattrista e indebolisce le mie forze; ma ormai devo incamminarmi per i sentieri di montagna e non tardare oltre. Addio!».
«Addio, sire”», disse Aragorn. «La gloria ti attende! Addio, Merry! Ti affido in buone mani, migliori di quanto non sperassi mentre cacciavamo gli Orchi a Fangorn. Legolas e Gimli continueranno con me la caccia, spero; ma non ti dimenticheremo».
«Addio!», rispose Merry; non trovò altro da dire. Si sentiva molto piccolo, e quei discorsi deprimenti lo rendevano triste e perplesso. Più che mai sentiva la mancanza dell’inesauribile allegria di Pipino. I Cavalieri erano pronti, i cavalli scalpitavano ed egli era impaziente di partire e di farla finita.
Allora Théoden disse qualcosa ad Éomer, e levando in alto la mano gridò con voce tonante; a quel segnale i Cavalieri si misero in cammino. Passarono la Diga e il Fosso, quindi, dirigendosi rapidamente verso est, presero un sentiero che costeggiava i piedi delle colline per circa un miglio per poi curvare verso sud scavalcando le alture e scomparendo dalla vista. Aragorn cavalcò sino alla Diga e guardò gli uomini del re attraversare il Fosso. Allora si rivolse ad Halbarad.
«Ecco partire tre persone che amo, e la più piccola non meno delle altre», disse. «Non sa quale fine l’attende, ma se pure lo sapesse continuerebbe tuttavia ad andare avanti».
«È gente piccola ma di gran valore, quella della Contea» disse Halbarad. «Non immaginano nemmeno quale lungo travaglio da parte nostra esiga la sicurezza delle loro frontiere; tuttavia non lo dico con rammarico».
«Ed ora i nostri destini s’intrecciano», interloquì Aragorn. «Eppure, ahimè, siamo costretti a separarci. Ebbene, adesso devo mangiare qualcosa e poi dovremo anche noi affrettarci a partire. Venite, Legolas e Gimli! Voglio parlarvi durante il mio pasto».
Tornarono insieme al Torrione, e per qualche tempo Aragorn rimase silenzioso, seduto alla tavola nel salone, mentre gli altri attendevano che parlasse. «Suvvia!», disse infine Legolas. «Parla con fiducia, e caccia via le ombre! Che cos’è accaduto da quando tornammo in questo tetro luogo nel grigiore del mattino?».
«Fui colto da un tormento più tetro della battaglia del Trombatorrione», rispose Aragorn. «Ho scrutato nella Pietra di Orthanc, amici».
«Hai scrutato in quella maledetta pietra di stregoneria!», esclamò Gimli con timore e meraviglia al tempo stesso. «Hai dunque detto qualcosa a… lui? Persino Gandalf temeva un simile incontro».
«Dimentichi con chi stai parlando», rispose severo Aragorn ed i suoi occhi sfavillarono. «Non ho forse proclamato apertamente il mio titolo innanzi alle porte di Edoras? Che cosa temi che gli abbia detto? No, Gimli», disse con tono più dolce mentre dal suo volto scompariva ogni traccia di severità ed egli rassomigliò a colui che ha trascorso molte notti travagliato dall’insonnia e dal dolore. «No, amici, sono io il legittimo padrone della Pietra, munito sia del diritto sia della forza necessari per adoperarla, o almeno così credevo. Il diritto è incontestabile. La forza è bastata… appena».
Trasse un profondo respiro. «È stata un’ardua lotta e la stanchezza è lenta a passare. Io non ho rivolto a lui alcuna parola, e sono infine riuscito ad assoggettare la Pietra al mio volere. Già questo sarà per lui assai duro da sopportare. Egli mi guardò. Sì, Messer Gimli, mi vide, ma diverso nell’aspetto da come mi vedete ora voi. Se ciò lo aiuterà, ho fatto male. Ma non credo. Penso che sapere ch’io vivo e cammino per il mondo sia stato per lui un vero colpo: egli lo ignorava sinora. Gli occhi di Orthanc non hanno saputo vedere attraverso l’armatura di Théoden; ma Sauron non ha dimenticato Isildur e la spada di Elendil. E proprio ora, al momento dei suoi grandi progetti, si rivelano a lui l’erede d’Isildur e la Spada, di cui gli ho mostrato la lama forgiata a nuovo. Non è ancora talmente potente da ignorare la paura; no, il dubbio lo rode continuamente».
«Ma ciò nonostante dispone di un enorme potere», interloquì Gimli, «ed ora colpirà più velocemente».
«Il colpo affrettato manca spesso il bersaglio», rispose Aragorn. «Dobbiamo premere sul Nemico, e non possiamo più attendere le sue mosse. Vedete, amici, quando ebbi assoggettato la Pietra appresi molte cose. Vidi un grande pericolo giungere inatteso dal Sud e minacciare Gondor, privando in tal modo Minas Tirith di gran parte delle sue forze. Se non lo si combatte immediatamente, entro dieci giorni la Città sarà perduta per sempre».
«Significa che ò questo il suo destino», replicò Gimli. «Quali aiuti vuoi mandarvi, e come potrebbero giungere in tempo?».
«Non ho aiuti da mandare, quindi devo andare io stesso», rispose Aragorn. «Ma vi è un solo sentiero attraverso le montagne che possa condurmi alla costa prima che sia perduta ogni speranza: il Sentiero dei Morti».
«Il Sentiero dei Morti!», esclamò Gimli. «È un nome tetro e poco gradito agli Uomini di Rohan, mi pare. Possono dunque i vivi percorrere quella via senza perire? Ed anche se riesci a passare, che potranno così pochi uomini contro le forze di Mordor?».
«Nessun vivente ha mai percorso quella via dopo la venuta dei Rohirrim», disse Aragorn, «perché essa è chiusa ai vivi. Ma in quest’ora oscura l’erede d’Isildur può usarla, se osa. Ascoltate! Questo è il messaggio che i figli di Elrond mi hanno portato da parte del loro padre, il più saggio e colto in materia di saghe: Che Aragorn rimembri le parole del veggente, ed i Sentieri dei Morti».
«E quali sono dunque le parole del veggente?», domandò Legolas.
«Così parlò Malbeth il Veggente, ai tempi di Arvedui, ultimo re di Fornost», disse Aragorn:
«Vedo già sulla terra una lunga ombra,
Mutarsi ad occidente in buia tenebra.
Trema la Torre; e vicino è il destino
Alle tombe dei re. Sorgono i Morti,
E giunta è l’ora per i traditori:
Di nuovo, in piedi sulla Roccia d’Erech,
Udran sui colli lo squillar di un corno.
Chi suonerà? Chi, dalle grigie tenebre,
Quella perduta gente chiamerà?
L’erede di colui che allor tradirono
Verrà dal Nord, sospinto dal bisogno,
E varcherà il Cancello che separa
Le nostre vie dai Sentieri dei Morti».
«Oscuro sarà indubbiamente il sentiero», disse Gimli, «ma non certo più oscuro del significato di queste strofe».
«Se desideri comprenderle meglio, ti prego di accompagnarmi», disse Aragorn; «quella infatti è la via che percorrerò adesso. Ma non la prendo volontariamente, bensì spinto dalla necessità. Se mi accompagnate, la vostra dev’essere una libera scelta, perché incontrerete travagli e grandi paure e forse anche peggio».
«Io ti seguirò anche per i Sentieri dei Morti, a qualunque fine essi conducano», disse Gimli.
«Verrò anch’io», disse Legolas, «non temo i Morti».
«Spero che la perduta gente non abbia perduto le armi», disse Gimli, «altrimenti non vedo perché dovremmo importunarli».
«Questo lo sapremo se mai giungeremo ad Erech», disse Aragorn. «Ma il giuramento che ruppero era proprio di lottare contro Sauron quindi se ora devono osservarlo saranno costretti a combattere. Pare che ad Erech si trovi ancora una pietra nera portata, dicono, da Isildur e proveniente da Nùmenor; fu deposta in cima ad un colle, e su di essa il Re delle Montagne giurò alleanza a Isildur agli albori del reame di Gondor. Ma quando Sauron tornò e la sua potenza crebbe nuovamente, Isildur chiese agli Uomini delle Montagne di mantenere la promessa, ed essi rifiutarono: avevano infatti ubbidito a Sauron durante gli Anni Oscuri.
«Allora Isildur disse al re: “Tu sarai l’ultimo re. E se l’Occidente risulterà più forte del tuo Nero Padrone, possa su te e sul tuo popolo cadere la mia maledizione: non conoscerete riposo finché non manterrete il vostro giuramento. Questa guerra durerà innumerevoli anni e voi sarete convocati ancora una volta prima della fine. Essi fuggirono innanzi alla collera d’Isildur e non osarono proseguire la guerra come alleati di Sauron; si nascosero in luoghi occulti nelle montagne e non trattarono più con altri Uomini, scomparendo lentamente nelle brulle colline. Ed il terrore dei Morti Senza Requie cova tutt’intorno al Colle di Erech e nei luoghi un tempo frequentati da quella gente. Ma quella è la via che devo percorrere, poiché non vi sono viventi che possano aiutarmi».
Si alzò. «Venite!», disse sguainando la spada che sfavillò nella luce crepuscolare del Torrione. «Alla Roccia di Erech! Cerco i sentieri dei Morti. Chi vuole mi segua!».
Legolas e Gimli non risposero ma si levarono in piedi e uscirono dalla sala al seguito di Aragorn. Sul verde prato attendevano, immobili e silenti, i Raminghi incappucciati. Legolas e Gimli montarono a cavallo. Aragorn balzò in groppa a Roheryn. Allora Halbarad soffiò in un grande corno ed il suono echeggiò in tutto il Fosso di Helm, ed essi partirono al galoppo attraversando la Conca Fossato come fulmini, mentre tutti gli uomini rimasti sulla Diga o nel Torrione osservavano stupefatti.
Mentre Théoden valicava i colli percorrendo lenti sentieri, la Grigia Compagnia attraversava a gran carriera la pianura, giungendo a Edoras l’indomani pomeriggio; vi sostarono brevemente prima di risalire i fianchi della valle, e giunsero a Dunclivo al calare dell’oscurità.
Dama Éowyn li accolse, felice del loro arrivo, poiché mai aveva veduto uomini più valorosi dei Dùnedain e dei bei figli di Elrond; ma i suoi occhi indugiavano soprattutto su Aragorn. Quando sedettero a tavola con lei quella sera, le raccontarono tutto ciò che era accaduto dopo la partenza di Théoden, di cui ella non aveva ricevuto che brevi e rapide notizie; e quando le narrarono la battaglia del Fosso di Helm e la grande strage dei loro nemici e la carica di Théoden e dei suoi Cavalieri gli occhi le brillarono.
Ma infine ella disse loro: «Signori, siete stanchi e dovete riposare adattandovi a letti preparati in fretta. Domani sarete sistemati più comodamente».
Aragorn rispose: «No, signora, non preoccuparti per noi! Ci basterà, se possibile, riposare qui questa notte e rompere domattina il digiuno, perché assai urgente è il mio compito e dobbiamo partire con le prime luci dell’alba».
Éowyn gli sorrise e disse: «È stato molto generoso da parte tua, sire, dirottare di tante miglia dalla tua via per recare notizie ad Éowyn e conversare con lei nel suo esilio».
«Nessun uomo invero considererebbe sprecato un simile viaggio», disse Aragorn, «eppure, signora, non sarei potuto venire sin qui, se la via che percorro non passasse da Dunclivo».
Allora ella rispose con il tono di colei che disapprova ciò che è stato detto: «In tal caso, sire, hai sbagliato strada; da qui non vi è alcuna via che conduca ad est o a sud, e faresti meglio a ritornare sui tuoi passi».
«No signora», rispose egli, «non ho sbagliato strada; conoscevo questo paese prima che tu lo allietassi con la tua grazia. C’è una via che conduce fuori di questa valle, e quella via io prenderò. Domani percorrerò i Sentieri dei Morti».
Ella lo mirò come ferita all’improvviso e il suo volto impallidì. Rimase a lungo in silenzio mentre tutti tacevano. «Ma, Aragorn», disse infine, «il tuo compito è dunque di cercare la morte? Non troverai altro lungo quella via. Essi non permettono ai vivi di passare».
«Forse permetteranno a me di passare», rispose Aragorn; «ed in ogni caso tenterò, poiché nessun’altra via può servirmi».
«Ma questa è follia», esclamò Dama Éowyn. «Con te vi sono uomini gloriosi e prodi che non dovresti condurre nelle tenebre, bensì recare in guerra, ove hanno gran bisogno di uomini. Ti prego di attendere e di proseguire in compagnia di mio fratello; i nostri cuori saranno più lieti, e la speranza più viva».
«Non è follia, signora», rispose Aragorn; «seguo il sentiero che mi è stato indicato. Coloro che mi accompagnano lo fanno tutti volontariamente, e se adesso preferiscono rimanere qui in attesa dei Rohirrim sono liberi di farlo. Ma io mi avvierò per i Sentieri dei Morti, solo, se necessario».
Tacquero e continuarono il pasto in silenzio, ma gli occhi di lei erano sempre posati su Aragorn e tutti si rendevano conto del grande turbamento ch’era in lei. Infine si alzarono, congedandosi da Dama Éowyn, e ringraziandola delle sue premure andarono a riposare.
Ma quando Aragorn giunse al padiglione dove alloggiava con Legolas e Gimli, ed i suoi compagni furono entrati, Dama Éowyn lo seguì e lo chiamò a sé. Egli si voltò e la vide come una luce nella notte, perché bianche erano le sue vesti; ma i suoi occhi erano infocati.
«Aragorn», disse, «perché vuoi prendere quel sentiero micidiale?».
«Perché devo», fu la risposta. «Solo così potrò eseguire il compito che mi è assegnato nella guerra contro Sauron. Non sono stato io a scegliere sentieri pericolosi, Éowyn. Se seguissi la voce del mio cuore, in questo momento starei passeggiando su nel lontano Nord nella bella valle di Gran Burrone».
Ella rimase per qualche attimo silenziosa, come intenta a soppesare il significato delle parole. Poi improvvisamente gli pose una mano sul braccio. «Sei un uomo severo e risoluto», disse; «ed è così che si conquista la gloria». S’interruppe. «Sire», disse, «se proprio devi andare, allora permetti che cavalchi al tuo seguito. Sono stanca di nascondermi nelle colline e desidero affrontare il pericolo e le battaglie».
«Il tuo dovere è con il tuo popolo», rispose Aragorn.
«Troppo spesso ho udito parlare di dovere», ella gridò. «Ma non sono forse della Casa di Eorl, una guerriera e non una balia asciutta? Ho atteso ormai troppo tempo su piedi malfermi. Poiché adesso pare che non lo siano più, perché non impiegare la mia vita come voglio?».
«Pochi vi riescono con onore», egli rispose. «Ma quanto a te, signora: non hai forse accettato l’incarico di governare il tuo popolo in attesa che ritorni il suo sovrano? Se non avessero scelto te, qualche maresciallo o qualche capitano sarebbe ora al tuo posto, e non potrebbe certo abbandonare l’incarico, per impaziente che fosse».
«Sceglieranno sempre me?», ella replicò amaramente. «Rimarrò dunque sempre a casa mentre i Cavalieri partono, a badare alle faccende domestiche mentre essi conquistano la gloria, per poi trovare cibo e giacigli al loro ritorno?».
«Presto nessuno di loro farà più ritorno», egli rispose. «Allora vi sarà bisogno di valore senza gloria, perché nessuno ricorderà le ultime imprese compiute in difesa delle vostre dimore. Eppure, anche se non lodate, saranno imprese altrettanto valorose».
Ma Éowyn rispose: «Tutte le tue parole significano soltanto: “Sei una donna e il tuo compito è la casa. Ma quando gli uomini saranno morti in battaglia con onore, tu avrai il permesso di bruciare insieme con la casa, perché ormai gli uomini non ne avranno più bisogno”. Ma io sono della Casa di Eorl, e non una serva. So cavalcare e maneggiare le armi, e non temo né il dolore né la morte».
«Che cosa temi dunque, signora?», egli domandò.
«Una gabbia», ella rispose. «Rimanere chiusa dietro le sbarre finché il tempo e l’età ne avranno fatto un’abitudine, e ogni possibilità di compiere grandi azioni sarà per sempre scomparsa».
«Eppure mi hai consigliato di non avventurarmi sulla via che ho scelta, perché è pericolosa!».
«È ciò che consiglierei a chiunque altro», ella disse. «Tuttavia non ti ho pregato di fuggire il pericolo, bensì di avventurarti in battaglia, ove la tua spada può conquistare vittoria e fama. Non desidero vedere qualcosa di grande e di eccelso inutilmente sprecato».
«Neppure io lo desidero», replicò Aragorn. «Ed è per questo che dico a te, signora: resta qui! Non hai compiti da svolgere al Sud».
«Anche coloro che ti seguono non ne hanno. Essi ti accompagnano soltanto perché non vogliono essere separati da te…. perché ti amano». Si volse e scomparve nella notte.
Quando la luce del giorno incominciò a rischiarare il cielo, ma il sole ancora non era apparso sopra le alte creste a oriente, Aragorn si preparò a partire. I suoi compagni erano tutti già a cavallo ed egli stava per balzare in sella, quando Dama Éowyn venne a porger loro il suo saluto. Era vestita come un Cavaliere e portava una spada. In mano recava una coppa, che avvicinò alle labbra, e bevendo un sorso augurò loro un viaggio facile e veloce; poi tese la coppa ad Aragorn, ed anche lui bevve dicendo: «Addio, Dama di Rohan! Bevo alla fortuna della tua Casa, alla tua ed a quella di tutto il tuo popolo. Di’ a tuo fratello: al di là delle tenebre forse c’incontreremo!».
Allora Gimli e Legolas, che si trovavano vicini, credettero che ella piangesse, e poiché era di carattere orgoglioso e severo, assai profondo doveva essere il suo dolore. Ed ella disse: «Aragorn, parti?». «Parto», egli rispose.
«Non permetti dunque che io segua questa compagnia, come desidero?».
«Non lo permetto, signora», egli disse. «Ogni decisione del genere spetta al re ed a tuo fratello, ed essi non torneranno prima di domani. Ma ora, ogni minuto per me è ormai prezioso. Addio!». Allora ella cadde in ginocchio esclamando: «Te ne supplico!». «No, signora», rispose Aragorn e prendendola per mano la rialzò. Poi le baciò la mano e balzato in sella partì al galoppo senza voltarsi; soltanto coloro che lo conoscevano bene e che gli erano vicini videro il dolore ch’era in lui.
Ma Éowyn rimase immobile come una figura scolpita nella roccia, con le mani strette sui fianchi, a osservarli finché svanirono nelle tenebre ai piedi del nero Dwimorberg, il Monte Invasato ove si trovava il Cancello dei Morti. Quando furono scomparsi alla vista, ella si voltò, incespicando come una cieca e tornò alla sua dimora. Ma nessuno della sua gente assisté a questa separazione perché si nascosero dalla paura, rifiutando di farsi avanti finché il sole fu alto e i tetri stranieri furono partiti.
Alcuni di essi dissero: «Sono guerrieri elfici; lasciate che se ne tornino da dove vengono, nelle tenebre, e non si facciano mai più vedere. Questi sono già tempi sufficientemente crudeli».
Continuavano a cavalcare sotto un cielo ancora grigio, poiché il sole non aveva ancora scavalcato le nere creste del Monte Invasato innanzi a loro. Una strana angoscia li colse nel passare tra filari di antiche pietre che conducevano al Dimholt. E lì, fra le tenebre di alberi neri che nemmeno Legolas riuscì a tollerare a lungo, videro ai piedi della montagna una profonda gola mentre innanzi a loro si ergeva un’unica imponente pietra come l’indice del destino.
«Sento il mio sangue gelarsi nelle vene», disse Gimli, ma gli altri continuarono a tacere e la sua voce si spense sugli umidi aghi di pino ai suoi piedi. I cavalli rifiutarono di passare davanti alla pietra finché i cavalieri non smontarono conducendoli per la briglia. Giunsero così all’estremità della gola; innanzi a loro, una parete di roccia a strapiombo, nella quale si apriva la Porta Nera, come se la notte spalancasse la bocca. Sopra l’arco imponente erano scolpiti simboli e figure ormai troppo sbiaditi per poter essere interpretati, e dall’entrata la paura si sprigionava come un vapore grigio.
La compagnia si arrestò, ed il cuore di Legolas l’Elfo fu forse l’unico a non tremare, perché egli non temeva gli spiriti degli Uomini.
«Questa è una porta crudele», disse Halbarad, «e la morte mi attende al di là di essa. E tuttavia avrò l’ardire di varcarla; ma nessun cavallo vorrà entrare».
«Noi siamo costretti ad entrare, e quindi i cavalli devono seguirci», disse Aragorn. «Se mai usciremo da queste tenebre, molte leghe ci attendono dall’altra parte, ed ogni ora persa affretterebbe il trionfo di Sauron. Seguitemi!».
Aragorn si avviò per primo, e tale era in quel momento la forza della sua volontà che tutti i Dùnedain ed i cavalli lo seguirono. I destrieri dei Raminghi amavano infatti i loro padroni a tal punto, che erano disposti ad affrontare persino il terrore della Porta, se condotti da una mano e da un cuore intrepido. Ma Arod, il cavallo di Rohan, rifiutò di andare avanti, ed era impressionante vederlo tremare e sudare di paura. Allora Legolas gli pose le mani sugli occhi e mormorò qualche parola che svanì nelle tenebre, ed il cavallo si lasciò guidare dall’Elfo. Gimli il Nano rimase lì solo.
Le gambe gli vacillavano, ed egli era furibondo con se stesso. «Questa è una cosa inaudita!», esclamò. «Un Elfo osa andare sotto terra e un Nano non ne ha il coraggio!». Avanzò risoluto. Ma gli parve di trascinare oltre la soglia piedi pesanti come piombo, mentre si sentiva diventare improvvisamente cieco, lui, Gimli figlio di Glóin, che aveva traversato senza timore tanti abissi.
Aragorn aveva fatto provvista di torce a Dunclivo, ed ora fece strada tenendone una alzata, mentre Elladan in coda ne portava un’altra, e Gimli, incespicando, cercava di raggiungerlo. Non vedeva altro che la pallida fiamma delle fiaccole, ma se la compagnia si arrestava, gli pareva di essere circondato da un infinito sussurrare di voci, un mormorio di parole strane in una lingua ignota.
Nulla assalì la compagnia, né le ostacolò il passaggio, eppure, man mano che avanzava, Gimli era assalito da una crescente paura: egli sapeva ormai che non vi era una via di ritorno, che tutti i sentieri alle loro spalle venivano invasi da un esercito invisibile che li seguiva nell’oscurità.
E così il tempo passava incalcolabile; ad un tratto Gimli scorse qualcosa che in seguito avrebbe poi sempre ricordato con ripugnanza. Per quel che riusciva a vedere, la strada era piuttosto ampia, ma improvvisamente la compagnia si trovò in un grande spazio vuoto ed i muri scomparirono da ambedue i lati. Il terrore pesava su di lui a tal punto che riusciva a malapena a camminare. A sinistra in lontananza qualcosa brillò nelle tenebre all’avvicinarsi della fiaccola d’Aragorn, il quale fece arrestare la compagnia e andò a vedere di che cosa si trattasse.
«Non conosce egli dunque la paura?», mormorò il Nano. «In qualsiasi altra caverna Gimli figlio di Glóin sarebbe stato il primo ad accorrere allo scintillare dell’oro. Ma non qui! Che rimanga pure dov’è!».
Ciò nonostante si avvicinò e vide Aragorn in ginocchio mentre Elladan reggeva ambedue le fiaccole. Innanzi a lui erano le ossa di un uomo imponente. Portava una cotta di maglia e l’intera armatura giaceva ancora lì intatta; infatti, l’aria asciutta della caverna aveva conservato anche la cintura d’oro e di granati ed il ricco elmo d’oro che copriva il suo teschio. Era caduto bocconi accanto a uno dei muri della caverna, come poterono constatare, ed innanzi a lui si ergeva una porta rocciosa fermamente chiusa: le ossa delle sue dita erano ancora avvinghiate alle fessure. Una spada rotta e scalfita gli giaceva accanto, come se colto dalla disperazione avesse vibrato contro la roccia un violento colpo.
Aragorn non lo toccò, ma dopo averlo osservato in silenzio per qualche tempo si levò in piedi sospirando. «Non cresceranno mai in questo luogo i fiori di simbelmynë», mormorò. «Vi sono ora ben nove e sette tumuli coperti dall’erba verde, e durante tutti questi lunghi anni egli è rimasto in terra davanti alla porta che non riuscì ad aprire. Dove conduce? Perché voleva passare? Nessuno mai lo saprà!
«Non è questo infatti il mio compito!», gridò voltandosi, rivolto all’oscurità sussurrante alle sue spalle. «Tenete nascosti i vostri segreti ed i vostri tesori degli Anni Maledetti! Rispondete solo alle nostre domande! Lasciateci passare e poi seguiteci! Vi convoco alla Roccia di Erech!».
Non ebbe altra risposta che un assoluto silenzio più terrificante dei bisbigli; ma ad un tratto una folata di vento freddo fece vacillare le fiaccole e le spense, e fu impossibile riaccenderle. Del tempo che seguì, un’ora o più, Gimli ricordò ben poco. Gli altri avanzavano in fretta e lui era sempre in coda, inseguito da un terrore brancolante che pareva sempre sul punto di afferrarlo; ed egli sentiva dietro di sé un rumoreggiare simile a passi fantomatici di innumerevoli Piedi. Egli continuò ad avanzare barcollando, finché si trovò a rampare in terra come un animale e pensò di non farcela più: doveva trovare una via d’uscita da cui fuggire, o tornare indietro correndo, in un impeto di pazzia, incontro al terrore incombente.
Ad un tratto udì scorrere dell’acqua, un rumore netto e limpido come quello di un sasso piombato in un sogno di tenebre. La luce aumentò e la compagnia varcò infine un altro cancello, un arco alto ed ampio, seguendo il corso di un ruscello; al di là una strada scendeva ripida fra pareti di rocce a strapiombo, le cui creste affilate come lame si stagliavano alte nel cielo. La gola era talmente profonda e stretta che in essa il cielo era scuro e puntellato di piccole stelle. Eppure Gimli seppe più tardi che mancavano ancora due ore al tramontare del giorno in cui avevano lasciato Dunclivo; ma per lui sarebbe anche potuto essere il crepuscolo di molti anni dopo, o di qualche altro mondo.
La compagnia montò nuovamente a cavallo e Gimli tornò accanto a Legolas. Cavalcavano in fila, e la sera li avvolse nella sua bruma di un color azzurro cupo; la paura continuava a inseguirli. Legolas si volse per dire qualcosa a Gimli, e il Nano vide innanzi a sé sfavillare gli occhi luminosi dell’Elfo. Alle loro spalle cavalcava Elladan, ultimo del gruppo, ma non ultimo a percorrere il sentiero scosceso.
«I Morti ci seguono», disse Legolas. «Vedo figure di Uomini e di cavalli, e pallidi stendardi come nuvole lacerate, e delle lance simili a cespugli invernali in una notte di nebbia. I Morti ci seguono».
«Sì, i Morti cavalcano dietro di noi. Sono stati convocati», disse Elladan.
La compagnia uscì infine dalla gola così improvvisamente che parve loro di sbucare dalla fessura d’un muro; innanzi a loro si stendevano le alture di una grande vallata, ed il ruscello scorreva con voce fredda giù per molte cascate.
«In quale luogo della Terra di Mezzo ci troviamo?», chiese Gimli, ed Elladan rispose: «Abbiamo appena lasciate dietro di noi le fonti del Morthond, il lungo fiume gelido che sbocca nel mare nel punto ove questo lambisce le mura di Dol Amroth. Certo comprenderai il perché del suo nome: lo chiamano Cepponero».
La Valle del Morthond aveva la forma di una grande baia che lambiva le ripide pareti meridionali dei monti. Le pendici scoscese erano ricoperte d’erba, ma a quell’ora tutto era grigio, perché il sole era scomparso e in lontananza si vedevano luci brillare nelle case degli Uomini. Era una valle ricca e molta gente vi dimorava.
Allora senza voltarsi Aragorn gridò con voce tonante affinché tutti potessero udire: «Amici, obliate la vostra stanchezza! Cavalcate, adesso, cavalcate! Dobbiamo giungere alla Roccia di Erech prima della fine di questo giorno, e lunga ancora è la via». Attraversarono quindi le alture senza voltarsi, sinché arrivarono a un ponte sul torrente, ove trovarono una strada che conduceva giù nella pianura.
Le luci si spegnevano nelle case e nei villaggi al loro passare, le porte venivano sprangate e la gente nei campi gridava di terrore e fuggiva impazzita come cervi braccati. E sempre, nella notte che s’infittiva, echeggiava il medesimo grido: «Il Re dei Morti! Il Re dei Morti marcia su di noi!».
Delle campane suonavano in basso nella valle e tutti fuggivano innanzi al volto di Aragorn; ma la Grigia Compagnia, spinta dalla premura, galoppava come per un inseguimento ed i cavalli inciampavano sfiniti. E così, poco prima di mezzanotte e in un’oscurità nera come le tenebre delle caverne nelle montagne, giunsero al Colle di Erech.
Da lungo tempo il terrore dei Morti sovrastava quel colle ed i campi vuoti intorno ad esso. In cima si ergeva una roccia nera e sferica come un grosso globo dell’altezza di un uomo, di cui metà era sepolta nel terreno. Pareva extraterrena, come caduta dal cielo, e molti ne erano convinti; ma coloro che rammentavano ancora le saghe dell’Ovesturia narravano che essa proveniva dalle rovine di Nùmenor ed era stata posta in quel luogo da Isildur al suo arrivo. Nessun abitante della valle osava avvicinarsi né dimorare in prossimità di essa, perché dicevano che era un luogo di convegno degli Uomini-ombra, i quali si radunavano lì nei momenti di paura, affollandosi intorno alla Roccia e sussurrando.
Proprio a quella Roccia giunse la compagnia nel mezzo della notte, e si arrestò. Allora Elrohir diede ad Aragorn un corno d’argento ed egli lo suonò; a coloro che si trovavano nelle vicinanze parve di udire il suono di altri corni rispondere, come un’eco in profonde e lontane caverne. Non udirono però altri rumori, pur essendo consci della presenza di un grosso esercito radunato tutto intorno al colle. Un vento gelido come il respiro di fantasmi veniva dalle montagne. Aragorn smontò e in piedi, accanto alla Roccia, gridò con voce possente:
«Fedifraghi, perché siete venuti?».
Si udì una voce rispondergli nella notte come da molto lontano:
«Per mantenere il nostro giuramento ed avere pace».
Allora Aragorn disse: «È giunta infine l’ora. Io ora vado a Pelargir sull’Anduin, e voi mi seguirete. E quando da questa terra saranno stati spazzati via i servitori di Sauron, considererò mantenuto il giuramento ed avrete pace e riposo eterno. Perché io sono Elessar, l’erede d’Isildur di Gondor».
Detto ciò pregò Halbarad di scoprire il grande stendardo che aveva portato; era nero, e se qualche figura vi era riprodotta, era nascosta dall’oscurità. Quindi regnò il silenzio, e durante tutta la notte non si udì né un sussurro né un sospiro. La compagnia si accampò accanto alla Roccia ma dormì poco, per timore delle Ombre che la circondavano.
Ma quando venne l’alba, fredda e pallida, Aragorn si levò velocemente e guidò la compagnia nel viaggio più incalzante e faticoso che nessuno dei cavalieri avesse mai affrontato, e che sopportarono grazie alla forza di volontà del loro capo. Nessun altro mortale avrebbe resistito, ma i Dùnedain del Nord, Gimli il Nano e Legolas l’Elfo tennero duro.
Passarono il Valico di Tarlang ed entrarono nel Lamedon, seguiti dall’Esercito d’Ombre e preceduti dal terrore, e giunsero infine a Calembel sul Ciril mentre il sole s’immergeva nel sangue alle loro spalle dietro il Pinnath Gelin. Trovarono la cittadina e i guadi del Ciril deserti, perché molti erano partiti in guerra e tutti coloro che erano rimasti avevano cercato riparo sulle colline alla notizia dell’arrivo del Re dei Morti. Ma l’indomani l’alba non apparve; la Grigia Compagnia avanzò nelle tenebre della Tempesta di Mordor e scomparve dalla vista dei mortali; ma i Morti la seguivano.
Tutte le strade ormai conducevano gli eserciti ad est per far fronte alla guerra imminente e all’incombere dell’Ombra. Mentre Pipino guardava il Principe di Dol Amroth varcare il Gran Cancello della Città con i suoi stendardi, il Re di Rohan scendeva dalle colline.
Il giorno declinava. Negli ultimi raggi di sole i Cavalieri proiettavano innanzi a loro lunghe ombre appuntite. Le tenebre erano già penetrate nei boschi d’abeti mormoranti che rivestivano le ripide falde della montagna. Il re cavalcava lentamente sul finire del giorno. Il sentiero aggirava una enorme e nuda sporgenza rocciosa e piombava nel buio fra alberi dolcemente sussurranti. Il sentiero serpeggiante li portò giù, sempre più giù, e quando infine arrivarono in fondo alla gola videro che la notte invadeva le zone più basse. Il sole era scomparso. Il crepuscolo stagnava sulle cascate.
Durante tutta la giornata avevano veduto un ruscello saltellante, sgorgato da un alto valico dietro di loro, aprirsi un varco fra pareti fitte di pini; ora scorreva abbondante attraverso un passaggio roccioso per poi traversare un vallone più largo. I Cavalieri lo seguirono, ed improvvisamente Clivovalle fu innanzi a loro, con le sue acque rumoreggianti nella sera. Là il bianco Acquaneve, raggiunto dal suo affluente, si precipitava spumeggiando sulle pietre e scendeva rapido sino a Edoras, ai suoi verdi colli e alle pianure. Lontano a destra, all’estremità della grande vallata, l’imponente Starkhorn si ergeva sulle sue ampie propaggini avvolto nelle nubi; ma il bianco picco aguzzo coperto da nevi eterne scintillava molto più alto del resto del mondo, ombreggiato di blu a oriente, tinto di rosso dal tramonto a occidente.
Merry osservava con stupore questa terra straniera di cui tanto aveva udito parlare nel corso della loro lunga strada. Era un mondo senza cielo, dove il suo occhio, attraverso pallidi golfi di aria ombrosa, vedeva solo pendici innalzarsi all’infinito, pareti di roccia dietro ad altre pareti di roccia, e precipizi dirupati contornati da nebbia. Per qualche minuto rimase seduto a sognare ascoltando il rumore dell’acqua, il bisbigliare di alberi scuri, lo scricchiolio della roccia, e il grande silenzio sospeso nell’aria che faceva da sfondo a tutti i rumori. Amava molto le montagne, o comunque le aveva amate col pensiero, fantasticando su storie e descrizioni venute da molto lontano; ma ora si sentiva oppresso dall’insopportabile peso della Terra di Mezzo. Desiderava con ansia ripararsi da quell’immensità in una stanza tranquilla accanto a un camino.
Era molto stanco, perché pur avendo cavalcato lentamente avevano riposato poco. Un’ora dopo l’altra per quasi tre giorni spossanti era stato sballottato su e giù, attraverso valichi e lunghi valloni e corsi d’acqua. A volte, dove il sentiero era più ampio, cavalcava al fianco del re, senza notare i Cavalieri che sorridevano al vedere i due insieme: l’Hobbit sul suo piccolo pony grigio e irsuto e il Signore di Rohan sul suo grande cavallo bianco. Discorrendo con Théoden gli aveva raccontato della sua casa e degli avvenimenti nella Contea, o aveva ascoltato le storie del Mark e dei grandi Uomini del passato. Ma la maggior parte del tempo, specialmente l’ultimo giorno, Merry aveva cavalcato da solo dietro il re, tacendo e cercando di comprendere il lento e sonoro linguaggio di Rohan che udiva parlare dagli uomini alle sue spalle. Quella lingua sembrava contenere numerosi vocaboli ch’egli conosceva, anche se pronunciati più enfaticamente che nella Contea, eppure non riusciva a dare un significato alle frasi. A volte un Cavaliere elevava la limpida voce in un canto commovente, e Merry si sentiva scosso, pur non comprendendo di che cosa si trattasse.
E tuttavia si era sentito solo, e mai tanto come ora al finire del giorno. Si domandava in quale luogo di questo strano mondo fosse andato a finire Pipino, e che cosa sarebbe accaduto ad Aragorn, Legolas e Gimli. Poi, improvvisamente, con un brivido freddo nel cuore pensò a Frodo ed a Sam. «Li sto dimenticando!», si disse con tono di rimprovero. «Eppure sono più importanti di tutti noi. E io sono venuto per aiutarli; ma ormai devono essere distanti centinaia di miglia, se sono ancora vivi». Rabbrividì.
«Finalmente Clivovalle!», esclamò Éomer. «Il nostro viaggio è quasi giunto al termine». Si arrestarono. I sentieri scendevano ripidi all’uscita della stretta gola. Si riusciva a scorgere appena, come attraverso un’alta finestra, la grande valle immersa nel crepuscolo. Un’unica luce scintillava accanto al fiume.
«Questo viaggio è forse finito», disse Théoden, «ma io ho ancora molta strada da fare. La notte scorsa la luna era piena e domattina mi recherò a Edoras all’adunata del Mark».
«Ma se seguissi il mio consiglio», disse Éomer con tono dolce, «torneresti poi qui ad attendere che finisca la guerra, vinta o perduta che sia».
Théoden sorrise. «No, figlio mio, lascia che ti chiami così, non parlare il linguaggio ambiguo di Vermilinguo alle mie orecchie di vegliardo!». Si rizzò sulle staffe e guardò dietro di sé la lunga fila dei suoi uomini svanire nella foschia. «Sembravano passati molti e molti anni da quando venni a occidente; io però mai più mi appoggerò ad un bastone. Se la guerra è perduta, a che pro nascondermi sulle colline? E se è vinta, non vi è motivo di tristezza, anche se cado impegnando le mie ultime energie. Ma non curiamo tutto ciò per il momento. Questa notte la trascorreremo nel Forte di Dunclivo. Una notte di pace almeno ci è concessa. Coraggio!».
Nelle tenebre che s’infittivano arrivarono nella valle. Qui l’Acquaneve scorreva lungo la parete occidentale del vallone, e il sentiero li condusse a un guado ove le acque basse mormoravano rumorosamente sui sassi. Il guado era sorvegliato. All’avvicinarsi del re molti uomini sbucarono dall’ombra delle rocce e quando lo riconobbero gridarono felici: «Théoden Re! Théoden Re! Il Re del Mark è tornato!».
Allora uno di essi suonò con il corno un lungo richiamo che echeggiò nella valle. Altri corni risposero e delle luci si accesero al di là del fiume.
E improvvisamente da molto in alto si levò un grande coro di trombe, che sembravano trovarsi in qualche caverna e che, fuse in una le loro voci, le facevano rimbombare contro le pareti di roccia.
Così il Re del Mark tornò vittorioso dall’Ovest, giungendo a Dunclivo ai piedi dei Monti Bianchi. Trovò le rimanenti forze del suo popolo già riunite in assemblea, e non appena ricevuta notizia del suo arrivo i suoi capitani gli cavalcarono incontro recando messaggi di Gandalf. Dùnhere, capo della popolazione di Clivovalle, guidava l’ambasceria.
«All’alba di tre giorni addietro, sire», disse, «Ombromanto giunse a Edoras come vento dall’Ovest, e Gandalf ci recò la notizia della tua vittoria per rallegrare i nostri cuori. Ma ci recò altresì il tuo ordine di affrettare il raduno dei Cavalieri. E poi venne l’Ombra alata».
«L’Ombra alata?», ripeté Théoden. «La vedemmo anche noi, ma a notte fonda e prima che Gandalf ci lasciasse».
«Forse, sire», rispose Dùnhere. «Eppure la stessa, o un’altra simile, un’oscurità volante a forma di uccello mostruoso, passò nel cielo di Edoras quel mattino e tutti tremarono di terrore. Essa puntò infatti su Meduseld e nello scendere in picchiata sino all’altezza del cornicione lanciò un grido che raggelò i nostri cuori. Fu allora che Gandalf ci consigliò di non radunarci nei campi e d’incontrarvi qui nella valle all’ombra delle montagne. E ci raccomandò di non accendere luci e fuochi più di quanto non sia strettamente necessario. È stato fatto. Gandalf parlava con molta autorità: abbiamo pensato che tale fosse il tuo desiderio. A Clivovalle non si è visto nessuno di questi eventi malvagi».
«Bene», disse Théoden. «Ora mi recherò al Forte e lì, prima di andare a riposare, convocherò i marescialli ed i capitani. Che vengano da me al più presto!».
La strada si dirigeva ora verso est e attraversava tutta la valle che in quel punto misurava poco più di mezzo miglio. Tutt’intorno vi erano distese e prati di un’erba dura e grigia nelle prime tenebre della notte, ma all’altra estremità della vallata Merry vide una parete a strapiombo, ultima diramazione delle grandi propaggini dello Starkhorn, scavata dal fiume in tempi remoti.
In tutti i luoghi piani vi era un gran radunarsi di uomini. Alcuni affollavano i lati della strada, acclamando con grida d’entusiasmo il re ed i cavalieri di ritorno da ovest; ma dietro di essi erano allineati a perdita d’occhio tende e baracche, recinti con cavalli, grandi magazzini pieni d’armi e pile di lance simili a cespugli appena piantati. Ora tutto questo grande assembramento di forze stava piombando nelle tenebre e nonostante la fredda brezza notturna proveniente dalle montagne non erano stati accesi né falò né lanterne. Delle sentinelle coperte da manti pesanti passeggiavano su e giù.
Merry si chiese quanti Cavalieri vi fossero. Nell’oscurità sempre più fitta non riusciva a indovinarne il numero, ma aveva l’impressione che fosse un grosso esercito di parecchie migliaia d’uomini. Mentre scrutava a destra e a sinistra, il re e la sua scorta giunsero ai piedi dell’imponente rupe all’estremità orientale della valle; lì improvvisamente il sentiero incominciava a salire e Merry guardò stupefatto. Stavano percorrendo una via come non ne aveva mai vedute in vita sua, un’enorme opera edificata dalle braccia di uomini in tempi obliati persino dalle saghe. Serpeggiava sempre più in alto, sinuosa come un verme, perforando la rupe erta e ripida. I cavalli potevano salire al passo, ed anche trainare lentamente dei carri; ma nessun nemico avrebbe potuto metter piede su quel sentiero difeso dall’alto, a meno di non scendere dal cielo. Ad ogni svolta si ergevano grandi pietre scolpite nelle sembianze di uomini colossali e dalle tozze membra, seduti per terra a gambe incrociate e con le braccia conserte sulle grosse pance. Alcuni a causa del logorio del tempo avevano ormai perso ogni connotato originario salvo i due buchi neri degli occhi che fissavano tristemente i passanti. I Cavalieri non vi facevano alcun caso. Li chiamavano Pùkel e li guardavano appena: non serbavano infatti più alcun potere o terrore; Merry invece li osservava con stupore e quasi un senso di pietà, vedendoli giganteggiare tetri nel crepuscolo.
Dopo qualche tempo si voltò e si accorse di trovarsi già ad alcune centinaia di piedi sopra la valle, ma riusciva ancora a distinguere molto più in basso una sinuosa fila di Cavalieri attraversare il guado e percorrere la strada in direzione dell’accampamento che era stato loro preparato. Solo il re accompagnato dalle sue guardie si recava al Forte.
Infine la compagnia giunse in un punto ove la strada s’inoltrava in una fessura fra due pareti di roccia, inerpicandosi per un breve tratto e sbucando infine su di un grande altipiano. Gli uomini lo chiamavano Firienfeld: una verde pianura di montagna, coperta d’erba e di brughiere, che dominava dall’alto il letto profondo e incassato dell’Acquaneve e che giaceva sulle falde di imponenti monti: a sud lo Starkhorn ed a nord la dentellata mole dell’Irensaga, e fra questi, di fronte alla compagnia, la tetra e nera parete del Dwimorberg, il Monte Invasato, che si ergeva fra ripide pendici tappezzate di pini neri. L’altipiano era diviso in due da una doppia linea di grosse pietre informi che scomparivano nelle tenebre e svanivano fra gli alberi. Coloro che osavano seguire quella via giungevano al nero Dimholt, ai piedi del Dwimorberg, alla minacciosa colonna di pietra, ed alla cupa ombra della porta proibita.
Tale era il tetro Dunclivo, l’opera di uomini scomparsi in tempi lontani. I loro nomi erano ignoti e né canti né leggende li evocavano. Per quale motivo avessero edificato quel luogo, se esso fosse stato destinato ad essere una città, o un tempio segreto, o la tomba di re, nessuno lo sapeva. Ivi gli uomini avevano dimorato negli Anni Oscuri, prima ancora che nave giungesse alle coste occidentali e che Gondor dei Dùnedain si costituisse in reame; ed ora erano scomparsi, lasciando dietro di sé soltanto i Pùkel, seduti a ogni svolta della via.
Merry osservò le file di pietre: erano nere e consunte; alcune piegate su un lato, altre cadute, altre ancora fessurate o rotte; sembravano file di vecchi denti affamati. Si chiese che cosa potessero essere, sperando che il re non le seguisse, scomparendo nell’oscurità. Poi si accorse che su ambedue i lati del sentiero vi erano gruppi di tende e di baracche, non edificate in prossimità degli alberi, ma piuttosto ammassate vicino all’orlo della rupe. La maggior parte si trovava sul lato destro ove il Firienfeld era più ampio; sulla sinistra vi era un accampamento più piccolo in mezzo al quale si ergeva un alto padiglione. Proprio di lì un cavaliere galoppò loro incontro, mentre la compagnia abbandonava la strada.
Quando furono vicini, Merry vide che il cavaliere era una donna con lunghi capelli intrecciati che scintillavano nel crepuscolo; tuttavia portava un elmo e una spada ed era vestita come un guerriero.
«Salve, Sire del Mark!», gridò. «Il mio cuore è felice del tuo ritorno».
«E tu, Éowyn», domandò Théoden, «va tutto bene?».
«Va tutto bene», ella rispose, eppure parve a Merry che la voce la smentisse, e che avesse pianto a lungo, se ciò era possibile per qualcuno dal volto così severo e risoluto. «Tutto bene. È stato assai faticoso per la gente, improvvisamente strappata dalla propria casa, percorrere tanta strada. Vi sono state parole dure, perché ormai da molto tempo la guerra non ci allontanava più dai verdi campi; ma non sono accaduti fatti spiacevoli. Tutto adesso è in ordine, come vedi. E la tua dimora è pronta, poiché ho avuto esaurienti notizie sul tuo conto e conoscevo l’ora del tuo arrivo».
«Aragorn è dunque arrivato», disse Éomer. «È ancora qui?». «No, è partito», disse Éowyn distogliendo lo sguardo e scrutando a sud-est le cupe montagne.
«Dove andava?», chiese Éomer.
«Lo ignoro», ella rispose. «Arrivò di notte e ripartì ieri mattina prima che il Sole fosse apparso in cima alle montagne. È partito».
«Sei addolorata, figlia», disse Théoden. «Che cos’è accaduto? Dimmi: ha forse parlato di quella strada?». Mostrò le cupe file di pietre che conducevano al Dwimorberg. «Dei Sentieri dei Morti?».
«Sì, mio Sire», rispose Éowyn. «E si è inoltrato nelle ombre donde nessuno è mai tornato. Non sono riuscita a dissuaderlo. È partito».
«Allora i nostri sentieri divergono», disse Éomer. «Egli è perduto. Dovremo cavalcare senza di lui, e la nostra speranza si affievolisce».
Attraversarono lentamente le basse brughiere e l’erba in silenzio, finché giunsero al padiglione del re. Là Merry trovò che tutto era pronto e che egli stesso non era stato dimenticato. Gli avevano installato una piccola tenda accanto alla dimora del re, ed egli vi rimase seduto da solo mentre gli uomini andavano e venivano, recandosi dal re a consultarlo. La notte sopraggiunse, e le cime dei monti che s’intravedevano ad ovest erano coronate di stelle, ma l’Oriente era vuoto e buio. Le pietre miliari svanirono lentamente, ma in fondo, più nera delle tenebre, si ergeva ancora minacciosa la grande massa cupa del Dwimorberg.
«I Sentieri dei Morti», ripeté sottovoce. «I Sentieri dei Morti? Che significa tutto ciò? Adesso mi hanno abbandonato tutti. Sono partiti tutti incontro a qualche destino: Gandalf e Pipino a combattere ad est; Sam e Frodo a Mordor; Grampasso, Legolas e Gimli ai Sentieri dei Morti. Ma presto verrà anche il mio turno, suppongo. Mi domando di che stia discutendo tutta quella gente e che intenzioni abbia il re. Ormai devo andare dove va lui».
Nel mezzo di questi tetri pensieri si ricordò ad un tratto di avere molta fame, e si alzò per vedere se qualcun altro in quello strano accampamento era affamato come lui. Ma proprio in quel momento suonò una tromba e un uomo venne a invitare Merry, scudiero del re, a prendere parte alla mensa di Théoden.
All’interno del padiglione vi era un piccolo vano, separato dal resto da tende ricamate e coperte di pelli; lì a un piccolo tavolo sedeva Théoden con Éomer ed Éowyn e Dùnhere, signore di Clivovalle. Merry, in piedi vicino al seggio del re, attendeva i suoi ordini, quando improvvisamente il vegliardo, destatosi dai suoi profondi pensieri, si volse verso di lui e sorrise.
«Vieni, Messer Meriadoc!», disse, «non devi restare in piedi. Devi sedere al mio fianco finché sarò nelle mie terre, e rallegrare il mio cuore con le tue storie».
Si fece spazio per l’Hobbit alla sinistra del re, ma nessuno chiese di udire una storia. Anzi, vi fu poca conversazione ed essi mangiarono e bevvero quasi sempre in silenzio, finché fattosi coraggio Merry si decise a porre la domanda che lo tormentava.
«due volte ormai, Sire, ho udito parlare dei Sentieri dei Morti», egli disse. «Che cosa sono? E Grampasso, intendo dire Sire Aragorn, dov’è andato?».
Il re sospirò, ma nessuno rispose; finalmente però Éomer parlò: «Lo ignoriamo, ed i nostri cuori sono pesanti. In quanto ai Sentieri dei Morti, tu stesso ne hai percorso pochi passi. No, non sto pronunciando parole di cattivo presagio! La strada in salita che abbiamo percorso conduce alla Porta, lungi nel Dimholt. Ma cosa vi sia al di là, nessuno lo sa».
«Nessuno lo sa», disse Théoden; «eppure un’antica leggenda evocata ormai di rado narra qualcosa in proposito. Se queste antiche storie tramandate di padre in figlio nella Casa di Eorl dicono il vero, allora la Porta nel Dwimorberg conduce a un’occulta via che attraversa la montagna per finire in qualche luogo remoto. Ma nessuno ha mai più osato cercarne i segreti da quando Baldor, figlio di Brego, varcò la Porta e scomparve per sempre dal mondo dei vivi. Egli espresse un desiderio assai avventato quando suonò il corno alla festa data da Brego per inaugurare Meduseld, e non sedette mai sull’alto seggio di cui era l’erede.
«La gente dice che i Morti degli Anni Oscuri stanno a guardia del sentiero e non permettono ad alcun vivo di penetrare nelle loro occulte dimore; ma a volte sono loro che, varcando la porta come ombre, scendono lungo il sentiero fiancheggiato da pietre. Allora la gente di Clivovalle spranga porte e finestre ed ha paura. Ma i Morti si fanno avanti assai raramente, e solo in tempi molto tormentati e presaghi di morte imminente».
«Eppure dicono a Clivovalle», interloquì Éowyn a bassa voce, «che nelle notti senza luna sino a poco tempo fa soleva passare un grande esercito abbigliato in modo strano. Donde venisse, nessuno lo sapeva, ma lo si vedeva salire il sentiero e scomparire nelle colline, come per recarsi a un’assemblea».
«Ma allora perché Aragorn ha scelto quella via?», domandò Merry. «Non siete al corrente di nulla che possa spiegarlo?».
«A meno che non si sia confidato con te, suo amico», disse Éomer, «nessuno di coloro che sono adesso sulla terra dei viventi conosce il suo proposito».
«Mi parve assai trasformato da quando lo vidi la prima volta nella dimora del re», disse Éowyn: «più duro, più vecchio. Ebbi l’impressione che fosse condannato dal fato, e che i Morti lo chiamassero».
«Forse fu chiamato», disse Théoden, «e il mio cuore mi dice che non lo vedrò mai più. Eppure è uomo di stirpe regale e di grande destino. E che ciò possa confortarti, figlia, poiché sembri aver bisogno di conforto nel tuo dolore per questo nostro ospite. Si dice che quando gli Eorlingas scesero dal Nord e varcarono l’Acquaneve alla ricerca di roccheforti ove rifugiarsi al momento del bisogno, Brego e suo figlio Baldor salirono la Scala del Forte e giunsero innanzi alla Porta. Sulla soglia sedeva un vecchio così decrepito che era impossibile contare i suoi anni; era stato alto e regale, ma ora era consunto come un vecchio sasso. Ed essi credettero davvero che fosse di sasso, poiché non fece alcun movimento né pronunciò alcuna parola finché, quando cercarono di oltrepassarlo e di entrare, una voce si levò come uscita dalle profondità della terra, e parlò, con loro grande stupore, nella lingua occidentale: La via è chiusa.
«Allora si arrestarono e guardandolo videro che viveva ancora; ma egli non li guardò. La via è chiusa, ripeté la sua voce. Fu fatta da coloro che sono Morti, e i Morti la custodiscono, fin quando giungerà l’ora. La via è chiusa.
«E quando giungerà quell’ora?, domandò Baldor. Ma non ebbe alcuna risposta. Il vecchio morì in quel momento e cadde bocconi; ed il nostro popolo non ha mai più avuto notizia degli antichi abitanti delle montagne. Eppure forse l’ora profetizzata è infine giunta, ed Aragorn potrà passare».
«Ma com’è possibile scoprire se l’ora è giunta o no, se non avventurandosi sino alla Porta?», disse Éomer. «Ed è una strada che non percorrerei anche se tutti gli eserciti di Mordor fossero davanti a me, solo e senz’altra via di scampo. Ahimè! Perché uno stato d’animo così fatale si è impadronito di un uomo di tale valore in quest’ora di bisogno? Non vi sono forse intorno a noi cose sufficientemente malvagie, senza doverle andare a cercare sotto terra? La guerra è imminente».
S’interruppe, perché improvvisamente udirono un rumore all’esterno e la voce di un uomo che gridava il nome di Théoden ed il «chi va là» della sentinella.
Poi il capitano delle guardie aprì la tenda e disse: «È arrivato un uomo, Sire, un messaggero di Gondor. Desidera essere ricevuto al più presto».
«Che entri!», disse Théoden.
Un uomo alto entrò e Merry trattenne a mala pena un grido: per un attimo gli era sembrato che Boromir fosse di nuovo vivo e fra loro. Poi si rese conto del proprio errore; l’uomo era uno straniero, ma rassomigliava a Boromir a tal punto da poter essere della sua stessa famiglia, alto, dagli occhi grigi e fiero. Era vestito da cavaliere, con un manto verde scuro su di una fine cotta di maglia; intagliata nel suo elmo era una piccola stella d’argento. Recava in mano un’unica freccia, piumata di nero e con la punta d’acciaio dipinta di rosso.
Piegò in terra un ginocchio e presentò il dardo a Théoden. «Salve, Signore dei Rohirrim, amico di Gondor!», disse. «Io sono Hirgon, messaggero di Denethor, e ti reco questo simbolo di guerra. Gondor è in grandi difficoltà. I Rohirrim ci hanno aiutato spesso, ma ora Sire Denethor ha bisogno di tutta la vostra forza e velocità, per evitare che Gondor cada».
«La Freccia Rossa!», esclamò Théoden, tenendola in mano come chi riceve un appello a lungo atteso e tuttavia terribile. La sua mano tremava. «In tutti i lunghi anni del mio regno la Freccia Rossa non è mai stata vista nel Mark! È davvero così grave? E di quale entità Sire Denethor crede siano la mia forza e la mia velocità?».
«Nessuno può saperlo meglio di te, Sire», rispose Hirgon. «Ma è assai probabile che fra breve Minas Tirith sia circondata, e a meno che non abbiate forza sufficiente a sconfiggere degli assedianti potentissimi, Sire Denethor mi prega di dirti che crede che le valorose braccia dei Rohirrim sarebbero più al sicuro all’interno delle mura che non fuori di esse».
«Ma egli sa che noi siamo gente che preferisce lottare in sella a un cavallo e all’aperto, e sa anche che il nostro popolo è sparpagliato e che ci vuole tempo per radunare tutti i Cavalieri. Il Signore di Minas Tirith sa più di quanto non dica nel suo messaggio; non è forse così, Hirgon? Perché noi siamo già in guerra, e quindi in parte già pronti. Gandalf il Grigio è stato fra noi, ed in questo momento siamo intenti a riunirci per combattere ad est».
«Che cosa possa sapere o indovinare di tutto ciò Sire Denethor, non saprei dire», rispose Hirgon. «Ma il nostro è veramente un caso disperato. Il mio signore non ti invia alcun ordine, ti prega soltanto di ricordare l’antica amicizia e le promesse sovente rinnovate e di fare tutto il possibile, anche per il tuo stesso bene. Ci è stato riferito che molti re dell’Est si sono messi al servizio di Mordor. Dal Nord sino alla piana di Dagorlad vi sono scorribande e segni di guerra. Nel Sud gli Haradrim si stanno già muovendo, e su tutte le nostre coste incombe la paura, e non vi è quindi speranza che da lì giungano soccorsi. Affrettati! Il destino del nostro tempo si deciderà innanzi alle mura di Minas Tirith, e se non riusciamo ad arrestare lì la marea, essa inonderà tutte le fertili pianure di Rohan, e persino in questo Forte riparato dalle colline non vi sarà salvezza».
«Tetre notizie sono queste», disse Théoden, «eppure in parte previste. Ma di’ a Denethor che anche se Rohan non corresse alcun pericolo, esso verrebbe tuttavia in suo aiuto. Abbiamo subito però molte perdite nelle nostre battaglie contro il traditore Saruman, e dobbiamo pur sempre pensare alle nostre frontiere a nord e ad est, come risulta anche dalle informazioni da te recateci. L’Oscuro Signore sembra ormai disporre di tali forze che potrebbe al tempo stesso darci battaglia davanti alla Città trattenendo così i nostri eserciti, e colpire con violenza oltre il Fiume, al di là del Cancello dei Re.
«Ma ora basta con gli ammonimenti di prudenza. Vi verremo in aiuto. La presa delle armi era stabilita per domani. Non appena tutto sarà in ordine ci metteremo in marcia. Diecimila lance avrei potuto inviare al di là della pianura per sconfiggere i vostri nemici; ma temo che ora saranno in minor numero, perché non voglio lasciare tutte le mie fortezze incustodite. Comunque, almeno seimila cavalieri mi accompagneranno. Di’ a Denethor che questa volta il Re del Mark in persona si recherà nella terra di Gondor, anche se forse non ne ritornerà. Ma la via è lunga, e uomini e cavalli devono conservare le forze per combattere. Forse passerà una settimana da domattina prima che udiate il grido dei Figli di Eorl arrivare dal Nord».
«Una settimana!», esclamò Hirgon. «Se così dev’essere, pazienza. Ma è probabile che troviate soltanto mura distrutte fra sette giorni, a meno che non giungano altri soccorsi inattesi. Comunque potrete almeno impedire agli Orchi ed agli Uomini Bruni di festeggiare la vittoria nella Torre Bianca».
«È il minimo che potremmo fare», disse Théoden. «Ma io stesso sono appena rientrato da una battaglia e da un lungo viaggio, ed ora andrò a riposare. Passa qui la notte, così potrai assistere all’adunata di Rohan e partire con il cuore in pace, e viaggiare più veloce dopo il riposo. Le migliori decisioni sono quelle prese di mattina, poiché la notte trasforma molti pensieri».
E con ciò il re si levò in piedi e tutti si alzarono. «Andate tutti a riposare», egli disse, «e dormite bene. E di te, Messer Meriadoc, non ho più bisogno stasera. Ma sii pronto non appena il Sole si sarà levato».
«Sarò pronto», disse Merry, «anche se mi chiederai di percorrere con te il Sentiero dei Morti».
«Non pronunciare parole maledette!», disse il re. «È probabile che molte altre strade meritino tale nome. Ma non ti ho detto di percorrere con me alcun sentiero. Buona notte».
«Non voglio essere depositato qui e ritirato al ritorno!», disse Merry. «Non voglio che mi lascino, non voglio». E continuando a ripetersi queste parole sottovoce, si addormentò finalmente nella sua tenda.
Fu destato da un uomo che lo scrollava. «Svegliati, svegliati, Messer Holbytla!», gridava, ed infine Merry uscì dal suo sonno profondo e balzò a sedere trasalendo. Faceva ancora molto buio, si disse.
«Che cos’è accaduto?», domandò.
«Il re ti manda a chiamare».
«Ma il Sole non si è ancora levato», disse Merry.
«No, ed oggi non si leverà, Messer Holbytla; e dall’aspetto di questa nuvola si direbbe che non apparirà mai più. Ma il tempo non si arresta, anche se il Sole è scomparso. Affrettati!».
Nell’infilarsi frettolosamente qualcosa, Merry guardò fuori. Il mondo era tetro. Persino l’aria sembrava color marrone, e le cose tutt’intorno erano nere, grigie, e senza ombre; regnava l’immobilità. Non si vedevano i contorni della nuvola: solo lontano a occidente le grandi tenebre non si erano ancora infittite e un po’ di luce riusciva ancora a penetrare. La terra era sovrastata da un enorme peso, scuro e informe, e la luce più che aumentare sembrava diminuire.
Merry vide molta gente che guardava il cielo e mormorava; i loro volti erano grigi e tristi, ed alcuni impauriti. Con il cuore pesante si diresse verso la dimora del re. Hirgon, il cavaliere di Gondor, era già dal sovrano, accanto al quale si trovava un altro uomo, simile nelle sembianze e nelle vesti, ma più piccolo e tarchiato. Quando Merry entrò stava parlando con il re.
«Viene da Mordor, Sire», disse. «Ebbe inizio ieri sera all’ora del tramonto. Dai colli dell’Estfalda nel tuo reame la vidi ingigantire e strisciare attraverso il cielo, e durante tutta la notte mentre cavalcavo mi seguiva divorando le stelle. Ora la grande nuvola domina tutto il territorio compreso fra le Montagne dell’Ombra e qui, e si sta infittendo. La guerra è già incominciata».
Per qualche tempo il re rimase silenzioso. Infine disse: «Eccola dunque finalmente, la grande battaglia dei nostri tempi, durante la quale scompariranno molte cose. Ma almeno non abbiamo più bisogno di nasconderci. Percorreremo la via più diritta, all’aperto e con grande velocità. Gli uomini radunati si metteranno immediatamente in marcia, senza attendere i ritardatari. Avete buone provviste a Minas Tirith? Perché noi ormai dovremo galoppare in tutta fretta e portare quindi poco bagaglio, e cibo appena sufficiente per accompagnarci sino alla battaglia».
«Abbiamo abbondanti provviste pronte da molto tempo», rispose Hirgon. «Cavalcate ora quanto più rapidi e veloci vi è possibile!».
«Chiama gli araldi, Éomer», disse Théoden. «Che i Cavalieri si mettano in fila!».
Éomer uscì e poco dopo si udirono suonare delle trombe nel Forte, e altre squillare giù nella piana; ma le loro voci non erano più limpide e coraggiose come erano parse a Merry la sera precedente. In quell’aria pesante sembravano opache e roche, come un ragliare minaccioso.
Il re si volse verso Merry. «Io sto partendo in guerra, Messer Meriadoc», disse. «Fra breve mi metterò in cammino. Ti libero dall’impegno di servirmi, ma non da quello di essermi amico. Tu rimarrai qui e se lo desideri potrai servire Dama Éowyn che governerà il popolo al mio posto».
«Ma… ma, Sire», balbettò Merry, «io ti ho offerto la mia spada. Non voglio essere separato da te in questo modo, Théoden Re. E poiché tutti i miei amici sono partiti in guerra, mi vergognerei di rimanere qui».
«Ma noi montiamo cavalli alti e veloci», rispose Théoden, «e per quanto grande sia il tuo ardire, non puoi cavalcare animali del genere».
«Allora legami dietro uno di essi, o fammi penzolare da una staffa, o qualunque altra cosa», disse Merry. «Sarà una corsa assai lunga, ma correrò lo stesso se non posso cavalcare, anche a costo di consumarmi i piedi e di arrivare con due settimane di ritardo».
Théoden sorrise. «Piuttosto ti porterei con me, in groppa a Nevecrino», disse. «Comunque verrai meco sino a Edoras e potrai vedere Meduseld, perché è quella la mia prima tappa. Sin lì Stybba potrà portarti; la grande corsa comincerà soltanto quando avremo raggiunto la pianura».
Allora Éowyn si alzò. «Vieni adesso, Meriadoc!», disse. «Ti voglio mostrare quel che ti ho preparato». Uscirono insieme. «Aragorn mi fece un’unica richiesta», disse Éowyn mentre camminavano fra le tende, «mi pregò di armarti per la guerra. Ho cercato di provvedere come meglio ho Potuto. Il cuore mi dice che avrai bisogno di tutto ciò prima della fine».
Condusse Merry a una baracca sita fra gli alloggi delle guardie del re; un armiere portò un piccolo elmo, uno scudo circolare ed altre attrezzature.
«Non abbiamo cotte di maglia per la tua statura», disse Éowyn, «né tempo sufficiente per fabbricartene una; ma eccoti comunque un robusto giustacuore in pelle, una cinta e un pugnale. La spada l’hai già».
Merry fece un profondo inchino e la dama gli porse lo scudo, simile a quello che aveva ricevuto Gimli, e che recava l’immagine del cavallo bianco. «Prendi tutte queste cose», ella disse, «e portale nella buona ventura! Buon viaggio, Messer Meriadoc! Forse ci incontreremo nuovamente, tu ed io».
E così nelle tenebre sempre più fitte il Re del Mark si preparò a condurre tutti i suoi Cavalieri verso est. Tutti avevano il cuore pesante, e molti tremavano al buio. Ma era un popolo severo, fedele al proprio re, e si udirono pochi pianti e mormorii, persino nell’accampamento del Forte, ove si trovavano gli esuli di Edoras, donne, vecchi e bambini. Il destino incombeva su di essi, ma lo affrontavano silenziosamente.
Due ore passarono veloci ed il re montò infine sul suo bianco destriero, luminoso nelle tenebre. Era alto e nero, nonostante i capelli bianchi come neve che spiovevano sotto il suo alto elmo, e molti lo guardarono pieni di meraviglia e si rincuorarono al vederlo dritto e spavaldo.
Sul vasto terreno pianeggiante accanto al fiume erano allineate molte compagnie, ben cinquemila e cinquecento Cavalieri armati di tutto punto, e parecchie centinaia di altri uomini che reggevano cavalli equipaggiati con un leggero bagaglio. Squillò un’unica tromba. Il re levò alto il braccio e silenzioso l’esercito del Mark si mise in movimento. Avanti a tutti marciavano dodici uomini della scorta personale del re, Cavalieri di grande fama. Seguiva il re con Éomer alla sua destra. Aveva dato l’addio ad Éowyn, su nel Forte, e ne serbava un triste ricordo; ma distolse la mente per riflettere alla via che li attendeva. Dietro a lui venivano Merry su Stybba ed i messaggeri di Gondor, ed alle loro spalle altri dodici uomini della scorta del re. Passarono davanti a lunghe file di volti che attendevano, severi e impassibili. Ma quando furono quasi arrivati all’estremità della fila, uno di essi osservò ansiosamente l’Hobbit. Un giovane, si disse Merry rispondendo allo sguardo, meno alto e robusto degli altri. Colse il bagliore di limpidi occhi grigi; e improvvisamente rabbrividì, perché si rese conto a un tratto che era il viso di chi senza speranza va in cerca della morte.
Percorsero la strada grigia fiancheggiando l’Acquaneve che scorreva rumoroso, attraversarono i villaggi di Sottoclivo e di Upburnan, ove molti volti sconsolati di donna apparvero sulle buie soglie. E così senza corni, né arpe, né altra musica o canto cominciò la grande cavalcata verso est, un evento che i canti di Rohan narrarono per numerose generazioni.
Dal buio Dunclivo nel cupo mattino
il figlio di Thengel partì col suo scudiero;
giunse a Edoras, l’antico palazzo
del trono del Mark, velato da brume;
avvolte in tenebre le volte dorate.
Disse addio al suo libero popolo,
al focolare, al trono ed agli amati luoghi,
felici dimore prima dell’oscurità.
Avanzò il re. Innanzi a lui il destino.
Dietro la paura. Tutti fedeli furono,
e le Promesse fatte anch’esse mantenute.
Avanzò Théoden. Cinque dì e cinque notti
sempre più ad est galopparono gli Eorlingas,
attraverso Falda e Fenmarch e Firien,
seimila lance per il Sun’ending.
Ecco Mundburg si erge ai piedi del Mindolluin,
città dei re del Mare nel regno del Sud,
assediata dai nemici, cinta dal fuoco.
Il fato li spinse avanti. Le tenebre inghiottirono
uomini e cavalli; il rumore degli zoccoli svanì
nel lontano silenzio; questo narrano i menestrelli.
Le tenebre erano davvero fitte quando il re giunse a Edoras, benché fosse appena mezzogiorno. Ivi si fermò brevemente per rinforzare il suo esercito di una sessantina di Cavalieri arrivati in ritardo. Dopo aver desinato si apprestò a ripartire, e salutò affettuosamente il suo scudiero. Ma Merry implorò per l’ultima volta di non venire separato dal suo re.
«Questo non è un viaggio adatto a bestie come Stybba, ti ho detto», rispose Théoden. «Ed in una battaglia come quella che prevediamo si svolgerà sui campi di Gondor, che faresti, Messer Meriadoc, pur essendo scudiero e avendo coraggio superiore alla tua statura?».
«Quanto a ciò, chi mai può saperlo?», disse Merry. «Ma perché, sire, mi hai accettato come scudiero se non mi vuoi al tuo fianco? E non voglio che più tardi le storie narrino che io sono sempre stato lasciato indietro!».
«Ti ho accolto per metterti al sicuro e al riparo», rispose Théoden; «ed anche affinché tu faccia ciò che comando. Nessuno dei miei Cavalieri può portarti come fardello. Se le battaglie avvenissero innanzi ai miei cancelli, forse le tue gesta sarebbero cantate dai menestrelli; ma Mundburg ove regna Denethor dista più di cento leghe. Non dire altro».
Merry s’inchinò e si allontanò tristemente, guardando le file di cavalieri. Le compagnie si stavano già apprestando a partire: i cavalieri stringevano le cinghie, controllavano le selle, accarezzavano gli animali; alcuni osservavano inquieti il cielo sempre più pesante. Uno di essi si avvicinò inosservato e mormorò qualcosa a bassa voce nell’orecchio dell’Hobbit.
«Dove vi è la volontà, nulla è impossibile, si dice da noi», sussurrò; «ed ho potuto constatarlo personalmente». Merry levò gli occhi e vide che si trattava del giovane Cavaliere che aveva notato quella mattina. «Tu desideri andare là dove sta andando il Signore del Mark: lo leggo sul tuo viso».
«È così», rispose Merry.
«Allora verrai con me», disse il Cavaliere. «Ti porterò sul mio cavallo, nascosto sotto il mio manto finché saremo lontani e questa oscurità sarà più cupa. Tanta buona volontà non deve essere scoraggiata. Non dire più nulla a nessuno, e vieni!».
«Ti ringrazio infinitamente!», disse Merry. «Ti ringrazio, signore, di cui non conosco il nome».
«Non lo conosci?», disse a voce bassa il Cavaliere. «Allora chiamami Dernhelm».
E così fu che quando il re si mise in marcia, davanti a Dernhelm sedeva Meriadoc l’Hobbit, ed il grande destriero grigio Windfola si accorse appena del fardello; Dernhelm era infatti di peso inferiore alla maggior parte degli uomini, essendo la sua figura agile e snella.
Galopparono sempre più avanti nell’ombra. Quella notte si accamparono fra i boschetti di salici ove l’Acquaneve si univa all’Entalluvio, dodici leghe ad est di Edoras. E poi nuovamente a cavallo attraverso la Falda ed il Fenmarch, mentre alla loro destra grandi foreste di querce si arrampicavano sulle falde delle colline all’ombra del cupo Halifirien al confine con Gondor; a sinistra la nebbia stagnava sulle paludi intorno alle foci dell’Entalluvio. Mentre cavalcavano giunsero notizie della guerra a nord. Uomini solitari arrivarono galoppando selvaggiamente e raccontarono che i nemici avevano assalito le frontiere orientali e che eserciti di Orchi marciavano nella Landa di Rohan.
«Avanti! Galoppate!», gridò Éomer. «È troppo tardi ormai per cambiare strada. Le paludi dell’Entalluvio devono ripararci i fianchi. Dobbiamo fare in fretta. Galoppate!».
E così Re Théoden lasciò il suo regno seguendo la lunga via che si allontanava serpeggiando dalle colline di Calenhad, Min-Rimmon, Erelas e Nardol. Ma tutti i fuochi erano spenti. Ogni cosa era grigia e immobile, mentre innanzi a loro l’ombra diveniva sempre più tenebrosa ed ogni speranza impallidiva.
Pipino fu svegliato da Gandalf. Delle candele accese illuminavano la stanza, poiché dalle finestre non penetrava che una luce fioca e crepuscolare; l’aria era pesante come se si stesse avvicinando un temporale.
«Che ore sono?», domandò Pipino sbadigliando. «È già passata la seconda ora», disse Gandalf. «È tempo di alzarsi e rendersi presentabile. Sei stato convocato dal Signore della Città per apprendere i tuoi nuovi compiti».
«Fornirà lui la prima colazione?».
«No! Te l’ho fornita io: non riceverai altro prima di mezzogiorno. Il cibo ormai è razionato».
Pipino guardò sconsolato il piccolo pane e quella che gli parve una razione assai inadeguata di burro, preparati accanto a una magra tazza di latte. «Perché mi hai portato qui?», disse.
«Lo sai perfettamente», disse Gandalf. «Per impedirti di combinare guai; e se non ti piace stare qui, ricordati che l’hai voluto tu». Pipino non parlò più.
Poco dopo seguì Gandalf lungo il freddo corridoio che conduceva alla porta della Sala della Torre. Ivi Denethor sedeva nelle grigie tenebre, e Pipino pensò che rassomigliava a un ragno vecchio e paziente: non sembrava essersi mosso dal giorno precedente. Pregò Gandalf di accomodarsi, ma lasciò Pipino in piedi senza prestargli attenzione. Finalmente il vegliardo si volse verso di lui, e disse:
«Ebbene, Messer Peregrino, spero che tu abbia utilizzato la giornata di ieri in modo utile e piacevole! Purtroppo temo che la mensa in questa città sia più povera di quanto tu sperassi».
Pipino ebbe la sgradevole sensazione che la maggior parte di ciò che aveva detto e fatto fosse venuta a conoscenza del Signore della Città, e che inoltre questi intuisse gran parte dei suoi pensieri. Non rispose.
«Che cosa desideri fare al mio servizio?».
«Pensavo, sire, che voi mi avreste illustrato le mie mansioni». «Lo farò, non appena saprò che cosa ti si addice meglio», rispose Denethor. «Ma forse lo apprenderò tenendoti accanto a me. Lo scudiero della mia camera ha chiesto il permesso di arruolarsi nella guarnigione esterna, quindi prenderai tu il suo posto per qualche tempo. Ti occuperai di me, farai commissioni e discorrerai con me, se la guerra e le assemblee mi lasceranno del tempo libero. Sai cantare?».
«Sì», rispose Pipino. «Beh, sì, quel che basta per la mia gente. Ma non abbiamo canti adatti a grandi saloni e a tempi infelici, sire. Evochiamo raramente cose più terribili del vento o della pioggia. E la maggior parte delle mie canzoni tratta di cose comiche, e naturalmente di cibi e bevande».
«E perché pensi che tali canti non siano adatti ai miei saloni, o a tempi come questi? Noi che abbiamo vissuto a lungo sotto l’Ombra abbiamo certo il diritto di udire gli accenti di un popolo che non l’ha conosciuta! Ci sembrerà di non aver vegliato inutilmente, anche se nessuno ci ha ringraziati».
Pipino si sentì stringere il cuore. Non gradiva l’idea di dover cantare i canti della Contea al Sire di Minas Tirith, ed in particolar modo quelli comici che conosceva meglio; erano troppo come dire? troppo rustici per una simile occasione. Comunque, per il momento la dura prova gli venne risparmiata. Non gli fu ordinato di cantare. Denethor si volse verso Gandalf, informandosi dei Rohirrim e della loro politica, e della posizione di Éomer, nipote del re. Pipino si meravigliò di tutto quello che Sire Denethor sembrava sapere sul conto di un popolo che dimorava assai lontano, tanto più che dovevano essere trascorsi molti anni dall’ultimo viaggio all’estero del sovrano.
Infine Denethor fece segno a Pipino e lo congedò per qualche tempo. «Va’ alle armerie della Cittadella», disse, «e procurati la livrea della Torre e l’attrezzatura necessaria. Troverai tutto già pronto. È stato ordinato ieri. Torna da me appena sarai vestito!».
Tutto andò come previsto, e Pipino si trovò presto abbigliato di strane vesti tutte nere e argento. Aveva una piccola cotta di maglia i cui anelli, forse d’acciaio, erano tuttavia neri come giaietto; un alto elmo con piccole ali corvine su ambedue i lati e decorato al centro da una stella d’argento. Sopra la cotta di maglia portava una corta sopravveste nera, ricamata d’argento sul petto con il simbolo dell’Albero. I suoi vecchi abiti furono piegati e conservati, ma gli fu permesso di tenere il grigio manto di Lórien, purché non lo indossasse quando era di servizio. Ora aveva davvero l’aspetto dell’Ernil i Periannath, il Principe dei Mezzuomini, come la gente l’aveva chiamato prima; ma si sentiva scomodo, e inoltre le tenebre incominciavano a opprimerlo.
Tutto il giorno fu cupo e tetro. Dall’alba senza sole sino alla sera l’ombra continuò a infittirsi e tutti nella Città si sentivano oppressi. Su di essi un’immensa nube avanzava dalla Terra Nera strisciando lentamente verso ovest, divorando la luce, trascinata da un vento di guerra; ma sotto di essa l’aria era stagnante e irrespirabile, come se la Valle dell’Anduin stesse per essere travolta da una tempestosa tormenta.
Verso l’undicesima ora, poiché aveva finalmente ricevuto qualche attimo di libertà, Pipino uscì in cerca di cibo e bevande per rinfrancarsi il cuore e rendere più sopportabile l’attesa. Alla mensa incontrò nuovamente Beregond, appena di ritorno da una missione sul Pelennor e precisamente alle Torri di Guardia della Strada Maestra. Si avviarono insieme in direzione delle mura, perché al chiuso Pipino si sentiva come in prigione, e soffocava persino nell’aerea cittadella. Si sedettero come prima l’uno accanto all’altro nell’apertura volta verso oriente ove avevano desinato e chiacchierato il giorno precedente.
Era l’ora del tramonto, ma la grande coltre funebre si stendeva già lungi a occidente, e solo nell’attimo in cui si immerse nel Mare il Sole riuscì a proiettare un breve raggio d’addio prima di lasciare il posto alla notte. In quello stesso momento Frodo dal Crocevia lo vedeva sfiorare la testa decapitata della statua del re. Ma nessun raggio penetrò sino alle piane del Pelennor, all’ombra del Mindolluin: erano squallide e buie.
A Pipino sembravano passati anni dall’ultima volta ch’era stato seduto laggiù, in tempi ormai quasi obliati, quando egli era ancora un Hobbit, un vagabondo dal cuore leggero, indifferente ai pericoli attraversati. Ora era un piccolo soldato in una città pronta per un grande assalto, ed era vestito con la nobile ma cupa divisa della Torre di Guardia.
In altri tempi e luoghi Pipino avrebbe potuto essere soddisfatto della nuova acconciatura, ma ormai sapeva che non stava per partecipare a una commedia; egli era in tutta serietà il servitore di un severo padrone e si trovava in grandissimo pericolo. La cotta di maglia era ingombrante e l’elmo gli pesava sul capo. Aveva poggiato il manto sul sedile. Distolse lo sguardo dai tenebrosi campi e sbadigliò, poi emise un profondo sospiro.
«Sei stanco di questa giornata?», domandò Beregond.
«Sì», rispose Pipino, «molto stanco: l’aspettare e il non far nulla mi hanno sfinito. Ho passato molte lunghe ore a girare i pollici sulla soglia della stanza del mio signore, mentre discuteva con Gandalf, con il Principe ed altre personalità. E non sono abituato, Messer Beregond, a servire affamato gli altri che mangiano. È una dura prova per un Hobbit! Tu penserai certo che dovrei sentirmi invece profondamente onorato. Ma a che pro questo onore? A che serve persino bere e mangiare sotto quest’ombra incombente? Che significa? Anche l’aria sembra marrone e pesante! Avete sovente queste tenebre quando il vento spira da est?».
«No», rispose Beregond. «Questo tempo non è dovuto alla natura. Si tratta di qualche artificio dovuto alla malizia; un miscuglio di emanazioni della Montagna di Fuoco che il Nemico ci invia per oscurarci il cuore e la mente. E vi riesce sul serio. Se almeno Sire Faramir potesse tornare! Egli non sarebbe turbato e sconvolto. Ma ormai, chissà se lo vedremo mai rientrare, attraversando il Fiume e sbucando dall’Oscurità!».
«Sì», disse Pipino, «Gandalf è anch’egli impaziente. È rimasto deluso, credo, di non aver trovato Faramir al suo arrivo. Mi domando dove sia andato: lasciò l’assemblea di Sire Denethor prima di pranzo e non mi sembrò affatto di buon umore. Forse prevede cattive notizie».
Ad un tratto, mentre parlavano, furono come colpiti da sordità, raggelati e pietrificati. Pipino si accasciò per terra con le mani premute sulle orecchie; ma Beregond, che nel parlare di Faramir si era avvicinato al parapetto merlato, vi rimase paralizzato, con lo sguardo fisso nel vuoto. Pipino conosceva il grido terrificante che avevano appena udito: era il medesimo che molto tempo addietro, nelle Paludi della Contea, l’aveva fatto rabbrividire; ma ora la sua forza e il suo odio si erano ingigantiti e trafiggevano il cuore con una velenosa disperazione.
Infine Beregond riuscì con sforzo a parlare. «Sono arrivati!», disse. «Armati di coraggio e guarda! Vi sono cose terribili quaggiù».
Pipino si arrampicò riluttante sul sedile e guardò oltre il muro. Sotto di lui il Pelennor si stendeva pallido sino al letto del Grande Fiume, che s’intravedeva appena. Ma nell’aria cinque forme simili a uccelli sorvolavano veloci la piana, orribili come avvoltoi e più grandi delle aquile, spietate come la morte. Ora si avvicinavano venendo quasi a tiro delle mura, ora roteavano via.
«Cavalieri Neri!», balbettò Pipino. «I Cavalieri Neri dell’aria! Guarda, Beregond!», gridò a un tratto. «Stanno cercando qualcosa! Li vedi roteare e scendere a picco, sempre in direzione di quel punto laggiù? E non vedi qualcosa muoversi per terra? Piccole cose scure. Sì, sono uomini a cavallo: quattro o cinque. Ah! Non lo sopporto! Gandalf! Gandalf, salvaci!».
Un altro lungo strillo squarciò l’aria e si spense, e Pipino si gettò in terra, affannato come un animale braccato. Fioco e lontano attraverso quel terrificante grido, si udì dal basso il suono di una tromba terminante in una nota acuta.
«Faramir! Sire Faramir! Questo è il suo richiamo!», gridò Beregond. «È un cuore ardito, ma come potrà raggiungere il Cancello se questi maledetti avvoltoi delle tenebre hanno altre armi oltre il terrore? Ma guarda! Resistono. Ce la faranno ad arrivare al Cancello. No! I cavalli stanno impazzendo. Guarda! Gli uomini sono stati sbalzati di sella; corrono a piedi. No, uno di essi è ancora a cavallo, ma sta tornando verso i compagni. Sarà il Capitano: sa domare tanto gli uomini quanto le bestie. Ah! Uno di quegli orribili esseri punta su di lui. Aiuto! Aiuto! Perché nessuno corre ad aiutarlo? Faramir!».
E detto ciò Beregond balzò via e scomparve nelle tenebre. Vergognoso del proprio timore mentre il primo pensiero di Beregond la Guardia era stato per il suo amato capitano, Pipino si alzò e guardò fuori. In quell’attimo si accorse di un bagliore bianco e argenteo che veniva dal Nord, come una piccola stella che scivolasse sui campi oscuri. Si muoveva veloce come un dardo e cresceva man mano che si avvicinava, convergendo rapidamente con la fuga dei quattro uomini in direzione del Cancello. A Pipino parve che una pallida luce lo circondasse e che le pesanti tenebre cedessero al suo passaggio; poi, mentre si avvicinava, gli sembrò di udire, come un’eco nelle mura, il richiamo di una possente voce.
«Gandalf!», gridò. «Gandalf! Arriva sempre nel momento più buio. Avanti! Avanti, Bianco Cavaliere! Gandalf, Gandalf!», gridò concitato, come lo spettatore di una grande corsa che incoraggi il corridore ormai già vincente.
Ma ora le cupe ombre sovrastanti si accorsero del nuovo arrivato. Una di esse puntò verso di lui; ma Pipino ebbe l’impressione ch’egli alzasse la mano, sprigionando verso l’alto un raggio di luce bianca. Il Nazgûl emise un lungo e lamentoso grido e si allontanò; anche gli altri quattro vacillarono e innalzatisi con rapide spirali scomparvero ad est inghiottiti dalla nube sempre più fitta; sul Pelennor parve per un attimo che facesse meno buio.
Pipino vide l’uomo a cavallo e il Bianco Cavaliere incontrarsi e arrestarsi in attesa di coloro che erano rimasti a piedi. Dalla Città la gente corse loro incontro e poco dopo scomparvero tutti all’interno delle mura; stavano evidentemente varcando il Cancello. Supponendo che si sarebbero recati subito dal Sovrintendente nella Torre, Pipino si affrettò a raggiungere l’ingresso della Cittadella. Si radunò quindi una piccola folla di coloro che avevano osservato la corsa ed il salvataggio dalle mura più alte.
Dopo pochi minuti si udì un gran clamore levarsi nelle vie che conducevano alle cerchie inferiori, ed acclamare ripetutamente i nomi di Faramir e di Mithrandir. Infine Pipino vide delle fiaccole e due uomini che salivano lentamente a cavallo seguiti da una grande folla: uno di essi era vestito di bianco, ma non splendeva più: era pallido nelle tenebre come se il suo fuoco si fosse spento o velato; l’altro era scuro e teneva la testa china. Smontarono, e mentre gli stallieri conducevano via Ombromanto e l’altro destriero, essi si avvicinarono alla sentinella del cancello: Gandalf con passo fermo, il grigio manto poggiato sulle spalle e un fuoco ancora ardente in fondo al suo sguardo; l’altro, interamente vestito di verde, avanzava lentamente e quasi ondeggiando, come se fosse spossato o ferito.
Pipino si fece largo mentre i due passavano sotto il lampione del cancello, ed alla vista del pallido volto di Faramir trattenne il respiro. Era il volto di chi, assalito da un grande terrore o travaglio, era tuttavia riuscito a controllarlo e aveva riconquistato la calma. Egli pronunciò fiero e grave qualche parola diretta alla guardia, e Pipino scrutandolo vide quanto rassomigliava al fratello Boromir, ch’egli dapprima aveva amato, ammirandone i modi signorili e cortesi. Eppure a un tratto provò per Faramir uno strano sentimento sino allora sconosciuto. Era costui un uomo d’alto rango, simile ad Aragorn in certi momenti; forse il suo lignaggio era meno alto, ma più vicino e tangibile: uno dei Re degli Uomini nato in tempi più recenti, ma impregnato della saggezza e della tristezza dell’Antica Razza. Comprese ora perché Beregond pronunciava il suo nome con tanto amore. Era un capitano che gli uomini avrebbero seguito, che lui stesso avrebbe seguito, persino all’ombra delle ali nere.
«Faramir!», gridò ad alta voce con gli altri. «Faramir!». E Faramir, accortosi di una voce straniera in mezzo al clamore degli uomini della Città, si volse, lo guardò e fu stupefatto.
«Donde vieni tu?», egli disse. «Un Mezzuomo, e vestito con la livrea della Torre! Donde…?».
Ma Gandalf gli si avvicinò interrompendolo e disse. «È venuto con me dalla terra dei Mezzuomini, è venuto con me. Ma non fermiamoci qui. Egli ci accompagnerà. Anzi, deve accompagnarci, poiché se ben ricordo è suo compito servire il suo signore nuovamente a quest’ora. Vieni, Pipino, seguici!».
Giunsero infine alla camera del Signore della Città. Dei bassi seggi furono preparati intorno a un braciere a carbone e fu portato del vino; e lì Pipino, pressoché inosservato, rimase in piedi dietro la sedia di Denethor, e ascoltò tutto quanto fu detto con tale ansietà che non si accorse della propria stanchezza.
Quando Faramir ebbe ricevuto del pane bianco e bevuto un sorso di vino, si sedette su di un basso seggio alla sinistra del padre. Gandalf sedeva su di una sedia di legno scolpito, leggermente scostato dall’altra parte, e da principio parve dormire. Infatti Faramir cominciò col discorrere unicamente della missione per la quale era partito dieci giorni prima, dando notizie dell’Ithilien e dei movimenti del Nemico e dei suoi alleati; descrisse la battaglia sulla strada terminata con la sconfitta degli uomini di Harad e delle loro possenti bestie: un capitano che riferiva al superiore fatti consueti, piccoli episodi di una guerra di frontiera, ormai insignificanti, miseri e privi di gloria.
Poi improvvisamente Faramir guardò Pipino. «Ma passiamo ora a fatti più strani», egli disse. «Questo infatti non è il primo Mezzuomo che vedo giungere dalle leggende del Nord nelle terre del Sud».
A queste parole Gandalf trasalì e afferrò i braccioli della sedia; ma non disse nulla, e con uno sguardo arrestò una esclamazione sulle labbra di Pipino. Denethor osservò i loro visi e fece un cenno con il capo, come a dire che vi leggeva molte cose prima ancora che venissero narrate. Lentamente, mentre gli altri sedevano silenziosi e immobili, Faramir raccontò la sua storia tenendo quasi sempre gli occhi fissi su Gandalf, e volgendo solo di tanto in tanto lo sguardo verso Pipino, come per meglio riportare alla mente l’immagine di altri come lui.
Quando Faramir ebbe narrato il suo incontro con Frodo ed il suo servitore ed i fatti accaduti a Henneth Annûn, Pipino si accorse che le mani di Gandalf tremavano nello stringere il legno intagliato. Adesso parevano bianche e molto vecchie, e mentre le guardava, Pipino si accorse all’improvviso con un senso di timore che Gandalf, Gandalf stesso, era turbato e temeva qualcosa. L’aria della stanza era chiusa e immobile. Quando finalmente Faramir parlò della sua separazione dai viaggiatori e della loro decisione di recarsi a Cirith Ungol, la voce gli tremò ed egli scosse il capo sospirando. Allora Gandalf balzò in piedi.
«Cirith Ungol? Valle di Morgul?», egli disse. «Quando, Faramir, quando? Che giorno vi siete lasciati? Quando sarebbero giunti in quella maledetta valle?».
«Li lasciai due giorni fa di mattina», rispose Faramir. «Sono quindici leghe da lì alla valle del Morgulduin, puntando dritti verso sud; e da lì sono ancora cinque leghe sino alla maledetta Torre. Al più presto potevano arrivare oggi, e forse ancora non vi sono giunti. Comprendo ciò che temi; ma l’oscurità non è causata dalla loro avventura. Ebbe inizio ieri l’altro e la notte scorsa già l’intero Ithilien era sovrastato dall’ombra. Mi sembra chiaro che il Nemico preparava da tempo un assalto e che l’ora ne era già stata stabilita prima ancora che i viaggiatori si allontanassero dalla mia custodia».
Gandalf camminava su e giù per la stanza. «La mattina di due giorni fa, quasi tre giorni di viaggio! Quanto dista il luogo donde tu partisti?».
«Circa venticinque leghe a volo d’uccello», rispose Faramir. «Ma non mi fu possibile giungere prima. Ieri sera mi fermai a Cair Andros, la lunga isola a nord, nel Fiume, che teniamo come posto di difesa, e dove custodiamo dei cavalli. Quando vidi arrivare l’oscurità mi resi conto che dovevo affrettarmi, e quindi partii con altri tre uomini che disponevano anch’essi di cavalli. Inviai il resto della mia compagnia a sud, per rinforzare la guarnigione ai guadi dell’Osgillath. Spero di non avere errato!». Il suo sguardo si volse verso il padre.
«Errato?», gridò Denethor, ed i suoi occhi lampeggiarono all’improvviso. «Perché lo chiedi? Gli uomini erano ai tuoi ordini. Oppure vuoi un mio giudizio su tutte le tue azioni? Ti comporti bassamente in mia presenza, eppure ormai da tempo fai a modo tuo e non segui le mie direttive. Il tuo parlare è stato abile, come sempre; ma credi forse che io non abbia visto i tuoi occhi fissi su Mithrandir, intenti ad osservare se dicevi bene o troppo? Egli possiede il tuo cuore ormai da molto tempo.
«Figlio mio, tuo padre è vecchio ma non ancora rimbambito. So vedere e udire come in passato, e ben poco di ciò che hai appena menzionato o passato sotto silenzio mi è sfuggito. Conosco ormai la risposta a molti quesiti. Ahimè, ahimè per il mio Boromir!».
«Se quanto ho fatto ti dispiace, padre mio», disse Faramir a bassa voce, «rimpiango di non aver conosciuto le tue direttive prima che incombesse su di me il peso di un simile giudizio».
«Sarebbe forse servito a farti cambiare parere?», disse Denethor. «Io credo che ti saresti comportato esattamente nel medesimo modo. Ti conosco bene. Il tuo desiderio è di apparire sempre nobile e generoso come un re dei tempi che furono, grazioso e gentile. Forse è un contegno che si addice a un uomo di alta casata, se egli regna in pace e grande è il suo potere. Ma nelle ore disperate la gentilezza può venir ricambiata con la morte».
«Che lo sia», rispose Faramir.
«Che lo sia!», esclamò Denethor. «Ma non si tratta solo della tua morte, Sire Faramir; bensì anche quella di tuo padre e di tutto il tuo popolo, che ormai tocca a te proteggere, poiché Boromir non è più con noi».
«Avresti quindi desiderato», disse Faramir, «che io fossi al posto suo?»
«Sì, l’avrei davvero desiderato», rispose Denethor. «Boromir era leale con me e non aveva uno stregone per maestro. Avrebbe ricordato il padre bisognoso d’aiuto, e non avrebbe rifiutato ciò che la fortuna gli dava. Egli sarebbe tornato con un meraviglioso dono».
Per un attimo Faramir non seppe trattenersi. «Vorrei pregarti, padre mio, di rammentare perché fui mandato io in Ithilien e non lui. Almeno in una occasione, e non molto tempo addietro, prevalsero le tue direttive. Fu il Signore della Città in persona a darmi quell’incarico».
«Non risvegliare l’amarezza del ricordo della mia colpa», disse Denethor. «Non l’ho forse assaporata tutte queste notti, prevedendo che il peggio doveva ancora venire? E mi accorgo ora della verità dei miei presagi. Se soltanto non fosse così! Se soltanto quella cosa mi fosse stata data!».
«Consolati!», disse Gandalf. «In nessun caso Boromir te l’avrebbe portata. Egli è morto, ed è morto valorosamente: che riposi in pace! Ma tu t’illudi. Egli avrebbe steso la mano per impadronirsi di quell’oggetto e nell’afferrarlo sarebbe caduto. L’avrebbe tenuto per sé, e al suo ritorno non avresti riconosciuto tuo figlio».
Il volto di Denethor si fece freddo e spietato. «Hai trovato Boromir meno malleabile, non è così?», disse a bassa voce. «Ma io che ero suo padre ti dico ch’egli l’avrebbe portato a me. Sei saggio, forse, Mithrandir, eppure nonostante tutte le tue sottigliezze non sei tu il padrone di tutta la saggezza. Vi è una via di mezzo fra le tele tessute dagli stregoni e le decisioni affrettate degli stolti. Ho in questa materia più cultura e saggezza di quanto tu non pensi». «Qual è dunque la tua saggezza?», disse Gandalf. «Sufficiente a percepire che vi sono due follie da evitate. Usare questo oggetto è pericoloso. In questo momento, affidarlo alle mani di uno stupido Mezzuomo e mandarlo proprio nella terra del Nemico, come hai fatto tu, seguito da questo mio figlio, è un’autentica pazzia».
«E che cosa avrebbe invece fatto Sire Denethor?».
«Nessuna delle due cose. Ma quel che è certo è che per nessun motivo avrebbe spedito quell’oggetto in un’avventura che solo uno stolto può sperare abbia esito felice, rischiando la nostra completa rovina nel caso che il Nemico recuperi ciò che aveva smarrito. No, quell’oggetto avrebbe dovuto essere custodito, nascosto in un luogo buio e profondo. E mai adoperato, beninteso, se non in un momento di estrema necessità, ma impossibile per lui da afferrare, se non con una vittoria finale così completa da annientarci tutti».
«Tu pensi, com’è tua consuetudine, soltanto a Gondor, mio sire», disse Gandalf. «Tuttavia vi sono altri uomini ed altre vite ed altri tempi a venire. In quanto a me, ho anche pietà dei suoi schiavi».
«E dove cercheranno aiuto gli altri Uomini, se Gondor soccombe?», rispose Denethor. «Se sapessimo ora di custodire quell’oggetto nei profondi sotterranei della cittadella, non tremeremmo dal terrore sotto queste tenebre, temendo il peggio, e rifletteremmo a mente lucida. Se non mi consideri capace di sopportare una tale prova, vuol dire che ancora non mi conosci».
«Comunque non te ne considero capace», disse Gandalf. «Se avessi avuto fiducia in te, avrei potuto affidarti l’oggetto, risparmiando a me stesso ed agli altri molta angoscia. Ed ora, udendoti parlare, la mia fiducia in te diminuisce ulteriormente ed equivale a quella che avevo in Boromir. No! Arresta la tua collera! Non ho nemmeno fiducia in me stesso riguardo a questo oggetto, e l’ho rifiutato, nonostante me lo offrissero in dono. Sei forte, Denethor, ed in alcune cose sai ancora controllarti; tuttavia, se avessi ricevuto quell’oggetto, esso ti avrebbe dominato. Anche sepolto sotto le radici del Mindolluin avrebbe corroso la tua mente sempre di più a mano a mano che avresti visto aumentate l’oscurità ed accadere i fatti tremendi che fra breve si verificheranno».
Per un attimo gli occhi di Denethor lanciarono fiamme nel guardare Gandalf, e Pipino sentì ancora una volta la tensione fra le loto volontà; ma ora sembrava quasi che i loro sguardi fossero lame tese da un occhio all’altro, sfavillanti nel duello. Pipino rabbrividì temendo qualche terribile colpo. Ma a un tratto Denethor tornò ad essere rilassato e gelido. Scrollò le spalle.
«Se io avessi! Se tu avessi!», disse. «Sono vani tutti questi se e queste parole. È scomparso nell’Ombra, e solo il tempo potrà svelarci quale destino attende sia esso che noi. Non sarà un’attesa lunga. In ciò che rimane del mondo, mi auguro che coloro che combattono il Nemico a modo loro si uniscano pure, e conservino la speranza finché sarà possibile, e che dopo abbiano ancora l’ardire di morire liberi». Si rivolse a Faramir. «Che pensi della guarnigione di Osgiliath?».
«Non è forte», rispose Faramir. «Come ti ho detto, ho inviato la compagnia d’Ithilien per rinforzarla».
«Non credo che sia sufficiente», disse Denethor. «È lì che colpiranno per primi. Avranno bisogno di qualche valente capitano».
«Lì come in molti altri posti», disse Faramir, e sospirò. «Ahimè, mio povero fratello, che anch’io amavo tanto!». Si levò in piedi. «Mi permetti, padre?»; ma così dicendo ondeggiò e fu costretto ad appoggiarsi alla sedia del padre.
«Sei stanco, vedo», disse Denethor. «Mi hanno detto che hai cavalcato veloce e lontano e sotto ombre tenebrose e funeste».
«Non parliamo di tutto ciò!», esclamò Faramir.
«Non ne parleremo», disse Denethor. «Ma ora va’ e riposa quanto più potrai. Il domani richiederà fatiche ancora maggiori».
Tutti si congedarono ora dal Signore della Città e andarono a riposare finché era ancora possibile. Fuori il buio era nero e senza stelle, e Gandalf accompagnato da Pipino che reggeva una fiaccola si diresse verso la loro dimora. Non parlarono finché non ebbero chiuso tutte le porte. Ma finalmente Pipino prese Gandalf per mano.
«Dimmi», domandò, «credi che vi sia ancora speranza? Per Frodo, intendo dire, o comunque soprattutto per Frodo».
Gandalf pose la mano sul capo di Pipino. «Non vi fu mai molta speranza», rispose. «La speranza di uno stolto, come mi è stato detto. E quando ho udito pronunciare la parola Cirith Ungol…». S’interruppe e si avvicinò a grandi passi alla finestra, come se i suoi occhi riuscissero a penetrare nella notte d’oriente. «Cirith Ungol!», mormorò. «Perché quella via, mi domando?». Si voltò. «Proprio in quell’istante, Pipino, mi sono come sentito mancare all’udire quel nome. Eppure sono convinto che le notizie recateci da Faramir contengono qualche speranza. Sembra chiaro che il nostro Nemico ha infine dato inizio alla guerra, compiendo il primo movimento quando Frodo era ancora libero. Quindi ora per molti giorni terrà lo sguardo puntato qua e là, sempre lungi dal proprio territorio. Tuttavia, Pipino, sento da lontano la sua fretta e la sua paura. Ha dato il via prima del previsto. È accaduto qualcosa che l’ha fatto muovere».
Gandalf rimase un attimo pensieroso. «Forse», mormorò, «forse persino la tua stoltezza vi ha contribuito, ragazzo mio. Vediamo: circa cinque giorni addietro ha scoperto che Saruman è stato sconfitto, e che ci siamo impadroniti della Pietra. Ma ciò non implica nulla: non potevamo adoperarla per alcun fine preciso e senza che lui se ne accorgesse. Ah! Chissà. Forse Aragorn? La sua ora si avvicina. Ed egli è forte e severo in fondo al cuore, Pipino; coraggioso, deciso, capace di prendere le proprie decisioni e di correre grandi rischi se necessario. Forse è proprio così. Egli ha adoperato la Pietra e si è mostrato al Nemico, sfidandolo con l’intento di raggiungere questo scopo. Chissà? Ebbene, non conosceremo la risposta finché non arriveranno i Cavalieri di Rohan, a meno che non giungano ormai troppo tardi. Ci attendono giorni infausti. Dormiamo, finché è possibile!».
«Ma…», interloquì Pipino.
«Ma che cosa?», disse Gandalf. «Ti concedo un solo ma questa sera».
«Gollum», disse Pipino. «Com’è possibile che andassero in giro insieme con lui, seguendolo persino? E mi sono reso conto che Faramir non approvava per nulla il posto dove li stava conducendo. e d’altronde nemmeno tu. Cos’è accaduto?».
«Non posso rispondere a questa domanda per il momento», disse Gandalf. «Eppure il cuore mi diceva che Frodo e Gollum si sarebbero incontrati nuovamente prima della fine, bene o male che sia. Ma di Cirith Ungol non voglio parlare stasera. Tradimento, temo il tradimento; il tradimento di quella creatura meschina. Ma così dev’essere. Ricordiamoci che un traditore può tradire se stesso e compiere del bene che non intende fare. A volte può accadere. Buona notte!».
L’indomani arrivò, e il mattino era intriso di una caligine marrone; i cuori degli uomini, riconfortati dal ritorno di Faramir, si strinsero nuovamente. Le ombre alate non furono avvistate nel corso della giornata, ma di tanto in tanto si udiva, alto sopra la città, un lontano grido, e coloro che lo udivano trasalivano paralizzati dal timore, mentre i meno coraggiosi tremavano e singhiozzavano.
Ed ora, Faramir era di nuovo partito. «Non gli concedono mai un po’ di riposo», mormoravano alcuni. «Il Sire è troppo duro con suo figlio, ed ora Faramir deve fare il suo dovere per due: per se stesso, e per quello che non tornerà più». E ognuno guardava verso nord, chiedendo: «Dove sono i Cavalieri di Rohan?».
In realtà, Faramir non era partito di sua volontà. Ma il Signore della Città presiedeva il Consiglio di Gondor, e quel giorno non era d’umore tale da cedere ai pareri altrui. Il Consiglio era stato convocato di prima mattina, e i capitani avevano giudicato troppo grave la minaccia che veniva dal Sud, per poter tentare qualche azione di guerra da quella parte, a meno che non giungessero, eventualmente, i Cavalieri di Rohan. Nel frattempo, gli Uomini di Gondor avrebbero dovuto presidiare le difese e stare in guardia.
«Tuttavia», disse Denethor, «non dobbiamo abbandonare con leggerezza le altre difese, il Rammas costruito con tanta fatica. E il Nemico dovrà pagar caro il passaggio del Fiume. Una cosa non può certo fare: non può assalire in forze la Città, né a nord dalla parte di Cair Andros, a causa delle paludi, né a sud dalla parte del Lebennin, a causa della larghezza del Fiume, il cui passaggio richiederebbe molte imbarcazioni. È a Osgiliath che esso potrà attaccare con tutta la sua forza, come avrebbe fatto prima che Boromir gli ostacolasse la strada».
«Ma quello fu un tentativo», disse Faramir. «Oggi noi possiamo far pagare al Nemico dieci volte di più il fatto che esso ci tolga il controllo del Fiume, e possiamo anzi far sì che si penta di averlo passato. Ebbene, il Nemico può permettersi di perdere un’intera armata più di quanto noi possiamo permetterci di perdere una compagnia. Se anche ne ricacciamo indietro molti, questi potranno sempre raccogliersi in massa e minacciare la Città».
«E il problema di Cair Andros?», disse il Principe dell’isola. «Anch’essa dev’essere tenuta saldamente, se vogliamo difendere Osgiliath. Non dimentichiamo il pericolo che incombe alla nostra sinistra. I Rohirrim possono venire e non venire. Ma Faramir ci ha parlato delle truppe sterminate che si trovano ammassate presso il Cancello Nero. Da lì può uscire più di un esercito, e queste forze ci possono colpire da tutti i lati».
«Molto dev’essere messo a repentaglio in una guerra», disse Denethor. «Cair Andros è ben fortificata e presidiata, e non posso mandare nessuno così lontano. Ma non cederò il Fiume e il Pelennor senza combattere… Non mi arrenderò, se qui c’è un capitano che abbia ancora il coraggio di fare ciò che il suo sire comanda».
Tutti tacquero. Dopo qualche minuto, Faramir parlò: «Sire, non mi oppongo alla tua volontà. Ora che sei privato di Boromir, andrò io, e farò ciò che potrò cercando di sostituirlo nel migliore dei modi… se tu lo comandi».
«Io lo comando», disse Denethor.
«Allora, addio!», disse Faramir. «Ma se io dovessi ritornare, abbi una migliore opinione di me!».
«Dipende da come ritornerai», disse Denethor.
Gandalf era stato l’ultimo a parlare con Faramir, prima che questi cavalcasse verso est. «Non gettar via la tua vita per troppa temerità, o per troppa amarezza», gli aveva detto. «C’è bisogno di te qui, e per ben altre cose che la guerra. Tuo padre ti ama, Faramir, e se ne ricorderà prima della fine. Addio!».
E così Faramir era di nuovo partito, portando con sé tutti coloro che vollero accompagnarlo e di cui la Città poteva fare a meno. Dall’alto delle mura la gente scrutava attraverso le tenebre la città distrutta, domandandosi che cosa accadesse in quei luoghi, poiché non riuscivano a scorgere nulla. Altri, come sempre, guardavano a nord, contando le leghe che li separavano da Re Théoden di Rohan. «Credete che verrà? Credete che ricorderà la nostra antica alleanza?», dicevano.
«Sì, verrà», rispose Gandalf, «anche se forse troppo tardi. Ma riflettete! Nella migliore delle ipotesi la Freccia Rossa non può averlo raggiunto più di due giorni addietro, e numerose sono le leghe che ci separano da Edoras».
Era di nuovo notte quando giunsero altre notizie. Un uomo arrivò galoppando dai guadi, e disse che un esercito era uscito da Minas Morgul e stava già avvicinandosi ad Osgiliath; dei reggimenti del Sud, composti di alti e crudeli Haradrim, l’avevano raggiunto. «Abbiamo appreso», disse il messaggero, «che anche questa volta è il Capitano Nero che li conduce; già la paura lo precede al di qua del Fiume».
Con queste parole di cattivo presagio si concluse il terzo giorno trascorso da Pipino a Minas Tirith. Pochi andarono a riposare, perché ormai scarsa era la speranza che Faramir riuscisse a difendere a lungo i guadi.
Il giorno seguente, benché l’oscurità avesse raggiunto il punto massimo e ormai non si infittisse più, cominciò a pesare più minacciosa sui cuori degli uomini, ed una grande paura incombeva su di loro. Presto arrivarono altre cattive notizie. Il passaggio dell’Anduin era sotto il controllo del Nemico. Faramir stava battendo in ritirata verso le mura del Pelennor, radunando i suoi uomini ai Forti della Strada Maestra; ma i nemici erano dieci volte superiori di numero.
«Se decide di tornare indietro attraverso il Pelennor, i nemici gli saranno alle calcagna», disse il messaggero. «Hanno pagato cara la traversata, ma meno cara di quanto non sperassimo. Il loro piano è stato preparato accuratamente. Si vede che da lungo tempo costruivano di nascosto un gran numero di barche e galleggianti ad est di Osgiliath. Attraversarono il Fiume come una grossa schiera di scarafaggi. Ma è il Capitano Nero che ci sconfigge. Ben pochi osano attendere e affrontare anche solo la notizia della sua venuta. Persino la sua gente trema al suo cospetto, e non esiterebbe ad uccidersi se egli lo ordinasse».
«In tal caso loro hanno più bisogno di me che non voi», disse Gandalf e galoppò via immediatamente, ed il suo bagliore scomparve presto dalla vista. Durante tutta la notte Pipino, solo e insonne, rimase in piedi sulle mura con lo sguardo perso a oriente.
Le campane del mattino avevano appena suonato, un’ironia in quel buio pesto, quando Pipino vide in lontananza accendersi dei falò nel punto in cui si ergevano le mura del Pelennor. Le sentinelle gridarono, e tutti gli uomini della Città corsero ad armarsi. Ora di tanto in tanto si vedeva un lampeggiare rosso, e lenti attraverso l’aria pesante giungevano cupi brontolii.
«Hanno preso le mura!», gridarono delle voci. «Stanno aprendo degli squarci. Stanno arrivando!».
«Dov’è Faramir?», gridò Beregond costernato. «Non ditemi che è caduto!».
Fu Gandalf a portare le prime notizie. Arrivò con un piccolo drappello di uomini a metà del mattino, scortando una fila di carri. Erano pieni di feriti, tutti coloro che avevano potuto essere salvati dalla rovina dei Forti della Strada Maestra. Si recò immediatamente da Denethor. Il Signore della Città sedeva ora in un’alta camera sopra il Salone della Torre Bianca, e Pipino era al suo lato; e attraverso le cupe finestre volte a nord, a sud e ad est, scrutava con i suoi occhi scuri come per trafiggere le ombre del fato che lo circondavano. Guardava soprattutto a nord, e di tanto in tanto si arrestava ad ascoltare, come se qualche antica arte magica permettesse alle sue orecchie di cogliere il lontano scalpitare di zoccoli nella pianura.
«È venuto Faramir?», domandò.
«No», disse Gandalf. «Ma era ancora in vita quando lo lasciai. È risoluto a rimanere là con la retroguardia, affinché la ritirata attraverso il Pelennor non avvenga in modo caotico. Forse riuscirà a tenere uniti i suoi uomini per il tempo necessario, ma ne dubito. È alle prese con un nemico troppo potente. Ne è infatti giunto uno che temevo».
«Non… non l’Oscuro Signore?», gridò Pipino dimenticando dalla paura di stare al proprio posto.
Denethor rise amaramente. «No, non ancora, Messer Peregrino! Egli verrà soltanto per celebrare il suo trionfo su di me, quando sarà riuscito a far soccombere tutti. Adopera gli altri come sue armi. È così che agiscono tutti i grandi sovrani, se sono saggi, Messer Mezzuomo. Altrimenti perché rimarrei qui seduto nella mia torre a pensare, osservare e attendere, sacrificando persino i miei figli? Perché ho ancora un’arma».
Si levò in piedi ed aprì il lungo manto nero e, meraviglia: era vestito di una cotta di maglia e portava una lunga spada dalla ricca impugnatura, in una guaina nera e argentea. «Così ho camminato, e così dormo ormai da molti anni», egli disse, «affinché l’età non renda il mio corpo molle e timoroso».
«Eppure il più terribile di tutti i capitani al servizio del Signore di Barad-dûr è ormai padrone della cinta esterna delle tue mura», disse Gandalf. «Re di Angmar in tempi che furono, Negromante, Schiavo dell’Anello, Signore dei Nazgûl, arma di terrore nelle mani di Sauron, ombra di disperazione».
«Allora, Mithrandir, avevi un nemico degno di te», disse Denethor. «Quanto a me, da tempo sapevo chi è il grande capitano degli eserciti della Torre Oscura. È tutto quanto hai da dirci? O sei forse tornato perché sei stato sconfitto?».
Pipino tremò dal timore che Gandalf fosse colto da una furia improvvisa, ma la sua paura era ingiustificata. «Forse sarà come dici tu», rispose Gandalf tranquillamente. «Ma non è ancora giunto il momento di mettere alla prova le nostre forze. E se le parole pronunciate molto tempo addietro si dimostreranno veridiche, egli non soccomberà sotto la mano di un uomo, ed il destino che lo attende è ancora ignoto ai Saggi. Comunque, il Capitano della Disperazione ancora non incalza di persona. Egli comanda piuttosto seguendo i canoni di saggezza da te enunciati, restando indietro e spingendo avanti come pazzi i suoi schiavi.
«No, sono piuttosto venuto per custodire i feriti che ancora possono guarire; il Rammas è stato squarciato in molti punti, e presto l’esercito di Mordor farà irruzione da tutte le parti. Ma soprattutto sono venuto a dirti questo: presto sui campi infierirà la battaglia; bisogna preparare una sortita. Che sia di uomini a cavallo: in loro risiedono le nostre scarse speranze, poiché un’unica cosa manca al nemico: la cavalleria».
«Anche noi siamo piuttosto sprovveduti. Questo sarebbe il momento giusto per l’arrivo dei soccorsi da Rohan», disse Denethor.
«È probabile che vedremo prima degli altri nuovi arrivati», disse Gandalf. «Sono già giunti dei fuggiaschi da Cair Andros. L’isola è stata costretta a soccombere. Un altro esercito è in arrivo dal Cancello Nero attraversando la pianura da nord-est».
«Alcuni ti accusano, Mithrandir, di godere nel recare cattive nuove», disse Denethor, «ma per me queste ormai non sono più nuove: ero al corrente sin da ieri sera. In quanto alla sortita, vi avevo già riflettuto. Scendiamo».
Il tempo scorreva. Coloro che osservavano dall’alto delle mura poterono infine assistere alla ritirata delle compagnie. Arrivarono per primi dei piccoli drappelli di uomini sfiniti e sovente feriti che fuggivano in disordine; alcuni correvano all’impazzata come se fossero inseguiti. Lungi ad oriente brillavano dei fuochi lontani, ed ora sembrava di vederli attraversare qua e là la pianura. Bruciavano case e granai. Ad un tratto apparvero dei piccoli ruscelli di fiamme rosse: sbucavano da molti punti e correvano veloci, serpeggiando nelle tenebre e convergendo verso l’ampia strada che conduceva dal cancello della Città ad Osgiliath.
«Il nemico», mormorava la gente. «La diga è crollata. Eccoli che si riversano nella piana attraverso le brecce! E portano fiaccole, a quanto pare. Dove sono i nostri uomini?».
Ormai l’ora indicava l’avvicinarsi della sera, e la luce era talmente fioca che dall’alto della Cittadella persino gli uomini dalla vista aguzza non riuscivano a individuare quasi nulla sui campi, se non gli incendi sempre più numerosi e i torrenti di fuoco che crescevano in lunghezza e velocità. Infine, a meno di un miglio dalla Città, apparve una massa di uomini meglio inquadrati, che non correvano ma marciavano tutti uniti.
Gli spettatori trattennero il fiato. «Faramir dev’essere fra loro», dissero. «Egli sa dominare uomini e bestie. Ce la farà».
Il gruppo più numeroso distava ormai non più di un quarto di miglio. Dietro di esso, nelle tenebre, galoppava un piccolo drappello di cavalieri, tutto ciò che rimaneva della retroguardia. In un ultimo disperato sforzo si voltarono ad affrontare l’assalto delle linee infocate. Improvvisamente si levarono grida violente e tumultuose. I cavalieri del nemico stavano sopraggiungendo. Le linee di fuoco divennero corsi d’acqua incandescenti, le schiere di Orchi muniti di fiaccole si moltiplicarono mentre sorgevano da ogni parte i selvaggi Uomini Sudroni che brandivano stendardi urlando con voci spietate e raggiungendo l’esercito in ritirata. E con un urlo lacerante piombarono dal cielo cupo le ombre alate, i Nazgûl pronti a uccidere.
La ritirata divenne allora fuga disordinata. Gli uomini cominciarono a sparpagliarsi, fuggendo a destra e a sinistra come impazziti, lanciando via le armi, urlando dalla paura, crollando per terra.
Ma ad un tratto squillò una tromba dalla Cittadella, e Denethor finalmente comandò la sortita. Rannicchiati all’ombra del Cancello e all’esterno, sotto la mole delle mura, gli uomini, tutti i cavalieri rimasti nella Città, avevano atteso il suo segnale. Ora balzarono avanti, ed il loro trotto divenne un galoppo mentre si lanciavano alla carica con un enorme grido. Dalle mura si levò un altro grido di risposta, perché avanti a tutti galoppavano i cavalieri-cigno di Dol Amroth, con in testa il loro Principe ed il suo vessillo azzurro.
«Amroth per Gondor!», gridavano. «Amroth per Faramir!».
Come fulmini irruppero sul nemico, attaccandolo su ambedue i fianchi; ma un cavaliere li superò tutti, rapido come il vento fra l’erba: montava Ombromanto, sfavillante e sfolgorante come prima, ed una luce si sprigionava dalla sua mano alzata.
I Nazgûl gracchiarono e si allontanarono in fretta, perché il loro Capitano non era ancora venuto a sfidare il bianco fuoco del suo nemico. Gli eserciti di Morgul, intenti a scannare le loro prede, furono presi alla sprovvista dalla carica dei cavalieri e sbandarono, sparpagliandosi come scintille nella tramontana. Con acclamazioni di gioia le compagnie in ritirata si voltarono inseguendo il nemico: gli inseguitori furono inseguiti. La ritirata si trasformò in un assalto. Il campo era coperto di cadaveri di Uomini e di Orchi, e le torce per terra emanavano esalazioni, spengendosi in spirali di fumo. I cavalieri continuavano a galoppare.
Ma Denethor non permise loro di allontanarsi. Sebbene il nemico fosse stato arrestato e per il momento persino costretto a retrocedere, grandi rinforzi sopraggiungevano da est. La tromba squillò di nuovo, e questa volta era il segnale della ritirata. La cavalleria di Gondor si arrestò. Al suo riparo le compagnie poterono riformarsi. Ora tornarono indietro marciando con passo deciso. Giunsero al Cancello della Città e lo varcarono con portamento fiero; e la gente della Città li osservava orgogliosa, gridando le loro lodi; eppure i cuori di tutti erano turbati. Le compagnie erano miserevolmente ridotte. Faramir aveva perso un terzo dei suoi uomini. E lui stesso, dov’era?
Egli veniva per ultimo. I suoi uomini entrarono. I cavalieri tornarono seguiti dal vessillo di Dol Amroth e dal Principe. Questi portava in braccio innanzi a sé sul cavallo il corpo del suo congiunto Faramir figlio di Denethor, trovato sul campo di battaglia.
«Faramir! Faramir!», gridavano per la strada gli uomini, piangendo. Ma egli non rispose, e lo portarono su per la via serpeggiante sino alla Cittadella, da suo padre. Nel momento in cui i Nazgûl sfuggivano all’assalto del Bianco Cavaliere era stato lanciato un dardo micidiale, e Faramir, il quale stava resistendo all’attacco di un possente cavaliere di Harad, era caduto a terra. La carica di Dol Amroth l’aveva salvato dalle rosse spade del Sud che l’avrebbero indubbiamente ucciso mentre giaceva sul campo.
Il Principe Imrahil portò Faramir alla Torre Bianca e disse: «Tuo figlio è tornato, sire, dopo grandi gesta», e narrò tutto ciò che aveva veduto. Ma Denethor si levò in piedi e guardò il volto del figlio, e tacque. Poi li pregò di preparare un letto nella stanza, di stendervi Faramir e di andarsene. Lui stesso salì da solo nella stanza segreta in cima alla Torre, e molti che levarono gli occhi a quell’ora videro una pallida luce brillare e vacillare dalle strette finestre per qualche tempo, finché con uno sfavillio si spense. E quando Denethor ridiscese si avvicinò a Faramir, sedendosi accanto a lui in silenzio, ma il viso del Sire di Gondor era grigio, più livido di quello di suo figlio.
La Città era dunque ormai in stato di assedio, circondata da un anello di nemici. Il Rammas era crollato e tutto il Pelennor era nelle mani del Nemico; le ultime notizie giunte dall’altro lato delle mura furono recate da uomini che arrivavano correndo dalla via del Nord ed erano riusciti a entrare prima che venisse chiuso il Cancello. Erano gli ultimi rimasti delle sentinelle che sorvegliavano il punto ove la strada proveniente dall’Anórien e da Rohan s’inoltrava nelle zone abitate di Gondor. Li comandava Ingold, il medesimo che aveva lasciato entrare Gandalf e Pipino meno di cinque giorni addietro, quando il sole sorgeva ancora e nel mattino viveva la speranza.
«Non abbiamo notizie dei Rohirrim», egli disse. «Rohan non arriverà per il momento. O se verrà, non ci sarà di soccorso. il nuovo esercito che ci era stato preannunciato è giunto prima, pare attraversando il Fiume ad Andros. Ed è molto forte: battaglioni di Orchi dell’Occhio e innumerevoli compagnie di Uomini di una nuova razza che non abbiamo mai veduta prima. Non sono alti, ma ben piantati e decisi, portano la barba come i Nani e maneggiano grandi asce. Supponiamo che provengano da qualche terra selvaggia del vasto Est. Si sono già impadroniti della via del Nord e molti di essi sono penetrati nell’Anórien. I Rohirrim non possono venire».
Il Cancello fu sprangato. Durante tutta la notte le sentinelle sentirono dall’alto delle mura il fragore del nemico che devastava tutto, bruciando alberi e campi, facendo a pezzi chiunque trovasse intorno a sé, vivi e morti. Quanti avessero già attraversato il Fiume in quell’oscurità era difficile dire, ma quando il mattino, o la sua pallida ombra, apparve sulla pianura, si resero conto che la paura e la notte non li avevano indotti a sopravvalutarli. I loro eserciti coprivano la pianura, e a perdita d’occhio spuntavano nella melma, come funghi velenosi tutt’intorno alla città assediata, grandi accampamenti di tende, nere o di un rosso scuro.
Indaffarati come formiche, gli Orchi scavavano frettolosamente profonde trincee a forma di cerchio, appena a tiro dalle mura; appena finita, ogni trincea veniva empita di fuoco, ma come questo fuoco venisse acceso e alimentato, da quale arte magica o diavoleria, nessuno riusciva a vedere. Il lavoro continuò durante tutta la giornata, mentre gli uomini di Minas Tirith osservavano, nell’impossibilità di impedirlo. E ogni qual volta veniva completato un tratto di trincea, vedevano grandi carri avvicinarsi: poco dopo numerose altre compagnie nemiche vi installavano rapidamente, protette dalle trincee, grandi macchine che lanciavano proietti. Non ve n’era nemmeno una sulle mura della città capace di competere con esse o di bloccare le operazioni.
Sulle prime gli uomini risero, poiché non temevano molto quegli attrezzi. Il muro principale della Città era infatti assai alto e meravigliosamente massiccio, edificato prima che la forza e l’arte di Nùmenor scomparissero in esilio; la facciata esterna era simile alla Torre di Orthanc, dura, scura e liscia, impossibile da conquistarsi sia con l’acciaio che con il fuoco, impossibile da distruggere se non con qualche terribile esplosione che avrebbe squarciato persino la terra sotto i loro piedi.
«No», dicevano, «nemmeno l’Innominabile in persona riuscirebbe ad entrare finché noi siamo ancora in vita». Ma alcuni risposero: «Finché siamo ancora in vita? E quanto tempo credete che sarà? Egli possiede un’arma che ha sconfitto molte fortezze nel corso della storia. La fame. Le strade sono interrotte. Rohan non verrà».
Ma le macchine non sprecavano colpi sul muro indomabile. Non era un brigante né un capitano degli Orchi colui che comandava l’assalto contro il maggior nemico del Signore di Mordor, bensì un potere e un intelletto impregnati di astuzia malvagia. Non appena le catapulte furono montate, con molte grida e con scricchiolio di corde e di argani, cominciarono a lanciare i proietti straordinariamente in alto, tanto da farli passare sopra i parapetti e piombare all’interno della prima cerchia della Città; inoltre molti di essi, per qualche strano artifizio, scoppiavano in fiamme non appena toccavano terra.
Presto vi fu un gran pericolo d’incendio all’interno delle mura, e tutti gli uomini liberi si misero a soffocare le fiamme che si sprigionavano in più posti. Poi, alternata ai proietti, cadde un altro tipo di grandine, meno rovinosa ma più orribile. In tutte le strade e gli spiazzi dietro il Cancello piovevano dei piccoli proietti tondi che non bruciavano. Ma quando la gente si avvicinava per vedere cosa fosse, gridava ad alta voce o si metteva a piangere: il nemico stava lanciando nella Città tutte le teste di coloro che erano caduti combattendo ad Osgiliath, o sul Rammas, o nei campi. Erano spaventose da guardarsi: alcune erano schiacciate e deformi, altre erano state fatte selvaggiamente a pezzi, eppure di molte si riusciva a indovinare l’espressione, e sembrava che fossero morti con grandi sofferenze; tutte erano marcate con l’orribile effigie dell’Occhio Senza Palpebre. Ma, pur sfigurate com’erano, accadeva spesso che un uomo rivedesse il volto di qualcuno che conosceva, che portava fieramente le armi, o coltivava i campi, o che un giorno di vacanza era venuto a cavallo dalle verdi vallate sulle colline.
Invano mostravano i pugni agli spietati nemici che brulicavano davanti al Cancello. Essi non temevano le maledizioni, né comprendevano i linguaggi degli Uomini dell’Ovest, e continuavano a strillare con voci crudeli, come bestie o avvoltoi. Ma presto rimasero in pochi coloro che a Minas Tirith avevano ancora il coraggio di ergersi e sfidare gli eserciti di Mordor. Il Signore della Torre Oscura possedeva un’altra arma, più rapida della fame: il terrore e la disperazione.
I Nazgûl tornarono, e poiché il loro Oscuro Signore stava ormai avanzando con tutta la sua forza, le loro voci che non esprimevano che la sua volontà e malvagità erano piene di efferatezza e di orrore. Sorvolavano incessantemente la Città come avvoltoi in attesa della loro razione di carne umana. Non li si vedeva, né si riusciva a colpirli, eppure erano sempre presenti e le loro grida micidiali squarciavano l’aria. E ad ogni nuovo grido, invece di abituarsi, la gente li trovava sempre più intollerabili. Alla fine persino i più coraggiosi si accasciavano a terra quando l’occulta minaccia passava su di loro, o rimanevano in piedi lasciando cadere le armi dalle mani snervate, mentre la loro mente era inondata dal buio ed essi non pensavano più alla guerra, ma desideravano soltanto nascondersi, strisciare e morire.
Durante tutta quella nera giornata Faramir era rimasto disteso sul suo letto nella camera della Torre Bianca, in preda a una febbre delirante; qualcuno disse che stava morendo, e presto tutti sulle mura e nelle vie ripetevano «morente». Accanto a lui, suo padre sedeva e non diceva nulla, ma osservava, e non prestava più alcuna attenzione alla difesa della città.
Pipino non aveva mai vissuto ore così cupe, nemmeno nelle grinfie degli Uruk-hai. Era suo compito attendere agli ordini del suo Signore ed egli attese, come dimenticato, in piedi presso la porta della camera buia, controllando come meglio poteva la propria paura. E guardando gli parve che Denethor invecchiasse innanzi ai suoi occhi, come se qualcosa avesse ceduto nel suo orgoglio, sconvolgendo la sua mente severa. Forse era colpa del dolore, e del rimorso. Vide su quel volto, un tempo impassibile, scorrere delle lacrime, più insopportabili della collera.
«Non piangete, sire», egli balbettò. «Forse guarirà. Avete chiesto consiglio a Gandalf?».
«Non cercare di confortarmi con l’aiuto degli stregoni!», disse Denethor. «La speranza di quello stolto è fallita. Il Nemico l’ha trovato ed ora il suo potere cresce; egli legge finanche nel nostro pensiero, e tutto ciò che facciamo è disastroso.
«Ho mandato mio figlio, senza un grazie né una benedizione, ad affrontare un inutile pericolo, ed eccolo che giace qui con il veleno nelle vene. No, no, qualunque cosa accada ormai in guerra, anche la mia stirpe sta per estinguersi, persino la Casa dei Sovrintendenti è venuta meno. Della gente infida ormai governerà gli ultimi discendenti dei Re degli Uomini, che si nasconderanno finché non verranno tutti scacciati».
Degli uomini vennero alla porta a implorare il Signore della Città. «No, non scenderò da qui», egli rispose. «Devo rimanere accanto a mio figlio. Potrebbe ancora parlare prima della sua fine, nonostante sia ormai assai vicina. Seguite chi volete, persino il Grigio Stolto, benché la sua speranza sia fallita. Io rimango qui».
Fu così che Gandalf prese il comando dell’ultima difesa della Città di Gondor. Ovunque egli si recava i cuori degli uomini si riconfortavano e le ombre alate svanivano dalla memoria. Instancabile andava dalla Cittadella al Cancello, da nord a sud, facendo tutto il giro delle mura; egli era accompagnato dal Principe di Dol Amroth nella sua sfavillante cotta di maglia. Lui ed i suoi cavalieri si consideravano ancora portatori del puro sangue di Nùmenor. Gli uomini al mirarli sussurravano: «Le antiche storie dicono il vero: sangue elfico scorre nelle vene di quella gente, perché il popolo di Nimrodel abitò quella terra in tempi remoti». Allora qualcuno cantava nelle tenebre alcune strofe del Poema di Nimrodel, o di altri canti della Valle dell’Anduin scritti in epoche lontane.
Tuttavia, quando si allontanavano, l’ombra invadeva nuovamente il cuore degli uomini indebolendoli, ed il valore di Gondor svaniva come cenere. E così passarono lentamente da un cupo giorno di terrore in una notte oscura e disperata. Gli incendi divampavano ormai impossibili da estinguersi all’interno della prima cerchia della Città, impedendo in molti punti alla guarnigione di battere in ritirata. Ma i fedeli rimasti ancora lì al loro posto erano pochi; la maggior parte era fuggita al riparo delle seconde mura.
In lontananza, alle spalle della battaglia, un ponte era stato velocemente edificato sul Fiume, permettendo che durante tutto il giorno si riversassero nuove forze e ordigni bellici. Ora infine verso la metà della notte si scatenò l’assalto. L’avanguardia avanzava fra le trincee di fuoco grazie a molti ingegnosi sentieri che erano stati lasciati liberi fra di esse. Marciavano spietati, noncuranti delle loro perdite, avvicinandosi a tiro degli arcieri raggruppati come un gregge. Ma la difesa sulle mura era troppo debole per procurare loro grossi danni, benché la luce degli incendi mettesse in mostra numerosi bersagli, facilmente raggiungibili dagli arcieri la cui destrezza era sempre stata un vanto per Gondor. Poi, accortosi che la forza della Città era ormai notevolmente ridotta, il Capitano nascosto fece avanzare le proprie forze. Lentamente le imponenti torri d’assedio costruite ad Osgiliath avanzarono nell’oscurità.
Di nuovo giunsero dei messi alla camera della Torre Bianca e Pipino li fece entrare, perché avevano molta urgenza. Denethor distolse lento il capo dal volto di Faramir e li osservò in silenzio.
«La prima cerchia della Città sta bruciando, sire», dissero. «Quali sono i tuoi ordini? Sei ancora tu il nostro Signore e Sovrintendente. Non tutti intendono seguire Mithrandir. Gli uomini fuggono dalle mura lasciandole indifese».
«Perché? Perché fuggono quegli stolti?», esclamò Denethor. «Meglio bruciare prima che dopo, poiché in ogni caso bruciare dovremo. Tornate ai vostri falò! Ed io? Io mi avvio al mio rogo. Al mio rogo! Niente tombe per Denethor e Faramir. Niente tombe! Niente lungo e lento sonno di morte imbalsamati. Noi arderemo come facevano i re primitivi quando dall’Ovest non era ancora giunta la prima nave. L’Occidente soccombe. Tornate indietro e ardete!».
I messaggeri senza inchini né risposta si voltarono e fuggirono.
Allora Denethor si levò in piedi e lasciò la mano febbrile di Faramir che aveva tenuta stretta. «Sta ardendo, sta già ardendo», disse tristemente. «La dimora del suo spirito crolla ormai». Poi, avvicinandosi con passo silenzioso a Pipino, abbassò su di lui il suo sguardo.
«Addio!», egli disse. «Addio, Peregrino figlio di Paladino! È stato breve il tuo servizio, ed ora si avvicina la fine. Ti restituisco la libertà per quelle poche ore che rimangono. Va’ adesso, va’, a morire nel modo che preferisci, ed in compagnia di chi preferisci, fosse anche di quell’amico la cui follia ti ha condotto a questa fine. Chiama i miei servitori e poi va’. Addio!».
«Non dite addio, mio signore», rispose Pipino inginocchiandosi. E improvvisamente tornato ad essere un Hobbit, si alzò e fissò il vegliardo dritto negli occhi. «Accetto il vostro permesso, sire», disse, «perché desidero ardentemente vedere Gandalf. Ma egli non è uno stolto, e finché continuerà a sperare, io non penserò alla morte. Ma non desidero che mi si sciolga dalla mia promessa e dal servire voi finché siete in vita. E se il nemico giungerà infine qui alla Cittadella, spero di essere al vostro fianco e di meritare forse le armi che mi avete date».
«Fa’ come meglio credi, Messer Mezzuomo», disse Denethor. «Ma la mia vita è spezzata. Chiama i miei servitori!». Si volse nuovamente verso Faramir.
Pipino lo lasciò e andò a chiamare i servitori: sei uomini forti e nobili; eppure tremarono quando furono convocati. Ma con voce pacata Denethor li pregò di mettere calde coperte sul letto di Faramir e di portarlo su. Ed essi obbedirono, alzando il letto e recandolo fuori della stanza. Avanzavano con passi lenti per turbare il meno possibile il ferito, e Denethor, appoggiandosi ricurvo a un bastone, li seguì; ultimo veniva Pipino.
Uscirono dalla Torre Bianca come per un funerale, immergendosi nell’oscurità ove la pesante nube che li sovrastava era illuminata dal basso da bagliori d’un rosso cupo. Avanzarono a passi lenti nel grande cortile e all’ordine di Denethor si arrestarono presso l’Albero Avvizzito.
Tutto era silenzio; da lontano, in basso, giungeva il rumore della battaglia, ed essi udivano l’acqua gocciolare tristemente dai rami morti nell’oscuro bacino. Poi attraversarono il Cancello della Cittadella ove la sentinella li guardò passare stupefatta e sconvolta. Voltando poi verso ovest, giunsero infine ad una porta nelle mura posteriori della sesta cerchia. La chiamavano Fen Hollen perché rimaneva sempre chiusa, eccetto in occasione dei funerali, e solo il Sire della Città poteva servirsene, insieme con quelli che portavano l’effigie delle tombe e custodivano le dimore dei morti. Oltrepassata la porta, una strada serpeggiante conduceva giù alla stretta fascia di terra ove si trovavano le abitazioni dei Re morti e dei loro Sovrintendenti.
Un portiere sedeva in una casupola lungo la via e con la paura negli occhi avanzò verso il corteo, portando in mano una lanterna. Al comando di Sire Denethor disserrò la porta, che si spalancò silenziosamente, ed essi passarono prendendogli di mano la lanterna. Faceva molto buio in quella ripida via fiancheggiata da antiche mura e da colonnati di rampe che si ergevano imponenti alla luce oscillante della lanterna. Sentivano l’eco dei propri passi lenti che scendevano sempre più in basso fino a raggiungere la Via Silente, Rath Dinen, fra pallide volte, sale vuote e immagini di uomini morti da lungo tempo; entrarono così nella Casa dei Sovrintendenti e posarono il loro fardello.
Ivi Pipino, guardandosi intorno con inquietudine, vide che si trovava in un’ampia camera a volta che pareva drappeggiata dalle pesanti ombre che la piccola lanterna proiettava sulle pareti tappezzate. Riuscì a scorgere vagamente molte file di tavoli scolpiti nel marmo, e su ciascun tavolo giaceva una figura dormiente con le mani incrociate e il capo appoggiato alla pietra. Ma un tavolo lì vicino era ampio e vuoto. Su di esso al segnale di Denethor stesero Faramir e suo padre a fianco a fianco coprendoli con un lenzuolo, poi rimasero in piedi a capo chino come uomini in lutto vicini al giaciglio di un morto. Allora Denethor parlò a voce bassa.
«Qui attenderemo», egli disse. «Ma non mandate a chiamare gli imbalsamatori. Portateci presto della legna da ardere e posatela tutt’intorno e anche sotto di noi; poi versate dell’olio. E quando ve lo chiederò appiccate il fuoco. Fate ciò che vi ordino e non rivolgetemi più la parola. Addio!».
«Con il vostro permesso, sire!», disse Pipino e voltandosi fuggì terrificato dalla ferale dimora. «Povero Faramir!», si disse. «Devo trovare Gandalf. Povero Faramir! Avrà certo più bisogno di medicine che non di lacrime. Oh, dove posso trovare Gandalf? Nell’infuriare della battaglia, suppongo; e non avrà certo tempo da perdere con i moribondi e con i pazzi».
Sulla soglia si volse verso uno dei servitori che era rimasto di guardia alla porta. «Il tuo padrone non è in sé», disse. «Siate lenti! Non portate fuoco in questo luogo finché Faramir è ancora vivo! Non fate nulla, aspettate Gandalf!».
«Chi è il padrone di Minas Tirith?», rispose l’uomo. «Sire Denethor o il Grigio Errante?».
«Il Grigio Errante o nessun altro, a quanto pare», disse Pipino, e corse su per la via serpeggiante con tutta la velocità dei suoi piccoli piedi, attraversò la porta sotto gli occhi del portiere stupefatto e giunse finalmente nei pressi del cancello della Cittadella. La sentinella lo chiamò mentre passava, ed egli riconobbe la voce di Beregond.
«Dove corri, Messer Peregrino?», gridò.
«In cerca di Mithrandir», rispose Pipino.
«Gli ordini di Sire Denethor sono urgenti e non tocca a me ritardarne l’esecuzione», disse Beregond; «ma dimmi presto, se puoi: che cosa sta accadendo? Dove è andato il mio Signore? Ho appena preso servizio qui, ma mi è stato detto che l’hanno visto recarsi in direzione della Porta Chiusa e che degli uomini lo precedevano portando su una barella Faramir».
«Sì» rispose Pipino, «alla Via Silente».
Beregond chinò il capo per nascondere le lacrime. «Dicevano che stava morendo, ed ecco che adesso è morto», disse sospirando. «No», disse Pipino, «non ancora. E credo che anche adesso la sua morte possa essere impedita. Ma il Signore della Città, Beregond, è caduto prima della sua città. È di umore lunatico e pericoloso». Narrò rapidamente le strane parole ed azioni di Denethor. «Devo trovare Gandalf immediatamente».
«In tal caso devi andare giù alla battaglia».
«Lo so. Il Signore me ne ha dato libertà. Ma, Beregond, se puoi, fa’ qualcosa per impedire che accada qualcosa di terribile».
«Sire Denethor non permette a coloro che vestono di nero e argento di allontanarsi dal proprio posto per alcun motivo, a meno che non lo ordini lui stesso».
«Ebbene, devi scegliere fra gli ordini e la vita di Faramir», disse Pipino. «E comunque credo che abbiate a fare con un pazzo, e non con un sovrano. Devo scappare. Tornerò, se possibile».
Corse giù, sempre più giù verso la parte bassa della città. Incontrava uomini che fuggivano l’incendio ed alcuni, vista la sua uniforme, si voltavano gridandogli qualcosa, ma egli non vi faceva caso. Finalmente traversò il Secondo Cancello, oltre il quale avvampavano grandi fuochi fra le mura. Eppure tutto sembrava stranamente silenzioso. Non si udivano né rumori, né grida di battaglia, né fragore di armi. Ma ad un tratto vi fu un urlo terrificante, un grande urto e un profondo ed echeggiante rimbombo. Costringendosi ad avanzare nonostante una fitta di paura e di orrore che lo fece quasi crollare in ginocchio, Pipino voltò l’angolo che conduceva all’ampio spiazzo dietro il Cancello della Città. Si fermò come paralizzato. Aveva trovato Gandalf, ma indietreggiò, accasciandosi nell’ombra.
Sin dalla mezzanotte il grande assalto era continuato incessante. I tamburi rullavano. Da nord e da sud una dopo l’altra le compagnie nemiche assaltavano le mura. Erano arrivate delle enormi bestie, case ambulanti nella vacillante luce rossa, i mûmakil degli Harad che trainavano lungo i sentieri fra i fuochi immense torri e imponenti macchine. Eppure il loro Capitano non si curava di ciò che facevano o di quanti ne venissero uccisi: il loro scopo era unicamente di verificare la forza della difesa e di tenere impegnati gli Uomini di Gondor in molti posti diversi. Era contro il Cancello che egli intendeva lanciare l’assalto più massiccio. Benché esso fosse estremamente robusto, forgiato in ferro e acciaio e difeso da torri e bastioni di roccia inespugnabile, tuttavia era la chiave, il punto più debole di quell’immensa e impenetrabile muraglia.
I tamburi rullarono più forte. Nuovi incendi avvamparono. Delle grosse macchine strisciarono attraverso il campo, e fra esse vi era un enorme ariete, grande come l’albero di una foresta, lungo circa cento piedi, sostenuto da possenti catene. Da molto tempo ormai le oscure fucine di Mordor erano intente a forgiarlo, e la sua mostruosa testa, fusa in acciaio nero, riproduceva le sembianze di un lupo vorace; esso recava in sé diabolici incantesimi. L’avevano chiamato Grond, in memoria dell’antico Martello dell’Oltretomba. Era trainato da grosse bestie e circondato da Orchi e i Troll delle montagne lo spingevano da dietro.
Ma intorno al Cancello la resistenza era ancora massiccia, poiché erano i cavalieri di Dol Amroth ed i soldati più valorosi che lottavano contro gli assalitori. Una fitta pioggia di frecce e proiettili cadeva all’intorno delle mura; le torri d’assedio crollavano o avvampavano all’improvviso come torce. Davanti alla muraglia, da ambedue i lati del Cancello, il terreno era coperto di relitti e di cadaveri; eppure nuovi rinforzi continuavano ad arrivare, in folle impeto d’assalto.
Grond continuava ad avanzare. Era impossibile che prendesse fuoco; quando di tanto in tanto una delle grosse bestie che lo trainavano impazziva, seminando rovina e strage fra gli Orchi che lo difendevano, i loro corpi venivano sgomberati e altri Orchi ne prendevano il posto.
Grond continuava ad avanzare. I tamburi rullavano selvaggiamente. Sopra i monticelli di cadaveri apparve ad un tratto una mostruosa figura: un cavaliere, alto, coperto da un cappuccio e da un manto nero. Avanzava lentamente, calpestando i caduti, noncurante delle frecce. Poi si fermò e levò in alto una lunga e pallida spada. E nel vederlo una grande paura si impadronì di tutti, difensori e nemici; gli uomini lasciarono cadere le braccia lungo i fianchi e nessun dardo sibilò più. Per un momento tutto fu silenzioso.
I tamburi rullavano. Con un’enorme rincorsa Grond venne catapultato avanti da mille enormi mani. Giunse al Cancello. Fu proiettato in avanti. Un profondo rimbombo echeggiò attraverso la Città come tuono fra le nubi. Ma le porte di ferro ed i pali in acciaio resistettero al colpo.
Allora il Capitano Nero si rizzò sulle staffe e urlò con voce spaventosa, pronunciando in qualche ignoto linguaggio parole di potere e di terrore tali da lacerare cuori e rocce.
Urlò tre volte. Tre volte rimbombò il grosso ariete. Ed improvvisamente all’ultimo colpo il Cancello di Gondor cedette. Come colpito da un lacerante maleficio, lo si vide saltare in aria: vi fu un lampo di luce accecante ed i battenti crollarono in terra frantumati in mille pezzi.
Il Signore dei Nazgûl entrò sul suo cavallo. Si ergeva immenso, un’enorme figura nera contro il bagliore degli incendi, una terribile minaccia di disperazione. Il Signore dei Nazgûl si fece avanti, varcando l’arco che mai nemico aveva oltrepassato, e tutti fuggirono innanzi a lui.
Tutti eccetto uno. In attesa, immobile e silenzioso in mezzo allo spiazzo del Cancello, sedeva Gandalf su Ombromanto: Ombromanto, l’unico dei liberi cavalli della terra capace di tollerare il terrore, impassibile, risoluto come un’immagine scolpita a Rath Dinen.
«Non puoi entrare qui», disse Gandalf, e l’enorme ombra si fermò. «Torna negli abissi preparati per te! Torna indietro! Affonda nel nulla che attende te ed il tuo Padrone. Via!».
Il Cavaliere Nero fece scivolare il cappuccio e, meraviglia! portava una corona regale; eppure sotto di essa vi era una testa invisibile, poiché fra la corona e le grandi e scure spalle ammantate brillavano rossi i fuochi. Da una bocca inesistente proruppe un riso micidiale.
«Vecchio pazzo!», disse. «Vecchio pazzo! Questa è la mia ora. Non riconosci la Morte quando la vedi? Muori adesso, e vane siano le tue maledizioni!». E con ciò levò alta la spada e delle fiamme ne percorsero la lama.
Gandalf non si mosse. In quell’istante, lontano in qualche cortile della Città, si udì il canto di un gallo. Era limpido e chiaro, ignorava la magia e la guerra, non faceva che acclamare il mattino che su nel cielo, oltre le ombre di morte, si avvicinava con l’alba.
E come in risposta giunse da lontano un altro suono. Corni, corni e corni. Si udivano fiochi echeggiare nei fianchi del cupo Mindolluin. Grandi corni del Nord che suonavano con forza. Rohan era finalmente arrivato.
Era buio e Merry non vedeva nulla, steso per terra e avvolto in una coperta; benché la notte fosse senza aria né vento, tutt’intorno a lui alberi invisibili sospiravano dolcemente. Egli levò il capo. E lo udì nuovamente: un rumore simile a un fioco rullare di tamburi nei colli boscosi e sulle falde della montagna. Il suono si arrestava improvvisamente per poi ricominciare in un altro posto, a volte più vicino, a volte più lontano. Si domandò se gli uomini di guardia lo avessero udito.
Non riusciva a vederle, ma sapeva che tutt’intorno a lui vi erano le compagnie dei Rohirrim. Sentiva l’odore dei cavalli nell’oscurità, e li udiva muoversi e scalpitare dolcemente sul terreno coperto di aghi di pini. L’esercito bivaccava nel bosco di conifere che tappezzava l’Eilenach, un alto colle che si ergeva fra le lunghe propaggini della Foresta Druadana, un bosco che fiancheggiava la grande via dell’Anórien orientale.
Stanco com’era, Merry non riusciva tuttavia a prendere sonno. Aveva cavalcato per quattro giorni di seguito, e le tenebre sempre più fitte cominciavano lentamente a gravare sul suo cuore. Si domandava perché era stato tanto ansioso di venire quando gli era stata fornita ogni possibile scusa, persino gli ordini del suo signore, per non partire. Si domandava inoltre se il vecchio Re sapeva che era stato disobbedito, e se era adirato. Forse no. Sembrava che vi fosse una certa intesa fra Dernhelm ed Elfhelm, il maresciallo che comandava l’éored alla quale appartenevano. Lui e tutti i suoi uomini ignoravano Merry e fingevano di non udirlo quando parlava. Avrebbe potuto essere uno dei sacchi di Dernhelm. Questi a sua volta non era di gran conforto: non parlava mai con nessuno. Merry si sentiva solo, indesiderato e malinconico. Ora regnava l’ansia e l’esercito era in pericolo. Erano a meno di un giorno di distanza dalle mura di confine di Minas Tirith che circondavano le terre abitate. Delle vedette erano state inviate avanti. Alcune non erano tornate. Altre erano arrivate correndo e avevano riferito che la strada innanzi a loro era bloccata da grandi forze. Un esercito nemico vi era accampato a tre miglia a ovest di Amon Dîn e alcuni drappelli procedevano già lungo la via, e non distavano più di tre leghe. Gli Orchi infestavano le colline e i boschi lungo la strada. Il re ed Éomer si consultarono durante la veglia notturna.
Merry voleva qualcuno con cui parlare, e pensò a Pipino. Ma ciò non fece che aumentare la sua irrequietezza. Povero Pipino, chiuso nella grande città di roccia, solo e spaventato. Merry avrebbe voluto essere un grande Cavaliere come Éomer, per poter suonare un corno o qualcos’altro e galoppare a salvarlo. Si mise a sedere, ascoltando i tamburi che rullavano di nuovo, ora più vicini. Infine udì qualcuno parlare a voce bassa e vide delle fioche lanterne per metà velate passare attraverso gli alberi. Degli uomini incominciarono a muoversi incerti nell’oscurità, intorno a lui.
Un’alta figura apparve e inciampò contro di lui, maledicendo le radici degli alberi. Riconobbe la voce del maresciallo Elfhelm.
«Non sono la radice di un albero, signore», disse, «né un sacco, ma un Hobbit contuso. Il minimo indispensabile per fare ammenda è dirmi che cosa si è messo in moto».
«Qualunque cosa riesca a reggersi in piedi in questa melma diabolica», rispose Elfhelm. «Ma il mio signore manda a dire che dobbiamo prepararci: forse giungeranno degli ordini improvvisi di partenza».
«Il nemico sta dunque arrivando?», domandò ansioso Merry. «Sono quelli i loro tamburi? Stavo incominciando a pensare che ero io a immaginarli, poiché nessun altro sembrava farvi caso».
«No, no», rispose Elfhelm, «il nemico è sulla strada, non nelle colline. Quelli che odi sono i Woses, gli Uomini Selvaggi dei Boschi; è così che comunicano fra loro a distanza. Si dice che vaghino tuttora nella Foresta Druadana. Sono superstiti di epoche passate, pochi e nascosti, selvaggi e cauti come bestie. Non si mettono in guerra contro Gondor o il Mark; ma ora sono turbati dalla celerità e dall’arrivo degli Orchi: temono il ritorno degli Anni oscuri, cosa assai probabile. Dobbiamo essere lieti di non averli contro di noi, perché usano frecce avvelenate e pare che siano imbattibili nell’arte del legno. Ma hanno offerto i loro servigi a Théoden. Proprio adesso uno dei loro capi viene condotto dal re. Si vedono laggiù le luci. Ecco tutto ciò che ho udito: non so altro. Ed ora mi devo occupare degli ordini del mio signore. Infagottati, Messer Sacco!». Scomparve nelle ombre.
A Merry quelle storie di uomini selvaggi e di frecce avvelenate non piacquero eccessivamente, ma a parte tutto ciò si sentiva oppresso dal peso di una grande paura. L’attesa era insostenibile. Si domandava ansiosamente che cosa sarebbe accaduto. Si alzò e si mise a seguire cautamente l’ultima lanterna prima che scomparisse fra gli alberi.
Si trovò a un tratto in uno spiazzo ove era stata eretta una piccola tenda per il re, al riparo di un grosso albero. Una grande lanterna coperta dall’alto pendeva da un ramo e proiettava un pallido cerchio di luce per terra. Lì sedevano Théoden ed Éomer ed ai loro piedi un uomo dalla strana e tozza corporatura, pieno di bozzi come un vecchio sasso e con i peli della scarsa barba sparpagliati sul grosso mento come muschio secco. Aveva gambe corte e braccia grasse, tozze e goffe, e il suo unico vestito era un po’ d’erba intorno alla vita. A Merry parve di averlo già visto da qualche parte, e improvvisamente ricordò i Pùkel di Dunclivo. Era come se una di quelle antiche figure avesse preso vita, o come se fosse a un tratto apparso dopo innumerevoli anni un vero discendente dei modelli imitati da sconosciuti artisti in epoche remote.
Vi fu un attimo di silenzio mentre Merry si avvicinava strisciando, e poi l’Uomo Selvaggio si mise a parlare, come rispondendo a qualche domanda. La sua voce era profonda e gutturale, eppure Merry udì con sorpresa che parlava la Lingua Corrente, pur esitando e intercalando vocaboli rozzi.
«No, padre degli Uomini dei Cavalli», egli disse, «non combattiamo. Cacciamo soltanto. Uccidiamo gorgûn in boschi, odiamo Orchi. Aiutiamo come possibile. Uomini Selvaggi hanno lunghe orecchie, lunghi occhi, conoscono tutti i sentieri. Uomini Selvaggi vivono qui prima delle Case di Pietra; prima che Alti Uomini venire su dall’Acqua».
«Ma noi abbiamo bisogno di aiuti per combattere», disse Éomer. «Come potete aiutarci tu ed il tuo popolo?».
«Portiamo notizie», disse l’Uomo Selvaggio. «Guardiamo dalle colline lontano. Saliamo grande montagna in alto e guardiamo giù. Città di pietra è chiusa. Fuoco brucia fuori; ora anche dentro. Volete andare? Allora dovete fare presto. Ma gorgûn e Uomini venuti da lontano», agitò un corto braccio nodoso verso est, «siedono su strada dei cavalli. Molti sono, più che Uomini dei Cavalli».
«Come lo sai?», domandò Éomer.
Il viso piatto e gli occhi scuri del vecchio non mostrarono nulla, ma la sua voce era piena di scontento rancore. «Uomini Selvaggi sono selvaggi, liberi, ma non bambini», rispose. «Io sono grande capo Ghân-buri-Ghân. Io conto molte cose: stelle in cielo, foglie su alberi, uomini nel buio. Voi avete venti ventine contate dieci volte più cinque. Loro hanno di più. Grande battaglia, e chi vincerà? E molti altri camminano intorno mura di Case di Pietra».
«Ahimè! Parla fin troppo bene», disse Théoden. «E le nostre vedette dicono che sono state erette trincee attraverso la strada. È impossibile travolgerli con un assalto improvviso».
«E tuttavia dobbiamo fare in fretta», disse Éomer. «Mundburg brucia!».
«Fate finire Ghân-buri-Ghân!», disse l’Uomo Selvaggio. «Più di una strada conosce. Lui vi conduce per una strada dove non sono fossi, non camminano gorgûn, solo Uomini Selvaggi e bestie. Molti sentieri costruiti quando gente delle Case di Pietra era più forte. Tagliavano colline come cacciatori tagliano carne di bestia. Uomini Selvaggi credono loro mangiavano pietra per cibo. Andavano attraverso Druadana a Rimmon con grandi carri. Non vanno più adesso. Strada è dimenticata, ma non da Uomini Selvaggi. Sulla collina e dietro collina è ancora lì sotto erba e alberi, dietro Rimmon e giù a Dîn, e poi infine di nuovo sulla strada degli Uomini dei Cavalli. Uomini Selvaggi vi mostreranno quella strada. Voi ucciderete gorgûn e caccerete cattiva oscurità con ferro lucido, e Uomini Selvaggi potranno di nuovo dormire nei boschi selvaggi».
Éomer ed il re discussero nella loro lingua. Finalmente Théoden si volse verso l’Uomo Selvaggio. «Accettiamo la tua offerta», egli disse. «Anche se avremo alle spalle un esercito di nemici, che importa? Se la Città di Pietra cade non vi sarà ritorno per noi. Se si salva, l’esercito nemico sarà tagliato fuori. Se sei fedele, Ghân-buri-Ghân, ti daremo una ricca ricompensa e tu avrai per sempre l’amicizia del Mark».
«Uomini morti non sono amici di uomini vivi e non danno regali», disse l’Uomo Selvaggio. «Ma se vivete dopo l’Oscurità, allora lasciate tranquilli Uomini Selvaggi in boschi e non cacciateli più come bestie. Ghân-buri-Ghân non vi conduce in tranello. Egli andrà con padre degli Uomini dei Cavalli e se vi guida male voi lo ucciderete».
«Che sia così», disse Théoden.
«Quanto tempo impiegheremo per oltrepassare il nemico e tornare sulla strada?», domandò Éomer. «Dobbiamo andare al passo se tu ci guidi, e la via sarà indubbiamente stretta».
«Uomini Selvaggi vanno presto con piedi», disse Ghân. «Via è larga per quattro cavalli laggiù in valle Cavapietra», indicò con la mano verso sud; «ma stretta prima e dopo. Uomo Selvaggio può camminare da qui a Dîn fra alba e mezzogiorno».
«Allora dobbiamo calcolare almeno sette ore per quelli che cavalcano in testa», disse Éomer; «ma in tutto direi circa dieci ore. Degli imprevisti potrebbero rallentare l’andatura e ci vorrà del tempo, per schierare nuovamente l’esercito all’uscita dalle colline. Che ore sono adesso?».
«Chissà?», disse Théoden. «È notte completa».
«È buio, ma non notte completa», disse Ghân. «Quando Sole esce, noi lo sentiamo anche se è nascosto. Già sale sulle montagne a est. Si apre il giorno nei campi del cielo».
«Allora dobbiamo partire al più presto», disse Éomer. «E tuttavia non possiamo sperare di soccorrere Gondor per oggi».
Merry non attese per udire altro, ma sgusciò via per prepararsi agli ordini di partenza. Era questa l’ultima tappa prima della battaglia. Non gli sembrava probabile che molti riuscissero a sopravvivere. Ma pensando a Pipino e alle fiamme di Minas Tirith controllò la propria paura.
Tutto andò bene quel giorno, e non udirono né videro il nemico che li attendeva per tender loro una trappola. Gli Uomini Selvaggi avevano disposto una cortina di cauti cacciatori per impedire che Orchi e spie venissero a conoscenza dei movimenti nelle colline. La luce era più pallida che mai quando si avvicinarono alla città assediata e lunghe file di Cavalieri passarono come cupe ombre di uomini e cavalli. Ogni compagnia era guidata da un Uomo Selvaggio, e il vecchio Ghân camminava vicino al re. La partenza era stata più lenta del previsto, perché i Cavalieri avevano impiegato parecchio tempo, mentre appiedati conducevano i cavalli, per trovare dei sentieri che li conducessero via dall’accampamento e giù nella nascosta Valle Cavapietra. Era già tardo pomeriggio quando i primi giunsero ad una boscaglia che si stendeva oltre la parte orientale di Amon Dîn, mascherando un grande vuoto nella linea di colli che da Nardol si dirigeva sino a Dîn. Attraverso quel varco in epoche passate correva l’ormai dimenticata via, per poi ricongiungersi con la strada maestra che partendo dalla Città attraversava tutto l’Anórien; ma ormai da molte generazioni gli alberi se ne erano impadroniti ed essa era scomparsa, inghiottita dalle foglie di innumerevoli anni. La boscaglia offriva ai Cavalieri l’ultimo riparo prima di avanzare all’aperto in mezzo alla battaglia; Innanzi a loro infatti si stendevano la strada e le pianure dell’Anduin, mentre a est e a sud le pendici erano nude e rocciose e le colline sembravano radunarsi per poi innalzarsi tutte insieme e raggiungere la grossa massa montagnosa del Mindolluin.
La compagnia in testa si arrestò, e man mano che le altre sbucavano dal varco della Valle Cavapietra, si allargavano installandosi al riparo degli alberi grigi. Il re convocò i capitani per prendere decisioni. Éomer mandò delle vedette a spiare la strada; ma il vecchio Ghân scosse il capo.
«Inutile mandare Uomini dei Cavalli», disse. «Uomini Selvaggi hanno già visto tutto quello che si può vedere in aria buia. Verranno presto da me a riferire».
I capitani si riunirono; all’improvviso fra gli alberi apparvero caute figure di Pùkel talmente simili al vecchio Ghân che Merry non avrebbe saputo distinguerli. Si rivolsero a Ghân in uno strano e gutturale linguaggio.
Allora Ghân si voltò verso il re. «Uomini Selvaggi dicono molte cose», disse. «Primo, state attenti! Ancora molti uomini accampati oltre Dîn, a un’ora di marcia laggiù», e mostrò a occidente la nera collina. «Ma nessun uomo fra qui e nuove mura della Gente di Pietra. Lì invece molti indaffarati. Mura non sono più in Piedi; gorgûn le hanno abbattute con tuono della terra e mazze di ferro nero. Non sono cauti e non si guardano intorno. Credono che loro amici sorveglino strade!». E con ciò il vecchio Ghân emise uno strano gorgoglio, e sembrò che stesse ridendo.
«Buone notizie!», esclamò Éomer. «Persino in queste tenebre brilla di nuovo la speranza. Gli artifizi del Nemico ci servono sovente per danneggiarlo. Persino la maledetta oscurità è valsa a nasconderci. Ed ora, felici di distruggere Gondor smantellandolo pietra su pietra, gli Orchi hanno eliminato ciò che temevo di più. La muraglia di confine avrebbe potuto resisterci a lungo. Ora potremo passare al galoppo, se arriviamo sin lì».
«Ancora una volta grazie, Ghân-buri-Ghân dei boschi», disse Théoden. «Che la buona fortuna ti assista in ricompensa delle notizie e dell’aiuto che ci hai dati!».
«Uccidete gorgûn! Uccidete Orchi! Niente altro soddisfa Uomini Selvaggi», rispose Ghân. «Cacciate via aria cattiva e oscurità con ferro lucido!».
«Per questi motivi siamo giunti da tanto lontano», disse il re, «e tenteremo di riuscirvi. Ma soltanto il domani potrà mostrare che cosa sapremo fare».
Ghân-buri-Ghân si accovacciò toccando terra con la fronte callosa in segno d’addio. Poi si alzò come per andarsene. Ma improvvisamente s’immobilizzò, annusando l’aria come un animale dei boschi sorpreso da uno strano odore. I suoi occhi si illuminarono.
«Vento sta cambiando!», gridò, e con queste parole, in un baleno, scomparve con i suoi compagni nelle tenebre, e non fu mai più veduto da un Cavaliere di Rohan. Non passò molto tempo che si udì nuovamente in lontananza il fioco rullare di tamburi. Ma a nessuno in tutto l’esercito balenò la paura di venire traditi dagli Uomini Selvaggi, anche se essi erano strani e poco attraenti.
«Non abbiamo più bisogno di guide», disse Elfhelm; «nell’esercito infatti vi sono dei cavalieri che si sono recati a Mundburg in tempo di pace. Io per primo. Quando raggiungeremo la strada essa punterà verso sud, e ci vorranno ancora sette leghe prima di arrivare alle mura di confine. Lungo tutta la via vi è parecchia erba su entrambi i margini: è infatti il sentiero che percorrono i messaggeri di Gondor per galoppare alla massima velocità. Potremo cavalcare veloci e senza gran rumore».
«Allora, poiché ci attendono gesta crudeli ove sarà necessaria tutta la nostra forza», disse Éomer, «consiglierei di riposare adesso e di ripartire di notte, per raggiungere i campi quando la luce è più intensa».
Il re fu d’accordo e i capitani si allontanarono. Ma Elfhelm tornò poco dopo. «Le vedette non hanno trovato nulla oltre il bosco grigio, sire», disse, «salvo due uomini: due uomini morti e due cavalli morti».
«Ebbene?», disse Éomer. «Che cosa significa?».
«Questo, sire: erano messaggeri di Gondor; forse uno di essi era Hirgon. O comunque la sua mano stringeva ancora la Freccia Rossa, ma era decapitato. E inoltre dai segni sembrerebbe che stessero fuggendo verso ovest quando furono uccisi. Probabilmente trovarono il nemico già padrone delle mura di confine, o intento ad assalirle mentre tornavano a Minas Tirith, e ciò sarebbe accaduto due notti addietro, se adoperarono, come al solito, cavalli di ricambio presi alle poste. Non avrebbero potuto raggiungere la Città e tornare indietro».
«Ahimè!», disse Théoden. «Denethor non ha quindi avuto notizia della nostra partenza, e non spererà ormai più nel nostro arrivo».
«La necessità non tollera attesa, ma è meglio tardi che mai», disse Éomer. «E forse in tempi come questi i vecchi detti si dimostreranno veraci come mai lo furono da quando gli Uomini parlano con la bocca».
Era notte. Su ambedue i lati della strada l’esercito di Rohan avanzava silenzioso. La via fiancheggiava le pendici del Mindolluin e puntava verso sud. In lontananza e quasi dritto innanzi a loro si vedeva un bagliore rosso sotto il nero del cielo, ed i fianchi della grande montagna vi si stagliavano ancora più cupi e massicci. Stavano avvicinandosi al Rammas del Pelennor, ma il giorno non si era ancora levato.
Il re cavalcava in mezzo alla prima compagnia, circondato dalla sua scorta. Seguiva l’éored di Elfhelm, ed ora Merry si accorse che Dernhelm si era spostato in avanti, fino a cavalcare alle spalle delle guardie del re. La fila si arrestò. Merry udì davanti a sé delle voci sussurrare qualcosa. Erano tornate le vedette spintesi quasi fino alla muraglia. Si recarono dal re.
«Vi sono dei grandi fuochi, sire», disse uno di essi. «La Città è interamente circondata dalle fiamme, ed i campi sono pieni di nemici. Ma tutti sembrano intenti all’assalto. Da ciò che abbiamo veduto risulta che assai pochi sono rimasti sulla muraglia e che comunque sono talmente presi dalla loro opera di distruzione che non si accorgono di nulla».
«Rammenti le parole dell’Uomo Selvaggio, sire?», disse un altro. «In tempo di pace io vivo all’aperto nelle brughiere; Widfara è il mio nome, ed anche a me l’aria reca messaggi. Già il vento sta girando. Viene una brezza dal Sud, e sento in essa un profumo di mare, per debole che sia. Il mattino porterà delle novità. Sul fetido campo si sarà levata l’alba quando passerete la muraglia».
«Se ciò che dici è vero, Widfara, possa tu d’ora in poi vivere anni di benedizioni!», esclamò Théoden. Si rivolse agli uomini della sua scorta che gli erano vicini e parlò con voce chiara, tanto da essere udito da molti dei cavalieri della prima éored:
«È giunta l’ora, Cavalieri del Mark, figli di Eorl! Innanzi a voi troverete fuoco e nemici, e le vostre dimore sono assai lontane. Eppure, anche se combatterete su campi stranieri, la gloria che guadagnerete sarà vostra per sempre. Avete prestato giuramento: siate fedeli, in nome del vostro signore, della vostra patria e del legame d’amicizia!».
I cavalieri fecero risuonare le lance contro gli scudi.
«Éomer, figlio mio! Tu guiderai la prima éored», disse Théoden; «il vessillo del re avanzerà in centro e tu lo seguirai. Elfhelm, conduci la tua compagnia a destra non appena passato il muro. Grimbold guiderà la sua verso sinistra. Che le altre compagnie seguano queste tre come meglio potranno. Correte ovunque vedete il nemico radunarsi. Non possiamo fare altri piani, perché non sappiamo ancora come stiano le cose sul campo di battaglia. Adesso avanti, e non temete l’oscurità!».
La prima compagnia galoppò avanti quanto più veloce poté, ma il buio era ancora assai fitto, nonostante le previsioni di Widfara. Merry cavalcava dietro Dernhelm, tenendosi stretto con la mano sinistra mentre con l’altra tentava di allentare la spada nella guaina. Sentiva ora amaramente quanto di vero vi fosse nelle parole del vecchio re: «In una battaglia del genere che cosa faresti, Meriadoc?». «Nient’altro che questo», si disse: «essere d’ingombro per un cavaliere e sperare, nella migliore delle ipotesi, di rimanere in sella e di non venire stritolato a morte da zoccoli al galoppo!».
Ormai erano a meno di una lega dal punto ove si ergevano le mura di confine ormai dirute. Le raggiunsero presto, troppo presto per Merry. Si udirono urla selvagge e clamore di armi, ma poco dopo tornò il silenzio. Gli Orchi erano pochi e stupefatti dalla sorpresa, e fu facile ucciderli o farli fuggire. Innanzi alle rovine del cancello nord del Rammas il re si fermò di nuovo. La prima éored gli si strinse dietro e tutt’intorno. Dernhelm si mantenne vicino al re, benché la compagnia di Elfhelm fosse molto più a destra. Gli uomini di Grimbold voltarono a est e si avvicinarono a un grande squarcio nel muro.
Merry sbirciò da dietro le spalle di Dernhelm. In lontananza, a dieci miglia o anche più, vi era un grande incendio, ma fra esso ed i Cavalieri avvampavano linee di fuoco a forma di mezzaluna, e la più vicina distava meno di una lega. Non riusciva a distinguere altro nell’oscura piana, e per il momento non vedeva speranza di mattino né sentiva alito di vento, mutato o immutato che fosse.
L’esercito di Rohan avanzò silenzioso nei campi di Gondor, come una lenta ma continua valanga o la marea che trabocca dalle fessure di una diga che tutti credevano sicura. Ma la mente e la volontà del Capitano Nero erano impegnate esclusivamente nell’assedio della città, e non gli era giunta ancora nessuna notizia ad avvertirlo che nei suoi piani vi era una lacuna.
Dopo un certo tempo, il re condusse i suoi uomini leggermente verso est, per portarsi fra i fuochi degli assedianti e i campi esterni. Ancora non erano stati avvistati, e Théoden non diede alcun segnale. Infine si fermò per l’ultima volta. La Città era ormai vicina. L’aria era impregnata di odore di bruciato e d’ombra di morte. I cavalli erano irrequieti. Ma il re sedeva immobile su Nevecrino, lo sguardo fisso sull’agonia di Minas Tirith, come improvvisamente colto da angoscia o da terrore. Parve rimpicciolirsi, accasciato sotto il peso degli anni. Merry stesso ebbe l’impressione che un enorme fardello di orrore e di dubbi gli gravasse sulle spalle. Il suo cuore batteva lentamente. Il tempo sembrava essersi arrestato nell’incertezza. Arrivavano troppo tardi! Troppo tardi era peggio che mai! Forse Théoden era tentato di cedere; forse stava per chinare il vecchio capo, volgere le spalle e sgusciare via nascondendosi tra le colline.
Poi finalmente, ad un tratto, Merry sentì un mutamento inequivocabile. Il vento soffiava sul suo viso! La luce cominciava ad apparire. Lontano, lontano a sud si vedevano vaghe forme di nubi, remote e grigie, andare alla deriva: al di là sorgeva il mattino.
Ma in quel medesimo istante vi fu un gran bagliore, come se un fulmine si fosse sprigionato dalla terra sulla quale sorgeva la Città. Per un seconde la videro ergersi in un’accecante luce bianca e nera, l’alta torre simile ad un ago scintillante; e quando tutto piombò di nuovo nell’oscurità si udì echeggiare nei campi un enorme rimbombo.
Udendo quel rumore la figura ricurva del re si rizzò improvvisamente. Egli sembrò di nuovo alto e fiero; alzandosi sulle staffe gridò con voce tonante, più limpida di ogni altra voce mortale udita sino a quel giorno:
Avanti, avanti, Cavalieri di Théoden!
Gesta crudeli vi attendono: fuoco e stragi!
Saran scosse le lance, frantumati gli scudi,
e rosso il giorno prima dell’alba!
Cavalcate, cavalcate! Cavalcate verso Gondor!
E detto questo afferrò il grande corno di Guthlél, il suo vessillifero, e vi soffiò con tale violenza da frantumarlo. E immediatamente risuonarono tutti i corni dell’esercito, e la loro musica era pari a tempesta sulla pianura e tuono sulle montagne.
Cavalcate! Cavalcate! Cavalcate verso Gondor!
Ad un tratto il re gridò qualcosa a Nevecrino, e il cavallo balzò avanti. Alle sue spalle sventolava il vessillo: un cavallo bianco in campo verde; ma egli lo distanziò. Dietro di lui galoppavano come fulmini i cavalieri della sua scorta, senza però riuscire a raggiungerlo. Éomer correva come il vento, e la bianca coda di cavallo Sul suo elmo svolazzava per la velocità; la prima éored ruggiva come mare tempestoso sulle rocce, ma Théoden pareva irraggiungibile. La furia guerriera dei suoi avi scorreva come fuoco nelle sue vene, ed egli cavalcava Nevecrino come un antico dio, come Oromë il Grande nella battaglia dei Valar quando il mondo era ancora giovane. Il suo scudo dorato, scoperto, brillava e scintillava come un’immagine del Sole, e l’erba rinverdiva intorno ai piedi bianchi del suo destriero. Il mattino arrivò, e arrivò anche il vento del mare: e l’oscurità scomparve, e gli eserciti di Mordor tremarono, e furono colti dal terrore, e fuggirono, e morirono, e zoccoli furibondi li calpestarono. Allora tutto l’esercito di Rohan irruppe in un canto, e cantavano mentre colpivano, in preda alla gioia della battaglia, ed il suono del loro canto fiero e terribile giunse sino alla Città.
Ma non era né un Orco né un brigante colui che dirigeva l’assalto di Gondor. L’oscurità si stava diradando troppo presto, prima della data stabilita dal suo Padrone: la fortuna l’aveva tradito per il momento, e il mondo si era rivoltato contro di lui; la vittoria gli sfuggiva dalle mani proprio mentre egli le allungava per afferrarla. Ma il suo braccio era lungo. Egli era ancora al posto di comando e disponeva di grandi poteri. Re, Schiavo dell’Anello, Signore dei Nazgûl, possedeva molte armi. Abbandonò il Cancello e scomparve.
Théoden Re del Mark era ormai giunto alla strada che dal Cancello conduceva al Fiume, e si diresse verso la Città, che non distava più di un miglio. Rallentò un poco la velocità, e cercò nuovi nemici, mentre la sua scorta lo circondava, e Dernhelm era con loro. Innanzi a loro e più vicini alle mura gli uomini di Elfhelm lottavano fra le macchine di guerra, colpendo, uccidendo, spingendo i nemici nelle trincee infocate. Quasi tutta la parte nord del Pelennor era stata sommersa dai Rohirrim, e gli accampamenti bruciavano; gli Orchi fuggivano verso il Fiume come greggi innanzi ai cacciatori; i Rohirrim galoppavano liberamente in lungo e in largo. Ma non avevano ancora sconfitto gli assedianti, né raggiunto il Cancello. Molti nemici lo difendevano, mentre dall’altra parte della pianura altri eserciti erano ancora invitti. A sud, oltre la strada, si erano radunate le forze degli Haradrim, e i loro cavalieri attendevano intorno allo stendardo del loro capitano. Osservando innanzi a sé, questi vide nella crescente luce il vessillo del re in testa a tutti e attorniato da pochi uomini. Allora fu colto da una grande collera e gridando con violenza e spiegando il suo stendardo, un serpente nero in campo scarlatto, si precipitò sul cavallo bianco seguito da una folta schiera di uomini; le scimitarre sguainate dei Sudroni parvero uno sfavillare di stelle.
Allora Théoden si accorse di lui, e non attese l’assalto, ma gridando qualcosa a Nevecrino si lanciò alla carica. Grande fu il fragore del loro urto. Ma la bianca furia degli uomini del Nord era più ardente, ed i loro cavalieri dalle lunghe e decise lance erano più abili. Meno numerosi, riuscirono ad aprirsi un varco fra i Sudroni come un incendio in una foresta. In mezzo alla calca lottava Théoden, figlio di Thengel, e la sua lancia si frantumò nell’abbattere il capitano nemico. Sguainata la spada si lanciò contro lo stendardo, colpendo al tempo stesso asta e cavaliere; il serpente nero fu abbattuto. I superstiti della cavalleria volsero allora le spalle e fuggirono lontano.
Ma ecco che all’improvviso, nel pieno della gloria, il re vide oscurarsi il suo scudo dorato. Il nuovo mattino fu come cancellato in cielo. L’oscurità li circondò nuovamente. I cavalli si misero a nitrire impennandosi. Uomini caduti di sella si agitavano per terra.
«A me! A me!», gridò Théoden. «Coraggio, Eorlingas! Non temete l’oscurità!». Ma Nevecrino impazzito dal terrore s’impennò, lottando con l’aria, e poi con un terribile grido crollò sul fianco: una freccia nera l’aveva trafitto. Il re cadde sotto il cavallo.
La grande ombra scese come una nuvola cadente. E, meraviglia! era una creatura alata: se uccello, assai più grande di qualunque altro uccello, e stranamente nudo sprovvisto di penne e di piume, e le sue immense ali parevano pelle tesa fra grinfie di corno; emanava un fetore mortale. Era forse una creatura di un mondo scomparso, la cui razza, sopravvissuta in montagne nascoste e fredde sotto la Luna, non si era ancora estinta, covando questi ultimi arcaici esemplari, creati per la malvagità. E l’Oscuro Signore se n’era impadronito, alimentandoli con cibi crudeli, facendoli crescere oltre la misura di ogni altro essere alato; li aveva dati ai suoi servitori da usare come destrieri. L’ombra volante puntò verso terra e infine, piegando le ali, lanciò un urlo gracchiante e si posò sul corpo di Nevecrino, affondandovi le sue grinfie, e curvando il lungo collo spoglio.
Su di esso sedeva una figura avvolta in un manto nero, immensa e minacciosa. Portava una corona d’acciaio, fra il cui bordo e le vesti non vi era nulla, se non il micidiale bagliore degli occhi: il Signore dei Nazgûl. Era tornato in aria, chiamando a sé il suo destriero prima che l’oscurità scomparisse del tutto, ed ora attaccava di nuovo, distruggendo tutto, trasformando la speranza in disperazione, e la vittoria in morte. Brandiva un’enorme mazza nera.
Ma Théoden non era del tutto abbandonato. I cavalieri della sua scorta giacevano morti intorno a lui, o venivano trascinati via dall’irresistibile follia dei cavalli. Tuttavia ne rimaneva uno accanto a lui: il giovane Dernhelm, fedele nonostante la paura; e piangeva, poiché amava il suo signore come un padre. Durante tutta la carica aveva portato sano e salvo Merry dietro di sé, fino all’arrivo dell’Ombra. Allora Windfola li aveva gettati in terra in preda al terrore, mettendosi a correre imbizzarrito per la pianura. Merry strisciava carponi come una bestia attonita, ed era invaso da un tale orrore che si sentiva cieco e malato.
«Uomo del re! Uomo del re!», gridava il suo cuore dentro di lui. «Devi rimanergli accanto. Sarai per me come un padre, gli dicesti». Ma la sua volontà non rispose e il suo corpo tremava. Non osava aprire gli occhi o alzare lo sguardo.
Ma poi nel buio della mente gli parve di udire la voce di Dernhelm; eppure ora suonava in modo strano, rammentandogli un’altra voce già udita in passato.
«Vattene, orrido dwimmerlaik, signore delle carogne! Lascia in pace i morti!».
Una voce glaciale gli rispose: «Non metterti fra il Nazgûl e la sua preda! Rischieresti non di venire ucciso a tua volta, ma di essere portato via dal Nazgûl e condotto alle case del lamento al di là di ogni tenebra, ove la tua carne verrà divorata e la tua mente raggrinzita verrà esposta nuda all’Occhio Senza Palpebre».
Una spada risuonò mentre veniva sguainata. «Fa’ ciò che vuoi; ma io te lo impedirò, se potrò».
«Impedirmelo? Sei pazzo! Nessun uomo vivente può impedirmi nulla!».
Allora Merry udì fra tutti i rumori il più strano: gli sembrò che Dernhelm ridesse, e la sua limpida voce era come una vibrazione d’acciaio. «Ma io non sono un uomo vivente! Stai guardando una donna. Éowyn io sono, figlia di Éomund. Tu ti ergi fra me e il mio signore dello stesso mio sangue. Vattene, se non sei immortale! Viva o morente ti trafiggerò, se lo tocchi».
L’essere alato rispose strillando, ma lo Schiavo dell’Anello rimase silenzioso, come colto da un improvviso dubbio. Lo stupore sopraffece per un attimo la paura di Merry. Egli aprì gli occhi e l’oscurità scomparve. A pochi passi da lui sedeva la grossa bestia, e intorno ad essa tutto sembrava buio, e su di essa si ergeva il Signore dei Nazgûl come un’ombra di disperazione. Leggermente più a sinistra, di fronte alla bestia, era colei ch’egli aveva chiamato Dernhelm. Ma l’elmo che nascondeva il suo segreto era caduto e i luminosi capelli sciolti sulle spalle brillavano come pallido oro. I suoi occhi grigi come il mare erano duri e spietati, benché sulla sua guancia scorressero delle lacrime. Reggeva in mano una spada, difendendosi con lo scudo contro gli spaventosi occhi del nemico.
Era dunque Éowyn e Dernhelm al tempo stesso. Nella mente di Merry apparve nuovamente il ricordo del volto che aveva veduto partendo da Dunclivo: il volto di chi ormai senza speranza parte in cerca della morte. Il suo cuore si empì di pietà e di meraviglia, e ad un tratto il coraggio della sua razza, lento a sorgere, si destò. Strinse i pugni. Éowyn non doveva morire, così bella, così disperata! O comunque non doveva morire sola, senza aiuto.
Il viso del nemico non era rivolto verso di lui, e tuttavia osava appena muoversi per il terrore che lo sguardo micidiale cadesse su di lui. Incominciò pian piano a strisciare da una parte; mentre il Capitano Nero considerava, dubbioso e malvagio, la donna che gli si ergeva innanzi, e Merry non era per lui che un verme nel fango.
Ad un tratto l’orrida bestia batté le ali, e il loro vento era fetido. Quindi s’innalzò di nuovo in aria per poi piombare rapida su Éowyn, urlando e avventandosi con il becco e le grinfie.
Ma ella rimase immobile: fanciulla dei Rohirrim, figlia di re, esile ma come una lama d’acciaio, bella eppure terribile. Vibrò un abile colpo, rapido e micidiale. Squarciò il collo teso e la testa decapitata cadde come un sasso. Con un balzo Éowyn indietreggiò mentre l’enorme massa crollava accasciandosi per terra con le ali aperte; e mentre cadeva, l’ombra scomparve. La luce la circondò e i suoi capelli brillarono al sole sorgente.
Dalla carcassa della bestia si levò il Cavaliere Nero, imponente e minaccioso. Con un urlo di odio che lacerò le orecchie come una lama velenosa egli lasciò cadere la sua mazza. Lo scudo di Éowyn andò in mille frantumi e il suo braccio si ruppe; ella cadde in ginocchio. Il Nazgûl si curvò su di lei sovrastandola come una nube, e i suoi occhi scintillavano; alzò di nuovo la mazza, pronto a uccidere.
Ma all’improvviso anch’egli cadde in avanti con un terribile urlo di dolore, mancando il colpo e affondando la mazza nel terreno. La spada di Merry l’aveva trafitto alle spalle, squarciando il nero manto e la cotta di maglia, e colpendo il tendine del suo possente ginocchio.
«Éowyn! Éowyn!», gridò Merry. Ed ella, barcollando e cercando di alzarsi in piedi, raccolse tutte le forze che le rimanevano e infilò la spada fra la corona e il manto, mentre le grandi spalle si chinavano su di lei. La spada si ruppe in mille pezzi. La corona rotolò con fragore. Éowyn cadde in avanti sul corpo del nemico abbattuto. Ma stranamente il manto e la cotta di maglia erano vuoti. Giacevano per terra informi, laceri e ammonticchiati; un urlo si levò nell’aria vibrante, spegnendosi con una nota acuta, un lacerante lamento che scomparve con il vento, una voce senza corpo che si estinse e fu inghiottita e non si udì mai più in quell’era del mondo.
Meriadoc lo Hobbit era rimasto in piedi in mezzo ai feriti, sbattendo le palpebre come un gufo alla luce del giorno a causa delle lacrime che l’accecavano; attraverso un velo guardò la bella testa di Éowyn che giaceva immobile; e guardò il volto del re caduto nel colmo della gloria. Nevecrino nella sua agonia era rotolato via lungi dal suo padrone, e tuttavia era stato lui il colpevole della sua morte.
Allora Merry si chinò e prese la mano del suo signore per baciarla, ed ecco che Théoden aprì gli occhi ancora limpidi e parlò con voce calma ma con fatica.
«Addio Messere Holbytla!», disse. «Il mio corpo è a pezzi. Torno dai miei padri. Ma anche in loro compagnia non avrò da vergognarmi. Ho abbattuto il serpente nero. Un mattino spietato, un giorno felice, un tramonto dorato!».
Merry non riuscì a parlare per le lacrime. «Perdonatemi, sire», disse infine, «per aver disobbedito ai vostri ordini, e non aver saputo fare altro al vostro servizio che piangere nell’ora della nostra separazione».
Il vecchio re sorrise: «Non preoccuparti! Sei già perdonato. Non bisogna scoraggiare un grande cuore. Vivi ora e sii benedetto, e quando fumerai in pace la tua pipa pensami! Ormai non potrò più sedere con te a Meduseld, come promesso, e apprendere da te i segreti delle erbe». Chiuse gli occhi, e Merry si inginocchiò accanto a lui. Poi parlò ancora una volta. «Dov’è Éomer? I miei occhi si oscurano, ma vorrei vederlo prima di andarmene. Egli deve essere re dopo di me. E vorrei dargli un messaggio per Éowyn. Lei, lei non voleva che io la lasciassi, ed ora non rivedrò mai più colei che mi è più cara di una figlia».
«Sire, sire», cominciò a balbettare Merry, «ella è…»; ma in quel momento vi fu un gran clamore e tutto intorno a loro il suono di corni e di trombe. Merry levò gli occhi: aveva dimenticato la guerra e il resto del mondo, e sembravano trascorse molte ore da quando il re aveva galoppato verso la morte, benché di fatto non fosse passato che qualche minuto. Ma ora si accorse che correvano il pericolo di venire intrappolati nel mezzo di una grande battaglia che stava per cominciare.
Dalla strada del Fiume arrivavano in tutta fretta nuove forze del nemico, e dalle mura della Città gli eserciti di Morgul; e dai campi più a sud giungevano i fanti di Harad preceduti dalla cavalleria e seguiti dagli immensi mûmakil che trasportavano macchinari di guerra. Ma a nord la bianca criniera di Éomer guidava l’avanzata dei Rohirrim, da lui radunati e condotti; dalla Città giunsero tutti gli uomini di cui essa ancora disponeva, e il cigno argentato di Dol Amroth avanzava in testa, cacciando il nemico dal Cancello.
Per un attimo un pensiero balenò nella mente di Merry: «Dov’è Gandalf? Non dovrebbe essere qui? Non avrebbe potuto salvare il re ed Éowyn?». Ma in quell’istante arrivò galoppando Éomer, accompagnato dagli ultimi superstiti della scorta del re che avevano ripreso il comando dei loro cavalli. Guardarono stupefatti la carcassa dell’orrida bestia, ed i loro destrieri rifiutarono di avvicinarsi. Ma Éomer balzò di sella e dolore e costernazione si dipinsero sul suo volto quando si avvicinò al re, ed egli rimase immobile e in silenzio.
Allora uno dei cavalieri prese il vessillo del re dalla mano di Guthlél il vessillifero che giaceva morto sul campo, e lo sollevò da terra. Théoden aprì lentamente gli occhi. Vedendo il vessillo fece segno di darlo a Éomer. «Ti saluto, Re del Mark!», egli disse. «Cavalca ora verso la vittoria! Di’ addio ad Éowyn!». E così spirò, ignaro che Éowyn giaceva accanto a lui. Coloro che gli erano intorno piansero gridando: «Théoden Re! Théoden Re!».
Ma Éomer disse loro:
Non piangete troppo! Nobile colui che cadde,
Degna la sua morte. Davanti alla sua tomba
Donne singhiozzeranno. La guerra ora ci chiama!
Eppure egli stesso piangeva. «Che gli uomini della sua scorta rimangano qui», egli disse, «e portino via con onore il suo corpo dal campo, affinché la battaglia non lo calpesti! Sì, il suo e quello di tutti i suoi uomini che giacciono qui». Allora guardò i caduti, rammentando i loro nomi. Poi ad un tratto vide Éowyn, sua sorella, e la riconobbe. Fu come se una freccia l’avesse trafitto al cuore; il suo viso divenne bianco come la morte e in lui si levò una gelida furia che lo rese muto per qualche tempo. Un sentimento di morte s’impadronì di lui.
«Éowyn, Éowyn!», gridò infine. «Éowyn, come sei giunta tu sin qui? Quale follia o diabolico artifizio è questo? Morte, morte, morte! Che la morte ci prenda tutti!».
Poi senza attendere oltre, né aspettare l’arrivo degli uomini della Città, si lanciò a capofitto contro l’avanguardia dell’esercito nemico, e soffiando nel corno ordinò la carica. Su tutto il campo si udì la sua limpida voce gridare: «Morte! Galoppate, galoppate verso la rovina e la fine del mondo!».
E con queste parole l’esercito balzò in avanti. Ma i Rohirrim più non cantavano. Morte, gridavano con un’unica voce forte e terribile, e prendendo velocità come un’immensa marea spazzarono tutto ciò che circondava il loro re caduto e passarono come un turbine ruggendo verso sud.
E Meriadoc lo Hobbit era ancora lì in piedi, e sbatteva gli occhi per le lacrime, e nessuno gli rivolgeva la parola, nessuno sembrava addirittura accorgersi della sua presenza. Si asciugò le lacrime, e chinatosi a raccogliere lo scudo verde che Éowyn gli aveva dato, se lo mise in spalla. Poi cercò la spada che gli era caduta di mano: perché nel vibrare il colpo il suo braccio era rimasto come intorpidito, ed ora non poteva adoperare che la mano sinistra. Vide la sua arma per terra e, meraviglia! la lama fumava come un ramo secco gettato nel fuoco; ed egli che l’osservava la vide accartocciarsi, incenerirsi e scomparire.
Tale fu la fine della spada dei Tumulilande, forgiata nell’Ovesturia. Ma ben felice di conoscerne il destino sarebbe stato colui che l’aveva fabbricata anni ed anni addietro nel regno del Nord quando i Dùnedain erano ancora giovani, e il principale nemico era il terrificante regno di Angmar e il suo re negromante. Nessun’altra lama, anche se forgiata da mani più possenti, avrebbe procurato a un simile avversario una ferita così profonda, affondando nella carne viva e rompendo l’incantesimo che gli permetteva di rimarginare i propri tendini con la sola forza del volere.
Gli uomini sollevarono il re e, tesi dei manti su tronconi di spade, riuscirono a portarlo sino alla Città; altri alzarono, dolcemente Éowyn e camminarono dietro al corteo del re. Ma era impossibile allontanare dal campo anche gli uomini della scorta del re, poiché sette di essi erano caduti, e fra essi anche Déorwine, il loro capo. Allora, raggruppandoli lontano dai nemici e dall’orrida bestia, li circondarono con una palizzata di lance. E quando ebbero finito, gli uomini tornarono e fecero un grande fuoco, bruciando la carogna della bestia; ma per Nevecrino scavarono una fossa sulla quale fu messa una lapide che recava, nelle lettere di Gondor e del Mark, la seguente scritta:
Fedele servitore eppur rovina del padrone,
Nato da Pieleggero, Nevecrino è il suo nome.
E l’erba crebbe verde e lunga là ove era stato seppellito Nevecrino, ma il terreno rimase per sempre nero e spoglio nel luogo in cui avevano bruciato la bestia alata.
Lento e triste Merry accompagnava il corteo, noncurante della battaglia. Era sfinito e dolorante, e le sue membra tremavano come colte da brividi di freddo. Una grande pioggia venne dal Mare, e parve che ogni cosa piangesse Théoden ed Éowyn, estinguendo gli incendi nella Città con lacrime grigie. Poi come attraverso una nebbia vide a un tratto avvicinarsi l’avanguardia di Gondor. Imrahil, Principe di Dol Amroth, cavalcò sino a loro e arrestò il suo destriero.
«Quale fardello trasportate, Uomini di Rohan?», gridò.
«Théoden Re», essi risposero. «Egli è morto. Ma Éomer Re galoppa ora in mezzo alla battaglia, con la sua bianca criniera al vento».
Allora il principe smontò da cavallo e s’inginocchiò accanto alla bara in segno di riverenza per il re e il suo eroico assalto; e pianse. Ma alzandosi vide Éowyn e si meravigliò. «Non è questa forse una donna?», esclamò. «Sono dunque partite in guerra per difenderci anche le donne dei Rohirrim?».
«No! Una soltanto», risposero. «Ella è Dama Éowyn, sorella di Éomer; ignoravamo ch’ella fosse venuta, ed ora lo rimpiangiamo amaramente».
Allora il principe, vedendola così bella, nonostante il pallore del viso freddo, le prese la mano e si chinò per guardarla più da vicino. «Uomini di Rohan!», egli gridò. «Non vi è fra voi un medico? Ella è ferita, forse a morte, ma credo che viva ancora». Le avvicinò alle fredde labbra il lucido bracciale dell’armatura e, meraviglia! quando lo ritrasse era impercettibilmente appannato.
«Occorre fare in fretta», egli disse, e mandò in Città un veloce Cavaliere in cerca di soccorsi. Ma egli, chinatosi sui caduti, disse loro addio e rimontando a cavallo galoppò verso la battaglia.
Ora sui campi del Pelennor il combattimento infuriava, il fragore delle armi si mescolava alle grida degli uomini e al nitrire dei cavalli. Suonavano i corni e squillavano le trombe ed i mûmakil muggivano mentre venivano spinti nella battaglia. Sotto le mura meridionali della Città i fanti di Gondor attaccarono le legioni di Morgul che vi erano ancora radunate in gran numero. I cavalieri galopparono invece verso est a soccorrere Éomer: Hùrin l’Alto, Custode delle Chiavi, ed il Sire di Lossarnach, e Hirluin delle Verdi Colline, ed il Principe Imrahil il Bello circondato da tutti i suoi cavalieri.
Ma il loro aiuto non giunse troppo presto ai Rohirrim: la fortuna si era infatti rivoltata contro Éomer, e la sua furia l’aveva tradito. La violenza del suo assalto aveva letteralmente travolto il fronte nemico e interi drappelli di Cavalieri erano passati senza difficoltà attraverso le schiere dei Sudroni, sconfiggendone la cavalleria e facendo stragi della fanteria. Ma là dove si trovavano i mûmakil i cavalli si rifiutavano di andare, impennandosi e deviando, così che i grossi mostri rimanevano imbattibili, come torri di difesa, e gli Haradrim si riunivano intorno ad essi. E se gli Haradrim da soli erano tre volte più numerosi dei Rohirrim, ora la situazione peggiorò ancora, poiché nuove forze giunsero in grandi quantità da Osgiliath. Erano state lì riunite per saccheggiare la Città e distruggere Gondor al primo segnale del loro Capitano. Egli era ormai distrutto, ma Gothmog, il luogotenente di Morgul, li aveva tuttavia mandati a combattere; Esterling muniti di asce, Variag del Khand, Sudroni vestiti di rosso, e uomini neri simili a Troll, dagli occhi bianchi e la lingua rossa, giunti dal Lontano Harad. Alcuni si affrettavano ora a sorprendere i Rohirrim alle spalle, mentre altri si dirigevano a ovest per arrestare le truppe di Gondor e impedir loro di raggiungere quelle di Rohan.
Fu allora, quando le cose si mettevano male per Gondor e la speranza cominciava a vacillare, che un nuovo grido si levò nella Città; il mattino era a metà e un grande vento soffiava, mentre la pioggia batteva violenta verso nord e il sole brillava. In quell’aria limpida le sentinelle sulle mura videro in lontananza una nuova immagine terrificante, e la speranza li abbandonò del tutto.
L’Anduin scorreva in modo tale che dalla Città si riusciva a seguirne il percorso per qualche miglio, e gli uomini dalla vista più penetrante potevano persino vedere avvicinarsi una nave. E fu proprio guardando in quella direzione che tutti gridarono costernati; nera contro le acque scintillanti si distingueva una flotta sospinta dal vento: grosse navi dalla chiglia che affondava profondamente nell’acqua, con molti remi e con vele nere che svolazzavano al vento.
«I Corsari di Umbar!», gridarono gli uomini. «I Corsari di Umbar! Guardate! Stanno arrivando i Corsari di Umbar! Belfalas dunque è caduta, e così pure l’Ethir e il Lebennin. I Corsari ci assalgono! È l’ultimo colpo del destino!».
Ed alcuni, senza averne ricevuto l’ordine, poiché non vi era nessuno nella Città che li comandasse, corsero alle campane e suonarono l’allarme, mentre altri facevano squillare le trombe ordinando la ritirata. «Tornate alle mura!», gridarono. «Tornate alle mura! Venite in Città prima di essere tutti sconfitti!». Ma il vento che spingeva le navi dissipava il suono dei loro appelli.
I Rohirrim non avevano certo necessità di essere avvertiti. Vedevano fin troppo bene le vele nere. Éomer distava ora non più di un miglio dall’Harlond, e una grossa folla di avversari lo separava dal porto, mentre nuovi nemici arrivavano alle sue spalle, dividendolo dal Principe. E quando guardò il Fiume, nel suo cuore morì ogni speranza, ed egli maledisse il vento che prima aveva benedetto. Ma gli eserciti di Mordor si sentirono rincorati, e pieni di nuova furia e di brama si precipitarono urlando all’assalto.
Éomer era ritornato freddo e severo, e la sua mente era di nuovo limpida e chiara. Fece suonare i corni per radunare intorno al suo stendardo tutti gli uomini disponibili; pensava infatti di ergere un grande muro di scudi e di resistere in piedi, lottando fino alla fine, e compiere gesta che i menestrelli avrebbero cantate per molti anni, se alcuno fosse rimasto vivo in Occidente per ricordare l’ultimo Re del Mark. Cavalcò quindi sino a una verde collinetta e vi piantò il suo vessillo, e il Cavallo Bianco galoppò nel vento.
Dal dubbio e dalle tenebre verso il giorno galoppai,
E cantando al sole la spada sguainai.
Svanita ogni speme, lacero è il cuore:
Ci attende la collera, la rovina ed il notturno bagliore!
Recitò queste strofe, eppure le disse ridendo. Perché il desiderio di combattere si era nuovamente impadronito di lui, ed egli era illeso, ed era giovane, ed era Re: sovrano di un popolo spietato. E mentre rideva, nella disperazione mirò ancora le navi nere e alzò la spada in segno di sfida.
Ma ad un tratto fu colto da stupore e da una grande gioia. Lanciò in alto la spada nella luce del sole, e afferrandola al volo si mise a cantare. Tutti gli occhi seguirono il suo sguardo e, meraviglia! sulla prima nave si aprì un grande stendardo e il vento lo spiegò mentre essa si avvicinava al porto di Harlond. Tutti videro l’Albero Bianco, simbolo di Gondor, ma esso era circondato da Sette Stelle e sormontato da una corona, lo stemma di Elendil che nessuno ormai portava da innumerevoli anni. E le stelle sfavillavano alla luce del sole, perché erano gemme incastonate da Arwen figlia di Elrond, e la corona riluceva nel mattino, poiché era fatta di mithril e d’oro.
Così giunse Aragorn figlio di Arathorn, erede d’Isildur, dai sentieri dei Morti, sospinto dal vento del Mare sino al regno di Gondor; la felicità dei Rohirrim fu come un torrente di parole e di risa, e la gioia e lo stupore della Città si tradussero in una musica di trombe e uno squillare di campane. E gli eserciti di Mordor furono colti da stupore, e parve loro un’incredibile stregoneria che le loro navi fossero piene di nemici; un nero terrore li invase, sapendo che il vento del fato soffiava ora contro di loro e che la loro ora era vicina.
I cavalieri di Dol Amroth galopparono verso est, cacciando avanti il nemico: Troll, Variag e Orchi che odiavano il sole. Éomer galoppò verso sud, e tutti fuggivano al suo cospetto, e si trovavano prigionieri fra il martello e l’incudine. Dalle navi, una folla sbarcava sulle banchine dell’Harlond, riversandosi a nord come una marea. Ecco Legolas, e Gimli con la sua ascia, e Halbarad con lo stendardo, ed Elladan ed Elrohir con in fronte una stella, e tutti gli inflessibili Dùnedain, i Raminghi del Nord, alla testa di un grande e valoroso esercito composto di uomini del Lebennin, del Lamedon e dei feudi del Sud. Davanti a tutti marciava Aragorn con la Fiamma dell’Ovest, Andùril, che sfavillava come fuoco appena acceso, Narsil forgiata di nuovo e micidiale come in passato. Sulla sua fronte brillava la Stella di Elendil.
E così finalmente Éomer e Aragorn si incontrarono nel mezzo della battaglia, e appoggiandosi ciascuno alla propria spada si guardarono negli occhi e furono felici.
«Ecco che c’incontriamo nuovamente, benché tutti gli eserciti di Mordor ci separassero», disse Aragorn. «Non te lo avevo forse detto, quando eravamo nel Trombatorrione?».
«Tali furono le tue parole», disse Éomer, «ma spesso la speranza inganna, ed io non sapevo allora che tu fossi dotato di potere premonitore. Due volte benedetto sia l’aiuto insperato, e mai incontro d’amici fu più felice». Si strinsero forte la mano. «Né più tempestivo», soggiunse Éomer. «Giungi proprio in tempo, amico. Molte perdite e grandi dolori ci hanno colpiti».
«Allora vendetta sia fatta, ancor prima di parlarne!», disse Aragorn, e galopparono insieme in direzione della battaglia.
Duri furono gli scontri che seguirono; i Sudroni erano uomini coraggiosi e decisi, e resi violenti dalla disperazione; e gli Esterling erano forti e induriti dalla guerra e certo non disposti a implorare pietà. E quindi, qua e là, nei pressi di un granaio o di una stalla, su una collina o un tumulo, continuavano a riunirsi, a radunarsi per combattere sino al calare del giorno.
Il Sole scomparve infine dietro il Mindolluin empiendo il cielo di un grande incendio, e tingendo tutti i colli e le montagne di un rosso di sangue; il Fiume ardeva come fuoco, e l’erba del Pelennor si stendeva rossa nel crepuscolo. A quell’ora terminò la grande battaglia del campo di Gondor, ed entro la cerchia del Rammas non rimase un solo nemico vivente. Erano stati uccisi tutti, eccetto quelli fuggiti in cerca della morte, o destinati ad affogare nella rossa schiuma del Fiume. Ben pochi tornarono a Morgul e a Mordor, e nella terra degli Haradrim non giunse che una lontana storia: l’eco della collera e del terrore di Gondor.
Aragorn, Éomer ed Imrahil tornarono al Cancello della Città, e la loro stanchezza era più grande di qualunque gioia e tristezza. Erano tutti e tre illesi, perché tale era la loro fortuna e la destrezza e potenza del loro braccio che pochi avevano ardito affrontarli o persino mirare i loro volti nell’ora della collera. Ma molti altri erano morti sul campo, o mutilati, o feriti. Le asce avevano abbattuto Forlong che combatteva solo e senza cavallo; e sia Duilin di Morthond sia suo fratello erano stati calpestati e uccisi mentre assalivano i mûmakil, conducendo i loro arcieri in prossimità dei mostri per meglio colpirne gli occhi. Né Lerluin il Bello sarebbe tornato a Pinnath Gelin, né Grimbold a Grimslade, né Halbarad nelle Terre del Nord, lui Ramingo dalla mano inflessibile. Non erano pochi i caduti, famosi o ignoti, capitani e soldati, perché grande era stata la battaglia e nessuna storia ancora ne ha mai dato la completa descrizione. E così molti anni dopo a Rohan un menestrello narrava nel suo canto dei Tumuli di Mundburg:
Udimmo squillare i corni nei colli,
Brillavan le spade nel regno del Sud.
Al galoppo i cavalli verso Pietralanda
Come vento al mattino. Scoppiava la guerra.
Lì cadde Théoden, possente figlio di Thengel,
E palazzi dorati e verdi pianure
Del reame del Nord non lo rividero,
Grande e nobile sire. Harding e Guthlaf,
Dùnhere e Déorwine, il valoroso Grimbold,
Horn e Fastred, Herefara e Herubrand,
Combattendo caddero in terra lontana:
Nei Tumuli di Mundburg giaccion sotto l’erba,
Accanto ai compagni, signori di Gondor.
Né Hirluin il Bello ai colli sul mare,
Né Forlong il Vecchio alle valli fiorite
In gloria e trionfo tornarono.
E mai più rividero gli alti arcieri
Derufin e Duilin, del Morthond le scure acque,
All’ombra delle montagne.
Morte al mattino ed al calar del giorno
Colse gli eroi. Dormiranno a lungo
Sotto l’erba presso il Grande Fiume.
Ora scorre grigio e splende come argento,
Allora scrosciava come acque ruggenti:
Ardeva di sangue la schiuma al tramonto,
Come roghi avvampavano i monti nella sera;
Rossa la rugiada nel Rammas Echor.
Quando l’ombra scura si ritirò dal Cancello, Gandalf rimase lì immobile. Ma Pipino si alzò, come se gli fosse stato tolto di dosso un grande peso; ascoltando il suono dei corni gli pareva che il suo cuore scoppiasse dalla gioia. E mai più seppe udire un corno squillare in lontananza senza versare una lacrima. Ma ora improvvisamente gli tornò in mente la sua missione, ed egli corse avanti. In quel momento Gandalf si mosse, disse qualcosa a Ombromanto e si preparò a varcare il Cancello. «Gandalf, Gandalf!», gridò Pipino, e Ombromanto si fermò. «Che fai qui?», disse Gandalf. «Non stabilisce forse la legge della Città che coloro che vestono di nero e d’argento devono restare nella Cittadella, a meno che il loro signore non dia loro il permesso di allontanarsi?».
«Me lo ha dato», disse Pipino. «Mi ha mandato via. Ma io ho paura. Qualcosa di terribile può accadere lassù. Sire Denethor mi sembra fuori di sé. Temo che si uccida, ed uccida al tempo stesso Faramir. Non puoi fare qualcosa?».
Gandalf guardò attraverso il Cancello diruto, e già si udiva nei campi il rumore della battaglia. Strinse i pugni. «Devo andare», disse. «Il Cavaliere Nero è in giro, e porterà rovina su di noi. Non ho tempo».
«Ma Faramir!», gridò Pipino. «Non è morto, e lo bruceranno vivo se qualcuno non l’impedisce».
«Bruciarlo vivo?», ripeté Gandalf. «Che storia è questa? Sii rapido!».
«Denethor è andato alle Tombe», disse Pipino, «e si è portato Faramir, e dice che dobbiamo bruciare tutti, e che lui non vuole aspettare, e ha ordinato di accendere un rogo e di bruciarlo insieme con Faramir. Ha mandato gli uomini in cerca di legna e di olio. Io l’ho detto a Beregond, ma temo che non oserà lasciare il suo posto, poiché è di guardia. E comunque che cosa può fare lui?». Così dalla bocca di Pipino rotolò fuori la sua storia; poi l’Hobbit si avvicinò a Gandalf, e toccandogli il ginocchio con mano tremante: «Non puoi salvare Faramir?», gli chiese.
«Forse posso», disse Gandalf; «ma se lo faccio, altri morranno, purtroppo. Ebbene, devo venire, poiché non potrà avere altro aiuto. Ma ciò sarà causa di eventi nefasti e di dolore. Persino nel cuore della nostra fortezza il Nemico possiede armi capaci di colpirci: questa infatti è una conseguenza del suo volere».
Poi, avendo preso una decisione agì rapidamente. Afferrò Pipino e lo mise sul cavallo innanzi a sé, dando quindi a Ombromanto il segnale di partenza. Galopparono su per le ripide vie di Minas Tirith, mentre alle loro spalle cresceva il rumore della battaglia. Dappertutto si vedevano uomini scrollarsi di dosso paura e disperazione e afferrare le armi gridando: «È arrivato Rohan!». I capitani urlavano, le compagnie venivano radunate e già molte di esse marciavano verso il Cancello.
Incontrarono il Principe Imrahil, ed egli li chiamò: «E adesso dove vai, Mithrandir? I Rohirrim combattono sui campi di Gondor! Dobbiamo radunare tutte le forze di cui disponiamo».
«Avrai bisogno di tutti gli uomini e anche di più», disse Gandalf. «Affrettati. Verrò non appena possibile. Ma ho un compito presso Sire Denethor che non può attendere oltre. Prendi tu il comando in assenza del sovrano!».
Continuarono a galoppare, e man mano che salivano e si avvicinavano alla Cittadella sentivano il vento soffiare sui loro visi, e colsero in lontananza il pallido bagliore del mattino, una luce che cresceva nel cielo del Sud. Ma recò loro poca speranza, poiché temevano di giungere troppo tardi e di trovare chissà quale sventura.
«L’oscurità sta per andarsene», disse Gandalf, «ma sovrasta ancora assai fitta la Città».
Al cancello della Cittadella non trovarono guardie. «Allora Beregond è andato là», disse Pipino speranzoso. Percorsero rapidamente la strada che conduceva alla Porta Chiusa. Questa era spalancata e il portinaio giaceva sulla soglia. Era stato ucciso e derubato della chiave.
«Opera del Nemico!», disse Gandalf. «Ama molto questo genere di azioni: amico contro amico e lealtà trasformata in confusione». Scese da cavallo e pregò Ombromanto di tornare alla scuderia. «Amico mio», gli disse, «tu ed io avremmo dovuto ormai da tempo galoppare sul campo di battaglia, ma altre questioni mi trattengono. Tu però torna velocemente, se ti chiamo».
Varcarono la Porta e scesero per l’erta e sinuosa via. La luce aumentava, e le alte colonne e le figure scolpite passavano silenziose lungo la strada come fantasmi grigi.
Ad un tratto il silenzio fu interrotto, e udirono dal basso grida e fragore di spade: simili rumori non si erano mai uditi in quei luoghi profondi sin dalla costruzione della Città. Arrivarono finalmente a Rath Dinen e si precipitarono verso la Casa dei Sovrintendenti, che si ergeva nel bagliore crepuscolare sotto la grande volta.
«Fermi! Fermi!», gridò Gandalf correndo verso la scala di pietra che conduceva alla porta. «Fermate questa pazzia!».
Sulla scala infatti vi erano i servitori di Denethor con spade e torce; solo, in piedi sull’ultimo gradino, si ergeva Beregond, vestito di nero e argento simbolo delle Guardie, ed impediva loro di varcare la soglia. Già due di essi erano caduti sotto i colpi della sua spada, macchiando i gradini del loro sangue; gli altri lo maledicevano, chiamandolo fuorilegge e traditore del proprio padrone.
E mentre Gandalf e Pipino balzavano innanzi udirono dall’interno della Casa dei Morti la voce di Denethor che gridava: «Presto, Presto! Fate ciò che vi ordino! Uccidete questo rinnegato! O devo farlo io stesso?». Ed in quell’istante la porta che Beregond teneva socchiusa con la mano sinistra fu spalancata con violenza, mentre dietro di lui si vide ergersi il Sire della Città, alto e crudele; una luce avvampava come fuoco nei suoi occhi, ed egli teneva in mano una spada sguainata.
Ma Gandalf con un salto fu in cima alle scale e gli uomini caddero riversi coprendosi gli occhi, perché il suo arrivo era come la venuta improvvisa di una luce bianca in un luogo oscuro, e grande era il suo furore. Alzò la mano e d’un colpo la spada di Denethor volò per aria e sfuggendogli di mano cadde alle sue spalle nell’ombra della casa; e Denethor indietreggiò alla vista di Gandalf, come stupefatto.
«Che significa tutto ciò, mio sire?», disse lo stregone. «Le case dei morti non sono fatte per i vivi. E perché gli uomini lottano qui nei luoghi sacri mentre imperversa la guerra innanzi al Cancello? O forse il Nemico è giunto sino a Rath Dinen?».
«Da quando in qua il Signore di Gondor è tenuto a rispondere delle sue azioni?», disse Denethor. «O non ho forse il diritto di comandare ai miei servitori?».
«Ne hai il diritto», rispose Gandalf, «ma gli altri hanno il diritto di opporsi al tuo volere, quando significa pazzia e infamia. Dov’è tuo figlio Faramir?».
«Giace lì dentro», disse Denethor, «sta bruciando, sta già bruciando. Hanno messo fuoco nella sua carne. Ma presto tutto verrà bruciato. L’Occidente soccombe. Avvamperà un enorme incendio e tutto scomparirà. Cenere! Cenere e fumo dispersi dal vento!».
Allora Gandalf, vedendo la follia che si era impadronita di lui e temendo che avesse già compiuto qualche tremendo gesto, si precipitò all’interno seguito da Pipino e da Beregond, mentre Denethor fu costretto a cedere. Trovarono così Faramir ancora in preda a una febbre delirante, steso sul tavolo. Della legna era accatastata sotto di esso e tutto intorno, ed ogni cosa era impregnata d’olio, persino le vesti di Faramir e le coperte; ma ancora il fuoco non era stato appiccato. Allora Gandalf rivelò la forza nascosta in lui, così come la luce del suo potere era nascosta sotto il suo manto grigio. Con un balzo saltò sui cumuli di legna e, sollevando con facilità il malato, balzò nuovamente a terra reggendolo, in direzione della porta. Ma nel far ciò Faramir emise un lamento e chiamò suo padre in sogno.
Denethor trasalì come chi si risveglia dall’ipnosi, ed il fuoco si spense nei suoi occhi; egli pianse e disse: «Non portatemi via mio figlio! Egli mi chiama».
«Egli chiama», disse Gandalf, «ma ancora non puoi andare da lui. Egli è sulle soglie della morte e deve cercare di guarire, anche se forse non vi riuscirà. Ma il tuo compito è di recarti a combattere per la tua Città, ed incontrarvi forse la morte. E tu sai tutto ciò in fondo al cuore».
«Egli non si risveglierà», disse Denethor. «La battaglia è vana. Perché desiderare di vivere ancora? Perché non avviarci verso la morte a fianco a fianco?».
«Non hai l’autorità, Sovrintendente di Gondor, di stabilire l’ora della tua morte», rispose Gandalf. «Solo i re schiavi dell’Oscuro Potere si comportavano nella loro empietà in questo modo, suicidandosi in preda all’orgoglio e alla disperazione, assassinando i loro cari per facilitare la propria morte». Poi, varcando la soglia e portando via Faramir dalla nefanda dimora, lo stese sulla barella sulla quale era stato trasportato prima, e che giaceva abbandonata innanzi alla casa. Denethor lo seguì e rimase in piedi tremante, guardando con occhi avidi il volto del figlio. E improvvisamente, mentre tutti immobili e silenziosi osservavano il Sire scosso dalle sue sofferenze, questi vacillò.
«Coraggio!», disse Gandalf. «Hanno bisogno di noi. Puoi ancora fare molte cose».
Allora d’un tratto Denethor scoppiò a ridere. Si erse di nuovo alto e fiero, e tornato rapidamente accanto al tavolo, alzò il cuscino sul quale aveva poggiato il capo. Poi si avvicinò alla porta e scoprì ciò che teneva in mano: un palantir! E mentre lo reggeva, coloro che lo osservarono ebbero l’impressione che la sfera cominciasse ad ardere internamente, tanto che il viso di Sire Denethor era come illuminato da un rosso bagliore di fuoco, e parve scolpito nella dura pietra, pieno di angoli e di ombre nere, nobile, orgoglioso e terribile. I suoi occhi sfavillavano.
«Orgoglio e disperazione!», gridò. «Credevi forse che gli occhi della Torre Bianca fossero ciechi? No, ho veduto più di quanto tu non sappia, Grigio Stolto. La tua speranza non è che ignoranza. Va’ dunque, datti da fare per sanare gli altri! Va’ a combattere! Vanità. Per breve tempo forse trionferai sul campo, per un giorno. Ma contro il Potere che sta sorgendo non esiste speranza di vittoria. Quello ch’egli ha teso verso questa Città non è che un solo dito. Tutto l’Oriente è in movimento. E proprio in questo momento il vento in cui hai tanto sperato ti tradisce, e sospinge sull’Anduin una flotta dalle vele nere. L’Occidente soccombe. È ora che tutti coloro che non vogliono divenire schiavi se ne vadano per sempre».
«Simili decisioni non potranno che rendere certa la vittoria del Nemico», disse Gandalf.
«Continua a sperare, allora!», esclamò ridendo Denethor. «Forse non ti conosco, Mithrandir? La tua speranza è di governare al mio posto, di essere dietro ogni trono, a nord, a sud, a ovest. Ho letto la tua mente ed i suoi raggiri. Non so forse che ordinasti a questo Mezzuomo di mantenere il silenzio? Che l’hai portato qui per spiarmi sin dentro la mia stanza? Eppure nel corso della nostra conversazione ho appreso il nome e lo scopo di ognuno dei tuoi compagni. E così con la mano sinistra vorresti servirti di me per qualche tempo come scudo contro Mordor, mentre con la mano destra intendi portare qui questo Ramingo del Nord a soppiantarmi.
«Ma sappi, Gandalf Mithrandir, che io non voglio essere uno strumento nelle tue mani. Io sono un Sovrintendente della Casa di Anàrion. Non voglio abbassarmi a divenire lo stupido ciambellano di un nuovo venuto. Anche s’egli mi provasse il suo diritto, potrebbe dimostrare soltanto di discendere dalla linea d’Isildur. Non cederò innanzi a un uomo simile, l’ultimo di una cenciosa dinastia priva da tempi immemorabili di nobiltà e dignità».
«Allora tu che cosa vorresti», disse Gandalf, «se potessi realizzare la tua volontà?».
«Vorrei che ogni cosa tornasse ad essere com’era durante tutta la mia vita», rispose Denethor, «ed ai tempi dei miei avi: essere il Signore di questa Città e governare in pace, e lasciare il mio seggio a mio figlio, padrone di se stesso e non allievo di uno stregone. Ma se il fato mi nega tutto ciò, allora preferisco non avere nulla: né la vita diminuita, né l’amore dimezzato, né l’onore distrutto».
«A me non sembra che un Sovrintendente il quale ceda fedelmente il proprio incarico veda diminuire l’amore o l’onore», disse Gandalf. «Ed in ogni modo non priverai tuo figlio del diritto di scegliere, poiché la sua morte non è certa».
All’udire quelle parole gli occhi di Denethor fiammeggiarono nuovamente; tenendo stretta la Pietra sotto un braccio estrasse un pugnale e si avvicinò a grandi passi alla barella. Ma Beregond balzò avanti erigendosi di fronte a Faramir.
«È così!», gridò Denethor. «Avevi già rubato la metà del cuore di mio figlio. Ora t’impadronisci anche del cuore dei miei servitori che finiscono per rubarmi interamente mio figlio. Ma in una cosa almeno non sfiderai la mia volontà: deciderò io la mia fine.
«Venite qui!», gridò ai servitori. «Venite, se non siete tutti traditori!». Allora due di essi salirono di corsa i gradini. Egli afferrò rapidamente la torcia che uno dei due reggeva e corse all’interno della casa. Prima che Gandalf potesse impedirglielo, lanciò il tizzone sulla legna che prese subito fuoco, avvampando e scricchiolando.
Poi Denethor balzò sul tavolo, e in piedi, tra il fuoco e il fumo, prese il bastone di Sovrintendente che giaceva ai suoi piedi e lo spezzò contro il ginocchio. Poi, lanciati i pezzi nel fuoco, si chinò e si distese sul tavolo, stringendosi sul petto con ambedue le mani il palantir. E si dice che da quel momento, quando qualcuno scrutò all’interno di quella Pietra senza possedere una tale forza di volontà da adoperarla a qualche altro fine, non riuscì a vedere altro che due vecchie mani corrose dalle fiamme.
Gandalf voltò la testa, colto da orrore e costernazione, e chiuse la porta. Rimase per qualche tempo immobile, immerso nei propri pensieri, silenzioso, mentre dall’esterno già si udiva il furente ruggito delle fiamme entro la casa. Poi Denethor lanciò un terribile grido e non parlò più, e non fu mai più veduto da alcun mortale.
«Così è scomparso Denethor, figlio di Ecthelion», disse Gandalf. Poi si volse verso Beregond e verso i servitori che guardavano sconvolti. «E così scompaiono anche i giorni di Gondor che voi tutti avete conosciuti: bene o male che sia, sono terminati per sempre. Sono state compiute azioni malvagie in questi luoghi, ma ora accantonate ogni rancore fra di voi, perché il Nemico ne è la causa e tutto ciò serve ai suoi scopi. Siete stati presi in una rete di doveri inconciliabili, e non siete stati voi a tesserla. Ma pensate, servitori del Sire, ciechi nella vostra obbedienza, che se non fosse stato per il tradimento di Beregond, a quest’ora Faramir, Capitano della Torre Bianca, starebbe ardendo anche lui.
«Portate via da questi luoghi infausti i vostri compagni caduti. Noi porteremo Faramir, Sovrintendente di Gondor, in un luogo ove possa dormire in pace, o morire, se tale è il suo destino».
Allora Gandalf e Beregond sollevarono la barella per portarla alle Case di Guarigione, mentre dietro di loro Pipino camminava a testa bassa. Ma i servitori rimasero come paralizzati a fissare la casa dei morti; e quando Gandalf ebbe raggiunto la sommità di Rath Dinen si udì un gran fragore. Voltandosi a guardare videro il tetto della casa leso da mille fessure dalle quai si sprigionava il fumo; poi, con un rombo e un boato, tutto crollò in un divampare di fuoco; ma le fiamme continuarono a danzare qua e là fra le macerie. Colti dal terrore i servitori fuggirono al seguito di Gandalf.
Giunsero infine alla porta del Sovrintendente, e Beregond guardò con rammarico il portinaio. «Rimpiangerò per sempre questo mio gesto», disse; «ma ero folle per la fretta ed egli non voleva udir ragioni, e sguainò la spada contro di me». Poi, con la chiave ch’egli aveva tolta al portinaio, chiuse la porta e la sprangò. «Questa dovrebbe ora essere affidata a Sire Faramir», disse.
«Il Principe di Dol Amroth ha il comando in assenza del sovrano», disse Gandalf; «ma poiché non è qui, tocca a me prendere questa decisione. Ti prego di tenere la chiave e di custodirla finché la Città non sarà di nuovo in ordine».
Raggiunsero le cerchie più alte della Città e si avviarono nella luce del mattino verso le Case di Guarigione; erano, queste, piacevoli dimore destinate alla cura dei malati gravi, ma ora accoglievano gli uomini feriti in battaglia o moribondi. Si trovavano non lungi dal Cancello della Cittadella, nella sesta cerchia, in prossimità della parte meridionale delle mura, ed erano circondate da un giardino e da un prato alberato, l’unico luogo del genere in tutta la Città. Ivi dimoravano le poche donne a cui era stato permesso di rimanere a Minas Tirith, perché erano abili nell’aiutare o nel servire coloro che curavano.
Ma mentre Gandalf e i suoi compagni giungevano con la barella alla porta principale delle Case, udirono un grande grido innalzarsi dal campo davanti al Cancello, e lacerare l’aria con una nota acuta e sibilante, e poi svanire nel vento. Fu un urlo talmente terribile che tutti rimasero per un attimo immobili, ma quando si fu spento sentirono all’improvviso i cuori empirsi di speranza, una speranza che non conoscevano ormai più da quando l’oscurità era giunta da oriente; ed ebbero l’impressione che la luce fosse divenuta più chiara e il sole avesse fatto capolino fra le nubi.
Ma il viso di Gandalf era grave e triste, e pregando Beregond e Pipino di portare Faramir nelle Case di Guarigione, salì sulle vicine mura; pareva una bianca figura scolpita mentre immobile nel nuovo sole scrutava lontano. E con la vista acuta che gli era stata data vide tutto ciò che era accaduto; e quando Éomer, abbandonata la battaglia, si avvicinò a coloro che giacevano sul campo, trasse un profondo sospiro e avviluppandosi di nuovo nel grigio manto si allontanò dalle mura. Beregond e Pipino lo trovarono in piedi, sulla soglia delle Case, immerso nei suoi pensieri.
Essi lo guardarono, e per qualche tempo egli rimase silenzioso. Ma infine parlò. «Amici», disse, «e voi tutti abitanti di questa Città e delle terre dell’Ovest! Sono accaduti fatti che produrranno grande fama ma grande dolore. Dobbiamo piangere o essere contenti? Il Capitano dei nostri nemici è stato irrimediabilmente distrutto, e voi avete udito l’eco del suo ultimo grido disperato. Ma, ahimè, non se n’è andato senza recare sventure e perdite amare! Ed io avrei potuto impedirle, se non vi fosse stata la follia di Denethor. Com’è diventato lungo il braccio del Nemico! Ora comprendo purtroppo come la sua volontà sia potuta penetrare sin nel cuore di questa Città.
«Benché i Sovrintendenti credessero che fosse un segreto noto soltanto a loro, da molto tempo sapevo che qui nella Torre Bianca, come ad Orthanc, era custodita una delle Sette Pietre. Nei suoi giorni di saggezza Denethor non immaginò di adoperarla, né disfidare Sauron, conoscendo i limiti delle proprie forze. Ma la sua saggezza venne a mancare; e temo che quando crebbe il pericolo per il suo reame, egli guardò nella Pietra e fu ingannato; ciò accadde più di una volta, credo, dopo la partenza di Boromir. Denethor era troppo grande per venire assoggettato al volere dell’Oscuro Potere, ma vide soltanto le cose che questi gli permise di vedere. Ciò che apprese gli fu indubbiamente più volte utile; ma la visione dell’enorme potenza di Mordor che gli veniva ripetutamente mostrata alimentò nel suo cuore la disperazione, a tal punto da sconvolgergli la mente».
«Ora comprendo ciò che allora mi parve tanto strano!», disse Pipino, rabbrividendo al pensiero dei propri ricordi. «Sire Denethor lasciò la stanza ove giaceva Faramir; e al suo ritorno mi parve che si fosse trasformato, che fosse a un tratto diventato vecchio e curvo».
«E proprio all’ora in cui Faramir venne portato alla Torre molti di noi videro una strana luce nella stanza più alta», disse Beregond. «Ma l’abbiamo veduta altre volte, e voci corrono nella Città che sovente Sire Denethor lottasse con la mente contro il Nemico».
«Ahimè! Ho dunque indovinato la verità», disse Gandalf. «È così che la volontà di Sauron riuscì a penetrare a Minas Tirith, ed è per questo motivo che sono stato trattenuto qui. E sarò costretto a rimanere qui ancora, perché presto avrò da badare ad altri che Faramir.
«Ora devo andare incontro a coloro che stanno arrivando. Ho visto sul campo qualcosa che mi ha procurato molto dolore, e forse ci attendono ancora altre pene. Vieni con me, Pipino! Ma tu, Beregond, dovresti tornare alla Cittadella e raccontare al capo della Guardia ciò che è accaduto. Purtroppo sarà suo dovere escluderti dalla Guardia; ma digli che, se mi è permesso dargli un consiglio, dovresti essere inviato alle Case di Guarigione, per essere custode e servitore del tuo capitano, e trovarti al suo fianco quando si desterà…, se mai dovesse accadere. Perché fosti tu a salvarlo dalle fiamme. Va’, ora! Io tornerò presto».
E detto ciò si diresse, accompagnato da Pipino, verso la parte inferiore della città. E mentre acceleravano il passo il vento portò una pioggia grigia, ed i fuochi si estinsero; innanzi a loro si levò un grande fumo.
Mentre si avvicinavano alle rovine del Cancello di Minas Tirith, Merry sentì gli occhi appannarsi dalle lacrime e dalla stanchezza. Notò appena la distruzione e la strage tutt’intorno. L’aria era impregnata di fuoco, di fumo, di tanfo; molte macchine erano state bruciate o gettate nelle trincee di fuoco, e molti caduti avevano fatto la medesima fine; qua e là giacevano le carcasse dei grandi mostri dei Sudroni, arsi a metà, o abbattuti a sassate, o colpiti negli occhi dai valorosi arcieri di Morthond. La pioggia cessò per qualche tempo e il sole brillò in cielo; ma tutta la parte bassa della Città era ancora immersa nei vapori e nelle esalazioni.
Degli uomini lavoravano già per aprire un varco attraverso macerie e rottami, e dal Cancello ne giunsero alcuni con delle lettighe. Adagiarono dolcemente Éowyn su soffici cuscini, ma coprirono il corpo del re con un grande lenzuolo dorato e avanzarono reggendo intorno a lui delle fiaccole, la cui fiamma, pallida nella luce del sole, oscillava al vento.
Così Théoden ed Éowyn giunsero nella Città di Gondor, e coloro che li videro si scoprirono il capo inchinandosi; ed essi attraversarono la cenere e il fumo della cerchia incendiata, e percorsero le ripide strade di pietra. A Merry la salita pareva interminabile, un viaggio senza scopo in un incubo odioso, sempre più avanti, sino a finire nell’informe senza ricordi.
Pian piano le luci delle fiaccole innanzi a lui vacillarono e si spensero, ed egli camminava al buio; si disse: «Questa è una galleria che ci conduce a una tomba, ove rimarremo per sempre». Ma improvvisamente il suo sogno fu interrotto da una voce viva.
«Ebbene, Merry! Ringraziamo il cielo che ti ho trovato!».
Egli levò lo sguardo e la nebbia davanti ai suoi occhi parve diradarsi. Innanzi a sé vide Pipino! Erano in piedi uno di fronte all’altro in uno stretto sentiero, ove non passava anima viva. Si strofinò gli occhi.
«Dov’è il re?», disse. «Ed Éowyn?». Poi inciampò, si sedette sulla soglia di una porta e ricominciò a piangere.
«Sono saliti nella Cittadella», disse Pipino. «Credo che tu ti sia addormentato in piedi, ed abbia sbagliato strada. Quando ci siamo accorti che non eri con loro, Gandalf mi ha mandato a cercarti. Povero vecchio Merry! Come sono contento di rivederti! Ma sei sfinito, e non ti seccherò con le mie chiacchiere. Ma dimmi, sei ferito o sofferente?».
«No», disse Merry. «Insomma, non mi pare. Ma non posso adoperare il braccio destro, Pipino, da quando ho colpito quello lì. E la mia spada è diventata cenere come fosse un pezzo di legno».
Il viso di Pipino si fece ansioso. «È meglio che tu venga con me al più presto», disse. «Se almeno riuscissi a portarti in braccio! Non sei in grado di camminare. Non avrebbero assolutamente dovuto lasciarti camminare, ma li devi perdonare. Sono successe tante cose così terribili nella Città, Merry, che è facile che un povero Hobbit tornato dalla battaglia passi inosservato».
«Non è sempre una sfortuna passare inosservato», disse Merry. «Proprio adesso mi è successo di… no, non posso parlarne. Aiutami, Pipino! Sta diventando di nuovo tutto buio, ed il mio braccio è freddo».
«Appoggiati a me, Merry mio!», disse Pipino. «Coraggio! Un piede dopo l’altro. Non è lontano».
«Mi volete seppellire?», disse Merry.
«No davvero!», disse Pipino cercando di sembrare allegro, benché il suo cuore fosse invaso da timore e da pietà. «No, stiamo andando alle Case di Guarigione».
Lasciarono il sentiero fiancheggiato da alte case e dalle mura esterne della quarta cerchia, e raggiunsero la strada principale che conduceva alla Cittadella. Avanzarono un passo dopo l’altro, mentre Merry ondeggiava mormorando come nel sonno.
«Non riuscirò mai a portarlo sin lassù», si disse Pipino. «Non vi è nessuno che possa aiutarmi? Non posso abbandonarlo qui!». Proprio in quel momento un ragazzo arrivò correndo alle loro spalle, e quando li ebbe oltrepassati Pipino riconobbe Bergil, il figlio di Beregond.
«Salve, Bergil!», gridò. «Dove stai andando? Sono contento di rivederti, e vivo per giunta!».
«Sto facendo delle commissioni per conto dei Guaritori», rispose Bergil. «Non posso fermarmi».
«Non ti fermare», disse Pipino. «Ma di’ loro che ho con me un Hobbit ferito, un perian, bada bene, di ritorno dalla battaglia. Non credo che ce la faccia a camminare sino a lì. Se Mithrandir è da quelle parti sarà contento di ricevere il messaggio». Bergil continuò la sua corsa.
«È meglio ch’io aspetti qui», pensò Pipino. Lasciò che Merry si accasciasse lentamente sul selciato in un punto assolato, e poi si sedette accanto a lui, appoggiando la testa dell’amico sulle proprie ginocchia. Gli palpò il corpo e le membra delicatamente, e gli prese le mani. Quella destra era gelida.
Non passò molto tempo che Gandalf in persona venne a cercarli. Si curvò su Merry e gli accarezzò la fronte, poi lo sollevò con delicatezza. «Avrebbe dovuto essere trasportato con grande onore in questa Città», egli disse. «Ha degnamente corrisposto alla mia fiducia; se Elrond non avesse ceduto al mio desiderio, nessuno di voi due avrebbe intrapreso questo viaggio, e le nefandezze di questi giorni sarebbero state ancora più terribili». Sospirò. «Ecco però un altro peso nelle mie mani, mentre le sorti della battaglia tardano a decidersi».
Così finalmente Faramir, Éowyn e Meriadoc giacquero nelle Case di Guarigione e furono curati nel migliore dei modi. Benché ogni scienza tradizionale avesse perduto ormai molto dell’antica perfezione, l’arte medica di Gondor era tuttavia ancora assai profonda, ed abile nel guarire sofferenti e feriti e qualunque tipo di malattia conosciuta dai mortali che vivevano ad est del Mare, eccetto la vecchiaia. Per essa non avevano trovato cura, e la loro vita era appena più lunga di quella degli altri uomini, e coloro che passavano i cento anni ancora forti e vigorosi erano rari, salvo che nelle casate di sangue più puro. Ma ora la loro arte e la loro scienza erano confuse e perplesse: vi erano infatti molti che soffrivano di un male insanabile, ed essi lo chiamavano l’Ombra Nera, perché proveniva dai Nazgûl. E coloro che ne erano colpiti piombavano lentamente in un delirio sempre più profondo per poi passare al silenzio, a un freddo micidiale, e infine alla morte. Ed a coloro che curavano i malati parve che il Mezzuomo e la Dama di Rohan fossero stati duramente colpiti da quel male. A volte nel corso della mattinata li udirono parlare, mormorando in sogno, ed i presenti ascoltavano attentamente tutto ciò che dicevano, sperando forse di apprendere qualcosa che permettesse di scoprire la causa del male. Ma presto li videro immergersi nell’oscurità, e man mano che il sole volgeva a occidente un’ombra grigia avanzava sui loro visi. E Faramir ardeva di una febbre che non voleva diminuire.
Gandalf andava dall’uno all’altro pieno di premure, facendosi ripetere tutto ciò che i vigilatori udivano. E così trascorse la giornata, mentre fuori la grande battaglia proseguiva con alterne speranze e strane notizie; ma Gandalf continuava a vigilare e ad attendere, e non si allontanava dai malati; infine il rosso tramonto empì tutto il cielo e la luce attraverso le finestre inondò il viso dei sofferenti. Ed allora coloro che erano presenti ebbero l’impressione che i volti arrossissero delicatamente, come se la salute stesse tornando, ma era soltanto un’illusione di speranza.
Allora una vecchia, Ioreth, la più anziana delle donne che servivano in quella casa, guardando il bel viso di Faramir si mise a piangere, perché tutti lo amavano. Ed ella disse: «Ahimè, se dovesse morire! Se almeno Gondor avesse dei re come quelli che pare regnassero in passato! Perché le antiche saghe dicono: Le mani del re sono mani di guaritore. E in tal modo si poteva sempre riconoscere il vero re».
Allora Gandalf, che si trovava lì vicino, disse: «Gli Uomini ricorderanno forse a lungo le tue parole, Ioreth! In esse vi è della speranza. Forse un re è davvero tornato a Gondor: non hai forse udito le strane notizie giunte in Città?».
«Sono stata troppo occupata con una cosa e l’altra per dar retta a tutte le grida e le esclamazioni», ella rispose. «L’unica cosa che spero è che quei diavoli assassini non vengano in questa Casa a turbare i malati».
Allora Gandalf uscì velocemente, e già il fuoco in cielo stava spegnendosi, e le colline in fiamme scomparivano mentre la sera grigio-cenere strisciava sui campi.
Ed ora, mentre il sole tramontava, Aragorn ed Éomer e Imrahil si avvicinarono alla Città con i loro capitani e cavalieri; e quando furono innanzi al Cancello, Aragorn disse:
«Mirate il Sole che tramonta nel mezzo di un grande incendio! È il segno della fine e della caduta di molte cose, e di un cambiamento nel fluire e rifluire del mondo. Ma questa Città e questo regno sono rimasti in potere dei Sovrintendenti per molti lunghi anni, e temo che se io entro senza essere stato convocato, potranno sorgere dubbi e contestazioni che devono essere evitati finché dura questa guerra. Io non entrerò, né avanzerò pretese, sino al momento in cui si sarà palesato il vincitore: noi o Mordor. Gli uomini pianteranno le mie tende nei campi, ed è qui che attenderò il benvenuto del Signore della Città».
Ma Éomer disse: «Ormai hai già spiegato il vessillo dei re ed i simboli della Casa di Elendil. Tollererai forse che vengano sollevate delle obiezioni?».
«No», rispose Aragorn. «Ma reputo l’ora ancora prematura; e non sono disposto a lottare se non con il nostro Nemico ed i suoi servitori».
Allora il Principe Imrahil disse: «Le tue parole, sire, sono sagge, se permetti che un parente di Sire Denethor esprima il suo parere in questo affare. Egli è volitivo e orgoglioso, ma anziano; e il suo umore è molto strano da quando suo figlio è stato ucciso. E tuttavia non desidero che tu rimanga come un mendicante sulla porta».
«Non un mendicante», obiettò Aragorn. «Di’ piuttosto un capitano dei Raminghi, che non sono abituati alle città e alle case di pietra». Ordinò di avvolgere il suo vessillo, e, staccata la Stella del Regno del Nord, la affidò ai figli di Elrond.
Allora il Principe Imrahil ed Éomer di Rohan lo lasciarono, ed attraversata la Città e la folla, salirono alla Cittadella; giunsero alla Sala della Torre in cerca del Sovrintendente. Ma trovarono il suo seggio vuoto e Théoden Re del Mark disteso in gran pompa su di un letto, circondato da dodici fiaccole e da dodici guardie, Cavalieri di Rohan e di Gondor. E le tende del letto erano verdi e bianche, ma il re era ricoperto sino al petto dal grande lenzuolo dorato sul quale poggiava la sua spada sguainata, mentre ai suoi piedi giaceva lo scudo. La luce delle fiaccole scintillava nei suoi capelli come il sole fra gli spruzzi di una fontana, ma il volto era bello e giovane eppure immerso in una pace che la gioventù non conosce; sembrava dormire.
Dopo aver osservato un attimo di silenzio accanto al re, Imrahil disse: «Dov’è il Sovrintendente? E dov’è Mithrandir?».
Allora una delle guardie rispose: «Il Sovrintendente di Gondor si trova nelle Case di Guarigione».
Ma Éomer disse: «Dov’è Dama Éowyn, mia sorella? Dovrebbe di certo essere qui distesa accanto al re, con altrettanti onori! Dove l’hanno recata?».
Ma Imrahil interloquì: «Dama Éowyn era ancora in vita quando la portarono qui. Non lo sapevi?».
Allora un’inattesa speranza s’impadronì improvvisamente di Éomer, accompagnata però da nuova preoccupazione e paura, ed egli non disse più nulla ma si allontanò velocemente dalla sala; il Principe lo seguì. E quando uscirono era già sera, e molte stelle brillavano in cielo. Videro arrivare Gandalf con un uomo vestito d’un manto grigio, e s’incontrarono innanzi alla porta delle Case di Guarigione. Salutando Gandalf gli domandarono: «Cerchiamo il Sovrintendente, e dicono che si trovi in questa Casa. È stato forse colpito da qualche male? E dov’è Dama Éowyn?».
Gandalf allora rispose: «Ella giace all’interno e non è morta, ma prossima alla morte. Sire Faramir, come sapete, è stato ferito da una freccia avvelenata, ed egli è ormai il Sovrintendente; perché Denethor non è più, e la sua casa è cenere». Ed all’udire la storia che narrò loro, si empirono di stupore e di costernazione.
Ma Imrahil disse: «La vittoria è dunque spoglia di ogni felicità e pagata assai cara, poiché nel medesimo giorno sia Gondor che Rohan vengono privati dei loro capi. Éomer comanda ormai i Rohirrim. Ma chi governerà nel frattempo la Città? Non dovremmo mandare a chiamare Sire Aragorn?».
Allora l’uomo dal manto grigio disse: «Egli è venuto». E quando avanzò nella luce della lanterna accanto alla porta, videro che era Aragorn, e che il grigio manto di Lórien copriva la sua cotta di maglia, e che non portava altri emblemi che la verde gemma di Galadriel. «Sono venuto perché Gandalf me lo ha chiesto», disse. «Ma per il momento sono soltanto il Capitano dei Dùnedain di Arnor, ed il Signore di Dol Amroth governerà la Città sino al risveglio di Faramir. Ma il mio parere è che Gandalf governi noi tutti durante i giorni a venire e in ogni nostro contatto con il Nemico». Tutti furono d’accordo.
Ma Gandalf disse: «Non rimaniamo sulla porta. Il tempo stringe. Entriamo! La venuta di Aragorn è l’unica speranza che resta a coloro che giacciono malati nella Casa. Così parla Ioreth, veggente di Gondor: Le mani del re sono mani di guaritore, in tal modo si può riconoscere il vero re».
Aragorn entrò per primo, seguito da tutti gli altri. Sulla porta vi erano due guardie vestite con l’uniforme della Cittadella: uno era alto, ma l’altro appena grande come un bambino; e al vederli questi lanciò un grido di sorpresa e di gioia.
«Grampasso! Che meraviglia! Sai, avevo indovinato che eri tu nelle navi nere. Ma tutti continuavano a gridare corsari e non volevano darmi retta. Come hai fatto?».
Aragorn rise e prese l’Hobbit per mano. «Un felice incontro davvero!», disse. «Ma non c’è tempo per i racconti di viaggio».
Ma Imrahil disse a Éomer: «È dunque così che ci rivolgeremo ai nostri re? Ma forse portando la corona prenderà anche un altro nome!».
Ed Aragorn udendolo si volse e disse: «In verità è come tu dici, perché nell’alto linguaggio antico io sono Elessar, la Gemma Elfica, ed Envinyatar, il Rinnovatore». E mostrò la verde gemma che teneva sul petto. «Ma Grampasso sarà il nome della mia dinastia, se mai ve ne sarà una. E nell’alta lingua non suonerà tanto strano, ed io sarò Telcontar, come tutti gli eredi miei».
E con queste parole entrarono nella Casa; mentre si recavano alle stanze dove venivano curati i malati, Gandalf narrò le gesta di Éowyn e di Meriadoc. «Sono rimasto a lungo al loro fianco», egli disse, «e ho appreso molte cose, perché da principio parlavano a lungo in sogno, prima di piombare nell’infausta oscurità; e mi è stato dato il potere di vedere cose lontane».
Aragorn si recò prima da Faramir, poi da Dama Éowyn, ed infine da Merry. Quando ebbe guardato i volti dei malati e osservato le loro ferite, trasse un sospiro. «Vedo che dovrò adoperare tutto il potere e tutta la forza che mi sono stati dati», disse. «Se almeno Elrond fosse qui, lui che è il più anziano della nostra razza ed ha quindi il maggior potere!».
Ed Éomer, vedendolo al tempo stesso triste e stanco, gli disse: «Non vuoi prima riposare, e prendere almeno un poco di cibo?».
Ma Aragorn rispose: «No, per loro tre, e soprattutto per Faramir, il tempo stringe, e bisogna agire al più presto».
Poi chiamò Ioreth e le disse: «In questa Casa tenete provviste di erbe curative?».
«Sì, sire», ella rispose; «ma non sufficienti, credo, per tutto l’uso che ne facciamo. Ma certo non so dove se ne potrebbero trovare delle altre; tutte le cose vanno storte in questi giorni tremendi, con tutto quel fuoco e gli incendi, e così pochi ragazzi per fare le commissioni, e le strade bloccate. Non si contano nemmeno più i giorni da quando l’ultimo corriere di Lossarnach è venuto a rifornire il mercato! Ma noi facciamo del nostro meglio in questa Casa con ciò che abbiamo, e sono certa che la vostra signoria lo sa».
«Giudicherò quando avrò veduto», disse Aragorn. «Un’altra cosa scarseggia: il tempo per le chiacchiere. Avete dell’athelas?».
«Non lo so di certo, mio signore», ella rispose, «o comunque non conosco questo nome. Andrò a chiamare l’esperto in erbe: egli conosce tutti i vecchi nomi».
«La chiamano anche foglia di re», disse Aragorn; «e forse la conosci sotto questo nome, poiché ormai la gente delle campagne la chiama così».
«Oh! quella!», disse Ioreth. «Se la vostra signoria me lo avesse detto subito avrei potuto rispondere. No, sono certa che non ne abbiamo. Non ho mai sentito dire che possedesse grandi virtù; anzi, quante volte ho detto alle mie sorelle, quando la trovavamo nei boschi: “Foglia di re, strano nome, chissà perché la chiamano così. Fossi io un re terrei in giardino piante più belle”. Ma quando si strofina fa un buon profumo dolce, vero? Ammesso che dolce sia la parola giusta: forse salubre è più adatto».
«Salubre in verità», disse Aragorn. «Ed ora, donna, se ami Sire Faramir, corri veloce come parli e vammi a prendere della foglia di re, anche se ce ne fosse un’unica foglia nella Città».
«E altrimenti», disse Gandalf, «galopperò io sino al Lossarnach, portandomi dietro Ioreth che mi condurrà nei boschi, ma non dalle sorelle. E Ombromanto le mostrerà che cosa significa avere fretta».
Ioreth uscì, ed Aragorn pregò le altre donne di riscaldare dell’acqua. Poi prese la mano di Faramir nella sua, e gli posò l’altra sulla fronte. Era madida di sudore; Faramir non si mosse, né fece alcun segno, e pareva quasi non respirare.
«Sta per spegnersi», disse Aragorn rivolto a Gandalf. «Ma non a causa della ferita. Vedi: quella sta guarendo. Se fosse stato colpito da un dardo del Nazgûl, come tu credevi, sarebbe morto la notte stessa. Questa ferita è dovuta a una freccia dei Sudroni, io direi. Chi strappò il dardo? Fu conservato?».
«Lo strappai io», disse Imrahil, «e tamponai la ferita. Ma purtroppo non conservai la freccia, perché avevamo molto da fare. Ricordo che era un dardo simile a tutti gli altri adoperati dai Sudroni. Eppure pensai che provenisse dalle Ombre, perché non avrei saputo spiegare altrimenti la sua febbre e il suo male, non essendo la ferita né letale né profonda. Qual è dunque la tua diagnosi?».
«Stanchezza, dolore per lo stato d’animo del padre, una ferita, e soprattutto l’Alito Nero», disse Aragorn. «È uomo di forte volontà, perché già si era trovato molto vicino all’Ombra prima ancora di partire per la guerra. L’oscurità dev’essere lentamente penetrata in lui, mentre combatteva, lottando per salvare il suo avamposto. Se fossi arrivato prima!».
In quel momento entrò l’esperto in erbe. «La vostra signoria ha chiesto della foglia di re, poiché tale è il nome che gli incolti danno a questa pianta», disse; «nella lingua nobile viene chiamata athelas, e coloro che comprendono qualche parola di Valinoreano…».
«Io lo parlo», disse Aragorn, «e non m’importa che tu la chiami asëa aranion o foglia di re, purché tu ne abbia».
«Chiedo perdono, sire!», disse l’uomo. «Vedo che sei colto ed erudito, e non soltanto un capitano di guerra. Ma purtroppo, sire, non teniamo questa cosa nelle Case di Guarigione, dove curiamo esclusivamente i malati o feriti gravi. Perché essa infatti non possiede alcuna virtù a noi nota, se non forse di addolcire un’aria malsana, o di allontanare una pesantezza passeggera. A meno, beninteso, che tu non dia retta a quelle vecchie strofe che donne come la nostra brava Ioreth ancor oggi ripetono senza afferrarne il significato.
Quando qui soffierà l’alito nero
E dell’ombra mortal verrà l’impero
E svanirà la luce e il sereno,
Allora athelas imploreremo!
Vita ad ogni morente
In mano al re sapiente!
Temo che sia solo una filastrocca, sorta nella fantasia delle vecchie comari. Lascio che tu stesso ne interpreti il significato, ammesso che ne abbia uno. Ma ci sono dei vecchi che la adoperano tuttora come un infuso contro il mal di testa».
«Allora, in nome del re, va’ a cercare qualche vecchio meno erudito ma più saggio che ne tenga in casa qualche foglia!», gridò Gandalf.
Aragorn s’inginocchiò accanto a Faramir, tenendogli una mano sulla fronte. E coloro che l’osservavano sentirono che era in corso una grande lotta: il viso di Aragorn divenne grigio per la stanchezza. Di tanto in tanto chiamava Faramir per nome, ma ogni volta con voce più fioca, come se anche lui si stesse allontanando, e camminando in qualche oscura ed erma vallata invocasse il nome di qualcuno che si era smarrito.
Finalmente arrivò correndo Bergil, e portava sei foglie avvolte in un panno. «Ecco della foglia di re, signore», disse; «ma temo che non sia fresca. Dev’essere stata raccolta almeno due settimane fa. Spero che possa servire, signore!». Poi, guardando Faramir, scoppiò in lacrime.
Ma Aragorn sorrise. «Servirà», disse. «Il peggio ormai è passato. Non piangere e rincuorati!». Poi prese due foglie, le stese sulle palme delle mani e riscaldatele con l’alito le strofinò: immediatamente una sana freschezza empì la stanza, come se l’aria stessa si fosse destata, effervescente di gioia. Poi gettò le foglie nei bacini d’acqua calda che gli recarono, e tutti i cuori si alleggerirono. La fragranza che impregnava ogni cosa era simile al ricordo della rugiada in un mattino assolato e in una terra così splendida che la primavera del mondo non ne è che un’immagine effimera. Aragorn si levò in piedi come ristorato, ed i suoi occhi sorridevano mentre teneva un catino davanti al viso sognante di Faramir.
«Ebbene! Chi l’avrebbe mai creduto?», disse Ioreth a una donna che le stava accanto. «Quell’erba è migliore di quanto non pensassi. Mi fa ricordare le rose d’Imloth Melui, quand’ero ancora una ragazza, e non vi era re che potesse pretendere fiore più bello».
Ad un tratto Faramir si mosse, aprì gli occhi, e guardò Aragorn chino su di lui; i suoi occhi brillarono d’una luce di coscienza e di affetto ed egli parlò dolcemente. «Mio sire, mi hai chiamato. Sono venuto. Cosa comanda il re?».
«Non camminare più nelle ombre, svegliati!», disse Aragorn. «Sei molto stanco. Riposa adesso, e prendi del cibo, e sii pronto quando tornerò».
«Lo sarò, mio signore», disse Faramir. «Chi potrebbe rimanere ozioso, ora che il re è tornato?».
«Addio, per ora!», disse Aragorn. «Devo recarmi da altri che mi attendono». E lasciò la stanza seguito da Gandalf e da Imrahil; ma Beregond e suo figlio rimasero lì, incapaci di trattenere la loro gioia. Mentre seguiva Gandalf e chiudeva la porta alle proprie spalle, Pipino udì Ioreth che esclamava:
«Re! Hai sentito che cos’ha detto? Che ti dicevo? Le mani di un guaritore, dicevo», E presto si sparse la voce che il re era davvero tornato fra loro, e che dopo la guerra portava la guarigione: la notizia corse per tutta la Città.
Ma Aragorn si recò da Éowyn e disse: «Qui vi sono una brutta frattura e una forte contusione. Il braccio rotto è stato curato con molta abilità e si aggiusterà col tempo, se ella avrà la forza di sopravvivere. Questo per quanto concerne il braccio che sorreggeva lo scudo; ma il male peggiore viene dal braccio che brandiva la spada. Sembra che in esso la vita non scorra, benché sia intatto.
«Ahimè! Ha affrontato un avversario superiore alle sue forze fisiche e mentali. E coloro che vibrano un colpo contro un simile nemico devono essere più resistenti dell’acciaio, o basterà l’urto a distruggerli. Fu un destino crudele a portarla sin qui. Ella è una splendida fanciulla, la più bella dama di una stirpe di regine. Eppure non saprei come parlarne. Quando la vidi per la prima volta e scoprì la sua infelicità, mi parve di vedere un fiore bianco ergersi fiero e dritto, esile come un giglio, ma sapevo che quel fiore era inflessibile, come forgiato d’acciaio nelle fucine degli Elfi. O forse una gelata aveva trasformato in ghiaccio la sua linfa, ed ella era ormai così, dolce e amara nello stesso tempo, ancor bella a vedersi, ma già destinata a cadere e a morire? La sua malattia risale a tempi lontani, non è così, Éomer?».
«Mi stupisce che tu me lo chieda, sire», egli rispose. «Ti considero innocente in questo, come d’altronde in tutto il resto; tuttavia non mi pare che Éowyn, mia sorella, fosse colpita da gelo prima di aver veduto te. Era tormentata, come me, dalla paura e dalla preoccupazione, all’epoca in cui Vermilinguo aveva stregato il re; e mentre curava il re, la sua paura cresceva. Ma non fu certo quella a metterla in un simile stato!».
«Amico», disse Gandalf, «tu avevi cavalli, vantavi azioni di guerra e liberi campi; ma ella nel suo corpo di fanciulla possedeva uno spirito e un coraggio senza dubbio uguali al tuo ardimento. E tuttavia era destinata a servire un vegliardo, che amava come un padre, ed a vederlo crollare in una stoltezza meschina e disonorevole; il suo ruolo le sembrava più ignobile di quello del bastone su cui il re si appoggiava.
«Credi forse che il veleno di Vermilinguo fosse destinato soltanto alle orecchie di Théoden? Vecchio rimbambito! Che cosa credi che sia la Casa di Eorl, se non una capanna di paglia dove i briganti bevono in mezzo al fetore, mentre i loro bambini si rotolano per terra insieme con i cani? Non hai forse udito queste parole prima d’ora? Le pronunciò Saruman, il maestro di Vermilinguo. Non dubito però che Vermilinguo esprimesse il medesimo concetto in termini più furbi. Mio signore, se l’amore che tua sorella nutre per te e la sua volontà ancora intenta al dovere non avessero tenute strette le sue labbra, forse avresti udito persino frasi del genere sfuggirle. Ma chissà quali parole pronunciava, sola, nell’oscurità, durante le amare veglie, quando tutta la sua vita sembrava rimpicciolirsi e le mura della sua stanza parevano chiudersi intorno a lei, come una gabbia che intrappola una bestia selvaggia?».
Allora Éomer rimase silenzioso e guardò sua sorella, come intento a rimembrare tutta la vita passata che avevano trascorsa insieme. Ma Aragorn disse: «Anch’io vidi ciò che tu hai visto, Éomer. Pochi altri dolori fra le sfortune di questo mondo causano ad un uomo tanta onta e tanta amarezza quanto il vedere l’amore di una dama così bella e così coraggiosa e non poterlo ricambiare. La tristezza e la pietà mi hanno accompagnato incessantemente da quando la lasciai disperata a Dunclivo per cavalcare verso i Sentieri dei Morti; e lungo tutto il cammino non provai timore più intenso di quello che nutrivo per lei. Eppure, Éomer, ti dico che ella ti ama più sinceramente di quanto non ami me; infatti ella ti ama e ti conosce, mentre di me non ama che un’ombra e un’immagine: la speranza di gloria e di grandi gesta e di terre molto distanti dalle pianure di Rohan.
«Ho forse il potere di sanare il suo corpo, e di condurla via dall’oscura valle. Ma ciò che seguirà il risveglio, speranza, oblio, disperazione, non posso dire. E se sarà disperazione, allora ella morrà, a meno che non sopraggiunga un’altra medicina ch’io non posseggo. Grande sarà il rimpianto, perché le sue gesta l’hanno posta fra le regine di grande fama!».
Allora Aragorn si chinò per osservarle il volto, ed era davvero bianco come un giglio, freddo come gelo e duro come pietra scolpita. Ma egli si curvò e baciandole la fronte la chiamò dolcemente, dicendo:
«Éowyn, figlia di Éomund, destati! Il tuo nemico è partito per sempre!».
Ella non si mosse, ma cominciò a respirare di nuovo profondamente, tanto che il suo petto si alzava e si abbassava sotto il bianco lino del lenzuolo. Aragorn strofinò anche questa volta due foglie di athelas per poi gettarle nell’acqua bollente, lavandole poi la fronte e il braccio destro che giaceva freddo e inanimato sul copriletto.
Allora, sia che Aragorn possedesse davvero qualche obliato potere dell’Ovesturia, sia che le parole da lui pronunciate quando si era chinato su Dama Éowyn ne fossero causa, a mano a mano che le dolci esalazioni dell’erba invadevano la stanza parve a tutti i presenti di sentire il vento soffiare attraverso la finestra, un’aria senza alcun profumo, fresca, pulita e giovane, un’aria che mai nessuno ancora aveva respirato, proveniente da alte vette nevose sotto una volta stellata, o da spiagge scintillanti d’argento sulle quali scrosciava la spuma.
«Destati, Éowyn, Dama di Rohan!», ripeté Aragorn, e prendendole la mano destra vi sentì ritornare il calore e la vita. «Destati! L’ombra è scomparsa, ed ogni oscurità è stata cancellata!». Poi mise la mano di lei in quella di Éomer e si allontanò. «Chiamala!», disse, ed uscì silenziosamente dalla stanza.
«Éowyn, Éowyn!», gridò Éomer fra le lacrime. Ma ella aprì gli occhi e disse: «Éomer! Che gioia è questa? Mi dissero che eri stato ucciso. Ma no, erano soltanto le tetre voci del mio sogno. Per quanto tempo ho sognato?».
«Non molto, sorella mia», disse Éomer. «Ma non pensarci più!».
«Sono stranamente stanca», ella disse. «Devo riposare. Ma dimmi, che ne è del Signore del Mark? Ahimè! Non dirmi che anche quello era un sogno, perché so che non è vero. Egli è morto, come aveva previsto».
«È morto», disse Éomer, «ma pregandomi di dire addio ad Éowyn, più cara di una figlia. Giace ora in mezzo agli onori nella Cittadella di Gondor».
«È triste, tutto questo», ella disse. «Eppure è bello più di qualunque cosa avessi osato sperare in quei giorni cupi, quando sembrava che la dignità della Casa di Eorl fosse inferiore a quella della capanna di un pastore. E che ne è dello scudiero del re, il Mezzuomo? Éomer, lo nominerai Cavaliere del Riddermark, perché è un valoroso!».
«Giace qui accanto in questa Casa, ed io mi recherò da lui», disse Gandalf. «Éomer rimarrà qui con te, ma non parlare di guerra o di sventure, finché non sarai guarita. Grande è la gioia di vederti risvegliare alla salute e alla speranza, valorosa dama!».
«Alla salute?», disse Éowyn. «Forse è come dici tu. Almeno sino a quando vi sarà una sella vuota di qualche Cavaliere caduto che io possa occupare, e sino a quando vi saranno gesta da compiere. Ma la speranza? Non so».
Gandalf e Pipino giunsero nella stanza di Merry, e trovarono Aragorn in piedi accanto al letto. «Povero vecchio Merry!», gridò Pipino correndo al capezzale: il suo amico gli parve peggiorato, il viso coperto d’uno strano grigiore, come se il peso di anni di dolore gravasse su di lui; e improvvisamente Pipino fu colto dal timore che Merry potesse morire.
«Non temere», disse Aragorn. «Sono arrivato in tempo, e l’ho chiamato in sé. Egli è stanco ora, e sofferente, e la sua ferita è simile a quella di Dama Éowyn, poiché ambedue hanno ardito colpire quell’essere nefando. Ma è un danno facilmente sanabile, quando si ha uno spirito forte e allegro come il suo. Non dimenticherà le sofferenze passate, ma il suo cuore non ne sarà oscurato; egli apprenderà la saggezza».
Poi Aragorn posò la mano sulla testa di Merry, e accarezzando dolcemente i riccioli bruni gli toccò le palpebre e lo chiamò per nome. E quando la fragranza dell’athelas impregnò la stanza con il profumo di frutteti e di erica assolata piena di api, improvvisamente Merry si svegliò e disse: «Ho fame. Che ore sono?».
«È passata l’ora della cena», disse Pipino; «ma direi che posso portarti qualcosa da mangiare, se me lo permettono».
«Te lo permettono», disse Gandalf. «Ed ogni altra cosa che questo Cavaliere di Rohan possa desiderare, se esiste a Minas Tirith, ove il suo nome è tenuto in grande stima».
«Bene!», disse Merry. «Allora vorrei prima la cena e poi una pipa». Ma dicendo ciò il suo viso si oscurò. «No, non una pipa: non credo che fumerò più».
«Perché no?», disse Pipino.
«Ebbene», rispose lentamente Merry, «egli è morto. Mi sta tornando tutto alla mente. Egli disse che si scusava di non avere mai avuto l’occasione di discutere con me della scienza delle erbe, Dev’essere stata l’ultima cosa che disse. Non sarò mai più capace di fumare senza pensare a lui ed a quel giorno, Pipino, quando arrivò a Isengard e fu così cortese».
«Allora fuma, e pensa a lui!», disse Aragorn. «Perché era un cuore gentile e un grande re che manteneva tutte le promesse; lo vedemmo ergersi dalle ombre e avanzare verso il suo ultimo splendente mattino. Benché il tuo servizio presso di lui sia stato breve, esso deve rimanere per te un ricordo pieno di gioia e d’onore sino alla fine dei tuoi giorni».
Merry sorrise. «Ebbene, in tal caso», disse, «se Grampasso fornisce il necessario, fumerò e penserò. Avevo nel mio fagotto un po’ del miglior tabacco di Saruman, ma chissà che fine avrà fatto nella battaglia».
«Messere Meriadoc», disse Aragorn, «se credi che io abbia attraversato le montagne e il regno di Gondor con fuoco e spada per portare delle erbe a un soldato noncurante che getta la sua roba, ti sbagli. Se il tuo fagotto non è stato trovato, dovrai mandare a chiamare l’esperto in erbe della Casa. Ed egli ti dirà che ignorava che l’erba che desideri possedesse alcuna virtù, ma che gli incolti la chiamano erba-pipa e gli eruditi galenas, ed altre lingue in altri modi, e dopo averti recitato esitante qualche strofa che non comprende, ti informerà con rammarico che non ne esiste nella Casa, e ti lascerà a riflettere sulla storia dei linguaggi. Ed è ciò che devo fare anch’io. Perché non ho dormito in un letto come questo da quando lasciai Dunclivo, e non ho mangiato nulla dal tempo delle tenebre che precedevano l’alba».
Merry gli prese la mano e la baciò. «Sono desolato!», gli disse. «Va’ subito! Sin da quella notte a Brea non abbiamo fatto che procurarti fastidi. Ma è nel carattere della mia gente adoperare parole leggere in momenti come questi e dire meno di quel che pensiamo. Temiamo di dire troppo. Quando uno scherzo è fuori posto ci defrauda delle parole giuste».
«Lo so bene, altrimenti non ti risponderei a tono», disse Aragorn. «Possa la Contea vivere per sempre intatta!». Dopo aver baciato Merry uscì, seguito da Gandalf.
Pipino rimase con il suo amico. «Hai mai conosciuto nessuno come lui», disse, «o come Gandalf? Credo che debbano essere imparentati. Mio caro asino, il tuo fagotto è accanto al tuo letto, e lo portavi sulle spalle quando t’incontrai. Lui naturalmente l’aveva subito visto! E in ogni modo ho anch’io della roba mia. Coraggio! È Foglia di Pianilungone. Riempi la pipa mentre vado in cerca di qualcosa da mettere sotto i denti. E poi stiamocene tranquilli per un po’. Povero me! Noi Tuc e Brandibuck non ce la facciamo a vivere a lungo sulle alture».
«No», disse Merry, «io non ci riesco. O comunque non ancora. Ma perlomeno, Pipino, ora possiamo vederle e onorarle. Suppongo che sia meglio cominciare con l’amare ciò che si è fatti per amare: devi mettere le radici in qualche posto, e la terra della Contea è profonda e abbondante. Eppure vi sono cose più profonde e più alte, e senza di esse nessun vecchio contadino potrebbe coltivare il suo giardino in quella che chiama pace, anche se ne ignora l’esistenza. Io sono contento di conoscerle, almeno un poco. Non so che cosa mi succeda, perché io debba parlare in questo modo. Dov’è quella foglia? E tira fuori la pipa dal mio fagotto, se non si è rotta».
Aragorn e Gandalf si recarono dal Custode delle Case di Guarigione, e gli consigliarono di trattenere ancora per parecchi giorni Faramir ed Éowyn, curandoli attentamente.
«Dama Éowyn», disse Aragorn, «vorrà presto alzarsi e partire, ma se riesci in qualche modo a trattenerla non permetterglielo, prima che siano passati dieci giorni».
«Quanto a Faramir», soggiunse Gandalf, «dovrà apprendere fra breve che suo padre è morto. Ma non gli si deve raccontare l’intera storia della follia di Denethor prima che sia del tutto guarito e affaccendato. Fa’ in modo che Beregond ed il perian non gli parlino ancora di queste cose!».
«E l’altro perian, Meriadoc, che è affidato alle mie cure? Che cosa ne pensate?», domandò il Custode.
«Probabilmente sarà in grado di alzarsi domani, per breve tempo», disse Aragorn. «Permettiglielo, se lo desidera. Può fare qualche passo affidato ai suoi amici».
«Sono una razza eccezionale», disse il Custode con un cenno del capo. «D’una fibra assai robusta, credo».
Sulla porta delle Case di Guarigione era già radunata molta gente venuta a vedere Aragorn, e lo seguì appena fu uscito; e quando egli ebbe infine pranzato, degli uomini si fecero avanti, pregandolo di sanare i loro parenti o amici la cui vita era messa in pericolo da ferite o malattie o che giacevano sotto l’Ombra Nera. Ed Aragorn si alzò e uscì e, mandati a chiamare i figli di Elrond, lavorò insieme con loro sino a notte inoltrata. E la voce si sparse nella Città: «Il re è davvero tornato». E lo chiamarono Gemma Elfica, a causa della gemma verde che portava, e così il nome che alla sua nascita gli era stato predestinato, gli fu attribuito dal suo stesso popolo.
E quando non poté più reggere alla fatica si avviluppò nel mantello e sgusciò fuori della Città, recandosi nella sua tenda poco prima dell’alba per riposare un poco. Al mattino il vessillo di Dol Amroth, una bianca nave a forma di cigno su acqua azzurra, sventolava dalla Torre, e la gente levava lo sguardo e si domandava se era stato tutto un sogno.
Venne il mattino dopo il giorno della battaglia, bello, con leggere nubi e il vento che volgeva a ovest. Legolas e Gimli furono in piedi assai presto e chiesero il permesso di recarsi nella Città, poiché erano ansiosi di rivedere Merry e Pipino.
«Fa piacere sentire che sono ancora vivi», disse Gimli; «ci sono costati grandi fatiche nella nostra marcia attraverso Rohan, e non avrei voluto che fosse tutta fatica sprecata».
L’Elfo e il Nano entrarono insieme a Minas Tirith, e coloro che li vedevano si stupirono alla vista di simili compagni; Legolas era infatti di una bellezza superiore a quella di qualunque Uomo, e cantava strofe elfiche mentre camminava nel mattino; Gimli invece avanzava con passo maestoso, carezzandosi la barba e volgendo lo sguardo qua e là.
«Ci sono delle buone opere in pietra», disse osservando le mura; «ma ve ne sono anche di meno buone, e le strade avrebbero potuto essere realizzate meglio. Quando Aragorn entrerà in possesso di ciò che gli spetta, gli offrirò i servigi dei maestri dell’arte della pietra, e tutti noi venuti dalla Montagna ne faremo una città di cui essere fieri».
«Hanno bisogno di più giardini», disse Legolas. «Le case sono come morte, e vedo troppo poche cose crescere e fiorire. Se Aragorn entrerà in possesso di ciò che gli spetta, la gente del Bosco gli porterà uccelli che cantano e alberi che non muoiono».
Giunsero infine dal Principe Imrahil, e Legolas lo guardò e s’inchinò profondamente; vide infatti che nelle sue vene scorreva sangue elfico. «Salve, sire!», disse. «È trascorso molto tempo da quando il popolo del Nimrodel lasciò le boscose terre di Lórien, eppure si può tuttora vedere che non tutti veleggiarono via dal porto di Amroth verso occidente».
«Così dicono le tradizioni della mia terra», rispose il Principe, «e tuttavia da innumerevoli anni non si sono veduti quei begli esseri dalle nostre parti. E mi meraviglio di vederne uno qui, adesso, in mezzo alla guerra e alla tristezza. Che cosa cerchi?».
«Io sono uno dei Nove Compagni che partirono con Mithrandir da Imladris», rispose Legolas, «e insieme con questo Nano, mio amico, sono giunto qui al seguito di Sire Aragorn. Ma ora desideriamo vedere i nostri amici, Meriadoc e Peregrino, che, ci è stato detto, si trovano qui da te».
«Essi sono nelle Case di Guarigione, e vi condurrò da loro», disse Imrahil.
«È sufficiente che tu ci dia qualcuno per farci da guida, sire», disse Legolas. «Aragorn ti invia questo messaggio. Poiché non desidera entrare nuovamente in Città a quest’ora, e tuttavia è necessario che i capitani si riuniscano immediatamente per deliberare, egli prega te ed Éomer di Rohan di recarvi al più presto nella sua tenda. Mithrandir si trova già lì».
«Andremo immediatamente», disse Imrahil, e si salutarono con parole cortesi.
«Quello è un nobile sire e un grande capitano di uomini», disse Legolas. «Se Gondor possiede ancora uomini simili in questi giorni di decadenza, quanto grande dev’essere stata la sua gloria all’epoca del suo apogeo!».
«Indubbiamente le migliori opere in pietra sono le più antiche e risalgono ai tempi della prima costruzione», disse Gimli. «Ed è sempre così per tutte le cose che gli Uomini incominciano: una gelata in primavera, o la siccità in estate, ed essi non portano a compimento la loro promessa».
«Eppure è raro che i loro semi non germoglino», disse Legolas. «Anche in mezzo alla polvere o al marcio, li si vede improvvisamente spuntare nei luoghi più imprevisti. Le azioni degli Uomini sopravvivranno alle nostre, Gimli».
«Riducendosi però dopo tutto a potenzialità fallite, suppongo», disse il Nano.
«A ciò gli Elfi non sanno rispondere», disse Legolas.
In quel momento arrivò il servitore del Principe e li condusse alle Case di Guarigione; trovarono i loro amici in giardino, e l’incontro fu dei più gioiosi. Sulle prime passeggiarono chiacchierando, godendosi la pace ed il riposo del mattino sulle alte e ventose mura della Città. Poi, quando Merry cominciò a sentire la stanchezza, si sedettero sulle mura, ed alle loro spalle si stendeva il verde prato delle Case di Guarigione, mentre a sud innanzi a loro l’Anduin brillava al sole e scorreva tanto lontano che nemmeno Legolas riusciva a seguirne il corso, attraverso le verdi pianure del Lebennin e del Sud Ithilien.
Legolas taceva mentre gli altri parlavano e, guardando in direzione del sole, vide dei bianchi gabbiani risalire in volo il corso dell’Anduin.
«Guardate!», gridò. «Gabbiani! Stanno volando verso l’interno. Sono per me causa di stupore e di turbamento. Non li avevo mai incontrati nel corso della mia vita prima di arrivare a Pelargir, ove li udii gridare nell’aria mentre noi andavamo a combattere le navi. Allora mi fermai, dimentico della guerra nella Terra di Mezzo, perché le loro voci malinconiche mi parlavano del Mare. Il Mare! Ahimè! Ancora non ho potuto ammirarlo! Ma nel profondo del cuore di tutta la mia razza vive il desiderio del Mare, un desiderio pericoloso se destato. Ahimè, il ricordo dei gabbiani! Non avrò più pace sotto olmi e betulle!».
«Non parlare così!», disse Gimli. «Vi sono ancora innumerevoli cose da vedere nella Terra di Mezzo, e grandi opere da realizzare. Ma se tutta la gente migliore salpa dai Porti, il mondo sarà squallido per coloro che sono condannati a rimanere».
«Squallido e triste davvero!», disse Merry. «Non devi andare ai Porti, Legolas. Vi sarà sempre della gente, grande o piccola, e persino qualche Nano saggio come Gimli che avrà bisogno di te. O perlomeno lo spero, benché abbia la strana sensazione che il peggio di questa guerra debba ancora accadere. Come vorrei che fosse tutto finito, e finito bene!».
«Non essere così tetro!», esclamò Pipino. «Il Sole brilla, e siamo di nuovo insieme almeno per un paio di giorni. Io vorrei saperne di più sul conto di voi tutti. Coraggio, Gimli! Tu e Legolas avete accennato al vostro strano viaggio con Aragorn almeno una dozzina di volte questa mattina, ma non mi avete raccontato nulla».
«Il Sole può brillare», disse Gimli, «ma vi sono dei ricordi di quella strada che non desidero rievocare. Se avessi saputo che cosa mi attendeva, credo che per nessun amico al mondo avrei percorso i Sentieri dei Morti».
«I Sentieri dei Morti?», disse Pipino. «Ho udito Aragorn che ne parlava, e mi sono chiesto a che cosa si riferisse. Non vuoi dirci qualcosa di più?».
«Non volentieri», rispose Gimli. «Perché quella via è stata per me causa di vergogna: Gimli figlio di Glóin, che si considerava più tenace degli Uomini e più resistente sotto terra di qualunque Elfo, non seppe dimostrare né l’una né l’altra cosa, e giunse alla fine soltanto per merito della volontà di Aragorn».
«Ed anche dell’amore che prova per lui», interloquì Legolas. «Tutti coloro che vengono a conoscerlo finiscono per amarlo, ognuno a modo suo, persino la fredda fanciulla dei Rohirrim. Lasciammo Dunclivo di prima mattina il giorno prima del tuo arrivo, Merry, e tutti erano in preda a una tale paura che nessuno osò guardarci andare via, salvo Dama Éowyn, che ora giace ferita in questa Casa. Vi fu molta tristezza in quella separazione, ed al vederlo ne rimasi accorato».
«Io purtroppo non badavo che a me stesso», disse Gimli. «No! Non parlerò di quel viaggio».
Tacque; ma Pipino e Merry erano talmente ansiosi di notizie che Legolas disse: «Vi dirò quanto basta per mettervi il cuore in pace, poiché io non provai orrore di sorta e non temetti le ombre di Uomini, che mi parevano fragili e impotenti».
Raccontò brevemente della strada maledetta attraverso le montagne, e del tetro luogo di ritrovo ad Erech, e della lunga cavalcata da lì sino a Pelargir sull’Anduin, novanta e tre leghe di strada. «Cavalcammo per quattro giorni e quattro notti dalla Roccia Nera, e già il quinto si avvicinava, quando ad un tratto nell’oscurità di Mordor si destò in me la speranza. Infatti nelle tenebre l’Esercito d’Ombre sembrava divenire più forte e più terribile. Alcuni erano a cavallo, altri a piedi, eppure tutti avanzavano alla medesima gran velocità. Erano silenziosi, ma nei loro occhi vi era un bagliore. Giunti agli altipiani del Lamedon raggiunsero i nostri cavalli e ci avrebbero sorpassati, se Aragorn non l’avesse impedito loro.
«Al suo comando essi tornarono al loro posto, e io mi dissi: “Persino le ombre degli Uomini obbediscono al suo volere, e forse si dimostreranno anche utili ai suoi fini!”.
«Cavalcammo in un giorno di luce, e poi venne il giorno senza alba e noi continuammo a cavalcare, ed attraversammo il Ciril e il Ringló; e il terzo giorno arrivammo a Linhir, sopra le foci del Gilram. Laggiù la gente di Lamedon disputava i guadi ai terribili uomini di Umbar e Harad che avevano risalito in barca il fiume. Ma difensori e nemici abbandonarono tutti la battaglia al nostro arrivo, gridando che il Re dei Morti li assaliva. Angbor, Signore di Lamedon, fu l’unico che ebbe il coraggio di attenderci; Aragorn gli chiese di radunare i suoi uomini e di seguirci, se osavano, marciando dietro l’Esercito Grigio.
«“A Pelargir l’Erede d’Isildur avrà bisogno di voi”, disse.
«Così attraversammo il Gilram, disperdendo e sparpagliando gli alleati di Mordor, e poi ci riposammo. Ma presto Aragorn si alzò dicendo: “Su! Minas Tirith è già assediata. Temo che soccomba prima che arriviamo in suo aiuto”. Rimontammo quindi a cavallo prima che la notte fosse finita, e avanzammo sulle pianure del Lebennin al ritmo più veloce che i nostri cavalli potessero sopportare».
Legolas s’interruppe e sospirò, e volgendo lo sguardo verso sud cantò dolcemente:
Scorron d’argento i ruscelli da Celos ad Erui
A Lebennin nei prati verdi!
Alta è l’erba che cresce, e nel vento del Mare
Dondolano candidi gigli
E campanelli d’oro di mallos ed alfirin
A Lebennin nei prati verdi,
Nel vento del Mare!
«Verdi sono quei prati nei canti della mia gente, ma erano scuri allora, grigie lande distese nel nero innanzi a noi. Ed attraverso tutto il paese, calpestando noncuranti erba e fiori, cacciammo i nostri nemici per un giorno e una notte, fin quando giungemmo al Grande Fiume.
«Allora in fondo al cuore ebbi l’impressione che ci avvicinassimo al Mare, perché ampie erano le acque nell’oscurità e innumerevoli gabbiani gridavano sulle sue sponde. Ahimè, il lamento dei gabbiani! Non mi disse forse la Dama di non fidarmi di esso? Ed ora non riesco più a dimenticarlo».
«Io invece non vi prestai alcuna attenzione», disse Gimli, «perché proprio allora cominciò finalmente una battaglia sul serio. Lì a Pelargir si trovava la più grande flotta di Umbar, cinquanta grandi navi e barche a non finire. Molti di coloro che avevamo inseguiti erano giunti al porto prima di noi, trasmettendo ad altri la paura, e alcune navi erano salpate in cerca di scampo, scendendo il corso del Fiume, o tentando di raggiungere la riva opposta; molte barche erano in fiamme. Ma gli Haradrim, costretti a retrocedere sino al bordo dell’acqua, si voltarono per resistere all’assalto, feroci nella loro disperazione; risero però quando ci videro perché il loro era ancora un esercito assai grande.
«Ma Aragorn si arrestò, gridando con voce tonante: “Adesso venite! In nome della Roccia Nera io vi chiamo!”. Ed improvvisamente l’Esercito d’Ombre che si era tenuto nelle retrovie avanzò come una grigia marea, spazzando via ogni cosa innanzi a sé. Udii delle deboli grida e dei corni squillare lontani, e un mormorio come di innumerevoli voci remote: era simile all’eco di qualche battaglia obliata nei tempi lontani degli Anni Oscuri. Pallide spade furono sguainate; ma non so se le lame fossero ancora taglienti, perché i Morti non avevano più bisogno ormai di altre armi che la paura. Nessuno resisteva loro.
«Ogni barca che avvicinavano veniva tirata a secco, e quando passarono sulle acque per raggiungere quelle ancorate, tutti i marinai, presi da folle terrore, si gettarono in acqua, eccetto gli schiavi incatenati ai remi. Spietati inseguimmo i nemici in fuga, spingendoli come foglie sino alla riva. E allora Aragorn mandò in ognuna delle grandi navi rimaste un Numenoreano per riconfortare i prigionieri che erano a bordo e pregarli di dimenticare la paura e di sentirsi liberi.
«Prima che terminasse quell’oscuro giorno, non rimase nessun nemico a resisterci; erano tutti annegati, o erano in fuga verso sud nella speranza di trovare i loro popoli ancora vittoriosi. Mi parve strano e meraviglioso che i piani di Mordor fossero stati sconvolti da simili fantasmi di oscurità e di paura. Il Nemico sconfitto con le proprie armi!».
«Strano davvero», disse Legolas. «In quell’ora osservai Aragorn, e mi dissi che sarebbe potuto divenire un sovrano incredibilmente potente e terribile, con la forza di volontà che aveva in sé, se avesse preso lui l’Anello. Non per nulla Mordor lo teme. Ma il suo spirito è tanto nobile da non poter essere compreso da Sauron; non è egli forse uno dei figli di Lùthien? Mai si estinguerà quella linea, dovessero gli anni allungarsi indefinitamente».
«Simili presagi superano la vista dei Nani», disse Gimli. «Ma invero possente era Aragorn quel giorno. Pensate! Tutta la flotta nera era nelle sue mani, ed egli scelse per sé la nave più veloce, e vi salì. Poi fece squillare un grande coro di trombe strappate al nemico, e l’Esercito d’Ombre tornò sulla riva: rimase lì, immobile e silenzioso, invisibile tranne che per il rosso bagliore degli occhi nei quali si riflettevano le fiamme delle navi incendiate. Ed Aragorn si rivolse ai Morti con voce tonante, gridando:
«“Udite ora le parole dell’Erede d’Isildur! Avete mantenuto la vostra promessa. Tornate indietro, e non vagate mai più nelle valli! Partite e riposate in pace!”.
«A quelle parole il Re dei Morti si fece avanti e, spezzata la sua lancia, ne gettò in terra i pezzi. Poi fece un profondo inchino e si allontanò; tutta l’armata grigia lo seguì velocemente e scomparve come nebbia diradata a un tratto dal vento; a me parve di destarmi da un sogno.
«Quella notte riposammo, mentre altri lavoravano. Molti prigionieri liberati e molti schiavi erano gente di Gondor catturata nel corso di scorribande; inoltre, dopo poco tempo, vi fu un gran radunarsi di uomini del Lebennin e dell’Ethir, ed Angbor del Lamedon arrivò con tutti i cavalieri che aveva potuto raccogliere. Ora che la paura dei Morti era scomparsa, vennero tutti in nostro aiuto, ed in cerca dell’Erede d’Isildur: l’eco di quel nome era infatti corsa in giro come fiamma nel buio.
«E siamo così giunti quasi alla fine del nostro racconto. Quella sera ed anche di notte furono preparate e organizzate molte navi, e la flotta poté salpare di prima mattina. Sembra ormai passato molto tempo, eppure non era che il mattino di ieri l’altro, il sesto dopo la nostra partenza da Dunclivo. Ma Aragorn era sempre in preda al timore che il tempo non fosse sufficiente.
«“Sono quaranta e due leghe da Pelargir sino all’approdo dell’Harlond”, egli disse. “E tuttavia all’Harlond dobbiamo giungere domani, o falliremo del tutto nella nostra impresa”.
«I remi erano ora maneggiati da uomini liberi, e possente era il loro impeto; ma ciò nonostante risalivamo il Grande Fiume con lentezza, poiché lottavamo contro la corrente che, pur non essendo forte lì a sud, era accompagnata da una completa mancanza di vento. Pesante era il mio cuore, malgrado la recente vittoria, ma all’improvviso Legolas si mise a ridere.
«“Su con la barba, figlio di Durin!”, egli disse. “Perché un proverbio dice: Quando tutto è perduto sorge spesso la speranza”. Ma quale speranza egli scorgesse da lontano non volle dire. La notte giunse e non fece che infittire l’oscurità, mentre i nostri cuori ardevano perché lungi al Nord vedevamo sotto la nube un rosso incandescente, ed Aragorn disse: “Minas Tirith brucia”.
«Ma a mezzanotte la speranza risorse davvero. Uomini dell’Ethir, vecchi lupi di mare, guardando verso il Sud parlarono di un cambiamento e dell’arrivo di vento fresco dal Mare. Molto prima che facesse giorno le navi issarono le vele e la velocità crebbe, finché l’alba tinse di bianco la schiuma delle nostre prue. E fu così, come sapete, che arrivammo alla terza ora del mattino, accompagnati da un bel vento e dal Sole libero nel cielo, e che spiegammo in battaglia il grande vessillo. Fu un grande giorno e un gran momento, qualunque cosa accada in futuro».
«Qualunque cosa accada, le grandi gesta non perdono il loro valore», disse Legolas. «Grande fu la cavalcata nei Sentieri dei Morti, e grande rimarrà anche se non vi sarà più nessuno a Gondor per cantarla nei giorni a venire».
«Ed è molto probabile», disse Gimli. «I volti di Aragorn e di Gandalf sono gravi, e mi domando che decisioni stiano prendendo laggiù nella tenda. Per conto mio, anch’io come Merry vorrei che con la vittoria la guerra fosse ormai terminata. Ma qualunque cosa rimanga ancora da fare, spero di avere una parte anch’io, per la gloria del popolo della Montagna Solitaria».
«Ed io per il popolo del Grande Bosco», disse Legolas, «e per amore del Signore dell’Albero Bianco».
Poi i compagni tacquero, e rimasero lì seduti in quell’alto luogo, ognuno immerso nei propri pensieri, mentre i Capitani discutevano.
Quando il Principe Imrahil ebbe salutato Legolas e Gimli, mandò immediatamente a chiamare Éomer, e con lui lasciò la Città per recarsi alle tende di Aragorn, installate sul campo non lontano dal luogo in cui Re Théoden era caduto. E lì deliberarono insieme con Gandalf, Aragorn e i figli di Elrond.
«Signori miei», disse Gandalf, «ascoltate le parole del Sovrintendente di Gondor prima della sua morte: Trionferete forse per un giorno sui campi del Pelennor, ma contro il Potere che è sorto non vi è vittoria. Non voglio che disperiate, come fece lui, ma che ponderiate la verità di queste parole.
«Le Pietre Veggenti non mentono, e nemmeno il Signore di Barad-dûr può costringerle a mentire. Può forse scegliere ciò che vuole mostrare alle menti più deboli, o far loro fraintendere il significato di quel che vedono. Tuttavia non si può mettere in dubbio che quando Denethor vide che grandi forze venivano preparate e persino radunate per entrare in guerra contro di lui, non vide altro che il vero.
«Le nostre forze sono state appena sufficienti a respingere il primo assalto. Il prossimo sarà più massiccio. Questa guerra è quindi senza speranza, come Denethor aveva intuito. La vittoria non può raggiungersi con le armi, sia che rimaniate qui a subire un assedio dopo l’altro, sia che avanziate oltre il Fiume ove sareste sopraffatti. Non avete che una scelta fra mali diversi, e la prudenza vi consiglierebbe di rinsaldare le fortezze che avete, aspettando l’assalto: solo così potreste allungare il tempo che vi rimane prima della fine».
«Allora tu vorresti che ci chiudessimo a Minas Tirith, o a Dol Amroth, o a Dunclivo, come bambini imbronciati su castelli di sabbia mentre arriva la marea?», disse Imrahil.
«Non sarebbe certo un consiglio nuovo», disse Gandalf. «Non è forse ciò che facevate ai tempi di Denethor? Ma no! Ho detto che sarebbe prudente. Io non consiglio la prudenza. Ho detto che la vittoria non si potrà raggiungere con le armi. Spero ancora nella vittoria, ma non nelle armi. In mezzo a tutti questi artifizi vi è l’Anello del Potere, creazione di Barad-dûr, e speranza di Sauron.
«A questo proposito, signori, siete tutti ormai sufficientemente informati per comprendere la nostra situazione, e quella di Sauron. Se egli lo riconquista, il vostro valore è vano e la sua vittoria sarà rapida e totale, così totale che nessuno può prevederne le conseguenze sin tanto che il mondo durerà. Se invece l’Anello viene distrutto, egli soccomberà, cadendo tanto in basso che nessuno potrà prevedere che si rialzi. Perché avrà perduto la parte migliore della forza insita in lui alle origini, e tutto ciò che fu fatto o cominciato con quella forza cadrà in rovina, ed egli sarà storpiato per sempre, diventando un fantasma di malizia intento a rodersi nell’ombra, incapace di crescere nuovamente e di prendere forma. In tal modo un grande male di questo mondo verrebbe distrutto.
«Altri mali potranno sopraggiungere, perché Sauron stesso non è che un servo o un emissario. Ma non tocca a noi dominare tutte le maree del mondo; il nostro compito è di fare il possibile per la salvezza degli anni nei quali viviamo, sradicando il male dai campi che conosciamo, al fine di lasciare a coloro che verranno dopo terra sana e pulita da coltivare. Ma il tempo che avranno non dipende da noi.
«Ora Sauron sa tutto ciò, e sa altresì che il prezioso oggetto perduto è stato ritrovato: ma ignora ancora dove si trovi, o comunque è ciò che speriamo. Ed egli è perciò in preda a un grande dubbio. Se infatti abbiamo trovato l’oggetto, vi sono alcuni fra noi che posseggono la forza sufficiente per adoperarlo. Ed egli lo sa. Non indovino forse, Aragorn, dicendo che tu ti sei mostrato a lui nella Pietra di Orthanc?».
«È ciò che feci prima di lasciare il Trombatorrione», rispose Aragorn. «Ritenni che i tempi fossero maturi e che la Pietra mi fosse stata data proprio a questo fine. Erano allora trascorsi dieci giorni da quando il Portatore dell’Anello era partito da Rauros dirigendosi verso est, e io mi dissi che era necessario attirare l’Occhio di Sauron fuori dalla sua terra. Troppo spesso ormai è stato sfidato da quando si ritirò nella sua Torre. Ma benché avessi previsto la velocità dell’assalto che mi avrebbe mosso in risposta, forse non avrei dovuto mostrarmi. Ebbi infatti appena il tempo sufficiente per giungere in vostro aiuto».
«Ma come sarebbe a dire?», disse Éomer. «Tutto è vano, dici, se egli ha l’Anello. Perché non reputa anch’egli vano assalirci, se l’abbiamo noi?».
«Non ne è ancora sicuro», disse Gandalf, «ed egli non ha, come noi, costruito il proprio potere aspettando che i nemici divenissero troppo fiduciosi. Inoltre non potremmo apprendere in un giorno solo come sfruttarne l’intero potere. E poi l’Anello non può essere governato da più di un padrone, e Sauron quindi si attenderà una disputa prima che uno di noi prevalga sugli altri. In quel frattempo l’Anello potrebbe aiutarlo, se egli agisse in modo repentino.
«Sauron osserva. Vede e sente molte cose. I suoi Nazgûl sono ancora in giro. Sono passati su questo campo prima del levare del sole, ma pochi dei combattenti, ancora stanchi e addormentati, se ne sono accorti. Sauron studia i segni: la Spada che lo derubò del suo tesoro forgiata di nuovo; i venti della fortuna girati in nostro favore e l’inaspettata sconfitta del suo primo assalto; la caduta del suo grande Capitano.
«Il suo dubbio starà crescendo, mentre noi qui discorriamo. Il suo Occhio è puntato su di noi, quasi cieco ad ogni altro movimento. Ed è così che dobbiamo mantenerlo. Tutta la nostra speranza risiede in ciò. Ecco, quindi, il mio consiglio. Noi non abbiamo l’Anello. Per saggezza o per grande follia l’abbiamo mandato ad essere distrutto, affinché non distruggesse noi. Senza di esso non possiamo con la forza sconfiggere la sua forza. Ma dobbiamo a tutti i costi distogliere il suo Occhio dal vero pericolo. Non possiamo raggiungere la vittoria con le armi, ma con le armi possiamo dare al Portatore dell’Anello la sua unica speranza, per fragile che sia.
«Così come Aragorn ha cominciato, noi dobbiamo proseguire. Dobbiamo spingere Sauron fino al suo ultimo tentativo. Dobbiamo attirare fuori le sue forze nascoste, affinché il suo territorio rimanga vuoto. Dobbiamo immediatamente marciargli incontro. Dobbiamo servirgli da esca, anche se le sue mascelle rischiano di richiudersi su di noi. Ed egli morderà l’esca, spinto dalla speranza e dall’avidità, perché gli parrà di riconoscere nella nostra improvvisa fretta l’orgoglio del nuovo Signore dell’Anello; ed egli penserà: “Bene! Spinge avanti il suo collo troppo presto e troppo distante. Che avanzi pure, ed io gli tenderò una trappola dalla quale non potrà fuggire. E là lo schiaccerò, e ciò di cui si è impadronito nella sua insolenza, sarà di nuovo mio per sempre”.
«Dobbiamo camminare ad occhi aperti verso una trappola, con coraggio, ma con poca speranza di salvezza. Perché, signori, può darsi che periremo tutti in una nera battaglia lungi dalle terre dei vivi, e che, quindi, anche se Barad-dûr soccomberà, non vivremo per vedere una nuova era. Ma tale, penso, è il nostro compito. Meglio, comunque, che perire ugualmente ed è certo ciò che accadrebbe se rimanessimo qui ad aspettare sapendo che non vi saranno nuove ere».
Rimasero per qualche tempo in silenzio. Infine Aragorn disse: «Continuerò sul sentiero intrapreso. Stiamo ormai giungendo all’orlo del burrone, ove speranza e disperazione sono sorelle. Esitare significa cadere. Che nessuno respinga i consigli di Gandalf, le cui lunghe lotte contro Sauron giungono infine alla prova decisiva. Se non fosse per lui, tutto sarebbe ormai perduto da tempo. Tuttavia non pretendo ancora di comandare nessuno: che gli altri scelgano come “Meglio credono».
Allora Elrohir disse: «Siamo giunti dal Nord con questo scopo, e da Elrond nostro padre avevamo ricevuto il medesimo consiglio. Non torneremo indietro».
«Quanto a me», disse Éomer, «non ho molta dimestichezza con simili profonde questioni; ma non ne ho bisogno. Quello che so, e che mi basta, è che il mio amico Aragorn ha soccorso me ed il mio popolo: anch’io lo aiuterò non appena me lo chiederà. Sono pronto a partire».
«Per quel che mi riguarda», disse Imrahil, «considero Sire Aragorn mio sovrano, ch’egli faccia valere le sue pretese o meno. Il suo desiderio è per me un ordine. Partirò anch’io. Tuttavia per qualche tempo occupo il posto di Sovrintendente di Gondor, ed è mio dovere pensare anzitutto al mio popolo. Bisogna anche dar retta alla prudenza. Ora dobbiamo prepararci ad ogni evento, buono o cattivo che sia, e può anche darsi che trionferemo: finché vi sarà questa speranza, Gondor dev’essere protetto. Non voglio che al nostro ritorno vittorioso ci accolga una Città in rovina circondata da terre devastate. E non dimentichiamolo: abbiamo appreso dai Rohirrim che dal lato settentrionale vi è un esercito non ancora sconfitto».
«È vero», disse Gandalf. «Non ti consiglio di lasciare la Città del tutto indifesa. Le forze che recheremo ad est non debbono essere sufficienti a condurre un vero e proprio assalto contro Mordor, purché siano sufficienti a sostenere una battaglia. E devono mettersi in moto al più presto. Chiedo quindi ai Capitani: quante forze possiamo radunare e avviare, al più tardi fra due giorni? E devono essere uomini valorosi che partano volontariamente, consci del pericolo».
«Sono tutti stanchi, e molti hanno subito ferite più o meno gravi», disse Éomer, «e abbiamo avuto ingenti perdite di cavalli, il che è difficile da rimediare. Se dobbiamo partire presto posso sperare di condurre tutt’al più duemila uomini, lasciandone appena altrettanti a difesa della Città».
«Non dobbiamo calcolare soltanto quelli che hanno combattuto su questo campo», disse Aragorn. «Stanno giungendo nuove forze dai feudi del Sud, ora che le coste sono libere. Ne ho inviati quattromila da Pelargir attraverso il Lossarnach due giorni addietro; ed Angbor l’impavido cavalca in testa. Se partiamo fra due giorni, saranno già molto vicini quando ce ne andremo. Inoltre ho pregato molti di seguirmi su per il Fiume con qualunque imbarcazione riuscissero a trovare, e con questo vento saranno qui fra breve: già parecchie navi hanno attraccato all’Harlond. Ritengo che potremmo partire in settemila, tra fanti e cavalieri, pur lasciando la Città meglio difesa di quanto non fosse all’inizio dell’assalto».
«Il Cancello è stato distrutto», disse Imrahil; «dove possiamo trovare chi abbia la capacità di ricostruirlo e di rimetterlo in piedi?».
«Ad Erebor nel Regno di Dàin», disse Aragorn; «e se non svanisce ogni nostra speranza, invierò Gimli figlio di Glóin in cerca degli operai della Montagna. Ma gli uomini sono una difesa più efficace dei cancelli, e nessun cancello resisterà contro il Nemico se gli uomini lo abbandonano».
Si concluse così la discussione dei capi: sarebbero partiti due mattine dopo con settemila uomini, se riuscivano a radunarli; la maggior parte di queste forze sarebbe stata appiedata, a causa delle terre accidentate che dovevano attraversare. Aragorn avrebbe dovuto trovare circa duemila uomini fra coloro che aveva raccolti nel Sud, mentre Imrahil doveva radunarne tremila e cinquecento, ed Éomer cinquecento Rohirrim, senza cavalli ma abili nell’arte della guerra, più cinquecento dei suoi migliori Cavalieri che avrebbe comandato personalmente; di un’altra compagnia di cinquecento Cavalieri avrebbero fatto parte i figli di Elrond insieme con i Dùnedain e con i cavalieri di Dol Amroth: in tutto, seimila fanti e mille cavalieri. Ma il grosso delle forze dei Rohirrim, forniti ancora di cavalli ed atti a combattere, circa tremila uomini agli ordini di Elfhelm, doveva difendere la Via dell’Ovest contro il nemico ammassato ad Anórien. Veloci cavalieri furono immediatamente spediti a raccogliere tutte le notizie possibili, tanto a nord quanto ad est, ossia ad Osgiliath e sulla strada per Minas Morgul.
E quando ebbero calcolato tutte le loro forze e riflettuto sulle tappe da fare e le strade da percorrere, Imrahil improvvisamente scoppiò a ridere.
«Questa è certamente l’avventura più comica in tutta la storia di Gondor», esclamò. «Partiamo in settemila, un esercito numeroso appena come la sola avanguardia dell’armata di Gondor nei suoi giorni di grandezza, per assalire le montagne e l’impenetrabile cancello della Terra Nera! Come un bambino che con il suo arco fatto di spago e di legno di salice minaccia un soldato protetto da una cotta di maglia! Se l’Oscuro Signore sa davvero tante cose come dici tu, Mithrandir, non credi che sorriderà piuttosto che temerci, schiacciandoci con il mignolo come zanzare che cerchino di pungerlo?».
«No, cercherà di intrappolare la zanzara e di prenderle il pungiglione», disse Gandalf. «E vi sono fra noi dei nomi che valgono ciascuno più di mille soldati con armatura. No, non sorriderà».
«E neppure noi sorrideremo», disse Aragorn. «Se questo è uno scherzo, è troppo amaro per poterne ridere. No, è l’ultima mossa in una situazione di grande pericolo, e per una delle due parti sarà la fine della partita». Poi, sguainata Andùril, la tenne alta e scintillante nel sole e disse: «Non verrai più riposta nel fodero finché non sarà stata combattuta l’ultima battaglia».
Due giorni dopo, l’esercito dell’Ovest era radunato sul Pelennor. Le armate di Orchi e di Esterling avevano abbandonato l’Anórien, ed inseguite e sparpagliate dai Rohirrim erano fuggite senza combattere verso Cair Andros; distrutta quella minaccia e giunte nuove forze dal Sud, la Città era difesa nel migliore dei modi. Le vedette riferirono che non erano rimasti nemici sulle strade che conducevano ad est, almeno sino al Crocevia del Re Caduto. Tutto era pronto per l’ultima mossa.
A Legolas e Gimli era toccato di cavalcare insieme nella compagnia di Gandalf e Aragorn, che costituiva l’avanguardia insieme con i Dùnedain e il i figli di Elrond. Ma a Merry con sua vergogna non fu concesso di accompagnarli. «Non sei in grado di affrontare un viaggio del genere», disse Aragorn. «Ma non vergognarti. Anche se non compi altre azioni in questa guerra, già hai meritato grandi onori. Peregrino partirà in rappresentanza della gente della Contea, e non gli invidiare questa occasione di pericolo, perché malgrado abbia fatto tutto ciò che il fato gli ha permesso, deve ancora eguagliare le tue gesta. Ma in verità tutti ormai sono in ugual pericolo. Forse toccherà a noi finire amaramente innanzi al Cancello di Mordor, ma in tal caso anche per voi giungerà l’ora dell’ultimo confronto, qui o in qualunque altro posto vi abbia travolto la marea nera. Addio!».
Sconsolato, Merry rimase a guardare l’esercito che si radunava. Bergil era con lui, anch’egli abbattuto: suo padre doveva partire in testa a una compagnia di Uomini della Città, poiché non poteva riprendere il suo Posto nella Guardia prima che il suo caso fosse stato giudicato. A quella stessa compagnia era stato destinato Pipino, soldato di Gondor. Merry riusciva a intravederlo non lontano, una piccola ma diritta figura in mezzo agli Uomini di Minas Tirith.
Infine squillarono le trombe, e l’esercito si mise in marcia. Una squadra dopo l’altra, una compagnia dopo l’altra, cominciò ad avanzare verso oriente. E quando già da molto tempo erano scomparsi alla vista in fondo alla grande via che conduceva alla Strada Maestra, Merry era ancora lì, immobile. L’ultimo scintillare del sole del mattino su lance e scudi era svanito, ed egli rimaneva con la testa china e il cuore stretto, sentendosi solo e senza amici. Tutti coloro che amava erano partiti verso quelle tenebre che sovrastavano il distante cielo d’oriente, e vi era in lui ben poca speranza di rivederli.
Come ravvivato dal suo umore sconsolato, il dolore si riaccese nel suo braccio, ed egli si sentì vecchio e debole, e la luce del sole gli parve fioca. Fu destato da Bergil che lo toccava con la mano.
«Vieni, Messere Perian!», disse il ragazzo. «Vedo che soffri ancora. Ti aiuterò a tornare dai Guaritori. Ma non temere! Ritorneranno. Gli Uomini di Minas Tirith non soccomberanno mai. Ed ora hanno con sé Sire Gemma Elfica, ed anche Beregond della Guardia».
Prima di mezzogiorno l’esercito arrivò a Osgiliath. Tutti gli operai e gli artigiani disponibili erano già al lavoro; alcuni rinforzavano i traghetti ed i pontili galleggianti che il nemico aveva costruiti e in parte distrutti durante la fuga; altri ammassavano scorte e bottino; altri ancora edificavano dal lato orientale sull’altra sponda del Fiume frettolose opere di difesa.
L’avanguardia passò attraverso le rovine dell’antico Gondor, sull’ampio fiume, per poi avviarsi sulla lunga strada rettilinea costruita nei tempi di gloria per collegare la splendida Torre del Sole con l’alta Torre della Luna, ormai divenuta Minas Morgul nella sua valle maledetta. Si fermarono cinque leghe dopo Osgiliath, concludendo così il loro primo giorno di marcia.
Ma i cavalieri continuarono ad avanzare, giungendo prima di sera al Crocevia ed al grande cerchio d’alberi: tutto era silenzioso. Non si vedevano tracce del nemico, né erano stati uditi richiami o grida, né lungo la via erano stati scoccati dardi da rocce e cespugli; eppure, a mano a mano che avanzavano sentivano aumentare la vigilanza intorno a loro. Alberi e pietre, foglie e lame, ogni cosa era in ascolto. L’oscurità era stata cacciata e lungi a occidente il sole tramontava sulla valle dell’Anduin e le bianche vette delle montagne arrossivano nell’azzurro dell’aria; ma ombre e tenebre incombevano sull’Ephel Dùath.
Allora Aragorn ordinò ai trombettieri di suonare, a ognuna delle quattro strade che sboccavano nello spiazzo fra gli alberi, una grande fanfara, e agli araldi di gridare con voce tonante: «I Signori di Gondor sono tornati, e riprendono tutta questa terra che appartiene loro». L’orrida testa d’Orco che sormontava la figura scolpita fu gettata per terra e frantumata, e al suo posto rimisero il busto del vecchio re, la testa ancora coronata di fiori bianchi e oro; e gli uomini si diedero da fare per cancellare tutti gli scarabocchi con cui gli Orchi avevano imbrattato la pietra.
Nel corso della discussione, alcuni avevano suggerito di cominciare con l’assalire Minas Morgul e, se fossero riusciti a conquistarla, di distruggerla da capo a fondo. «E forse», disse Imrahil, «la strada che conduce da lì al valico fra i monti sarà un sentiero più facile da percorrere per assalire l’Oscuro Signore, che non il cancello settentrionale».
Ma Gandalf aveva immediatamente respinto una tale proposta, a causa dei malefizi latenti in quella valle, ove le menti degli Uomini sarebbero state colte da orrore e da pazzia, e anche a causa delle notizie portate da Faramir. Se infatti il Portatore dell’Anello aveva davvero tentato quella via, l’impegno principale era proprio di non attirare l’Occhio di Mordor in quella direzione. E il giorno seguente, quando arrivò il grosso dell’esercito, misero un certo numero di Uomini a guardia del Crocevia per opporre resistenza nel caso che Mordor volesse mandare forze attraverso il Passo di Morgul, o inviare altre forze dal Sud. A questo fine scelsero soprattutto degli arcieri che conoscevano i sentieri dell’Ithilien e si sarebbero tenuti nascosti nei boschi e sui pendii circostanti. Ma Gandalf e Aragorn cavalcarono con l’avanguardia sino all’ingresso della Valle di Morgul e guardarono la malefica città.
Era buia e senza vita; gli Orchi e gli altri esseri di Mordor che vi dimoravano erano stati decimati in battaglia, ed i Nazgûl erano in giro. Eppure l’aria della valle era opprimente, densa di paura e di ostilità. Allora distrussero il ponte, appiccarono il fuoco ai fetidi campi, e poi si allontanarono.
Il giorno successivo, il terzo dalla partenza da Minas Tirith, l’esercito cominciò a marciare sulla via che conduceva verso nord. Il Crocevia distava dal Morannon circa un centinaio di miglia, e che cosa potesse accadere loro prima di arrivare, nessuno osava immaginarlo. Avanzarono allo scoperto ma cautamente, preceduti da vedette a cavallo e fiancheggiati da altre vedette appiedate, soprattutto sul fianco est; da quel lato infatti si stendevano una cupa boscaglia e un paesaggio di rocce dirupate e di rovine, dietro le quali s’innalzavano i tetri pendii dell’Ephel Dùath. Il tempo nel resto del mondo era ancora bello, e il vento continuava a soffiare, ma nulla riusciva ad allontanare le tenebre e le tristi nebbie che avviluppavano le Montagne dell’Ombra, dietro alle quali di tanto in tanto si levavano grandi fumi che vagavano sospinti dai venti.
Gandalf ogni tanto faceva squillare le trombe, e gli araldi gridavano: «I Signori di Gondor sono arrivati! Che tutti abbandonino questo territorio o si sottomettano!». Ma Imrahil disse: «Non dite I Signori di Gondor. Dite Re Elessar. Perché non è che la verità, anche se egli non ha ancora preso possesso del trono; e darà al nemico un elemento in più su cui riflettere, se gli araldi adoperano questo nome». Da allora in poi, tre volte al giorno gli araldi proclamarono la venuta di Re Elessar. Ma nessuno raccoglieva la sfida.
E tuttavia, benché marciassero in un’apparente pace, i cuori di tutto l’esercito, dal primo all’ultimo, erano abbattuti, e ogni miglio che li avvicinava al Nord rendeva quella sensazione di iniquità, che incombeva, sempre più opprimente. Alla fine del loro secondo giorno di marcia su quella via, incontrarono la prima occasione di battaglia. Una folta schiera di Orchi e di Esterling tentò infatti di tendere un’imboscata alle compagnie che marciavano in testa; e ciò accadde nel medesimo punto in cui Faramir aveva sconfitto gli uomini di Harad, ove la strada passava in una stretta gola attraverso una propaggine delle colline orientali. Ma i Capitani dell’Ovest erano stati già avvertiti dalle vedette, abili Uomini dell’Henneth Annûn guidati da Mablung; e così furono essi a intrappolare gli avversari. Dei cavalieri, facendo un lungo giro dalla parte occidentale, assalirono il nemico di lato e di spalle, distruggendolo in parte e in parte costringendolo a cercare riparo ad est.
Ma la vittoria non bastò a rassicurare i capitani. «Non è che una finta», disse Aragorn; «il loro scopo principale credo fosse piuttosto di attirarci in avanti, creando in noi l’illusione della debolezza del Nemico, anziché di nuocerci sul serio». Ma da quella sera in poi i Nazgûl osservarono ogni mossa dell’esercito. Volavano ancora assai alti, e Legolas era l’unico che riuscisse ad avvistarli, eppure tutti sentivano la loro presenza, come un infittirsi dell’ombra e un oscurarsi del sole; e benché gli Schiavi dell’Anello non scendessero sui loro nemici e rimanessero silenziosi senza emettere grida, il terrore che suscitavano era tuttavia sempre presente.
Il tempo avanzava, mentre progrediva il viaggio senza speranza. Il quarto giorno dopo la loro partenza dal Crocevia e il sesto da Minas Tirith, giunsero alla fine delle terre viventi e incominciarono ad avventurarsi nelle desolate lande che si stendevano innanzi al Passo di Cirith Ungol; vedevano a nord e ad ovest paludi e deserti fino all’Emyn Muil. Così desolati erano quei luoghi e così profondo l’orrore che li sovrastava, che alcuni si scoraggiarono e non riuscirono ad avanzare ulteriormente, né a piedi né a cavallo.
Aragorn li guardò, e nei suoi occhi non vi era collera ma pietà, perché erano tutti giovani di Rohan, o della lontana Ovestfalda, o contadini del Lossarnach, per i quali sin dall’infanzia Mordor era stato un simbolo di malvagità eppure qualcosa d’irreale, una leggenda che non aveva posto nella loro vita semplice; ed ora camminavano come in un orrendo incubo divenuto realtà, e non comprendevano né il perché della guerra né per quale motivo il destino li avesse condotti sin lì.
«Andate!», disse Aragorn. «Ma mantenete il vostro onore, e non correte! Vi è un compito che potete adempiere per non essere del tutto coperti di vergogna: dirigetevi a sud-ovest giungendo in tal modo a Cair Andros; se è ancora in mano ai nemici, come credo, riprendetela se possibile e difendetela sino alla fine per meglio proteggere Gondor e Rohan!».
Allora alcuni, vergognandosi della sua clemenza, riuscirono a farsi forza e ad andare avanti, mentre gli altri ripresero speranza udendo che vi era un’impresa coraggiosa e alla loro portata, e partirono. E così, poiché avevano già lasciato molti uomini al Crocevia, i Capitani dell’Ovest andarono a sfidare il Cancello Nero e la potenza di Mordor con meno di seimila uomini.
Avanzavano lentamente, aspettando ad ogni momento una risposta alla loro sfida, e più compatti, poiché mandare vedette e piccoli drappelli non sarebbe stato che uno spreco di uomini. Sul calare della notte dopo il quinto giorno di marcia prepararono l’ultimo accampamento, circondandolo di falò alimentati da tutta la legna secca e le felci che riuscirono a trovare. Passarono svegli le ore della notte, consci di mille cose intraviste che strisciavano intorno a loro, mentre i lupi ululavano. Il vento era caduto e l’aria pareva immobile. Vedevano poco, perché nonostante che non vi fossero nuvole e la luna crescesse ormai da quattro notti, i fumi e le esalazioni che si sprigionavano dal suolo oscuravano la bianca falce lunare.
Incominciò a fare freddo. Al giungere del mattino si levò di nuovo il vento, ma ora veniva da nord ed era molto più fresco e penetrante. Tutte le apparizioni notturne erano scomparse e il territorio sembrava vuoto. A nord, fra i fetidi pozzi, potevano scorgere il primo dei grossi cumuli di scorie e rocce frantumate e terra ammassata, il vomito dei vermicolari abitanti di Mordor; ma a sud, ormai vicina, giganteggiava la grande fortezza di Cirith Gorgor con al centro il Cancello Nero, e da un lato e dall’altro, nere e minacciose, le due Torri dei Denti. Durante l’ultima tappa i Capitani infatti avevano abbandonato la strada che voltava verso est, evitando in tal modo il pericolo dei colli, e giungevano quindi ora al Morannon da nord-ovest, come aveva fatto Frodo.
Le due possenti porte di ferro del Cancello Nero sovrastato da un arco imponente erano tutte sprangate. Sulle mura merlate non vi era anima viva. Ogni cosa era silente ma guardinga. Erano arrivati all’estrema fine della loro follia, e rimasero a guardare, infelici e infreddoliti nella grigia luce del primo mattino, torri e muraglie che il loro esercito non poteva sperare di conquistare, anche se fosse stato munito di possenti macchine e se il Nemico avesse avuto forze appena sufficienti a difendere il Cancello e le mura. E sapevano che tutte le colline e le rocce intorno al Morannon erano piene di nemici nascosti e che la gola oscura dall’altra parte era scavata e infestata da formicolanti nidiate di esseri infami. E mentre guardavano, videro i Nazgûl radunarsi e svolazzare sulle Torri dei Denti come avvoltoi; e sapevano di essere osservati. Ma il Nemico non faceva ancora alcun segno.
Non rimaneva ad essi altra scelta che recitare la loro parte sino alla fine. Aragorn schierò quindi l’esercito nel migliore dei modi, in cima a due grandi colline fatte di terra e frantumi di rocce accumulati dagli Orchi con anni di fatica. Innanzi ad essi, in direzione di Morgul, si stendeva come un fossato un mare di melma infetta e di pozzanghere puzzolenti. Quando tutto fu in ordine, i Capitani cavalcarono innanzi con una folta schiera di cavalieri, il vessillo, gli araldi ed i trombettieri. Gandalf era con loro, ed anche Aragorn, con i figli di Elrond, Éomer di Rohan ed Imrahil; e pregarono anche Legolas, Gimli e Peregrino di accompagnarli, affinché tutti i nemici di Mordor avessero un testimone.
Giunsero a portata di voce dal Morannon, e spiegato lo stendardo squillarono le trombe; gli araldi avanzarono e spinsero le loro voci oltre le mura di Mordor.
«Avanti!», gridarono. «Che il Signore della Terra Nera si faccia avanti! Giustizia sarà fatta. Egli ingiustamente ha attaccato Gondor, impadronendosi delle sue terre. Il Re di Gondor esige quindi che paghi il male fatto e se ne vada per sempre. Avanti!».
Seguì un lungo silenzio, e dalle mura e dal cancello non risposero né grida né rumori. Ma Sauron aveva già i suoi piani, e intendeva giocare crudelmente con quei topi prima di ucciderli. E così, proprio quando i Capitani stavano per allontanarsi, il silenzio fu improvvisamente interrotto. Si udì un lungo rullare di tamburi come tuoni nelle montagne, e poi un suonare di corni che fece vibrare persino le pietre e assordare gli uomini. Dopo di che la porta centrale del Cancello Nero fu spalancata con gran fragore, e apparve un’ambasceria della Torre Oscura.
In testa cavalcava un’alta figura malefica su di un cavallo nero, ammesso che fosse davvero un cavallo: era infatti enorme e orribile, e la faccia una maschera terrificante, simile più a un teschio che alla testa di un essere vivente, e dalle sue orbite e dalle sue narici si sprigionavano fiamme. Il cavaliere era interamente vestito di nero, e nero il suo alto elmo: eppure non si trattava di uno Schiavo dell’Anello, bensì di un uomo vivo. Era il Luogotenente della Torre di Barad-dûr, e il suo nome non è ricordato da alcuna storia; egli stesso infatti l’aveva dimenticato e diceva: «Sono la Bocca di Sauron». Ma dicono che fosse un rinnegato, appartenente alla razza di coloro che vengono chiamati Numenoreani Neri, gente che stabilì le proprie dimore nella Terra di Mezzo all’epoca della dominazione di Sauron, venerandolo poiché erano avidi di scienza malefica. Questi era entrato al servizio della Torre Oscura appena risorta e grazie alla sua astuzia era riuscito a salire sempre più in alto nella stima e nel favore del padrone; aveva appreso grandi sortilegi e sapeva molte delle cose che passavano nella mente di Sauron; era più crudele di qualsiasi Orco.
Egli apparve ora, accompagnato soltanto da una piccola compagnia di soldati con armature nere e da un unico vessillo, nero ma con l’emblema rosso dell’Occhio Malefico. Arrestatosi a pochi passi dai Capitani dell’Ovest li guardò dalla testa ai piedi, e poi scoppiò a ridere.
«Vi è qualcuno in mezzo a questa folla che abbia l’autorità di trattare con me ?», domandò. «O addirittura il cervello per capirmi? Certo non tu!», disse con tono sarcastico deridendo Aragorn. «Per fare un re ci vuole altro che un pezzo di vetro elfico o della plebaglia come questa! Come? qualsiasi brigante delle montagne può disporre di eguali seguaci!».
Aragorn non rispose, ma lo fissò negli occhi, trattenendo lo sguardo, e lottarono così per un momento; ma presto, benché Aragorn non si fosse mosso né avesse portato la mano alla spada, l’altro indietreggiò come minacciato d’un colpo. «Sono un araldo e un ambasciatore, e non posso essere assalito!», gridò.
«Ove vigono simili leggi», disse Gandalf, «vi è anche la consuetudine che gli ambasciatori siano meno insolenti. Ma nessuno ti ha minacciato. Non hai nulla da temere da noi fino a quando non avrai portato a termine il tuo compito. Ma dopo, a meno che il tuo padrone non sia colto da improvvisa saggezza, tanto tu quanto tutti i suoi servitori correrete grave pericolo».
«Bene!», disse il Messaggero. «Sei tu quindi il portavoce, vecchio barbagrigia? Non abbiamo forse udito parlare di te a volte, e dei tuoi vagabondaggi, sempre intento a covare tranelli e meschinità a debita distanza? Ma questa volta hai spinto il tuo naso troppo in avanti, Messere Gandalf, e vedrai che cosa succede a chi tesse stolte tele innanzi ai piedi di Sauron il Grande. Ho degli oggetti che mi è stato chiesto di mostrare, a te soprattutto, se avessi avuto l’ardire di venire sino a qui». Fece segno a una delle guardie e questi si avvicinò con un fagotto avvolto in panni neri.
Il Messaggero tolse l’involucro e mostrò, con stupore e costernazione di tutti i Capitani, prima una piccola spada uguale a quella di Sam, e poi un manto grigio con la spilla elfica, e infine la cotta di maglia di mithril appartenuta a Frodo, insieme con le sue vesti logore. Si fece buio innanzi ai loro occhi, e in quel minuto di silenzio parve ad ognuno che il mondo fosse immobile, e i loro cuori fossero morti, e svanita sin l’ultima speranza. Pipino che era in piedi dietro al Principe Imrahil balzò avanti con un grido di dolore.
«Silenzio!», disse severo Gandalf, spingendolo indietro; ma il Messaggero scoppiò a ridere.
«Così vi portate dietro un altro di questi folletti!», esclamò. «A cosa vi possano servire non riesco proprio a immaginarlo, ma inviarli come spie a Mordor supera persino la vostra solita follia. Tuttavia ringrazio questo moccioso poiché è chiaro che aveva già veduto questi oggetti prima d’oggi, e negarlo sarebbe ormai vano da parte tua».
«Non desidero negarlo», disse Gandalf. «Anzi, li conosco tutti e conosco la loro storia, e malgrado la tua arroganza, infida Bocca di Sauron, non puoi dire altrettanto. Ma perché li porti qui?».
«Cotta di maglia di Nani, manto elfico, lama dello scomparso Occidente e spia del piccolo paese di topi, la Contea no, non incominciare! Lo sappiamo bene ecco i segni di una cospirazione. Vediamo, forse colui che portava queste cose è una creatura che non vi dispiace perdere, o forse al contrario lo è: qualcuno che vi è caro, forse? Se è così, decidetelo velocemente con quel poco di cervello che avete. Sauron non ama le spie, ed il suo destino dipende ora dalla vostra scelta».
Nessuno gli rispose, ma egli vide i loro volti grigi di paura e l’orrore in fondo ai loro occhi, e rise di nuovo, perché gli parve che il suo gioco procedesse nel migliore dei modi. «Bene, bene!», disse. «Vedo che vi era caro. O forse la sua missione era tale che non desideravate vederla fallire? Ebbene, è fallita. Ed egli dovrà adesso sopportare il lungo tormento degli anni, reso ancora più lungo e più lento da tutti gli artifizi che la Grande Torre potrà escogitare, per non venire mai più liberato, o soltanto quando sarà trasformato e disfatto, affinché tornando da voi vi possa mostrare quello che gli avete fatto. Tutto ciò accadrà di certo a meno che accettiate le condizioni del mio Signore».
«Di’ le tue condizioni», rispose Gandalf con voce ferma, ma coloro che gli erano accanto videro l’angoscia sul suo viso, ed egli sembrava un vecchio avvizzito, schiacciato, distrutto sino in fondo. Non dubitarono che avrebbe accettato.
«Ecco le condizioni», disse il Messaggero, sorridendo man mano che le leggeva una dopo l’altra. «La marmaglia di Gondor e i suoi alleati delusi si ritireranno immediatamente al di là dell’Anduin, giurando prima di non osare mai più assalire Sauron il Grande con le armi, apertamente o in segreto. Tutte le terre ad est dell’Anduin apparterranno per sempre ed esclusivamente a Sauron. I territori ad ovest dell’Anduin sino alle Montagne Nebbiose ed alla Breccia di Rohan saranno tributari di Mordor, e nessuno porterà armi, pur avendo il diritto di sbrigare i propri affari. Ma tutti aiuteranno a ricostruire Isengard, da loro selvaggiamente distrutta, che diverrà possesso di Sauron e dove risiederà il suo luogotenente: non Saruman, ma qualcuno più degno di fiducia».
Guardando il Messaggero negli occhi lessero tutti il suo pensiero. Sarebbe divenuto lui il luogotenente, radunando sotto il suo dominio tutto ciò che rimaneva dell’Occidente; egli sarebbe stato il loro tiranno ed essi i suoi schiavi.
Ma Gandalf disse: «È chiedere molto per la restituzione di un servitore, pretendere che il tuo Padrone riceva in cambio ciò che altrimenti dovrebbe conquistare con una lotta di molti anni! O forse il campo di Gondor ha distrutto la sua fede nella guerra, ed egli si abbassa ora a contrattare? E se davvero attribuissimo tanto valore a questo prigioniero, chi ci assicura che Sauron, il Vile Maestro del Tradimento, manterrà la sua parola? Dove si trova questo prigioniero? Che lo portino qui e ce lo mostrino, e poi esamineremo le vostre richieste».
Parve allora a Gandalf, che lo osservava intento come chi sfida a duello un nemico micidiale, che per un istante il Messaggero fosse colto alla sprovvista; ma presto rise di nuovo.
«Non sprecare parole, insolente, con la Bocca di Sauron!», gridò. «Pretendi sicurezza! Sauron non ne dà. Se supplichi la sua clemenza devi prima fare ciò che vuole. Sono queste le sue condizioni. Prendere o lasciare!».
«Prenderemo questi!», disse improvvisamente Gandalf. Aprì il manto ed una bianca luce squarciò quel luogo nero come una spada sguainata. Innanzi alla sua mano alzata il Messaggero indietreggiò, e Gandalf avvicinatosi afferrò e gli strappò di mano gli oggetti: cotta, manto e spada. «Prenderemo questi in ricordo del nostro amico», gridò. «Ma quanto alle tue condizioni, le rigettiamo tutte. Vattene, perché la tua ambasciata è terminata e la morte ti è vicina. Non siamo venuti qui per sprecare parole contrattando con Sauron, infido e maledetto com’è, ed ancor meno con uno dei suoi schiavi! Vattene!».
Allora il Messaggero di Mordor non rise più. Per lo stupore e il furore il suo viso si contorse, rassomigliando a quello di un animale selvaggio che, accoccolato sulla sua preda, viene colpito sul muso da un nodoso bastone. Egli si empì di rabbia e la sua bocca incominciò a sbavare, mentre informi suoni gutturali uscivano dalla sua gola. Ma guardando i volti spietati dei Capitani ed i loro occhi micidiali, la paura sopraffece il suo furore e con un grande urlo balzò a cavallo e galoppò selvaggiamente verso Cirith Gorgor seguito dalla sua compagnia. Ma mentre tornavano, i suoi soldati suonarono i corni per un segnale prestabilito; prima ancora che giungessero al cancello, Sauron fece scattare la sua trappola.
Rullarono i tamburi e avvamparono i fuochi. Tutte le porte del Morannon furono spalancate, e ne uscì un esercito straripante, veloce come acque turbinose all’alzarsi di una chiusa.
I Capitani rimontarono a cavallo e tornarono indietro, mentre dall’esercito di Mordor si levava un grido di scherno. La polvere intorbidò l’aria al marciare di un esercito di Esterling che attendeva il segnale all’ombra dell’Ered Lithui accanto alla Torre più distante. Innumerevoli Orchi piombarono giù dalle colline che fiancheggiavano il Morannon. Gli uomini dell’Ovest erano in trappola, e presto tutt’intorno a quelle grigie alture forze dieci volte superiori e anche più li avrebbero accerchiati in mezzo a un mare di nemici. Sauron aveva stretto in una morsa d’acciaio l’esca che gli era stata gettata.
Rimase poco tempo ad Aragorn per organizzare la sua battaglia. Su una delle colline vi erano lui e Gandalf, e disperato e fiero il vessillo con l’Albero e le Stelle. Sull’altro colle si ergevano gli stendardi di Rohan e di Dol Amroth, Cavallo Bianco e Cigno Argentato. Ed intorno ad ambedue le colline un cerchio di difesa fatto di uomini con lance e con spade. Ma sul fronte in direzione di Mordor, là dove il primo massiccio assalto avrebbe colpito, si ergevano a sinistra i figli di Elrond, circondati dai Dùnedain, e a destra il Principe Imrahil con gli uomini di Dol Amroth, alti e belli, e alcuni uomini scelti della Torre di Guardia.
Soffiava il vento, squillavano le trombe e fischiavano le frecce; il sole che si alzava verso il meriggio era velato dalle esalazioni di Mordor e brillava attraverso una infausta foschia, remoto, d’un rosso corrucciato e tetro, come se il giorno si avvicinasse alla fine, la fine forse di tutto il mondo di luce. Ed in mezzo al fumo sempre più fitto apparvero i Nazgûl, urlando con le loro gelide voci parole di morte; ogni speranza svanì.
Pipino si era accasciato dall’orrore udendo Gandalf rigettare le condizioni e abbandonare Frodo alla tortura della Torre; ma era riuscito a controllarsi ed ora si ergeva accanto a Beregond, nella prima fila dell’esercito di Gondor, vicino agli uomini di Imrahil. Gli parve la miglior cosa morire subito, concludendo così l’amara storia della sua vita, poiché ogni cosa cadeva ormai in rovina.
«Se almeno Merry fosse qui», si disse, mentre rapidi pensieri gli balenavano in mente alla vista del nemico che caricava. «Ebbene, ora almeno comprendo un po’ meglio il povero Denethor. Potremmo morire insieme, Merry e io, e poiché morire dobbiamo, perché no? Ma poiché non è qui, spero che la sua fine sia più facile. Ma ora devo fare del mio meglio».
Sguainò la spada e ne osservò i disegni intrecciati di rosso e oro, ed i caratteri armoniosi di Nùmenor che scintillavano come fuoco sulla lama. «Fu fatta apposta per un momento come questo», egli pensò. «Se potessi colpire con essa quell’infame Messaggero, riuscirei quasi a eguagliare il vecchio Merry. Ebbene, ucciderò un po’ di queste nidiate selvatiche prima della fine. Se almeno potessi rivedere la limpida luce del sole e l’erba verde!».
E mentre pensava a queste cose, il primo assalto piombò loro addosso. Gli Orchi furono costretti ad arrestarsi, trattenuti dai pantani che si stendevano davanti alle due colline, vomitando frecce sui ranghi dei difensori. Alle loro spalle sopraggiunsero, ruggendo come bestie, schiere di Troll di Gorgoroth. Erano più alti e più robusti degli Uomini, e non portavano che una stretta maglia di squame cornee, o forse era quella la loro orrida pelle. Ma reggevano enormi scudi tondi e neri, e pesanti martelli nelle mani nodose. Avanzarono noncuranti dei pantani, ululando e muggendo man mano che si avvicinavano. Irruppero come una tempesta sugli uomini di Gondor, colpendo teste ed elmi, braccia e scudi, come fabbri che martellano il ferro rovente. Accanto a Pipino, Beregond fu stordito e sopraffatto, e costretto a cadere; il grande capo dei Troll che l’aveva abbattuto si chinò su di lui, allungando un avido artiglio; quelle immonde creature solevano infatti mordere il collo di coloro che accoppavano.
Allora Pipino vibrò un colpo verso l’alto, e la lama dell’Ovesturia ornata di scritte penetrò attraverso la pelle del nemico immergendosi nelle parti vitali: il sangue nero sgorgò abbondante. Egli oscillò e cadde come una roccia franata, seppellendo coloro che gli stavano sotto. Oscurità, fetore e dolore improvviso piombarono tutt’a un tratto su Pipino e la sua mente fu inghiottita da grandi tenebre.
«Così, finisce proprio come credevo», dissero i suoi pensieri, e svanirono subito, ridendo prima di fuggire, perché sembrava quasi allegro gettare finalmente via ogni dubbio, timore e turbamento. Ma mentre volava verso l’oblio, la sua mente udì delle voci, che sembravano gridare in un mondo etereo e lontano:
«Arrivano le Aquile! Arrivano le Aquile!».
Per un attimo il pensiero di Pipino esitò. «Bilbo!», disse. «Ma no! Accadeva nella sua storia, tanto tanto tempo addietro. Questa è la mia storia, e adesso è finita. Addio!». E la sua mente volò via ed i suoi occhi più non videro.
Sam si alzò da terra a fatica. Per un attimo si chiese dove fosse, e poi tutto il mistero e la disperazione riapparvero ai suoi occhi. Era nella profonda oscurità fuori del cancello sotterraneo della fortezza degli Orchi; le sue porte impenetrabili erano sprangate. Doveva essere rimasto stordito quando aveva tentato di abbatterle scaraventandosi contro di esse. Si domandò da quanto tempo fosse steso lì. Prima aveva sentito in sé avvampare un incendio di rabbia e di disperazione: ora rabbrividiva infreddolito. Strisciò verso la porta e vi poggiò l’orecchio.
Udiva indistinti il clamore e le voci degli Orchi in lontananza, ma poco dopo tacquero o si allontanarono, e tutto rimase silenzioso. La testa gli doleva, e i suoi occhi vedevano al buio luci fantasma; ma si fece forza e rifletté. Era chiaro in ogni caso che non aveva alcuna speranza di entrare nella fortezza da quella parte; avrebbe potuto attendere giorni e giorni prima che aprissero il cancello, ed egli non poteva aspettare: il tempo era terribilmente prezioso. Non aveva più dubbi sul suo compito: doveva salvare il suo padrone o perire nel tentativo.
«Perire è più probabile, e comunque di gran lunga più facile», si disse freddamente, rimettendo Pungolo nella guaina e allontanandosi dal cancello impenetrabile. Avanzando lentamente a tentoni nell’oscura galleria non osò neppure servirsi della luce della fiala di Galadriel; mentre camminava cercava di ricostruire gli eventi dal momento in cui Frodo e lui avevano lasciato il Crocevia. Si domandò che ora fosse. Un certo tempo fra un giorno e quello seguente, probabilmente, ma aveva del tutto perduto conto anche dei giorni. Era in una terra di tenebre in cui i giorni del mondo parevano dimenticati e tutti coloro che entravano erano a loro volta dimenticati.
«Mi domando se pensano a noi di tanto in tanto», disse. «E chissà che cosa sta accadendo laggiù». Agitò la mano in aria innanzi a sé, ma di fatto fissava il Sud, e non l’Ovest, man mano che si avvicinava alla galleria di Shelob. Fuori, nel mondo occidentale, era quasi mezzogiorno del quattordicesimo giorno di marzo secondo il calendario della Contea, ed in quel momento Aragorn conduceva la flotta nera da Pelargir a Minas Tirith, mentre Merry cavalcava con i Rohirrim nella Valle Cavapietra, e a Minas Tirith le fiamme aumentavano e Pipino osservava la pazzia crescere negli occhi di Denethor. Eppure, in mezzo alle loro preoccupazioni e paure, il pensiero degli amici si dirigeva costantemente verso Frodo e Sam. Non erano dimenticati. Ma erano tuttavia lungi da qualsiasi possibile soccorso, e nessun pensiero veniva in aiuto a Samvise: era completamente solo.
Tornò infine alla porta di pietra da dove erano passati gli Orchi, incapace come prima di trovarne la chiusura o la serratura, la scavalcò, saltando agilmente a terra dall’altra parte. Poi si diresse furtivamente verso l’uscita della galleria di Shelob, ove i brandelli della sua grande tela sventolavano e oscillavano all’aria fredda. Tale infatti parve a Sam, dopo il fetore dell’oscurità ove era rimasto immerso; e quell’alito fresco lo rinvigorì. Continuò a strisciare cauto sempre più avanti.
Regnava una quiete minacciosa. La luce era quella del crepuscolo di una giornata tetra. I grandi vapori che si sprigionavano da Mordor e venivano sospinti verso occidente volavano bassi sulla sua testa, un turbine di nuvole e fumo illuminato di tanto in tanto da un improvviso bagliore rosso.
Sam levò gli occhi verso la torre degli Orchi, ed improvvisamente dalle strette finestre spuntarono luci simili a piccoli occhi rossi. Si domandò se si trattasse di un segnale. La paura degli Orchi, dimenticata per qualche tempo in mezzo alla disperazione ed alla rabbia, tornò ora in lui. A quanto pareva, non gli restava che un’unica possibilità di scelta: andare avanti e cercare di trovare l’ingresso principale dell’orrenda torre; ma le gambe non lo reggevano, e si accorse di tremare. Distogliendo lo sguardo dalla torre e dal burrone innanzi a lui, costrinse i piedi a seguirlo malvolentieri, e lentamente, ascoltando tutt’orecchie, scrutando le fitte ombre delle rocce che fiancheggiavano il sentiero, tornò sui propri passi, oltre il punto in cui Frodo era caduto, e dove si sentiva ancora il lezzo di Shelob, per poi salire sino al luogo esatto ove aveva infilato l’Anello, e visto la compagnia di Shagrat che si allontanava.
Allora si fermò e si sedette. Per il momento non riusciva a spingersi oltre. Sentiva che una volta oltrepassata la soglia del valico e compiuto anche un solo passo nella terra di Mordor, quel passo sarebbe stato irrevocabile. Non sarebbe mai potuto tornare indietro. Senza alcun preciso intento trasse fuori l’Anello e lo infilò nuovamente. Sentì subito l’enorme peso di quel fardello, e più intensa e incalzante che mai la malizia dell’Occhio di Mordor, che scrutava, cercando di penetrare le ombre create per la sua stessa difesa, ma che ora aumentavano i suoi dubbi e la sua irrequietezza.
Come prima, Sam si accorse che il suo udito diveniva più acuto, ma che alla vista le cose del mondo apparivano vaghe ed eteree. Le pareti rocciose del sentiero erano pallide, come viste attraverso la bruma, ma da lontano sentiva ancora Shelob brontolare sconsolata; rudi e chiare e molto vicine udì delle grida ed il fragore di metallo. Balzò in piedi, appiattendosi contro il muro lungo la strada. Era contento di avere l’Anello, perché un’altra schiera di Orchi si avvicinava, o così gli parve da principio, ma improvvisamente si rese conto che l’udito l’aveva ingannato: le grida degli Orchi venivano dalla torre, il cui pinnacolo più alto si ergeva dritto su di lui, dal lato sinistro della gola.
Sam rabbrividì e cercò di sforzarsi ad avanzare. Evidentemente stava succedendo qualche diavoleria. Forse, malgrado tutti gli ordini, gli Orchi erano stati sopraffatti dalla propria crudeltà e stavano torturando Frodo, o stavano persino facendolo selvaggiamente a pezzi. Si mise in ascolto, e nel far ciò un barlume di speranza gli illuminò gli occhi. Non potevano esserci molti dubbi: si lottava nella torre, gli Orchi dovevano essere in guerra gli uni con gli altri, Shagrat e Gorbag erano venuti alle mani. Per debole che fosse la speranza procuratagli dalla sua scoperta, fu sufficiente a incoraggiarlo. Forse aveva una probabilità di riuscita. Il suo amore per Frodo relegò ogni altra cosa in secondo piano, e dimentico del proprio pericolo gridò forte: «Sto arrivando, signor Frodo!».
Corse sino in cima al sentiero, che poi voltava a sinistra e scendeva ripido: Sam era entrato a Mordor.
Si tolse l’Anello, forse spinto da qualche profonda premonizione di pericolo, benché lui stesso fosse soltanto conscio del desiderio di vedere meglio. «Meglio dare uno sguardo al peggio», mormorò. «Inutile barcollare nella nebbia!».
Duro, crudele e selvatico era il paesaggio innanzi a lui. Ai suoi piedi la cresta più alta dell’Ephel Dùath precipitava come una parete a strapiombo sino ad un oscuro canale, sul cui lato opposto si ergeva un’altra cresta, molto più bassa, dal bordo dentellato e aguzzo, con rocce simili a zanne che si stagliavano nere nel rosso bagliore: era il tetro Morgai, il recinto interno del paese. Assai distante, ma quasi dirimpetto, al di là di un ampio lago d’oscurità puntellato di piccoli fuochi, si vedeva il grande bagliore d’un incendio da cui si levavano immense colonne di fumo, enormi tortiglioni rossi alla base e neri in cima che sostenevano un baldacchino di vapori sovrastante tutto il paese maledetto.
Era l’Orodrúin, la Montagna di Fuoco. Le fornaci in fondo al suo cono di cenere si scaldavano sempre di più, finché ad un tratto, con un gran brontolare e gorgogliare, vomitavano fiumi di roccia fusa da ogni fessura e crepa delle pendici. Alcuni scorrevano incandescenti in direzione di Barad-dûr percorrendo profondi canali, altri si aprivano un varco nella rocciosa pianura, per poi raffreddarsi e immobilizzarsi, contorti come forme di draghi sputate dalla terra tormentata. In quell’ora penosa Sam guardava il Monte Fato, la cui luce, velata dall’alta massa dell’Ephel Dùath dal lato occidentale, ardeva ora sulle rocce aguzze che parevano immerse nel sangue.
In quella terribile luce Sam si arrestò sconvolto, perché ora alla sua sinistra vedeva infine la Torre di Cirith Ungol in tutta la sua mole. Il corno che aveva individuato dall’altro lato non ne era che la torretta superiore. La facciata est si ergeva su tre grandi piani a partire da una sporgenza nella parete rocciosa; la parte posteriore poggiava contro una imponente rupe a picco, dalla quale sporgevano bastioni appuntiti che s’innalzavano uno sopra l’altro, diminuendo man mano che si facevano più alti, i cui fianchi costruiti con grande perizia erano rivolti a nord-est e a sud-est. Al di sopra del piano inferiore, duecento piedi più in basso di Sam, delle mura merlate circondavano uno stretto cortile. Il cancello della fortezza, situato nel lato volto a sud-est, si apriva su di un’ampia strada la cui banchina esterna correva lungo l’orlo di un precipizio prima di voltare a sud e di inabissarsi serpeggiando nelle tenebre sino a raggiungere la strada del Passo di Morgul. Da lì procedeva attraverso una fenditura nel Morgai, sbucando nella valle di Gorgoroth e conducendo a Barad-dûr. Lo stretto sentiero ove si trovava Sam correva rapidamente verso la strada maestra, a tratti scosceso, a tratti intagliato da gradini, raggiungendola sotto le rupi a picco vicine al cancello.
Nell’osservarla Sam comprese all’improvviso (e quasi trasalì) che quella fortezza era stata costruita non per tenere i nemici fuori da Mordor, ma per chiuderli dentro. Era una delle antiche costruzioni di Gondor, un avamposto orientale a difesa dell’Ithilien, edificato quando, dopo l’Ultima Alleanza, gli Uomini dell’Ovesturia sorvegliavano la malefica terra di Sauron ancora infestata dalle sue creature. Ma qui come nelle Torri dei Denti, Narchost e Carchost, la sorveglianza era venuta a mancare, e dei traditori avevano ceduto la Torre al Padrone degli Schiavi dell’Anello; essa era ormai da anni nelle mani di esseri ignobili. Tornato a Mordor, Sauron l’aveva trovata utile, poiché egli aveva pochi servitori e molti schiavi trattenuti con la paura, ed il suo scopo principale era ancora, come in passato, di impedire che fuggissero da Mordor. Ma in caso che un nemico fosse stato tanto avventato da cercare di entrare di nascosto, e fosse riuscito a eludere la sorveglianza di Morgul e di Shelob, la Torre rappresentava allora l’ultima vigile sentinella.
Sam comprese fin troppo chiaramente che cercare di strisciare sotto quelle mura dai mille occhi e passare oltre il cancello sarebbe stata un’impresa disperata. Ed anche se vi fosse riuscito, non sarebbe andato molto avanti: la strada era sorvegliata, e le ombre nere dei luoghi profondi ove non giungeva il bagliore rosso non offrivano alcuna sicurezza ed alcun riparo dagli occhi degli Orchi, capaci di vedere nel buio. Ma per disperata che fosse quella strada, il compito che lo attendeva adesso era ancora peggiore: non tentare di evitare il Cancello e di fuggire, ma di entrarvi, da solo.
Il suo pensiero si rivolse all’Anello, ma non vi trovò alcun conforto, solo paura e pericolo. Appena avvistato il Monte Fato che ardeva in lontananza, Sam si era accorto di un cambiamento sopravvenuto nel suo fardello. Man mano che si avvicinava alle immense fornaci dove, negli abissi del tempo, era stato modellato e forgiato, il potere dell’Anello aumentava, ed esso si faceva sempre più pesante: soltanto una potente forza di volontà avrebbe potuto domarlo. E benché non lo tenesse infilato, ma appeso alla catena intorno al collo, Sam si sentiva come ingigantito, ed aveva l’impressione che un’immensa e deforme ombra di se stesso lo avvolgesse, una gigantesca e nefasta minaccia ferma sulle mura di Mordor. Sapeva che d’ora in poi non aveva che due scelte: trasportare l’Anello, malgrado la tortura che gli provocava; o arrogarselo, sfidando il Potere che covava nella nera fortezza oltre la valle delle ombre. L’Anello lo tentava già, rodendo la sua volontà e la sua mente. Pazzie fantasiose sorsero nel suo cervello, ed egli vide Samvise il Forte, Eroe dell’Era, avanzare con una spada di fuoco attraverso il cupo territorio, mentre eserciti accorrevano al suo richiamo e marciavano a distruggere Barad-dûr. Allora le nubi si squarciarono e il sole tornò a brillare; ai suoi ordini, la valle di Gorgoroth divenne un giardino in fiore ove gli alberi portavano frutta. Doveva soltanto infilare l’Anello e arrogarselo, e tutto ciò sarebbe stato possibile.
In quell’ora di tentazione fu soprattutto l’amore per il padrone che l’aiutò a tener saldo; e poi, in fondo alla sua anima, viveva ancora indomito il buonsenso hobbit, ed egli sapeva in fin dei conti di non essere abbastanza grande per poter portare un simile fardello, anche se le visioni non fossero state esclusivamente ingannevoli illusioni. Il piccolo giardino di un libero giardiniere era tutto ciò di cui aveva bisogno, e non un giardino ingigantito alle dimensioni di un reame; aveva bisogno di adoperare le proprie mani, e non di comandare le mani altrui.
«E in ogni modo tutte queste idee sono solo un inganno», si disse. «Mi scoprirebbe e mi domerebbe senza lasciarmi nemmeno il tempo di gridare. Mi scoprirebbe assai presto se infilassi l’Anello qui a Mordor. Ebbene, tutto ciò che posso dire è che la situazione mi sembra disperata come una gelata in primavera. Proprio quando essere invisibile sarebbe davvero utile, non posso servirmi dell’Anello! E se dovessi riuscire ad avanzare, sarà solo un peso da trascinare ad ogni passo. Quindi, che cosa resta da fare?».
Ma non vi era in lui alcun dubbio: sapeva che doveva scendere al cancello senza perdere altro tempo. Scrollando le spalle, come per scacciare l’ombra e dissolvere i fantasmi, incominciò a scendere lentamente. Ad ogni passo pareva rimpicciolire. Dopo un breve percorso era tornato un piccolissimo Hobbit terrorizzato. Passava ora proprio sotto le mura della Torre, e le grida ed il fragore di una lotta si udivano distintamente. In quel momento il rumore sembrava provenire dal cortile dietro le mura esterne.
Sam era arrivato circa a metà della discesa, quando dal buio cancello uscirono di corsa due Orchi. Non si diressero verso di lui, e puntarono verso la strada principale; ma mentre correvano, inciamparono, cadendo in terra e rimanendo lì distesi e immobili. Sam non aveva veduto frecce, ma suppose che gli Orchi fossero stati uccisi dai dardi dei loro compagni nascosti sulle mura o all’ombra del cancello. Avanzò, strisciando contro il muro a sinistra. Gli era bastato uno sguardo per capire che non vi era speranza di scavalcarlo: la parete si ergeva per una trentina di piedi, senza fessure né sporgenze, ed era sormontata da un rilievo a forma di gradini rovesciati. Il cancello era l’unica via.
Continuò ad avanzare, domandandosi quanti Orchi dimoravano nella Torre insieme con Shagrat, e quanti erano agli ordini di Gorbag, e per quale motivo litigavano, se era ciò che stava accadendo. La compagnia di Shagrat gli era sembrata composta da una quarantina di Orchi, e quella di Gorbag da più del doppio; ma, beninteso, la pattuglia di Shagrat non era che una parte della sua guarnigione. Quasi certamente stavano litigando a causa di Frodo e del bottino. Sam si fermò improvvisamente, perché ad un tratto ogni cosa gli parve chiara, come se l’avesse veduta con i propri occhi. La cotta di maglia di mithril! Certo, Frodo la indossava, ed essi dovevano averla trovata. Da ciò che Sam aveva udito, Gorbag bramava di impadronirsene. Ma gli ordini della Torre Oscura erano per il momento l’unica protezione di Frodo, e se per caso fossero stati violati, Frodo poteva essere ucciso da un minuto all’altro.
«Avanti, miserabile poltrone!», gridò Sam a se stesso. «È il momento di muoversi!». Sguainò Pungolo e si mise a correre verso il cancello aperto. Ma mentre stava per passare sotto il grande arco, sentì un colpo, come se fosse stato sbattuto contro una tela come quella di Shelob, ma invisibile. Non vedeva alcun ostacolo, eppure qualcosa che la sua volontà non riusciva a sopraffare sbarrava la strada. Si guardò intorno, e vide, all’ombra del cancello, i Due Guardiani.
Erano come grandi figure sedute ciascuna su di un trono, e composte da tre corpi uniti, sormontati da tre teste rivolte verso dentro, verso fuori e verso la soglia del cancello. Avevano facce di avvoltoi e poggiate sulle ginocchia tenevano enormi mani simili ad artigli. Sembravano scolpiti in immensi blocchi di pietra, impassibili, eppure coscienti: qualche tremendo spirito malefico e vigile abitava in loro. Riconoscevano un nemico; nessuno, visibile o invisibile che fosse, poteva passare inosservato. Essi gli avrebbero impedito l’ingresso, o la fuga.
Facendosi forza, Sam balzò nuovamente avanti, fermandosi di botto, vacillando come a seguito di un colpo sul petto e sulla testa. Allora, con gran coraggio, poiché non gli veniva in mente nessun’altra soluzione, spinto da un’idea improvvisa, estrasse la fiala di Galadriel e la tenne alta. La bianca luce aumentò velocemente, diradando le ombre sotto l’oscuro arco. I mostruosi Guardiani rimasero freddi e immobili, rivelati in tutta la loro orrida mole. Per un attimo Sam colse un lampo nella nera pietra dei loro occhi, la cui malvagità lo atterrì; ma pian piano sentì la loro volontà vacillare e polverizzarsi in paura.
Con un balzo passò oltre, riponendo la fiala sul petto; ma nel fare ciò si rese conto, come se una sbarra d’acciaio avesse sprangato l’uscita alle sue spalle, che avevano raddoppiato la loro vigilanza. E dalle orrende teste si levò un urlo acuto che rimbombò fra le imponenti mura innanzi a lui. Dall’alto, come un segnale di risposta, una tetra campana suonò un unico rintocco.
«Ecco fatto!», disse Sam. «Ora ho suonato il campanello d’ingresso! Ebbene, venite tutti! Dite al capitano Shagrat che è arrivata la visita del grande guerriero elfico, nonché della sua spada elfica!».
Non vi fu alcuna risposta. Sam avanzò. Pungolo brillava nella sua mano d’una luce azzurra. Il cortile era immerso in un buio profondo, ma riuscì a vedere che il pavimento era coperto di corpi. Proprio ai suoi piedi giacevano due arcieri con pugnali infilati nella schiena. Più avanti erano stese altre figure, alcune separatamente come se fossero state accoppate o trafitte, altre appaiate e ancora unite, come intente a lottare, uccise evidentemente mentre cercavano di pugnalarsi, mordersi e colpirsi a vicenda. Il lastricato era viscido di sangue nero.
Sam notò due uniformi diverse, una con il simbolo dell’Occhio Rosso, e l’altra di una Luna sfigurata da un orrido teschio; ma non si fermò a guardare più da vicino. Dall’altro lato del cortile una porta socchiusa conduceva nella Torre: ne usciva una luce rossa che illuminava un grosso Orco morto sulla soglia. Sam oltrepassò il cadavere con un salto ed entrò: poi si guardò intorno, smarrito.
Un ampio corridoio conduceva dalla porta di nuovo verso il fianco della montagna: era fiocamente illuminato da fiaccole sorrette al muro da mensole, ma l’estremità si perdeva nelle tenebre. Si vedevano molte porte ed aperture da un lato e dall’altro, ma tranne altri due o tre corpi per terra il corridoio era deserto. Da ciò che aveva udito della conversazione dei capitani, Sam sapeva che, vivo O morto, Frodo doveva probabilmente trovarsi in una stanza in cima alla torretta; ma prima di trovare la via avrebbe potuto cercare per un giorno intero.
«Suppongo che sarà dalla parte posteriore», mormorò Sam. «L’intera Torre si arrampica all’indietro. E comunque sarà meglio che segua queste luci».
Egli avanzò nel corridoio, ma lentamente, sempre più riluttante, perché il terrore stava cominciando a impadronirsi nuovamente di lui. Non vi era altro rumore che quello dei suoi passi, che sembrava ingigantirsi e rimbombare, come grandi mani che battevano sulle pietre. I cadaveri; il vuoto; le pareti nude che alla luce delle fiaccole sembravano gocciolare sangue; la paura di una morte improvvisa che gli tendesse un agguato nel vano di una porta o in un’ombra; e la costante presenza della vigile malvagità dei Guardiani! Gli sembrava impossibile riuscire ad affrontare tutto ciò. Avrebbe preferito una battaglia con non troppi avversari contemporaneamente a quella tremenda incertezza. Si costrinse a pensare a Frodo, che giaceva legato o sofferente o morto da qualche parte, in quell’orribile luogo. Avanzò.
Aveva oltrepassato la luce delle torce, giungendo quasi ad un grande arco in fondo al corridoio, che indovinò essere la parte interna del cancello sotterraneo, quando dall’alto si levò un terrificante grido strozzato. Si fermò di botto. Poi udì rumore di passi. Qualcuno correva in fretta giù per una scala sopra la sua testa.
La sua volontà era troppo debole e lenta per trattenere la mano, che si avvicinò alla catena e afferrò l’Anello. Ma Sam non l’infilò, perché proprio mentre lo stringeva contro il petto, vide un Orco balzare fuori da un oscuro vano alla sua destra e corrergli incontro. Non distava più di sei passi da lui quando, levando il capo, vide all’improvviso Sam; questi udiva il respiro affannoso e vedeva il bagliore degli occhi iniettati di sangue. L’Orco si fermò terrorizzato. Perché la visione che si presentò ai suoi occhi non fu quella di un piccolo Hobbit spaurito che cercava di non far tremare la sua spada; egli vide un’enorme figura silenziosa, avviluppata in un’ombra grigia, ergersi innanzi alla oscillante luce di una torcia; con una mano reggeva una spada, la cui luce era già di per sé dolorosa, e con l’altra stringeva qualcosa sul petto, nascondendo qualche ignota minaccia di potere e distruzione.
L’Orco si accoccolò un attimo e poi con un orribile strillo di paura si voltò, fuggendo da dove era arrivato. Mai cane alla vista del nemico che fugge inaspettatamente con la coda fra le gambe fu più rincorato di Sam. Con un grido lo rincorse.
«Sì! Il guerriero elfico si è scagliato!», gridò. «Sto arrivando. Vedi di mostrarmi la strada per salire, o ti scanno!».
Ma l’Orco era nella sua tana, ed inoltre agile e ben nutrito. Sam era uno straniero, affamato e stanco. Le scale erano alte, ripide ed a chiocciola. Sam cominciò a respirare con difficoltà. L’Orco scomparve rapidamente, ed egli udiva ormai soltanto il rumore dei piedi che salivano, e di tanto in tanto un grido, la cui eco rimbombava per le scale. Ma lentamente ogni rumore svanì.
Sam avanzava con passo stanco. Sentiva di essere sulla giusta via, ed il suo umore era notevolmente migliorato. Lasciò stare l’Anello e si strinse la cinta. «Bene, bene!», disse. «Se provano tutti altrettanta antipatia per me e per Pungolo, questa avventura finirà meglio di quanto non credessi. E in ogni modo si direbbe che Gorbag, Shagrat e compagni abbiano già compiuto gran parte del mio lavoro. Salvo quel piccolo topo terrorizzato, credo non vi sia nessun altro vivo in questo posto!».
Ma dicendo ciò si fermò di colpo, come se avesse urtato con la testa contro il muro di pietra. L’intero significato delle sue parole l’aveva colpito violentemente. Nessun altro vivo! Chi aveva lanciato quell’orribile urlo morente? «Frodo, Frodo! Padrone!», gridò quasi singhiozzando. «Se ti hanno ucciso, che cosa farò? Sto finalmente arrivando, proprio in cima, a vedere che cosa mi attende».
Saliva sempre più su. Era tutto buio, salvo di tanto in tanto una fiaccola in una curva o vicino a qualche apertura che conduceva ai livelli superiori della Torre. Sam cercò di contare i gradini, ma arrivato a duecento perse il conto. Ora si muoveva silenziosamente, perché gli pareva di udire il suono di voci che discutevano ancora un po’ più in alto. Sembrava dunque che più di un topo vivesse ancora.
Tutt’a un tratto, quando credeva di avere esaurito tutto il suo fiato e la forza delle ginocchia, la scala finì. Egli rimase fermo e silenzioso. Le voci erano forti e chiare. Sam si guardò intorno. Si era arrampicato fino al tetto piatto del terzo ed ultimo piano della Torre: uno spiazzo aperto, lungo circa venti metri, circondato da un basso parapetto. La scala era coperta da una piccola stanza o volta che sorgeva in centro al tetto, con basse porte rivolte ad est e ad ovest. Ad est Sam vedeva la piana di Mordor vasta e cupa e la montagna che bruciava in lontananza. Un nuovo rigurgito stava preparandosi nei suoi abissi, ed i fiumi di fuoco avvamparono così violentemente che persino a parecchie miglia di distanza la loro luce illuminò la cima della Torre d’un bagliore rosso. Ad ovest la vista era bloccata dalla base della grande torretta che si ergeva nella parte posteriore di quel cortile elevato, innalzando il suo corno al di sopra di tutti i colli circostanti. Una luce brillava dalla fessura di una finestra. La porta non distava più di dieci metri dal punto ove si trovava Sam: era aperta ma buia, e dall’interno oscuro venivano delle voci.
Sulle prime Sam non ascoltò, avanzando di un passo dalla porta orientale e guardandosi intorno. Vide immediatamente che la battaglia più violenta si era svolta lì. Il cortile era zeppo di Orchi morti e delle loro teste e membra amputate e sfregiate. Tutto puzzava di morte. Un ringhio seguito da un colpo e da un grido lo spedì di corsa nel suo nascondiglio. Una voce d’Orco si levò furiosa, ed egli la riconobbe immediatamente, rude, brutale, fredda. Era Shagrat che parlava, il Capitano della Torre.
«Non vuoi tornare giù, dici? Maledetto Snaga, piccolo verme! Se credi che io sia talmente ferito da poterti permettere di insultarmi, ti sbagli. Vieni qui, e ti farò saltare gli occhi dalle orbite, come ho fatto con Radbug proprio in questo istante. E quando arriveranno altri ragazzi mi occuperò di te: ti manderò da Shelob».
«Non arriveranno, o comunque non certo prima che tu muoia», rispose brutalmente Snaga. «Te l’ho già detto due volte che i porci di Gorbag sono usciti dal cancello per primi, e che dei nostri nessuno è uscito. Lagduf e Muzgash erano corsi fuori, ma li hanno ammazzati. Ti dico che l’ho visto dalla finestra. Ed erano gli ultimi».
«Allora devi andare tu. Io devo rimanere qui in ogni caso. E poi sono ferito. Possano i Pozzi Neri ingoiare quel lurido ribelle d’un Gorbag!». La voce di Shagrat sputò una serie di insulti e bestemmie. «Gli ho dato più di quanto io non abbia ricevuto, ma è riuscito ad accoltellarmi, quel pezzo di letame, prima che gli squarciassi la trachea. Va’, se non vuoi che io ti scanni. Dobbiamo mandare notizie a Lugbùrz, o ci aspetteranno i Pozzi Neri. Sì, aspetteranno anche te. Non sfuggirai rimanendo qui imbronciato».
«Io non scenderò più quelle scale», grugnì Snaga, «che tu sia il capitano o meno. Nar! Tieni le mani lontane dal pugnale o t’infilo una freccia nelle budella. Non rimarrai a lungo capitano quando Loro sapranno tutto quello che è accaduto. Io ho combattuto per la Torre contro quei puzzolenti ratti di Morgul, ma avete combinato un bel pasticcio, voi due bei tomi di capitani, lottando per il bottino».
«Non voglio sentire altro da te!», ringhiò Shagrat. «Io avevo i miei ordini. È stato Gorbag a incominciare, cercando di arraffare quella bella camicia».
«Ma tu l’hai fatto andare su tutte le furie, con le tue arie. E in ogni modo ragionava meglio di te. Ti ha detto più di una volta che la Più pericolosa di queste spie è ancora in giro, e tu non hai voluto ascoltarlo. E non vuoi ascoltare neanche adesso. Gorbag aveva ragione, ti dico. Un grande guerriero passeggia da queste parti, uno di quegli Elfi dalle mani sanguinarie, o uno dei luridi tark[17]. Ti dico che sta venendo qui. Hai sentito la campana. È riuscito a superare i Guardiani, e questa è l’opera di un tark. È sulle scale. E fino a quando non se ne va dalle scale, io non scendo. Neanche se tu fossi un Nazgûl, scenderei».
«Allora è così?», urlò Shagrat. «Tu farai questo e non farai quello? E quando arriverà qui te la vorresti filare a gambe levate lasciandomi solo? No, ti sbagli! Ti bucherò la pancia, prima».
Dalla porta della torretta uscì correndo l’Orco più piccolo, inseguito da Shagrat, uno grande con le lunghe braccia che, mentre correva curvo, strisciavano per terra. Ma un braccio era senza vita, e sembrava sanguinare; l’altro stringeva un grosso fagotto nero. Nel rosso bagliore Sam, accoccolato dietro la porta della scala, intravide il suo viso malefico: era come lacerato da avidi artigli e coperto di sangue; la bava gli gocciolava dalle fauci e la sua bocca ghignava come quella di una belva.
Da ciò che Sam riuscì a vedere, Shagrat inseguì Snaga per tutto il tetto fino a quando l’Orco più piccolo riuscì a mettersi in salvo, rifugiandosi con un grido nella torretta. Allora Shagrat si fermò. Dalla porta orientale Sam lo vide ansimare accanto al parapetto, mentre il suo artiglio sinistro si apriva e si chiudeva debolmente. Posò in terra il fagotto e con l’artiglio destro trasse fuori un lungo pugnale rosso, sputandovi sopra. Poi si avvicinò al parapetto e sporgendosi in fuori sul cortile basso gridò due volte, ma non ebbe risposta.
Improvvisamente, mentre Shagrat era chino sul parapetto, Sam vide con stupore che uno dei corpi distesi si stava muovendo. Stava strisciando. Allungò una grinfia e afferrò il fagotto. Si alzò in piedi vacillando. Nell’altra mano teneva una lancia dalla testa larga e l’asta spezzata. Era pronto al lancio. Ma proprio in quell’attimo gli sfuggì un sibilo, di dolore o forse di odio. Rapido come un serpente Shagrat si spostò, e voltandosi infilò il pugnale nella gola dell’avversario.
«Ti ho preso, Gorbag!», gridò. «Non ancora del tutto morto, eh? Ebbene, ora finirò il mio lavoretto». Con un balzo fu sul corpo del caduto, calpestandolo e stritolandolo furiosamente, chinandosi di tanto in tanto per pugnalarlo o frustarlo. Finalmente soddisfatto alzò il capo lanciando un orribile gorgogliante urlo di trionfo. Poi leccò il pugnale e se lo mise fra i denti, e afferrando il fardello si diresse verso la porta delle scale.
Sam non ebbe il tempo di riflettere. Avrebbe potuto sgusciare dall’altra porta, ma sarebbe stato visto egualmente; e non avrebbe potuto sostenere a lungo una partita a nascondino con l’Orco. Fece probabilmente la migliore cosa che vi fosse da fare. Balzò incontro a Shagrat lanciando un urlo. Non teneva più stretto l’Anello, ma esso era lì, un potere nascosto, una minaccia contro gli schiavi di Mordor; ed in mano stringeva Pungolo, la cui luce colpiva gli occhi dell’Orco come lo scintillio di stelle crudeli nelle terribili terre degli Elfi, la cui immagine evocava in tutti quelli della sua razza paurosi incubi. E Shagrat non poteva lottare e contemporaneamente tenere il suo tesoro. Si arrestò, digrignando i denti. Poi ancora una volta si spostò lateralmente e mentre Sam gli balzava incontro, adoperando il pesante fardello come scudo e come arma, lo lanciò con violenza sul viso dell’avversario. Sam vacillò, e prima di riprendere l’equilibrio vide Shagrat oltrepassarlo e fuggire giù per le scale.
Sam lo rincorse imprecando, ma non fece molta strada. Presto il pensiero di Frodo gli tornò alla mente, ed egli si ricordò che l’altro Orco era ritornato nella torretta. Si trovava di nuovo di fronte a una terribile scelta, e non aveva tempo per ponderarla. Se Shagrat fuggiva, avrebbe presto trovato dei soccorsi e sarebbe tornato. Ma se Sam lo rincorreva, l’altro Orco avrebbe potuto compiere qualche terribile azione, lassù. E comunque poteva accadere che Sam non agguantasse Shagrat, o venisse da lui ucciso. Si voltò quindi velocemente e corse su per le scale. «Di nuovo la decisione sbagliata, suppongo», si disse sospirando. «Ma è mio compito salire subito in cima, qualunque cosa accada in seguito».
Giù in basso Shagrat scendeva di corsa gli ultimi gradini, attraversava poi il cortile e passava il cancello, stringendo il suo prezioso fardello. Se Sam avesse potuto vederlo e immaginare il dolore che la sua fuga avrebbe causato, forse avrebbe esitato. Ma ora il suo pensiero era intento all’ultima fase della ricerca. Si avvicinò cauto alla porta della torretta e la varcò. Fu immerso nelle tenebre. Ma presto i suoi occhi spalancati si accorsero di una fioca luce sulla destra. Veniva da un’apertura che conduceva a un’altra scala, stretta e scura: sembrava arrampicarsi sulla torretta, salendo a spirale all’interno delle mura. Una torcia brillava lassù da qualche parte.
Senza rumore, Sam cominciò a salire; giunse alla torcia, fissata su di una porta alla sua sinistra. Alla sua destra c’era una feritoia rivolta a occidente: uno degli occhi rossi che lui e Frodo avevano veduti dal basso, in prossimità dell’ingresso della galleria. Sam oltrepassò rapido la porta e si affrettò a salire al secondo piano, temendo ad ogni istante di venire assalito o di sentire delle dita strangolarlo afferrandogli la gola alle sue spalle. Giunse a una seconda finestra, rivolta ad est, e un’altra torcia sulla porta illuminava un corridoio che conduceva al centro della torretta. La porta era aperta; la galleria, buia ed appena rischiarata dal barlume della fiaccola e dal rosso bagliore che penetrava dall’esterno attraverso la feritoia. Ma qui la scala si fermava e non continuava oltre. Sam avanzò nel corridoio. Da ambedue i lati vi era una porta bassa, ma erano entrambe chiuse e sprangate. Non udì alcun rumore.
«Un vicolo cieco», mormorò Sam; «e dopo tutta la salita che ho fatto! Questa non può essere la cima della torre. Ma ora, che cosa posso fare?».
Tornò correndo al piano inferiore, cercando di aprire la porta, ma fu impossibile. Corse su di nuovo, e il sudore cominciò a correre sulla sua fronte. Sentiva che ogni minuto era prezioso, ma il tempo fluiva implacabile ed egli non poteva far nulla. Non pensava più a Shagrat né a Snaga, né ad alcun altro Orco che fosse mai stato generato. Desiderava soltanto il suo padrone, voleva vedere il suo viso, toccare la sua mano.
Infine, spossato e sconfitto, si sedette su di un gradino sotto il livello del pavimento del corridoio, e appoggiò il capo fra le mani. Tutto era silenzioso, orribilmente silenzioso. La torcia che era già quasi consumata al suo arrivo, vacillò e si spense, ed egli sentì l’oscurità coprirlo come una marea. E poi improvvisamente, meravigliandosene lui stesso, alla fine vana e inutile del suo lungo viaggio e del suo dolore, spinto da chissà quale pensiero, Sam cominciò a cantare dolcemente.
La sua voce era esile e tremante nella cupa torre fredda. La voce di un Hobbit sconfortato e sfinito che nessun Orco avrebbe mai potuto confondere con il chiaro canto di un signore elfico. Mormorò vecchie filastrocche infantili della Contea, e brani delle poesie del signor Bilbo che gli venivano alla mente come eteree visioni della sua terra nativa. E poi, improvvisamente, una nuova forza sorse in lui, e la sua voce squillò, mentre le parole sgorgarono spontanee adattandosi al semplice motivo.
Nelle terre d’Ovest ove il Sole brilla
nascono i boccioli in primavera,
fioriscono gli alberi, l’acqua zampilla,
gli uccelli cantan nella sera,
Son senza nubi le notti e son belle,
e portan dolcemente le betulle
come gemme bianche le elfiche Stelle
fra i loro capelli di fanciulle.
Del mio viaggio la fine è arrivata,
delle tenebre orribile è il peso,
ma oltre torre alta e alata,
oltre monte e pendio scosceso,
sulle ombre il Sole si è alzato
e le Stelle brillano in cielo.
Non dirò che il Giorno è passato,
che le Stelle portano un velo.
«Oltre torre alta e alata», cominciò di nuovo, fermandosi però di botto. Gli parve di udire una voce fioca che gli rispondeva. Ma poi non udì più nulla. Sì, udì qualcosa, ma non una voce. Dei passi che si avvicinavano. Una porta che si apriva nel corridoio, i cardini che scricchiolavano. Sam si accovacciò in ascolto. La porta si chiuse con un tonfo sordo; poi si udì il ringhio d’un Orco.
«Ehilà! Ammasso di letame, lurido topo! Piantala di squittire, o verrò io a regolare i conti con te. Mi senti?».
Non ebbe risposta.
«E va bene», ruggì Snaga. «Ma verrò lo stesso a darti un’occhiata e a vedere cosa stai combinando».
La porta scricchiolò di nuovo e Sam, sbirciando dall’angolo del corridoio all’altezza del suolo, vide brillare una luce da una porta aperta, e la figura di un Orco uscirne. Sembrava portare una scala. Improvvisamente la risposta balenò alla mente di Sam: la stanza superiore era raggiungibile attraverso una botola nel soffitto del corridoio. Snaga appoggiò la scala e si arrampicò scomparendo alla vista. Sam udì aprire una serratura, e la voce strillare di nuovo.
«Sta” zitto, o la pagherai! Non credo che ti rimanga molto tempo da vivere in pace, ma se non vuoi che il divertimento cominci sin da adesso, tieni chiusa la botola, capito? Ecco qualcosa per fartelo ricordare!». Seguì un rumore simile allo schiocco di una frusta.
Allora il furore avvampò nel cuore di Sam. Balzò in piedi, corse avanti e si arrampicò su per la scaletta come un gatto. La sua testa sbucò nel centro del pavimento di una grande stanza circolare. Una lampada rossa pendeva dal soffitto; la feritoia volta ad ovest era alta e buia. Qualcosa giaceva in terra vicino alla parete sotto la finestra, e su questo qualcosa era china la figura di un Orco. Alzò la frusta una seconda volta, ma il colpo non arrivò mai.
Con un grido Sam balzò attraverso la stanza brandendo Pungolo. L’Orco si voltò rapidamente ma prima che potesse muoversi Sam gli tagliò netto il braccio che reggeva la frusta. Urlando dal dolore e dalla paura, l’Orco tentò un ultimo disperato assalto a testa in avanti. Il colpo di Sam mancò il bersaglio; egli perse l’equilibrio e cadde all’indietro, afferrando l’Orco che gli stava inciampando addosso. Ma prima di riuscire a rialzarsi udì un urlo e un tonfo. Nella sua folle violenza l’Orco era incespicato nella scala e piombato giù nella botola. Sam non si curò più di lui. Corse alla figura accovacciata per terra. Era Frodo.
Era nudo e giaceva come privo di sensi su di un cumulo di luridi cenci: teneva alto il braccio, coprendosi la testa, e sul suo fianco vi era una brutta ferita da frusta.
«Frodo! Caro signor Frodo!», gridò Sam quasi accecato dalle lacrime. «Sono Sam, sono arrivato!». Sollevò leggermente il padrone stringendoselo al petto. Frodo aprì gli occhi.
«Sto ancora sognando?», mormorò. «Ma gli altri sogni erano orribili».
«Non state per nulla sognando, padrone», disse Sam. «È vero, sono io. Sono arrivato».
«Non ci posso credere», disse Frodo stringendosi a lui. «C’era un Orco con una frusta, e poi si trasforma in Sam! Allora non stavo sognando quando udii cantare laggiù e cercai di rispondere. Eri tu?».
«Ero proprio io, signor Frodo. Avevo quasi perduto la speranza. Non riuscivo a trovarvi».
«Ebbene, ora ci sei riuscito, Sam, caro Sam», disse Frodo, appoggiandosi alle braccia di Sam e chiudendo gli occhi come un bambino i cui incubi notturni sono stati allontanati da una mano o da una voce amata.
Sam sentì che avrebbe potuto rimanere per sempre così, in un’eterna felicità; ma non era permesso. Non era sufficiente per lui aver trovato il padrone, doveva ancora cercare di salvarlo. Posò un bacio sulla fronte di Frodo e gli disse: «Coraggio, svegliatevi, signor Frodo!», cercando di sembrare allegro come quando apriva le tende di Casa Baggins in un mattino d’estate.
Frodo sospirò e si mise a sedere. «Dove siamo? E come sono arrivato sin qui?», domandò.
«Non abbiamo tempo per i racconti se non fuggiamo prima da qualche altra parte, signor Frodo», disse Sam. «Ma siamo in cima a quella torre che vedemmo dal basso, accanto alla galleria, prima che gli Orchi vi prendessero. Non so quanto tempo sia passato da allora. Direi, più di un giorno».
«Soltanto?», esclamò Frodo. «Sembrano settimane. Devi raccontarmi tutto se ne avremo l’occasione. Qualcosa mi ha colpito, non è vero? Ed io piombai nell’oscurità e nei sogni e svegliandomi mi accorsi che era ancora peggio che sognare. Orchi tutt’intorno. Credo che mi avessero appena versato un’orribile bevanda bollente in gola. Rinvenni, ma ero dolorante e sfinito. Mi tolsero ogni indumento, e poi due enormi bruti vennero a interrogarmi, e continuarono finché credetti d’impazzire, in piedi su di me, gongolanti, accarezzando i loro pugnali. Non dimenticherò mai le loro grinfie e i loro occhi».
«Non li dimenticherete se continuate a parlarne, signor Frodo», disse Sam. «E se non vogliamo rivederli, prima ci avviamo meglio è. Potete camminare?».
«Sì, posso camminare», disse Frodo alzandosi lentamente. «Non sono ferito, Sam. Mi sento soltanto molto stanco, e ho male qui». Mostrò con la mano la spalla sinistra all’altezza del collo. Si alzò, ed a Sam parve che fosse vestito di fiamme: la pelle nuda era scarlatta alla luce della lampada che pendeva dal soffitto. Camminò su e giù per la stanza.
«Così va meglio!», disse Frodo, leggermente rincorato. «Non osavo muovermi quando ero solo, o quando veniva una delle guardie. Poi incominciarono tutte le urla e le lotte. Quei due grossi bruti: credo che litigassero. Per me e per la mia roba. Ero paralizzato dall’orrore. E poi tutto diventò immobile come la morte, e fu peggio ancora».
«Sì, a quanto pare hanno litigato», disse Sam. «Deve esserci stato un paio di centinaia di quelle infami creature in questo luogo immondo. Un po’ tante per Sam Gamgee, direi. Ma se la sono sbrigata fra loro. È stato un colpo di fortuna, ma non abbiamo tempo di farne una canzone se non usciamo prima da qui. Ora, che cosa dobbiamo fare? Non potete passeggiare nella Terra Nera con nient’altro che la vostra pelle, signor Frodo».
«Hanno preso tutto, Sam», disse Frodo. «Tutto ciò che avevo, capisci? Tutto!». Si accasciò di nuovo per terra con la testa china, e le sue parole gli riportarono alla mente l’intera disastrosa realtà; fu sopraffatto dalla disperazione. «La missione è fallita, Sam. Anche se usciamo da qui, non vi è speranza di salvezza. Solo gli Elfi possono trovarla, lontano, lontano, lungi dalla Terra di Mezzo, al di là del Mare. Ammesso che sia sufficientemente vasto da sfuggire all’Ombra».
«No, non tutto, signor Frodo. E non è fallita, non ancora. Io l’ho preso, signor Frodo, e vi prego di scusarmi. E l’ho tenuto al sicuro. È intorno al mio collo, adesso, ed è anche un terribile fardello». Sam cercò l’Anello e la catena. «Ma suppongo che ora voi lo dobbiate riprendere». Ora che lo portava, Sam era riluttante a restituire l’Anello e ad affidarne il peso al suo padrone.
«L’hai tu?», balbettò Frodo. «L’hai qui con te? Sam, sei grande!». Poi improvvisamente il suo tono mutò in modo strano. «Dammelo!», gridò alzandosi e tendendo una mano tremante. «Dammelo immediatamente! Non lo puoi tenere tu!».
«Benissimo, signor Frodo», disse Sam piuttosto sorpreso. «Eccolo!». Si tolse lentamente di dosso l’Anello, passando sul capo la catena. «Ma ora siete nella terra di Mordor, signore; e uscendo vedrete la Montagna di Fuoco e tutto il resto. Troverete l’Anello molto pericoloso, adesso, e molto difficile da portare. Se per voi è troppo pesante, forse possiamo darci il cambio».
«No, no!», gridò Frodo strappando Anello e catena dalle mani di Sam. «No, non lo porterai, ladro!». Ansimò, scrutando Sam con occhi sbarrati dalla paura e dall’ostilità. Poi, improvvisamente, stringendo l’Anello nel pugno chiuso, rimase immobile e costernato. La nebbia sembrò diradarsi dai suoi occhi, ed egli si passò la mano sulla fronte indolenzita. L’orrida visione gli era sembrata quasi realtà, intontito com’era dalla ferita e dalla paura. Sam si era trasformato ai suoi occhi in un Orco che osservava avido il suo tesoro, un’infida piccola creatura dagli occhi famelici e la bocca bavosa. Ma ora la visione era scomparsa. In ginocchio innanzi a lui era Sam, il volto tormentato dal dolore, come pugnalato al cuore; le lacrime gli sgorgavano abbondanti dagli occhi.
«Oh, Sam!», gridò Frodo. «Che cosa ho detto? Che cosa ho fatto? Perdonami! Dopo tutto quello che hai sofferto! È l’orribile potere dell’Anello. Vorrei che non fosse mai, mai stato trovato. Ma non ti preoccupare per me, Sam; devo portare il fardello sino alla fine. Non abbiamo altra soluzione. Non puoi frapporti fra me e questo destino,».
«Va bene, signor Frodo», disse Sam strofinandosi gli occhi con la manica. «Capisco. Ma posso ancora essere d’aiuto, non è vero? Vi devo fare uscire da qui. Immediatamente, sapete. Ma prima avete bisogno di vestiti e poi di cibo. I vestiti sarà facile procurarseli. Poiché siamo a Mordor, meglio seguire la moda di Mordor; e comunque non abbiamo scelta. Temo che dovrete portare la roba degli Orchi, signor Frodo. Ed anch’io mi cambierò. Se andiamo insieme è meglio essere intonati. Per adesso copritevi con questo».
Sam sbottonò il suo manto grigio e lo mise sulle spalle di Frodo. Poi liberandosi del suo fagotto, lo posò per terra. Sguainò Pungolo. Non si vedeva quasi alcun bagliore sulla lama. «Stavo dimenticando questa, signor Frodo», disse. «No, non hanno preso tutto! Mi avevate prestato Pungolo, ricordate, e la fiala della Dama. Li ho ancora tutti e due. Ma prestatemeli ancora un poco, signor Frodo. Devo andare a vedere che cosa posso trovare. Voi restate qui. Camminate e sgranchitevi le gambe. Torno presto, non dovrò andare lontano».
«Sta’ attento, Sam!», disse Frodo. «E fa’ presto! Vi potrebbero essere altri Orchi vivi in agguato».
«Devo correre questo rischio», rispose Sam. Si avvicinò alla botola e scivolò giù per la scala. Riapparve dopo un minuto. Gettò in terra un lungo pugnale.
«Ecco qualcosa che potrebbe esservi utile», disse. «È morto, quello che vi ha frustato. A quanto pare si è rotto il collo per la fretta. Ora tirate su la scala, se ce la fate, signor Frodo, e non abbassatela finché non mi sentite dire la parola d’ordine. Dirò Elbereth. Ciò che dicono gli Elfi. Nessun Orco pronuncerebbe questa parola».
Frodo rimase per qualche tempo seduto e tremante, mentre diversi timori si alternavano nella sua mente. Poi si alzò, avviluppandosi nel manto elfico, e per tenere la mente occupata cominciò a camminare in lungo e in largo, scrutando e osservando ogni angolo della sua prigione.
Trascorso non molto tempo, che la paura fece sembrare almeno un’ora, udì la voce di Sam pronunciare dal basso: Elbereth, Elbereth. Frodo fece scendere la leggera scala. Sam apparve, ansimando, con un pesante fagotto sulla testa. Lo lasciò cadere con un tonfo.
«Ed ora presto, signor Frodo!», disse. «Ho dovuto cercare un bel po’ per trovare qualcosa di abbastanza piccolo per le nostre dimensioni. Dovremo adattarci. Ma dobbiamo fare presto. Non ho incontrato anima viva, e non ho visto nulla, ma non mi sento tranquillo. Credo che questo posto sia sorvegliato. Non riesco a spiegarmi, ma insomma è come se uno di quegli orrendi Cavalieri fosse da queste parti, galoppando nelle tenebre che lo nascondono».
Aprì il fagotto. Frodo ne osservò disgustato il contenuto, ma non vi era altra scelta: doveva infilare quelle vesti o andare nudo. Trovò dei calzoni pelosi fatti con la pelle di qualche schifoso animale, e una tunica di cuoio lurido. Li infilò. Sulla tunica mise una cotta di robusta maglia, corta per un Orco adulto, troppo lunga e pesante per Frodo. La assicurò con una cinta dalla quale pendeva una corta guaina contenente una spada dalla lama larga. Sam aveva portato anche parecchi elmi, uno dei quali andava abbastanza bene, un casco nero bordato di ferro e adorno di cerchi di ferro coperti di pelle sui quali l’Occhio malefico era dipinto in rosso, proprio Sul nasale a forma di becco.
«La roba di Morgul, quella appartenente a Gorbag, era più adatta come dimensioni e di migliore qualità», disse Sam; «ma non potevamo andare in giro per Mordor con le sue uniformi, dopo tutto quello che è successo qui. Ebbene, eccovi pronto, signor Frodo. Un vero Orco, se fosse possibile coprirvi il viso con una maschera, allungarvi le braccia e storcervi le gambe. Questo nasconderà qualche difetto». Avvolse le spalle di Frodo in un grande mantello nero. «Ora siete pronto! Potete raccogliere uno scudo strada facendo».
«E tu, Sam?», domandò Frodo. «Non dovevamo essere intonati?».
«Ebbene, signor Frodo, ho riflettuto», disse Sam. «È meglio che non lasci in giro la mia roba e non possiamo distruggerla. E non posso infilarmi i vestiti degli Orchi sopra i miei, no? Dovrò cercare di nascondermi».
Si curvò e piegò con cura il manto elfico. Divenne un pacco sorprendentemente piccolo. Lo infilò nel suo fagotto che giaceva per terra; poi alzatosi se lo mise in spalla, infilandosi in testa un elmo di Orco e gettandosi sulle spalle un altro manto nero. «Ecco!», disse. «Ora siamo quasi intonati, ed è ora di partire!».
«Dovrò fare qualche tappa, Sam», disse Frodo con uno stanco sorriso. «Spero che tu ti sia informato delle osterie che troveremo per strada. O hai dimenticato cibi e bevande?».
«Proprio così!», esclamò Sam. Poi fischiò, rassegnato e abbattuto. «Ahimè, signor Frodo, mi avete fatto diventare improvvisamente affamato e assetato! Non so proprio quando ho ingoiato il mio ultimo boccone né quando ho bevuto l’ultima volta. Me ne ero scordato, intento com’ero a cercarvi. Lasciate che rifletta! L’ultima volta che guardai avevo ancora una quantità di pan di via e di cibo datoci dal Capitano Faramir, sufficiente a tenermi in piedi per un paio di settimane. Però non ho certo più di un goccio nella fiasca. Comunque, non potrà bastare per due. Ma gli Orchi, non mangiano e non bevono? O vivono esclusivamente di aria fetida e di veleno?».
«No, mangiano e bevono, Sam. L’Ombra che li allevò sa solo disfare, non sa fare, creare cose nuove da sola. Non credo che abbia generato gli Orchi; non fece che rovinarli e depravarli, e se devono vivere, devono nutrirsi come gli altri esseri viventi. Useranno acque malsane e cibi malsani, se non trovano altro, ma non veleno; mi hanno nutrito, e in ciò sono più fortunato di te. Dev’esserci dell’acqua e del cibo da qualche parte in questa fortezza».
«Ma non c’è tempo per cercarli», disse Sam.
«Ebbene, le cose stanno un po’ meglio di quanto tu non creda», disse Frodo, «Ho avuto un colpo di fortuna, mentre tu eri via. Non hanno preso tutto: ho trovato il sacco delle mie provviste fra gli stracci, per terra. L’hanno frugato, naturalmente. Ma credo che detestassero addirittura l’aspetto e l’odore del lembas, più ancora di Gollum. È sparso dappertutto, e una parte è sbriciolata e rotta, ma sono riuscito a racimolarlo. Poco meno della tua provvista. Mi hanno preso il cibo di Faramir e squarciato la fiasca».
«Ebbene, non resta nulla da dire», esclamò Sam. «Basta ciò che abbiamo, per il momento. L’acqua sarà un problema. Ma venite, signor Frodo! Se non partiamo subito, un intero lago non basterà più a rimetterci in forze!».
«Non prima che tu abbia ingoiato un boccone, Sam», disse Frodo. «Rifiuto di muovermi. Tieni, prendi questo biscotto elfico, e bevi quell’ultima goccia della tua fiasca! L’intera avventura è senza speranza, ed è quindi inutile preoccuparsi del domani. Probabilmente non arriverà».
Finalmente si misero in marcia. Discesero la scaletta, e Sam la stese accanto al corpo accovacciato dell’Orco caduto. La scala era buia, ma sul tetto si vedeva ancora il bagliore della Montagna, ora d’un rosso meno intenso. Raccolsero due scudi per completare il travestimento e continuarono ad avanzare.
Discesero la lunga scala a spirale. L’alta stanza nella torretta alle loro spalle sembrava quasi accogliente, ora che si trovavano di nuovo all’aria aperta e il terrore correva lungo le mura. Forse tutti erano morti nella Torre di Cirith Ungol, ma essa era di certo ancora immersa nella paura e nella malvagità.
Infine arrivarono alla porta che conduceva al cortile e là si fermarono. Sentivano già la vigilanza malefica dei Guardiani intenta a fissarli: al di là delle due nere figure immobili vedevano pallido il bagliore di Mordor. A mano a mano che avanzavano fra gli orridi cadaveri degli Orchi, i loro passi si facevano più pesanti. Prima ancora di raggiungere l’arco rimasero come bloccati. Avanzare di un centimetro significava sofferenza e stanchezza per le membra e la mente.
Frodo non aveva la forza sufficiente ad affrontare una simile battaglia. Si accasciò per terra. «Non posso andare avanti, Sam», mormorò. «Sto per svenire. Non so che cosa mi abbia preso».
«Io lo so, signor Frodo. Alzatevi! È il cancello. Vi è nascosta qualche strana diavoleria. Ma sono entrato e intendo uscirne. Non può essere più pericoloso di prima. Avanti!».
Sam estrasse la fiala elfica di Galadriel. Come per onorare il suo coraggio ed empire di splendore la bruna mano dell’Hobbit che aveva compiuto tanto gloriose gesta, la fiala avvampò all’improvviso, tanto che il cortile oscuro fu invaso da un raggio accecante simile a un lampo; ma invece di balenare e scomparire subito, la luce continuò a brillare e non si estinse.
«Gilthoniel, A Elbereth!», gridò Sam. Chissà perché, la sua mente si era rivolta all’improvviso agli Elfi della Contea, rievocando il canto che aveva cacciato lontano il Cavaliere Nero, nascosto fra gli alberi.
«Aiya elenion ancalima!», gridò dietro di lui Frodo.
La volontà dei Guardiani fu spezzata con la rapidità di una corda troppo tesa, e Frodo e Sam incespicarono, ma poi si misero a correre, attraverso il cancello ed oltre le grosse figure sedute dagli occhi scintillanti. Si udì uno schianto: la chiave di volta dell’arco piombò quasi alle loro calcagna, ed il muro che lo sormontava crollò distrutto. Sfuggirono per un soffio. Una campana suonò ed i Guardiani emisero un lungo e lamentoso ululato. Dall’alto delle tenebre giunse la risposta: una forma alata apparve improvvisamente nel cielo nero, squarciando le nubi con un grido agghiacciante.
Sam ebbe la presenza di spirito di nascondersi la fiala in petto. «Correte, signor Frodo!», gridò. «No, non da quella parte! Vi è un precipizio al di là delle mura. Seguitemi!».
Fuggirono dal cancello giù per la strada. Dopo una cinquantina di passi, una curva intorno ad una sporgenza della parete rocciosa li nascose alla vista della Torre. Per il momento erano riusciti a fuggire. Accovacciandosi contro la roccia presero fiato, cercando di arrestare con la mano i battiti del cuore. Appollaiato sulle mura, accanto alle rovine del cancello, il Nazgûl lanciava le sue grida micidiali. L’eco rimbombò fra le rupi.
Terrorizzati, avanzarono barcollanti. Dopo un breve tratto la strada voltò nuovamente verso est, esponendoli per un terribile momento alla vista della Torre. Mentre correvano lanciarono un rapido sguardo alle loro spalle e videro la grande figura nera in cima alla muraglia; poi s’inoltrarono fra alte pareti rocciose, percorrendo una gola che conduceva ripida alla via per Morgul. Arrivarono all’incrocio. Non vi era traccia di Orchi, né si udì risposta al grido del Nazgûl; ma sapevano che il silenzio non sarebbe durato a lungo. Da un minuto all’altro sarebbe incominciato l’inseguimento.
«Così non va, Sam», disse Frodo. «Se fossimo veri Orchi dovremmo precipitarci verso la Torre e non fuggire via. Il primo nemico che incontreremo se ne renderà conto. Dobbiamo allontanarci da questa strada in qualche modo».
«Ma è impossibile», disse Sam, «non abbiamo ali».
La facciata orientale dell’Ephel Dùath era ripida, un alternarsi di rupi a picco e di strapiombi che scendevano sino al nero canale che li separava dalla cresta interna. Poco dopo il crocevia, oltre un altro ripido pendio, un ponte di pietra attraversava il burrone, dopo il quale la strada s’inoltrava nelle accidentate pendici e nelle valli del Morgai. Con uno scatto disperato Frodo e Sam si precipitarono dall’altra parte del ponte; ma appena l’ebbero raggiunta cominciarono gli urli e il clamore. Alle loro spalle, alta sul fianco della montagna, giganteggiava la Torre di Cirith Ungol, le cui pietre mandavano una tetra luce. Improvvisamente la campana suonò di nuovo, ma questa volta un assordante numero di rintocchi. Si udirono dei corni. Delle grida risposero dall’altra parte del ponte. Nascosti nel nero canale, al riparo dagli ultimi bagliori dell’Orodrúin, Frodo e Sam non vedevano nulla ma udivano già l’incedere possente di calzature chiodate, mentre sulla strada echeggiava lo scalpitare di zoccoli.
«Presto, Sam! Saltiamo su!», gridò Frodo. Si arrampicarono sul basso parapetto del ponte. Fortunatamente non vi erano più abissi profondi, poiché in quel punto ormai le pendici del Morgai arrivavano quasi all’altezza della strada. Comunque, faceva troppo buio perché potessero indovinare l’altezza del salto.
«Io mi lancio, signor Frodo», disse Sam. «Addio!».
Si lasciò cadere. Frodo lo seguì. Mentre toccavano terra udirono il galoppo di cavalieri che attraversavano il ponte, seguiti dallo scalpitio di piedi d’Orchi. Sam avrebbe riso, se ne avesse avuto il coraggio. Temendo un salto mortale su rocce invisibili, gli Hobbit atterrarono, dopo non più di una mezza dozzina di piedi, con un tonfo e uno schianto, in mezzo all’ultima cosa che si sarebbero aspettati: cespugli di rovi. Sam rimase immobile, succhiando silenziosamente una mano graffiata.
Quando il rumore degli zoccoli e dei passi fu scomparso, osò sussurrare: «Ebbene, signor Frodo, non sapevo che crescessero piante a Mordor! Ma se l’avessi saputo avrei cercato proprio queste. Al tatto direi che queste spine misurano almeno un piede l’una: sono passate attraverso tutto ciò che ho addosso. Come rimpiango di non aver infilato quella cotta di maglia!».
«Le maglie degli Orchi non proteggono contro queste spine», disse Frodo. «Nemmeno una tunica di cuoio serve a qualcosa».
Dovettero fare notevoli sforzi per uscire dai cespugli. Le spine ed i rovi erano robusti come fil di ferro e rapaci come grinfie. I loro mantelli erano laceri e in brandelli quando furono infine liberi.
«Ed ora giù, Sam», sussurrò Frodo. «Giù in quella valle, al più presto, e poi dritti verso nord, appena sarà possibile».
Il giorno sorgeva di nuovo nel resto del mondo, e lontanissimo, oltre le tenebre di Mordor, il Sole spuntava ad est della Terra di Mezzo; ma qui tutto era ancora buio come la notte. La Montagna si spense e il suo fuoco si estinse. Il bagliore scomparve dalle rupi circostanti. Il vento dell’Est, che soffiava sin da quando avevano lasciato l’Ithilien, sembrava improvvisamente scomparso. Ruzzolarono giù a tentoni, inciampando e incespicando fra rocce, rovi e legna secca, in quel buio cieco, sempre più giù, finché non riuscirono più ad andare avanti.
Finalmente si fermarono, e si sedettero l’uno accanto all’altro, appoggiando le spalle contro un masso. Erano in un mare di sudore. «Se Shagrat in persona mi offrisse un bicchiere d’acqua, gli stringerei la mano», disse Sam.
«Non dire cose simili!», esclamò Frodo. «Non fa che peggiorare la situazione». Poi si distese, stanco e intontito, e non disse più nulla per qualche tempo. Ma finalmente si fece forza e si alzò. Con sommo stupore si accorse che Sam si era addormentato. «Svegliati, Sam!», disse. «Coraggio! È ora di fare un altro sforzo».
Sam si alzò faticosamente in piedi. «Incredibile!», esclamò. «Mi devo essere appisolato. È molto tempo, signor Frodo, che non faccio una bella dormita, e gli occhi mi si chiudono da soli».
Frodo fece strada, dirigendosi il più possibile verso nord, fra pietre e massi che giacevano accatastati in fondo al grande burrone. A un tratto si fermò di nuovo.
«Inutile, Sam», disse. «Non ce la faccio. A sopportare questa cotta di maglia, intendo dire. Non nello stato in cui sono. Persino la cotta di mithril sembrava pesante quando ero stanco. Questa è di gran lunga più pesante. E a che cosa mi serve? Non andremo certo avanti combattendo».
«Ma potremmo dover lottare»,, disse Sam. «E “ci sono i pugnali e le frecce vaganti. Quel Gollum non è morto, innanzi tutto. Non mi piace l’idea che passeggiate solo con un pezzo di cuoio fra la vostra pelle e una pugnalata nel buio».
«Ascoltami, Sam caro», disse Frodo: «sono stanco, sfinito, non mi rimane nessuna speranza. Ma devo cercare di arrivare al Monte Fato, finché riuscirò ancora a muovermi. L’Anello è un peso sufficiente. Tutta quest’altra inutile zavorra mi uccide. Deve scomparire. Non credere che io sia un ingrato. Mi vengono i brividi, se penso all’orrido lavoro che hai dovuto fare per trovarla fra i cadaveri».
«Non parlatene, signor Frodo. Vi porterei sulle spalle, se potessi! Toglietevela, allora».
Frodo sbottonò il mantello, si levò di dosso la cotta di maglia e la gettò via. Rabbrividì. «Ciò di cui ho veramente bisogno è qualcosa di caldo», disse. «Si è fatto freddo, o sarò io che sono intirizzito».
«Potete mettervi il mio manto, signor Frodo», disse Sam. Aprì il suo fagotto e ne trasse il manto elfico. «Come vi sembra questo?», disse. «Avvolgetevi nel mantello dell’Orco e fissatelo con la cintura. Poi copritevi con questo. Non avrete forse l’aspetto locale, ma almeno starete più caldo; direi che vi proteggerà meglio di qualunque altra cosa. Fu fatto dalla Dama in persona».
Frodo prese il mantello e fissò la spilla. «Così mi sento meglio!», disse. «Molto più leggero. Ora posso andare avanti. Ma questo buio fitto sembra penetrarmi nel cuore. Mentre giacevo nella prigione, Sam, cercavo di ricordare il Brandivino, Terminalbosco e l’Acqua che scorreva nel mulino di Hobbiville. Ma ora non riesco più a vederli».
«Ecco, signor Frodo, adesso siete voi che parlate d’acqua!», esclamò Sam. «Se almeno la Dama potesse vederci o sentirci, le direi: “Dama, tutto ciò che desideriamo è luce ed acqua: soltanto un po’ d’acqua pulita e di luce del giorno, meglio di qualunque gioiello, con vostro permesso”. Ma Lórien è molto lontano». Sam sospirò e indicò con la mano in direzione dell’Ephel Dùath, una massa più nera dell’oscurità del cielo.
Si rimisero in marcia. Avevano percorso un breve tratto quando Frodo si arrestò. «Abbiamo un Cavaliere Nero su di noi», disse. «Lo sento. Meglio restare immobili per qualche tempo».
Si accovacciarono sotto un macigno guardando verso ovest e rimasero lì in silenzio. Poi Frodo trasse un respiro di sollievo. «È passato», disse. Si alzarono in piedi e guardarono stupefatti: a sinistra, verso sud, contro il cielo che stava diventando grigio, le vette e le alte creste incominciarono ad apparire, scure e nere, appena visibili. La luce aumentava alle loro spalle. Avanzava lentamente verso il Nord. Vi era una battaglia nelle alte zone del cielo. Le pesanti nubi di Mordor venivano cacciate via, lacerate dal vento giunto dal mondo dei vivi che spazzava via fumi ed esalazioni. Si alzavano le tende del tetro baldacchino, lasciando che una pallida luce penetrasse a Mordor come attraverso la sudicia finestra di una prigione.
«Guardate, signor Frodo!», disse Sam. «Guardate! Il vento ha girato. Sta accadendo qualcosa. Non tutto va come vuole lui. La sua oscurità si sta diradando, laggiù nel mondo! Vorrei tanto vedere quel che sta succedendo!».
Era il mattino del quindici marzo, e sulla Valle dell’Anduin il Sole sorgeva oltre l’ombra, e il vento soffiava dal Sud. Théoden giaceva morente sui Campi del Pelennor.
Mentre Frodo e Sam osservavano immobili la luce che invadeva tutta la cresta dell’Ephel Dùath, videro ad un tratto una figura arrivare velocemente da ovest: dapprima soltanto un punto nero contro la striscia illuminata della cresta delle montagne, ma poi sempre più grande, finché infine si tuffò nel cupo baldacchino passando velocissima sulle loro teste. E nel passare lanciò un lungo strillo, la voce di un Nazgûl; ma non era più un grido che recava terrore, bensì un lamento di dolore e di costernazione, cattive notizie per la Torre Oscura. Il Signore degli Schiavi dell’Anello era spirato.
«Che cosa vi avevo detto? Sta accadendo qualcosa!», gridò Sam. «“La guerra sta andando bene”, diceva Shagrat, ma Gorbag non era molto convinto. Ed aveva anche ragione. Le cose stanno migliorando, signor Frodo. Non avete ripreso un po’ di speranza?».
«No, non molta, Sam», disse Frodo sospirando. «Tutto ciò accade al di là delle montagne. Noi andiamo ad est, non ad ovest. E sono così stanco. E l’Anello è così pesante, Sam. E sto incominciando a vederlo nella mente come un’immagine persistente, una grande ruota di fuoco».
Sam cadde di nuovo rapidamente in preda a una cupa depressione. Guardò ansioso il padrone e gli prese la mano. «Coraggio, signor Frodo!», disse. «Ho ottenuto una cosa che desideravo: un po’ di luce. Basterà ad aiutarci, eppure credo che sarà anche pericolosa. Provate a fare ancora un po’ di strada, e poi ci sdraieremo l’uno accanto all’altro a riposare. Ma ora prendete un boccone di cibo, un po’ del pan di via degli Elfi; vi potrebbe rincuorare».
Dividendosi un biscotto di lembas e masticando come meglio potevano con le loro bocche inaridite, Frodo e Sam avanzarono faticosamente. La luce, pur non essendo che una grigia foschia, permise loro di vedere che si trovavano in fondo alla valle, fra le montagne. La valle saliva verso nord in leggero pendio, ed in centro vi era il letto di un corso d’acqua ormai asciutto. Oltre al letto ghiaioso videro un sentiero che serpeggiava ai piedi delle rupi occidentali. Se l’avessero saputo, avrebbero potuto raggiungerlo prima, poiché proveniva dalla strada di Morgul e scendeva nella valle a mezzo di una lunga scalinata intagliata nella roccia. Era un sentiero adoperato dalle pattuglie o dai messaggeri che dovevano giungere rapidamente a postazioni o fortezze settentrionali, situate fra Cirith Ungol e gli stretti d’Isenmouthe, le ferree mascelle di Carach Angren.
Era pericoloso per gli Hobbit seguire quel percorso, ma dovevano far presto, e Frodo non se la sentiva di affrontare i terreni accidentati ed irti di massi del Morgai. Pensò inoltre che la direzione nord era quella che i loro inseguitori avrebbero percorso con minore probabilità. Avrebbero infatti senz’altro cominciato con l’esaminare la via ad est della piana, o il passo che conduceva verso ovest. Una volta poi arrivato all’estremità settentrionale della Torre, intendeva voltare verso est e cercare una via che lo conducesse a oriente, l’ultima disperata tappa del suo viaggio. Attraversarono quindi il letto arido e sassoso e si avviarono per il sentiero, percorrendo un lungo tratto. Alla loro sinistra si ergevano rupi a strapiombo, ed essi non potevano essere visti dall’alto; ma la strada era piena di curve, ed ogni volta stringevano la spada avanzando con estrema cautela.
La luce non aumentò, perché l’Orodrúin continuava a vomitare un gran fumo che, spinto verso l’alto da ventate contrastanti, s’innalzava sempre di più fino a raggiungere una zona superiore al vento, ove poteva allargarsi liberamente creando un immenso tetto la cui colonna centrale si ergeva nelle tenebre. Camminavano da più di un’ora quando udirono un rumore che li fece arrestare. Incredibile ma inconfondibile. Scorreva dell’acqua! Da una fessura a sinistra, così stretta che la nera parete sembrava spaccata da un’enorme ascia, gocciolava dell’acqua: forse gli ultimi resti di una dolce pioggia raccolta da mari immersi nel sole e tanto sfortunata da cadere infine sulle mura della Terra Nera, scorrendo inutilmente nella polvere. Dalla roccia usciva un esiguo ruscelletto, che attraversava il sentiero e si perdeva poi rapidamente fra le aride pietre.
Sam balzò avanti. «Se mai dovessi rivedere la Dama, glielo dirò!», esclamò. «Luce, ed ora acqua!». Poi si fermò. «Lasciate che beva io per primo, signor Frodo», disse.
«Va bene, ma c’è posto per due».
«Non intendevo quello», disse Sam. «Voglio dire: se fosse velenosa, o avesse qualche immediato effetto negativo, meglio io di voi, padrone; non so se mi spiego».
«Perfettamente. Ma credo che tenteremo insieme la fortuna, Sam. Comunque stai attento, se è molto fredda!».
L’acqua era fresca ma non ghiacciata, ed aveva un sapore sgradevole, al tempo stesso amaro e viscido, o perlomeno è ciò che avrebbero detto in tempi normali. Ma a loro parve incomparabile, superiore ad ogni paura e prudenza. Bevvero a più non posso e Sam empì la sua fiasca. Frodo si sentì più leggero, e riuscirono a percorrere parecchie miglia, finché la strada che si allargava e l’inizio di un muro, rozzamente costruito, che la fiancheggiava, li avvertirono dell’avvicinarsi di un’altra fortezza nemica.
«È qui che voltiamo, Sam», disse Frodo. «E dobbiamo voltare Verso est». Sospirò nell’osservare le tetre creste dall’altra parte della vallata. «Mi rimane appena la forza di cercare un foro lassù in cima. Poi dovrò riposare».
Il letto del ruscello era leggermente più basso del sentiero. Scesero sino ad esso e cominciarono ad attraversarlo. Con somma sorpresa, s’imbatterono in oscure pozze alimentate da fili d’acqua che gocciolavano giù da qualche sorgiva nella parte più alta della valle. Le propaggini occidentali di Mordor, ai piedi delle montagne, erano una terra moribonda, ma non ancora morta. Vi crescevano ancora piante dure, contorte, amare, che lottavano disperatamente per sopravvivere. Sulle pendici del Morgai, dall’altro lato della valle, piccoli alberi scarni si avvinghiavano alla roccia, grigi ciuffi d’erba dura e legnosa lottavano contro le pietre, sulle quali strisciavano licheni appassiti: e dappertutto, i penetranti e nodosi rovi. Alcuni avevano lunghe spine pungenti, altri, aculei arcuati che laceravano come pugnali. Le tristi foglie avvizzite dell’anno precedente vi erano ancora appese, e frusciavano nell’aria tetra, ma i boccioli divorati dai vermi stavano appena aprendosi. Mosche scure, grigie o nere, segnate come gli Orchi da una macchia a forma di occhio rosso, ronzavano e pungevano; e sopra i cespugli danzavano e ondeggiavano nuvole di moscerini affamati.
«I vestiti degli Orchi non riparano», disse Sam agitando le braccia. «Vorrei avere la pelle d’un Orco!».
Alla fine Frodo non poté più andare avanti. Si erano inerpicati su per uno stretto e accidentato burrone, ma avevano ancora molta strada da percorrere prima di giungere in vista della cresta. «Devo riposarmi ora, Sam, e dormire, se posso», disse Frodo. Si guardò intorno, ma in quello squallido paese non sembrava esistere neppure una tana in cui un animale potesse ripararsi. Infine, spossati, strisciarono sotto una tenda di rovi che pendeva da una roccia.
Lì seduti consumarono il loro pasto; conservando il prezioso lembas per i cattivi giorni a venire, mangiarono la metà delle provviste di Faramir, che Sam aveva nel suo sacco: un po’ di frutta secca e una fettina di carne affumicata; bevvero qualche sorso. Si erano dissetati ancora nelle pozze della valle, ma avevano di nuovo sete. Vi era un lezzo amaro nell’aria di Mordor che seccava la bocca. Al pensiero dell’acqua persino il morale di Sam, incline alla speranza, veniva colto da sconforto, Al di là del Morgai vi era quel terribile altipiano di Gorgoroth da traversare.
«Dormite prima voi, signor Frodo», disse. «Si sta facendo di nuovo buio. Credo che il giorno sia quasi finito».
Frodo sospirò e si addormentò prima ancora che Sam finisse di parlare. Questi lottava con la propria stanchezza; prese la mano del padrone e rimase seduto e immobile fino a notte fonda. Finalmente, per tenersi sveglio, strisciò carponi fuori dal nascondiglio e si guardò intorno. Il paese sembrava pieno di scricchiolii, di scalpitii e di fruscii, ma non si udivano voci né passi. Sopra l’Ephel Dùath, a occidente, il cielo della notte era ancora pallido. E lì Sam, sbirciando fra i lembi di nuvole che sovrastavano un’alta vetta, vide una stella bianca scintillare all’improvviso. Lo splendore gli penetrò nell’anima, e la speranza nacque di nuovo in lui. Come un limpido e freddo baleno passò nella sua mente il pensiero che l’Ombra non era in fin dei conti che una piccola cosa passeggera: al di là di essa vi erano eterna luce e splendida bellezza. Il suo canto nella Torre era stato una sfida più che una vera e propria speranza, perché pensava a se stesso. Ora, per un attimo, il suo destino e persino quello del suo padrone smisero di tormentarlo. Tornò strisciando fra i rovi e si sdraiò accanto a Frodo, e dimenticando ogni timore si lasciò cadere in un profondo sonno tranquillo.
Si svegliarono insieme, la mano nella mano. Sam si sentiva quasi ristorato e pronto per affrontare un altro giorno; ma Frodo sospirò. Il suo sonno era stato tormentato, pieno di sogni di fuoco, e il destarsi non gli recò conforto. Ma tuttavia dormire non era stato senza effetto benefico, poiché ora egli era più forte, più capace di portare avanti il suo fardello per un’altra tappa. Non sapevano che ora fosse né quanto avessero dormito, ma dopo un boccone di cibo e un sorso d’acqua continuarono a risalire il burrone, finché si trovarono davanti a un pendio assai ripido pieno di pietre sdrucciolevoli. Lì le ultime cose viventi rinunciavano a lottare: le cime del Morgai erano arse, nude, tetre e nere come ardesia.
Dopo una lunga ricerca, trovarono un sentiero per inerpicarsi in cima, e dopo un centinaio di piedi di ripido arrampicamento giunsero finalmente alla sommità. Erano in una gola fra due pareti nere, e dopo averla attraversata si trovarono sull’orlo dell’ultimo recinto di Mordor. Sotto di loro, in fondo a un precipizio di mille e cinquecento piedi, la pianura interna si stendeva scomparendo nelle tenebre informi. Il vento del mondo soffiava ora da ovest, e le grandi nubi venivano sollevate e sospinte verso est. Ma nei campi di Gorgoroth non giungeva che una luce fioca e grigia. Fumi ed esalazioni si sprigionavano da terra e stagnavano a mezz’aria.
Lontano, ad almeno quaranta miglia di distanza, videro il Monte Fato, la base immersa nella cenere e l’alto cono imponente avvolto dalle nubi. I suoi incendi si erano calmati, ed esso ne covava le ceneri ardenti, minaccioso e pericoloso come una belva addormentata. Era sovrastato da una grande ombra, infausta come una nube di tempesta, formata dalle nebbie di Barad-dûr, spinte via da nord e accumulate in fondo ai Monti Cenere. L’Oscuro Potere era immerso nei suoi pensieri, e l’Occhio rivolto verso l’interno soppesava notizie di pericolo e d’incertezza: una spada lucente e un volto severo e regale erano ciò che vedeva, e per qualche tempo ogni altra cosa divenne secondaria; e tutta la sua immensa fortezza, un cancello dopo l’altro, una torre dopo l’altra, veniva avvolta da cupe tenebre.
Frodo e Sam osservavano quell’odiosa terra con un misto di antipatia e di ammirazione. Fra loro e la montagna fumante e tutt’intorno ad essa, ogni cosa pareva morta e distrutta, un deserto arso e sconvolto. Si domandarono come facesse il Signore di quel paese a mantenere ed a nutrire i suoi schiavi ed i suoi eserciti. Eppure ne aveva parecchi. Sino a perdita d’occhio, lungo le falde del Morgai e giù a sud, si stendevano gli accampamenti, alcuni di tende, altri ordinati come piccole città. Uno dei più grandi si trovava proprio sotto di loro. Copriva circa un miglio di pianura, simile a un enorme nido d’insetti, con tetre strade diritte fiancheggiate da capanne e da lunghi e bassi edifici. Tutt’intorno la terra era piena di gente che andava e veniva; un’ampia strada conduceva dall’accampamento verso sud-est, raggiungendo la via di Morgul, e molte file di piccole figure nere la percorrevano velocemente.
«Non mi piace affatto l’aspetto di tutto ciò», disse Sam. «Mi sembra proprio che non vi sia speranza…, tranne il fatto che dove vive tanta gente devono esservi pozzi o acqua corrente, e naturalmente roba da mangiare. E questi sono Uomini, non Orchi, se non erro».
Né lui né Frodo sapevano nulla dei grandi campi coltivati dagli schiavi all’estremo sud di quell’ampio regno, oltre i fumi della Montagna ed accanto alle tristi acque del Mare di Nùrnen; né conoscevano l’esistenza delle grandi strade che conducevano a est e a sud nei paesi tributari, dai quali i soldati della Torre riportavano lunghe carovane di carri pieni di beni, di bottino e di schiavi freschi. Qui, nelle regioni a nord, vi erano le miniere e le fucine, ed i luoghi ove venivano radunati i soldati per partire verso una guerra da tempo elaborata. Qui l’Oscuro Potere, muovendo i suoi eserciti come pedine, era intento a radunarsi. Le sue prime mosse, le prime verifiche della sua forza, erano fallite sul fronte occidentale, sia a sud che a nord. Ora aveva deciso di ritirarle, unendole a nuove forze e appostandole in prossimità di Cirith Gorgor in attesa della vendetta. E se poi il suo scopo era stato di difendere la Montagna da chiunque tentasse di avvicinarla, non avrebbe potuto fare meglio.
«Ebbene!», proseguì Sam. «Qualunque cosa abbiano da mangiare o da bere, non possiamo ottenerla. Non vedo alcun sentiero che conduca giù. E non potremmo attraversare tutto quel territorio brulicante di nemici, anche se riuscissimo ad arrivarvi».
«Eppure dovremo tentare», disse Frodo. «Non è peggio di quanto pensassi. Non ho mai sperato di riuscire ad attraversare l’altipiano e ora mi sembra addirittura impossibile. Ma ciò nonostante dovrò fare del mio meglio. E cioè per il momento evitare di essere catturato. Quindi credo che dobbiamo continuare a camminare verso nord, e vedere com’è la situazione là dove l’altipiano è più stretto».
«Io immagino come sarà», disse Sam. «Dove la piana è più stretta, gli Orchi e gli Uomini saranno semplicemente ammassati a gomito a gomito. Vedrete, signor Frodo».
«Lo vedrò, se arriveremo sin lì», rispose Frodo voltando le spalle alla piana.
Scoprirono presto che era impossibile avanzare sulla cresta del Morgai o sulle alte pendici senza sentieri e piene di profondi crepacci. Alla fine furono costretti a ridiscendere il burrone in cerca di un sentiero nella valle. Fu un’ardua impresa, perché non osarono percorrere il sentiero che scendeva lungo il lato opposto. Dopo un miglio e più videro, nascosta in una cavità ai piedi della parete rocciosa, la fortezza degli Orchi che avevano avvistata prima: un muro e un gruppo di casupole in pietra ammassate all’apertura di una buia caverna. Non si vedeva anima viva, ma gli Hobbit avanzarono con cautela, confondendosi quanto più possibile con i cespugli di spine che crescevano fitti in quel punto, lungo ambedue i lati del letto arido del ruscello.
Avanzarono ancora per due o tre miglia, e il forte scomparve alle loro spalle; ma avevano appena ricominciato a respirare liberamente, quando udirono, forti e brutali, le voci di Orchi. Si nascosero velocemente dietro un cespuglio secco. Le voci si avvicinarono. Ad un tratto apparvero due Orchi. Uno era vestito di marrone e armato d’un arco di corno; era di razza piccola, dalla pelle nera, con grandi narici che annusavano l’aria: evidentemente, una specie di segugio. L’altro era un grosso Orco da combattimento, come quelli di Shagrat, e portava il simbolo dell’Occhio. Aveva anch’egli in spalla un arco, ma inoltre portava una corta lancia dalla punta larga. Come al solito, stavano litigando, ed essendo di razza diversa adoperavano, secondo la loro usanza, la Lingua Corrente.
A meno di venti passi da dove si nascondevano gli Hobbit, il piccolo Orco si fermò. «Nar!», grugnì. «Io torno a casa». Mostrò dall’altra parte della valle il forte ai piedi della rupe. «Inutile consumarsi il naso sulle pietre. Ti dico che non vi è più nemmeno una traccia. E l’ultima l’ho persa per colpa tua. Saliva sulle colline e non percorreva la valle, ti dico».
«Non servite un gran che, nevvero, piccoli annusatori?», disse l’Orco più grande. «Penso che gli occhi siano più utili dei vostri nasi mocciosi».
«E i tuoi, cosa ti hanno mostrato?», ringhiò l’altro. «Garn! Non sai nemmeno cosa stai cercando».
«Di chi la colpa?», disse il soldato. «Non mia. Sono ordini che vengono dall’Alto. Prima dicono che si tratta di un grande Elfo con una lucida armatura, poi che è una specie di uomo-nano, poi che è un gruppo di Uruk-hai ribelli; o forse tutte e tre le cose contemporaneamente».
«Ar!», disse il segugio. «Hanno perso la testa, ecco cos’è. E alcuni dei capi stanno per perdere anche la pelle, suppongo, se quel che ho saputo è vero: l’incursione alla Torre, e centinaia dei vostri ragazzi fatti fuori, ed il prigioniero fuggito. Se questo è il modo di fare di voi soldati non c’è da meravigliarsi delle cattive notizie a proposito delle battaglie».
«Chi ti dice che ci sono cattive notizie?», urlò il soldato.
«Ar! E chi ti dice che non ci sono?».
«Sono voci messe in giro da quei maledetti ribelli, e se non smetti di ripeterle t’infilzo, capito?».
«Va bene, va bene!», disse il segugio. «Non dirò più nulla e continuerò a riflettere. Ma che c’entra quel mostriciattolo nero, quel mangione con le mani molli?».
«Non lo so. Forse non c’entra. Ma certo non ha buone intenzioni, gironzolando e annusando. Maledetto! Appena ci è sfuggito è arrivato l’ordine di prenderlo vivo, e di prenderlo subito!».
«Ebbene, spero che lo prendano e gliela facciano pagare», grugnì il segugio. «Ha confuso tutte le tracce là in fondo, rubando quella cotta di maglia gettata via e gironzolando dappertutto prima che potessi raggiungerlo».
«Comunque la cotta gli ha salvato la vita», disse il soldato. «Prima che sapessi che lo vogliono vivo gli ho tirato una freccia da cinquanta passi di distanza, dritto nella schiena; ma ha continuato a correre».
«Garn! Non l’hai colpito», disse il segugio. «Prima sbagli i tiri, poi corri troppo lentamente, e poi mandi a chiamare i poveri segugi. Ne ho abbastanza di te». Si allontanò.
«Torna subito», urlò il soldato, «o farò rapporto»
«A chi? Non certo al tuo prezioso Shagrat. Non sarà mai più capitano».
«Darò il tuo nome e il tuo numero ai Nazgûl», disse il soldato, e la sua voce era come un lungo sibilo. «Uno di loro è incaricato della Torre per il momento».
L’altro si fermò, e la sua voce era piena di paura e di rabbia. «Maledetto spione!», urlò. «Non sai fare il tuo lavoro e non sai nemmeno rimanertene fra la tua gente. Va’ dai tuoi luridi Strilloni, e che possano spellarti vivo! Se il nemico non li prende prima. Hanno accoppato il Numero Uno, ho sentito dire, e spero che sia vero!».
Il grande Orco lo rincorse, lancia in mano. Ma il segugio, balzando dietro una pietra, gli infilò una freccia in un occhio mentre fuggiva, facendolo crollare per terra con un tonfo. Poi attraversò di corsa la valle e scomparve.
Gli Hobbit rimasero qualche tempo in silenzio. Finalmente Sam si mosse. «Bene, direi ch’è proprio ben fatto», esclamò. «Se questa forma di simpatica amicizia si diffondesse a Mordor, avremmo risolto la metà dei nostri problemi».
«Piano, Sam», sussurrò Frodo. «Possono essercene altri in giro. Ce la siamo evidentemente cavata per un pelo, e gli inseguitori erano più vicini di quanto non pensassimo. Ma questa è la mentalità di Mordor, Sam: e si è diffusa in ogni angolo del territorio. Gli Orchi si comportano sempre in questo modo quando sono soli, e tutte le storie lo narrano. Ma noi non ne possiamo trarre molta utilità. Ci odiano ancora di più, e costantemente. Se quei due ci avessero visti, avrebbero smesso di litigare finché non ci avessero uccisi».
Seguì un lungo silenzio. Sam l’interruppe di nuovo, ma questa volta sussurrando: «Avete sentito ciò che dicevano a proposito di quel mangione, signor Frodo? Ve l’avevo detto che Gollum non era ancora morto, ricordate?»,
«Sì, ricordo. E mi domandai come potevi saperlo», disse Frodo. «Suvvia! Credo che faremmo meglio a non muoverci da qui prima che faccia buio pesto; ora mi racconterai come lo sai, e che cosa è accaduto… se sai farlo a bassa voce».
«Proverò», disse Sam, «ma quando penso a quel verme di Scurrile mi arrabbio talmente che mi vien voglia di urlare!».
Gli Hobbit rimasero seduti al riparo del cespuglio spinoso, mentre la tetra luce di Mordor svaniva lentamente nella profonda notte senza stelle; e Sam sussurrò all’orecchio di Frodo tutto ciò che poté per descrivere l’assalto a tradimento di Gollum, l’orrore di Shelob e le sue avventure con gli Orchi. Quando ebbe finito Frodo non disse nulla, ma gli prese la mano e la strinse. Infine si mosse.
«Ebbene, suppongo che sia ora di rimettersi in cammino», disse. «Chissà quanto tempo passerà, prima che ci prendano, prima che tutte le nostre fatiche e fughe finiscano per sempre, senza costrutto». si alzò. «È buio, e non possiamo adoperare la fiala della Dama. Custodiscila tu, Sam. Non ho dove metterla per adesso, a meno di non reggerla con la mano, ed avrò bisogno di averle ambedue libere per avanzare nella cieca notte. Ti affido anche Pungolo. Io ho una lama d’Orco, ma non credo che mi toccherà vibrare altri colpi».
Era difficile e pericoloso muoversi di notte in quella terra senza sentieri; ma pian piano, inciampando spesso, i due Hobbit avanzarono a fatica per ore sul lato orientale della valle pietrosa, sempre più a nord. Quando una luce grigia apparve di nuovo sulle alture occidentali, molto tempo dopo il sorgere del sole sul resto del mondo, si nascosero un’altra volta e dormirono a turno. Nei momenti di veglia Sam era preoccupato dal pensiero del cibo. Quando finalmente Frodo si svegliò e parlò di mangiare e di prepararsi a un nuovo sforzo, egli formulò la domanda che lo turbava maggiormente.
«Vi chiedo scusa, signor Frodo», disse, «ma avete un’idea di quanta strada dobbiamo ancora fare?».
«No, nessuna idea precisa, Sam», rispose Frodo. «A Gran Burrone, prima di partire, mi mostrarono una pianta di Mordor disegnata prima che il Nemico tornasse qui; ma la ricordo molto vagamente. Ciò che rammento chiaramente è che vi era un punto a nord in cui dalla catena montuosa occidentale e da quella settentrionale si diramavano come degli speroni che finivano quasi con l’unirsi. Doveva distare almeno venti leghe dal ponte vicino alla Torre. Potrebbe essere un buon posto per traversare. Ma naturalmente, se vi arriviamo, saremo ancora più lontani dalla Montagna, a circa una sessantina di miglia, direi. Suppongo che avremo percorso una dozzina di leghe a nord del ponte, ora come ora. Anche se tutto va per il meglio, riuscirei difficilmente a raggiungere la Montagna fra una settimana. Temo, Sam, che il fardello si farà molto pesante, e che avanzerò con ancor maggior lentezza man mano che ci avvicineremo».
Sam sospirò. «È proprio ciò che temevo», disse. «Ebbene, per non parlare dell’acqua, dobbiamo mangiare di meno, signor Frodo, o altrimenti muoverci più rapidamente, perlomeno finché siamo ancora in questa valle. Un altro boccone e non ci rimarrà che il pan di via degli Elfi».
«Cercherò di essere più veloce, Sam», disse Frodo con un profondo respiro. «Coraggio! Incominciamo un’altra marcia!».
Non faceva ancora del tutto buio. Avanzarono scoraggiati nella notte. Le ore passavano ed essi continuavano a camminare incespicando e fermandosi di tanto in tanto brevemente. Al primo apparire della luce grigia sotto il baldacchino d’ombra si nascosero di nuovo in un oscuro fosso quasi coperto da una roccia sporgente.
La luce aumentò lentamente, diventando più intensa di prima. Un forte vento soffiava da ovest diradando i fumi di Mordor dalle zone più elevate del cielo. Poco dopo i due compagni poterono distinguere la forma del territorio per alcune miglia intorno a loro. Il valloncello fra i monti e il Morgai era diminuito notevolmente a mano a mano che avanzavano, ed ora il recinto interno era una semplice sporgenza nelle pareti a strapiombo dell’Ephel Dùath; ma ad est scendeva a picco come sempre, giù a Gorgoroth. Innanzi a loro il corso d’acqua finiva fra scalini di roccia, perché la catena di monti proiettava in avanti un’alta propaggine, che si ergeva verso est come un muro. Vi si congiungeva un lungo braccio roccioso proveniente dalla grigia e brumosa catena settentrionale dell’Ered Lithui, e fra i due bastioni di roccia vi era una stretta fessura: Carach Angren, l’Isenmouthe, oltre la quale si stendeva la profonda valle di Udûn. In quella valle alle spalle del Morannon si trovavano i tunnel e le profonde armerie che i servitori di Mordor avevano costruito per la difesa del Cancello Nero e del paese; lì il loro Signore radunava adesso in fretta grandi forze per affrontare l’assalto dei Capitani dell’Ovest. Sugli speroni di roccia erano stati edificati forti e torri, e bruciavano dei falò; attraverso tutta la gola era stato edificato un muro di terra e scavata una profonda trincea scavalcata da un unico ponte.
Alcune miglia più a nord, nell’angolo in cui lo sperone occidentale si staccava dalla catena di monti, si ergeva il castello di Durthang, uno dei principali fortilizi della valle dell’Udûn. Una strada, già visibile nella luce che aumentava, ne scendeva serpeggiando, e ad un miglio o due dal nascondiglio degli Hobbit voltava ad est percorrendo un intaglio scavato nella parete dello sperone, e giungeva così nella piana, proseguendo quindi per l’Isenmouthe.
Agli Hobbit, intenti ad osservare, tutto il loro viaggio a nord parve inutile. Alla loro destra la pianura era piena di fumi e di brume, e non vi si scorgevano né accampamenti né truppe in movimento; ma tutta la regione era sotto la sorveglianza delle fortezze di Carach Angren.
«Siamo in un vicolo cieco, Sam», disse Frodo. «Se proseguiamo, arriveremo soltanto a quella fortezza di Orchi, ma l’unica strada da percorrere è quella che scende da lì…. a meno di tornare sui nostri passi. Non possiamo arrampicarci ad ovest, né scendere giù verso est».
«Allora dobbiamo prendere quella strada, signor Frodo», disse Sam. «Dobbiamo prenderla e tentare la fortuna, se la fortuna esiste a Mordor. Meglio consegnarci al nemico che continuare a vagare, o cercare di tornare indietro. Il cibo non ci basterà. Dobbiamo fare una corsa!».
«Va bene, Sam», disse Frodo. «Conducimi, finché ti rimane ancora della speranza: la mia è scomparsa del tutto! Ma non posso correre, Sam. Ti seguirò stancamente».
«Prima d’incominciare a marciare avete bisogno di riposo e di cibo, signor Frodo. Prendete!».
Diede a Frodo dell’acqua e una galletta di pan di via e fece con il proprio manto un cuscino per la testa del padrone. Frodo era troppo stanco per discutere, e Sam non gli disse che gli aveva dato da bere l’ultima goccia della loro acqua, e da mangiare non solo la sua razione ma anche la propria. Quando Frodo si fu addormentato, Sam si chinò su di lui, scrutando il suo viso e ascoltando il suo respiro. Era magro e smunto, eppure nel sonno pareva contento e senza timore. «Ebbene, Padrone», mormorò Sam fra sé. «Ti dovrò lasciare ora per qualche tempo e affidarmi alla fortuna. Devo procurare dell’acqua, o non potremo andare avanti».
Sam strisciò fuori dal nascondiglio e passando da sasso a sasso, più cauto di quanto non fosse comunemente un Hobbit, scese fino alletto del ruscello, e lo seguì per un breve tratto verso nord, sino ad arrivare agli scalini di roccia dove molto tempo addietro sgorgava certamente la sorgiva. Tutto sembrava ormai asciutto e silenzioso, ma rifiutando di disperare Sam si curvò in ascolto, e con somma soddisfazione udì il rumore di acqua che gocciolava. Arrampicandosi su per i gradini trovò un esile ruscello di acqua scura che usciva dal fianco della montagna empiendo una piccola pozza, dalla quale poi zampillava nuovamente, scomparendo infine fra le aride pietre.
Sam assaggiò l’acqua e gli parve abbastanza buona. Allora bevve abbondantemente, riempì la fiasca e si voltò per andarsene. In quell’attimo intravide una figura o un’ombra nera scomparire fra le rocce accanto al nascondiglio di Frodo. Trattenendo a stento un grido balzò giù dai gradini e si mise a correre, saltando da una pietra all’altra. Era un essere cauto e difficile da individuare, ma Sam non nutriva dubbi sulla sua identità: desiderava ardentemente mettergli le mani intorno al collo. Ma esso lo udì arrivare e sgusciò via rapidamente. Sam credette di scorgerlo fuggevolmente mentre si voltava a guardare dall’alto della parete est del burrone, prima di scomparire.
«Ebbene, la fortuna non mi ha tradito», mormorò Sam. «Ma per un pelo! Non basta essere circondati da migliaia di Orchi, senza che anche quel fetido essere venga a ficcare qui il suo naso? Come mi rincresce che non l’abbiano ucciso!». Si sedette accanto a Frodo e non lo svegliò, ma non ebbe il coraggio di addormentarsi. Finalmente, quando sentì che gli occhi gli si chiudevano, rendendosi conto che la sua lotta contro il sonno non poteva durare oltre, svegliò Frodo dolcemente.
«Quel Gollum è di nuovo in giro, purtroppo, signor Frodo», disse. «O se non era lui, vuol dire che ve n’è un altro identico. Sono andato a cercare dell’acqua e l’ho scoperto che gironzolava proprio mentre stavo tornando; non credo che sia opportuno che dormiamo contemporaneamente, e, chiedo scusa, ma non riesco a tenere le palpebre aperte per molto tempo ancora».
«Sii benedetto, Sam!», esclamò Frodo. «Sdraiati e dormi come si deve! Ma preferisco Gollum piuttosto che gli Orchi. E in ogni modo non ci tradirà,… a meno che non venga catturato».
«Ma potrebbe commettere un po’ di furti e di uccisioni per conto suo» borbottò Sam. «Tenete gli occhi aperti, signor Frodo! Ho una fiasca piena d’acqua. Bevetela tutta. Possiamo riempirla di nuovo quando ci rimetteremo in marcia». E detto ciò, Sam piombò in un sonno profondo.
La luce stava scomparendo di nuovo quando si svegliò. Frodo sedeva appoggiato contro la roccia alle sue spalle, ma si era addormentato. La fiasca era vuota. Non vi era traccia di Gollum.
L’oscurità di Mordor era ormai fitta, e i falò sulle alture avvampavano violenti e rossi quando gli Hobbit intrapresero la tappa più pericolosa di tutto il loro viaggio. Si recarono prima alla sorgiva, e poi arrampicandosi con cautela arrivarono sulla strada, nel punto ove voltava verso est, in direzione dell’Isenmouthe distante una ventina di miglia. Non era una strada larga, e non vi erano né muri né parapetti lungo le banchine, e a mano a mano che avanzavano lo strapiombo a sinistra si faceva sempre più profondo. Gli Hobbit non udirono alcun rumore, e dopo avere ascoltato attentamente si avventurarono verso est con passo deciso.
Dopo aver camminato per una dozzina di miglia si fermarono. Alle loro spalle vi era una curva, ed il tratto che avevano appena percorso era nascosto alla vista. Ciò si rivelò disastroso. Essi riposarono per qualche minuto e poi si rimisero in marcia; ma avevano fatto pochi passi quando improvvisamente nel silenzio della notte udirono il rumore tanto temuto: quello di piedi che avanzavano. Era ancora abbastanza lontano, ma voltandosi videro muoversi rapidamente un bagliore di torce oltre la curva, a meno di un miglio: troppo rapidamente perché Frodo potesse trovare scampo nella fuga.
«Lo temevo, Sam», disse Frodo. «Ci siamo affidati alla fortuna, ed essa ci ha traditi. Siamo in trappola». Guardò disperato la rupe a strapiombo che gli antichi costruttori della strada avevano tagliata netta. Corse dall’altro lato della via e sporgendosi oltre il bordo guardò in un buio pozzo di tenebre. «Eccoci in trappola», disse. Si accasciò in terra ai piedi della parete rocciosa e chinò la testa.
«Sembrerebbe», disse Sam. «Ma possiamo aspettare e vedere che cosa succede». Si sedette accanto a Frodo all’ombra della rupe.
Non dovettero aspettare molto. Gli Orchi avanzavano a grande velocità. Quelli delle prime file portavano torce, rosse fiamme nell’oscurità, che crescevano rapidamente. Ora Sam chinò anch’egli il capo, sperando di nascondere il viso all’arrivo delle torce; appoggiò gli scudi davanti ai loro piedi per nasconderli.
«Vorrei che avessero molta fretta, e lasciassero in pace un paio di soldati stanchi!», si disse.
E sembrò proprio che fosse così. Le prime file di Orchi arrivarono ansimando ed a testa bassa. Erano una schiera di razza piccola, costretti contro voglia a prendere parte alle guerre dell’Oscuro Signore; tutto ciò che desideravano era di finire quella marcia ed evitare la frusta. Accanto ad essi, due grossi e feroci Uruk andavano avanti e indietro lungo la fila, facendo schioccare le fruste e urlando. Una fila dopo l’altra passò, e la luce delle torce rivelatrici era ormai lontana. Sam tratteneva il fiato. Già metà della schiera era passata. Poi, ad un tratto, uno dei guidatori di schiavi scorse le due figure ai bordi della strada. Fece schioccare la frusta e urlò: «Ehi voi! Alzatevi!». Essi non risposero, e con un grido egli arrestò l’intera compagnia.
«Avanti, fannulloni!», gridò. «Non è il momento di perdere tempo». Si avvicinò loro di un passo e persino nelle tenebre riconobbe i simboli sui loro scudi. «State disertando, eh?», ringhiò. «O riflettendoci sopra? Tutti voi avreste dovuto essere a Udûn entro ieri sera. Lo sapete bene. Alzatevi e seguiteci, o prenderò i vostri numeri e farò rapporto».
Essi si alzarono a fatica e tenendosi curvi, zoppicando come soldati stanchi di camminare, si infilarono in fondo alla fila. «No, non in fondo!», urlò l’aguzzino. «Tre file più in su. E rimaneteci, o ve la farò vedere io, quando me ne accorgerò!». Fece schioccare la lunga frusta sulle loro teste, e poi con un altro schiocco e un grido rimise in marcia la compagnia, a un rapido trotto.
Era già difficile per il povero Sam, stanco com’era; ma per Frodo era una tortura, e presto divenne un incubo. Strinse i denti e cercò di impedirsi di pensare, e avanzò ancora. Il fetore degli Orchi sudati era soffocante, ed egli incominciò ad annaspare dalla sete. Avanzavano sempre, ed egli si costrinse a trattenere il respiro ed a spingere in avanti le gambe; eppure, verso quale nefanda fine lo conducesse tutta questa sua fatica, non osava immaginarlo. Non vi era speranza di allontanarsi di nascosto. Di tanto in tanto l’aguzzino andava verso la fine della fila e li scherniva.
«Ecco!», rideva, schioccando la frusta vicino alle loro gambe. «Dove c’è una frusta c’è una volontà, fannulloni. Coraggio! Ve la darei io una bella rinfrescata, ma comunque riceverete tante frustate quante ne potrà sopportare la vostra pelle quando vi vedranno arrivare tardi al vostro accampamento. Vi farà bene. Non sapete che siamo in guerra?».
Avevano percorso alcune miglia, e la strada stava finalmente scendendo in pendio verso la pianura, quando le forze di Frodo incominciarono a cedere, e la sua volontà ad affievolirsi. Inciampò e vacillò. Disperatamente Sam tentò di aiutarlo e di sorreggerlo, benché sentisse di non riuscire nemmeno lui a sostenere quell’andatura. Sapeva ormai che da un minuto all’altro sarebbe giunta la fine: il suo padrone sarebbe svenuto o caduto, e tutto sarebbe stato scoperto: i loro sforzi si sarebbero rivelati vani. «Ma in ogni modo farò prima fuori quel diavolo d’un aguzzino», si disse.
Ma proprio mentre stava per mettere mano alla spada, fu colto da un improvviso sollievo. Si trovavano ora nella pianura e si avvicinavano all’ingresso di Udûn. A breve distanza da esso, davanti al cancello situato all’estremità del ponte, la strada proveniente da ovest convergeva con altre giunte da sud e da Barad-dûr. Tutte le strade erano percorse da truppe perché i Capitani dell’Ovest stavano avanzando e l’Oscuro Signore inviava rapidamente a nord tutte le sue forze. Fu così che parecchie compagnie giunsero contemporaneamente al crocevia, immerso nell’oscurità al di là della luce dei falò sulle mura. Vi fu immediatamente un gran lottare e imprecare, perché ogni truppa cercava di arrivare per prima al cancello e alla conclusione della sua marcia. Nonostante gli urli degli aguzzini e lo schioccare delle fruste, scoppiarono delle zuffe e furono sguainate delle lame. Una truppa di Uruk di Barad-dûr, pesantemente armati, caricò la fila di Durthang seminando la confusione.
Intontito com’era dal dolore e dalla stanchezza, Sam si destò all’improvviso, afferrò veloce l’occasione che gli si presentava e si gettò per terra, trascinandosi dietro Frodo. Degli Orchi caddero loro addosso, ringhiando e bestemmiando. Pian piano, carponi, gli Hobbit strisciarono via dalla confusione e senza che nessuno li notasse riuscirono a scavalcare il bordo della strada lasciandosi cadere dall’altra parte. Vi era una specie di parapetto che permetteva ai capotruppe di orientarsi nel buio o nella nebbia, e che si elevava a qualche piede dal livello del terreno circostante.
Rimasero per qualche attimo immobili. Faceva troppo buio per cercare un nascondiglio, se ve nera uno; ma Sam decise che dovevano almeno allontanarsi dalle grandi strade e dalla luce delle torce.
«Coraggio, signor Frodo!», sussurrò. «Strisciamo ancora per qualche spanna, e poi riposerete».
Con un ultimo sforzo disperato Frodo si sollevò sulle mani e avanzò di una ventina di braccia. Poi si infilò in un pozzo poco profondo che si aprì improvvisamente innanzi a loro, e vi rimase come un essere inanimato.
Sam infilò il suo lacero manto d’Orco sotto la testa del padrone, coprendo tanto Frodo quanto se stesso con il mantello grigio di Lórien; e il suo pensiero volò verso quella bella terra e verso gli Elfi, e sperò che la stoffa che avevano tessuto possedesse qualche insperata virtù che riuscisse a nasconderli in mezzo a quel deserto terrificante. Udì le grida e le dispute spegnersi man mano che le truppe entravano attraverso l’Isenmouthe. A quanto pareva, nella confusione e nel miscuglio di tante compagnie non era stata notata la loro assenza, non ancora, almeno.
Sam prese un sorso d’acqua, ma forzò Frodo a bere, e quando questi si fu un po’ ripreso gli diede un intero biscotto del loro prezioso pan di via, costringendolo a mangiarlo. Poi, troppo stanchi persino per sentire la paura, si sdraiarono. Dormirono per un po’ a intervalli, inquieti; il sudore si gelava sul loro corpo e le dure pietre mordevano le loro carni, ed essi incominciarono a rabbrividire. Dal Cancello Nero, proveniente da nord, penetrava un’aria fredda che passava per Cirith Gorgor e poi sibilava su tutto l’altipiano.
Col mattino tornò una luce grigia, perché nelle alte regioni soffiava il Vento dell’Ovest, ma in basso, sulle pietre dietro il recinto della Terra Nera, l’aria sembrava morta, gelida eppure soffocante. Sam sbirciò fuori dal buco. Tutt’intorno la terra era tetra, piatta e priva di colore. Sulle vie adesso non vi era anima viva; ma Sam temeva gli occhi vigili sulle mura dell’Isenmouthe, distante non più di un paio di centinaia di metri. A sud-est. lontana come una cupa ombra verticale, si ergeva la Montagna. Fumi abbondanti si sprigionavano da essa, mentre quelli che s’innalzavano in cielo venivano sospinti verso est, e grandi nubi scivolavano lungo i suoi pendii spargendosi sul paese. A poche miglia a nord-est si ergevano i Monti Cenere come fantasmi grigi, e dietro di essi le brumose alture settentrionali s’innalzavano come distanti nubi appena più scure del cielo.
Sam cercò di calcolare la distanza e di decidere la via da percorrere. «Sembrano cinquanta miglia, e non un passo di meno», borbottò sconfortato, osservando la montagna minacciosa, «e ci vorrà una settimana, se normalmente ci vuole un giorno, con il signor Frodo in questo stato». Scosse il capo, e mentre rifletteva, improvvisamente gli venne in mente un altro tetro pensiero. La speranza non aveva mai abbandonato a lungo il suo cuore ottimista, sempre volto al ritorno. Ma l’amara verità si rivelò a un tratto: nella migliore delle ipotesi, le provviste potevano nutrirli sino all’obiettivo, ma dopo aver compiuto il loro dovere si sarebbero trovati soli, senza casa, senza cibo, in mezzo a un terribile deserto. Non vi era speranza di ritorno.
«Era dunque questo il lavoro che sentivo essermi destinato», pensò Sam: «aiutare il signor Frodo sino all’ultimo passo e poi morire con lui? Ebbene, se questo è il mio compito, lo farò. Ma avrei tanto desiderato rivedere Lungacque, e Rosie Cotton e i suoi fratelli, ed il Gaffiere, e Begonia e tutti gli altri. Non riesco a credere che Gandalf avrebbe incaricato il signor Frodo di questa missione se non vi fosse stata alcuna speranza di ritorno. Le cose si sono messe male quando egli cadde laggiù a Moria. Che cosa non darei perché non fosse accaduto! Lui sì che ci avrebbe aiutati, in qualche modo!».
Ma mentre la speranza moriva nel cuore di Sam, o sembrava morire, essa si trasformò in una nuova forza. Il semplice viso dell’Hobbit Sam divenne deciso, quasi severo, ed in lui la volontà si rinforzò, mentre le sue membra erano percorse da un fremito, ed egli si sentì come trasformato in un essere di roccia e d’acciaio che né la disperazione, né la stanchezza, né infinite miglia di deserto potevano soggiogare.
Con un nuovo senso di responsabilità volse lo sguardo verso il terreno circostante, studiando la prossima mossa. Quando la luce crebbe, notò con stupore che quelle pianure che da lontano erano sembrate piatte e nude erano in realtà accidentate ed irte di massi. L’intera superficie dell’altipiano di Gorgoroth era solcata da larghi fossati, come se, quando era ancora un deserto di melma molle, fosse stata colpita da una pioggia di macigni. I fossi più grandi erano circondati da un bordo di rocce frantumate, e delle lunghe crepe partivano da essi in tutte le direzioni. Era una terra ove sarebbe stato possibile strisciare da un nascondiglio all’altro senza essere visti se non da occhi particolarmente vigili; possibile, almeno, per qualcuno abbastanza robusto che non avesse fretta. Ma per gli stanchi e gli affamati che dovevano percorrere molta strada prima di morire, non era una visione incoraggiante.
Riflettendo a tutte queste cose, Sam tornò dal suo padrone. Non fu necessario destarlo. Frodo giaceva supino con gli occhi aperti, fissando il cielo nuvoloso. «Ebbene, signor Frodo», disse Sam, «ho guardato un po’ in giro e ho riflettuto. Non vi è anima viva sulle strade, e faremmo bene ad allontanarci finché ne abbiamo la possibilità. Ce la fate?».
«Ce la faccio», rispose Frodo. «Ce la devo fare».
Si misero di nuovo in marcia, strisciando da un fosso all’altro, nascondendosi dietro ad ogni riparo, e avanzando obliquamente in direzione delle falde della catena settentrionale. La strada più orientale da principio seguì il loro percorso, ma poi si allontanò, costeggiando le falde dei monti, e scomparve in un muro di ombre nere. Né Uomini né Orchi ne seguivano il grigio e piatto percorso; l’Oscuro Signore aveva infatti portato a termine lo schieramento delle sue forze e cercava, persino nel suo sicuro territorio, la segretezza della notte, temendo i venti del mondo che si erano rivolti contro di lui, lacerando i suoi veli, e turbato dalla notizia di sfrontate spie che erano riuscite a penetrare nei suoi recinti.
Gli Hobbit percorsero stancamente poche miglia, e si fermarono. Frodo sembrava quasi esausto. Sam vide che non poteva fare molta strada in quel modo, strisciando, curvandosi, ora avanzando cauto e lento, ora correndo e incespicando.
«Io torno sulla strada finché dura la luce, signor Frodo», disse. «Mi affido di nuovo alla fortuna! Ci ha quasi traditi l’ultima volta, ma non del tutto. Un’andatura decisa per qualche altro miglio, e poi il riposo».
Stava correndo un rischio assai più grande di quanto non credesse; ma Frodo era troppo occupato con il suo fardello e con la lotta che agitava la sua mente per discutere, ed era quasi incapace di preoccuparsi. Salirono sulla strada e avanzarono sulla dura e crudele via che conduceva alla Torre Oscura. Ma la fortuna durò, e per il resto del giorno non s’imbatterono in nessun essere vivente; e quando cadde la notte scomparvero nell’oscurità di Mordor. Tutto il paese, in attesa, covava un’immensa tempesta: i Capitani dell’Ovest avevano passato il Crocevia e appiccato fuoco ai velenosi campi di Imlad Morgul.
Il loro viaggio disperato continuò, e l’Anello andava a sud mentre i vessilli dei re cavalcavano verso nord. Per gli Hobbit ogni giorno, ogni miglio era più arduo del precedente, a mano a mano che le loro forze diminuivano e il paese diventava più tetro. Non incontrarono nemici di giorno. A volte di notte, mentre sonnecchiavano accovacciati in qualche nascondiglio vicino alla strada, udivano grida e rumore di molti piedi, o il rapido galoppo di qualche destriero crudelmente aizzato. Ma assai peggiore di tutti questi pericoli era la minaccia sempre più vicina che incombeva su di essi: la terribile presenza del Potere che attendeva, immerso in profondi pensieri, insonne e malvagio dietro all’oscuro velo che circondava il suo Trono. Sempre più vicino e sempre più nero, come il sopraggiungere di un muro di tenebre all’estrema fine del mondo.
Giunse infine una terribile notte; mentre i Capitani dell’Ovest si avvicinavano alla fine delle terre viventi, i due viaggiatori piombarono in una cupa disperazione. Erano trascorsi quattro giorni dalla loro fuga, ma il tempo li opprimeva alle spalle come un sogno sempre più buio. Durante tutto il giorno Frodo non aveva parlato, avanzando curvo, inciampando spesso, come se i suoi occhi non vedessero più la strada. Sam comprese che fra tutte le loro pene il suo padrone doveva sopportare la peggiore, il peso crescente dell’Anello, un carico per il suo corpo e un tormento per la sua mente. Ansiosamente Sam aveva notato che la mano sinistra di Frodo si alzava spesso come per parare un colpo o coprire i suoi occhi impauriti da un terribile Occhio che cercava di scrutarne le profondità. A volte la sua mano destra strisciava verso il petto, afferrando qualcosa, e poi lentamente si allontanava, quando la volontà riprendeva il sopravvento.
Quando la nera notte tornò, Frodo si sedette con la testa fra le ginocchia e le braccia penzoloni per terra, e le sue mani si aprivano e si chiudevano nervosamente. Sam rimase a osservare finché la notte li coprì ambedue nascondendo l’uno all’altro. Egli non trovò più parole e s’immense nei propri cupi pensieri: sfinito e oppresso da un’ombra di paura, aveva tuttavia ancora in sé forze sufficienti. Il lembas aveva una virtù senza la quale si sarebbero già da tempo lasciati morire. Non soddisfaceva la gola, ed a volte la mente di Sam si empiva d’immagini di cibo e del desiderio di semplici carni e di pane. Eppure, quel pan di via degli Elfi aveva una potenza che aumentava quando i viaggiatori lo consumavano da solo senza mischiarlo ad altri alimenti. Nutriva la volontà e dava forza per sopportare e controllare membra e nervi in misura superiore a quella posseduta normalmente da una natura mortale. Ma ora urgeva una nuova decisione. Non potevano più continuare a seguire quella strada, che si dirigeva ad est verso la grande Ombra, mentre la Montagna si ergeva ormai alla loro destra, quasi diritto a sud. Ma innanzi ad essa si stendeva una vasta regione squallida, desertica, piena di ceneri e di esalazioni.
«Acqua, acqua», mormorò Sam. Era stato molto parsimonioso e nella sua bocca riarsa la lingua gli sembrava grossa e gonfia; ma nonostante tutta la sua attenzione, ne era rimasta ben poca, forse metà fiasca, e chissà quanti giorni ancora sarebbe durata la loro marcia. Avrebbero ormai da tempo esaurito tutta l’acqua se non avessero avuto il coraggio di seguire la strada, lungo la quale erano state costruite, a intervalli lunghi ma regolari, cisterne per il rifornimento delle truppe inviate attraverso quell’arida regione. In una di esse Sam aveva trovato un po’ d’acqua stagnante, lordata dagli Orchi, ma sufficiente al loro caso disperato. Ma ormai erano trascorsi interi giorni. Non vi era speranza di trovarne dell’altra.
Finalmente, sfinito dalle preoccupazioni, Sam si appisolò, lasciando che il domani portasse quel che doveva portare: egli non poteva fare più nulla. Sogni e realtà si mescolavano inquieti. Vide luci simili a occhi fosforescenti, scure forme striscianti, udì rumori di belve e di animali selvaggi e grida di esseri torturati; si svegliò più di una volta di soprassalto trovandosi in un mondo buio e pieno solo di oscurità. Ad un tratto però, quando si alzò in piedi scrutando disperatamente le tenebre, gli parve di scorgere, benché fosse sveglio, pallide luci simili ad occhi, che però vacillarono e scomparvero.
L’odiosa notte passò lenta, interminabile. La luce del giorno che si levò era pallida, perché avvicinandosi alla Montagna l’aria si faceva sporca, mentre dalla Torre Oscura si sprigionavano i veli dell’Ombra che Sauron tesseva intorno a sé. Frodo giaceva supino e immobile. Sam era in piedi al suo fianco, riluttante a parlare, eppure conscio che toccava a lui dare il via: doveva spingere la volontà del padrone a intraprendere un altro sforzo. Finalmente, curvandosi e accarezzando la fronte di Frodo, gli parlò all’orecchio.
«Svegliatevi, Padrone!», disse. «È ora di ripartire».
Come destato da un’improvvisa campana, Frodo si alzò velocemente e guardò verso sud; ma quando i suoi occhi videro la Montagna e il deserto, si scoraggiò nuovamente.
«Non ce la faccio, Sam», disse. «È un tale peso da portare, un tale peso!».
Sam sapeva, prima ancora di pronunciarle, che le sue parole erano vane, e che potevano causare più male che bene, ma in preda a compassione non seppe trattenersi. «Allora lasciate che lo porti io, Padrone, per qualche tempo», disse. «Lo sapete che lo farei, e con piacere, fino a esaurire le mie forze».
Una luce selvaggia apparve negli occhi di Frodo. «Sta’ lontano! Non mi toccare!», gridò. «Ti dico che è mio. Vattene!». La sua mano si avvicinò all’impugnatura della spada. Ma poi velocemente il suo tono cambiò. «No, no, Sam», disse tristemente. «Ma devi comprendere. È il mio fardello, e nessun altro può portarlo. È troppo tardi ormai, Sam caro. Non puoi aiutarmi più da quel punto di vista, Sono quasi in suo potere, ormai. Non riuscirei ad affidartelo, e se tu cercassi di prenderlo impazzirei».
Sam annuì con il capo. «Comprendo», disse. «Ma ho riflettuto, signor Frodo; ci sono altre cose di cui possiamo fare a meno. Perché non alleggerire il carico? Ormai puntiamo là, dritti a quella meta». Mostrò la Montagna. «Inutile trasportare cose di cui non avremo bisogno».
Frodo guardò di nuovo la Montagna. «No», disse, «non avremo bisogno di molte cose su quella strada. E alla fine, di niente del tutto». Raccolse lo scudo e lo gettò via insieme con il suo elmo. Poi, togliendosi il manto elfico, aprì la pesante cintura e la lasciò cadere in terra, seguita dalla spada nella guaina. Fece a pezzi il mantello nero e ne sparse i brandelli.
«Ecco, non sarò più un Orco», gridò, «e non porterò armi, belle o malefiche che siano. Che mi prendano, se vogliono!».
Sam imitò il suo esempio e si tolse le vesti da Orco; vuotò poi il suo sacco. Stranamente, tutte le cose che conteneva gli erano divenute care, non fosse altro perché le aveva trasportate da tanto lontano e con tanta fatica. L’impresa più ardua fu per lui disfarsi degli utensili di cucina. Le lacrime gli sgorgarono abbondanti dagli occhi al pensiero di gettarli via.
«Ricordate quel pezzetto di coniglio, signor Frodo?», disse. «E il nostro rifugio caldo nel paese del Capitano Faramir, il giorno che vidi un olifante?».
«No, temo di no, Sam», disse Frodo. «O, piuttosto, so che sono cose accadute, ma non riesco a vederle. Né il sapore del cibo, né il gusto dell’acqua, né il rumore del vento, né il ricordo d’erba, albero o fiore, né l’immagine della luna e delle stelle sopravvivono in me. Sono nudo nell’oscurità, Sam, e non vi sono veli fra me e il turbine di fuoco. Incomincio a vederla anche ad occhi aperti, e ogni altra cosa scompare».
Sam gli si avvicinò baciandogli la mano. «Allora quanto prima ce ne liberiamo, tanto prima riposeremo», disse esitante, incapace di trovare parole migliori. «Parlare non serve», si disse, radunando tutto ciò che avevano deciso di abbandonare. Non intendeva certo lasciarlo lì in mezzo al deserto affinché chiunque potesse vederlo. «Scurrile a quanto pare ha raccolto quella cotta di maglia, ma non vi aggiungerà una spada. Le sue mani sono già abbastanza malvagie quando sono vuote. E non gli permetterò di giocare con le mie pentole!». E con ciò prese tutta la roba e la gettò in una delle grandi crepe che squarciavano in lungo e in largo la pianura. Il fragore delle sue preziose pentole che precipitavano nel buio fu per il suo cuore come un rintocco funebre.
Tornò da Frodo e, tagliato un breve pezzo della sua corda elfica, ne fece una cinta affinché il suo padrone potesse stringersi alla vita il manto grigio. Avvolse con cura il resto della corda e lo conservò, insieme con il resto del loro pan di via e con la fiasca; dalla sua cintura pendeva Pungolo e, nascosta in una tasca della tunica sul petto, custodiva la fiala di Galadriel e la piccola scatola che la Dama aveva regalato a lui personalmente.
Si volsero allora finalmente verso la Montagna e si misero in marcia, senza più pensare a nascondersi, costringendo la stanca volontà e le membra sfinite ormai soltanto ad andare avanti. Nel tetro squallore del giorno sarebbe stato difficile a chiunque, anche in quella terra vigile, scorgerli da lontano. Fra tutti gli schiavi dell’Oscuro Signore, i Nazgûl erano gli unici che potevano avvisarlo del pericolo che avanzava, piccolo ma indomabile, verso il cuore del suo inespugnabile reame. Ma i Nazgûl e le loro ali nere volavano lontani verso un’altra destinazione: venivano radunati per seguire la marcia dei Capitani dell’Ovest, verso la quale era rivolto il pensiero della Torre Oscura.
Quel giorno sembrò a Sam che il suo padrone avesse trovato nuove energie, inspiegabili con il semplice alleggerimento del carico che portava. Durante le prime tappe avanzarono più veloci di quanto non avesse sperato. Il paese era rude e ostile, eppure percorsero molta strada, e la Montagna diveniva sempre più vicina. Ma via via che il giorno si allontanava e la tetra luce incominciava a svanire, Frodo si fece di nuovo cupo e stanco, e avanzava vacillando e inciampando, come se lo sforzo recente avesse assorbito tutta l’energia che restava in lui.
Quando si fermarono per l’ultima tappa, egli si accasciò per terra e disse: «Ho sete, Sam», e non parlò più. Sam gli diede un sorso d’acqua: ne rimaneva soltanto un altro. Sam non bevve. Ma ora, mentre la notte di Mordor si chiudeva di nuovo su di essi, tutti i suoi pensieri erano dominati dal ricordo dell’acqua; ogni ruscello, fonte o sorgiva veduto fino allora sgorgava e scorreva come un tormento nel buio dei suoi occhi. Sentì la frescura intorno a sé, come quando nuotava nella Pozza a Lungacque con Jolly Cotton e Tom e Nibs e la loro sorella Rosie. «Ma ciò accadeva anni fa», sospirò, «e in un paese molto, molto lontano. La via del ritorno, se esiste, passa per la Montagna».
Non riusciva a dormire, e si mise a discutere con se stesso. «Suvvia, abbiamo fatto meglio di quanto non sperassi», disse con tono gagliardo. «Chi ben comincia… Direi che abbiamo percorso metà della distanza prima di fermarci. Un altro giorno e ci siamo». E poi tacque.
«Non essere uno stolto, Sam Gamgee», rispose sempre la sua voce. «Non ce la farà a camminare per un altro giorno con lo stesso ritmo, ammesso che riesca a muoversi. E non puoi andare avanti ancora per molto, dando a lui tutta l’acqua e la maggior parte del cibo».
«Posso andare avanti ancora un bel po’, e lo farò».
«Fin dove?».
«Fino alla Montagna, naturalmente».
«E dopo, Sam Gamgee, dopo? Quando sarai arrivato, che cosa farai? Non riuscirà a fare nulla da solo».
Sam si accorse con costernazione di non saper rispondere. Non aveva le idee chiare. Frodo non gli aveva parlato molto del suo compito, e Sam sapeva molto vagamente che l’Anello doveva in qualche modo venire gettato nel fuoco. «La Voragine del Fato», mormorò, mentre gli tornava alla mente il vecchio nome. «Ebbene, forse il Padrone sa come trovarla, ma io certo lo ignoro».
«Lo vedi!», fu la risposta. «È tutto inutile. L’ha detto anche lui. Sei tu lo sciocco, che continui a faticare ed a sperare. Avreste potuto coricarvi e addormentarvi insieme tanti giorni addietro, se non fossi stato tanto testardo. Ma morirete lo stesso, o peggio. Tanto vale sdraiarti adesso e farla finita. Non arriverete mai in cima, in tutti i casi».
«Ci arriverò, dovessi abbandonare tutto salvo le mie ossa», disse Sam. «E porterò io in braccio il signor Frodo, dovessi rompermi la schiena e schiantarmi il cuore. Quindi, piantala di discutere!».
In quell’istante Sam sentì vibrare la terra sotto di sé, e udì o immaginò un profondo brontolio, come tuono imprigionato sotto terra. Una fiamma rossa balenò sotto le nuvole. Anche la Montagna dormiva, inquieta.
Ed ecco finalmente l’ultima tappa del loro viaggio verso l’Orodrúin, e la tortura fu più grande di quanto Sam avesse mai pensato di dover sopportare. Era sofferente e talmente riarso che non riusciva a ingoiare più nemmeno un boccone. L’oscurità non si diradò, non soltanto a causa dei fumi della Montagna: sembrava imminente una tempesta, e verso sud-est sotto i cieli neri balenavano i fulmini. Peggio ancora, l’aria era piena di esalazioni; respirare era penoso e difficile, ed essi venivano colti da vertigini, tanto che vacillavano e cadevano spesso. Eppure la loro forza di volontà non cedette, e continuarono ad avanzare.
La Montagna si avvicinava sempre di più, e ad un tratto, quando levarono lo sguardo la videro giganteggiare di fronte a loro: un’immensa massa di cenere, detriti e pietre bruciate, in mezzo alla quale si ergeva un ripido cono. Prima che la crepuscolare luce del giorno svanisse erano riusciti a raggiungerne le falde.
Frodo si gettò in terra, boccheggiante. Sam si sedette accanto al padrone. Si accorse con sorpresa che era stanco ma più leggero, e che la sua mente era di nuovo chiara, non più turbata da lotte interiori. Conosceva tutti i motivi di disperazione e non voleva ascoltarli. La sua volontà era irremovibile, e solo la morte avrebbe potuto spezzarla. Non sentiva più né desiderio né bisogno di sonno, ma piuttosto di vigilanza. Sapeva che tutti i pericoli stavano ora convergendo verso un unico punto: il giorno seguente sarebbe stato un giorno decisivo, il giorno dello sforzo finale o del disastro, l’ultimo affanno.
Ma quando sarebbe giunto? La notte pareva senza tempo e senza fine, i minuti scomparivano uno dopo l’altro senza formare delle ore, senza portare cambiamenti. Sam cominciò a domandarsi se era sorta una nuova oscurità e se il giorno non sarebbe mai più riapparso. Finalmente cercò la mano di Frodo. Era fredda e percorsa da tremiti. Il suo padrone era colto da brividi.
«Non avrei dovuto abbandonare la coperta», mormorò Sam, e allungandosi cercò di confortare Frodo con le proprie braccia e il proprio corpo. Poi fu colto dal sonno, e la pallida luce dell’ultimo giorno della loro missione li trovò distesi a fianco a fianco. Il vento, caduto il giorno precedente, dopo aver smesso di soffiare da ovest veniva ora da nord; lenta, la luce del sole invisibile cominciò a penetrare nelle ombre in cui giacevano gli Hobbit.
«Ora, coraggio! È l’ultimo sforzo!», disse Sam alzandosi in piedi. Si chinò su Frodo, destandolo dolcemente. Frodo gemette, e con un enorme sforzo di volontà riuscì a tenersi diritto, ma poi ricadde in ginocchio. Levò con difficoltà gli occhi verso gli oscuri pendii del Monte Fato che si ergeva sopra di lui, e poi si mise ad avanzare carponi.
Sam lo guardò, piangendo in fondo al cuore, ma non sgorgarono lacrime dai suoi occhi asciutti e arrossati. «Ho detto che l’avrei portato in braccio, dovessi rompermi la schiena», mormorò, «e sono pronto a farlo!
«Coraggio, signor Frodo!», gridò. «Non posso portare io l’Anello, ma posso trasportare voi ed esso insieme. Alzatevi! Suvvia, signor Frodo, caro! Sam vi porterà in groppa. Ditegli dove deve andare, e lui vi andrà».
Aiutò Frodo a salire sulle sue spalle, le braccia penzoloni lungo il collo e le gambe strette sotto le sue braccia; poi si alzò in piedi e con sommo stupore trovò il fardello leggero. Aveva temuto che le forze gli sarebbero appena bastate a sollevare il suo padrone, oltre al quale avrebbe poi dovuto sopportare il terribile peso del maledetto Anello. Ma non fu così. Frodo era forse consunto dalle sofferenze, dalle ferite e dai morsi velenosi, dalla paura, dalla preoccupazione e dal lungo vagabondare, o forse nuove energie erano state donate a Sam per lo sforzo finale, permettendogli di sollevare il padrone con la medesima facilità con cui avrebbe portato un bambino hobbit sui prati o campi della Contea. Trasse un profondo respiro e si mise in cammino.
Avevano raggiunto i piedi della Montagna dalla parte settentrionale, leggermente a ovest; lì le lunghe pendici grigie, benché accidentate, non erano tuttavia ripide. Frodo non disse nulla, e Sam avanzò come meglio poteva, e la sua unica guida era la volontà di arrivare più in alto possibile prima che le sue energie fisiche e morali cedessero. S’inerpicò sempre più su, faticosamente, salendo di qua e di là per ridurre l’asprezza del pendio, incespicando spesso e strisciando infine come una lumaca con un pesante fardello sulla schiena. Quando la sua volontà non riuscì a spingerlo oltre, e le sue membra cedettero definitivamente, si fermò, posando per terra dolcemente Frodo.
Egli aprì gli occhi ed emise un respiro. Era più facile respirare lassù oltre le fetide esalazioni che stagnavano nella pianura. «Grazie, Sam», bisbigliò affannosamente. «Quanta strada rimane da fare?». «Non lo so», disse Sam, «perché non so dove stiamo andando».
Guardò dietro a sé, poi levò gli occhi in alto, e fu stupefatto di vedere quanto cammino avesse percorso grazie al suo ultimo sforzo. La Montagna, vista da lontano, alta e minacciosa, sembrava più imponente di quanto non fosse in realtà. Sam si accorse ora che era meno elevata degli alti valichi dell’Ephel Dùath che aveva scalato insieme con Frodo. Le accidentate propaggini irte di rocce si ergevano per circa tremila piedi al di sopra della pianura, sormontate dal cono centrale che s’innalzava per un migliaio di piedi, simile a un fumaiolo dal cratere dentellato. Ma Sam aveva ormai scalato metà della base, e l’altipiano di Gorgoroth si stendeva confusamente ai suoi piedi, avvolto nel fumo e nell’ombra. Alzando lo sguardo avrebbe gridato, se la gola riarsa glielo avesse permesso: fra le rocce e le sporgenze sovrastanti vide chiaramente un sentiero. Si arrampicava sinuoso come un serpente intorno alla Montagna, e prima di scomparire alla vista raggiungeva la base del cono dalla parte orientale.
Sam non riusciva a vederne il percorso immediatamente sopra la sua testa, perché un ripido pendio lo nascondeva completamente; ma si rese conto che se riusciva a compiere quell’ultimo sforzo, avrebbero certamente raggiunto il sentiero. Un barlume di speranza si riaccese in lui. Forse potevano ancora conquistare la Montagna. «Sembra tracciato apposta!», esclamò. «Se non ci fosse stato, avrei dovuto accettare la sconfitta».
Il sentiero non era stato costruito apposta per Sam. Egli non lo sapeva, ma quella era la Strada di Sauron che da Barad-dûr conduceva a Sammath Naur, la Voragine del Fuoco. Partiva dal grande cancello occidentale della Torre Oscura, attraversava un profondo abisso con un ponte di ferro e poi s’inoltrava nella pianura, avanzando fra due gole fumanti per circa una lega e raggiungendo un lungo pendio che saliva sulla Montagna dalla parte orientale. Da lì, dopo averne percorsa l’intera circonferenza, si arrampicava infine sul cono, senza raggiungerne la cima, e penetrava in un oscuro ingresso rivolto ad est in direzione della Finestra dell’Occhio di Sauron, in agguato nella fortezza immersa nell’ombra. Spesso bloccata o distrutta dai tumulti del cratere, quella strada veniva costantemente riparata dal lavoro di innumerevoli Orchi.
Sam trasse un profondo respiro. Vi era un sentiero, ma per raggiungerlo doveva scalare il ripido pendio, e non sapeva proprio come fare. In primo luogo doveva riposare la schiena dolorante. Si allungò accanto a Frodo. Nessuno dei due parlò. La luce aumentò gradatamente. A un tratto Sam fu colto da un’inesplicabile sensazione d’urgenza. Era come se qualcuno l’avesse chiamato: «Adesso, adesso, o sarà troppo tardi!». Si fece forza e si alzò. Frodo sembrava anch’egli aver udito il richiamo. Lottò per mettersi in ginocchio.
«Avanzerò carponi, Sam», disse annaspando.
E così, centimetro per centimetro, come piccoli insetti grigi, si inerpicarono in cima al pendio. Arrivarono al sentiero e videro che era largo, pavimentato con scorie e cenere battuta. Frodo vi si arrampicò e spinto come da una forza irresistibile si volte lentamente verso est. Lontana, incombeva l’ombra di Sauron; ma lacerate dal forte vento del mondo, o sconvolte da un interiore tormento, le nubi si squarciarono, aprendosi per un istante; ed egli vide ergersi, alti e neri più delle immense ombre che li circondavano, i crudeli pinnacoli e la ferrea corona della più alta torre di Barad-dûr. Improvvisamente, per un istante, una fiamma rossa si sprigionò come da una finestra irraggiungibile, balenando verso nord: il bagliore di un Occhio penetrante. Poi le ombre si richiusero e la terribile visione scomparve. L’Occhio non era rivolto verso di loro: scrutava a nord i Capitani che si preparavano all’assalto, e puntava su di essi con tutta la sua malvagità, mentre il Potere si apprestava a vibrare il colpo micidiale; ma di fronte a quella tremenda apparizione Frodo cadde come trafitto a morte. La sua mano cercò la catena intorno al collo.
Sam s’inginocchiò accanto a lui. Fioca, quasi inudibile, udì la voce di Frodo: «Aiutami, Sam! Aiutami, Sam! Tienimi la mano! Io non posso fermarla». Sam prese le mani del suo padrone e le unì, un palmo contro l’altro, e le baciò; poi le strinse dolcemente fra le sue. Improvvisamente balenò in lui il pensiero: «Ci ha scoperti! Il gioco è fatto o lo sarà presto. Coraggio, Sam Gamgee, questa è la fine di ogni fine».
Sollevò di nuovo Frodo, tenendogli le mani strette contro il proprio petto e lasciando che le sue gambe ciondolassero. Poi chinò il capo e s’incamminò per il sentiero in salita. Non era tanto semplice percorrerlo come era parso a prima vista. Fortunatamente, le grandi colate sprigionatesi quando Sam si trovava a Cirith Ungol, erano discese soprattutto lungo i pendii a sud e ad ovest, e non avevano quindi bloccato la strada. Tuttavia ” in molti punti essa era franata o squarciata da lunghe fessure. Dopo essersi arrampicata verso est per un certo tratto, si ripiegava su se stessa descrivendo un angolo acuto, e procedeva verso ovest. Proprio all’angolo, attraversava un’antica colata vomitata molto tempo addietro dalle fornaci della Montagna. Affannando sotto il suo carico, Sam voltò lungo la curva, e proprio in quell’attimo intravide con la coda dell’occhio qualcosa che cadeva dall’alto della colata, come un piccolo pezzo di roccia nera staccatosi mentre passava.
Colpito da un improvviso peso precipitò in avanti, lacerandosi il dorso delle mani che stringevano ancora quelle del suo padrone. Poi comprese che cosa era accaduto, perché dall’alto sentì, mentre giaceva in terra, una voce che odiava.
«Padrone cattivo», sibilò la voce. «Padrone cattivo ci tradisce, tradisce Sméagol, gollum. Non deve andare lì. Non deve fare male a Tesoro. Dallo a Sméagol, sssì, dallo a noi! Dallo a noi!».
Con un balzo Sam fu in piedi e sguainò la spada; ma non poteva fare nulla. Gollum e Frodo erano avvinghiati l’uno all’altro. Gollum assaliva il suo padrone, cercando di raggiungere la catena e l’Anello. Era forse l’unica cosa che potesse destare le morenti energie in fondo al cuore e alla volontà di Frodo: un attacco, un tentativo di impossessarsi del suo tesoro con la forza. Egli rispose con una furia improvvisa che stupì Sam, e anche Gollum. In verità, malgrado questo, la conclusione sarebbe stata probabilmente diversa, se Gollum fosse stato ancora quello che era un tempo; ma i tormentosi sentieri che aveva percorsi, solo, affamato e assetato, spinto dal divorante desiderio e da una terribile paura, lo avevano segnato profondamente. Era magro, scavato, tutto ossa e pelle secca e tesa. Una luce selvaggia fiammeggiava nei suoi occhi, ma la sua malizia non era più come un tempo eguagliata dalla forza delle sue membra. Frodo lo gettò per terra e si alzò fremendo.
«Giù, giù!», annaspò, stringendo la mano contro il petto e afferrando l’Anello attraverso la tunica di cuoio. «Giù, giù! Viscido verme, sta’ lontano da me! Hai fatto il tuo tempo. Non puoi ormai tradirmi o uccidermi».
Poi, ad un tratto, come gli era accaduto all’ombra dell’Emyn Muil, Sam vide i due rivali in un’altra visione. Una figura accovacciata, la pallida ombra di un essere vivente, una creatura completamente distrutta e sconfitta eppure piena di avidità e di rabbia; innanzi ad essa si ergeva severa, insensibile alla pietà, una figura vestita di bianco che aveva al petto una ruota di fuoco. Dal fuoco uscì una voce imperiosa.
«Vattene, e non mi tormentare più! Se mai dovessi toccarmi ancora, verrai gettato anche tu nel Fuoco del Fato».
La figura accovacciata indietreggiò, e nei suoi occhi ammiccanti vi era del terrore, ma al tempo stesso un insaziabile desiderio.
Poi la visione svanì e Sam vide Frodo in piedi, che respirava affannosamente con la mano sul petto, e Gollum inginocchiato davanti a lui, con le mani aperte poggiate per terra.
«Attento!», gridò Sam. «Sta per scattare!». Fece un passo avanti brandendo la spada. «Presto, Padrone, andate!», gridò ansimando. «Andate avanti! Non c’è tempo da perdere. Mi occupo io di lui. Andate avanti!».
Frodo lo guardò come da molto lontano. «Sì, devo andare avanti», disse. «Addio, Sam! Questa è la fine. Sul Monte Fato è giunto il fato. Addio!». Si voltò e continuò ad avanzare, lento ma eretto, sul sentiero in salita.
«Ora!», disse Sam. «Finalmente posso regolare i conti con te!». Balzò avanti con la spada sguainata, pronto a combattere. Ma Gollum non scattò. Cadde lungo disteso per terra e si mise a piagnucolare.
«Non ucciderci», singhiozzò. «Non farci male con cattivo crudele acciaio! Lasciaci vivere, sì, vivere ancora un po’. Perduti, perduti! Siamo perduti. E quando il Tesoro va via moriremo, sì, moriremo nella Polvere». Graffiò le ceneri del sentiero con le sue lunghe dita scarne. «Sssì, polvere!», sibilò.
La mano di Sam esitò. La sua mente era eccitata dalla collera e dai cattivi ricordi passati. Sarebbe stato giusto uccidere quell’essere infido e cattivo, giusto e più volte meritato; e sembrava anche l’unica cosa sicura da farsi. Ma in fondo al cuore qualcosa lo tratteneva. Non Poteva colpire quella cosa distesa nella sabbia, disperata, distrutta, miserevole. Lui stesso aveva portato l’Anello, solo per poco tempo, ma poteva vagamente immaginare l’agonia della mente e del corpo di Gollum, incatenato all’Anello, dominato, incapace di ritrovare nella vita mai più pace o sollievo. Ma Sam non aveva parole per esprimere ciò che sentiva.
«Maledetto essere puzzolente!», disse. «Vattene! Togliti dai piedi! Non mi fido di te, ma vattene. Altrimenti ti farò davvero male, sì, con cattivo crudele acciaio».
Gollum si alzò sulle quattro zampe e indietreggiò di alcuni passi, poi si voltò, e quando Sam fece l’atto di tirargli un calcio, fuggì giù per il sentiero. Sam non si curò più di lui. Improvvisamente si ricordò di Frodo. Levò lo sguardo verso il tratto superiore del sentiero, ma non lo vide. Cercò di correre su per la strada. Se si fosse voltato, avrebbe visto Gollum girarsi e, con una luce di pazzia negli occhi, seguirlo veloce ma cauto, come un’ombra strisciante fra le pietre.
Il sentiero continuava a salire. Dopo un breve tratto curvò ancora una volta, ma verso est, e poi penetrò in una fessura che si apriva nel fianco del cono, la porta del Sammath Naur. Lontano a sud il sole sorgente ardeva minaccioso, un disco rosso opaco che penetrava fra fumi e brume; tutt’intorno alla Montagna, Mordor si stendeva come una terra morta, silente, avvolta nell’ombra in attesa di un colpo terribile.
Sam giunse all’apertura e guardò dentro. Era tutto buio e caldo e un rombo profondo scosse l’aria. «Frodo! Padrone!», chiamò. Non ebbe risposta. Rimase per un attimo immobile mentre il suo cuore batteva in preda a folli timori, poi si tuffò in avanti. Un’ombra lo seguì.
Sulle prime non riuscì a distinguere nulla. In quel momento di grande necessità estrasse di nuovo la fiala di Galadriel, ma essa rimase pallida e fredda nella sua mano tremante e non irradiò alcuna luce in quella soffocante oscurità. Era giunto nel cuore del regno di Sauron, alle fucine della sua antica potenza, le più grandi della Terra di Mezzo; ogni altro potere veniva qui sopraffatto. Fece alcuni passi incerti e timorosi nell’oscurità, e ad un tratto balenò un lampo rosso, infrangendosi contro il tetto nero. Sam vide allora che si trovava in una lunga caverna o galleria che penetrava nel cono fumoso della Montagna. Poco più avanti il pavimento e i muri da ambedue i lati erano attraversati da una grande fessura dalla quale si sprigionava il rosso bagliore, a volte avvampando, a volte spegnendosi nell’oscurità; dagli abissi venivano rumori e boati come di grandi macchine sbuffanti e rombanti.
Il bagliore apparve di nuovo, e sull’orlo della fessura, innanzi alla Voragine del Fato, Sam vide ergersi Frodo, nero contro la luce, teso, eretto, ma immobile, come pietrificato.
«Padrone!», gridò Sam.
Allora Frodo si destò e parlò con voce chiara, la più chiara e potente che Sam avesse mai udito da lui, una voce che s’innalzò oltre il rombo e il travaglio di Monte Fato, squillando fra muri e soffitto.
«Sono venuto», disse. «Ma ora non scelgo di fare ciò per cui sono venuto. Non compirò quest’atto. L’Anello è mio!». E improvvisamente, infilandoselo al dito, scomparve alla vista di Sam. Questi trasalì, ma non ebbe, il tempo di gridare, perché in quell’attimo accaddero molte cose.
Qualcosa lo colpì violentemente nella schiena, ricevette un urto nelle gambe e fu spinto violentemente da una parte, sbattendo la testa contro le pietre del terreno, mentre una figura nera l’oltrepassava con un balzo. Rimase per qualche tempo immobile, e tutto divenne nero innanzi ai suoi occhi.
Lontano da lì, quando Frodo infilò l’Anello arrogandoselo, proprio a Sammath Naur, nel cuore del suo reame, il Potere fu scosso a Barad-dûr e la Torre tremò, dalle fondamenta fino alla fiera e orgogliosa cresta. L’Oscuro Signore fu improvvisamente conscio della presenza di Frodo, e il suo Occhio, penetrando fra tutte le ombre, scrutò oltre l’altipiano la porta che egli stesso aveva costruita; l’enormità della sua follia gli fu rivelata in un lampo accecante, e tutti gli artifizi dei suoi nemici furono messi a nudo. Allora la sua collera avvampò come una fiamma divorante, ma la sua paura fu come un grande fumo nero che lo soffocava. Conosceva il pericolo mortale in cui si trovava e il filo al quale ormai pendeva il suo destino.
La sua mente abbandonò tutti i piani ed i tranelli intessuti di paura e di tradimento, tutti gli stratagemmi e le guerre, e da una parte all’altra del suo regno corse un brivido, i suoi schiavi indietreggiarono, i suoi eserciti si fermarono ed i suoi capitani si trovarono all’improvviso in balia del fato, privi di volontà, tremanti e disperati. Erano stati dimenticati. La mente e gli intenti del Potere che li comandava erano ormai concentrati con forza irresistibile sulla Montagna. Convocati da lui, precipitandosi con un grido lacerante, i Nazgûl volarono più veloci dei venti la loro ultima corsa disperata, e la tempesta di ali si diresse turbinosa verso il Monte Fato.
Sam si alzò. Era intontito, e il sangue che sgorgava dalla testa gli gocciolava negli occhi. Avanzò tastoni, e improvvisamente vide qualcosa di strano e di terribile. Gollum, sul bordo dell’abisso, lottava come impazzito contro un invisibile avversario. Ondeggiava da una parte e dall’altra, a volte talmente vicino all’orlo che rischiava di precipitare, a volte indietreggiando, cadendo per terra, alzandosi e ricadendo. Continuava a sibilare ma non pronunciava parola.
I fuochi degli abissi si destarono furibondi, la luce rossa avvampò e tutta la caverna si empì di un grande bagliore infocato. Ad un tratto Sam vide Gollum che avvicinava le lunghe mani alla bocca: le bianche fauci scintillarono e si chiusero con un rumore secco. Frodo lanciò un urlo e apparve, inginocchiato sul bordo della fessura. Ma Gollum, danzando in maniera folle, teneva alto l’Anello, e il dito che vi era rimasto infilato. Sfavillava come se fosse stato davvero creato nel fuoco vivo.
«Tesoro, tesoro, tesoro!», gridò Gollum. «Mio Tesoro! O mio Tesoro!». E mentre pronunciava quelle parole, con gli occhi rivolti verso l’alto, gongolanti di gioia alla vista della sua conquista, mise un piede in fallo, inciampò, vacillò un istante sull’orlo, e poi precipitò con un urlo. Dagli abissi giunse il suo ultimo lamentevole Tesoro ed egli scomparve per sempre.
Seguì un boato ed un immenso tumulto. Fuochi avvamparono sino al soffitto. Il rombo divenne un gigantesco fragore, e la Montagna tremò. Sam corse da Frodo e, raccoltolo, lo portò fuori dalla porta. Lì, sulla nera soglia del Sammath Naur, fu colto da tale terrore e meraviglia che rimase immobile, dimentico di ogni altra cosa, guardandosi intorno pietrificato.
Ebbe una rapida visione di nubi turbinanti, in mezzo alle quali si ergevano torri e muraglie, alte come colline, in cima a un grande trono nelle montagne, al di sopra di mille e mille voragini incommensurabili: fossati e cortili imponenti, prigioni buie e ripide come rupi, immensi cancelli d’acciaio e di diamante. Ma poi, tutto scomparve. Le torri crollarono e le montagne franarono, le muraglie si sbriciolarono cadendo in frantumi, mentre immense spirali di fumo e di vapore si sprigionavano sempre più in alto, e come onde ruggenti dalle creste incrinate e spumeggianti si riversavano su tutta la terra. Finalmente si udì un rombo che crebbe sino a divenire un boato ruggente; la terra tremò, la pianura si sollevò scricchiolando e l’Orodrúin oscillò. La sua cima spaccata vomitò fiumi di fuoco. I cieli furono sconvolti da tuoni e squarciati da fulmini. Un torrente di pioggia nera, tagliente come fruste, sgorgò dalle cateratte celesti. Nel cuore della tempesta, con un grido più lacerante di ogni altro r-umore, squarciando le nuvole come dardi infocati, arrivarono i Nazgûl e, come ingoiati dalle rovine dei monti e dei cieli, gracchiarono, appassirono e scomparvero.
«Ebbene, questa è la fine, Sam Gamgee», disse una voce accanto a lui. Frodo era lì, pallido e consunto, eppure di nuovo se stesso: nei suoi occhi non vi era più pazzia, né timore, né lotte interiori, ma pace. Il suo fardello non esisteva più. Era di nuovo il caro padrone dei giorni sereni nella Contea.
«Padrone!», gridò Sam e cadde in ginocchio. In mezzo a tutte quelle distruzioni egli non provava per il momento che una grande gioia. Il fardello era scomparso. Il suo padrone era salvo, era tornato in sé, ed era libero. Improvvisamente Sam notò la mano mutilata e sanguinante.
«La vostra povera mano!», disse. «E non ho niente per medicarla o per fasciarla. Avrei preferito dargli una mia mano tutta intera. Ma ora egli è scomparso, scomparso per sempre».
«Sì», disse Frodo. «Ma ricordi le parole di Gandalf: Persino Gollum potrebbe avere ancora qualcosa da fare? Se non fosse stato per lui, Sam, non avrei distrutto l’Anello. La Missione sarebbe stata vana, proprio alla fine. Quindi, perdoniamolo! La Missione è compiuta, e tutto è passato. Sono felice che tu sia qui con me. Qui, alla fine di ogni cosa, Sam».
Su tutte le colline circostanti infuriavano gli eserciti di Mordor. I Capitani dell’Ovest venivano sommersi da flutti sempre più impetuosi. Il sole ardeva rosso, e sotto le ali dei Nazgûl le ombre della morte si proiettavano nere sulla terra. Aragorn si ergeva accanto al suo vessillo, silenzioso e severo, come perduto nel ricordo di cose remote o distanti; ma i suoi occhi brillavano come le stelle che sfavillano con maggiore intensità a mano a mano che la notte s’infittisce. In cima al colle era Gandalf, bianco e freddo, e nessun’ombra cadeva su di lui. L’assalto di Mordor irruppe come un’immensa ondata sulle colline assediate, e le voci ruggivano come una marea che sale fra boati e fragore.
Come se ai suoi occhi fosse improvvisamente apparsa una visione, Gandalf trasalì: si voltò a guardare verso nord, dove i cieli erano limpidi e pallidi. Poi alzò le mani e gridò con voce possente che sovrastava ogni altro rumore: «Arrivano le Aquile!» E molte voci gli risposero gridando: «Arrivano le Aquile! Arrivano le Aquile!» Gli eserciti di Mordor levarono gli occhi, domandandosi che cosa significasse.
Arrivò Gwaihir, il Re dei Venti, e Landroval suo fratello, la più grande di tutte le Aquile del Nord, il più potente dei discendenti del vecchio Thorondor che costruì i suoi nidi sulle inaccessibili vette dei Monti Circondanti quando la Terra di Mezzo era giovane. Dietro di essi arrivarono tutti i loro vassalli dei monti del Nord, volando in rapide file sulle ali del vento. Puntarono diritti sui Nazgûl, emergendo all’improvviso dalle zone alte dell’aria, e il turbinio delle loro immense ali fu come una tormenta.
Ma i Nazgûl si voltarono e fuggirono, scomparendo fra le ombre di Mordor, richiamati da un improvviso e terribile grido della Torre Oscura; e in quell’istante tutti gli eserciti di Mordor tremarono, il dubbio invase i loro cuori, il riso svanì, le loro mani esitarono, le loro membra cedettero. Il Potere che li sorreggeva empiendoli d’odio e di furore stava vacillando, e distoglieva da essi la sua volontà; guardando negli occhi dei nemici videro ora una luce di morte e furono colti da paura.
Allora tutti i Capitani dell’Ovest gridarono, perché i loro cuori erano pieni di una nuova speranza in mezzo a tutta l’oscurità. Dai colli assediati, Cavalieri di Gondor e di Rohan, Dùnedain del Nord, compagnie di spietati guerrieri si precipitarono in file compatte sugli avversari esitanti, aprendosi un varco con la punta delle loro spade infallibili. Ma Gandalf sollevò di nuovo le braccia e gridò ancora una volta con voce limpida:
«Fermatevi, Uomini dell’Ovest! Fermatevi e aspettate! Questa è l’ora del fato».
E mentre parlava la terra tremò sotto i loro piedi. Un’immensa oscurità invase il cielo, puntellata di fuoco, e s’innalzò al di sopra delle Torri del Cancello Nero, al di sopra delle montagne. La terra gemette e fu percorsa da un tremito. Le Torri dei Denti ondeggiarono, vacillarono e crollarono in terra; l’imponente muraglia si sbriciolò; il Cancello Nero fu distrutto; e da lontano, ora più fioco, ora sempre più forte, innalzandosi fra le nubi, si udì un rombo, un ruggito, un lungo boato lacerante.
«Il regno di Sauron è finito!», disse Gandalf. «Il Portatore dell’Anello ha compiuto la sua Missione». E mentre i Capitani guardavano a sud la Terra di Mordor, parve loro che, nera contro la coltre delle nuvole, si ergesse l’immensa forma di un’ombra, impenetrabile, incoronata da fulmini, e che invadesse tutto il cielo. Enorme e gigantesca sovrastò tutto il mondo, tendendo verso di essi una grande mano minacciosa, terribile ma impotente: infatti, proprio mentre si avvicinava, un forte vento la sospinse e la spazzò via; allora vi fu un gran silenzio.
I Capitani chinarono il capo, e quando levarono di nuovo lo sguardo, meraviglia! tutti i nemici erano in fuga e il potere di Mordor svaniva come polvere al vento. Come le formiche che vedendo morire l’essere che covava in fondo alla loro tana, turgido e malevolo, dominandole tutte, si mettono a vagare senza scopo né senso per poi lasciarsi morire, anche le creature di Sauron, Orchi, o Troll, o bestie rese schiave, incominciarono a correre qua e là come impazzite, alcune uccidendosi, altre gettandosi nei pozzi, altre ancora cercando rifugio in luoghi bui e tenebrosi lontani da ogni speranza. Ma gli Uomini di Rhûn e di Harad, Esterling e Sudroni, videro il disastro della loro guerra e la grande maestà e gloria dei Capitani dell’Ovest. E quelli che più a lungo avevano servito la potenza malefica, e odiavano l’Ovest, eppure erano uomini fieri e coraggiosi, si radunarono per affrontare un’ultima battaglia, mentre tutti gli altri fuggirono a oriente, e alcuni gettarono le armi e implorarono pietà.
Allora Gandalf, lasciando la battaglia ad Aragorn e agli altri capitani, chiamò dall’alto della collina; e la grande aquila, Gwaihir, Re dei Venti, scese verso di lui e si posò a terra.
«Due volte già mi hai portato, Gwaihir, amico mio», disse Gandalf. «La terza sarà l’ultima, se non ti dispiace. Non mi troverai molto più pesante di quella volta che mi portasti via da Zirakzigil, ove bruciò via la mia vecchia vita».
«Ti porterei», disse Gwaihir, «ovunque me lo chiedessi, fossi anche fatto di pietra».
«Allora vieni, e che tuo fratello ci accompagni, insieme con il più rapido dei tuoi vassalli! Dobbiamo essere più veloci di qualunque vento e battere in rapidità persino le ali dei Nazgûl».
«Soffia il Vento del Nord, ma noi lo vinceremo», disse Gwaihir. Sollevò Gandalf e volò verso sud, seguito da Landroval e da Meneldor, giovane e veloce. E passarono su Gorgoroth e Udûn, sorvolando terre distrutte e in rovina, e innanzi a loro il Monte Fato avvampava, vomitando fuoco.
«Sono felice che tu sia qui con me», disse Frodo. «Qui alla fine di ogni cosa, Sam».
«Sì, sono con voi, padrone», disse Sam, stringendosi dolcemente al petto la mano ferita di Frodo. «E voi siete con me. E il viaggio è finito. Ma dopo aver fatto tanta strada non voglio ancora darmi per vinto. Non è nel mio carattere, non so se mi spiego».
«Forse no, Sam», disse Frodo; «ma così sono le cose del mondo. Fallisce la speranza. Giunge la fine. Ci rimane poco ormai da attendere. Siamo perduti in mezzo alle rovine e alle catastrofi, e non abbiamo scampo».
«Ebbene, padrone, potremmo almeno allontanarci da questo posto pericoloso, da questa Voragine del Fato, se questo è il suo nome. Non vi pare? Suvvia, signor Frodo, scendiamo almeno giù per il sentiero!».
«Benissimo, Sam. Se vuoi, io ti seguirò», disse Frodo; si alzarono e percorsero lentamente la strada serpeggiante, e mentre si avvicinavano ai tremanti piedi della Montagna, fumi e vapori in quantità si sprigionarono da Sammath Naur, e il fianco del cono fu squarciato, e un immenso vomito incandescente scese come una rombante cascata lungo il fianco orientale del monte.
Frodo e Sam non riuscirono più ad avanzare. Le ultime forze abbandonavano rapidamente la loro mente e il loro corpo. Avevano raggiunto un piccolo colle di cenere ai piedi della Montagna, ma da lì non vi era alcuna via di scampo. Era come un’isola che non avrebbe resistito a lungo in mezzo alle convulsioni dell’Orodrúin. Tutt’intorno la terra era spaccata, e da profonde fessure e pozzi abissali si levavano fumi ed esalazioni. Alle loro spalle la Montagna rantolava. I suoi fianchi erano squarciati da enormi fenditure. Lenti fumi di fuoco avanzavano verso di loro. Fra non molto sarebbero stati sommersi. Pioveva una grandine di cenere incandescente.
Erano in piedi e immobili; Sam che stringeva ancora la mano del padrone, la accarezzò. Poi sospirò. «Che vicenda abbiamo vissuta, signor Frodo, non è vero?», disse. «Vorrei tanto sentirla narrare! Credete che diranno: Ecco la storia di Frodo dalle Nove Dita e dell’Anello del Fato? E allora tutti rimarranno silenziosi in ascolto, come quando a Gran Burrone ci narrarono la storia di Beren il Monco e del Grande Gioiello. Vorrei tanto sentirla! E mi domando come continuerà dopo di noi».
Ma mentre parlava così, per tener lontana la paura sino alla fine, i suoi occhi vagavano verso nord, sempre più a nord sulle ali del vento, laggiù dove il cielo era limpido e la fredda brezza diradava l’oscurità e le nubi lacerate.
E fu così che Gwaihir li vide con i suoi occhi aguzzi, mentre volava nel vento selvaggio, sfidando i pericoli del cielo e compiendo giri nell’aria: due piccole figure scure, sconfortate, che si tenevano per mano sopra un piccolo colle, mentre sotto di esse il mondo tremava e rantolava e i fiumi di fuoco si avvicinavano alle loro spalle. E proprio nell’istante in cui le scorgeva e scendeva verso di esse, le vide cadere, sfinite o soffocate dalle esalazioni e dal calore, coprendosi gli occhi di fronte alla morte.
Giacevano a fianco a fianco, e Gwaihir si posò in terra, e si posarono anche Landroval e Meneldor il veloce, e come in un sogno, ignari di ciò che stava accadendo loro, i viaggiatori furono raccolti e trasportati lontano dall’oscurità e dal fumo.
Quando Sam si svegliò si accorse di essere disteso sopra un soffice letto, ma su di lui ondeggiavano dolcemente grandi rami di betulle, e attraverso le loro giovani foglie scintillava la luce del sole, verde e dorata. E tutta l’aria era impregnata di un dolce profumo, ricco di toni sfumati.
Ricordava quel profumo: la fragranza dell’Ithilien. «Quanto tempo devo aver dormito!», si disse. Il profumo l’aveva riportato al giorno in cui accendeva il suo piccolo fuoco al sole, e per il momento tutto ciò ch’era accaduto nel frattempo era come cancellato dalla memoria. Stiracchiò le membra e trasse un profondo respiro. «Che sogno terribile ho fatto!», mormorò. «Come sono contento di svegliarmi!». Si mise a sedere, e vide disteso accanto a sé Frodo che dormiva tranquillamente, con una mano dietro la testa e l’altra posata sulla coperta. Era la mano destra, e il terzo dito mancava.
I ricordi tornarono vividi alla mente di Sam ed egli gridò: «Non era un sogno! Ma allora dove siamo?».
E una voce parlò dolcemente dietro a lui: «Nella terra d’Ithilien e sotto la custodia del Re, che vi attende». Dicendo ciò, Gandalf apparve innanzi a lui, vestito di bianco, e la sua barba scintillava come pura neve al luccicare del sole. «Ebbene, Mastro Samvise, come ti senti?», disse.
Ma Sam rimase supino con occhi e bocca spalancati, e per un attimo, dallo stupore e dalla grande gioia, non seppe rispondere. Finalmente esclamò: «Gandalf! Credevo che fossi morto! Ma credevo di essere morto anch’io. Tutte le cose tristi erano dunque false? Che cos’è accaduto al mondo?».
«Una grande Ombra è scomparsa», disse Gandalf, e poi rise, e il suono era simile a musica o ad acqua in una terra riarsa; e nell’ascoltare, Sam si rese conto di non aver udito ridere, di non aver udito la semplice espressione della letizia, per giorni e giorni senza fine. Suonava alle sue orecchie come l’eco di tutte le gioie vissute. E improvvisamente si mise a piangere. Poi, come il vento di primavera spazza via la pioggia perché il sole brilli con maggiore intensità, le sue lacrime cessarono ed egli scoppiò a ridere, e balzò ridendo dal letto.
«Come mi sento?», gridò. «Beh, non so come dirlo. Mi sento, mi sento», agitò le braccia, «mi sento come la primavera dopo l’inverno, il sole sulle foglie, e come trombe ed arpe e tutte le canzoni che ho udite!». Tacque e si volse verso il suo padrone. «Ma come sta il signor Frodo?», disse. «Non è un peccato ciò che gli è successo alla mano? Ma spero che stia bene, per il resto. Ha sofferto molto».
«Sì, per il resto sto bene», disse Frodo mettendosi a sedere e ridendo a sua volta. «Mi sono riaddormentato mentre aspettavo che ti svegliassi, dormiglione. Ero sveglio stamattina presto, ed ora dev’essere quasi mezzogiorno».
«Mezzogiorno?», disse Sam, cercando di calcolare. «Di quale giorno?».
«Il quattordicesimo del Nuovo Anno», disse Gandalf; «o, se preferisci, l’ottavo giorno di aprile secondo il Calendario della Contea. Ma a Gondor il Nuovo Anno incomincerà ormai sempre il venticinque di marzo, giorno in cui cadde Sauron e voi foste salvati dal fuoco e portati dal Re. Egli vi ha curato, ed ora vi attende. Consumerete con lui cibi e bevande. Appena sarete pronti vi condurrò da lui».
«Il Re?», disse Sam. «Quale Re, e di che cosa?».
«Il Re di Gondor e Sire delle Terre Occidentali», disse Gandalf; «egli ha ripreso tutto il suo antico reame. Presto cavalcherà alla sua incoronazione, ma aspetta voi».
«Che cosa indosseremo?», domandò Sam; perché non vedeva che le lacere vesti con le quali avevano viaggiato, piegate in terra accanto ai loro letti.
«Le vesti che avevate durante il viaggio a Mordor», disse Gandalf. «Persino quei panni degli Orchi che indossasti nella terra nera verranno conservati, Frodo. Non vi sarebbero sete né lini, né armature né broccati degni di maggior onore. Ma forse più tardi troverò altri vestiti».
Poi tese le mani, ed essi videro che da una di esse si sprigionava una luce. «Che cos’hai in mano?», gridò Frodo. «Possibile che sia…?».
«Sì, vi ho portato i vostri due tesori. Sono stati trovati addosso a Sam quando foste salvati. I doni di Dama Galadriel: la tua fiala, Frodo, e la tua scatola, Sam. Sarete felici di riaverli di nuovo intatti».
Quando furono lavati e vestiti ed ebbero consumato un leggero pasto, gli Hobbit seguirono Gandalf. Lasciato il boschetto di betulle dove avevano dormito, percorsero un lungo prato verde, scintillante al sole, fiancheggiato da imponenti alberi dal cupo fogliame e fiori scarlatti. Alle loro spalle udivano un rumore di acqua scrosciare, ed un ruscello correva innanzi a loro fra rive fiorite, sino ad inoltrarsi fra gli alberi all’estremità del prato, passando sotto un arco di vegetazione entro il quale si vedeva il luccicare delle acque.
Giunti alla radura furono sorpresi di vedere guerrieri in brillanti armature ed alte guardie vestite di nero e argento salutarli con deferenza al loro passaggio. Poi squillò una tromba ed essi avanzarono sotto l’arco di vegetazione lungo il corso del ruscello. Giunsero così in un ampio spazio verde, oltre il quale scorreva un fiume in un letto di brume argentee, ove si ergeva un’isola boscosa ed erano attraccate molte navi. Ma nel campo ove si trovavano era schierato un grande esercito, i cui ranghi scintillavano al sole. E quando gli Hobbit si avvicinarono, vennero sguainate le spade e agitate le lance, mentre squillavano corni e trombe, e molte voci gridavano in molte lingue:
«Lunga vita ai Mezzuomini! Onorateli con grandi onori!
Cuio i Periain anann! Aglar’ni Periannath!
Onorateli con grandi onori, Frodo e Samvise!
Daur a Berbael, Conin en Annûn! Eglerio!
Onorateli!
Eglerio!
A lalta te, lalta te! Andave laltuvalmet!
Onorateli!
Cormacolindor, a lalta tàrienna!
Onorateli! I Portatori dell’Anello, onorateli con grandi onori!».
E così, con le guance colorate dal rossore e gli occhi brillanti di meraviglia, Frodo e Sam avanzarono e videro che in mezzo all’esercito acclamante erano stati eretti tre alti seggi fatti di zolle erbose. Sul seggio di destra sventolava, bianco su verde, un cavallo al galoppo; su quello di sinistra, argento su campo azzurro, veleggiava una nave dalla prua a forma di cigno; ma dietro al trono più alto, al centro degli altri, un grande vessillo era spiegato al vento, e su di esso un albero bianco fioriva in campo nero, sormontato da una brillante corona e da sette stelle scintillanti. Sul trono sedeva un uomo vestito di cotta di maglia, una spada giaceva sul suo grembo, ma egli non portava scudo. Quando gli Hobbit si avvicinarono egli si alzò ed essi lo riconobbero, seppur mutato, così alto e così lieto, sovrano di Uomini, con i capelli scuri e gli occhi grigi.
Frodo gli corse incontro, seguito da Sam. «Ebbene, se questo non è il colmo dei colmi!», esclamò Sam. «Grampasso, o sto dormendo ancora?».
«Sì, Sam, Grampasso», disse Aragorn. «Come è distante Brea, e quanto tempo è passato da quando dicesti che il mio aspetto non ti piaceva! Distante per tutti noi, ma voi avete percorso la via più buia».
Poi, con enorme stupore e confusione di Sam, egli si genufletté innanzi a loro; poi, prendendoli per mano, Frodo a destra e Sam a sinistra, li condusse sino al trono, e dopo averli fatti sedere si voltò verso gli uomini e i capitani e parlò con voce potente per essere udito da tutto l’esercito, e disse:
«Onorateli con grandi onori!».
E quando le ovazioni si furono innalzate e di nuovo spente, tra la completa soddisfazione e la pura gioia di Sam, un menestrello di Gondor si fece avanti e s’inginocchiò, e chiese il permesso di cantare. E… meraviglia!, disse:
«Signori e cavalieri e uomini d’irreprensibile valore, re e principi e popolo di Gondor e Cavalieri di Rohan, e voi figli di Elrond, dùnedain del Nord, Elfo e Nano e grandi cuori della Contea, liberi popoli dell’Ovest, ascoltate ora la mia saga. Perché vi canterò Frodo dalle Nove Dita e l’Anello del Fato».
E quando Sam lo udì, rise dalla gioia; poi si alzò in piedi ed esclamò: «O grande gloria e splendore! Tutti i miei desideri sono stati esauditi!». E pianse.
E tutto l’esercito rise e pianse e in mezzo alla loro allegria e alle lacrime si alzò come argento la voce del menestrello e tutti tacquero. Ed egli cantò, a volte in Lingua Elfica, a volte nell’idioma dell’Ovest, finché i loro cuori, trafitti dalle dolci parole, traboccarono, e la loro gioia fu simile a spade, e il loro pensiero vagò nelle regioni ove delizie e dolori sono un’unica cosa e le lacrime sono il vino del godimento.
E finalmente, mentre il Sole disceso dal meriggio allungava le ombre degli alberi, egli terminò il suo canto. «Onorateli di grandi onori!». Allora Aragorn si levò in piedi, e tutto l’esercito si alzò, e tutti si recarono nei padiglioni preparati per mangiare e bere ed essere felici sino al finire del giorno.
Frodo e Sam vennero condotti in una tenda ove tolsero i loro vecchi abiti che furono tuttavia piegati e messi da parte con deferenza, e ricevettero delle vesti di puro lino. Allora entrò Gandalf portando in braccio, con sommo stupore di Frodo, la spada e il manto elfico e la cotta di maglia di mithril che gli erano stati tolti a Mordor. Per Sam portò una cotta di maglia dorata, ed il suo manto elfico completamente sanato di tutte le macchie e di tutti i danni subiti; poi mise ai loro piedi due spade.
«Non desidero spada», disse Frodo.
«Questa sera almeno dovresti portarla», disse Gandalf.
Allora Frodo prese la piccola spada appartenuta a Sam, e che avevano distesa al suo fianco a Cirith Ungol, e disse: «Pungolo è tua, ormai, Sam».
«No, padrone! Il signor Bilbo la diede a voi ed è fatta per la cotta d’argento; egli non desidererebbe che altri ora la portasse».
Frodo cedette; e Gandalf, come se fosse il loro scudiero, si mise in ginocchio e fissò loro intorno alla vita le cinte delle spade, e poi mise cerchietti d’argento sulle loro teste. E quando furono pronti si recarono alla grande festa; e sedettero al tavolo del Re con Gandalf, e Re Éomer di Rohan, ed il Principe Imrahil e tutti i maggiori capitani; ed anche Gimli e Legolas erano lì insieme con loro.
Ma quando, dopo il Minuto di Silenzio, fu portato il vino, vennero anche due scudieri a servire i re; o perlomeno parevano due scudieri, poiché uno portava l’uniforme nera e argento delle Guardie di Minas Tirith, e l’altro era vestito di verde e di bianco. Ma Sam si chiese come mai vi fossero ragazzi tanto giovani in un esercito di uomini forti e possenti. Ma improvvisamente, quando si avvicinarono ed egli poté vederli chiaramente, esclamò:
«Guardate, signor Frodo! Guardate che cosa vedo! Ma questo non è il signor Pipino? Dovrei dire piuttosto il signor Peregrino Tuc, ed anche il signor Merry! Come sono cresciuti! Ma vedo che vi sono altre storie da narrare oltre la nostra!».
«Eccome vi sono!», disse Pipino volgendosi verso di lui. «E incominceremo a raccontarle appena sarà finita la festa. Nel frattempo provate a interrogare Gandalf. Non è più misterioso come prima, benché ora rida più di quanto non parli. Per il momento Merry ed io siamo occupati. Siamo Cavalieri della Città e del Mark, come spero che abbiate notato».
E il giorno di gioia finì; e quando il Sole scomparve e la tonda Luna s’innalzò lentamente sulle brume dell’Anduin scintillando fra le foglie fruscianti, Frodo e Sam sedettero sotto gli alberi che sussurravano, nella fragranza dell’Ithilien, e parlarono sino a notte fonda con Merry, Pipino e Gandalf, raggiunti poco dopo da Gimli e da Legolas. Frodo e Sam appresero ciò che era accaduto alla Compagnia dopo quell’infausto giorno in cui si era sciolta, a Parth Galen, accanto alle Cascate di Rauros. Ma non finivano mai di parlare e di narrare.
Orchi, alberi parlanti, prati sconfinati, Cavalieri al galoppo, caverne scintillanti, bianche torri e saloni dorati, battaglie e grandi navi passarono innanzi agli occhi di Sam colto da crescente meraviglia. Ma fra tanto stupore ciò che lo sbalordiva di più era la statura di Merry e di Pipino; e li misurò confrontandoli con Frodo e con se stesso, poi si grattò la testa. «Non posso capirlo, alla vostra età!», esclamò. «Ma i fatti sono fatti, e voi misurate tre dita più del normale, o io sono un Nano».
«Certamente non lo sei», disse Gimli. «Ma che cosa vi avevo detto? I mortali non possono bere le pozioni degli Ent e credere che abbiano lo stesso effetto di un bicchiere di birra!».
«Pozioni degli Ent?», ripeté Sam. «Ecco che parli di nuovo degli Ent, ma non riesco a capire che cosa siano. Impiegheremo intere settimane prima di riuscire a coordinare tutte queste cose!».
«Settimane intere», disse Pipino. «E poi bisognerà chiudere Frodo in una torre a Minas Tirith affinché scriva il racconto. Altrimenti ne dimenticherà la metà, e il povero vecchio Bilbo sarà terribilmente deluso».
Infine Gandalf si alzò. «Le mani del Re sono mani di guaritore, cari amici», disse. «Ma voi eravate sull’orlo della morte prima ch’egli vi chiamasse a sé, adoperando tutto il suo potere per farvi godere il dolce oblio del sonno. E benché abbiate dormito a lungo e tranquillamente, è ormai ora di dormire di nuovo».
«E non soltanto Frodo e Sam», disse Gimli, «ma anche tu, Pipino. Ti voglio bene, non fosse altro per tutte le pene che mi sei costato, e che non dimenticherò mai. Né dimenticherò il momento in cui ti ritrovai in cima alla collina durante l’ultima battaglia. Se non fosse stato per Gimli il Nano, nessuno ti avrebbe trovato. Ma almeno adesso so riconoscere il piede d’un Hobbit, anche se è l’unica cosa che si vede in mezzo a un ammasso di corpi. E quando sollevai quella grossa carcassa dal tuo corpo, ero convinto che fossi morto. Mi sarei strappato la barba. Ed è soltanto un giorno che sei in piedi e guarito. A letto, ora. Anch’io vi andrò».
«E io», disse Legolas, «camminerò nei boschi di questo bel paese, il che per me è riposo sufficiente. In giorni a venire, se il mio sire lo permette, alcuni di noi verranno a dimorare qui, e quando giungeremo questi luoghi saranno benedetti, per qualche tempo. Per qualche tempo: un mese, una vita, un secolo. Ma l’Anduin è vicino, e l’Anduin conduce al Mare. Al Mare!
Al Mare, al Mare! I bianchi gabbiani chiamano,
Il vento soffia, e le bianche schiume danzano.
Ad ovest, ad ovest, il sole sta tramontando.
Nave, nave grigia, stanno chiamando
Le voci di quelli già arrivati?
Lascerò, lascerò i boschi ove siam nati;
Stan finendo i nostri giorni quasi tutti,
Ed io traverserò da solo i flutti.
Lunghe son le onde sull’Ultima Spiaggia,
E dolce l’Isola Perduta che a partire incoraggia,
Ad Eressëa, Elfica Dimora che mai alcuno scoprire potrà,
Ove non cadon le foglie: terra della mia gente per sempre sarà!».
E così cantando Legolas si allontanò.
Allora anche gli altri si separarono e Frodo e Sam andarono a dormire. Il mattino seguente fu di nuovo giorno di speranza e di pace, ed essi trascorsero molti giorni nell’Ithilien. Il Campo di Cormallen, dove l’esercito era ora accampato, si trovava vicino a Henneth Annûn e il corso d’acqua che sgorgava dalle cascate si udiva la notte scorrere rumoroso attraverso il cancello roccioso e passare attraverso le pianure fiorite per raggiungere l’Anduin presso l’Isola di Cair Andros. Gli Hobbit passeggiavano qua e là, visitando di nuovo i posti che avevano attraversati prima. E Sam sperava sempre d’intravedere fra le ombre dei boschi o nel segreto di una radura il grande Olifante. E quando seppe che un gran numero di quelle bestie avevano partecipato all’assedio di Gondor, e che erano state tutte sterminate, ne fu molto afflitto.
«Ebbene, suppongo che non si possa essere dappertutto contemporaneamente», disse. «Ma a quanto pare ho perso molte cose».
Nel frattempo l’esercito si preparava a ritornare a Minas Tirith. I combattenti stanchi riposavano e i feriti venivano curati. Alcuni infatti avevano dovuto lottare molto contro gli ultimi Esterling e Sudroni, prima di riuscire a sconfiggerli. Ultimi arrivarono coloro che si erano recati a Mordor col compito di distruggere le fortezze settentrionali del paese.
Ma finalmente, all’avvicinarsi del mese di maggio, i Capitani dell’Ovest ripartirono, salpando con tutti i loro uomini da Cair Andros e discendendo il corso dell’Anduin sino ad Osgiliath; ivi si fermarono un giorno; e il giorno seguente raggiunsero le verdi piane del Pelennor e rividero le bianche torri sotto l’alto Mindolluin, la Città degli Uomini di Gondor, ultima memoria dell’Ovesturia, passata attraverso l’oscurità ed il fuoco e risorta in un nuovo giorno.
E in mezzo ai campi innalzarono le loro tende e attesero il mattino; era infatti la vigilia di maggio, ed il Re avrebbe varcato i suoi cancelli al sorgere del Sole.
La città di Gondor aveva vissuto giorni di dubbio e di grande paura. Il bel tempo e il sole limpido sembravano beffarsi di coloro che ogni giorno attendevano infauste notizie. Il sovrano era morto e bruciato, ed il Re di Rohan giaceva nella Cittadella, ed il nuovo re tornato nella notte era ripartito in guerra contro forze troppo oscure e troppo terribili per poter essere domate dal valore o dal coraggio. E non giungevano notizie. Dopo la partenza dell’esercito dalla Valle di Morgul, verso la via del Nord all’ombra dei monti, nessun messaggero era tornato, né erano giunti echi di ciò che accadeva nel lontano Est.
Quando i Capitani erano partiti da appena due giorni, Dama Éowyn chiese alle donne che la curavano di portarle le sue vesti e, noncurante delle opposizioni, si alzò; e quando l’ebbero abbigliata, ponendo il suo braccio in una fascia di lino, ella si recò dal Custode delle Case di Guarigione.
«Signore», ella disse, «sono irrequieta, e non posso più restare nell’inerzia».
«Mia signora», egli rispose, «non sei ancora guarita, e mi è stato ordinato di curarti con particolare attenzione. Non dovresti alzarti dal letto per altri sette giorni; questi sono gli ordini ricevuti, e ti prego quindi di tornare alla tua stanza».
«Sono guarita», ella disse, «guarita almeno nel corpo, eccetto il braccio sinistro, che però migliora rapidamente. Ma mi ammalerò di nuovo, se non ho nulla da fare. Sono giunte notizie della guerra? Le donne non sanno dirmi nulla».
«Non abbiamo notizie», disse il Custode; «sappiamo soltanto che i Signori si sono recati alla Valle di Morgul, e la gente dice che il nuovo capitano del Nord è il loro capo. Egli è un grande signore, ed un guaritore; e a me pare strano che la mano che guarisce brandisca anche la spada. Non è così a Gondor oggigiorno, benché un tempo lo fosse, se le antiche storie sono vere. Ma da lunghi anni ormai noi guaritori abbiamo soltanto cercato di rimarginare le ferite fatte dagli uomini d’arme. Eppure vi sarebbe per noi già lavoro a sufficienza senza di essi: il mondo è pieno di dolori e di disgrazie anche senza le guerre che li moltiplicano».
«Basta un nemico per causare una guerra, Messer Custode», rispose Éowyn. «E coloro che non hanno spade possono sempre morire cadendo sulla punta di una spada. Vorresti che la gente di Gondor raccogliesse soltanto erbe, mentre l’Oscuro Signore raduna gli eserciti? E non è sempre una cosa buona guarire nel corpo. Come non è sempre amara la morte in battaglia, anche fra atroci sofferenze. Se mi fosse permesso, in quest’ora cupa non esiterei a sceglierla».
Il Custode l’osservò. Ella si ergeva alta, e gli occhi brillavano nel suo volto bianco, e le sue mani fremevano mentre volgeva lo sguardo verso la finestra che si apriva a oriente. Egli sospirò e scosse il capo: ella dopo una pausa gli rivolse di nuovo la parola.
«Non vi è nulla da fare?», disse. «Chi comanda in questa Città?».
«Non saprei esattamente», egli rispose. «Non sono cose che mi concernono. Vi è un maresciallo a capo dei Cavalieri di Rohan, e ho sentito dire che Sire Hùrin comanda gli uomini di Gondor. Ma Sire Faramir è di diritto il Sovrintendente della Città».
«Dove posso trovarlo?».
«In questa casa, signora. Egli fu gravemente ferito, ma si sta ora avviando verso la guarigione. Ma non so…».
«Non vuoi accompagnarmi da lui? In tal modo forse lo saprai».
Sire Faramir camminava da solo nel giardino delle Case di Guarigione, e la luce del sole lo riscaldava, ed egli sentiva una nuova vita scorrere nelle sue vene; ma il suo cuore era pesante, ed egli guardava oltre le mura verso oriente. Arrivando, il Custode pronunciò il suo nome, ed egli si voltò e vide la Dama di Rohan; ed egli fu scosso da pietà, perché vide che era ferita, ed i suoi occhi perspicaci percepirono la sua tristezza e irrequietezza.
«Mio sire», disse il Custode, «questa è Dama Éowyn di Rohan. Ella cavalcò insieme con il re e fu gravemente ferita, ed è ora affidata alle mie cure. Ma ella non è contenta, e desidera parlare con il Sovrintendente della Città».
«Non lo fraintendere, sire», disse Éowyn. «Non è la mancanza di cure che mi affligge. Nessuna dimora potrebbe essere più adatta a chi desidera guarire. Ma io non sono capace di vivere nell’inerzia, nella pigrizia, in gabbia. Desideravo la morte in battaglia. Ma io non sono morta, e la battaglia continua».
Ad un cenno di Faramir il Custode si allontanò con un inchino. «Che cosa desideri che io faccia, signora», disse Faramir. «Sono anch’io prigioniero dei guaritori». Ed egli la guardò, ed essendo uomo profondamente sensibile alla pietà, gli parve che la bellezza e la tristezza di Éowyn gli trafiggessero il cuore. Ed ella lo guardò e vide la grave tenerezza dei suoi occhi, eppure sapeva, poiché era cresciuta fra gli uomini d’arme, che innanzi a lei era un uomo che nessun Cavaliere di Rohan avrebbe saputo eguagliare in battaglia.
«Che cosa desideri?», egli ripeté. «Se è in mio potere, lo farò». «Vorrei che ordinassi a questo Custode di lasciarmi andare», ella rispose; ma nonostante la fierezza delle parole, il suo cuore esitò, e per la prima volta dubitò di se stessa. Si rese conto che quel grande uomo, al tempo stesso severo e gentile, poteva considerarla capricciosa, come un bambino che non ha la costanza di condurre alla fine un compito tedioso.
«Sono anch’io affidato al Custode», rispose Faramir. «E non ho ancora assunto il mio incarico nella Città. Ma anche se lo avessi fatto, ascolterei tuttavia i suoi consigli e non mi opporrei alla sua volontà in questioni riguardanti la sua arte, se non in caso di estrema necessità».
«Ma io non desidero guarire», ella disse. «Desidero andare in guerra come mio fratello Éomer, o meglio ancora come Théoden il re, il quale morì ed ora ha al tempo stesso pace e onori».
«È troppo tardi, signora, per seguire i Capitani, anche se ne avessi l’energia», disse Faramir «ma la morte in battaglia forse ci attende tutti, volenti o nolenti. Sarai più pronta ad affrontarla come meglio credi, se finché sei ancora in tempo farai ciò che ordina il Custode. Tu ed io dobbiamo sopportare con pazienza le ore di attesa».
Ella non rispose, ma nel guardarla egli credette di vedere qualcosa intenerirsi in lei, come se il duro ghiaccio cedesse a un vago presagio di primavera. Una lacrima sgorgò, correndo lungo la sua guancia, come una scintillante goccia di pioggia. La sua fiera testa si chinò leggermente. Poi, sottovoce, come se stesse parlando con se stessa piuttosto che con lui: «Ma i guaritori vogliono che rimanga a letto altri sette giorni», disse, «e la mia finestra non è rivolta a oriente». La sua voce era adesso quella di una fanciulla giovane e triste.
Faramir sorrise, benché il suo cuore fosse colmo di pietà. «La tua finestra non è rivolta a oriente?», disse. «È un inconveniente che si può risolvere. Darò ordini al Custode. Se rimarrai in questa casa, affidata alle nostre cure, e se riposerai, potrai camminare al sole in questo giardino, come e quando desideri, e guarderai a oriente, ove sono tutte le nostre speranze. E qui troverai me, che passeggio e attendo, e guardo verso oriente. Allevieresti le mie pene, se discorressi con me, o passeggiassi a volte in mia compagnia».
Allora ella levò il capo e lo guardò negli occhi, e il suo pallido viso si colorì. «Come potrei alleviare le tue pene, mio signore?», disse. «Non desidero i discorsi dei viventi».
«Vuoi la mia sincera risposta?», egli disse.
«La voglio».
«Allora, Éowyn di Rohan, ti dico che sei bella. Nelle valli delle nostre colline crescono fiori belli e splendenti e fanciulle più splendenti ancora; ma non ho visto sinora a Gondor né fiore né dama così meravigliosa e così triste. Forse non ci restano che pochi giorni prima che l’oscurità sommerga il mondo, e quando arriverà spero di affrontarla deciso; ma allevierebbe le pene del mio cuore vederti finché brilla il Sole. Siamo ambedue passati sotto le ali dell’Ombra, e la medesima mano ci ha salvati».
«Non ha salvato me, sire!», ella disse. «L’Ombra incombe ancora su di me. Non sono io che posso aiutarti a guarire! Sono una fanciulla d’arme e la mia mano è rude. Ma ti ringrazio di permettermi almeno di non restare nella mia stanza. Camminerò all’aria aperta per grazia del Sovrintendente della Città». Ella gli fece una riverenza e tornò alla sua camera. Ma Faramir passeggiò a lungo nel giardino, e il suo sguardo vagava più sovente verso la casa che verso le mura orientali.
Tornato nella sua stanza mandò a chiamare il Custode e si fece dire tutto ciò che sapeva della Dama di Rohan.
«Ma non dubito, mio sire», disse il Custode, «che apprenderesti di più dal Mezzuomo che si trova qui da noi; egli faceva parte del seguito del re, e pare si trovasse vicino alla Dama quando furono feriti».
E così Merry fu inviato da Faramir, ed essi conversarono a lungo sino alla fine del giorno. Faramir apprese molte cose, più di quante Merry non ne rivelasse; e gli parve ora di comprendere il perché della tristezza e dell’irrequietezza di Éowyn di Rohan. E nella luminosa sera Faramir e Merry passeggiarono nel giardino, ma ella non venne.
Ma la mattina seguente, mentre Faramir usciva dalle Case, la vide, in piedi sulle mura; era tutta vestita di bianco, e risplendeva al sole. Ed egli la chiamò, ed Éowyn discese, e passeggiarono insieme sull’erba, o sedettero sotto un verde albero, a volte in silenzio, a volte conversando. Ed ogni giorno fecero la medesima cosa. E il Custode, guardando dalla finestra, fu contento, perché era un guaritore, e la sua preoccupazione diminuiva; ed egli era certo che, per minaccioso che fosse in quei giorni il timore nel cuore degli uomini, quei due affidata alle sue cure rifiorivano e acquistavano forza di giorno in giorno.
Giunse così il quinto giorno dopo il mattino in cui Dama Éowyn si era recata da Faramir ed essi erano di nuovo in piedi sulle mura e guardavano a est. Non erano arrivate notizie, ed i cuori erano cupi. Anche il tempo non era più luminoso. Faceva freddo. Un vento levatosi di notte soffiava violento da nord e tendeva ad aumentare; ma le terre tutt’intorno erano grigie e tetre.
Essi portavano indumenti caldi e pesanti mantelli, e Dama Éowyn indossava un grande manto del colore profondo d’una notte d’estate, e intorno al bordo e al collo erano incastonate stelle d’argento. Faramir aveva mandato a prendere quel manto e glielo aveva messo sulle spalle, ed Éowyn era splendida e regale in piedi al suo fianco. Il mantello era stato tessuto per sua madre, Finduilas di Amroth, morta anzi tempo, e rappresentava per Faramir il ricordo di una bellezza remota e del suo primo dolore; ed era un abito adatto alla bellezza e alla tristezza della Dama di Rohan.
Ma ella rabbrividì sotto il pesante mantello stellato, e guardò a nord, oltre le terre grigie, in direzione del freddo vento, là dove il cielo era gelido e terso.
«Che cosa cerchi, Éowyn?», chiese Faramir.
«Non si trova forse là il Cancello Nero?», ella disse. «E non dovrebbe egli giungervi ormai? Sono trascorsi sette giorni dalla sua partenza».
«Sette giorni», disse Faramir. «Ma non pensare male di me, se ti dico: mi hanno recato una gioia ed una pena che non immaginavo mai di provare. Gioia di vederti; ma pena, perché timori e dubbi sono aumentati in questi giorni infausti. Éowyn, non vorrei che questo mondo finisse adesso, e che perdessi così presto ciò che ho trovato».
«Perdere ciò che hai trovato, sire?», ella rispose, ma lo guardò gravemente e vi era della dolcezza nei suoi occhi. «Non so che cosa tu abbia trovato in questi giorni che potresti perdere. Ma coraggio, amico, non parliamone! Non parliamo del tutto! Sono sull’orlo di un terribile abisso che si apre nero ai miei piedi, ma non so se alle mie spalle vi è della luce, perché ancora non posso voltarmi. Attendo un colpo del fato».
«Sì, attendiamo un colpo del fato», disse Faramir. Tacquero; e mentre erano in piedi là sulle mura, parve loro che il vento cadesse, che la luce s’indebolisse ed il Sole si oscurasse, e che tutti i rumori nella Città e nelle terre circostanti venissero soffocati: non si udiva né richiamo d’uccello, né fruscio di foglie, e neppure i loro stessi respiri; persino il battito dei loro cuori si arrestò. Il tempo si era fermato.
E in quel momento le loro mani s’incontrarono e si strinsero, ma essi non lo sapevano. E continuavano ad attendere qualcosa. Poi ad un tratto parve loro che sopra le creste dei monti lontani s’innalzasse un’altra imponente montagna di tenebre, giganteggiando come un’ombra che volesse inondare il mondo, puntellata di bagliori; poi un tremito percorse la terra e le mura della Città vibrarono. Un rumore simile ad un sospiro si levò dalle campagne circostanti, e i loro cuori ricominciarono improvvisamente a battere.
«Mi ricorda Nùmenor», disse Faramir, e si stupì di udirsi parlare.
«Nùmenor?», ripeté Éowyn.
«Sì», disse Faramir, «la terra dell’Ovesturia che s’inabissò, e la grande ombra oscura che sommerse tutte le terre verdi e le colline e che avanzava, oscurità inesorabile. La sogno sovente».
«Allora credi che l’Oscurità stia arrivando?», disse Éowyn. «L’Oscurità Inesorabile?». E improvvisamente si strinse a lui.
«No», disse Faramir guardandola in viso. «Era soltanto un’immagine. Non so che cosa stia accadendo. Ragionando a mente lucida direi che una grande catastrofe è avvenuta, e che ci troviamo alla fine dei giorni. Ma il cuore mi smentisce, e le mie membra sono leggere, e sono invaso da una speranza e da una gioia che la ragione non può negare. Éowyn, Éowyn, Bianca Dama di Rohan, in questa ora io non credo che alcuna oscurità possa durare!». E, chinatosi, le baciò la fronte.
E rimasero così sulle mura di Gondor, mentre un grande vento si levava e soffiava fra i loro capelli, biondi e corvini, mescolandoli nell’aria. E l’Ombra scomparve, e il Sole fu svelato, e la luce crebbe; e le acque dell’Anduin brillarono come argento, ed in tutte le case della Città gli uomini cantavano, spinti da una gioia inspiegabile che traboccava dai loro cuori.
E prima che il Sole fosse tramontato, giunse volando da est una grande Aquila, recando insperate notizie dei Signori dell’Ovest, e gridando:
Cantate ora, gente della Torre di Anor,
perché il Regno di Sauron è finito per sempre,
e la Torre Oscura è crollata.
Cantate e gioite, gente della Torre di Guardia,
perché non fu vana l’attesa,
e il Cancello Nero è spezzato,
e il vostro Re l’ha varcato,
ed egli è vittorioso.
Cantate e godete, tutti voi figli dell’Ovest,
perché il vostro Re tornerà,
e in futuro in mezzo a voi vivrà
tutti i giorni della vita.
E l’Albero appassito rifiorirà,
ed egli nei luoghi alti lo pianterà,
e benedetta sarà la Città.
Cantate quindi, o gente!
E la gente cantò in tutte le strade della Città.
I giorni successivi furono indorati dal Sole, e Primavera ed Estate si unirono per far festa nei campi di Gondor. E da Cair Andros giunsero rapidamente notizie dell’accaduto, e la Città si apprestò ad accogliere il Re. Merry fu convocato e partì con le carovane che trasportavano le provviste a Osgiliath, da dove, lungo il fiume, avrebbero raggiunto Cair Andros.
Ma Faramir non partì, poiché, essendo ora guarito, assunse il suo incarico di Sovrintendente, pur di breve durata, e dovette quindi prepararsi a ricevere il suo successore.
Éowyn non partì, benché suo fratello le avesse inviato un messaggio pregandola di raggiungerlo al Campo di Cormallen. Faramir se ne meravigliò, ma la vedeva di rado, essendo occupato datante altre questioni; ed ella dimorava ancora nelle Case di Guarigione, e camminava sola nel giardino. Il suo viso divenne pallido come prima, e sembrò ch’ella fosse l’unica triste e sofferente in tutta la Città. Ed il Custode delle Case di Guarigione era preoccupato, e parlò con Faramir.
Allora Faramir venne a cercarla, e di nuovo passeggiarono insieme sulle mura; ed egli le disse: «Éowyn, perché resti qui, invece di unirti ai festeggiamenti a Cormallen, oltre Cair Andros, ove tuo fratello ti attende?».
Ed ella rispose: «Non lo sai?».
Ma egli disse: «Vi sono due motivi possibili, ma quale dei due sia quello vero, non saprei dire».
Ed ella disse: «Non desidero giocare agli indovinelli. Parla più chiaro!».
«Poiché lo desideri, signora», egli disse: «tu non parti, perché soltanto tuo fratello ti ha mandata a chiamare, e ammirare in tutto il suo trionfo Sire Aragorn, erede di Elendil, ormai non ti procurerebbe alcuna gioia. Oppure perché io non parto, e desideri rimanermi accanto. E forse per ambedue i motivi, e tu stessa non sapresti scegliere. Éowyn, tu non mi ami, o non vuoi amarmi?».
«Desideravo l’amore di un altro», ella rispose; «ma non voglio la pietà di nessuno».
«Lo so», egli disse. «Desideravi l’amore di Sire Aragorn. Perché egli era grande e potente, e tu ambivi la fama, la gloria: volevi essere innalzata sopra le cose meschine che strisciano sulla terra. E come un grande capitano a un giovane soldato, egli sembrava a te ammirevole. Perché lo è, un signore fra gli uomini, e il più grande che esista oggi. Ma quando ti diede soltanto comprensione e pietà, tu non desiderasti più nulla, se non una morte coraggiosa in battaglia. Guardami, Éowyn!».
Éowyn guardò Faramir a lungo e senza abbassare gli occhi; e Faramir disse: «Non deridere la pietà, dono di un cuore gentile, Éowyn! Ma io non ti offro la mia pietà, perché sei una dama nobile e valorosa e hai conquistato da sola fama e gloria che non saranno obliate; e sei una dama tanto bella che nemmeno le parole dell’idioma elfico potrebbero descriverti. E io ti amo. Un tempo ebbi pietà della tua tristezza. Ma ora, se tu non conoscessi la tristezza, la paura o il dolore, se tu fossi anche la benefica Regina di Gondor, io ti amerei lo stesso. Non mi ami tu, Éowyn?».
Allora il cuore di Éowyn cambiò ad un tratto, e fu ella finalmente a comprenderlo; e improvvisamente il suo inverno scomparve, e il sole brillò in lei.
«Questa è Minas Anor, la Torre del Sole», ella disse; «e, guarda! l’Ombra è scomparsa! Non sarò più una fanciulla d’arme, né rivaleggerò con i grandi Cavalieri, né amerò soltanto i canti che narrano di uccisioni. Sarò una guaritrice, e amerò tutto ciò che cresce e non è arido». E di nuovo guardò Faramir. «Non desidero più essere una regina», disse.
Allora Faramir rise, felice. «Meno male», esclamò, «perché io non sono un re. Eppure sposerò la Bianca Dama di Rohan, se ella lo vorrà. E se ella lo vorrà, potremo attraversare il Fiume in giorni più felici e dimorare nello splendore d’Ithilien e coltivarvi un giardino. Ogni cosa vi crescerà con gioia, se coltivata dalla Bianca Dama».
«Devo dunque lasciare il mio popolo, uomo di Gondor?», ella disse. «E vorresti che la tua gente orgogliosa dica di te: “Ecco un signore che ha domato una selvaggia fanciulla del Nord! Non vi era dunque una donna della razza dei Numenoreani ch’egli potesse scegliere?”».
«Lo vorrei», disse Faramir. E la prese fra le braccia e la baciò sotto il cielo assolato, e non si curò di essere in piedi sulle mura, visibile a molti. E molti infatti li videro, e videro la luce che brillava intorno a loro mentre scendevano dalle mura e si recavano, mano nella mano, nelle Case di Guarigione.
E al Custode delle Case Faramir disse: «Ecco Dama Éowyn di Rohan, ed ora è guarita».
E il Custode disse: «Allora le permetto di partire e le auguro buon viaggio, e possa non soffrire mai più di ferite o malattie. L’affido alle cure del Sovrintendente della Città fino al ritorno di suo fratello».
Ma Éowyn disse: «Eppure, adesso che posso partire, desidero rimanere. Questa Casa è divenuta per me di tutte le dimore la più felice». E vi rimase fino all’arrivo di Re Éomer.
Ogni cosa fu preparata nella Città, e vi fu un gran radunarsi di gente, perché le notizie si erano sparse in tutti gli angoli di Gondor, da Min-Rimmon fino a Pinnath Gelin e alle lontane coste del mare; e tutti coloro che poterono si affrettarono a partire per la Città. E Minas Tirith era piena di donne e di bambini tornati a casa coperti di fiori; e da Dol Amroth giunsero i suonatori d’arpe più esperti del paese; e vi erano suonatori di viole e di flauti e di corni d’argento, e cantori dalla limpida voce provenienti dalle valli del Lebennin.
Finalmente una sera dall’alto delle mura si poterono vedere i padiglioni nel campo, e delle luci ardere tutta la notte mentre gli uomini attendevano, desti, l’alba. E quando il sole si alzò nel limpido mattino sopra i monti a oriente, non più sormontati dalle nubi, allora squillarono tutte le campane, e gli stendardi sventolarono, e in cima alla Torre Bianca della cittadella il vessillo dei Sovrintendenti, argento luminoso come neve al sole, senza figure né simboli, fu innalzato per l’ultima volta su Gondor.
Ora i Capitani dell’Ovest condussero il loro esercito verso la Città, e la gente guardò arrivare una fila dopo l’altra, scintillante e sfavillante nel sole sorgente come argento puro. Giunsero così al viale del Cancello e si fermarono a un paio di centinaia di passi dalle mura. Poiché il Cancello non era ancora stato ricostruito, era stata collocata una barriera attraverso l’ingresso della Città, guardata da uomini con uniformi nere e argento e lunghe spade sguainate. Innanzi alla barriera erano Faramir il Sovrintendente, Hùrin Custode delle Chiavi, altri capitani di Gondor, e Dama Éowyn di Rohan con Elfhelm il Maresciallo e molti Cavalieri del Mark; e da ambedue i lati del Cancello vi era una grande calca di gente in vesti multicolori e ghirlande di fiori.
Vi era quindi ora uno spazio vuoto davanti alle mura di Minas Tirith, circondato da tutte le parti dai cavalieri e dai soldati di Gondor e di Rohan e dalla gente della Città e di ogni altra parte del paese. Tutti tacquero quando dalle file dell’esercito vennero avanti i Dùnedain vestiti d’argento e di grigio, e primo innanzi a tutti, lento e maestoso, Sire Aragorn. Portava una cotta di maglia nera con cinta d’argento e un lungo manto bianco candido fermato al collo da un grande gioiello verde che brillava da lontano; ma in capo non portava nulla; aveva solo, sulla fronte, una stella montata su un esile filo d’argento. Con lui erano Éomer di Rohan e il Principe Imrahil, e Gandalf tutto vestito di bianco, e quattro piccole figure che molti si meravigliarono di vedere.
«No, cugina, non sono bambini», disse Ioreth alla sua parente d’Imloth Melui che era in piedi accanto a lei. «Sono dei Periain, della lontana terra dei Mezzuomini, e dicono che siano principi di grande fama. Io so tutto, perché ne avevo uno da curare nelle Case. Sono piccoli ma valorosi. Pensa, cugina, uno di essi è andato nella Terra Nera solo con il suo scudiero, ed ha combattuto contro l’Oscuro Signore appiccando fuoco alla sua Torre. O almeno queste sono le voci che corrono in Città. Sarà quello che cammina insieme con la nostra Gemma Elfica. Pare che siano cari amici. E il Sire Gemma Elfica è davvero una meraviglia: certo, piuttosto duro quando parla, ma come diciamo noi ha un cuore d’oro, e mani che sanno guarire. “Le mani di un re sono mani di guaritore”, dissi, e fu così che si scoprì tutto. E Mithrandir mi disse: “Ioreth, la gente ricorderà a lungo le tue parole”, e…».
Ma Ioreth non poté continuare a istruire la sua parente venuta dalla campagna, perché una tromba squillò, seguita da un assoluto silenzio. Allora dal Cancello avanzarono Faramir con Hùrin delle Chiavi e nessun altro, salvo quattro uomini vestiti con l’uniforme della Cittadella che portavano una cassetta di lebethron nero con rifiniture d’argento.
Faramir s’incontrò con Aragorn al centro dello spiazzo, s’inginocchiò e disse: «L’ultimo Sovrintendente di Gondor chiede il permesso di dimettersi dal suo incarico». E gli porse un bastone bianco; ma Aragorn prese il bastone e lo restituì, dicendo: «L’incarico non è finito, e sarà tuo e dei tuoi eredi finché durerà la mia stirpe. Fa’ ora ciò che compete al tuo incarico!».
Allora Faramir si levò in piedi e parlò con voce chiara: «Uomini di Gondor ascoltate ora il Sovrintendente di questo Reame! Mirate! È finalmente giunto colui che rivendica il titolo di Re. Ecco Aragorn figlio di Arathorn, capo dei Dùnedain di Arnor, Capitano dell’Esercito dell’Ovest, portatore della Stella del Nord, possessore della Spada Forgiata a nuovo, vittorioso in battaglia, mani di guaritore, Gemma Elfica, Elessar della linea di Valandil, figlio d’Isildur, figlio di Elendil di Nùmenor. Volete che egli sia Re ed entri nella Città e vi dimori?».
E tutto l’esercito e l’intera popolazione gridarono Sì, all’unisono. E Ioreth disse a sua cugina: «Questa è soltanto una cerimonia che si suole fare qui in Città, cugina; perché egli è già entrato, come ti dicevo, e mi ha detto…». E fu di nuovo costretta a tacere perché Faramir riprese a parlare.
«Uomini di Gondor, gli eruditi dicono che era antica consuetudine che il re ricevesse la corona dal padre prima che questi morisse; ma se ciò non era possibile, egli stesso doveva recarsi nella tomba del padre e prenderla dalle sue mani. Ma poiché adesso è necessario procedere diversamente, con la mia autorità di Sovrintendente ho qui portato da Rath Dinen la corona di Eärnur l’ultimo re, i cui giorni passarono ai tempi dei nostri lontani avi».
Allora le guardie fecero un passo avanti, e Faramir aprì la cassetta, e mostrò un’antica corona. La forma era quella degli elmi delle Guardie della Cittadella, ma era più alta e interamente bianca, e le ali sui lati erano fatte di perle e d’argento, simili alle ali dei gabbiani, poiché era l’emblema di re venuti dal Mare; e le sette gemme di diamante erano incastonate nella corona, ed in centro brillava un’unica pietra la cui luce avvampava come fiamma.
Allora Aragorn prese la corona e la tenne in alto, e disse:
«Et Eärello Endorenna utùlien. Sinome maruvan ar Hildinyar tenn’ Ambar-metta!».
Erano quelle le parole pronunciate da Elendil giunto dal Mare sulle ali del vento: «Giungo dal Grande Mare nella Terra di Mezzo. Sarà questa la mia dimora e quella dei miei eredi sino alla fine del mondo».
Allora molti si stupirono perché Aragorn non pose sul proprio capo la corona, ma la restituì a Faramir dicendo: «È grazie all’opera e al valore di molti che sono giunto in possesso della mia eredità. In pegno di riconoscenza vorrei che il Portatore dell’Anello recasse a me la corona, e che Mithrandir la ponesse sul mio capo, se accetta; perché è stato lui il fautore di tutto ciò che è stato compiuto, e questa vittoria è sua».
Allora Frodo si fece avanti, prese la corona dalle mani di Faramir e la porse a Gandalf; ed Aragorn s’inginocchiò, e Gandalf posò sul suo capo la Bianca Corona e disse:
«Vengono ora i giorni del Re, e siano benedetti finché dureranno i troni dei Valar!».
Ma quando Aragorn si alzò, tutti coloro che lo videro lo osservarono in silenzio, perché parve loro ch’egli si rivelasse ora per la prima volta. Alto come i re del passato, si ergeva su tutti i presenti; anziano sembrava e al tempo stesso nel fiore della virilità; e sulla sua fronte vi era saggezza, e nelle sue mani vigore e guarigione, e una luce brillava intorno a lui. E allora Faramir gridò:
«Guardate il Re!».
E in quell’istante squillarono tutte le trombe, e il Re Elessar incedette sino alla barriera, e Hùrin delle Chiavi l’aprì; e fra la musica d’arpe e di viole e di flauti, e il canto di limpide voci, il Re attraversò le vie coperte di fiori e giunse alla Cittadella, e vi entrò; ed il vessillo dell’Albero e delle Stelle fu innalzato sulla torre più elevata ed ebbe così inizio il regno di Re Elessar, cantato da molti.
Allora la Città fu resa più bella di quanto non fosse mai stata, persino nei giorni della sua prima gloria; fu empita di alberi e di fontane, ed i suoi cancelli forgiati in acciaio e in mithril, e le sue strade pavimentate di marmo bianco; e la Gente della Montagna vi lavorò, e la Gente del Bosco fu felice di andarvi; e tutto fu sanato e reso bello, e le case furono piene di uomini, di donne e del riso di bambini, e non vi fu finestra chiusa né cortile vuoto; e dopo la fine della Terza Era del mondo, essa conservò nelle età successive il ricordo e la gloria degli anni passati.
Nei giorni che seguirono la sua incoronazione, il Re sedette sul suo trono nel Salone dei Re pronunciando sentenze. Ed ambascerie giunsero da molti popoli e paesi, da est e da sud, dai confini del Bosco Atro, e dall’occidentale Dunland. E il Re perdonò gli Esterling che si erano arresi, e li lasciò in libertà, e fece pace con i popoli di Harad; liberò gli schiavi di Mordor e diede loro tutte le terre intorno al Mare di Nùmen. E furono recati molti al suo cospetto affinché egli li lodasse e li ricompensasse per il loro valore, e finalmente il capitano delle Guardie portò Beregond affinché egli lo giudicasse.
E il Re disse a Beregond: «Beregond, la tua spada ha fatto sgorgare sangue nei Luoghi Sacri, ove ciò è proibito. Inoltre tu abbandonasti il tuo posto senza il permesso del Sire o del Capitano. Per queste colpe, in passato, vi era la pena di morte. Io devo quindi ora pronunciarmi sulla tua sorte.
«Ogni pena ti è rimessa per il valore dimostrato in battaglia ed ancor più perché tutte le tue azioni furono compiute per amore di Sire Faramir. Tuttavia dovrai lasciare la Guardia della Cittadella e partire dalla Città di Minas Tirith».
Allora il sangue abbandonò le guance di Beregond; egli fu ferito al cuore e chinò il capo. Ma il Re disse:
«Così dev’essere, perché sei destinato alla Bianca Compagnia, la Guardia di Faramir, Principe d’Ithilien, e tu sarai il suo capitano e dimorerai in pace e onore a Emyn Arnen, e al servizio di colui per il quale rischiasti tutto pur di salvarlo dalla morte».
Allora Beregond, vedendo la mercé e la giustizia del Re, fu felice, e inginocchiandosi gli baciò la mano, e si allontanò pieno di gioia e soddisfazione. Ed Aragorn diede a Faramir l’Ithilien come principato, e lo pregò di dimorare sui colli dell’Emyn Arnen in vista della Città.
«Infatti», egli disse, «Minas Ithil nella Valle di Morgul sarà interamente distrutta, e se anche un giorno potesse essere risanata, per lunghi anni ancora nessuno vi potrà vivere».
E infine Aragorn salutò Éomer ed essi si abbracciarono ed Aragorn disse: «Fra noi non vi possono essere parole come dare o prendere, né ricompense, perché siamo fratelli. In tempi felici Eorl cavalcò da nord, e mai lega di popoli fu più salda, tanto che l’aiuto dell’uno non è mai mancato all’altro, né mancherà mai. Ora, come sai, abbiamo deposto Théoden il Glorioso in una tomba nei Luoghi Sacri, ed egli potrà riposare per sempre fra i Re di Gondor, se vuoi. O, se preferisci, verremo a portarlo a Rohan, affinché egli possa riposare fra la sua gente».
Ed Éomer rispose: «Dal giorno in cui ti ergesti innanzi a me sull’erba verde io ti ho amato, ed il mio amore non si estinguerà. Ma ora devo recarmi per qualche tempo nel mio regno, ove vi sono molte cose da sanare e da mettere in ordine. Quanto al Caduto, quando ogni cosa sarà pronta torneremo a prenderlo; ma nel frattempo, riposi in pace qui».
Ed Éowyn disse a Faramir: «Ora devo tornare nella mia terra e guardarla per l’ultima volta, e aiutare mio fratello; ma quando colui che amai come un padre sarà infine deposto nel luogo del suo riposo, tornerò».
Passarono così giorni felici, e l’otto di maggio i Cavalieri di Rohan partirono galoppando sulla via del Nord, e con essi andarono i figli di Elrond. Tutta la strada era fiancheggiata da gente che li acclamava, dal Cancello della Città sino alle mura del Pelennor. Poi, tutti coloro che dimoravano lontani tornarono felici alle loro case; ma nella Città molte mani volenterose si davano da fare per ricostruire e rinnovare e cancellare ogni traccia della guerra e ogni ricordo dell’oscurità.
Gli Hobbit rimasero ancora a Minas Tirith, insieme con Legolas e Gimli, perché Aragorn era restio a sciogliere la Compagnia. «Ogni cosa deve infine terminare», egli disse, «ma vorrei che attendeste ancora per qualche tempo: la fine di tutto ciò che abbiamo fatto insieme ancora non è giunta. Si avvicina un giorno che ho aspettato con ansia durante tutti gli anni della mia vita d’uomo, e quando verrà voglio che tutti i miei amici mi siano accanto». Ma di quel giorno rifiutò di dire altro.
I Compagni dell’Anello vivevano in una bella casa con Gandalf, girando liberamente per la Città. E Frodo disse a Gandalf: «Sai che cos’è questo giorno di cui parla Aragorn? Perché siamo felici qui, ed io non desidero partire, ma i giorni trascorrono veloci, e Bilbo ci attende, e la Contea è la mia terra».
«Quanto a Bilbo», disse Gandalf, «sta aspettando lo stesso giorno, e sa che cosa vi trattiene. E quanto al trascorrere dei giorni, siamo soltanto a maggio e non ancora in piena estate, e benché ogni cosa sembri cambiata, come se un’intera era del mondo fosse scomparsa, per gli alberi e per l’erba è passato meno di un anno da quando partiste».
«Pipino», disse Frodo, «non avevi detto che Gandalf era meno misterioso di prima? Credo che allora fosse stanco delle sue molte fatiche. Ora si sta riprendendo».
E Gandalf disse: «Molta gente ama sapere prima che cosa verrà in tavola; ma coloro che si sono affaticati per preparare la festa desiderano mantenere il segreto; perché lo stupore ingrandisce le parole di lode. Ed Aragorn attende un segnale».
Poi giunse un giorno in cui i Compagni non riuscirono a trovare Gandalf, e si domandarono cosa stava accadendo. Ma Gandalf condusse Aragorn di notte fuori dalla Città, e si recarono insieme alle falde meridionali del Monte Mindolluin ove trovarono un sentiero costruito in tempi remoti e che pochi ormai ardivano percorrere. Esso conduceva infatti in cima alla montagna, ad un luogo elevato ove soltanto i re erano soliti recarsi. E salirono ripidi sentieri sino a raggiungere un altipiano sotto le nevi delle elevate vette, che sovrastava il precipizio alle spalle della Città. E da lì osservarono le terre circostanti, poiché si era levato il mattino; ed essi videro le torri della Città molto più in basso come bianche matite toccate dai raggi di sole, e tutta la valle dell’Anduin era simile a un giardino, e le Montagne dell’Ombra erano velate da una bruma dorata. Da un lato la loro vista spaziava sino al grigio Emyn Muil, ed il brillare di Rauros sembrava lo sfavillare di una stella lontana; dall’altra parte vedevano il Fiume, come un nastro disteso sino a Pelargir, al di là del quale una luce sull’orlo del cielo rivelava la presenza del Mare.
E Gandalf disse: «Questo è il tuo regno, cuore del più grande regno a venire. La Terza Era del mondo è finita, e una nuova era è incominciata, ed è tuo compito ordinarne il principio e conservare ciò che va conservato. Perché, se anche è stato salvato molto, tuttavia molto è destinato a scomparire; e il potere dei Tre Anelli è anch’esso finito. E tutte le terre che vedi, e quelle che le circondano saranno d’ora in poi abitate dagli Uomini. Perché è giunta l’ora del Dominio degli Uomini, e l’Antica Stirpe sta per svanire o per partire».
«Lo so bene, caro amico», disse Aragorn, «ma desidero ancora che tu mi consigli».
«Ormai per poco tempo», disse Gandalf. «La Terza Era fu la mia era. Io ero il nemico di Sauron: il mio lavoro è finito. Partirò presto. Il fardello è ormai affidato a te e alla tua stirpe».
«Ma io morirò», disse Aragorn. «Perché io sono un mortale, e pur essendo quello che sono, e della pura razza dell’Ovest, avrò, sì, una vita assai più lunga degli altri Uomini, ma sarà tuttavia ben poco; e quando coloro che sono adesso nel grembo delle madri saranno cresciuti e invecchiati, anch’io sarò vecchio. E chi allora governerà Gondor e coloro che considerano questa Città la loro regina, se il mio desiderio non verrà esaudito? L’Albero nel Cortile della Fontana è ancora nudo e avvizzito. Quando vedrò un segno di mutamento?».
«Distogli il viso dal verde mondo, e guarda là ove ogni cosa sembra nuda e fredda!», disse Gandalf.
Allora Aragorn si voltò, e alle sue spalle vi era un pendio roccioso che scendeva dalle alture coperte di neve; e guardando si accorse che in mezzo al deserto cresceva qualcosa. Si arrampicò, e vide che proprio al bordo della neve spuntava un alberello non più alto di tre piedi. Aveva già delle giovani foglie lunghe ed esili, scure sopra e argentee di sotto, e in cima un piccolo grappolo di fiori scintillava come la neve illuminata dal sole.
Allora Aragorn gridò: «Yé! utùvienyes! L’ho trovato! Guarda! Ecco un erede del Più Antico degli Alberi! Ma come mai cresce qui? Non ha neanche sette anni».
E Gandalf avvicinatosi lo guardò e disse: «In verità questo è un alberello della linea di Nimloth il Bello; seme di Galathilion e frutto di Telperion dai molti nomi, il Più Antico degli Alberi. Chi può dire come mai si trovi qui all’ora indicata? Ma questo è un luogo antico, e prima che i re si estinguessero e che l’Albero appassisse, fu indubbiamente deposto qui un frutto. Poiché dicono che benché il frutto dell’Albero maturi di rado, la vita in esso può tuttavia covare per lunghi anni, e nessuno può prevedere quando si desterà. Ricorda ciò che ti dico. Se mai un frutto maturerà, dovrà essere piantato, affinché non scompaia dal mondo per sempre. Qui è rimasto nascosto sulla montagna, come la razza di Elendil è rimasta nascosta nei deserti del Nord. Eppure la linea di Nimloth è molto più antica della tua, Re Elessar».
Allora Aragorn prese dolcemente l’alberello e, meraviglia!, esso sembrava appena infilato nel terreno, ed egli lo poté togliere senza recargli alcun danno; ed Aragorn lo portò con sé alla Cittadella. Allora l’albero appassito venne sradicato, ma con deferenza, ed essi non lo bruciarono, ma lo portarono a riposare nel silenzio di Rath Dinen. Ed Aragorn piantò il nuovo albero nel cortile presso la fontana, ed esso crebbe rapido e felice; e quando arrivò il mese di giugno era carico di fiori.
«Il segnale è stato dato», disse Aragorn, «il giorno è vicino». E mise delle vedette sulle mura.
Era il giorno prima di Mezza Estate, quando dei messaggeri giunsero da Amon Dîn, e dissero che dal Nord arrivavano splendidi cavalieri, e che si avvicinavano alle mura del Pelennor. E il Re disse: «Finalmente sono giunti. Che tutta la Città si prepari!».
Ed alla Vigilia di Mezza Estate, quando il cielo era blu come zaffiro e bianche stelle sbocciavano a oriente, mentre a occidente era ancora dorato, e l’aria fresca e fragrante, i cavalieri giunsero dalla via del Nord ai cancelli di Minas Tirith. In testa cavalcavano Elrohir ed Elladan con uno stendardo d’argento, seguiti da Glorfindel e da Erestor e da tutta la gente di Gran Burrone, e vi erano anche Dama Galadriel e Celeborn, Sire di Lothlórien, montati su cavalli bianchi e accompagnati dalla gente della loro terra, con manti grigi e bianche gemme nei capelli; ed ultimo arrivò Messere Elrond, il più potente fra Uomini ed Elfi, reggendo lo scettro di Annùminas, ed al suo fianco su di un grigio palafreno cavalcava Arwen sua figlia, Stella del Vespro del suo popolo.
E Frodo, quando la vide arrivare scintillante nella sera, con le stelle sulla fronte e una celeste fragranza intorno a sé, fu colto da grande meraviglia e disse a Gandalf: «Infine comprendo perché abbiamo aspettato! Questa è la fine. Adesso non soltanto il giorno sarà splendente, ma anche la notte sarà meravigliosa e benedetta, ed ogni paura svanirà!».
Allora il Re accolse gli ospiti, ed essi smontarono dai destrieri, ed Elrond depose lo scettro e mise la mano di sua figlia in quella del Re, ed essi si recarono insieme nell’Alta Città, e tutte le stelle sbocciarono in cielo. Ed Aragorn, il Re Elessar, prese in moglie Arwen Undómiel nella Città dei Re il giorno di Mezza Estate, e la storia della loro lunga attesa si concluse così.
Quando i giorni di festeggiamento furono terminati i Compagni pensarono di tornare alle loro dimore. E Frodo si recò dal Re che sedeva con la Regina Arwen presso la fontana, ed ella cantava un canto di Valinor, e l’Albero cresceva e fioriva. Diedero il benvenuto a Frodo e si alzarono per accoglierlo. Aragorn disse:
«So che cosa sei venuto a dirmi, Frodo: desideri tornare alla tua casa. Ebbene, carissimo tra i miei amici, l’albero cresce meglio nella terra degli avi; ma in tutte le terre dell’Ovest tu sarai sempre il benvenuto. E benché la tua gente abbia conosciuto poca fama nelle antiche leggende dei grandi, adesso sarà più rinomata di molti vasti regni scomparsi».
«È vero che desidero tornare nella Contea», disse Frodo. «Ma prima mi devo recare a Gran Burrone. Perché, se è possibile sentire la mancanza di qualcosa in giorni pieni di ogni benedizione, io ho sentito la mancanza di Bilbo; e sono rimasto rattristato nel vedere che non era venuto insieme con la gente di Elrond».
«Te ne stupisci, Portatore dell’Anello?», disse Arwen. «Conosci il potere di quell’oggetto ora distrutto; ed ogni cosa creata da quel potere sta ora scomparendo. Ma Bilbo ha posseduto l’Anello più a lungo di te. Egli è ora anziano, come tutti quelli della sua razza; e ti attende, perché non desidera fare altri lunghi viaggi prima dell’ultimo».
«Allora chiedo il permesso di partire al più presto», disse Frodo. «Fra sette giorni partiremo», disse Aragorn. «Percorreremo con te un grande tratto di strada, sino alla terra di Rohan. Fra tre giorni Éomer tornerà qui per portare Théoden a riposare nel Mark, e noi lo accompagneremo per onorare il caduto. Ma ora, prima di partire, voglio confermare ciò che ti disse Faramir: sei per sempre libero nel regno di Gondor, e con te i tuoi compagni. E se vi fossero doni degni delle vostre gesta essi sarebbero vostri; ma qualunque cosa desideriate la porterete con voi, e cavalcherete con grandi onori e vestiti come principi del regno».
Ma la Regina Arwen disse: «Io ti farò un dono. Perché io sono la figlia di Elrond: non partirò con lui quando si recherà ai Porti, perché la mia scelta è quella di Lùthien, e anch’io ho scelto come lei allo stesso tempo il dolce e l’amaro. Ma in vece mia partirai tu, Portatore dell’Anello, quando giungerà l’ora, e se lo vorrai. Se la tua ferita sarà ancora dolorante e il ricordo del tuo fardello sarà pesante sul tuo cuore, allora potrai recarti ad ovest, finché tutte le tue ferite e stanchezze non siano sanate. Ma ora prendi questo in memoria di Gemma Elfica e di Stella del Vespro, i fili che si sono intrecciati con te nel tessuto della tua vita!».
Ella prese una gemma bianca come una stella che pendeva sul suo petto da una catena d’argento, e la mise al collo di Frodo. «Quando ti sentirai turbato dal ricordo della paura e dell’oscurità», ella disse, «questo ti sarà di aiuto».
Dopo tre giorni, come aveva preannunciato il Re, Éomer di Rohan arrivò seguito da un’éored dei più splendidi cavalieri del Mark. Fu accolto con grande onore, e quando tutti sedettero a tavola nel Merethrond, il Grande Salone delle Feste, egli mirò la bellezza delle dame presenti e fu pieno di grande stupore. E prima di recarsi a riposare, mandò a chiamare Gimli il Nano, e gli disse: «Gimli, figlio di Glóin, hai tu pronta la tua ascia?».
«No, sire», disse Gimli, «ma posso andarla a prendere velocemente, se necessario».
«Tocca a te giudicare», rispose Éomer. «Perché vi sono ancora fra noi alcune rudi parole sul conto della Dama del Bosco d’Oro. Ed ora l’ho veduta con i miei occhi».
«Ebbene, sire», disse Gimli, «che cosa dici adesso?».
«Ahimè!», rispose Éomer. «Non dirò che ella è la più splendida dama vivente».
«In tal caso devo andare a cercare la mia ascia», disse Gimli. «Ma prima desidero addurre una scusa», interloquì Éomer. «Se l’avessi veduta in altra compagnia, avrei detto tutto ciò che vuoi. Ma ora metterò per prima la Regina Arwen Stella del Vespro, e sono pronto a sfidare chiunque osi contraddirmi. Vuoi che prenda la spada?».
Allora Gimli fece un profondo inchino. «No, sei scusato per quel che mi concerne, sire», disse. «Tu hai scelto la Sera, ma io ho donato il mio amore alla Mattina, e nel mio cuore vi è il presagio che presto svanirà per sempre».
Infine giunse il giorno della partenza, e una folta schiera fu pronta a recarsi a nord. Allora i re di Gondor e di Rohan andarono ai Luoghi Sacri, e giunti alle tombe di Rath Dinen deposero Re Théoden sopra una barella dorata e attraversarono in silenzio la Città. Poi misero la barella su un grande carro circondato da Cavalieri di Rohan e preceduto dal vessillo; e poiché Merry era lo scudiero di Théoden, montò sul carro a guardia delle armi del re.
Agli altri Compagni vennero forniti destrieri adatti alla loro statura; Frodo e Samvise cavalcarono al fianco di Aragorn e Gandalf montava Ombromanto; Pipino era con i cavalieri di Gondor, e Legolas e Gimli come sempre insieme in groppa ad Arod.
A quel viaggio parteciparono anche la Regina Arwen, e Celeborn con Galadriel e il loro popolo, ed Elrond con i suoi figli, e i principi di Dol Amroth e dell’Ithilien, e molti capitani e cavalieri. Mai re del Mark aveva viaggiato con un seguito paragonabile a quello che portava Théoden figlio di Thengel alla terra degli avi.
Senza fretta e con serenità traversarono l’Anórien, e giunsero al Bosco Grigio presso Amon Dîn; e là udirono come dei tamburi rullare sulle colline, pur senza vedere alcun essere vivente. Allora Aragorn fece squillare le trombe e gli araldi gridarono:
«Mirate, il Re Elessar è venuto! La Foresta di Drùadan egli dona a Ghân-buri-ghân ed alla sua gente; che appartenga loro per sempre, e che nessun mortale vi entri senza il loro permesso!».
Allora i tamburi rullarono a lungo, e poi tacquero.
Infine, dopo quindici giorni di viaggio, il carro di Re Théoden attraversò i verdi campi di Rohan e giunse a Edoras; e là tutti riposarono. Il Palazzo d’Oro era drappeggiato con splendide tende, e pieno di luce, e vi si tenne la festa più sontuosa che avesse mai avuto luogo in quel palazzo. Tre giorni dopo infatti gli Uomini del Mark prepararono i funerali di Théoden; ed egli fu deposto in una casa di pietra circondato d’armi e di molte altre cose che possedeva, e sulla casa venne eretto un grande tumulo coperto di verdi zolle d’erba e di bianchi ricorda sempre. Ed ora, sul lato orientale del campo si innalzavano otto tumuli.
Allora i Cavalieri della Scorta del Re galopparono intorno al tumulo su bianchi destrieri, cantando tutti insieme un canto che narrava di Théoden figlio di Thengel, composto dal suo menestrello Gléowine. Le lente voci dei Cavalieri commossero persino coloro che non comprendevano il loro linguaggio; ma le parole accesero una luce negli occhi del popolo del Mark, che rivide il galoppo dei destrieri del Nord e udì Eorl sovrastare con le grida il rumore della battaglia sul Campo di Celebrant; e la storia dei re continuò, ed il corno di Helm suonò nelle montagne, ma poi giunse l’Oscurità e Re Théoden galoppò attraverso l’Ombra sino al fuoco, e morì in mezzo allo splendore nel momento in cui il Sole tornava insperato e brillava di mattina sul Mindolluin.
Dal dubbio, dal buio, al sorger del giorno
galoppò al sole, spada sguainata.
Speranza destò, in speranza partì;
oltre la morte, la paura ed il fato,
verso la pace, la speranza e la gloria.
Ma Merry piangeva ai piedi del verde tumulo, e quando la canzone finì egli si fece avanti e gridò:
«Théoden Re! Théoden Re! Addio! Come un padre fosti per me, per qualche tempo. Addio!».
Dopo il funerale, quando le donne ebbero asciugate le lacrime, lasciarono Théoden riposare nella sua tomba e la gente si riunì nel Palazzo d’Oro per la grande festa, e abbandonò ogni tristezza; perché Théoden aveva vissuto lunghi anni ed era finito gloriosamente come i più grandi dei suoi antenati. E quando venne il momento di bere alla memoria dei re, secondo l’uso del Mark, Éowyn Dama di Rohan si fece avanti, dorata come il sole e bianca come la neve, e recò una coppa piena a Re Éomer.
Allora un menestrello e maestro in saghe si alzò e nominò tutti i Signori del Mark secondo il loro ordine: Eorl il Giovane, e Brego il costruttore del Palazzo; e Aldor fratello di Baldor il Senzafortuna, e Fréa, e Fréawine, e Goldwine, e Déor, e Gram; ed Helm che rimase nascosto nel Fosso di Helm quando il Mark fu invaso; e così erano stati nominati tutti i tumuli della parte occidentale, perché allora la linea era stata interrotta, e dopo seguivano i tumuli del lato orientale: Fréalaf, figlio della sorella di Helm, e Léofa, e Walda, e Folca, e Folcwine, e Fengel, e Thengel, e infine Théoden. Al nome di Théoden, Éomer bevve la coppa. Allora Éowyn pregò i servitori di empire i bicchieri di ciascuno, e i presenti si alzarono e bevvero alla salute del nuovo re, gridando: «Salve, Éomer, Re del Mark!».
Più tardi, quando la festa si avvicinò alla fine, Éomer si alzò e disse: «Questa è la festa funebre di Théoden Re, ma prima di andare voglio annunciarvi notizie di gioia, perché a lui non dispiacerebbe: fu sempre un padre per mia sorella Éowyn. Udite quindi, voi tutti miei ospiti, popoli felici di molti reami, come non se ne sono mai riuniti in questo salone! Faramir, Sovrintendente di Gondor, e Principe dell’Ithilien, chiede che Éowyn Dama di Rohan divenga sua moglie, ed ella lo accetta con tutto il cuore. Essi quindi si fidanzeranno innanzi a voi tutti».
E Faramir ed Éowyn si fecero avanti e si presero per mano, e tutti bevvero alla loro salute, e furono felici. «In tal modo», disse Éomer, «un nuovo vincolo rinsalda l’amicizia di Gondor e del Mark, procurandomi ancora maggiore felicità».
«Non dimostri certo di essere avaro, Éomer», disse Aragorn, «dando a Gondor ciò che di più bello vi è nel tuo reame!».
Allora Éowyn guardò Aragorn negli occhi e gli disse: «Augurami felicità, mio sire e mio guaritore!».
Ed egli rispose: «Ti augurai felicità la prima volta che ti vidi. E guarisce ora il mio cuore al vederti colma di gioia».
Alla fine della festa, coloro che dovevano partire si congedarono dal Re Éomer. Aragorn e i suoi cavalieri, e la gente di Lórien e di Gran Burrone si apprestarono a partire; ma Faramir e Imrahil rimasero a Edoras, e con essi rimase anche Arwen Stella del Vespro, e disse addio ai suoi fratelli. Nessuno vide il suo ultimo incontro con Elrond suo padre, perché salirono sui Colli e conversarono a lungo, e amara fu la loro separazione, destinata a durare oltre la fine del mondo.
Infine, prima che gli ospiti si mettessero in cammino, Éomer ed Éowyn si avvicinarono a Merry e gli dissero: «Addio, Meriadoc della Contea e Scudiero del Mark! Cavalca verso la buona fortuna, e torna presto da noi!».
Ed Éomer disse: «Gli antichi re ti avrebbero coperto di doni in tale quantità che non sarebbe bastato un carro a trasportare il frutto delle tue gesta sul campo di Mundburg; eppure tu dici che non vuoi altro che le armi che ti furono date. Rispetto il tuo volere, poiché non ho doni degni di te; ma mia sorella ti prega di ricevere questo pensiero, come ricordo di Dernhelm e dei corni del Mark al sorgere del mattino».
Allora Éowyn diede a Merry un antico corno, piccolo ma meravigliosamente intarsiato d’argento, con un balteo verde: gli artistivi avevano inciso le immagini di agili cavalieri galoppanti in una lunga fila che si avvolgeva intorno al corno dall’estremità all’imboccatura; e vi erano anche incise rune dalle grandi virtù.
«Fa parte dell’eredità della nostra casata», disse Éowyn. «Lo fecero i Nani, e proveniva dal bottino di Scatha il Drago. Eorl il Giovane lo portò dal Nord. Colui che lo suona nell’ora del bisogno, desterà paura nei cuori dei nemici e gioia nei cuori degli amici, ed essi lo udranno e verranno in suo aiuto».
Allora Merry prese il corno, non potendo rifiutare il dono, e baciò la mano di Éowyn; ed essi lo abbracciarono, e così si separarono.
Ora gli ospiti erano pronti, e bevvero l’ultima coppa. Partirono accompagnati da lodi e affettuosità e giunsero infine al Fosso di Helm. Là riposarono due giorni. Allora Legolas mantenne la promessa fatta a Gimli, e si recò con lui alle Caverne Scintillanti; e al ritorno era silenzioso, e disse soltanto che Gimli era l’unico che potesse trovare parole adatte a descriverle. «E mai prima d’oggi un Nano aveva sconfitto un Elfo in una competizione di parole», disse. «Rechiamoci quindi a Fangorn, per rettificare il punteggio!».
Dalla Conca Fossato cavalcarono a Isengard, e videro tutto ciò che avevano fatto gli Ent. Tutto il cerchio di pietre era stato distrutto e rimosso, e la terra all’interno era stata trasformata in un giardino, pieno di alberi e di frutteti, attraversata da un corso d’acqua; e in centro si stendeva un limpido lago, dal quale si ergeva alta e inespugnabile la Torre di Orthanc, riflettendosi nell’acqua.
I viaggiatori sedettero là dove anticamente si trovavano i cancelli d’Isengard e dove ora s’innalzavano due grandi alberi come sentinelle all’inizio di un sentiero bordato di verde che conduceva verso Orthanc. Guardarono pieni di ammirazione il lavoro fatto, ma non videro essere vivente. Ad un tratto però udirono una voce chiamare hum-huum, hum-huum, e Barbalbero arrivò a grandi passi giù per il sentiero seguito da Sveltolampo.
«Benvenuti al Verziere di Orthanc!», disse. «Sapevo che stavate arrivando, ma ero occupato su nella valle; vi sono ancora molte cose da fare. Ma ho sentito che nemmeno voi siete rimasti oziosi, laggiù, a sud e ad est; buone notizie, molto buone». Barbalbero lodò le loro gesta, di cui sembrava essere perfettamente al corrente; finalmente s’interruppe e osservò a lungo Gandalf.
«Ebbene!», gli disse. «Ti sei dimostrato il più potente, e tutte le tue fatiche hanno avuto buon esito. Dove te ne stai andando adesso? E perché sei venuto qui?».
«Per vedere come va il tuo lavoro, amico», disse Gandalf, «e per ringraziarti di averci aiutati in tutto ciò che abbiamo fatto».
«Huum, ebbene, mi pare assai giusto», disse Barbalbero; «perché a dire il vero gli Ent hanno recitato anch’essi la loro parte. E non soltanto nel regolare i conti con quel, hum, quel maledetto uccisore d’alberi che viveva qui. Perché ci fu una grande invasione di quei, buràrum, quei manonera-occhicupi-gambestorte-cuordipietra-ditartigli-pancegrosse-sangueavidi, morimaitesincabonda, huum, insomma, poiché voi siete gente frettolosa ed il loro nome è lungo come anni di tormento, quel vento di Orchi; vennero dal Fiume, giù dal Nord, aggirando tutto il bosco di Laurelindórenan ove non riuscirono a penetrare, grazie ai Grandi che vi dimorano». Fece un inchino al Signore e alla Dama di Lórien.
«E queste infami creature furono più che stupefatte di vederci, perché non avevano mai udito parlare di noi; ma ciò si può dire anche di alcune persone per bene. E comunque non molte si ricorderanno di noi, perché non ne sono rimaste molte vive, e la maggior parte di quelle che riuscirono a fuggire finirono nel Fiume. Ma per voi è stato un bene, poiché se non ci avessero incontrati, il re della terra dei prati non avrebbe potuto fare molta strada, e se l’avesse fatta non gli sarebbe rimasta una dimora ove tornare».
«Lo sappiamo», disse Aragorn, «e nessuno mai se ne dimenticherà, né a Minas Tirith né a Edoras».
«Mai è una parola troppo lunga persino per me», disse Barbalbero. «Finché dureranno i vostri regni, intendi dire; ma dovranno durare davvero a lungo per sembrare lunghi agli Ent».
«Incomincia la Nuova Era», disse Gandalf, «ed è possibile che in questa era i regni degli Uomini durino più a lungo di te, amico Fangorn. Ma ora dimmi: che cosa ne è del compito che ti avevo affidato? Come sta Saruman? Non è ancora stanco di Orthanc? Non credo infatti che ritenga che voi abbiate migliorato il paesaggio intorno alle sue finestre!».
Barbalbero fissò Gandalf a lungo, quasi astutamente, si disse Merry. «Ah!», disse. «Pensavo che ne avresti parlato. Stanco di Orthanc? Finalmente molto stanco; ma non tanto stanco della sua torre quanto della mia voce. Huum! Gli ho narrato lunghe storie, o comunque storie che nel vostro linguaggio chiamereste lunghe».
«Allora perché rimaneva a sentire? Ti sei recato a Orthanc?», domandò Gandalf.
«Huum, no, non a Orthanc!», disse Barbalbero. «Ma egli si affacciava alla finestra e ascoltava, perché non poteva ricevere notizie in altro modo, e benché le odiasse, era avido di sentirle; io vedevo che lui ascoltava intento. Ma io aggiungevo un gran numero di cose sulle quali era bene che egli riflettesse. Divenne molto stanco. Fu sempre un uomo frettoloso, e quella fu la sua rovina».
«Noto, mio buon Fangorn», disse Gandalf, «che usi una gran cura nel dire divenne, fu, visse. Che ne è del presente? È forse morto?».
«No, non morto, a quanto io sappia», rispose Barbalbero. «Ma se ne è andato. Sì, andato da sette giorni. Io l’ho lasciato andare. Era ridotto a niente quando strisciò fuori, e quanto a quella specie di verme, suo servitore, era ormai una pallida ombra. Non mi dire Gandalf, che promisi di tenerlo al sicuro; lo so. Ma le cose sono cambiate da allora. Ed io l’ho tenuto al sicuro, finché fui certo che non potesse più nuocere. Dovresti sapere che la cosa che odio di più è mettere in gabbia esseri viventi, e non desidero tenere in gabbia neppure esseri del genere, più di quanto sia necessario. Un serpente sdentato può strisciare dove vuole».
«Forse hai ragione», disse Gandalf; «ma credo che questo serpente abbia ancora un dente. Aveva il veleno nella voce, e credo che riuscì a persuadere persino te, Barbalbero, conoscendo il punto debole del tuo cuore. Ebbene, è partito, e non ci resta altro da dire. Ma ora la Torre di Orthanc ritorna ad essere di proprietà del Re. Benché forse egli non ne abbia bisogno».
«Lo vedremo più tardi», disse Aragorn. «Ma voglio dare agli Ent tutta questa valle, affinché ne facciano ciò che preferiscono, purché sorveglino Orthanc e si assicurino che nessuno vi entri senza il mio permesso».
«È chiusa a chiave», disse Barbalbero. «Ho costretto Saruman a chiuderla e a darmi le chiavi. Le ho affidate a Sveltolampo».
Sveltolampo s’inchinò come un albero spinto dal vento e tese ad Aragorn due grandi chiavi nere di forma elaborata, unite da un anello d’acciaio. «Ora vi ringrazio nuovamente», disse Aragorn, «e vi dico addio. Possa la vostra foresta crescere in pace come prima. E quando sarà piena questa valle, vi sarà ancora molto spazio libero a ovest delle montagne, dove dimoravate un tempo».
Il viso di Barbalbero si fece triste. «Le foreste possono crescere», disse. «I boschi possono allargarsi. Ma non gli Ent. Non abbiamo Entini».
«Eppure forse ora avete maggiori speranze di trovare quel che cercate», disse Aragorn. «Intere terre a oriente, già a lungo chiuse, ora sono diventate accessibili».
Ma Barbalbero scosse il capo e disse: «È troppo lontano. E vi sono troppi Uomini da quelle parti oggigiorno. Ma sto dimenticando le buone maniere! Volete fermarvi qui a riposare? E forse alcuni di voi saranno contenti di passare attraverso la Foresta di Fangorn per abbreviare il loro percorso?». Guardò Celeborn e Galadriel.
Ma tutti eccetto Legolas dissero che si dovevano congedare e dirigersi a sud o ad ovest. «Vieni, Gimli!», disse Legolas. «Ora, con il permesso di Fangorn, visiterò i posti reconditi del suo bosco, per vedere alberi che non esistono altrove nella Terra di Mezzo. Verrai con me e manterrai la tua promessa; e così giungeremo alle nostre terre, nel Bosco Atro ed oltre». Gimli acconsentì, ma, a quanto sembrò, con entusiasmo assai moderato.
«Eccoci allora alla fine della Compagnia dell’Anello», disse Aragorn. «Eppure spero che tornerete presto nel mio paese con gli aiuti promessi».
«Torneremo, se i nostri sovrani ce lo permetteranno», disse Gimli. «Ebbene, addio, Hobbit miei! Dovreste arrivare sani e salvi alle vostre case, ormai, e non rimarrò sveglio dalla paura che corriate gravi pericoli. Vi manderemo messaggi quando sarà possibile, e forse alcuni di noi potranno incontrarsi di tanto in tanto. Ma temo che non saremo mai più riuniti tutti insieme».
Allora Barbalbero li salutò ad uno ad uno, e s’inchinò tre volte, lentamente e con gran deferenza, innanzi a Celeborn e a Galadriel. «Non li vediamo da molto, molto tempo, per sasso e bastone! A vanimar, vanimilion nostari!», disse. «È triste incontrarsi soltanto in questo modo, alla fine. Perché il mondo sta cambiando; lo sento nell’acqua, lo sento nella terra, e l’odoro nell’aria. Credo che non ci rivedremo più».
E Celeborn disse: «Non lo so, Antico». Ma Galadriel disse: «Non nella Terra di Mezzo, non prima che le terre sommerse dalle acque emergano nuovamente. Allora forse nei boschi di salici del Tasarinan c’incontreremo un giorno di Primavera. Addio!».
Merry e Pipino salutarono per ultimi il vecchio Ent, ed egli al vederli si rasserenò. «Ebbene, gente felice», disse, «volete bere un altro sorso insieme con me prima di partire?».
«Certamente», essi dissero, ed egli li condusse all’ombra di uno degli alberi, ove era stato posto un grande recipiente di pietra. E Barbalbero empì tre ciotole, ed essi bevvero; e mentre bevevano videro i suoi occhi strani che li osservavano da sopra l’orlo della sua ciotola. «Attenti, attenti!», egli disse. «Perché siete già cresciuti dall’ultima volta che vi ho visti». Ed essi risero e bevvero sino in fondo.
«Ebbene, addio!», egli disse. «E non dimenticate di farmelo sapere, se nel vostro paese giungono notizie delle Entesse». Poi agitò le sue grandi mani, e scomparve fra gli alberi.
I viaggiatori cavalcarono ora più velocemente, e si diressero verso la Breccia di Rohan; ed Aragorn disse loro addio vicino al luogo in cui Pipino aveva guardato nella Pietra di Orthanc. Gli Hobbit erano tristi per questa separazione, perché Aragorn era stato sempre presente, una guida attraverso molti pericoli.
«Vorrei avere una Pietra che mi permettesse di vedere tutti gli amici», disse Pipino, «e di parlare con loro da lontano!».
«Ve n’è rimasta una sola che potresti adoperare», rispose Aragorn; «perché certo non ameresti vedere ciò che ti mostrerebbe la Pietra di Minas Tirith. Ma il Palantir di Orthanc rimarrà nelle mani del Re, per permettergli di vedere che cosa accade nel suo reame, e che cosa fanno i suoi servitori. E non dimenticare, Peregrino Tuc, che sei un cavaliere di Gondor, e che non ti affranco dal servizio. Ora stai andando in congedo, ma potrei richiamarti. E ricordate, cari amici della Contea, che il mio regno si stende anche a nord, e che un giorno mi recherò sin lì».
Poi Aragorn salutò anche Celeborn e Galadriel; e la Dama gli disse: «Gemma Elfica, sei giunto attraverso l’oscurità recandoci la speranza, ed ora hai tutto ciò che desideravi. Adopera bene i tuoi giorni!».
Ma Celeborn disse: «Fratello, addio! Possa il tuo destino essere diverso dal mio, e i tuoi tesori rimanere presso di te sino alla fine!».
E con ciò si separarono, ed era l’ora del tramonto; e quando dopo qualche minuto si voltarono a guardare, videro il Re dell’Ovest seduto sul suo cavallo circondato dai suoi cavalieri; e il Sole calante li illuminava, facendo brillare i finimenti come oro rosso, mentre il bianco mantello di Aragorn si era trasformato in una fiamma. Poi Aragorn prese la gemma verde e la tenne alta, e dalla sua mano si sprigionò una luce verde.
La compagnia così ridotta seguì il corso dell’Isen; poi girò verso ovest e attraversò la Breccia e quindi il deserto, per poi dirigersi a nord, passando i confini del Dun’and. Gli abitanti della zona fuggivano e si nascondevano, perché temevano gli Elfi, benché questi si recassero assai di rado nel loro paese; ma i viaggiatori non si curavano di loro, essendo ancora una compagnia numerosa e ben provvista; avanzavano serenamente, piantando le loro tende dove preferivano.
Il sesto giorno dopo la separazione dal Re attraversarono un bosco che copriva le colline ai piedi delle Montagne Nebbiose, la catena che si ergeva alla loro destra. Quando al calar del sole uscirono di nuovo in aperta campagna, raggiunsero un vecchio curvo su di un bastone, vestito di stracci grigi o bianchi sporchi, seguito alle calcagna da un altro mendico, che camminava strisciando e gemendo.
«Ebbene, Saruman!», disse Gandalf. «Dove stai andando?». «Che t’importa?», egli rispose. «Vuoi ancora governare le mie azioni, e non sei soddisfatto della mia rovina?».
«Conosci già le risposte», disse Gandalf: «no e no. Ma in ogni caso ormai le mie fatiche si avvicinano alla fine. Il Re ha preso lui il fardello. Se avessi atteso a Orthanc l’avresti veduto, ed egli ti avrebbe mostrato la sua saggezza e la sua clemenza».
«Una ragione in più per aver lasciato Orthanc», disse Saruman. «Perché da lui non desidero né l’una né l’altra cosa. Anzi, se vuoi che risponda alla tua domanda di prima, sto cercando una via che conduca fuori da questo reame».
«Allora ancora una volta stai sbagliando strada», disse Gandalf, «e non vedo alcuna speranza nel tuo viaggio. Ma trascurerai il nostro aiuto? Perché siamo pronti a offrirtelo».
«Offrirlo a me?», disse Saruman. «No, ti prego di non sorridere! Preferisco quando corrughi la fronte. Quanto alla Dama qui presente, non mi fido di lei; mi ha sempre odiato, complottando con te. Sono certo che ti ha condotto per questa via affinché potessi rallegrarti della mia miseria. Se avessi saputo che m’inseguivate, vi avrei privati del piacere di vedermi».
«Saruman», disse Galadriel, «abbiamo altri scopi ed altre preoccupazioni che ci sembrano assai più urgenti che inseguire te. Di’ piuttosto che sei stato raggiunto per pura fortuna, perché ora ti si offre un’ultima occasione».
«Se davvero è l’ultima, sono contento», disse Saruman; «perché in tal caso mi risparmiate la fatica di doverla rifiutare ancora. Tutte le mie speranze ormai sono distrutte, ma certo non condividerei la vostra, ammesso che ne abbiate una».
Un fuoco avvampò all’improvviso nei suoi occhi. «Andate!», disse. «Non ho certo studiato invano simili questioni per lunghi anni. Avete scelto da soli il vostro destino, e lo sapete. E mi sarà di notevole conforto nel mio errare, sapere che demoliste la vostra casa, quando distruggeste la mia. Ed ora, quale nave vi porterà dall’altra parte di un mare così vasto?». Sghignazzò. «Sarà una nave grigia, e piena di fantasmi». Rise, ma la sua voce era roca e orrenda.
«Alzati, idiota!», urlò all’altro mendicante, che si era seduto per terra; e lo colpì con il suo bastone. «Voltati! Se questa bella gente sta andando nella stessa direzione, vuol dire che noi cambieremo strada. Alzati o non ti darò croste per la cena!».
Il mendicante si voltò e avanzò curvo e gemente: «Povero vecchio Grima! Povero vecchio Grima! Sempre frustate e maledizioni. Come lo odio! Se soltanto potessi lasciarlo!».
«Lascialo dunque!», disse Gandalf.
Ma Vermilinguo lanciò con i suoi occhi sbiaditi uno sguardo pieno di terrore a Gandalf, e si affrettò a seguire Saruman. I due esseri miserevoli passarono improvvisamente accanto agli Hobbit: Saruman si fermò e li guardò con astio. Ma gli Hobbit lo osservarono pieni di pietà.
«Siete venuti anche voi a gongolare, vero, piccoli istrici?», disse. «Non v’importa la miseria di un mendicante, a voi! Perché avete tutto ciò che volete, cibo e bei vestiti, e l’erba migliore per le vostre pipe. Oh sì, lo so! So da dove proviene. Ma certo non ne dareste un pizzico a un mendicante, vero?».
«Te ne darei, se ne avessi», disse Frodo.
«Puoi avere tutto ciò che mi rimane», disse Merry, «se aspetti un istante». Scese da cavallo e frugò nella sacca appesa alla sua sella. Poi tese a Saruman un sacchetto di pelle. «Prendi tutto quello che rimane», disse. «Prendilo pure, fa parte dei relitti d’Isengard».
«Mio, sì, mio e pagato caro!», gridò Saruman stringendo la borsa. «Questa è soltanto una restituzione simbolica, perché sono sicuro che ne avete preso molto di più. Eppure un mendicante deve essere grato se un ladro gli restituisce anche soltanto una briciola di quel che gli apparteneva. Ebbene, sarà una buona lezione se tornando a casa troverete che le cose nel Decumano Sud vanno meno bene di quanto non pensiate. Vi auguro che nella vostra terra la foglia da pipa possa mancare per molto tempo!».
«Grazie!», disse Merry. «In tal caso ti prego di restituirmi il sacchetto che non ti appartiene e che ha fatto molta strada insieme con me. Avvolgi l’erba in uno dei tuoi stracci».
«Un ladro merita d’essere derubato», disse Saruman; volse le spalle a Merry, tirò un calcio a Vermilinguo e si diresse verso il bosco.
«Ebbene, mi piace proprio!», disse Pipino. «Ladro davvero! Dimentica forse di averci rapiti, feriti e fatti trascinare dagli Orchi attraverso Rohan?».
«Ah!», disse Sam. «E ha detto pagato. Mi domando come! E non mi è piaciuto il suo modo di parlare del Decumano Sud. È ora di tornare a casa».
«Ne sono certo», disse Frodo. «Ma non possiamo avanzare più velocemente, se vogliamo vedere Bilbo. Ho intenzione di passare per Gran Burrone, qualunque cosa accada».
«Sì, credo che sia opportuno», disse Gandalf. «Ma ahimè per Saruman! Temo che non si possa fare più nulla per lui. È del tutto avvizzito. Eppure non sono sicuro che Barbalbero abbia ragione: immagino che potrebbe ancora essere dannoso in qualche modo meschino».
Il giorno seguente penetrarono nel Dun’and settentrionale, un paese disabitato, pur essendo verde e piacevole. Settembre arrivò con notti d’argento e giorni dorati, ed essi cavalcarono sino al fiume Agilcigno e trovarono l’antico guado ad est delle cascate che facevano precipitare improvvisamente il corso d’acqua nelle terre più basse. Lungi a ovest si stendevano nella bruma gli isolotti ed i laghi attraverso i quali serpeggiava sino all’Inondagrigio: e lì innumerevoli cigni abitavano fra le canne.
Passarono quindi nell’Eregion, e infine albeggiò uno splendido mattino, scintillando sopra le brume; e guardando dal loro accampamento sito alla sommità di una collinetta, i viaggiatori videro ad est il Sole illuminare tre vette che si ergevano nel cielo sopra le nubi galleggianti: Caradhras, Celebdil e Fanuidhol. Erano giunti in prossimità dei Cancelli di Moria.
E lì rimasero ancora sette giorni, perché si avvicinava l’ora di una nuova separazione che tutti erano restii ad affrontare. Presto Celeborn e Galadriel e la loro gente si sarebbero diretti a oriente, passando il Cancello Cornorosso e la Scala dei Rivi Tenebrosi, sino a raggiungere l’Argentaroggia e il loro paese. Avevano percorso molta strada verso occidente poiché dovevano discutere diverse questioni con Elrond e con Gandalf, e qui rimasero qualche giorno a conversare con i loro amici. Sovente, quando gli Hobbit erano ormai da tempo avvolti nel sonno, essi sedevano tutti insieme sotto le stelle e rimembravano i tempi scomparsi e tutte le loro gioie e sofferenze nel mondo, o discutevano dei giorni a venire. Se fosse passato qualche viaggiatore solitario avrebbe veduto e udito ben poco, e gli sarebbe parso di vedere soltanto figure grigie scolpite nella pietra, memorie di tempi remoti perse in terre disabitate. Essi rimanevano infatti immobili, e non parlavano con la bocca, ma le loro menti comunicavano; e i loro occhi luminosi si muovevano e si accendevano mentre i loro pensieri volavano dall’uno all’altro.
Ma finalmente tutto fu detto, ed essi si separarono di nuovo per qualche tempo, fino all’ora in cui i Tre Anelli sarebbero dovuti scomparire. E la gente di Lórien ammantata di grigio cavalcò verso le montagne, confondendosi velocemente con le pietre e le ombre; e coloro che si recavano a Gran Burrone rimasero seduti sulla collinetta a guardare, finché dalle brume si levò un bagliore; poi non videro più nulla. Frodo comprese che Galadriel aveva tenuto alto il suo anello in segno d’addio.
Sam distolse lo sguardo e sospirò. «Vorrei tanto tornare a Lórien!», disse.
Finalmente una sera attraversarono alte brughiere e ad un tratto si trovarono sull’orlo della profonda valle di Gran Burrone, e videro in lontananza brillare le luci nella dimora di Elrond. Discesero, attraversarono il ponte e giunsero alla porta, e la casa era piena di luce e di canti di gioia per il ritorno di Elrond.
Innanzi tutto, prima di mangiare e di lavarsi e senza nemmeno togliersi i mantelli, gli Hobbit andarono in cerca di Bilbo. Lo trovarono tutto solo nella sua piccola stanza. Era cosparsa di carte e di penne e matite; ma Bilbo sedeva davanti a un piccolo camino con il fuoco acceso. Sembrava molto anziano, ma molto sereno. Stava sonnecchiando.
Aprì gli occhi e levò lo sguardo quando entrarono. «Salve, salve!», disse. «Così siete tornati? E domani è il mio compleanno. Che bravi! Sapete che compirò centoventinove anni? E l’anno prossimo, se durerò ancora, avrò raggiunto il Vecchio Tuc. Vorrei poterlo battere, ma si vedrà».
Dopo la celebrazione del compleanno di Bilbo i quattro Hobbit rimasero qualche giorno a Gran Burrone, e passarono molto tempo con il loro vecchio amico, il quale ormai trascorreva quasi tutte le sue ore in camera, salvo quelle dei pasti. A questi era ancora in linea di massima molto puntuale, svegliandosi sempre in tempo. Seduti intorno al camino gli narrarono a turno tutto ciò che ricordavano dei loro viaggi e delle loro avventure. Dapprima fingeva di prendere delle note; ma si addormentava spesso, e svegliandosi diceva: «Splendido! Meraviglioso! Ma dove eravamo arrivati?». E allora ricominciavano la storia dal punto in cui si era appisolato.
L’unica parte che sembrò davvero tenerlo desto e attento fu il racconto dell’incoronazione e delle nozze di Aragorn. «Ero invitato al matrimonio, beninteso», disse. «E lo aspettavo da tanto tempo. Ma chissà perché, al momento di partire mi sono accorto che avevo tante cose da fare qui; e preparare le valigie è una tale noia!».
Passarono quasi due settimane e un giorno Frodo guardando dalla finestra vide che di notte vi era stata una gelata e le ragnatele erano simili a bianche reti da pescatore. Allora improvvisamente capì che doveva partire, e dire addio a Bilbo. Il tempo era ancora sereno e bello, dopo una delle estati più splendide che si potessero ricordare; ma ottobre era ormai arrivato, e presto il tempo sarebbe precipitato, portando la pioggia e il vento. Ed avevano ancora molta strada da fare. Eppure non era il pensiero del tempo che lo preoccupava. Aveva la sensazione che fosse ora di tornare nella Contea, e Sam era del medesimo parere. La notte prima aveva detto:
«Ebbene, signor Frodo, siamo stati lontano e abbiamo veduto molte cose, eppure non credo che abbiamo trovato luogo più meraviglioso di questo. Qui vi è un po’ di ogni cosa, non so se mi spiego: la Contea, e il Bosco d’Oro, e Gondor, e palazzi di re e osterie e pascoli e montagne, tutto insieme. E tuttavia ho la sensazione che dovremmo partire presto. A dirvi il vero, sono preoccupato per il Gaffiere».
«Sì, un po’ di ogni cosa, Sam, eccetto il Mare», aveva risposto Frodo; e ora ripeteva da solo: «Eccetto il Mare».
Quel giorno Frodo parlò con Elrond, e fu deciso che sarebbero partiti l’indomani. Con loro grande felicità Gandalf disse: «Credo che verrò anch’io. Perlomeno fino a Brea. Voglio vedere Cactaceo».
La sera andarono a dire addio a Bilbo. «Ebbene, se proprio dovete partire, pazienza», disse. «Mi dispiace. Mi mancherete. È bello sapere che siete qui in giro da qualche parte. Ma sto diventando molto sonnolento». Allora diede a Frodo la cotta di mithril e Pungolo, dimentico di averlo già fatto; e gli diede anche tre libri di sapienza che aveva composti in epoche diverse, scritti nella sua calligrafia da ragno, e recanti un’etichetta sul dorso rosso: Traduzioni dall’Elfico, di B.B.
A Sam regalò una piccola borsa d’oro. «Quasi l’ultimo briciolo del bottino di Smaug», disse. «Potrebbe esserti utile, se pensi di accasarti, Sam». Sam arrossì.
«Non ho un gran che da dare a voi ragazzi», disse a Merry e a Pipino, «oltre a buoni consigli». E quando ebbe finito di dar loro una bella dose dei medesimi, aggiunse un’ultima considerazione secondo le abitudini della Contea: «Fate che le vostre teste non diventino troppo grosse per i cappelli! Ma se non smetterete presto di crescere, pagherete molto cari cappelli e vestiti».
«Ma se tu vuoi battere il Vecchio Tuc», disse Pipino, «non vedo perché noi non dovremmo cercare di battere il Ruggibrante».
Bilbo rise ed estrasse di tasca due belle pipe col bocchino di perla e con filetti d’argento lavorato. «Pensatemi quando le fumerete!», disse. «Gli Elfi le hanno fatte per me, ma io non fumo più». E poi improvvisamente la sua testa ciondolò ed egli si appisolò per qualche minuto; e quando si risvegliò disse: «Dove eravamo arrivati? Sì, naturalmente, i regali. A proposito, Frodo, che ne è di quel mio anello che portasti via?».
«L’ho perduto, Bilbo caro», disse Frodo. «Me ne sono liberato, sai».
«Che peccato!», disse Bilbo. «Mi sarebbe piaciuto rivederlo. Ma no, che stupido sono! È proprio per liberartene che sei partito, non è così? Ma tutto è così confuso, perché una gran quantità di altre cose sembrano essersi mescolate, gli affari di Aragorn, e il Bianco Consiglio, e Gondor, e i Cavalieri, ed i Sudroni, e gli olifanti… ne hai davvero veduto uno, Sam?… e caverne, torri e alberi dorati e chissà quante altre cose.
«Evidentemente io presi una strada di gran lunga troppo diritta nel mio viaggio di ritorno. Trovo che Gandalf avrebbe potuto portarmi un po’ in giro. Ma allora la vendita all’asta sarebbe finita prima del mio ritorno e avrei avuto difficoltà ancora maggiori di quelle che incontrai. Comunque, ormai è troppo tardi, e in verità trovo che sia molto più comodo rimanere qui seduto e ascoltare che gli altri mi raccontino tutto. Il camino è molto accogliente, ed il cibo è molto buono, e ci sono gli Elfi quando li vuoi vedere. Che cosa di meglio si potrebbe sperare?
La Via prosegue senza fine
Lungi dall’uscio dal quale parte.
Ora la Via è fuggita avanti,
Presto, la segua colui che parte!
Cominci pure un nuovo viaggio,
Ma io che sono assonnato e stanco
Mi recherò all’osteria del villaggio
E dormirò un sonno lungo e franco».
Mormorando le ultime parole la testa di Bilbo ciondolò sul suo petto ed egli si addormentò profondamente.
La sera s’infittiva nella stanza, e il fuoco brillava vivace nel camino; essi guardarono Bilbo che dormiva e videro che stava sorridendo. Rimasero per qualche tempo seduti in silenzio; poi Sam, guardandosi intorno e osservando la stanza e le ombre oscillanti sulle pareti, disse a voce bassa:
«Non credo, signor Frodo, che abbia scritto molto durante la nostra assenza. Non scriverà neppure la nostra storia, ormai».
A quelle parole Bilbo aprì un occhio, come se avesse udito ciò ch’era stato detto. Poi si svegliò. «Vedete, sto diventando talmente sonnolento», disse. «E quando trovo il tempo per scrivere, amo solo scrivere poesie. Mi domando, Frodo, amico mio, se ti dispiacerebbe mettere le cose un po’ in ordine prima di partire. Raccogliere le mie note e le mie carte, e anche il mio diario, e portare tutto con te, non ti dovrebbe pesare. Vedi, non ho avuto molto tempo per rivedere, correggere, e tutto il resto. Chiedi a Sam di aiutarti, e quando avrete messo un po’ d’ordine, tornate, e io darò un’occhiata. Non sarò troppo severo!».
«Ma naturalmente!», disse Frodo. «E tornerò certo assai presto: non sarà più pericoloso. Ora abbiamo un vero re, ed egli farà regnare l’ordine sulle strade».
«Grazie, caro amico», disse Bilbo. «È un grande sollievo per la mia mente». E si addormentò di nuovo.
Il giorno seguente Gandalf e gli Hobbit salutarono Bilbo nella sua stanza, perché fuori faceva freddo; e dissero addio a Elrond e a tutta la sua gente.
Frodo era in piedi sulla soglia, ed Elrond gli augurò buon viaggio; lo benedisse, e soggiunse:
«Credo, Frodo, che forse non sarà necessario che tu ritorni, se non fra pochissimo tempo. Fra un anno circa, verso questa stagione, quando le foglie s’indorano prima di cadere, cerca Bilbo nei boschi della Contea. Io sarò con lui».
Nessun altro udì queste parole, e Frodo le tenne per sé.
Finalmente i passi degli Hobbit si volsero verso casa. Erano desiderosi di rivedere la Contea, ma da principio cavalcarono lentamente, perché Frodo si era sentito a disagio. Giunti al Guado del Bruinen si era fermato, riluttante ad avventurarsi nel fiume; ed essi si accorsero che per qualche tempo i suoi occhi non vedevano né loro né le cose circostanti. Era stato silenzioso per tutto il giorno. Era il sei di ottobre.
«Stai soffrendo, Frodo», disse Gandalf dolcemente, cavalcandogli a fianco.
«Beh…. sì», disse Frodo. «È la spalla. La ferita fa male, e il ricordo dell’Oscurità pesa su di me. Fu esattamente un anno fa».
«Ahimè! Vi sono ferite che non guariscono mai del tutto!», disse Gandalf.
«Temo che per la mia sarà così», disse Frodo. «Non esiste un vero ritorno. Anche tornato nella Contea, essa non mi parrà più la stessa, perché io sono cambiato. Dove troverò riposo?».
Gandalf non rispose.
Alla fine del giorno seguente il dolore e il disagio erano scomparsi, e Frodo era di nuovo felice, come se non ricordasse le tenebre del giorno precedente. Il viaggio procedette bene, ed i giorni trascorrevano veloci; essi non si affrettavano eccessivamente, e rimanevano spesso negli splendidi boschi ove le foglie erano rosse e gialle al sole d’autunno. Giunsero finalmente a Colle Vento, e si avvicinava la sera e l’ombra del colle si disegnava nera sulla strada. Allora Frodo li pregò di affrettate il passo e non volle guardare in direzione della collina, ma ne attraversò l’ombra a testa bassa e con il manto avvolto strettamente intorno al corpo. Quella notte il tempo cambiò, e da ovest venne un vento carico di pioggia, e soffiò violento e freddo, e le foglie gialle turbinavano come uccelli in aria. Quando raggiunsero il Bosco Cet i rami erano già nudi e una grande cortina di pioggia nascondeva il Colle di Brea.
Fu così che verso la fine di una sera ventosa e bagnata, negli ultimi giorni di ottobre, cinque viaggiatori cavalcarono su per la strada serpeggiante e giunsero al cancello meridionale di Brea. Era sprangato, e la pioggia batteva sui loro visi; nel cielo sempre più cupo le nubi fuggivano veloci. Ed i loro cuori si strinsero, perché si attendevano un più caloroso benvenuto.
Quando ebbero chiamato più volte apparve infine il guardiano, ed essi videro che portava un randello. Li osservò con paura e sospetto; ma quando vide Gandalf e riconobbe che i compagni nonostante le loro strane vesti erano Hobbit s’illuminò in viso e augurò loro il benvenuto.
«Entrate!», disse aprendo il cancello. «Non staremo a chiacchierare qui al freddo e alla pioggia, una serata maledetta. Ma il vecchio Omorzo vi accoglierà senz’altro al Puledro, e lì sentirete tutte le notizie che vi sono da sentire».
«E lì sentirai tutto ciò che avremo da dire noi, ed anche più», disse ridendo Gandalf. «Come sta Harry?».
Il guardiano del cancello si rabbuiò. «Partito», disse. «Ma è meglio che chiediate a Omorzo. Buona sera!».
«Buona sera a te!», dissero, e varcarono il cancello; poi notarono che dietro la siepe che fiancheggiava la strada era stata costruita una capanna lunga e bassa, e che molti Uomini ne erano usciti e li osservavano da dietro lo steccato. Quando giunsero alla casa di Billy Felci videro che la siepe in quel punto era in disordine e abbandonata, e che tutte le finestre erano bloccate con travi.
«Secondo te, sei riuscito a ucciderlo con la tua mela, Sam?», disse Pipino.
«Non oso sperarlo, signor Pipino», disse Sam. «Ma vorrei sapere che ne è di quel povero puledro. Mi è tornato più volte nella mente, e tutti quei lupi che ululavano, e tutto il resto».
Giunsero infine al Puledro Impennato, e l’osteria, almeno dall’esterno, sembrava immutata; vi erano luci dietro le tende rosse delle finestre più basse. Suonarono il campanello; Nob venne alla porta, la socchiuse e sbirciò fuori. Quando li vide in piedi sotto il lampione lanciò un grido di sorpresa.
«Signor Cactaceo! Padrone!», urlò. «Sono tornati!».
«Ah, davvero? Gliela farò vedere io!», gridò la voce di Cactaceo, ed egli si precipitò fuori con un randello in mano. Ma quando vide di chi si trattava si fermò di botto e l’espressione cupa del suo viso si mutò in stupore e meraviglia.
«Nob, scemo dalla capoccia vuota!», gridò. «Non sai chiamare per nome i vecchi amici? Dovresti risparmiarmi certi spaventi, in tempi come questi. Bene, bene! E da dove venite? Non mi aspettavo certo di rivedere nessuno di voi, potete stare sicuri: scomparire nelle Terre Selvagge con quel Grampasso e con tutti quegli Uomini Neri in giro. Ma sono proprio felice di vedervi, nientedimeno che con Gandalf. Venite! Venite! Le stesse stanze dell’altra volta? Sono libere. Anzi, la maggior parte delle stanze è libera di questi tempi, vi confesserò, e ve ne accorgerete fra breve. E vedrò quel che si potrà fare per la cena, al più presto possibile; ma sono a corto di provviste per il momento. Ehi, Nob, lumaca! Chiama Bob! Ah, ma dimenticavo che Bob non c’è; torna a casa dai suoi ogni sera. Ebbene, porta i cavalli dei signori nelle scuderie, Nob! E sono certo che tu stesso porterai il tuo nella sua stalla, Gandalf. Una bella bestia, e l’ho detto la prima volta che l’ho vista. Ma entrate! Mettetevi comodi!».
Il signor Cactaceo perlomeno non aveva cambiato modo di parlare, e sembrava vivere ancora nel suo agitato tramestio. Eppure non vi era quasi nessuno in giro, e tutto era silenzioso; dalla Stanza Comune veniva un mormorio di non più di due o tre voci. E visto più da vicino, alla luce di due candele che accese e con le quali fece loro strada, il viso dell’oste parve piuttosto avvizzito e sciupato.
Egli li condusse per il corridoio sino al salottino che avevano occupato in quella strana notte più di un anno addietro; ed essi lo seguirono, un po’ turbati, perché era chiaro che il vecchio Omorzo cercava di nascondere con un atteggiamento disinvolto qualche preoccupazione. Ma non dissero nulla, e aspettarono.
Come previsto, il signor Cactaceo venne nel salottino dopo cena per vedere se tutto era andato bene. Ed era andato tutto davvero molto bene: non vi erano stati peggioramenti nella birra e nel cibo del Puledro, in ogni caso. «Non vorrei certo obbligarvi a venire nella Stanza Comune questa sera», disse Cactaceo. «Sarete certo stanchi, e comunque non c’è molta gente. Ma se poteste dedicarmi una mezz’oretta prima di andare a letto, desidererei molto scambiare quattro parole, tranquillamente, fra di noi».
«È proprio ciò che vorremmo anche noi», disse Gandalf. «Non siamo stanchi, abbiamo preso le cose con calma. Eravamo bagnati, infreddoliti e affamati, ma ti sei preso cura di noi. Vieni a sederti! E se hai dell’erba-pipa te ne saremo grati per sempre».
«Beh, se aveste chiesto qualunque altra cosa sarei stato più contento», disse Cactaceo. «È proprio una cosa che manca, poiché abbiamo soltanto quello che cresce qui e che coltiviamo noi, e non basta. Non arriva niente dalla Contea in questi tempi. Ma farò del mio meglio».
Quando ritornò aveva in mano una quantità sufficiente per un giorno o due, un fagotto di foglie non tagliate. «Sudlinch», disse; «è la migliore che abbiamo, ma certo da non paragonarsi con quelle del Decumano Sud, benché io sia per Brea nella maggior parte dei casi, senza volere offendere».
Lo fecero sedere in una grossa poltrona accanto al camino; Gandalf si sedette di fronte a lui, e gli Hobbit in mezzo su delle sedie basse. Parlarono per molte mezz’ore, scambiandosi tutte le notizie che il signor Cactaceo desiderava dare o ricevere. La maggior parte delle cose che essi avevano da narrare furono per l’oste causa di stupore e immensa meraviglia; e procurarono pochi commenti che non fossero: «Dite davvero?», ripetuto assai spesso, visto che il signor Cactaceo non si fidava nemmeno più delle proprie orecchie. «Dici davvero, signor Baggins… o dovrei dire signor Sottocolle? Mi sto talmente confondendo le idee! Dici davvero, signor Gandalf? Incredibile! Chi l’avrebbe immaginato al giorno d’oggi?».
Ma raccontò anch’egli molte cose da parte sua. La situazione era tutt’altro che soddisfacente. Gli affari non soltanto non prosperavano, andavano addirittura male. «Nessun forestiere si avvicina ormai a Brea», disse. «E quelli del luogo rimangono per lo più a casa con la porta sbarrata. È tutta colpa di quei nuovi arrivati e di quei bastardi che incominciarono a spuntare dal Verdecammino l’anno scorso, come forse ricorderete; ma ne sono venuti altri più tardi. Alcuni erano soltanto poveri esseri che fuggivano i loro guai; ma i più erano uomini malvagi, maestri di furti e di complotti. E abbiamo avuto guai anche qui a Brea, grossi guai. Figuratevi, un vero e proprio assalto, e della gente è rimasta uccisa, uccisa a morte! Spero che mi crederete».
«Ti credo», disse Gandalf. «Quanti?».
«Tre e due», disse Cactaceo, riferendosi alla Gente Alta ed a quella Piccola. «Il povero Mat Piedibrughiera, e Rowlie Melodoro e il piccolo Tom Caprifoglio dell’altro versante del Colle; e Willie Banks che abitava poco più su, e uno dei Sottocolle di Staddle: tutta brava gente, e ne sentiamo la mancanza. E Harry Lanicardo che stava vicino al cancello ovest e quel Billy Felci si sono messi con gli stranieri e sono partiti con loro; il mio parere è che sono stati loro a farli entrare… la notte della battaglia, intendo dire. E fu dopo che mostrammo loro il cancello e li cacciammo fuori, sarebbe a dire prima della fine dell’anno; e la battaglia fu ai primi del Nuovo Anno, dopo la grande nevicata.
«Ora si sono organizzati in bande di predoni e vivono fuori, nascosti nei boschi oltre Arceto, e nelle zone selvagge a nord. Direi che è come un capitolo di quelle vecchie storie di tempi infausti. La strada non è sicura e nessuno si allontana, e tutti si chiudono presto in casa. Dobbiamo tenere guardiani tutt’intorno al recinto e mettere molti uomini ai cancelli, la notte».
«Ma nessuno ci ha importunati», disse Pipino, «e noi andavamo lenti e non stavamo sul chi vive. Credevamo di esserci lasciati tutti i guai alle spalle».
«Ah, no di certo, Messere, e me ne dispiace molto», disse Cactaceo. «Ma non mi stupisce che vi abbiano lasciati in pace. Non oserebbero nulla contro gente armata con spade, elmi, scudi e tutto il resto. Ci penserebbero prima due volte. E devo confessare che anch’io sono rimasto un po’ sconcertato quando vi ho visti».
Allora gli Hobbit si resero improvvisamente conto che la gente li osservava stupefatta non perché fosse sorpresa del loro ritorno, ma perché meravigliata di com’erano equipaggiati. Essi stessi si erano abituati a indossare abiti da guerra ed a cavalcare in mezzo a splendidi eserciti, e non pensavano che le brillanti cotte di maglia che spuntavano dai loro manti, e gli elmi di Gondor e del Mark, e gli emblemi disegnati sugli scudi sarebbero parsi molto forestieri nel loro paese. E anche Gandalf cavalcava ora il suo grande destriero grigio, tutto vestito di bianco e coperto d’un manto azzurro e argento, e al suo fianco pendeva la lunga spada Glamdring.
Gandalf rise. «Bene, bene», disse, «se bastiamo noi cinque a mettere loro paura, allora abbiamo incontrato peggiori nemici nel corso dei nostri viaggi. Ma almeno ti lasceranno tranquillo di notte finché rimarremo noi».
«E per quanto tempo sarà?», domandò Cactaceo. «Non nego che saremmo felici di avervi da queste parti per un po’. Vedete, non siamo abituati a questi problemi; e la gente mi dice che i Raminghi sono andati tutti via. Credo che non abbiamo apprezzato finora tutto ciò che facevano per noi. Perché ci sono state in giro cose peggiori dei ladri. I lupi ululavano intorno ai recinti l’inverno scorso. E vi sono anche delle figure scure nei boschi, orribili cose che fanno gelare il sangue nelle vene al solo pensarci. È stato tutto molto preoccupante, non so se mi spiego».
«Lo immagino», disse Gandalf, «quasi in tutti i paesi gli abitanti sono stati preoccupati di questi tempi, molto preoccupati. Ma rallegrati, Omorzo! Siete stati sull’orlo di grossi guai, e sono contento di sentire che non siete stati colpiti più di così. Ma stanno arrivando tempi migliori. Migliori forse di tutti quelli che tu hai conosciuti. I Raminghi sono tornati. Siamo tornati con loro. E vi è di nuovo un re, Omorzo. E presto si occuperà anche di Brea.
«Allora il Verdecammino sarà riaperto, e i suoi messaggeri verranno a nord, e vi sarà un grande andirivieni e tutte le cose malvagie verranno cacciate nelle terre deserte. Anzi, in futuro il deserto non sarà più deserto, e vi saranno campi e abitanti là dove un tempo vi erano zone selvagge».
Il signor Cactaceo scosse la testa. «Se vi sarà un po’ di gente per bene e rispettabile sulle strade non sarà certo un male», disse. «Ma non vogliamo più canaglie né ruffiani. E non vogliamo stranieri a Brea, né vicino a Brea. Vogliamo essere lasciati in pace. Non voglio che tutta una massa di forestieri si accampi qui e s’installi e rovini il nostro paese».
«Sarai lasciato in pace, Omorzo», disse Gandalf. «Vi è posto sufficiente fra l’Isen e l’Inondagrigio, o lungo le sponde meridionali del Brandivino, perché nessuno venga ad abitare a meno di una settimana di viaggio da Brea. E molta gente viveva su a nord, a un centinaio di miglia o più da qui, all’estremità del Verdecammino: sui Tumuli del Nord o lungo il Lago Evendim».
«Vicino alla Forra dei Morti?», esclamò Cactaceo, ancora più dubbioso. «Dicono che quella è terra di fantasmi. Solo i ladri vi andrebbero a vivere».
«I Raminghi ci vivono», disse Gandalf. «Forra dei Morti, dici tu. Ed è stata chiamata così per lunghi anni, ma il suo vero nome, Omorzo, è Fornost Erain, Roccanorda dei Re. E il Re tornerà qui un giorno, e allora vedrete passare della bella gente».
«Ebbene, confesso che questo mi dà un po’ di coraggio», disse Cactaceo. «E sarà senz’altro un bene per gli affari. Purché egli lasci stare Brea».
«La lascerà stare», disse Gandalf. «La conosce e la ama». «Come mai?», disse Cactaceo stupefatto. «Non capisco proprio perché dovrebbe amarla, seduto lassù, in cima al castello sul suo grande trono, lontano centinaia di miglia. E non mi stupirei se bevesse il vino da una coppa d’oro. Che cos’è per lui il Puledro, o una brocca di birra? È vero però che la mia birra è buona, Gandalf. È straordinariamente buona da quando sei venuto tu l’autunno scorso e hai messo una tua buona parola. E fra tutti questi guai devo dire che è stata un gran conforto».
«Ah!», disse Sam. «Ma egli dice che la tua birra è sempre buona».
«Egli dice?».
«Certo che lo dice. È Grampasso. Il capo dei Raminghi. Non te lo sei ancora messo in testa?».
L’idea penetrò finalmente, e il volto di Cactaceo fu l’immagine della meraviglia. Gli occhi divennero tondi nella sua grossa faccia, la sua bocca si spalancò e non riuscì a pronunciare parola. «Grampasso!», esclamò quando ebbe ripreso fiato. «Ebbene, questa è stata la conversazione più piacevole che mi sia capitata. E non nego che dormirò meglio questa notte, e con il cuore più leggero. Mi avete dato un mucchio di roba su cui riflettere, ma rinvierò tutto a domani. Il letto mi aspetta, e sono certo che anche voi sarete contenti d’infilarvi nei vostri. Ehi, Nob!», chiamò dalla porta. «Nob, lumaca!
«Nob!», si disse, battendosi una mano contro la fronte. «Vediamo un po’, che cosa mi ricorda?».
«Non un’altra lettera che hai dimenticata, spero, signor Cactaceo!», disse Merry.
«Suvvia, signor Brandibuck, non continuare a ricordarmi quella storia! Ma ecco, ho perso il filo. Vediamo, dov’ero? Nob, scuderie, ah! ecco che cos’era! Ho qualcosa che appartiene a voi. Rammentate Billy Felci e il furto dei cavalli? Il suo puledro che avevate comperato, ebbene, è qui. Tornò da solo, figuratevi! Ma da dove venisse, voi lo potete sapere meglio di me. Era irsuto come un vecchio cane e magro come una gruccia, ma vivo. Nob se ne è occupato».
«Come, il mio Bill?», esclamò Sam. «Ebbene, malgrado quel che dice il mio Gaffiere sono stato fortunato. Ecco un altro desiderio esaudito! Dov’è?». E Sam non volle andare a letto senza aver fatto una visita a Bill nella scuderia.
I viaggiatori si trattennero a Brea tutto il giorno seguente, ed il signor Cactaceo non poté lamentarsi degli affari quella sera. La curiosità fu più forte di qualunque paura, e la sua locanda era affollata. Gli Hobbit s’intrattennero brevemente nella Stanza Comune per pura cortesia, e risposero a molte domande. Essendo la memoria di quelli di Brea molto tenace, a Frodo fu chiesto più volte se avesse scritto il suo libro.
«Non ancora», egli rispose. «Sto andando a casa adesso, a mettere in ordine gli appunti». Promise di trattare degli stupefacenti fatti accaduti a Brea, onde creare un punto di interesse in un libro che avrebbe probabilmente narrato soltanto i remoti e secondari eventi accaduti laggiù, a sud.
Allora uno dei più giovani chiese una canzone. Ma tutti gli altri tacquero e lo guardarono con aria cupa e severa, e la richiesta non fu ripetuta. Evidentemente non desideravano che si ripetessero altri fatti misteriosi nella Stanza Comune.
Né il giorno né la notte furono turbati, e Brea conservò la sua pace finché rimasero i viaggiatori; ma l’indomani mattina si alzarono presto, perché il tempo era ancora piovoso ed essi volevano raggiungere la Contea prima che facesse notte, e la strada era lunga. La gente di Brea era tutta fuori casa a vederli partire, e di umore più allegro di quanto non fosse stata in tutto l’anno; e coloro che non avevano visto gli stranieri con tutto il loro equipaggiamento rimasero a bocca aperta dallo stupore: Gandalf con la sua barba bianca, e la luce che sembrava sprigionarsi, come se il suo manto azzurro non fosse che una nube sul sole; e i quattro Hobbit simili a cavalieri di lontane leggende. Persino coloro che avevano riso udendo parlare del Re incominciarono a pensare che vi fosse qualcosa di vero.
«Ebbene, buona fortuna per il vostro viaggio e per il ritorno a casa!», disse il signor Cactaceo. «Vi avrei dovuti avvertire prima che non tutto va bene nemmeno nella Contea, se le notizie che riceviamo sono vere. Strani eventi, pare. Ma un pensiero scaccia l’altro, ed ero immerso nei miei guai. Ma se posso permettermi di dirlo, siete tornati cambiati dai vostri viaggi, e avete l’aria di gente che sa risolvere problemi di ogni genere. Non dubito che aggiusterete presto tutto. Buona fortuna! E più spesso tornerete, più sarò contento!».
Gli dissero addio e partirono, varcando il cancello ovest e dirigendosi verso la Contea. Bill il puledro era con loro, e come prima portava una gran quantità di bagagli, ma trottava accanto a Sam e sembrava molto soddisfatto.
«Mi domando a che cosa alludesse il vecchio Omorzo», disse Frodo.
«Ne indovino un bel po’», disse Sam, con aria tetra. «Ciò che ho visto nello Specchio: alberi tagliati, e il mio vecchio Gaffiere buttato fuori dalla via Saccoforino. Sarei dovuto tornare prima».
«E qualcosa non va nel Decumano Sud, evidentemente», disse Merry. «Vi è carenza di erba-pipa».
«Qualunque cosa sia», disse Pipino, «Lotho sarà alla base di tutto: potete esserne certi».
«Alla base, ma non di tutto», disse Gandalf. «Dimenticate Saruman. Egli incominciò a interessarsi della Contea prima di Mordor».
«Ebbene, ci sei tu con noi», disse Merry, «quindi ogni cosa verrà presto chiarita».
«Sono con voi per il momento», disse Gandalf, «ma presto non lo sarò più. Non vengo con voi nella Contea. Dovete sistemare da soli le sue faccende; è per questo che siete stati allenati. Non avete ancora capito? Il mio tempo è finito: non tocca più a me ormai sistemare le cose, né aiutare gli altri a farlo. E quanto a voi, cari amici miei, non avrete bisogno di aiuto. Siete adulti, ormai. Siete cresciuti molto, fate parte dei grandi, e non temo più nulla per nessuno di voi.
«Ma se volete saperlo, io vi lascerò presto: sto andando a conversare con Bombadil, una bella conversazione come non l’abbiamo fatta mai. Egli è un raccoglitore di muschio, e io sono stato una pietra destinata a rotolare. Ma il rotolare sta per finire, ed ora avremo molte cose da dirci».
Dopo qualche tempo giunsero al luogo ove si erano congedati da Bombadil sulla Via Orientale; e speravano e quasi aspettavano di vederlo lì, venuto a salutarli mentre passavano. Ma non ve n’era traccia; una nebbia grigia copriva i Tumulilande a sud, e un pesante velo avvolgeva la Vecchia Foresta lontana.
Si fermarono, e Frodo guardò nostalgico a sud. «Vorrei tanto rivedere il vecchio amico», disse. «Come se la sta passando, secondo voi?».
«Bene come sempre, puoi starne certo», disse Gandalf, «privo di problemi e, immagino, piuttosto indifferente a tutto ciò che abbiamo fatto e visto, salvo forse l’incontro con gli Ent. Forse in futuro potrai andarlo a trovare. Ma se fossi in te, ora mi affretterei a tornare a casa, altrimenti non arriverai al Ponte sul Brandivino prima che chiudano i cancelli».
«Ma non vi sono cancelli», disse Merry, «non sulla Via: lo sai benissimo. Naturalmente vi è il Cancello della Terra di Buck, ma quello me lo aprirebbero a qualsiasi ora».
«Non vi erano cancelli, vuoi dire», ribatté Gandalf. «Credo che ora ne troverete. E potreste avere maggiore difficoltà di quanto non pensi persino al Cancello della Terra di Buck. Ma ve la caverete perfettamente. Addio, cari amici! Non per l’ultima volta, non ancora. Addio!».
Spinse Ombromanto fuori dalla Via e il gran cavallo attraversò con un balzo il fossato verde che la fiancheggiava; poi Gandalf lanciò un grido ed esso scomparve, galoppando verso i Tumulilande come il vento del Nord.
«Ebbene eccoci qui, noi quattro, di nuovo soli come quando partimmo», disse Merry. «Abbiamo lasciato tutto il resto alle spalle, una cosa dopo l’altra. Sembra quasi un sogno lentamente sbiadito». «Non a me», disse Frodo. «A me sembra piuttosto di addormentarmi di nuovo».
Dopo il calar della notte, stanchi e bagnati, i viaggiatori giunsero infine al Brandivino, e trovarono la strada sbarrata. Ad ambedue le estremità del Ponte si ergeva un grande cancello sormontato da lunghe punte aguzze; e sull’altra sponda del fiume videro ch’erano state costruite delle nuove case: a due piani, con strette finestre rettangolari, spoglie e scarsamente illuminate; il tutto molto squallido e per nulla in carattere con la Contea.
Martellarono sul cancello esterno e gridarono, ma dapprima non ebbero risposta; poi, con loro sorpresa, qualcuno suonò un corno, e le luci alle finestre si spensero. Una voce urlò nel buio:
«Chi è? Andatevene! Non sapete leggere il cartello: Vietato l’ingresso fra il calare e il sorgere del sole?».
«Non possiamo certo leggere il cartello al buio», gridò Sam. «E se quattro Hobbit della Contea devono restare fuori sotto la pioggia in una notte come questa, lo strapperò, il tuo cartello, appena lo vedo».
A queste parole si udì sbattere una porta, e una folla di Hobbit muniti di lanterne si riversò fuori dalla casa sulla sinistra. Aprirono il primo cancello e alcuni varcarono il Ponte. Quando videro i viaggiatori, parvero spaventarsi.
«Suvvia!», disse Merry riconoscendo uno degli Hobbit. «Come mai non mi riconosci, Hob Guardabarriere? Eppure dovresti: sono Merry Brandibuck, e vorrei sapere che cosa significa tutto ciò, e che cosa fai tu, uno della Terra di Buck, in questo posto. Di solito stavi alla Barriera».
«Misericordia! È Mastro Merry, e in uniforme da combattimento!», disse il vecchio Hob. «Ma come? dicevano che eri morto! Smarrito nella Vecchia Foresta. Sono contento di vederti vivo, dopo tutto!».
«Allora smettila di sbirciarmi attraverso le sbarre e apri il cancello!», disse Merry.
«Sono desolato, Mastro Merry, ma abbiamo ordini».
«Ordini di chi?».
«Del Capo, su a Casa Baggins».
«Capo? Capo? Vuoi dire il signor Lotho?», disse Frodo.
«Suppongo, signor Baggins; ma oggigiorno dobbiamo dire soltanto “il Capo”».
«Davvero!», disse Frodo. «Ebbene, sono contento che almeno abbia lasciato perdere il Baggins. Ma evidentemente è tempo che la famiglia regoli i conti con lui e lo rimetta al suo posto».
Gli Hobbit dall’altra parte del cancello ammutolirono. «Non servirà a nulla parlare in quel modo», disse uno di essi. «Egli lo verrà a sapere. E se fate tanto rumore sveglierete la Mano Destra del Capo».
«La sveglieremo in un modo che lo sorprenderà», disse Merry. «Se intendi dire che il tuo rispettabile Capo paga dei briganti venuti da chissà dove, allora non siamo tornati troppo presto». Con un balzo smontò da cavallo e, vedendo il cartello illuminato dalle lanterne, lo strappò e lo gettò dall’altra parte del cancello. Gli Hobbit indietreggiarono e non accennarono ad aprire. «Coraggio, Pipino!», disse Merry. «Noi due bastiamo».
Merry e Pipino si arrampicarono su per il cancello e gli Hobbit fuggirono. Un altro corno suonò. Dalla casa più grande, sulla destra, emerse una grossa e pesante figura, nera contro la luce della porta.
«Che cosa significa tutto ciò?», ringhiò mentre si avvicinava. «State violando il cancello, eh? Filate, o romperò i vostri luridi piccoli colli!». Poi si fermò, perché aveva intravisto lo scintillare di spade.
«Billy Felci», disse Merry, «se non apri quel cancello entro dieci secondi, te ne pentirai. Avrai a che fare con la mia spada, se non obbedisci. E quando avrai aperto i cancelli, ne uscirai e non tornerai mai più. Sei un bandito e un predone».
Billy Felci indietreggiò, poi si avvicinò al cancello e lo aprì. «Dammi la chiave!», disse Merry. Ma il bandito gliela tirò in testa e si precipitò fuori nell’oscurità. Quando passò accanto ai cavalli, uno di essi gli sferrò un calcio, colpendolo mentre correva. Egli scomparve con un grido nella notte e non se ne seppe mai più nulla.
«Bel lavoro, Bill», disse Sam, rivolgendosi al puledro.
«Ed ecco sistemata la vostra Mano Destra», disse Merry. «Più tardi ci occuperemo del Capo. Nel frattempo vogliamo un alloggio per la notte, e poiché a quanto pare avete demolito l’Osteria del Ponte per costruire questo squallido posto, dovrete accoglierci qui».
«Mi dispiace, signor Merry», disse Hob, «ma non è permesso».
«Che cosa non è permesso?».
«Accogliere la gente senza preavviso, e mangiare cibo in più, e tutto questo genere di cose».
«Ma che diavolo è successo?», disse Merry. «L’annata è stata cattiva o che altro? Credevo che l’estate e il raccolto fossero stati ottimi».
«Beh, sì, l’annata è stata buona», rispose Hob. «Noi coltiviamo un sacco di roba, ma non sappiamo esattamente dove vada a finire. Sono tutti questi “raccoglitori” e “spartitori”, suppongo, che girano misurando e contando e portando tutto ai magazzini. Più che spartire raccolgono, e non vediamo mai più la maggior parte della roba».
«Suvvia!», disse Pipino sbadigliando. «Tutto ciò è troppo noioso per parlarne questa sera. Abbiamo cibo nelle nostre sacche. Dateci soltanto una stanza dove coricarci. Sarà sempre migliore di tanti posti che ho conosciuto».
Gli Hobbit sembravano ancora a disagio, poiché evidentemente veniva infranto un ordine; ma era inutile opporsi a quattro così possenti viaggiatori, armati di tutto punto, due dei quali erano straordinariamente grandi e forti. Frodo ordinò di richiudere i cancelli. Era giustificato mantenere una certa sorveglianza finché continuavano a gironzolare banditi. I quattro compagni entrarono nella casa dei guardiani e vi s’installarono il più comodamente possibile. Era un posto spoglio e sgradevole, con un misero camino ove era impossibile accendere un fuoco. Nelle stanze superiori vi erano file di brandine, e su ogni parete era appeso un cartello con una lista di Regole. Pipino li strappò. Non avevano birra, ma con le provviste i viaggiatori poterono fare tutti un pasto regolare; e Pipino infranse la Regola, mettendo sul fuoco gran parte della razione di legna del giorno successivo.
«Ebbene, che ne direste Ora di una fumata, mentre ci raccontate quel che è successo nella Contea?», egli disse.
«Non abbiamo erba-pipa», disse Hob; «solo gli uomini del Capo hanno il diritto di averne. Tutte le provviste sembrano scomparse. Abbiamo sentito dire che interi vagoni sono partiti dalla vecchia strada del Decumano Sud, oltre Sarnoguado, verso la fine dell’anno passato, cioè dopo la vostra partenza. Ma già da prima ne spedivano regolarmente e di nascosto delle piccole quantità. Quel Lotho…».
«Ora sta’ zitto, Hob Guardabarriere!», gridarono gli altri Hobbit. «Sai che non è permesso parlare in questo modo. Il Capo verrà a saperlo, e saremo tutti nei guai».
«Non verrebbe a sapere niente, se alcuni di voi non fossero degli spioni», ribatté incollerito Hob.
«Va bene, va bene!», disse Sam. «Basta così. Non voglio sentire più niente. Nessuna accoglienza, niente birra, niente fumo, e una quantità di regole e di chiacchiere degne degli Orchi. Speravo di riposare, ma vedo che ci attendono guai e fatiche. Dormiamo, e dimentichiamoli fino a domattina!».
Il nuovo «Capo» aveva evidentemente modo di procurarsi le informazioni. Casa Baggins distava dal Ponte non meno di quaranta miglia, ma qualcuno percorse la strada a gran velocità. Frodo e i suoi amici se ne accorsero presto.
Non avevano fatto piani precisi, ma pensavano di recarsi tutti insieme a Crifosso, e di riposare per qualche tempo. Ma ora, vedendo come stavano le cose, decisero di recarsi direttamente a Hobbiville. Così il giorno seguente si avviarono lungo la Via, avanzando con andatura decisa. Il vento era caduto, ma il cielo era grigio. Il paese sembrava alquanto squallido e triste; ma dopo tutto era il primo di novembre e la fine dell’autunno. Eppure vi erano insolitamente molti fuochi, e vedevano fumo innalzarsi da parecchi punti tutt’intorno, e una grossa nuvola in direzione di Terminalbosco.
Sul far della sera si trovarono in prossimità di Chianarana, un villaggio situato a destra della Via, a circa ventidue miglia dal Ponte. Intendevano trascorrere lì la notte; Il Ceppo Galleggiante di Chianarana era una buona osteria. Ma quando arrivarono all’estremità orientale del paesino, incontrarono una barriera che recava la scritta Vietato l’ingresso; dietro di essa si ammassava una folta schiera di Guardacontea armati di randelli e addobbati con piume sul cappello; avevano l’aria ad un tempo arrogante e spaventata.
«Che significa tutto ciò?», disse Frodo, sentendosi incline a ridere.
«Ecco che cos’è, signor Baggins», disse il capo dei Guardacontea, un Hobbit con due piume: «siete arrestato per Violazione di Cancelli, Distruzione di Regole, Assalto ai Guardiani dei Cancelli, Pernottamento negli Edifici della Contea senza Permesso, e Corruzione di Guardie con Cibo».
«C’è altro?», chiese Frodo.
«Questo può bastare, per il momento», disse il capo.
«Io potrei aggiungere altro, se vuoi», disse Sam: «Insulti al vostro Capo, Desiderio di Prendere a Pugni il suo Viso Pustoloso, e Certezza che voi Guardacontea avete l’Aria di un Sacco di Idioti».
«Basta così, Messere. Per ordine del Capo, dovete seguirci in silenzio. Vi porteremo a Lungacque e vi affideremo alle guardie del Capo; e quando egli si occuperà del vostro caso, potrete dire la vostra. Ma se non volete restare nelle Celle chiuse più del necessario, vi consiglio di piantarla con le chiacchiere».
Con somma delusione dei Guardacontea, Frodo e i suoi compagni scoppiarono a ridere. «Non essere assurdo!», disse Frodo. «Vado dove mi pare, e quando più mi garba. Si dà il caso che io sia diretto a Casa Baggins per affari, ma se insisti ad andarci anche tu, è affar tuo».
«Benissimo, signor Baggins», disse il capo, aprendo la barriera. «Ma non dimenticate che siete in arresto».
«Non lo dimenticherò», disse Frodo, «mai. Ma forse ti perdonerò. Ora, poiché non intendo proseguire per oggi, se mi scorterai gentilmente sino al Ceppo Galleggiante, te ne sarò grato».
«Non posso farlo, signor Baggins. L’osteria è chiusa. Vi è una Casa di Guardacontea all’altra estremità del villaggio. Vi porterò lì».
«Va bene», disse Frodo. «Facci strada, noi ti seguiremo».
Sam, dopo aver scrutato da cima a fondo tutti i Guardacontea, ne aveva visto uno che conosceva. «Ehi, vieni qui, Robin Tanabuca!», chiamò. «Voglio scambiare quattro parole con te».
Lanciando uno sguardo impaurito al suo capo, il quale sembrò arrabbiarsi ma non osò intervenire, il Guardacontea Tanabuca si avvicinò a Sam, che smontò dal suo puledro.
«Senti un po’, compare Robin!», disse Sam. «Tu sei uno di Hobbiville, e dovresti avere più buonsenso, invece di venire ad arrestare il signor Frodo e simili scemenze. E che cos’è questa storia dell’osteria chiusa?».
«Sono tutte chiuse», disse Robin. «Al Capo non piace la birra. O perlomeno è così che è incominciato. Ma ora credo che siano le sue guardie che l’hanno requisita tutta. E poi, non gli piace che la gente giri; quindi, se proprio vuoi o devi muoverti devi andare alla Casa dei Guardacontea e spiegare i tuoi affari».
«Dovresti vergognarti di essere immischiato in tutte queste idiozie», disse Sam. «Tu stesso preferivi l’interno di un’osteria alla facciata. Ci andavi a tutte le ore, in servizio e fuori servizio».
«E ci andrei ancora, Sam, se potessi. Ma non essere severo. Che cosa posso fare? Lo sai che sono diventato Guardacontea sette anni fa prima che incominciasse tutta questa storia. Era un modo per girare il paese e vedere gente, e sentire le notizie, e sapere dov’era la buona birra. Ma ora è diverso».
«Ma puoi rinunciarci, smettere di essere un Guardacontea, se non è più un lavoro rispettabile», disse Sam.
«Non è permesso», disse Robin.
«Se sento ancora ripetere non è permesso», disse Sam, «ti assicuro che mi arrabbio».
«Ti confesso che non mi dispiacerebbe», disse Robin a bassa voce. «Se ci arrabbiassimo tutti insieme potremmo ottenere qualcosa. Ma sono questi Uomini, Sam, gli Uomini del Capo. Li manda dappertutto, e se uno di noi piccoli pretende che si riconoscano i suoi diritti, lo trascinano alle Cellechiuse. Hanno preso per primo il Sindaco, il vecchio Will Piedebianco, e poi ne hanno imprigionati molti altri. E in questi ultimi tempi le cose tendono a peggiorare. Adesso li battono spesso».
«Allora perché fai quello che ti ordinano?», disse Sam incollerito. «Chi ti ha mandato a Chianarana?».
«Nessuno. Viviamo qui nella grande Casa dei Guardacontea. Ora siamo la Prima Truppa del Decumano Est. Ci sono in tutto centinaia di Guardacontea, ma ce ne vogliono altri, con tutte queste nuove regole. La maggior parte è arruolata a forza, ma non tutti. Persino nella Contea ci sono quelli che vogliono impicciarsi degli affari altrui e darsi importanza. E c’è di peggio: ce ne sono alcuni che fanno la spia al Capo e ai suoi Uomini».
«Ah! Quindi è così che avete saputo di noi, non è vero?». «Proprio così. Noi non abbiamo il diritto di adoperarlo, ma loro usano il vecchio Servizio Postale Rapido, ed hanno speciali corridori in diversi punti. Ne è arrivato uno da Fossobianco ieri sera con un “messaggio segreto”, e un altro è partito da qui. E questo pomeriggio abbiamo ricevuto un messaggio che diceva di arrestarvi e di portarvi a Lungacque, e non direttamente alle Cellechiuse. Il Capo vuole vedervi immediatamente, a quanto pare».
«Non sarà più tanto ansioso quando il signor Frodo avrà finito di occuparsi di lui». disse Sam.
La Casa dei Guardacontea a Chianarana era tetra come la Casa del Ponte. Aveva un unico piano, ma le medesime finestre strette, ed era fatta di brutti mattoni sbiaditi e mal connessi. L’interno era umido e squallido, e la cena venne servita su di un lungo tavolo nudo che non era stato pulito per intere settimane. Il cibo non meritava un ambiante migliore. I viaggiatori furono felici di partire. Lungacque distava circa diciotto miglia, ed essi si misero in marcia alle dieci di mattina. Sarebbero partiti anche prima, ma il ritardo irritava palesemente il capo dei Guardacontea. Il vento dell’Ovest aveva girato e soffiava ora da nord, piuttosto freddo, ma la pioggia era finita.
Fu una cavalleria alquanto comica quella che si allontanò dal villaggio, anche se i pochi che uscirono a osservare i viaggiatori «arrestati e condotti all’interrogatorio» non sapevano s’era permesso ridere. Una dozzina di Guardacontea doveva scortare i «prigionieri»; ma Merry li fece marciare avanti, mentre Frodo ed i suoi amici cavalcavano dietro. Merry, Pipino e Sam sedevano tranquilli in sella, ridevano, conversavano e cantavano, mentre i Guardacontea marciavano sbuffando e cercando di avere l’aria severa e importante. Frodo tuttavia era silenzioso, e sembrava piuttosto triste e sconfortato.
L’ultima persona che superarono fu un vecchio contadino tarchiato che potava una siepe. «Salve! Salve!», sghignazzò. «Ma quali sono i prigionieri?».
Due Guardacontea abbandonarono immediatamente la comitiva e si diressero verso di lui. «Capo!», disse Merry, «Ordina ai tuoi ragazzi di tornare subito ai loro posti, se non vuoi che provveda io!».
A un rude ordine del capo i due Hobbit tornarono, imbronciati. «Ed ora, avanti!», disse Merry, e i viaggiatori fecero in modo che il passo dei loro puledri fosse abbastanza veloce da spingere avanti i Guardacontea alla massima andatura sopportabile. Il sole uscì, e malgrado il vento fresco questi sbuffavano e sudavano.
Alla Pietra dei Tre Decumani i Guardacontea si diedero per vinti. Avevano percorso circa quattordici miglia, con un’unica sosta a mezzogiorno. Erano affamati e indolenziti, e non riuscivano più a tenere il passo.
«Venite con calma!», disse Merry. «Noi andiamo avanti!».
«Addio, Robin», disse Sam. «Ti aspetterò davanti al Drago Verde, se non hai dimenticato dov’è. Non bighellonare, mi raccomando!».
«State infrangendo le norme, ecco!», disse il capo sconsolatamente, «e io non posso risponderne».
«Romperemo molte altre cose, e non ti chiederemo di risponderne», disse Pipino. «Buona fortuna a voi!».
I viaggiatori avanzarono al trotto, e quando il sole cominciò a tramontare sui Bianchi Poggi, lontano sulla linea dell’orizzonte, giunsero a Lungacque e al suo grande lago; e là ricevettero il primo colpo veramente doloroso. Questa era la terra di Frodo e di Sam, ed essi si accorsero ora di amarla più di qualunque altro posto al mondo. Molte delle case che conoscevano non esistevano più. Alcune sembravano essere state incendiate. La graziosa fila di antiche caverne hobbit sull’argine nord del Lago era in uno stato di miserevole abbandono, e i loro giardinetti che prima scendevano allegri e vivaci sino al bordo dell’acqua erano pieni di erbacce. Peggio ancora, vi era un’intera fila di orribili case nuove lungo la riva del Lago nel punto in cui la Via per Hobbiville costeggiava l’argine. In passato correva lì un viale alberato. Ora gli alberi erano scomparsi tutti. E guardando sconvolti in direzione di Casa Baggins, videro in lontananza un alto camino di mattoni. Vomitava fumo nero nell’aria della sera.
Sam era fuori di sé. «Io vado avanti, signor Frodo!», gridò. «Voglio vedere che cosa sta succedendo. Voglio trovare il mio Gaffiere».
«Dovremmo prima sapere che cosa ci attende, Sam», disse Merry. «Suppongo che il “Capo” avrà una schiera di banditi a portata di mano. Dovremmo trovare qualcuno che ci dica come stanno le cose da queste parti».
Ma nel villaggio di Lungacque tutte le case e le caverne erano chiuse, e nessuno li salutò. Essi si meravigliarono, ma ne scoprirono presto il motivo. Quando giunsero al Drago Verde, l’ultimo edificio in direzione di Hobbiville, ora desolato e con i vetri rotti, furono sgradevolmente colpiti dalla vista di una mezza dozzina di Uomini equivoci appoggiati al muro dell’osteria; avevano lo sguardo bieco e la pelle giallognola.
«Come quell’amico di Billy Felci a Brea», disse Sam.
«Come molti che ho visto a Isengard», mormorò Merry.
I banditi tenevano in mano dei randelli e dalle loro cinture pendevano dei corni, ma a quel che sembrava non possedevano altre armi. All’arrivo dei viaggiatori si staccarono dal muro e attraversarono la strada, bloccando il passaggio.
«Dove credete di andare?», disse uno di essi, il più grosso e malvagio della truppa. «La strada non continua per voi. E dove sono quei bei furbi di Guardacontea?».
«Stanno venendo con calma», disse Merry. «Forse un po’ indolenziti. Abbiamo promesso loro di aspettarli qui».
«Maledizione, che vi avevo detto?», disse il bandito ai suoi compagni. «Ho ripetuto più volte a Sharkey che non ci si poteva fidare di quei piccoli idioti. Avrebbero dovuto mandare alcuni dei nostri».
«Non ci sarebbe stata molta differenza», disse Merry. «Non siamo abituati ai predoni in questo paese, ma sappiamo come vanno trattati».
«Predoni, eh?», disse l’uomo. «La prendete su questo tono? Fareste bene a cambiarlo, o ve lo faremo cambiare noi. Voi piccoletti state diventando troppo sfrontati. Non affidatevi troppo al buon cuore del Capo. Sharkey è arrivato, e il Capo farà quel che dice Sharkey».
«E cioè?», chiese con calma Frodo.
«Questo paese ha bisogno di essere svegliato e messo a posto», disse il bandito, «e Sharkey lo farà, e userà la maniera forte, se lo costringerete. Avete bisogno di un Capo più grande. E ne avrete uno prima della fine dell’anno se vi saranno altri incidenti. Allora imparerete un paio di cose, piccoli topi».
«Davvero? Sono contento di conoscere i vostri piani», disse Frodo. «Intendo fare una visita al signor Lotho, e sarà anch’egli interessato a conoscerli».
Il bandito rise. «Lotho! Li conosce benissimo. Non ti preoccupare. Farà ciò che dice Sharkey. Perché se un Capo ci dà delle grane, noi lo cambiamo. Capito? E se dei piccoletti cercano di entrare dove non è permesso, sappiamo come impedir loro di nuocere. Capito?».
«Sì, capisco», disse Frodo. «Capisco innanzi tutto che siete rimasti un po’ a corto di notizie, qui. Sono accadute molte cose da quando lasciaste il Sud. Avete le ore contate, e con voi tutti gli altri banditi. La Torre Oscura è caduta, e vi è un Re a Gondor. Isengard è stata distrutta, e il vostro ineffabile padrone è un misero mendico sperduto. Gli sono passato vicino strada facendo. Sono i messaggeri del Re che percorrono ora il Verdecammino, e non più i teppisti d’Isengard».
L’uomo lo guardò e sorrise. «Un misero mendico sperduto!», schernì. «Davvero? Fai lo spavaldo, eh, piccolo sputasentenze? E invece, guarda un po’, noi continueremo a vivere in questo piccolo paese grasso dove avete poltrito a sufficienza». Fece un gesto volgare con le dita in faccia a Frodo: «Messaggeri del Re! Questo è per loro! Quando ne vedrò uno, forse ci farò caso».
Fu troppo per Pipino. Nella sua mente balenò il ricordo del Campo di Cormallen, ed ecco che un furfante dallo sguardo bieco chiamava il Portatore dell’Anello «piccolo sputasentenze». Aprì il suo manto e sguainò la spada sfavillante; e l’argento e il nero di Gondor brillarono su di lui mentre avanzò a cavallo.
«Io sono un messaggero del Re», disse. «Stai parlando al caro amico del Re, a una delle persone più famose in tutte le terre dell’Ovest. Sei un furfante e uno sciocco. In ginocchio per terra e chiedi perdono, o t’infilzerò con questa spada, terrore dei Troll!».
La lama scintillò alla luce del sole che tramontava. Merry e Sam sguainarono anch’essi le loro spade e raggiunsero Pipino per venirgli in aiuto. I banditi indietreggiarono. Il loro lavoro sinora era stato quello di spaventare i contadini di Brea e di maltrattare gli Hobbit stupefatti. Hobbit spavaldi con spade lucenti e visi spietati erano per loro una grande sorpresa. E vi era qualcosa nella voce di questi nuovi arrivati che non avevano mai udito prima, e che fece loro gelare il sangue nelle vene.
«Andatevene!», disse Merry. «Se importunate di nuovo questo villaggio lo rimpiangerete amaramente». I tre Hobbit avanzarono, e i banditi si voltarono e fuggirono, correndo per la Via di Hobbiville; ma mentre scappavano suonarono i corni.
«Ebbene, non siamo certo arrivati troppo presto!», disse Merry. «Neanche di un giorno. Forse troppo tardi, almeno Per salvare Lotho», disse Frodo. «È un povero sciocco, ma mi rincresce per lui».
«Salvare Lotho? Che cosa vorresti dire?», esclamò Pipino. «Io direi piuttosto distruggerlo».
«Non credo che tu comprenda esattamente la situazione, Pipino», disse Frodo. «Lotho non ha mai voluto che la situazione degenerasse in questo modo. È stato stupido e malvagio, ma ora è preso in trappola. I banditi hanno preso il sopravvento, saccheggiando, estorcendo e maltrattando, spadroneggiando e distruggendo a loro piacere, in suo nome. E neanche più in suo nome, fra breve. Suppongo che ora sia tenuto prigioniero a Casa Baggins, e divorato dalla paura. Dovremo cercare di salvarlo».
«Ebbene, io sono sbalordito!», disse Pipino. «Come conclusione del nostro viaggio questa è proprio l’ultima che mi sarei attesa: dover combattere contro una specie di Orchi e contro dei banditi nella stessa Contea… per salvare Lotho Pustola!».
«Combattere?», disse Frodo. «Suppongo che dovremo farlo. Ma ricordate: nessun Hobbit deve venire ucciso, nemmeno quelli che sono passati dall’altra parte. Intendo dire passati sul serio: non soltanto quelli che obbediscono perché hanno paura. Nessun Hobbit ne ha mai ucciso un altro intenzionalmente, nella Contea, e non è il caso di cominciare ora. E se è possibile cercate di non uccidere nessuno in assoluto. Controllatevi sino all’ultimo!».
«Ma se questi banditi sono in molti», disse Merry, «dovremo per forza combattere. Non salverai né Lotho né la Contea con quell’aria turbata e triste, mio caro Frodo».
«No», disse Pipino. «Non sarà tanto facile impaurirli una seconda volta. Sono stati colti di sorpresa. Hai sentito quel corno? Evidentemente vi sono altri furfanti nelle vicinanze. Saranno molto più spavaldi quando saranno più numerosi. Dovremmo cercarci un rifugio per la notte. Dopo tutto siamo soltanto in quattro, anche se siamo armati».
«Io ho un’idea», disse Sam. «Andiamo dal vecchio Tom Cotton in fondo al Viale Sud! È stato sempre un tipo robusto. Ed ha una quantità di figli che sono stati sempre miei amici».
«No!», disse Merry. «Non serve “cercarsi un rifugio”. È proprio ciò che la gente ha fatto sinora, e ciò che questi furfanti vogliono. Ci assalirebbero tutti insieme, ci metterebbero con le spalle al muro, e poi ci costringerebbero a uscire, o ci brucerebbero vivi. No, dobbiamo fare immediatamente qualcosa».
«Fare che cosa?», disse Pipino.
«Sollevare la Contea!», disse Merry. «Subito! Svegliare tutta la gente! Odiano questa situazione, è palese: la odiano tutti eccetto un paio di mascalzoni e di imbecilli che si vogliono dare importanza, ma non si rendono affatto conto di quel che sta effettivamente accadendo. La gente della Contea ha avuto la vita facile per tanto tempo che ora non sa che fare. Ma basterà una fiammella per farli avvampare tutti. Gli Uomini del Capo lo sanno, e cercheranno di metterci a tacere al più presto. Abbiamo pochissimo tempo.
«Sam, puoi fare una corsa da Cotton, se vuoi. È la persona Più importante da queste parti, e la più robusta. Coraggio. Io suonerò il corno di Rohan, e sentiranno della musica nuova per le loro orecchie».
Tornarono al centro del villaggio. Lì Sam galoppò giù per il viale che conduceva dai Cotton. Aveva percorso un breve tratto, quando udì all’improvviso il chiaro suono di un corno squillare in cielo. Echeggiò per colli e per campi, e il richiamo era talmente perentorio che lo stesso Sam stava per tornare indietro a gran carriera. Il suo puledro s’impennò e nitrì.
«Su, bello! Su!», egli gridò. «Torneremo presto».
Poi udì Merry cambiare nota, e l’aria fu squarciata dal Richiamo della Terra di Buck:
Sveglia! Sveglia! Fuoco, Nemici, Paura! Sveglia!
Fuoco, Nemici! Sveglia!
Sam udì alle sue spalle un gran vociare e rumore di porte. Innanzi a lui si accendevano luci nel crepuscolo, i cani abbaiavano, la gente arrivava correndo. Prima che giungesse alla fine del viale vide il vecchio Cotton precipitarsi insieme con tre dei suoi figli, Tom, Jolly e Nick. Brandivano delle asce, e gli sbarrarono la strada.
«No, non è uno di quei banditi!», Sam udì esclamare il vecchio Cotton. «È un Hobbit, date le dimensioni, ma vestito in modo strano. Ehi!», gridò. «Chi sei, e che cos’è tutto questo baccano?». «Sono Sam, Sam Gamgee. Sono tornato».
Il vecchio Cotton si avvicinò a osservarlo nella luce del crepuscolo. «Ebbene!», esclamò. «La voce è quella, e il tuo viso non è peggiorato, Sam. Ma se ti avessi incontrato per la strada non ti avrei riconosciuto con tutte queste bardature. A quanto pare sei stato all’estero. Temevamo che fossi morto».
«No di certo!», disse Sam. «E neanche il signor Frodo. È qui con i suoi amici. Ed è questo il motivo del baccano. Stanno sollevando la Contea. Vogliamo far fuori tutti questi banditi, compreso il loro Capo. Stiamo incominciando adesso».
«Bene, bene!», gridò Cotton. «Allora è finalmente arrivato il momento! Da un anno ormai le mani mi prudevano, ma la gente non voleva aiutarmi. E io dovevo pensare a mia moglie e a Rosie. Questi non rispettano nulla. Ma ora andiamo, ragazzi! Lungacque si ribella! Dobbiamo dare una mano!».
«Ma, la signora Cotton e Rosie?», disse Sam. «Non è prudente lasciarle sole».
«Il mio Nibs è rimasto con loro. Ma puoi andare ad aiutarlo, se vuoi», disse Cotton con un sorriso. Poi partì di corsa con i figli verso il centro del paesino.
Sam si affrettò a raggiungere la casa. In cima alle scale, oltre l’ampio atrio, la signora Cotton e Rosie erano in piedi accanto alla grande porta rotonda, e davanti a loro Nibs brandiva una forca.
«Sono io!», gridò Sam. «Sam Gamgee! Quindi non cercare d’infilzarmi, Nibs. E comunque sono protetto da una cotta di maglia».
Balzò giù dal puledro e salì di corsa le scale. Essi lo guardarono in silenzio. «Buona sera, signora Cotton!», egli disse. «Salve, Rosie!».
«Salve, Sam», disse Rosie. «Dove sei stato? Dicevano che eri morto; ma io ti aspettavo già in Primavera. Non hai avuto molta fretta, vero?».
«Forse no», disse Sam arrossendo. «Ma ora ne ho molta. Stiamo regolando i conti con i banditi, e devo tornare dal signor Frodo. Ma ho pensato di fare un salto a vedere come stavano la signora Cotton e Rosie».
«Stiamo bene, grazie», disse la signora Cotton. «O staremmo bene se non ci fossero questi furfanti».
«E allora, spicciati!», disse Rosie. «Ti sei occupato del signor Frodo per tutto questo tempo; vuoi lasciarlo ora che le cose diventano pericolose?».
Fu troppo per Sam. Ci sarebbe voluta una risposta lunga una settimana, o nessuna risposta del tutto. Volse le spalle e montò sul suo puledro. Ma mentre stava per partire Rosie corse giù per le scale.
«Ti trovo bene, Sam», disse. «Va’! Ma sii prudente, e torna non appena avrai sistemato i banditi!».
Al suo ritorno Sam trovò l’intero villaggio in piedi. Oltre a parecchi ragazzi più giovani, più di cento vigorosi Hobbit erano già radunati, muniti di asce, pesanti martelli, lunghi pugnali e grossi bastoni; alcuni avevano degli archi. Ne arrivavano molti altri dalle fattorie circostanti.
Alcuni abitanti del villaggio avevano acceso un grande falò, per rallegrare l’atmosfera e perché era una delle cose proibite dal Capo. Man mano che si faceva notte il fuoco ardeva e avvampava. Altri, seguendo gli ordini di Merry, ergevano barricate attraverso la strada ad ambedue le estremità del paesino. Quando i Guardacontea si trovarono innanzi a quella che sbarrava la via a sud rimasero allibiti, ma non appena videro come stavano le cose, i più si tolsero le piume e si unirono ai rivoltosi. Gli altri strisciarono via.
Sam trovò Frodo e i suoi amici accanto al falò, mentre conversavano con il vecchio Cotton, circondati da una folla che li osservava piena di ammirazione.
«Ebbene, qual è la prossima mossa?», domandò Cotton.
«Non posso dirtelo», rispose Frodo, «se non ho altre informazioni. Quanti furfanti ci sono in tutto?».
«È difficile a dirsi», rispose Cotton. «Si muovono molto, vanno e vengono. A volte ve ne sono cinquanta lassù nei loro capannoni a Hobbiville; ma non restano là: vanno in giro, rubando o “raccogliendo”, come dicono loro. Ma comunque ve ne sono quasi sempre almeno dodici intorno al Capo, come lo chiamano loro. Sta a Casa Baggins, ora, o ci stava. Ma non va più in giro, ormai. A dire il vero nessuno lo ha visto nelle ultime due settimane; ma gli Uomini non permettono a nessuno di avvicinarsi». «Hobbiville non è la loro unica sede, vero?», disse Pipino. «Purtroppo no», rispose Cotton. «Ce ne sono un bel po’ giù a sud, a Pianilungone e vicino a Sarnoguado, ho saputo; altri infestano Terminalbosco, e hanno costruito capannoni a Quadrivio. E poi ci sono quelle che chiamano le Cellechiuse: i vecchi magazzini in forma di tunnel, a Pietraforata: li hanno trasformati in prigioni per coloro che si ribellano. Eppure non credo che siano più di trecento in tutta la Contea, e forse anche di meno. Li possiamo sopraffare, se siamo tutti uniti».
«Hanno armi?», domandò Merry.
«Fruste, pugnali e randelli: bastano per il loro sporco mestiere; non ci hanno mostrato altro, sinora», disse Cotton. «Ma credo che in caso di combattimento usciranno fuori altri arnesi. Tra l’altro, alcuni hanno degli archi. Hanno ucciso uno o due dei nostri».
«Lo vedi, Frodo!», disse Merry. «Sapevo che avremmo dovuto combattere. E sono stati loro i primi a uccidere».
«Non esattamente», disse Cotton. «O comunque non hanno incominciato loro con le frecce. Sono stati i Tuc. Vedete, vostro padre, signor Peregrino, non ha mai voluto avere a che fare con questo Lotho, sin dall’inizio: diceva che se qualcuno doveva essere il capo, l’incarico sarebbe spettato al vero Conte della Contea, e non al primo venuto. E quando Lotho mandò i suoi Uomini, non riuscirono certo a fargli cambiare idea. I Tuc sono fortunati, hanno quelle profonde caverne nelle Verdi Colline, i Grandi Smial, e i furfanti non possono raggiungerli; e sono riusciti a impedire persino che calpestassero le loro terre. Se si azzardano, i Tuc li fanno fuori. Ne hanno ammazzati tre che rubavano e gironzolavano. Da allora i banditi sono diventati più malvagi, e sorvegliano la Tuclandia da vicino. Ormai nessuno più ne esce o ne entra».
«Evviva i Tuc!», gridò Pipino. «Ma ora qualcuno dovrà entrarvi. Io vado agli Smial. Chi mi accompagna a Tucboro?».
Pipino partì con una mezza dozzina di ragazzi a cavallo. «A presto!», gridò. «Non sono più di quattordici miglia prendendo per i campi. Vi riporterò un esercito di Tuc domattina». Merry fece squillare il corno mentre scomparivano nelle tenebre, fra le acclamazioni della folla.
«Ciò nonostante», disse Frodo a coloro che gli erano vicini, «non desidero morti: nemmeno fra i banditi, a meno che non sia proprio indispensabile per impedir loro di maltrattare gli Hobbit».
«Va bene!», disse Merry. «Ma riceveremo presto una visita da parte della banda di Hobbiville. Non verranno certo per discutere. Cercheremo di trattarli bene, ma dobbiamo essere pronti al peggio. Ho un piano».
«Benissimo», disse Frodo. «Organizza tutto tu».
In quel momento arrivarono correndo degli Hobbit che erano stati mandati verso Hobbiville. «Stanno arrivando!», dissero. «Una ventina o più. Ma due se ne sono andati verso ovest attraverso i campi».
«A Quadrivio, naturalmente», disse Cotton, «a cercare rinforzi. Sono quindici miglia per andare e altrettante per tornare. Inutile preoccuparci di loro per ora».
Merry si affrettò a dare ordini. Cotton fece sgomberare le strade, mandando tutti dentro casa, eccetto gli Hobbit più anziani muniti di un’arma qualsiasi. Non dovettero attendere molto. Udirono voci rumorose e passi pesanti; infine, videro apparire un’intera squadra di banditi. Questi risero alla vista della barriera. Non immaginavano che vi fosse in quel piccolo paese qualcosa capace di resistere a venti banditi della loro specie.
Gli Hobbit aprirono la barriera e fecero loro largo. «Grazie!», li schernirono gli Uomini. «Ora correte a casa a dormire se non volete la frusta!». Poi avanzarono per la strada urlando: «Spegnete quelle luci! Entrate in casa e rimaneteci! Altrimenti ne prenderemo cinquanta e li rinchiuderemo nelle Cellechiuse per un anno! Entrate! Il Capo sta perdendo la pazienza».
Nessuno fece caso agli ordini dei banditi; a mano a mano che avanzavano, tutti li seguivano silenziosamente. Quando gli Uomini giunsero al falò, il vecchio Cotton era lì da solo e si riscaldava le mani.
«Chi sei, e che cosa credi di fare?», disse il capobanda.
Il vecchio Cotton lo osservò a lungo. «Stavo proprio per chiederti la stessa cosa», disse. «Questo non è il tuo paese, e non ti vogliamo».
«Ebbene, noi vogliamo te in ogni caso», disse il capo. «Prendetelo, ragazzi! Le Cellechiuse lo aspettano, e lo terranno tranquillo per qualche tempo».
Gli Uomini fecero un passo avanti e si fermarono di botto. Tutt’intorno a loro si levò un fragore di voci, e improvvisamente si accorsero che Cotton non era del tutto solo. Erano circondati. Si era formato un cerchio di Hobbit ai bordi della luce del falò: ve n’erano almeno duecento, e tutti muniti di un’arma.
Merry si fece avanti. «Ci siamo già conosciuti», disse al capo, «e ti avevo avvertito di non tornare. Ti avverto di nuovo: sei in piena luce e circondato da arcieri. Se tocchi quest’Hobbit o chiunque altro, sarai ucciso all’istante. Posate per terra le vostre armi!».
Il capo si guardò intorno. Era in trappola. Ma non aveva paura, con venti dei suoi Uomini ad aiutarlo. Conosceva troppo male gli Hobbit per potersi rendere conto del pericolo. Stolidamente, decise di lottare. Sarebbe stato facile aprirsi un varco. «Coraggio, ragazzi!», gridò. «Suonategliele!».
Con un lungo pugnale nella sinistra e un randello nella destra si precipitò contro il cerchio di Hobbit, cercando di fuggire verso Hobbiville. Tentò di vibrare un violento colpo a Merry che gli sbarrava la strada. Cadde morto trafitto da quattro frecce.
Fu sufficiente anche per gli altri. Cedettero immediatamente. Furono disarmati e legati insieme, e condotti in una capanna vuota che loro stessi avevano costruita; lì furono legati mani e piedi, chiusi dentro e sorvegliati. Il cadavere del capo fu portato via e seppellito.
«Sembra quasi troppo facile, dopo tutto, vero?», disse Cotton. «Dicevo che ce l’avremmo fatta a sconfiggerli, ma che avevamo bisogno di una spinta. Siete tornato proprio al momento giusto, signor Merry».
«Rimane ancora molto da fare», disse Merry. «Se i tuoi calcoli sono giusti, abbiamo regolato i conti con meno di un decimo dei briganti. Ma ora si sta facendo buio. Credo che per la prossima mossa dovremo aspettare il mattino. Dovremo fare una visita al Capo».
«Perché non subito?», disse Sam. «Sono soltanto le sei. E io voglio vedere il mio Gaffiere. Sai che ne è di lui, Cotton?».
«Non sta né troppo male né troppo bene, Sam», rispose il vecchio Cotton. «Hanno sradicato tutti gli alberi di via Saccoforino, ed è stato per lui un brutto colpo. Ora abita una di quelle case nuove che gli Uomini del Capo costruivano quando facevano ancora qualcosa oltre a incendiare e rubare: dista non più di un miglio dalle ultime case di Lungacque. Ma viene a trovarmi, quando ne ha l’occasione, e io faccio in modo che venga nutrito un po’ meglio di quei disgraziati. Tutto contro Le Regole, naturalmente. L’avrei ospitato in casa mia, ma è severamente proibito».
«Grazie infinite, signor Cotton, non lo dimenticherò mai», disse Sam. «Ma voglio vederlo. Quel Capo e quel Sharkey di cui parlavano potrebbero combinare dei guai lassù prima che venga il mattino».
«Va bene, Sam», disse Cotton. «Prendi un paio di ragazzi e cercalo; poi, portalo da me. Non è necessario che passi vicino al vecchio villaggio di Hobbiville sull’Acqua. Il mio jolly ti mostrerà la strada».
Sam partì. Merry collocò delle sentinelle intorno al paese e delle guardie notturne alle barriere. Poi si recò con Frodo in casa del vecchio Cotton. Sedettero con la famiglia nella calda cucina, ed i Cotton per cortesia si informarono dei loro viaggi, ma non ascoltarono quasi le risposte: erano molto più interessati agli eventi della Contea.
«Incominciò tutto con Pustola, come lo chiamiamo noi», disse Cotton; «e incominciò appena siete partito voi, signor Frodo. Aveva delle strane idee, quel Pustola. Voleva essere lui il proprietario di tutto, e comandare la gente. Presto si scoprì che possedeva infatti già più di quanto gli spettasse; e continuava ad accaparrare roba, e tutti si domandavano da dove prendesse i soldi: mulini e osterie, piantagioni di erba-pipa e fattorie. A quanto pare, aveva già comperato il mulino di Sabbioso prima di installarsi a Casa Baggins.
«Naturalmente incominciò con l’ereditare da suo padre un sacco di proprietà nel Decumano Sud, e pare che da tempo vendesse i migliori raccolti di erba-pipa, inviandoli di nascosto all’estero. Ma alla fine dell’anno scorso incominciò a mandar via carri interi di roba, e non soltanto di erba. Le provviste scarseggiavano e si avvicinava l’inverno. La gente era furiosa, ma lui sapeva come rispondere. Venivano continuamente Uomini, per lo più furfanti, alcuni per portare via la roba in grossi carri, altri per rimanere sul posto. E ne arrivarono sempre di più. E prima che ci accorgessimo di quel che stava succedendo, si erano installati qua e là in tutta la Contea, e tagliavano gli alberi e scavavano e si costruivano capanne e case dove e come pareva a loro. Da principio Pustola pagava i danni e la merce, ma poi loro incominciarono a comportarsi da padroni e ad impadronirsi di ciò che volevano.
«Poi ci fu chi reagì, ma non molti. Il vecchio Will, il Sindaco, andò a protestare a Casa Baggins, ma non vi giunse mai. I banditi lo presero e lo rinchiusero in una caverna a Pietraforata, ed è ancora lì. Da allora, cioè da Capodanno, non abbiamo più avuto Sindaco, e Pustola si fece chiamare Capo Guardacontea, o soltanto Capo, e incominciò a fare quel che voleva; e se qualcuno diventava, come diceva lui, “sfrontato”, faceva la stessa fine di Will. E così le cose sono andate di male in peggio. Eccetto gli Uomini, nessuno aveva roba da fumare; il Capo non tollerava che altri, all’infuori dei suoi Uomini, bevessero birra, e chiuse tutte le osterie; le uniche cose che crescevano erano le Regole, e gli Uomini andavano in giro raccogliendo tutto “per un’equa distribuzione”: il che significava che loro prendevano tutto e noi niente, salvo i rimasugli che venivano distribuiti dalle Case dei Guardacontea a quelli che riuscivano a digerirli. Di male in peggio. Ma da quando è arrivato Sharkey è stata la rovina completa».
«Chi è questo Sharkey?», domandò Merry; «ho sentito uno dei banditi parlare di lui».
«Evidentemente, il furfante più grosso di tutti», rispose Cotton. «Era l’epoca dello scorso raccolto, verso la fine di settembre, quando ne udimmo parlare per la prima volta. Non l’abbiamo mai visto, ma sta lassù a Casa Baggins, ed è lui adesso il vero Capo. Tutti i banditi fanno quel che dice lui, e cioè soprattutto: tagliare, bruciare, distruggere; ed ora hanno incominciato anche a uccidere. Ma ormai, senza motivo. Tagliano gli alberi e li lasciano per terra, incendiano le case e non ne costruiscono altre.
«Pensate al mulino di Sabbioso. Pustola lo demolì non appena si fu insediato a Casa Baggins. Poi chiamò un branco di loschi individui a costruirne uno più grosso, e lo riempì di ruote e di aggeggi stranieri. Solo quello stupido di Ted ne fu contento e adesso lavora lì, e pulisce le ruote per far piacere agli Uomini, mentre suo padre era il Mugnaio e il padrone. L’idea di Pustola era di macinare di più e più in fretta, a sentir lui. Ha altri mulini simili. Ma per macinare ci vuole grano, e non ve n’era certo di più per il mulino nuovo che per quello vecchio. Ma da quando è arrivato Sharkey non macinano più del tutto. Stanno sempre a martellare, e fanno uscire un fumo nero e puzzolente; a Hobbiville ormai non c’è pace neanche di notte. E scaricano sudiciume per puro piacere: hanno inquinato tutto il basso corso dell’Acqua, e stanno per rovinare anche il Brandivino. Se vogliono trasformare la Contea in un deserto, ci stanno riuscendo bene. E non credo che quello stupido di un Pustola sia alla base di tutto. Io dico che è Sharkey».
«Proprio così!», interloquì il giovane Tom. «Figuratevi, hanno persino preso la vecchia madre di Pustola, quella Lobelia, e lui le era affezionato, anche se tutti la odiavano. Alcune persone di Hobbiville hanno visto tutto. Lei scendeva il viale con il suo vecchio ombrello. Alcuni banditi salivano con un carro.
«“Si può sapere dove andate?”, dice lei.
«“A Casa Baggins”, rispondono loro.
«“A far che?”, dice lei.
«“A installare dei capannoni per Sharkey”, dicono loro.
«“Chi vi ha dato il permesso?”, dice lei.
«“Sharkey”, dicono loro. “Quindi, togliti di mezzo, vecchia megera!”.
«“Ve lo faccio vedere io, il vostro Sharkey, sporchi ladri e farabutti!”, dice lei, e alzando l’ombrello si precipita sul capo, due volte più grande e grosso di lei. Così l’hanno presa, e trascinata alle Cellechiuse, alla sua età. Vi sono altri che rimpiangiamo di più, ma bisogna ammettere che lei ha mostrato più coraggio di molti».
Mentre discorrevano così arrivò Sam con il suo Gaffiere. Il vecchio Gamgee non sembrava invecchiato, ma soltanto un po’ più sordo.
«Buona sera, signor Baggins!», disse. «Sono proprio felice di rivedervi sano e salvo. Ma ho un conto da regolare con voi, se permettete. Non avreste mai dovuto vendere Casa Baggins, l’ho sempre detto. È stata quella l’origine di tutti i guai. E mentre voi gironzolavate in paesi stranieri, cacciando Uomini Neri su per le montagne, a sentire Sam, che però non mi ha spiegato il perché, loro hanno demolito via Saccoforino, rovinando tutte le mie piante!».
«Sono desolato signor Gamgee», disse Frodo. «Ma ora sono ritornato, e farò il possibile per fare ammenda».
«Ebbene, non potevate parlare meglio», disse il Gaffiere. «Il signor Frodo Baggins è un vero gentilhobbit, l’ho sempre detto, malgrado ciò che si possa pensare di altri che hanno lo stesso cognome, col vostro permesso. E spero che il mio Sam si sia comportato bene e vi abbia soddisfatto».
«Mi ha soddisfatto in tutto e per tutto, signor Gamgee», disse Frodo. «Anzi, figuratevi che ora è una delle persone più famose che vi siano; stanno scrivendo canzoni che descrivono le sue gesta da qui al Mare e oltre il Grande Fiume». Sam arrossì, ma guardò Frodo pieno di gratitudine, perché gli occhi di Rosie brillavano ed ella lo guardava sorridendo.
«Ci vuole un bel po’ per crederci», disse il Gaffiere, «ma vedo che ha frequentato strane compagnie. Che ne è dei suoi vestiti? Non mi piace che si porti roba di ferro, anche se dicono che è elegante».
La famiglia del vecchio Cotton e tutti i suoi ospiti erano in piedi di prima mattina. Non si era sentito nulla durante la notte, ma certo qualcosa sarebbe accaduto fra non molto. «Sembrerebbe che non sia rimasto nessun furfante lassù a Casa Baggins», disse Cotton; «ma la banda di Quadrivio arriverà da un minuto all’altro».
Dopo colazione giunse un messaggero da Tucboro. Era di ottimo umore. «Il Conte ha sollevato tutto il paese», disse, «e le notizie si spargono come fuoco nella paglia. I furfanti che sorvegliavano le nostre terre sono fuggiti verso sud; intendo dire, i pochi rimasti vivi. Il Conte li ha inseguiti, per trattenere là il grosso della banda; ma ha rimandato qui il signor Peregrino con tutta la gente di cui poteva fare a meno».
Le notizie successive furono meno soddisfacenti. Merry, che era rimasto fuori per tutta la notte, tornò al galoppo verso le dieci. «Vi è una grossa banda a circa quattro miglia di distanza», disse. «Stanno venendo da Quadrivio, e sono stati raggiunti da un buon numero di fuggiaschi. Sono circa un centinaio, e bruciano ogni cosa lungo la strada. Maledetti!».
«Ah! Questi non resteranno a chiacchierare, questi uccideranno se ne avranno modo», disse il vecchio Cotton. «Se i Tuc non arrivano prima, ci conviene metterci al riparo e uccidere senza discutere. Ci sarà da combattere, prima di aver risolto la situazione, signor Frodo».
Ma i Tuc arrivarono prima. Erano un centinaio, radunati a Tucboro e alle Verdi Colline con Pipino in testa. Merry ormai disponeva di un numero sufficiente di robusti Hobbit, e poteva tranquillamente occuparsi dei banditi. Delle vedette riferirono che i nemici si tenevano in gruppo compatto. Sapevano che le campagne si erano sollevate contro di loro, e intendevano evidentemente regolare i conti con i ribelli in modo spietato, assalendone i capi a Lungacque. Ma per quanto sembrassero decisi e crudeli, non avevano un capo esperto nell’arte della guerra, e avanzavano senza precauzioni. Merry fece rapidamente i propri piani.
I banditi arrivarono dalla Via Orientale, e senza fermarsi presero la Via di Lungacque, che saliva fiancheggiata da alti argini sormontati da piccole siepi. Dopo una svolta, a un paio di centinaia di metri dalla strada maestra, incontrarono una robusta barricata fatta di vecchi carri capovolti. Furono costretti a fermarsi. In quell’istante si accorsero che le siepi da ambedue i lati della strada, appena più in alto delle loro teste, erano covi di Hobbit. Alle loro spalle arrivavano ora altri Hobbit spingendo dei carri che erano nascosti nei campi, e bloccando loro la via di ritorno. Una voce parlò dall’alto.
«Ebbene, siete caduti in trappola», disse Merry. «I vostri amici di Hobbiville hanno fatto esattamente la stessa cosa, uno di essi è morto e gli altri sono prigionieri. Deponete le armi! Poi indietreggiate di venti passi e sedetevi. Chiunque tenti di fuggire verrà ucciso».
Ma non era facile ormai intimidire i furfanti. Alcuni di essi obbedirono, ma furono immediatamente costretti dai loro compagni a non cedere. Una ventina o più cercò di evadere assaltando i carri. Sei caddero morti, ma gli altri riuscirono a fuggire, uccidendo due Hobbit e sparpagliandosi nei campi in direzione di Terminalbosco. Altri due caddero mentre correvano. Merry suonò il suo corno, e da lontano ne risposero altri.
«Non faranno molta strada», disse Pipino. «Tutta la campagna è ormai piena di nostri cacciatori».
Nel frattempo gli Uomini intrappolati nella strada cercavano di scavalcare la barricata e le siepi, e gli Hobbit furono costretti a ucciderne molti con le frecce o con le asce. Ma molti dei più forti e dei più disperati riuscirono a trovare un varco dalla parte occidentale, attaccando selvaggiamente i loro avversari, come se ormai mirassero più a uccidere che a fuggire. Parecchi Hobbit caddero, e i superstiti stavano per cedere quando Merry e Pipino, che si trovavano dall’altra parte, si precipitarono attraverso la strada caricando i banditi. Merry stesso uccise il capo, un grosso bruto dall’occhio bieco, simile a un enorme Orco. Poi ritirò le sue forze, circondando gli ultimi Uomini con un anello di arcieri.
Finalmente la battaglia finì. Circa settanta banditi giacevano morti nei campi, e una dozzina era in catene. Diciannove Hobbit erano rimasti uccisi, e trenta feriti. I banditi morti furono caricati sopra un carro e trasportati sino a un vecchio pozzo, ove furono seppelliti: quello fu poi chiamato il Pozzo della Battaglia. Gli Hobbit caduti furono deposti tutti insieme in una tomba sul fianco della collina, dove venne poi eretta una grande lapide circondata da un giardino. Così terminò la Battaglia di Lungacque, 1419, l’ultima battaglia combattuta nella Contea, e l’unica dopo quella di Terreverdi, 1147, nel Decumano Nord. Di conseguenza, benché di fatto non fosse costata che poche vite, le fu destinato un intero capitolo nel Libro Rosso, e i nomi di tutti i partecipanti furono scritti in una Lista e imparati a memoria dagli storici della Contea. E la crescente fama e fortuna dei Cotton data proprio da quell’epoca; ma in cima a tutte le Liste in ogni narrazione si leggono i nomi dei Capitani Meriadoc e Peregrino.
Frodo aveva partecipato alla battaglia, ma senza sguainare la spada, e la sua preoccupazione maggiore era stata di impedire che gli Hobbit, furibondi per le loro perdite, uccidessero quei nemici che avevano abbandonato le armi. Quando la battaglia fu finita e ogni cosa fu in ordine, Merry, Pipino e Frodo accompagnato da Sam tornarono tutti insieme dai Cotton. Pranzarono, e poi Frodo disse con un sospiro: «Ebbene, suppongo che ormai sia tempo di occuparsi del Capo».
«Sì, più presto è meglio è», disse Merry. «E non essere troppo tenero! È responsabile di aver fatto entrare tutti questi furfanti, e di tutto il male che hanno fatto».
Cotton raccolse una scorta di due dozzine di robusti Hobbit. «È soltanto una supposizione che non vi siano più banditi a Casa Baggins», disse; «non si può mai sapere». Poi si misero in marcia. Frodo, Sam, Merry e Pipino facevano strada.
Fu una delle ore più tristi della loro vita. La grande ciminiera si ergeva innanzi a loro, e man mano che attraversavano l’antico villaggio, passando davanti a lunghe file di squallide case nuove, videro il nuovo mulino in tutta la sua sporca bruttezza: un grosso edificio di mattoni a cavallo del corso d’acqua, che esso inquinava con i suoi vapori e i luridi rigurgiti. Lungo tutta la Via di Lungacque gli alberi erano stati abbattuti.
Quando attraversarono il ponte e guardarono in direzione del Colle, rimasero con il fiato mozzo. Persino la visione apparsa a Sam nello Specchio non l’aveva preparato ad una cosa simile. Il Vecchio Granaio sul lato occidentale era stato demolito, e sostituito da filari di orridi capannoni. Tutti i castagni erano scomparsi. Gli argini e le siepi erano rotti. Grandi carri occupavano un campo ove un tempo cresceva un prato. Via Saccoforino era un’immensa cava di sabbia e di pietrisco. Casa Baggins era nascosta alla vista da un groviglio di capanne.
«L’hanno abbattuto!», gridò Sam. «Hanno abbattuto l’Albero della Festa!». Mostrò il punto in cui si trovava l’albero sotto il quale Bilbo aveva pronunciato il suo Discorso di Addio. Esso giaceva secco in mezzo al campo. Come se fosse stata la goccia destinata a far traboccare il vaso, Sam scoppiò in lacrime.
Una risata le arrestò immediatamente. Un Hobbit dall’aria villana era appoggiato al muretto del cortile del mulino. Aveva il viso sudicio e le mani nere. «Non ti piace, Sam?», sghignazzò. «Ma sei sempre stato un cuore tenero. Credevo che te ne fossi andato in una di quelle barche delle quali cianciavi sempre, con tante tante vele. Che cosa sei tornato a fare? Abbiamo molto lavoro adesso, nella Contea».
«Me ne accorgo», disse Sam. «Non c’è tempo per lavarsi, ma ce n’è per appoggiarsi ai muri. Ma sta” bene attento, Messere Sabbioso, ho un conto da regolare in questo villaggio, e non allungarlo più del lecito con il tuo scherno o sarà troppo salato per la tua borsa».
Ted Sabbioso sputò oltre il muretto. «Garn!», disse. «Non puoi toccarmi. Sono un amico del Capo. Ma ti assicuro che lui ti toccherà, se sento ancora qualche parola».
«Non sprecare tempo con quell’idiota, Sam!», disse Frodo. «Spero che non vi siano molti altri Hobbit diventati come lui. Sarebbe un guaio più grosso di tutti i danni fatti dagli Uomini».
«Sei sporco e insolente, Sabbioso», disse Merry. «Ed hai sbagliato i tuoi calcoli. Stiamo salendo il Colle per togliere di mezzo il tuo amatissimo Capo. Abbiamo già regolato i conti con i suoi Uomini».
Ted rimase con il fiato mozzo, perché in quell’istante notò la scorta che ora ad un segnale di Merry marciava attraverso il ponte. Precipitandosi nel mulino ne uscì correndo e brandendo un corno, e lo suonò con tutta la forza dei suoi polmoni.
«Risparmiati il fiato!», rise Merry. «Ho di meglio». Allora alzò in alto il suo corno d’argento e lo fece squillare, e il limpido richiamo echeggiò oltre il Colle; e da ogni caverna, capanna e casa di Hobbiville gli Hobbit risposero e irruppero nelle strade gridando e acclamando, e seguirono la compagnia lungo la via che portava a Casa Baggins.
In cima al viale tutti si fermarono, e Frodo ed i suoi amici proseguirono; giunsero infine in quel luogo un tempo tanto amato. Il giardino era pieno di capanne e di magazzini, alcuni talmente vicini alle finestre occidentale che impedivano completamente il passaggio della luce. Vi erano dappertutto pile d’immondizia. La porta era piena di fessure e di crepe; il campanello penzolava e non emetteva alcun suono. Bussarono, ma non ebbero risposta. Finalmente spinsero la porta, che cedette subito. Entrarono. La casa puzzava ed era piena di sporcizia e di disordine: sembrava non essere stata abitata da diverso tempo.
«Dove si nasconde quel verme di Lotho?», disse Merry. Avevano cercato in ogni stanza, trovando soltanto topi e ratti. «Diciamo agli altri di perlustrare i capannoni?».
«Questo è peggio di Mordor!», disse Sam. «Molto peggio, in un certo senso. Ti colpisce dritto al cuore, come si suol dire, perché questa era la casa del cuore, e ce la ricordiamo come era prima».
«Sì, questo è Mordor», disse Frodo. «Una delle sue opere. Saruman lavorava per Mordor, anche quando credeva di fare i propri comodi. E lo stesso è accaduto per coloro che furono ingannati da Saruman, come Lotho».
Merry si guardò intorno, sconsolato e disgustato: «Usciamo!», disse. «Se avessi saputo tutto il male che aveva fatto, glielo avrei ficcato in gola il mio sacchetto, a Saruman!».
«Non ne dubito, non ne dubito! Ma non l’hai fatto, e quindi posso accoglierti qui a casa». In piedi sulla porta vi era Saruman in persona, ben nutrito e soddisfatto; i suoi occhi scintillavano dalla malvagità e dal divertimento.
Frodo fu improvvisamente illuminato da un’idea. «Sharkey!», gridò.
Saruman rise. «Così hai udito quell’appellativo, vedo. Tutta la mia gente soleva chiamarmi così a Isengard. Probabilmente in segno d’affetto[18]. Ma a quanto pare non vi aspettavate di vedermi qui».
«Non ce l’aspettavamo», disse Frodo. «Ma avremmo potuto immaginarlo: di un po’ di malvagità meschina, Gandalf mi aveva avvertito che eri ancora capace».
«Perfettamente capace», disse Saruman, «e più di un po’. Mi facevate ridere, piccoli vanitosi Hobbit, mentre cavalcavate con tutta quella grande folla, così sicuri e soddisfatti delle vostre personcine. Credevate di essere stati bravissimi, certi che non vi restava se non tornare tranquillamente a casa e godervi la campagna. La casa di Saruman poteva venire distrutta e lui messo sul lastrico, ma nessuno poteva toccare la vostra. Oh no! Gandalf si sarebbe curato dei vostri affari!». Saruman rise nuovamente. «Non lui! Quando i suoi strumenti hanno fatto il loro dovere lui li molla. Ma voi sentivate il bisogno di ciondolare appesi a lui, chiacchierando e perdendo tempo, e compiendo un percorso lungo il doppio del necessario. “Bene”, mi sono detto io; “se sono talmente stupidi arriverò prima di loro e darò loro una lezione. Un brutto tiro merita una risposta”. E sarebbe stata una lezione ancora più severa se mi aveste lasciato più tempo e più Uomini. Comunque, sono riuscito a fare molto, e troverete assai difficile disfare o aggiustare il tutto durante la vostra vita. E sarà molto piacevole per me pensare che sono riuscito a vendicarmi di parte delle mie ferite».
«Ebbene, se è questo ciò che ti procura piacere», disse Frodo, «mi fai pietà. Temo che sarà soltanto un ricordo piacevole. Vattene immediatamente e non tornare mai più!».
Gli Hobbit del paese avevano veduto Saruman uscire da una delle capanne e si erano immediatamente affollati sulla porta di Casa Baggins. Quando udirono l’ordine di Frodo mormorarono furibondi:
«Non lo lasciate andare! Uccidetelo! È un farabutto e un assassino. Uccidetelo!».
Saruman guardò i loro visi ostili e sorrise. «Uccidetelo!», li schernì. «Uccidetelo, se credete di essere in numero sufficiente, miei coraggiosi Hobbit!». Si tenne eretto e li fissò con i suoi occhi neri. «Ma non crediate che quando ho perduto tutti i miei beni abbia perduto anche tutti i miei poteri! Chi mi colpirà sarà maledetto per sempre. E se il mio sangue macchierà la Contea, la vedrete appassire e non potrete far nulla per sanarla».
Gli Hobbit indietreggiarono. Ma Frodo disse: «Non credete a ciò che dice! Ha perso tutto il suo potere, eccetto la sua voce, che può ancora intimorirvi e illudervi, se glielo permettete. Ma non voglio che venga ucciso. È inutile pagare vendetta con vendetta: non risolverà nulla. Vai, Saruman, per la via più rapida!».
«Verme! Verme!», chiamò Saruman, e da una capanna vicina uscì carponi Vermilinguo, come un cane. «Di nuovo sulla strada, Verme!», disse Saruman. «Questa bella gente signorile ci butta fuori di nuovo. Seguimi!».
Saruman si volse per partire, e Vermilinguo lo seguì strisciando. Ma mentre Saruman passava accanto a Frodo, una lama scintillò fra le sue mani ed egli colpì rapido come un baleno. Una dozzina di Hobbit, comandati da Sam, balzarono avanti con un urlo e scaraventarono a terra il farabutto. Sam trasse la spada.
«No, Sam!», disse Frodo. «Non ucciderlo neppure adesso. Non mi ha ferito. E comunque non desidero che venga ucciso mentre si trova in questo suo malvagio stato d’animo. Fu grande un tempo, di una razza nobile, contro la quale non dovremmo osare alcuna violenza. È caduto, e non possiamo curarlo; ma voglio risparmiarlo, nella speranza che un giorno guarisca».
Saruman si alzò e guardò Frodo fisso negli occhi. Era uno strano sguardo, misto di meraviglia, di rispetto e di odio. «Sei cresciuto, Mezzuomo», gli disse. «Sì, sei cresciuto molto. Sei saggio, e crudele. Hai rubato la dolcezza della mia vendetta, ed ora devo partire con amarezza, debitore della tua misericordia. La odio come odio te! Ebbene, me ne vado e non t’importunerò più. Ma non aspettarti che ti auguri salute e lunga vita. Non avrai né l’una né l’altra. Ma non è merito mio. Lo prevedo soltanto».
Si allontanò, e gli Hobbit fecero largo per lasciarlo passare, ma le nocche delle loro mani divennero bianche mentre stringevano le armi. Vermilinguo esitò, e poi seguì il suo padrone.
«Vermilinguo!», gridò Frodo. «Non sei obbligato a seguirlo. Non so di alcun male che tu mi abbia fatto. Troverai qui riparo e cibo, finché sarai più forte e potrai andartene per i fatti tuoi».
Vermilinguo si fermò e si volse a guardarlo, già tentato a restare. Saruman si voltò. «Nessun male?», ghignò. «Oh no! Anche quando striscia fuori di notte è soltanto per guardare le stalle. Ma non ho forse udito qualcuno chiedere dove si nasconde il povero Lotho? Tu lo sai, vero, Verme? Perché non glielo dici?».
Vermilinguo si accasciò e gemette: «No, no!».
«Allora lo dirò io», disse Saruman. «Verme ha ucciso il vostro Capo, povero piccolo, il vostro caro Capo. Non è vero, Vermilinguo? Credo che l’abbia pugnalato nel sonno. Spero che l’abbia seppellito, benché Verme sia stato molto affamato di recente. No, Verme non è proprio carino. È meglio che lo lasciate a me».
Uno sguardo di odio selvaggio apparve negli occhi rossi di Vermilinguo. «Tu mi hai detto di farlo; tu mi hai costretto a farlo», sibilò.
Saruman rise. «Tu fai quello che dice Sharkey, vero, Verme? Ebbene ora ti dice: seguimi!». Gli sferrò un calcio in pieno viso e Vermilinguo si voltò e lo seguì. Ma improvvisamente qualcosa scattò in lui; si rizzò a un tratto, estraendo un pugnale nascosto e ringhiando come un cane saltò sulla schiena di Saruman, gli tirò indietro la testa, gli tagliò la gola e corse giù per il viale con un grido. Prima che Frodo potesse riprendersi e pronunciare una parola, tre frecce hobbit sibilarono e Vermilinguo cadde morto.
Con costernazione dei presenti, intorno al cadavere di Saruman si formò una specie di nebbia grigia che salì lentamente sempre più in alto, come fumo sprigionato da un fuoco, e giganteggiò sul Colle simile a una pallida figura velata. Esitò un momento, rivolta a occidente; ma proprio da lì venne un vento freddo che la sospinse, ed essa finì col dissolversi sospirando.
Frodo guardò il corpo con pietà e orrore, perché gli sembrò Che vi si rivelassero all’improvviso lunghi anni di morte; esso si rimpicciolì e il viso avvizzito non era altro che lembi di pelle su di un orrido teschio. Sollevando lo sporco manto caduto in terra, Frodo coprì il cadavere e si allontanò.
«E questa è la sua fine», disse Sam. «Una brutta fine, e vorrei non averla vista; ma è una liberazione».
«Ed anche la fine definitiva della Guerra, spero», disse Merry. «Lo spero», disse Frodo e sospirò. «Il colpo definitivo. Ma pensare che doveva avvenire proprio qui, sulla soglia di Casa Baggins! Fra tutte le mie speranze e le mie paure non avevo certo previsto una cosa simile».
«Non dirò che è la fine finché non avremo fatto piazza pulita di tutte le porcherie», disse Sam con aria cupa. «E ci vorrà molto tempo e molto lavoro».
Far piazza pulita fu certo un’impresa ardua, ma meno lunga di quanto Sam temesse. Il giorno dopo la battaglia Frodo si recò a Pietraforata e liberò i prigionieri dalle Cellechiuse. Uno dei primi che trovarono fu il povero Fredegario Bolgeri, ormai non più Grassotto. Era stato imprigionato quando i banditi avevano affumicato nei loro nascondigli un gruppo di ribelli comandati da lui, che si rifugiavano nei Tassitani, presso i colli di Scary.
«Avresti fatto meglio a venire con noi, dopo tutto, povero vecchio Fredegario!», disse Pipino mentre lo trasportavano fuori, poiché era troppo debole per camminare.
Egli aprì un occhio e cercò di sorridere cavallerescamente. «Chi è questo giovane colosso dalla voce tonante?», bisbigliò. «Non il piccolo Pipino! Che misure porti, adesso?».
Poi trovarono Lobelia. Poveretta, era molto invecchiata e magra quando la tirarono fuori dalla cella buia e stretta. Volle assolutamente uscire traballando sui suoi propri piedi, ed ebbe una tale accoglienza, tali applausi e acclamazioni al suo apparire, appoggiata al braccio di Frodo con l’ombrello ancora stretto in mano, che ne fu commossa e si sciolse in lacrime. Non era mai stata popolare in vita sua. Ma la notizia dell’uccisione di Lotho la sconvolse a tal punto che non volle tornare a Casa Baggins. La restituì a Frodo, e tornò dai suoi, i Serracinta di Pietracasa.
E quando la poverina morì, la primavera seguente in fin dei conti aveva più di cento anni Frodo fu sorpreso e molto commosso di apprendere che la vecchietta aveva lasciato a lui tutti i suoi denari e quelli di Lotho, affinché aiutasse gli Hobbit rimasti senza casa dopo gli incidenti. La loro lunga ostilità si concluse così.
Il vecchio Will Piedebianco era rimasto nelle Cellechiuse più a lungo di tutti, e benché fosse stato trattato meno brutalmente di tanti, aveva bisogno di fare una lunga cura ricostituente prima di poter riprendere il suo incarico di Sindaco; Frodo accettò quindi di fargli da Supplente, finché non si fosse completamente ristabilito. L’unica cosa che fece in veste di Sindaco Supplente fu di ridurre il numero e le funzioni dei Guardacontea. Il compito di cacciare dal paese gli ultimi banditi fu affidato a Merry e a Pipino, e fu presto esaurito. Le bande che agivano a sud, dopo avere udito della Battaglia di Lungacque, fuggirono dal paese offrendo scarsa resistenza al Conte. Prima della fine dell’anno i pochi superstiti furono circondati nei boschi e coloro che si arresero vennero condotti alla frontiera.
Nel frattempo i lavori di riparazione avanzavano a grandi passi, e Sam era sempre molto indaffarato. Gli Hobbit sono laboriosi come api, quando è necessario e quando sono in uno stato d’animo favorevole. Ora vi erano migliaia di mani laboriose di ogni età, dalle piccole ma agili dei ragazzi e delle giovinette a quelle rugose e callose dei contadini e delle vecchie. Prima di Capodanno non rimaneva in piedi più un solo mattone delle nuove Case dei Guardacontea e delle altre costruzioni degli «Uomini di Sharkey»; ma i mattoni servirono a riparare molte antiche caverne, rendendole più asciutte e accoglienti. Si trovarono grosse provviste di merci, cibo e birra nascoste dai furfanti in capannoni e granai, e specialmente nei tunnel a Pietraforata e nelle antiche cave di Scary. Si poté quindi festeggiare Capodanno molto più allegramente del previsto.
Una delle prime cose che fecero a Hobbiville, prima ancora di distruggere il nuovo mulino, fu lo sgombero del Colle e di Casa Baggins, e la restituzione di via Saccoforino alla fisionomia primitiva. La parte anteriore della nuova cava di sabbia fu tutta livellata e trasformata in un grande giardino coperto, e nuove caverne furono scavate dalla parte meridionale, all’interno del Colle, e rinsaldate con mattoni. Il Gaffiere fu insediato al suo numero 3, e continuava a ripetere, chiunque fosse il suo interlocutore:
«È vento cattivo quello che non porta bene a nessuno, come ho sempre detto. E tutto è Bene ciò che finisce Meglio!».
Discussero sul nome da dare alla nuova fila di caverne: alcuni proposero Giardini Battaglia, altri Migliori Smial. Ma infine il buonsenso hobbit decise di battezzarla più semplicemente Nuova Fila. Qualcuno l’aveva soprannominata «Casa Sharkey»; era una spiritosaggine tipica di Lungacque.
La perdita più grave e dolorosa era quella degli alberi. Per ordine di Sharkey, erano stati abbattuti senza criterio e in quantità enorme in tutto il territorio della Contea; era questo, soprattutto, che tormentava Sam. Molto tempo sarebbe dovuto passare prima che la ferita guarisse, e soltanto i suoi pronipoti, egli pensava, avrebbero potuto rivedere la Contea com’era stata ai bei tempi.
Per intere settimane, Sam fu troppo indaffarato per ripensare alle sue avventure, ma un giorno, improvvisamente, gli venne alla memoria il dono di Galadriel. Tirò fuori lo scrigno e lo mostrò agli altri Viaggiatori (tutti li chiamavano così, ora), chiedendo consiglio.
«Mi chiedevo quando te ne saresti ricordato», disse Frodo. «Aprilo!».
Dentro era pieno di una polvere grigia, soffice e sottile, in mezzo a cui c’era un seme, una specie di piccola noce ricoperta da un’oleosità argentea. «Che me ne faccio?», chiese Sam.
«Getta in aria questa polvere in una giornata di vento, e vedrai che qualcosa succederà», disse Pipino.
«Su quale terreno?», chiese Sam.
«Scegli un posto come vivaio, e osserva come vengono su le piante», disse Merry.
«Ma sono certo che la Dama non gradirebbe che io tenga tutta questa polvere per il mio giardino, ora che tanta gente ha sofferto gli stessi danni», disse Sam.
«Usa il tuo intuito e le tue cognizioni, Sam», disse Frodo, «e fa’ tesoro di quel che hai imparato lavorando il tuo giardino; il dono ti potrà servire anche per aiutare gli altri nel loro lavoro. E non sprecare questi granelli, perché non sono molti, e suppongo che ognuno di essi abbia un valore».
Così Sam piantò degli alberelli in tutti i luoghi in cui erano state distrutte piante particolarmente belle o amate, e mise un granello della preziosa polvere alla radice di ognuno. Percorse la Contea in lungo e in largo per svolgere il suo lavoro, ma si curò particolarmente di Hobbiville e di Lungacque, e nessuno trovò nulla da ridire. Infine vide che gli rimaneva ancora un po’ di polvere; allora si recò alla Pietra dei Tre Decumani, che è praticamente il centro della Contea, e la sparse in aria con la sua benedizione. La piccola noce d’argento fu piantata al posto dell’Albero della Festa; e Sam si domandò che cosa ne sarebbe venuto fuori. Lasciò passare l’inverno il più pazientemente possibile, cercando di trattenersi dal girare la Contea per vedere se accadeva qualcosa.
La primavera superò ogni sua più ardita speranza. Gli alberi incominciarono a germogliare e a crescere; il tempo sembrava aver fretta, come se un anno contasse per venti. Nel Campo della Festa spuntò uno splendido alberello: aveva la corteccia argentata e lunghe foglie, e in aprile si coprì di fiori dorati. Era un mallorn, e divenne la meraviglia del vicinato. E dopo alcuni anni, quando crebbe in grazia e in bellezza, la sua fama dilagò, e la gente veniva da lontano per vederlo: l’unico mallorn ad ovest delle Montagne e ad est del Mare, ed uno dei più belli del mondo.
Il 1420 fu in tutto e per tutto un anno meraviglioso. Non soltanto vi furono sole in abbondanza e pioggia deliziosa, al momento giusto e in perfetta quantità, ma si sentiva la presenza di qualche dono eccezionale: un’aria di ricchezza e di crescita, e una bellezza abbagliante, superiore a quella di qualunque altra estate mortale che scintilli e svanisca nella Terra di Mezzo. Tutti i bambini nati o concepiti quell’anno (e furono molti) erano belli e forti, e molti di essi avevano una folta capigliatura dorata che sino allora era stata piuttosto rara fra gli Hobbit. Vi fu un tale traboccare di ogni genere di prodotti che i giovani Hobbit nuotavano quasi nelle fragole con panna, per poi sedere sui prati all’ombra dei susini mangiando a non finire; costruivano con i noccioli piccole piramidi o sculture raffiguranti teschi di guerrieri, e si spostavano a mangiare altrove. E nessuno si ammalò, e tutti erano contenti e soddisfatti, eccetto coloro che dovevano falciare l’erba.
Nel Decumano Sud i vigneti erano carichi, ed il raccolto d’erba-pipa fu stupefacente, e dappertutto si produsse tanto grano che ogni granaio ne traboccava. L’orzo del Decumano Nord era di una qualità così eccellente che la birra del 1420 fu ricordata per molti anni, e rimase proverbiale. E quelli della generazione successiva sentirono più di una volta un vecchio contadino, dopo una buona pinta di meritata birra, esclamare mentre posava il bicchiere con un sospiro: «Ah! Questo era un autentico 1420!».
Sam abitò prima dai Cotton con Frodo, ma quando la Nuova Fila fu pronta andò a stare con il Gaffiere. Oltre a tutte le sue altre attività, era occupatissimo a dirigere le operazioni di pulitura e di restauro di Casa Baggins; ma percorreva spesso la Contea per svolgere la sua opera di rimboschimento. E proprio per questo motivo si allontanò da casa ai primi di marzo e non seppe che Frodo si era sentito male. Il tredici di quel mese il vecchio Cotton trovò Frodo disteso sul letto; stringeva una pietra bianca appesa a una catena intorno al collo e sembrava immerso in un sogno.
«È scomparso per sempre», diceva, «ed ora tutto è nero e vuoto».
Ma la crisi passò, e quando Sam fu di ritorno, il venticinque, Frodo si era ripreso e non gli disse nulla. Nel frattempo Casa Baggins era stata rimessa in ordine, e Merry e Pipino vennero da Crifosso con tutti i vecchi mobili e le altre cose; l’aspetto dell’avita dimora tornò quello di sempre.
Quando finalmente tutto fu pronto, Frodo disse: «Quando hai intenzione di venire a stare da me, Sam?».
Sam parve a disagio.
«Non è necessario che tu venga subito, se non vuoi» disse Frodo. «Ma sai che il Gaffiere resta sempre qui a due passi, e sono certo che la vedova Rumble si occuperà di lui con molta cura». «Non è questo, signor Frodo», disse Sam, e arrossì.
«Ebbene, che cos’è, allora?».
«È Rosie, Rosa Cotton», disse Sam. «A quanto pare non è stata affatto contenta della mia partenza, povera ragazza; ma poiché io non mi ero pronunciato, non poteva dire niente. E io non mi pronunciavo perché avevo qualcosa da fare, prima. Ma ora mi sono pronunciato, e lei mi dice: “Ebbene, hai già perso un anno; perché aspettare ancora?”. “Perso?”, le dico io. “A me non sembra”. Ma capisco quel che vuole dire. Mi sento come diviso in due».
«Capisco», disse Frodo: «ti vuoi sposare, ma vuoi anche vivere con me a Casa Baggins? Mio caro Sam, niente di più facile! Sposati al più presto possibile, e poi trasferisciti qui con Rosie. C’è spazio sufficiente a Casa Baggins per la famiglia più numerosa che tu possa desiderare».
E così fu stabilito. Sam Gamgee sposò Rosa Cotton nella primavera del 1420 (famoso anche per i molti matrimoni), ed essi andarono ad abitare a Casa Baggins. E se Sam pensava di essere fortunato, Frodo sapeva di esserlo ancor di più: non vi era Hobbit in tutta la Contea che fosse curato con maggior premura. Quando tutte le riparazioni furono progettate e avviate, egli si organizzò una vita tranquilla, scrivendo molto e rivedendo tutti i suoi appunti. Si dimise dall’incarico di Sindaco Supplente alla Fiera Gratuita di Mezza Estate, e il caro vecchio Will Piedebianco poté presiedere i banchetti per altri sette anni.
Merry e Pipino vissero per qualche tempo insieme a Crifosso, con molti viaggi di andata e ritorno fra la Terra di Buck e Casa Baggins. I due giovani Viaggiatori facevano un gran figurone con le loro canzoni, i loro racconti, la loro raffinatezza, e le favolose feste che organizzavano. La gente diceva che erano «signoreschi», nel senso buono; perché rallegrava tutti i cuori vederli galoppare con le loro cotte di maglia così lucenti e i loro scudi così splendidi, ridendo e cantando canzoni di posti lontani; e se ora erano alti e magnifici, in tutto il resto erano assolutamente immutati, forse ancor più gioviali e allegri e socievoli di prima.
Frodo e Sam invece ripresero ad usare i vestiti ordinari; soltanto quando era necessario indossavano lunghi manti grigi finemente tessuti e fissati con una splendida spilla; e il signor Frodo aveva sempre una pietra bianca appesa a una catena con la quale giocherellava spesso.
Ogni cosa ormai andava bene, e c’era la speranza di migliorare ancora; e Sam era laborioso e soddisfatto come soltanto un Hobbit sapeva esserlo. Niente gli andò male durante tutto l’anno; l’unica cosa che lo rendeva vagamente ansioso era la salute del suo padrone. Frodo abbandonò a poco a poco tutte le attività della Contea, e Sam era addolorato dello scarso prestigio di cui il padrone godeva nel suo paese. Poca gente conosceva o voleva conoscere le sue gesta e avventure; l’ammirazione e il rispetto di tutti andavano quasi esclusivamente al signor Meriadoc e al signor Peregrino, e allo stesso Sam (senza ch’egli se ne accorgesse). In autunno sembrò che Frodo fosse di nuovo assalito dalle antiche sofferenze.
Una sera Sam entrò nello studio e trovò il suo padrone molto strano. Era pallido, e i suoi occhi sembravano vedere cose lontane. «Che c’è che non va, signor Frodo?», disse Sam.
«Sono ferito», egli rispose, «ferito; non guarirò mai del tutto».
Ma poi si alzò e il malessere parve scomparire; l’indomani egli sembrò di nuovo perfettamente normale. Solo più tardi Sam rammentò che la data era il sei di ottobre. Quel medesimo giorno di due anni prima faceva buio nella cavità ai piedi di Colle Vento.
Il tempo passava, e arrivò il 1421. Frodo fu di nuovo malato in marzo, ma con grandi sforzi riuscì a nasconderlo, perché Sam aveva altre cose a cui pensare. Il primo figlio di Sam e di Rosie nacque il venticinque di marzo, una data che Sam annotò.
«Ebbene, signor Frodo», egli disse, «sono nei guai. Rosa e io avevamo deciso di chiamarlo Frodo, con il vostro permesso; ma non è un lui, è una lei. La bambina più bella che potessimo desiderare, poiché fortunatamente rassomiglia più a Rosa che a me. Quindi, non sappiamo che fare».
«Ebbene, Sam», disse Frodo, «che cos’è che non va nelle antiche tradizioni? Scegli un nome di fiore, come Rosa. La metà delle bambine della Contea hanno nomi del genere; non è forse la soluzione migliore?».
«Suppongo che abbiate ragione, signor Frodo», disse Sam. «Ho sentito dei bellissimi nomi durante i miei viaggi, ma suppongo che siano troppo grandiosi per l’uso di ogni giorno. Il Gaffiere dice: “Sceglilo corto, così non dovrai accorciarlo per poterlo adoperare”. Ma se dev’essere un nome di fiore, allora non mi preoccupo della lunghezza: dev’essere un fiore molto bello, perché, vedete, io trovo che lei è bellissima, e che diventerà ancora più splendida».
Frodo rifletté per un momento. «Ebbene, Sam, che ne pensi di elanor, la stella-sole, ricordi, quel piccolo fiore d’oro che cresceva nei prati a Lothlórien?».
«Avete di nuovo ragione, signor Frodo!», disse Sam, entusiasta. «È proprio quel che volevo».
La piccola Elanor aveva quasi sei mesi, e si avvicinava già l’autunno del 1421, quando Frodo chiamò Sam nel suo studio.
«Giovedì sarà il Compleanno di Bilbo, Sam», disse. «Ed egli supererà il Vecchio Tuc. Farà centotrentun anni!».
«Proprio così!», esclamò Sam. «È straordinario!». «Ebbene, Sam», disse Frodo, «voglio che tu parli a Rosa; vedi un po’ se ti sembra che possa fare a meno di te, così potremmo partire insieme. Naturalmente, ormai non ti puoi allontanare per molto tempo», disse, piuttosto sconsolato.
«No, non proprio, signor Frodo».
«No, certo. Ma non importa; puoi accompagnarmi fino a un certo punto. Di’ a Rosa che non starai lontano per molto, non più di quindici giorni, e che tornerai sano e salvo».
«Vorrei tanto venire con voi fino a Gran Burrone, signor Frodo, e rivedere il signor Bilbo», disse. «Eppure l’unico posto dove voglio veramente stare è qui. Sono come diviso in due».
«Povero Sam! Temo proprio che tu abbia quest’impressione», disse Frodo. «Ma guarirai. Il tuo destino è di essere solido e sano, e lo sarai».
Durante i due o tre giorni seguenti Frodo diede un’occhiata alle sue carte e ai suoi scritti con l’aiuto di Sam, e gli affidò le sue chiavi. Vi era un grande libro foderato di pelle rossa: le ampie pagine erano ormai quasi piene. All’inizio numerosi fogli erano coperti dalla fine e vagante calligrafia di Bilbo, ma la maggior parte era scritta nei caratteri scorrevoli e decisi di Frodo. Era diviso in capitoli, ma il capitolo 80 era incompleto, e restavano delle pagine vuote. Il frontespizio recava molti titoli, cancellati uno dopo l’altro:
Il mio Diario. Il mio Viaggio Inaspettato. Andata e Ritorno. Che cosa accadde dopo.
Avventure di Cinque Hobbit. La Storia del Grande Anello, compilata da Bilbo Baggins grazie alle proprie osservazioni ed ai racconti degli amici. Noi e la Guerra dell’Anello.
Qui finiva la calligrafia di Bilbo, e Frodo aveva scritto:
LA CADUTA
DELSIGNORE DEGLI ANELLI
E IL RITORNO DEL RE
(visti dalla Gente Piccola; memorie di Bilbo e di Frodo della Contea arricchite dalle narrazioni dei loro amici e dalla Scienza dei Saggi)
Oltre ad estratti di Libri di Scienza tradotti da Bilbo a Gran Burrone.
«Ma l’avete quasi finito, signor Frodo!», esclamò Sam. «Ebbene, devo dire che siete stato costante».
«Io ho finito tutto, Sam», disse Frodo. «Le ultime pagine sono per te».
Il ventuno settembre partirono insieme, Frodo sul puledro che montava ormai da Minas Tirith, e che si chiamava Grampasso, e Sam sul suo amato Bill. Era un bel mattino dorato, e Sam non chiese dove stessero andando: credeva di aver indovinato.
Presero la Via di Scorta e valicarono le colline, diretti verso Terminalbosco, lasciando che i puledri camminassero tranquillamente. Si accamparono sulle Verdi Colline e il ventidue settembre, sul calar della sera, giunsero in prossimità dei margini del bosco. «Quello è proprio l’albero dietro il quale vi nascondeste la prima volta che spuntò il Cavaliere Nero, signor Frodo!», disse Sam mostrando una pianta alla sua sinistra. «Adesso sembra un sogno».
Era giunta la sera, e le stelle scintillavano a oriente mentre i due compagni passavano innanzi alla vecchia quercia e scendevano la collina fra cespugli di nocciole. Sam era silenzioso, profondamente immerso nei ricordi. Ad un tratto si accorse che Frodo canticchiava sommesso la solita marcetta, ma che le parole non erano più le stesse.
Voltato l’angolo forse ancor si trova
Un ignoto portale o una strada nuova;
Spesso ho tirato oltre, ma chissà,
Finalmente il giorno giungerà,
E sarò condotto dalla fortuna
A est del Sole, ad ovest della Luna.
E, come se rispondessero, s’innalzarono dalla valle in fondo al sentiero delle voci:
A! Elbereth Gilthoniel!
silivren penna miriel
o menel aglar elenath,
Gilthoniel, A! Elbereth!
Ricordiamo ancora noi che viviamo
In queste terre fra alberi lontani
Il chiaro di stelle sui Mari Occidentali.
Frodo e Sam si fermarono e si sedettero in silenzio fra le dolci ombre del crepuscolo, finché videro scintillare le luci dei viaggiatori che si avvicinavano.
Videro Gildor e molti splendidi Elfi; e poi, con somma meraviglia di Sam, arrivarono Elrond e Galadriel. Elrond portava un manto grigio e una stella in fronte, e teneva in mano un’arpa d’argento; al suo dito brillava un anello d’oro con una grande pietra blu, Vilya, il più potente dei Tre. Galadriel sedeva sopra un bianco destriero avvolta di bianco scintillante, come nube intorno alla Luna; ella stessa sembrava risplendere di pallida luce. Al dito aveva Nenya, l’anello di mithril con un’unica pietra bianca che sfavillava come una stella di ghiaccio. Li seguiva, lento sul suo piccolo cavallo grigio, la testa ciondoloni dal sonno, Bilbo in persona.
Elrond li salutò con aria grave e nobile, e Galadriel sorrise. «Ebbene, Messere Samvise», ella disse. «Mi si dice, e lo vedo, che hai utilizzato bene il mio dono. La Contea sarà ora più che mai amata e benedetta». Sam fece un profondo inchino ma non seppe rispondere. Aveva dimenticato quanto fosse bella Dama Galadriel.
Allora Bilbo si svegliò e aprì gli occhi. «Salve, Frodo!», disse. «Ebbene, oggi ho superato il Vecchio Tuc! È una faccenda regolata. Ora credo di essere pronto per un altro viaggio. Vieni anche tu?».
«Sì, vengo anch’io», disse Frodo. «I Portatori dell’Anello devono partire insieme».
«Dove state andando, padrone?», gridò Sam, benché avesse finalmente capito quel che stava succedendo.
«Ai Rifugi, Sam», disse Frodo.
«E io non posso venire».
«No, Sam. Non ancora, comunque, non oltre i Rifugi. Benché sia stato anche tu Portatore dell’Anello, per poco tempo. Forse verrà la tua ora. Non essere troppo triste, Sam. Non puoi essere sempre lacerato in due. Dovrai essere uno e sano per molti anni. Hai tante cose da godere, da vivere, da fare».
«Ma», disse Sam, e le lacrime incominciarono a sgorgargli dagli occhi, «credevo che anche voi voleste godervi la Contea, per anni e anni, dopo tutto quello che avete fatto».
«Anch’io lo credevo, un tempo. Ma sono stato ferito troppo profondamente, Sam. Ho tentato di salvare la Contea, ed è stata salvata, ma non per merito mio. Accade sovente così, Sam, quando le cose sono in pericolo: qualcuno deve rinunciare, perderle, affinché altri possano conservarle. Ma tu sei il mio erede: tutto ciò che ebbi e che avrei potuto avere io, lo lascio a te; e poi tu hai Rosa, ed Elanor, e verranno anche il piccolo Frodo e la piccola Rosa, e Merry e Cioccadoro e Pipino, e forse altri che ancora non vedo. Le tue mani e il tuo cervello saranno necessari dappertutto. Sarai Sindaco, naturalmente, finché vorrai, e il più famoso giardiniere della storia; e leggerai brani del Libro Rosso, mantenendo vivo il ricordo dei tempi passati, affinché la gente ricordi il Grande Pericolo ed ami ancora di più il suo caro paese. Tutto ciò ti renderà occupato e felice finché durerà la tua parte nella Storia.
«Coraggio, ora cavalca con me!».
Allora Elrond e Galadriel ripresero il cammino; la Terza Era era infatti finita, ed i Giorni degli Anelli ormai passati, e si concludevano così la storia ed i canti di quei tempi. E con essi se ne andavano molti Elfi di Alto Lignaggio che non volevano più dimorare nella Terra di Mezzo; e in mezzo a loro, pieni di una tristezza benedetta e priva di ogni amarezza, cavalcavano Sam, e Frodo, e Bilbo, e gli Elfi erano felici di poterli onorare.
Benché cavalcassero attraverso la Contea durante tutta la sera e tutta la notte, nessuno li vide passare, se non gli animali dei boschi, e qua e là qualcuno che vagando nel buio scorse ad un tratto un bagliore fra gli alberi, o una luce e un’ombra scivolare sull’erba mentre la Luna volgeva a occidente. E quando ebbero lasciato la Contea, Oltrepassando le pendici meridionali dei Bianchi Poggi, i Luoghi Lontani e le Torri, videro in lontananza il Mare; e così giunsero infine a Mithlond, i Rifugi Oscuri sul lungo estuario del Luhun: i Porti Grigi.
Quando arrivarono al cancello, Cirdan il Timoniere si fece avanti ad accoglierli. Era molto alto, aveva la barba lunga e grigia, ed era anziano, ma i suoi occhi erano sfavillanti come stelle; li guardò, s’inchinò e disse: «Tutto è pronto».
Poi Cirdan li condusse ai Porti, e una bianca nave li attendeva, e sul molo si ergevano un cavallo candido e una figura ammantata di bianco. E quando si voltò e venne loro incontro, Frodo vide che Gandalf portava ora visibile al dito il Terzo Anello, Narya il Grande, e la pietra era rossa come fuoco. Allora coloro che dovevano partire furono sereni, perché compresero che Gandalf sarebbe salpato con loro.
Ma ora Sam era pieno di tristezza, e gli parve che se la separazione sarebbe stata amara, più amara ancora era la via del ritorno. Ma mentre erano tutti là riuniti, e gli Elfi stavano salendo sulla nave, e ogni cosa veniva preparata per la partenza, arrivarono al gran galoppo Pipino e Merry. E fra le lacrime Pipino rideva.
«Hai cercato di andartene di nascosto già una volta, Frodo, e non ci sei riuscito», egli disse. «Oggi stavi quasi per farcela, eppure hai di nuovo fallito. Ma non è stato Sam a tradirti questa volta, ma Gandalf in persona!».
«Sì», disse Gandalf; «perché sarà meglio che torniate in tre piuttosto che Sam da solo. Ebbene, cari amici, qui sulle rive del Mare finisce la nostra compagnia nella Terra di Mezzo. Andate in pace! Non dirò: “Non piangete”, perché non tutte le lacrime sono un male».
Allora Frodo baciò Merry e Pipino e per ultimo Sam, e salì a bordo; le vele furono issate, il vento soffiò, e lentamente la nave scivolò via lungo il grigio estuario; e la luce della fiala di Galadriel che Frodo teneva alta scintillò e svanì. La nave veleggiò nell’Alto Mare e passò a ovest, e infine, in una notte di pioggia, Frodo sentì nell’aria una fresca fragranza, e udì dei canti giungere da oltre i flutti. Allora gli parve che, come quando sognava nella casa di Bombadil, la grigia cortina di pioggia si trasformasse in vetro argentato e venisse aperta, svelando candide rive e una terra verde al lume dell’alba.
Ma per Sam la sera diventò buia, mentre si teneva in piedi sulla riva, e guardando il grigio mare vide soltanto un’ombra sulle acque che scomparve presto a occidente. Rimase a lungo lì immobile, udendo soltanto il sospiro e il mormorio delle onde sulle spiagge della Terra di Mezzo, e il rumore penetrò sino in fondo al suo cuore. Accanto a lui erano Merry e Pipino, immobili e silenziosi.
Infine, i tre compagni si allontanarono e partirono, tornando lentamente verso casa senza mai voltarsi; e non dissero una parola, ma ognuno traeva molto conforto dalla presenza degli amici sulla lunga strada grigia.
Passarono infine i poggi e presero la Via Orientale, e Pipino e Merry cavalcarono verso la Terra di Buck; e già ricominciavano a cantare. Ma Sam prese la via per Lungacque, e tornò al Colle e di nuovo il giorno stava finendo. Egli vide una luce gialla e del fuoco acceso: il pasto serale era pronto, e lo stavano aspettando. Rosa lo accolse e lo fece accomodare, e gli mise la piccola Elanor sulle ginocchia.
Egli trasse un profondo respiro. «Sono tornato», disse.
Per quanto riguarda le fonti della maggior parte degli argomenti trattati nelle seguenti appendici, specialmente da A a D, si veda la nota alla fine del Prologo. La sezione A III, Il popolo di Durin, fu probabilmente dovuta a Gimli il Nano, che mantenne la sua amicizia con Peregrino e Meriadoc e li rivide più volte a Gondor e a Rohan.
Le leggende, storie e saghe reperibili nelle fonti sono molto vaste. Qui ne presentiamo soltanto dei brani, molto riassunti, essendo lo scopo principale quello di illustrare la Guerra dell’Anello e le sue origini, e di riempire alcune delle lacune nella narrazione. Le antiche leggende della Prima Era, interesse principale di Bilbo, vengono riferite assai brevemente, poiché concernono gli antenati di Elrond e i re e capi numenoreani. Le citazioni tratte da annali e narrazioni più lunghe sono poste fra virgolette. Le note fra virgolette provengono dalle fonti, le altre sono editoriali.
Le date citate sono della Terza Era, a meno che non segua l’indicazione S.E. (Seconda Era) o Q.E. (Quarta Era). La Terza Era si considerò conclusa quando i Tre Anelli partirono, nel settembre del 3021, ma per la tradizione storica di Gondor la Q.E. cominciò il 25 marzo 3021. Per la corrispondenza fra la datazione di Gondor e il Calendario della Contea, si ricordi che basta aggiungere 1600 anni al Calendario della Contea, e si ottengono gli anni degli Elfi e dei Numenoreani. Nelle liste, le date che seguono i nomi di re e di governatori sono date di morte se ve n’è una sola. Il segno † indica una morte prematura, in battaglia o in altre circostanze.
Fëanor fu il più grande degli Eldar in arte e in scienza, ma anche il più orgoglioso e ostinato. Egli creò i Tre Gioielli, i Silmarilli, e infuse in essi lo splendore dei Due Alberi, Telperion e Laurelin, che davano luce alla terra dei Valar. Morgoth il Nemico bramava possedere i Gioielli e li rubò, distruggendo gli Alberi, e li portò nella Terra di Mezzo custodendoli nella sua grande fortezza di Thangorodrim. Contro il volere dei Valar, Fëanor abbandonò il Reame Benedetto e si recò in esilio nella Terra di Mezzo, portando con sé gran parte della sua gente; orgoglioso com’era, voleva riprendere i Gioielli a Morgoth con la forza. Seguì la disperata guerra degli Eldar e degli Edain contro Thangorodrim, ove furono infine completamente sconfitti. Gli Edain (Atani) erano tre popoli di Uomini che, giunti dapprima a ovest della Terra di Mezzo e delle sponde del Grande Mare, divennero alleati degli Eldar contro il Nemico.
Vi furono tre unioni fra gli Eldar e gli Edain: Lùthien e Beren; Idril e Tuor; Arwen ed Aragorn. Grazie all’ultimo matrimonio, i rami da tempo divisi dei Mezzielfi si riunirono e la stirpe venne rinsanguata.
Lùthien Tinùviel era la figlia di Re Thingol Grigiomanto di Doriath nella Prima Era, ma sua madre era Melian del popolo dei Valar. Beren era figlio di Barahir della Prima Casa degli Edain. Insieme rapirono un silmaril dalla Corona Ferrea di Morgoth. Lùthien divenne mortale e rinunciò alla sua natura elfica. Dior fu suo figlio. Elwing, figlia di lui, custodì il silmaril.
Idril Celebrindal era la figlia di Turgon, re della città nascosta di Gondolin. Tuor era figlio di Huor della Casa di Hador, la Terza Casa degli Edain e la più rinomata per le sue guerre contro Morgoth. Eärendil il Navigatore fu il loro figlio.
Eärendil sposò Elwing, e con il potere del silmaril passò attraverso le Ombre e giunse all’Estremo Ovest, e parlando in veste di ambasciatore sia degli Elfi che degli Uomini ottenne gli aiuti che gli permisero di sopraffare Morgoth. Eärendil non ebbe il permesso di tornare nelle terre mortali, e la sua nave in cui era il silmaril fu fatta veleggiare in cielo come una stella, in segno di speranza per gli abitanti della Terra di Mezzo oppressi dal Grande Nemico o dai suoi servitori. I tre silmarilli furono gli unici capaci di conservare l’antica luce dei Due Alberi di Valinor prima che Morgoth li avvelenasse; ma gli altri due vennero smarriti alla fine della Prima Era. La completa storia di questi eventi e molte altre notizie riguardanti gli Elfi e gli Uomini si trovano nel libro Il Silmarillion.
I figli di Eärendil furono Elros ed Elrond, i Peredhil o Mezzielfi. Essi soltanto perpetuarono la stirpe dei capitani degli Edain che avevano brillato per eroismo nella Prima Era; e dopo la caduta di Gil-galad la linea degli Alti Re Elfici fu rappresentata esclusivamente dai loro discendenti.
Alla fine della Prima Era i Valar imposero una scelta definitiva ai Mezzielfi, che dovettero decidere a quale razza appartenere. Elrond scelse la razza elfica, e divenne maestro di saggezza. Gli fu quindi concessa la medesima grazia ottenuta dagli altri Alti Elfi che dimoravano ancora nella Terra di Mezzo: quando fossero stanchi delle terre mortali, avrebbero potuto salpare dai Porti Grigi (i Rifugi Oscuri) e recarsi nell’Estremo Ovest; questa grazia continuò ad essere concessa anche dopo il mutamento del mondo. Ma anche i figli di Elrond dovettero scegliere: o uscire con lui oltre i limiti del mondo, o rimanere, diventando mortali e morendo poi nella Terra di Mezzo. Per Elrond, quindi, ogni esito implicito nella Guerra dell’Anello era carico di dolore.
Elros scelse la razza umana, e rimase con gli Edain. Ma gli fu concessa una vita molto lunga, parecchie volte quella di un mortale.
Come ricompensa per le loro sofferenze nella lotta contro Morgoth, i Valar, i Guardiani del Mondo, donarono agli Edain una terra ove potessero vivere al riparo dai pericoli della Terra di Mezzo. La maggior parte di essi attraversò il Mare; guidati dalla Stella di Eärendil, giunsero alla grande Isola di Elenna, la più occidentale delle Terre Mortali. Ivi fondarono il reame di Nùmenor.
Al centro del loro territorio si ergeva un’alta montagna, il Meneltarma, e dalla sua cima le viste acute potevano scorgere la bianca torre del Porto degli Eldar a Eressëa. Gli Eldar si recarono sovente presso gli Edain e li arricchirono con la loro scienza e molti doni; ma i Numenoreani avevano ricevuto un ordine, il Bando dei Valar: era loro vietato di veleggiare verso ovest, allontanandosi dalle coste, o di tentare di approdare alle Terre Immortali. Perché, anche se avevano ricevuto il dono di lunga vita (in origine, tre volte la durata di una vita normale), essi dovevano rimanere mortali, poiché i Valar non potevano toglier loro il Dono degli Uomini (o il Fato degli Uomini, come venne in seguito chiamato).
Elros fu il primo Re di Nùmenor, e fu conosciuto più tardi con il nome alto-elfico di Tar-Minyatur. I suoi discendenti ebbero vita lunga ma mortale. Quando in seguito divennero potenti si lamentarono della scelta del loro avo, desiderando l’immortalità entro la vita del mondo, prerogativa degli Eldar, e mormorando contro il Bando. Così ebbe inizio la loro rivolta che, guidata dal malvagio ammaestramento di Sauron, provocò la Caduta di Nùmenor e la rovina del mondo antico, come narra l’Akallabêth.
Questi sono i nomi dei Re e delle Regine di Nùmenor: Elros Tar-Minyatur, Vardamir, Tar-Amandil, Tar-Elendil, Tar-Meneldur, Tar-Aldarion, Tar-Ancalimë (prima Regina Regnante), Tar-Anfirion, Tar-Sùrion, Tar-Telperiën (seconda Regina), Tar-Minastir, Tar-Ciryatan, Tar-Atanamir il Grande, Tar-Ancalimon, Tar-Telemmaltë, Tar-Vanimeldë (terza Regina), Tar-Alcarin, Tar-Calmacil.
Dopo Calmacil i Re presero lo scettro con nomi in lingua numenoreana (o adûnaica): Ar-Adûnakhôr, Ar-Zimrathôn, Ar-Sakalthôr, Ar-Gimilzôr, Ar-Inziladûn. Inziladûn si pentì del cambiamento fatto dai Re e trasformò il suo nome in Tar-Palantir (il Lungimirante). Sua figlia avrebbe dovuto essere la quarta Regina, TarMiriel, ma il nipote del Re usurpò lo scettro e divenne Ar-Pharazôn il Dorato, ultimo Re dei Numenoreani.
Ai tempi di Tar-Elendil le prime navi dei Numenoreani tornarono alla Terra di Mezzo. Il suo figlio primogenito era una femmina, Silmariën. Ella ebbe un figlio, Valandil, primo Signore di Andùnië, una stirpe famosa per la loro amicizia con gli Eldar. Da lui discesero Amandil, l’ultimo sire, e suo figlio Elendil l’Alto.
Il sesto Re lasciò soltanto una figlia. Ella divenne la prima Regina, perché divenne legge della Real Casa che il Primogenito del Re, maschio o femmina che fosse, dovesse ereditare lo scettro.
Il Reame di Nùmenor durò sino alla fine della Seconda Era e accrebbe il proprio potere e splendore; e fino alla metà dell’Era aumentò anche la saggezza e la felicità dei Numenoreani. Il primo segno dell’ombra che doveva cadere su di essi comparve all’epoca di Tar-Minastir, undicesimo Re. Fu lui che inviò grandi forze in aiuto a Gil-galad. Egli amava gli Eldar ma li invidiava. I Numenoreani erano diventati grandi navigatori ed esploravano tutti i mari orientali. Incominciarono a guardare con desiderio alle acque proibite e all’Occidente; e più la loro vita era piena di gioia, più desideravano l’immortalità degli Eldar.
Inoltre, dopo Minastir i Re divennero avidi di ricchezza e di potere. In un primo tempo i Numenoreani erano venuti nella Terra di Mezzo in veste di maestri e amici dei comuni Mortali afflitti da Sauron; ma ora i loro porti divennero fortezze ed essi sottomisero vasti territori costieri. Atanamir e i suoi successori prelevavano forti tributi, e le navi dei Numenoreani tornavano cariche di bottino.
Fu Tar-Atanamir il primo a pronunciarsi apertamente contro il Bando e a dichiarare che la vita degli Eldar era sua di diritto. Così l’ombra s’infittì, e il pensiero della morte entrò come tenebra nei cuori. Allora i Numenoreani si divisero: da una parte vi era il Re, seguito dai suoi fedeli, avversari degli Eldar e dei Valar; dall’altra i pochi che si denominavano i Fidi. Essi vivevano soprattutto a ovest del paese.
I Re e i loro seguaci abbandonarono a poco a poco l’uso degli idiomi Eldarin; finalmente, il ventesimo Re assunse lo scettro con nome numenoreano, chiamandosi Ar-Adûnakhôr, «Signore dell’Ovest». Questo sembrò ai Fidi un cattivo auspicio, perché sin allora quel titolo era stato attribuito esclusivamente a uno dei Valar, o all’Antico Re in persona. Ed effettivamente Ar-Adûnakhôr incominciò a perseguitare i Fidi, punendo coloro che usavano apertamente le lingue elfiche; e gli Eldar non vennero più a Nùmenor.
Tuttavia il potere e la ricchezza dei Numenoreani continuarono a crescere; ma la durata delle loro vite diminuì a mano a mano che aumentava la loro paura della morte, e ogni felicità scomparve. TarPalantir tentò di riparare il male fatto: ma era troppo tardi, e vi furono lotte e rivolte a Nùmenor. Alla sua morte, suo nipote, capo dei ribelli, prese lo scettro con il nome di Ar-Pharazôn. Ar-Pharazôn il Dorato fu il più orgoglioso e potente di tutti i Re, e bramava addirittura il dominio del mondo.
Decise di sfidare Sauron il Grande per ottenere la supremazia nella Terra di Mezzo; partì personalmente con una grande nave e approdò a Umbar. Così grandi erano la potenza e lo splendore dei Numenoreani che i servitori di Sauron lo abbandonarono; e Sauron stesso, in segno di omaggio, si umiliò, implorando perdono. Allora Ar-Pharazôn, nella follia del suo orgoglio, lo riportò prigioniero a Nùmenor. In breve tempo, Sauron riuscì ad ammaliare il Re e divenne padrone delle sue decisioni: presto attrasse i cuori di tutti i Numenoreani, eccetto i Fidi, verso l’oscurità.
Sauron mentì al Re, dichiarando che colui che possedesse le Terre Immortali avrebbe conquistato la vita eterna, e che il Bando era stato imposto unicamente per impedire ai Re degli Uomini di superare i Valar. «Ma i grandi Re prendono ciò che spetta loro di diritto», egli diceva.
E alla fine Ar-Pharazôn ascoltò i suoi consigli, perché sentiva i propri giorni giungere alla fine, ed era ossessionato dalla paura della Morte. Preparò allora il più grande apparato di guerra che il mondo avesse mai visto, e quando tutto fu pronto fece squillare le trombe e salpò; infranse il Bando dei Valar, cercando di strappare con la forza la vita eterna ai Signori dell’Ovest. Ma quando ArPharazôn approdò sulle coste di Aman il Benedetto, i Valar ritirarono la loro Protezione e chiamarono l’Uno, e il mondo fu cambiato. Nùmenor fu distrutto e inghiottito dal Mare, e le Terre Immortali vennero allontanate per sempre dai confini del mondo. Così terminò la gloria di Nùmenor.
Gli ultimi capi dei Fidi, Elendil e i suoi figli, sfuggirono alla Caduta con nove vascelli, recarono con sé un seme di Nimloth e le Sette Pietre Veggenti (dono degli Eldar alla loro Casa); furono sospinti dalle ali di una grande tempesta, e gettati sulle rive della Terra di Mezzo. Fondarono a nord-ovest i Regni Numenoreani in esilio, Arnor e Gondor. Elendil fu l’Alto Re e visse nel Nord ad Annùminas; il governo del Sud, egli lo affidò ai figli, Isildur e Anàrion. Essi fondarono Osgiliath, fra Minas Ithil e Minas Anor, non lungi dai confini di Mordor. Erano convinti che l’unico vantaggio della distruzione di Nùmenor era stata la morte di Sauron.
Ma non era così. Sauron fu coinvolto nella distruzione di Nùmenor, e la forma corporale che portava da tempo perì; ma egli tornò nella Terra di Mezzo, spirito imbevuto di odio sulle ali di un vento oscuro. Egli fu da allora incapace di assumere una forma che paresse bella agli Uomini: divenne nero e orrendo, e il suo potere si espresse sotto forma di terrore. Rientrò a Mordor, e vi rimase per qualche tempo nascosto, in silenzio. Ma la sua collera fu grande quando apprese che Elendil, colui che odiava di più, gli era sfuggito, e stava ora organizzando un regno lungo le sue frontiere.
Egli fece quindi guerra agli Esuli prima che potessero mettere le radici nelle nuove terre. L’Orodrúin ricominciò a vomitare fuoco e fu chiamato a Gondor Amon Amarth, Monte Fato. Ma Sauron colpì troppo presto, prima che il suo potere fosse consolidato, mentre il potere di Gil-galad era cresciuto in sua assenza; durante l’Ultima Alleanza che fu stretta contro di lui, Sauron dovette soccombere, e l’Unico Anello gli fu strappato. Così si concluse la Seconda Era.
Arnor. Elendil †S.E. 3441, Isildur †2, Valandil 249, Eldacar 339, Arantar 435, Tarcil 515, Tarondor 602, Valandur †652, Elendur 777, Eärendur 861.
Arthedain. Amlalth di Fornost[19] (primogenito di Eärendur) 946, Beleg 1029, Mallor 1110, Celepharn 1191, Celebrindor 1272, Malvegil 1349[20], Argeleb I †1356, Arveleg I 1409, Araphor 1589, Argeleb II 1670, Argevil 1743, Arveleg II 1813, Araval 1891, Araphant 1964, Arvedui Ultimo Re †1974. Fine del Regno del Nord.
Capitani. Aranarth (primogenito di Arvedui) 2106, Arahael 2177, Aranuir 2247, Aravir 2319, Aragorn I †2327, Araglas 2455, Arahad I 2523, Aragost 2588, Aravorn 2654, Arahad II 2719, Arassuil 2784, Arathorn I †2848, Argonui 2912, Arador †2930, Arathorn II 2933, Aragorn II Q.E. 120.
Re di Gondor. Elendil, (Isildur e) Anàrion †S.E. 3440, Meneldil figlio di Anàrion 158, Cemendur 238, Eärendil 324, Anardil 411, Ostoher 492, Rómendacil I (Tarostar) †541, Turambar 667, Atanatar I 748, Siriondil 830.
Tarannon Falastur 913: primo re senza eredi, il suo successore fu il figlio del fratello Tarciryan. Eärnil I †936, Ciryandil †1015, Hyarmendacil I (Ciryaller) 1149. Gondor raggiunse l’apice della gloria.
Atanatar II Alcarin «il Glorioso» 1226, Narmacil I 1294: il secondo re senza figli, ebbe come successore il fratello minore. Calmacil 1304, Minalcar (reggente 1240-1304, incoronato con il nome di Rómendacil II nel 1304, morto nel 1366), Valacar. Qui ebbe inizio il primo disastro di Gondor, la Lotta delle Stirpi.
Eldacar figlio di Valacar (dapprima chiamato Vinitharya) deposto nel 1437. Castamir l’Usurpatore †1447. Restaurazione di Eldacar, morto 1490.
Aldamir (secondogenito di Eldacar) †1540, Hyarmendacil (Vinyarion) 1621, Minardil †1634, Telemnar †1636. Telemnar e tutti i suoi figli perirono di peste; gli succedette il nipote, figlio di Minastan, secondogenito di Minardil. Tarondor 1798, Telumehtar Umbardacil 1850, Narmacil II †1856, Calimehtar 1936, Ondoher 1944. Ondoher ed i suoi due figli furono uccisi in battaglia. Dopo un anno la corona fu data al generale vittorioso Eärnil, un discendente di Telumehtar Umbardacil. Eärnil II 2043, Eärnur †2050. Qui terminò la linea dei Re, e fu restaurata solo nel 3019 da Elessar Telcontar. Il reame fu quindi governato da Sovrintendenti.
Sovrintendenti di Gondor. Casata di Hùrin: Pelendur 1998. Governò per un anno dopo la caduta di Ondoher, e consigliò a Gondor di respingere la richiesta di Arvedui che reclamava la corona. Vorondil il Cacciatore 2029. Mardil Voronwë «il Costante», primo dei Sovrintendenti Reggenti. I suoi successori cessarono di adoperare nomi alto-elfici.
Sovrintendenti Reggenti. Mardil 2080, Elladan 2116, Herion 2148, Belegorn 2204, Hùrin I 2244, Tùrin I 2278, Hador 2395, Barahir 2412, Dior 2435, Denethor I 2477, Boromir 2489, Cirion 2567. A quest’epoca i Rohirrim giunsero a Calenardhon.
Hallas 2605, Hùrin II 2628, Belecthor I 2655, Orodreth 2685, Ecthelion I 2698, Egalmoth 2743, Beren 2763, Beregond 2811, Belecthor II 2872, Thorondir 2882, Tùrin II 2914, Turgon 2953, Ecthelion II 2984, Denethor II. Egli fu l’ultimo dei Sovrintendenti Reggenti, seguito dal suo secondogenito Faramir, Sire di Emyn Arnen, Sovrintendente di Re Elessar, Q.E. 82.
«Eriador era anticamente il nome di tutte le terre comprese fra le Montagne Nebbiose e le Montagne Azzurre; a sud era delimitato dall’Inondagrigio e dal Glanduin che vi affluisce a nord di Sarbad.
«All’epoca di maggiore splendore Arnor comprendeva tutto l’Eriador, eccetto le regioni al di là del Luhun, e le terre a est dell’Inondagrigio e del Rombirivo, ove si trovavano Gran Burrone e Hollin. Oltre il Luhun c’era la terra degli Elfi, verde e tranquilla, e gli Uomini non vi mettevano piede ma i Nani abitavano e abitano ancora sul lato orientale delle Montagne Azzurre, specialmente in quelle parti a sud del Golfo di Luhun dove vi sono miniere ancora utilizzabili. Per questo motivo erano soliti passare a est lungo la Grande Via, come avevano fatto per lunghi anni prima che noi giungessimo nella Contea. Nei Rifugi Oscuri dimorava Cirdan il Timoniere, e alcuni dicono che vi dimori ancora, in attesa che l’Ultima Nave salpi verso ovest. Ai tempi dei Re la maggior parte degli Alti Elfi che rimanevano ancora nella Terra di Mezzo dimorava con Cirdan o risiedeva nelle terre di Lindon presso il Mare. Se alcuni sono rimasti, sono tuttavia ben pochi».
Dopo Elendil e Isildur vi furono otto Alti Re di Arnor. Dopo Eärendur, a causa di dispute fra i figli, il reame fu diviso in tre parti: Arthedain, Rhudaur e Cardolan. Arthedain era a nord-ovest e comprendeva i territori fra il Brandivino e il Luhun, e inoltre quelli a nord della Grande Via fino alle Colline Vento. Rhudaur era a nord-est e si stendeva fra gli Erenbrulli, le Colline Vento e le Montagne Nebbiose, ma includeva anche l’Angolo fra il Fiume Bianco e il Rombirivo. Cardolan era a sud, e le sue frontiere erano il Brandivino, l’Inondagrigio e la Grande Via.
Ad Arthedain la linea d’Isildur si mantenne saldamente, mentre si estinse ben presto a Cardolan e a Rhudaur. Vi erano sovente lotte fra i regni, il che affrettò la scomparsa dei Dùnedain. La principale questione di disputa era il possesso delle Colline Vento e della terra a occidente in direzione di Brea. Sia Rhudaur che Cardolan desideravano possedere Amon Sûl (Colle Vento), che si ergeva ai confini dei loro reami; la Torre di Amon Sûl custodiva infatti il principale Palantir del Nord, mentre gli altri due appartenevano ambedue ad Arthedain.
«Era l’inizio del regno di Malvegil di Arthedain, e il male s’introdusse ad Arnor, perché in quell’epoca si sollevò il reame di Angmar, a nord oltre gli Erenbrulli. Le sue terre si stendevano da ambedue i lati delle Montagne, e vi si erano radunati molti Uomini malvagi, Orchi e altri esseri malefici. Il signore di quelle terre era conosciuto come il Re degli Stregoni, ma soltanto più tardi s’identificò con il capo degli Schiavi dell’Anello che giunse dal Nord con l’intento di distruggere i Dùnedain ad Arnor, approfittando delle loro divisioni, mentre Gondor era forte».
Ai tempi di Argeleb figlio di Malvegil, poiché non vi erano discendenti d’Isildur negli altri reami, i re di Arthedain reclamarono la signoria sull’intero Arnor. Rhudaur resistette. I Dùnedain erano pochi, e il potere era stato preso da un malvagio capo degli Uomini dei Colli, segreto alleato di Angmar. Argeleb fortificò quindi le Colline Vento, ma rimase ucciso combattendo contro Rhudaur e Angmar.
Arveleg figlio di Argeleb, con l’aiuto di Cardolan e Lindon, respinse i nemici dai Colli; e per lunghi anni Arthedain e Cardolan riuscirono a mantenere con la forza una frontiera lungo le Colline Vento, la Grande Via e il basso corso del Rombirivo. Dicono che a quest’epoca Gran Burrone venisse assediato.
Un grande esercito giunse da Angmar nel 1409, attraversò il fiume, entrò a Cardolan e circondò Colle Vento. I Dùnedain furono sconfitti e Arveleg ucciso. La Torre di Amon Sûl venne bruciata e rasa al suolo; ma il palantir fu messo in salvo e custodito a Fornost, mentre Rhudaur veniva occupato da Uomini malvagi soggetti ad Angmar, e i Dùnedain rimasti venivano uccisi o fuggivano a occidente. Cardolan venne devastato. Araphor figlio di Arveleg non era ancora adulto ma già valoroso, e con l’aiuto di Cirdan respinse il nemico da Fornost e dalle Lande del Nord. Gli ultimi Dùnedain fedeli trovarono scampo a Tyrn Gorthad (i Tumulilande) o si rifugiarono nella Foresta.
Dicono che Angmar sia stato temporaneamente soggetto al popolo elfico venuto dal Lindon (e da Gran Burrone, poiché Elrond giunse da Lórien recando con sé dei soccorsi). Fu a quel tempo che gli Sturoi, sin allora vissuti nell’Angolo (fra il Fiume Bianco e il Rombirivo) fuggirono a ovest e a sud a causa delle guerre e per paura di Angmar, e anche perché il terreno e il clima dell’Eriador, specialmente a est, peggiorarono e divennero ostili. Alcuni tornarono nelle Terre Selvagge, e vissero presso Campo Gaggiolo, diventando un popolo di pescatori fluviali.
Ai tempi di Argeleb II la peste giunse nell’Eriador da sud-est, e la maggior parte degli abitanti di Cardolan perirono, specialmente a Minhiriath. Gli Hobbit e tutti gli altri popoli soffrirono enormemente, ma la peste si allontanò verso nord, e le parti settentrionali dell’Arthedain subirono poche perdite. Fu a quest’epoca che si estinsero i Dùnedain di Cardolan; gli spiriti malefici giunti da Angmar e da Rhudaur entrarono nei tumuli abbandonati e vi dimorarono.
«Dicono che i tumuli di Tyrn Gorthad, l’antico nome dei Tumulilande, siano molto antichi, e che molti siano stati edificati ai tempi del vecchio mondo, nella Prima Era, dagli avi degli Edain prima che essi traversassero le Montagne Azzurre per recarsi nel Beleriand, di cui ora il Lindon è tutto ciò che rimane. Quelle montagnole furono quindi venerate dai Dùnedain dopo il loro ritorno, e molti dei loro signori e re vi furono seppelliti. (Alcuni dicono che il tumulo ove fu imprigionato il Portatore dell’Anello era stato in origine la tomba dell’ultimo principe di Cardolan, caduto durante la guerra del 1409)».
«Nel 1974 il potere di Angmar crebbe nuovamente, e il Re degli Stregoni assalì Arthedain prima della fine dell’inverno. Egli s’impadronì di Fornost e cacciò quasi tutti i Dùnedain superstiti al di là del Luhun; fra questi vi erano i figli del re. Ma Re Arvedui si difese sino all’ultimo sulle Lande del Nord, e poi fuggì a nord con alcune delle sue guardie; riuscirono a scampare grazie alla rapidità dei loro destrieri.
«Arvedui rimase per qualche tempo nascosto nelle vecchie miniere dei Nani vicino all’altra estremità delle Montagne, ma fu costretto dalla fame a chiedere aiuto ai Lossoth, gli Uomini delle Nevi di Forochel[21]. Egli ne trovò alcuni accampati lungo le rive del mare. Essi non vollero dapprima aiutare il re, poiché non aveva nulla da offrire loro in cambio, salvo qualche gioiello che essi non apprezzavano, e perché temevano il Re degli Stregoni il quale (dicevano) poteva provocare o fondere il gelo con la sua volontà. Ma, in parte impietositi dal re e dai suoi uomini, in parte impauriti dalle loro armi, diedero loro del cibo e costruirono delle capanne di neve in cui ospitarli. E là Arvedui fu costretto ad aspettare, sperando che degli aiuti sarebbero giunti dal Sud, perché i suoi cavalli erano morti.
«Quando Cirdan udì da Aranarth, figlio di Arvedui, che il re era fuggito a nord, inviò immediatamente una nave a Forochel per cercarlo. Finalmente, dopo molti giorni, lottando con venti contrari, la nave arrivò a destinazione, e i marinai videro in lontananza il piccolo fuoco di legna che gli uomini del re tenevano faticosamente acceso. Ma l’inverno era particolarmente tenace quell’anno; e malgrado fosse ormai marzo, il ghiaccio cominciava appena a rompersi e si stendeva molto oltre la riva.
«Quando gli Uomini delle Nevi videro la nave, rimasero stupefatti ed ebbero paura, perché non avevano veduto navi simili sul mare in tutta la loro vita; ma ora erano divenuti più amichevoli, e trainarono il re con i superstiti della sua compagnia al di là del ghiaccio, sopra carri a slitta. In tal modo una barca calata dalla nave riuscì a raggiungerli.
«Ma gli Uomini delle Nevi si sentivano a disagio, perché dicevano di annusare pericolo nel vento. Il capo dei Lossoth disse ad Arvedui: “Non salire su questo mostro marino! Se ne hanno, di’ agli uomini del mare di portarci cibo e altre cose di cui abbiamo bisogno, e tu puoi restare qui finché il Re degli Stregoni se ne sarà andato. D’estate il suo potere si affievolisce; ma ora il suo alito è micidiale, e il suo braccio freddo è molto lungo”.
«Ma Arvedui non accettò il consiglio. Lo ringraziò, e al momento della separazione gli diede il suo anello, dicendo: “Questo è un oggetto il cui valore supera ogni tua immaginazione, anche solo per la sua antichità. Non ha potere; può procurarti soltanto la stima di coloro che amano la mia casa. Non ti aiuterà, ma se mai tu dovessi trovarti in necessità, la mia stirpe te lo riscatterà con grandi provviste di tutto ciò che desideri”[22].
«Eppure il consiglio dei Lossoth era prudente, per merito del caso o della loro preveggenza: il battello era appena giunto in alto mare quando si levò una violenta tempesta di vento, trascinando con sé turbini di neve del Nord e spingendo la nave contro il ghiaccio. Persino i marinai di Cirdan furono incapaci di porvi rimedio, e durante la notte il ghiaccio sfondò la chiglia della nave, che affondò. In tal modo perì Arvedui Ultimo Re, e con lui i palantiri vennero seppelliti nel mare[23]. Soltanto molto tempo dopo gli Uomini delle Nevi seppero della sciagura».
La gente della Contea sopravvisse, benché travolta dalla guerra, perché i più fuggirono e si nascosero. Inviarono in aiuto al re degli arcieri che non fecero più ritorno; altri parteciparono invece alla battaglia durante la quale Angmar fu sopraffatto (e di cui parlano diffusamente gli annali della Contea). Durante il periodo di pace che seguì, la gente della Contea si autogovernò, prosperando e arricchendosi. Scelsero un Conte che prese il posto del Re, e vissero serenamente; ma per molti anni vi furono coloro che attesero il ritorno del Re. Finalmente ogni speranza svanì, e rimase soltanto il detto Quando tornerà il Re, adoperato per indicare un bene irraggiungibile, o un male inesorabile. Il primo Conte fu un Bucca delle Paludi, del quale i Vecchiobecco si pretendono successori. Egli divenne Conte nel 379 del nostro calendario (1979).
Dopo Arvedui finì il Regno del Nord, perché vi erano ormai pochi Dùnedain e la popolazione dell’Eriador si era diradata. Eppure la stirpe dei re continuò nei Capitani dei Dùnedain, di cui Aranarth figlio di Arvedui fu il primo. Suo figlio Arahael fu allevato a Gran Burrone, come tutti i figli dei capitani successivi. A Gran Burrone erano custoditi i tesori della loro Casa: l’anello di Barahir, i frantumi di Narsil, la stella di Elendil e lo scettro di Annùminas[24]. «Quando il regno finì, i Dùnedain s’immersero nelle ombre e divennero un popolo misterioso ed errante; le loro gesta venivano assai di rado narrate o cantate. Pochi ricordi rimangono di loro ora che Elrond è partito. Anche se prima ancora della fine della Pace Vigile certi esseri malefici ricominciarono ad attaccare l’Eriador o a invaderlo di nascosto, i Capitani nella maggior parte non perirono di morte prematura. Aragorn I pare sia stato ucciso dai lupi, che rimasero sempre un pericolo per l’Eriador e che ancora oggi non si sono estinti. All’epoca di Arahad I gli Orchi, che, come si seppe più tardi, occupavano da tempo alcune fortezze nelle Montagne Nebbiose, da cui potevano sbarrare tutti i valichi dell’Eriador, apparvero improvvisamente. Nel 2509 Celebrían moglie di Elrond stava viaggiando diretta a Lórien, quando venne assalita al Passo Cornorosso; la sua scorta fu dispersa ed ella venne rapita e portata via. Elladan ed Elrohir la inseguirono e la trassero in salvo, ma ella aveva già sofferto terribili torture ed era stata ferita da un’arma avvelenata. Fu riportata a Imladris, e benché Elrond riuscisse a guarire il suo corpo perfettamente, ella perse ogni amore per la Terra di Mezzo, e si recò quindi l’anno seguente ai Rifugi Oscuri, veleggiando oltre il Mare. Più tardi, nei giorni di Arussuil, gli Orchi, che si moltiplicavano nelle Montagne Nebbiose, incominciarono a devastare varie regioni e i Dùnedain lottarono contro di loro con l’aiuto dei figli di Elrond. Fu a quell’epoca che una folta schiera di Orchi si spinse sino a invadere la Contea, e Brandobras Tuc li mise in fuga».
I capitani furono quattordici prima che nascesse il quindicesimo ed ultimo, Aragorn II, che divenne poi Re di Gondor e di Arnor. «Il nostro Re, lo chiamiamo; e quando viene a nord, e dimora nella sua casa vicino al Lago Evendim, tutti nella Contea sono felici. Egli tuttavia non entra in questo territorio, sottomettendosi alla legge da lui stesso stabilita, che la Gente Alta non ha diritto di varcarne le frontiere. Ma suole spesso recarsi, in compagnia di splendida gente, sino al Grande Ponte, e lì saluta gli amici, e tutti coloro che desiderano vederlo; alcuni partono al suo seguito ed abitano presso di lui sino a quando lo desiderano. Il Conte Peregrino è partito molte volte, e così pure Mastro Samvise il Sindaco, la cui figlia Elanor la Bella è una delle damigelle della Regina Stella del Vespro».
Fu motivo di orgoglio e di meraviglia il fatto che, sebbene nel corso degli anni il potere e il numero dei Dùnedain della linea settentrionale diminuisse, essi riuscissero a conservare ininterrotta la successione attraverso la lunga serie di generazioni. La vita dei Dùnedain si abbreviò nella Terra di Mezzo, ma dopo la scomparsa del re si accorciò ancor più notevolmente a Gondor; eppure molti Capitani del Nord vissero il doppio degli Uomini e molto più a lungo del più longevo tra tutti noi. Aragorn visse infatti centonovant’anni, più a lungo di chiunque altro della sua stirpe dopo Re Arvegil; ma in Aragorn Elessar si rinnovò la dignità e lo splendore dei re antichi.
Vi furono trentuno re a Gondor dopo Anàrion, ucciso davanti a Barad-dûr. Benché la guerra non cessasse mai alle frontiere, per più di mille anni i Dùnedain del Sud accrebbero la loro ricchezza e il loro potere per mari e per monti, fino al regno di Atanatar II, chiamato Alcarin il Glorioso. Eppure i primi segni di decadenza avevano già incominciato a manifestarsi; gli Alti Uomini del Sud si sposavano tardi e avevano pochi figli. Il primo re senza discendenza fu Falastur e il secondo Narmacil I, figlio di Atanatar Alcarin.
Ostoher, il settimo re, ricostruì Minas Anor, dove più tardi i re dimorarono d’estate abbandonando per una stagione Osgiliath. Ai suoi tempi Gondor subì il primo attacco dei selvaggi Uomini dell’Est. Ma Tarostar, suo figlio, li sconfisse e li respinse, e prese il nome di Rómendacil «l’Orientale». Egli fu tuttavia ucciso durante una successiva battaglia contro altre schiere di Esterling. Turambar suo figlio lo vendicò, impossessandosi di un vasto territorio a est.
Con Tarannon, il dodicesimo re, incominciò la linea dei Re Navigatori, i quali costruirono flotte ed estesero l’influenza di Gondor su tutte le coste a ovest e a sud dell’estuario dell’Anduin. Per commemorare le sue vittorie quale Capitano degli Eserciti, Tarannon salì sul trono con il nome di Falastur, «Sire delle Coste».
Eärnil I, suo nipote, riparò l’antico porto di Pelargir e costruì una poderosa flotta. Assediò Umbar da terra e da mare, e se ne impadronì, trasformandola in un grande porto e in una roccaforte della potenza di Gondor[25]. Ma Eärnil non sopravvisse a lungo al suo trionfo. Egli perì con molte navi e molti uomini durante una grande tempesta presso Umbar. Suo figlio Ciryandil continuò a costruire navi, ma gli Uomini dell’Harad, capeggiati dai signori cacciati da Umbar, assaltarono quella fortezza con ingenti forze, e Ciryandil cadde in combattimento nel Haradwalth.
Umbar venne assalita a più riprese, ma fu impossibile conquistarla a causa della potenza navale di Gondor. Ciryaher figlio di Ciryandil attese l’ora propizia e quando ebbe finalmente radunato le forze necessarie scese da nord per mare e per terra, e attraversando il Fiume Harnen sconfisse definitivamente gli Uomini di Harad, i cui re furono costretti a riconoscere la signoria di Gondor (1050). Ciryaher prese allora il nome di Hyarmendacil «il Meridionale».
Nessun nemico osò contestare la potenza di Hyarmendacil durante il resto del suo lungo regno. Egli regnò infatti per centotrentaquattro anni, il secondo regno in ordine di lunghezza della linea di Anàrion. Ai suoi tempi Gondor raggiunse l’apice della gloria. Il reame si stendeva a nord fino al Celebrant e ai margini meridionali del Bosco Atro; a ovest sino all’Inondagrigio; a est sino al Mare interno di Rhûn; a sud sino al Fiume Harnen e da lì lungo la costa fino alla penisola e al porto di Umbar. Gli Uomini delle Valli dell’Anduin avevano riconosciuto la sua sovranità, e i re di Harad ossequiavano Gondor, e inviavano i loro figli alla corte del Re come ostaggi. Mordor era un deserto, ma veniva sorvegliato da grandi fortezze che guardavano i valichi.
Così si estinse la linea dei Re Navigatori. Atanatar Alcarin, figlio di Hyarmendacil, visse in tale splendore che la gente diceva: Le pietre preziose a Gondor sono sassolini con i quali giocano i bambini. Ma Atanatar amava la vita facile, e non fece nulla per mantenere il potere che aveva ereditato; i suoi due figli gli rassomigliavano in tutto e per tutto. La debolezza di Gondor era già iniziata prima che egli morisse, ed era indubbiamente stata notata dai nemici. La sorveglianza nei confronti di Mordor venne abbandonata. Eppure fu soltanto all’epoca di Valacar che il primo grande male gravò su Gondor: la guerra civile chiamata Lotta delle Stirpi, che causò grandi perdite e rovine, mai più del tutto riparate.
Minalcar, figlio di Calmacil, era uomo di gran coraggio, e nel problema. Da allora egli governò Gondor in nome dei re, finché non succedette al padre. La sua maggior preoccupazione erano gli Uomini Nordici.
Questi erano divenuti molto più numerosi nel periodo di pace coevo alla grandezza e alla potenza di Gondor. I re erano ben disposti nei loro confronti, poiché fra gli Uomini comuni erano quelli che più si avvicinavano ai Dùnedain (essendo per lo più discendenti di quei popoli dai quali discendevano gli antichi Edain); e diedero loro vaste terre al di là dell’Anduin a sud della Grande Foresta Verde affinché rappresentassero una difesa contro gli uomini dell’Est. Infatti i precedenti attacchi degli Esterling provenivano soprattutto dalla pianura compresa fra il Mare Interno ed i Monti Cenere.
Ai tempi di Narmacil I gli attacchi degli Esterling si rinnovarono, ma dapprima furono assai deboli; ma il reggente venne a sapere che gli Uomini Nordici non erano sempre fedeli a Gondor e che alcuni di essi si alleavano agli Esterling, perché avidi di bottino e desiosi di partecipare alle ostilità fra i loro principi. Minalcar partì quindi nel 1248 con un grosso esercito, e fra il Rhovanion (le Terre Selvagge) e il Mare Interno sconfisse una folta schiera di Esterling e distrusse i loro accampamenti a est del Mare. Assunse quindi il nome di Rómendacil.
Al suo ritorno in patria, Rómendacil fortificò la riva occidentale dell’Anduin, fino alla sua confluenza con il Limterso, e vietò a qualunque straniero di scendere il corso del Fiume oltre all’Emyn Muil. Fu lui che edificò le colonne degli Argonath all’ingresso di Nen Uithcel. Ma poiché aveva bisogno di uomini, e voleva inoltre rafforzare i legami fra Gondor e gli Uomini Nordici, ne prese molti al suo servizio, dando loro alti incarichi nei suoi eserciti.
Rómendacil mostrò di favorite particolarmente Vidugavia, che l’aveva aiutato durante la guerra. Egli si faceva chiamare Re del Rhovanion ed era effettivamente il più potente dei principi del Nord, benché il suo regno si stendesse fra la Foresta Verde ed il Fiume Celduin[26]. Nel 1250 Rómendacil mandò suo figlio Valacar come ambasciatore presso la corte di Vidugavia, affinché apprendesse la lingua, i modi e la politica degli Uomini Nordici. Ma Valacar andò oltre le intenzioni del padre: s’innamorò delle terre e delle popolazioni nordiche, sposò Vidumavi, figlia di Vidugavia, e per molti anni non tornò. Da questo matrimonio ebbe origine la Lotta delle Stirpi.
«Gli alti Uomini di Gondor guardavano infatti già con astio gli Uomini Nordici che vivevano fra loro; ed era per loro cosa inaudita che l’erede al trono o qualunque figlio di re sposasse qualcuno di razza inferiore e straniera. Vi erano già insurrezioni nelle provincie meridionali alla fine del regno di Re Valacar. La sua regina era stata una dama bella e nobile, ma dalla esistenza breve, come tutti gli Uomini comuni, ed i Dùnedain temevano che i suoi discendenti ereditassero questo difetto, perdendo molto della maestà dei Re degli Uomini. Erano inoltre poco disposti ad accettare come sovrano il figlio di lei, il quale, pur chiamandosi ora Eldacar, era tuttavia nato in un paese straniero e aveva portato in gioventù il nome di Vinitharya, tipico del popolo di sua madre.
«Perciò, quando Eldacar succedette a suo padre, a Gondor scoppiò la guerra civile. Ma Eldacar dimostrò di non potere essere facilmente spodestato. Alle caratteristiche di Gondor si mescolava in lui lo spirito temerario degli Uomini Nordici. Era bello e valoroso, e non mostrava tracce di rapido invecchiamento. Quando i congiurati capeggiati da alcuni discendenti dei re si sollevarono contro di lui, egli li combatte sino all’esaurimento delle sue forze. Venne infine assediato a Osgiliath, e riuscì a sopportare a lungo l’assedio, ma alla fine la fame e le forze di gran lunga superiori dei nemici lo costrinsero a fuggire, abbandonando la città in fiamme. In quell’assedio e in quell’incendio venne distrutta la Torre della Pietra di Osgiliath, e il palantir si smarrì nelle acque.
«Ma Eldacar riuscì a sfuggire ai nemici, e si recò a nord, presso la sua gente nel Rhovanion. Molti si unirono a lui, Uomini Nordici al servizio di Gondor e Dùnedain delle parti settentrionali del reame. Infatti molti di questi avevano appreso a stimarlo, e molti odiavano l’usurpatore. Costui era Castamir, pronipote di Calimehtar, fratello cadetto di Rómendacil II. Non solo era uno dei più prossimi nella linea di successione al trono, ma era anche quello che contava la più folta schiera di seguaci; era infatti Capitano di Navi, e godeva del favore delle popolazioni costiere e dell’ausilio dei due grandi porti di Pelargir e Umbar.
«Castamir era da poco sul trono, quando dimostrò di essere altero ed egoista. Era un uomo crudele, come già aveva dimostrato in occasione dell’assedio di Osgiliath. Aveva preteso infatti che Ornendil figlio di Eldacar, preso prigioniero, venisse ucciso; e le stragi e le distruzioni di cui fu vittima la città per causa sua eccedettero di molto le necessità della guerra. Ciò fu ricordato a Minas Tirith e nell’Ithilien, ove l’amore per Castamir diminuì ancora quando fu chiaro che gli importava poco della terra e che si preoccupava soltanto delle flotte e intendeva quindi spostare la capitale del regno a Pelargir.
«Egli regnava da non più di dieci anni, quando Eldacar, vedendo che la sua ora era giunta, arrivò con un grosso esercito del Nord, mentre folte schiere di abitanti di Calenardhon, Anórien e Ithilien si univano a lui. Vi fu una grande battaglia nel Lebennin, ai Guadi dell’Erui, ove fu versato molto del miglior sangue di Gondor. Eldacar stesso uccise Castamir in combattimento, e vendicò quindi suo figlio Ornendil; ma i figli di Castamir sopravvissero e riuscirono a difendere a lungo Pelargir con l’aiuto dei suoi abitanti e della gente delle flotte.
«Quando ebbero radunato là tutte le forze che poterono riunire (poiché Eldacar non possedeva navi con le quali attaccarli dal mare), essi salparono, stabilendosi a Umbar. Ivi crearono un rifugio per i nemici del re, e una signoria indipendente. Umbar rimase in guerra con Gondor per molte generazioni, una minaccia per le sue coste e per tutto il commercio marittimo. Solo durante il regno di Elessar, Gondor riuscì a sottometterla definitivamente; ma prima la regione meridionale di Gondor rimase per lunghi anni una terra desolata posta fra i Corsari e i Re».
«La perdita di Umbar fu grave per Gondor, non solo perché il reame veniva ridotto a sud e perché perdeva il controllo degli Uomini di Harad, ma anche perché era stato proprio là che Ar-Pharazôn il Dorato, ultimo re di Nùmenor, aveva messo piede a terra e umiliato il potente Sauron. E benché ne fossero derivati molti mali, persino i seguaci di Elendil ricordavano con fierezza la venuta dell’immenso esercito di Ar-Pharazôn giunto dagli abissi del Mare; e sul più alto colle che sovrastava il Porto avevano eretto una grande colonna bianca per ricordare l’avvenimento. Era coronata da un globo di cristallo che assorbiva i raggi del Sole e della Luna e brillava come una stella lucente, visibile in tempo sereno persino dalle coste di Gondor e lungi in alto mare. E rimase lì fino al risorgere della potenza di Sauron, che ormai era prossimo, quando Umbar cadde sotto la dominazione dei suoi servitori e il segno che ricordava la sua umiliazione venne distrutto».
Dopo il ritorno di Eldacar il sangue della casa reale e delle altre case dei Dùnedain si mescolò con quello degli Uomini comuni. Molti dei grandi erano infatti rimasti uccisi nella Lotta delle Stirpi, ed Eldacar si mostrava favorevole agli Uomini Nordici, grazie ai quali aveva potuto riconquistare la corona, accogliendo quindi a Gondor numerosi di essi provenienti dal Rhovanion.
Questo miscuglio non affrettò in un primo tempo l’indebolimento dei Dùnedain, come essi avevano temuto, eppure questo indebolimento procedeva, a poco a poco, come sempre. Era indubbiamente dovuto alla Terra di Mezzo stessa e al lento scomparire delle virtù dei Numenoreani dopo l’inabissamento della Terra della Stella. Eldacar visse sino a duecento e trentacinque anni, regnando per cinquantotto e trascorrendone dieci in esilio.
Il secondo e peggior male si abbatté su Gondor durante il regno di Telemnar, il ventiseiesimo re, il cui padre Minardil, figlio di Eldacar, fu ucciso a Pelargir dai Corsari di Umbar. (Essi erano capeggiati da Angamaltë e Sangahyando, pronipoti di Castamir). Poco dopo sopraggiunse una micidiale epidemia, portata da oscuri venti dell’Est. Il Re e tutti i suoi figli morirono, e anche numerosi abitanti di Gondor e specialmente di Osgiliath. Allora, a causa della stanchezza e della scarsità di Uomini, cessò la vigilanza alle frontiere di Mordor e le linee di confine che guardavano i valichi rimasero incustodite.
Più tardi ci si rese conto che tutte queste cose accadevano proprio mentre l’Ombra s’infittiva nella Foresta Verde e molte altre cose infauste accadevano, segno del risorgere di Sauron. Ed è vero che anche i nemici di Gondor ne soffrirono, altrimenti avrebbero potuto approfittare della sua debolezza per sopraffarlo; ma Sauron poteva attendere, ed è probabile che il suo maggior desiderio fosse quello d’insediarsi a Mordor.
Quando morì il re Telemnar, anche gli Alberi Bianchi di Minas Anor avvizzirono e morirono. Ma Tarondor, suo nipote e successore, ripiantò un giovane seme nella cittadella. Fu lui che trasferì definitivamente la dimora del Re a Minas Anor, poiché Osgiliath era ormai in parte deserta e cominciava a cadere in rovina. E tutti coloro che erano sfuggiti all’epidemia rifugiandosi nell’Ithilien o nelle valli occidentali desideravano ora ritornare.
Tarondor, salendo al trono assai giovane, ebbe il regno più lungo di tutti i Re di Gondor; ma non poté fare altro che riordinare il suo reame all’interno e curarne la graduale ripresa di forze. Ma suo figlio Telumehtar, memore della morte di Minardil e turbato dall’insolenza dei Corsari, le cui incursioni si spingevano sino all’Anfalas, radunò le sue forze e nel 1810 riprese Umbar, favorito da una tempesta. In quella guerra perirono gli ultimi discendenti di Castamir, e Umbar tornò per qualche tempo nelle mani dei re. Telumehtar aggiunse al proprio nome il titolo di Umbardacil. Ma nel corso dei nefasti episodi di cui fu poco dopo vittima Gondor, Umbar cadde nelle mani degli Uomini di Harad e fu perduta un’altra volta.
Il terzo male fu l’invasione dei Carrieri, che minò la declinante forza di Gondor in guerre della durata di quasi cento anni. I Carrieri erano un popolo, o piuttosto una federazione di molti popoli, venuti dall’Est; Ma erano più forti e meglio armati degli altri apparsi precedentemente. Viaggiavano in grossi carri, e i loro capi combattevano su cocchi. Sollevati (si seppe più tardi) dagli emissari di Sauron, assalirono improvvisamente Gondor e Re Narmacil II venne ucciso nel corso della battaglia oltre l’Anduin, nel 1856. Le genti del Rhovanion orientale e meridionale furono asservite e le frontiere di Gondor dovettero retrocedere all’Anduin e all’Emyn Muil. (Si pensa che a quest’epoca gli Schiavi dell’Anello siano ritornati a Mordor).
Calimehtar, figlio di Narmacil II, con l’aiuto di una rivolta nel Rhovanion, vendicò suo padre con una grande vittoria contro gli Esterling presso Dargolad nel 1899, e per qualche tempo il pericolo si allontanò. Fu durante il regno di Araphant al Nord e Ondoher figlio di Calimehtar nel Sud, che i due reami si consultarono nuovamente, dopo un lungo silenzio e una persistente ostilità. Compresero infatti finalmente che un unico potere e volere dirigeva gli assalti provenienti da molte parti ma diretti tutti contro i superstiti di Nùmenor. E proprio allora Arvedui, erede di Araphant, sposò Finel figlia di Ondoher (1940). Ma nessuno dei due regni potè inviare soccorsi all’altro, perché Angmar rinnovò i suoi attacchi contro Arthedain, mentre contemporaneamente riapparivano in gran numero i Carrieri.
Molti Carrieri si recarono a sud di Mordor, alleandosi con gli Uomini del Khand e del Vicino Harad, e a seguito di questo imponente assalto da nord e da sud, Gondor venne quasi distrutto. Nel battaglia a nord del Morannon ed i nemici si riversarono nell’Ithilien. Ma Eärnil, Capitano dell’Esercito del Sud, riportò una grande vittoria nel Sud Ithilien e distrusse l’esercito di Harad che aveva attraversato il Fiume Poros. Affrettandosi a recarsi a nord, radunò tutti i superstiti dell’esercito del Nord che batteva in ritirata e assalì l’accampamento più grosso dei Carrieri, mentre banchettavano e gozzovigliavano, pensando che Gondor fosse per sempre sconfitto e che non rimanesse altro da fare che ammassare il bottino. Eärnil piombò sull’accampamento e incendiò i carri, cacciando via dall’Ithilien il nemico sbaragliato. E parte di coloro che fuggirono peri poi nelle Paludi Morte, a est dell’Emyn Muil.
«Dopo la morte di Ondoher e dei suoi figli, Arvedui del Regno del Nord reclamò la corona di Gondor, quale diretto successore d’Isildur e al tempo stesso marito di Firiel, unica discendente vivente di Ondoher. Ma la sua pretesa venne respinta. Il maggiore artefice di ciò fu Pelendur, il Sovrintendente di Re Ondoher.
«Il Consiglio di Gondor rispose: “Corona e regalità di Gondor appartengono unicamente agli eredi di Meneldil, figlio di Anàrion, al quale Isildur cedette questo reame. A Gondor questa eredità viene attribuita solo ai figli maschi, e non ci risulta che la legge sia diversa ad Arnor”.
«A ciò Arvedui rispose: “Elendil aveva due figli, di cui Isildur era il primogenito e l’erede. Il nome di Elendil è oggi il primo della linea dei Re di Gondor, poiché fu considerato l’alto re di tutte le terre dei Dùnedain. Quando Elendil era ancora in vita affidò il governo delle provincie meridionali ai suoi due figli; ma quando Elendil cadde, Isildur partì per prendere il posto del padre, affidando anch’egli a suo fratello il governo del Sud. Egli non cedette il regno di Gondor, né volle che il reame di Elendil venisse per sempre diviso.
«“Inoltre, anticamente a Nùmenor lo scettro passava al primogenito del re, sia maschio che femmina. È vero che tale legge non è stata osservata nelle terre d’esilio, sempre turbate dalle guerre; ma era questa la legge delle nostre genti, alla quale noi ora facciamo riferimento, poiché i figli di Ondoher sono morti senza lasciare eredi”[27].
«A ciò Gondor non rispose. La corona fu reclamata da Eärnil, il capitano vittorioso, e gli venne concessa con l’approvazione di tutti i Dùnedain di Gondor, poiché egli apparteneva alla casa reale. Egli era infatti figlio di Siriondil, figlio di Calimmacil, figlio di Arciryas fratello di Narmacil II. Arvedui non insistette, perché non aveva né il potere né il desiderio di opporsi alla scelta dei Dùnedain di Gondor; ma la sua richiesta non fu mai dimenticata dai suoi discendenti, anche quando il loro regno fu scomparso. Si avvicinava infatti la fine del Regno del Nord.
«Arvedui fu l’ultimo dei Re del Nord, come dice il suo nome. E pare che tale nome gli sia stato dato alla nascita da Malbeth il Veggente, il quale disse al padre: “Lo chiamerai Arvedui, perché sarà l’ultimo ad Arthedain. Ai Dùnedain sarà imposta una scelta, e se decideranno per colui che presenta le minori speranze, allora tuo figlio muterà il suo nome e diventerà re di un reame assai più grande. Ma se non sarà così, trascorreranno molte vite d’uomini e molte sofferenze prima che i Dùnedain risorgano e si uniscano di nuovo”.
«Anche a Gondor un unico re succedette a Eärnil. Forse, se corona e scettro fossero stati uniti, il regno si sarebbe mantenuto e molti mali avrebbero potuto essere evitati. Ma Eärnil era saggio, e non arrogante, anche se, come alla maggior parte degli uomini di Gondor, gli sembrava che il reame di Arthedain fosse una piccola cosa, nonostante l’alto lignaggio dei sovrani.
«Egli inviò messaggi ad Arvedui annunciando che aveva ricevuto la corona di Gondor, secondo le leggi e le necessità del Regno del Sud, “ma non dimentico la lealtà di Arnor, né rinnego la nostra parentela, né desidero che i reami di Elendil siano divisi da ostilità. Vi invierà aiuti quando ne avrete bisogno, se mi sarà possibile”.
«Trascorse però molto tempo prima che Eärnil si sentisse sufficientemente al sicuro per mantenere la promessa. Il Re Araphant continuò, con forze sempre minori, a respingere gli assalti di Angmar, e il suo successore Arvedui fece lo stesso; ma finalmente, nell’autunno del 1973, giunse a Gondor la notizia che Arthedain si trovava in grandi difficoltà, poiché il Re degli Stregoni preparava un ultimo attacco. Allora Eärnil inviò a nord suo figlio Eärnur con una flotta, e con tutte le forze di cui poteva fare a meno. Troppo tardi. Prima che Eärnur raggiungesse i porti del Lindon, il Re degli Stregoni aveva già conquistato l’Arthedain, e Arvedui era morto.
«Ma quando Earnur giunse ai Rifugi Oscuri, vi fu gioia e gran meraviglia fra gli Elfi e gli Uomini. Le sue navi erano infatti così grandi e numerose che gli fu difficile ancorarle tutte, pur dopo aver riempito sia l’Harlond che il Forlond; da quelle navi scese un esercito possente, con armi e provviste per la guerra del grande re. Immensa parve quindi alla gente del Nord la flotta, eppure non era che un’infima parte della grande potenza di Gondor. Più di ogni altra cosa vennero apprezzati i cavalli, perché molti venivano dalle Valli dell’Anduin, ed erano montati da cavalieri alti e belli, fieri principi del Rhovanion.
«Allora Cfrdan radunò tutti coloro che erano disposti a partire, e quando ogni cosa fu pronta l’esercito attraversò il Luhun e marciò verso nord per sfidare il Re degli Stregoni di Angmar. Egli dimorava ora, narrano le storie, a Fornost, che aveva empita di gente malefica, usurpando la casa dei re. Nel suo folle orgoglio non attese l’assalto dei nemici, ma partì loro incontro, credendo di distruggerli in un baleno, come aveva fatto con altri precedentemente, e di affogarli tutti nel Luhun.
«Ma l’Esercito dell’Ovest piombò su di lui dai Colli dell’Evendim, e una grande battaglia ebbe luogo nella pianura fra il Lago Nenuial e le Lande del Nord. Le forze di Angmar stavano ormai per cedere, ritirandosi a Fornost, quando il grosso della cavalleria che aveva aggirato le colline le prese alle spalle, creando fra loro lo scompiglio. Allora il Re degli Stregoni fuggì a nord con tutti i superstiti della strage, rifugiandosi nella sua terra di Angmar. Prima che potesse raggiungere il rifugio di Carn Dûm la cavalleria di Gondor lo raggiunse, capeggiata da Eärnur. Al medesimo istante giungeva da Gran Burrone una schiera comandata da Glorfindel, Signore Elfico. Allora la sconfitta di Angmar fu così completa che non rimase né un Orco né un Uomo di quel reame a ovest delle Montagne.
«Ma narrano che quando tutto fu perduto il Re degli Stregoni apparve in persona, con un manto e una maschera neri, montato sopra un nero destriero. La paura colse tutti coloro che lo videro; ma egli scelse il Capitano di Gondor come bersaglio del suo terribile odio, e con un grido atroce cavalcò diritto contro di lui; Eärnur avrebbe sostenuto l’assalto, ma il suo cavallo non seppe attendere la carica, e voltatosi lo trascinò via prima che egli potesse domarlo.
«Allora il Re degli Stregoni rise, e nessuno di coloro che lo udirono dimenticò più l’orrore di quel riso. Ma in quel momento arrivò Glorfindel sul suo cavallo bianco, e il Re degli Stregoni smise di ridere: fuggì, scomparendo nelle ombre. La notte coprì il campo di battaglia, ed egli svani. Nessuno vide dove andava.
«Ma Eärnur tornò al galoppo, e Glorfindel, scrutando le tenebre che s’infittivano, gli disse: “Non l’inseguire! Non tornerà nella sua terra. Lontano ancora è il suo destino, ed egli non cadrà per mano di un uomo”. Molti rammentarono queste parole, ma Earnur era furente, e desiderava soltanto vendicarsi del disonore.
«Terminò così il malefico regno di Angmar, ed Eärnur, Capitano di Gondor, si guadagnò l’odio del Re degli Stregoni; ma dovevano passare molti anni prima che ciò si manifestasse».
Fu dunque durante il regno di Re Eärnil, come ci si rese conto più tardi, che il Re degli Stregoni fuggendo da Angmar si rifugiò a Mordor, riunendo là gli altri Schiavi dell’Anello, di cui egli era il capo. Solo nel 2000, però, essi uscirono da Mordor attraverso il Passo di Cirith Ungol e assediarono Minas Ithil, impadronendosene nel 2002 e catturando il palantir della torre. Essi vi rimasero fino alla fine della Terza Eta, e Minas Ithil divenne un luogo di paura, e venne chiamato Minas Morgul. Gran parte degli abitanti che dimoravano ancora nell’Ithilien se ne allontanarono.
«Eärnur rassomigliava a suo padre quanto a valore, ma non quanto a saggezza. Era un uomo di decisa prestanza fisica e di carattere focoso; e non voleva prendere moglie, perché il suo unico piacere era la lotta, o l’esercizio delle armi. La sua prodezza era tale che nessuno poteva eguagliarlo a Gondor nei suoi esercizi preferiti, ed egli era piuttosto un campione che non un capitano o un re, e conservò vigore e abilità in età assai avanzata».
Quando Eärnur ricevette la corona nel 2043, il Re di Minas Morgul lo sfidò a duello, rinfacciandogli di non aver osato affrontarlo durante la battaglia del Nord. Ma Mardil il Sovrintendente riuscì a contenere la furia del re. Minas Anor, divenuta la capitale del reame dai giorni di Re Telemnar, e altresì la residenza dei re, fu chiamato Minas Tirith, la città sempre in guardia contro gli orrori di Morgul.
Earnur era re da sette anni, quando il Signore di Morgul ripeté la sfida, rinfacciando al re che ormai al poco coraggio della gioventù si aggiungeva anche la debolezza dell’età. Allora Mardil non riuscì più a trattenerlo, ed egli cavalcò con una piccola scorta di cavalieri sino al cancello di Minas Morgul. Non si ebbe mai più notizia di alcuno di essi. A Gondor tutti pensarono che il nemico avesse teso una trappola al re e che questi fosse morto fra le torture a Minas Morgul; ma poiché non vi erano testimoni della sua morte, Mardil il Buon Sovrintendente governò Gondor in suo nome per lunghi anni.
I discendenti dei re si erano ormai molto ridotti di numero. La Lotta delle Stirpi aveva notevolmente contribuito a decimarli, e da allora i re etano divenuti gelosi e guardinghi. Molti tra coloro di cui essi sospettavano erano fuggiti a Umbar unendosi ai ribelli, mentre altri avevano rinunciato al loro lignaggio e avevano preso mogli che non erano di sangue numenoreano.
Fu così che non si trovò un pretendente alla corona che fosse di sangue puro, o uno che tutti fossero d’accordo ad accettare come re; ognuno tremava al ricordo della Lotta delle Stirpi, sapendo che se fosse risorta una simile disputa sarebbe stata la fine di Gondor. E quindi, attraverso gli anni, il Sovrintendente continuò a governare Gondor, mentre la corona di Elendil giaceva in grembo a re Earnil nelle Case dei Morti, dove Eärnur l’aveva lasciata.
I Sovrintendenti
La Casa dei Sovrintendenti venne chiamata Casa di Hùrin, perché essi discendevano dal Sovrintendente di Re Minardil (1621-1634), Hùrin di Emyn Amen, uomo di alta razza numenoreana. Da allora i re avevano sempre scelto i loro sovrintendenti fra i loro discendenti, e a partire da Pelendur la Sovrintendenza divenne ereditaria come la corona, di padre in figlio, o da parente a parente prossimo.
Ogni nuovo Sovrintendente entrava in carica con il giuramento di «tenere lo scettro e regnare in nome del re, fino al suo ritorno». Ma queste divennero presto parole di un rituale, e i Sovrintendenti vi facevano poco caso, esercitando l’intero potere dei re. Eppure molti a Condor credevano ancora che un re sarebbe effettivamente ritornato nei tempi a venire; e alcuni ricordavano l’antica linea del Nord, che si mormorava vivesse ancora ma in ombra. I Sovrintendenti Regnanti però fecero cattiva accoglienza a simili idee.
Essi tuttavia non sedettero mai sull’antico trono, e non portavano né corona né scettro. Avevano soltanto un bastone bianco quale simbolo del loro incarico, e il loro stendardo era bianco senza alcun disegno, mentre il vessillo del re era nero, e su di esso fioriva un albero bianco sormontato da sette stelle.
Dopo Mardi Voronwë, il quale venne considerato il primo della linea, seguirono ventiquattro Sovrintendenti Regnanti a Gondor, sino all’epoca di Denethor II, ventiseiesimo e ultimo. Essi poterono in principio governare tranquillamente, perché quelli erano i giorni della Pace Vigile, durante i quali Sauron indietreggiò innanzi al potere del Bianco Consiglio e gli Schiavi dell’Anello rimasero nascosti nella Valle di Morgul. Ma dai giorni di Denethor I non vi fu mai più una vera e propria pace, e anche quando Gondor non era propriamente in guerra, le sue frontiere erano costantemente minacciate.
Negli ultimi anni di Denethor I apparve per la prima volta, proveniente da Mordor, la razza degli Uruk, Orchi neri di notevole forza fisica, che nel 2475 invasero l’Ithilien e si impadronirono di Osgiliath. Boromir, figlio di Denethor (da cui ebbe poi nome Boromir dei Nove Viandanti) li sconfisse e riconquistò l’Ithilien, ma Osgiliath era definitivamente distrutta e il suo ponte di pietra era crollato. Più nessuno vi dimorò. Boromir era un grande capitano, e persino il Re degli Stregoni lo temeva. Egli era infatti nobile e bello, forte nel corpo e nella volontà, ma in quella guerra ricevette dalla gente di Morgul una ferita che abbreviò molto i suoi giorni, facendolo come avvizzire dal dolore e uccidendolo dodici anni dopo la morte del padre.
Dopo di lui venne il lungo governo di Cirion. Era uomo cauto e prudente, ma il territorio di Gondor era ormai assai ridotto, ed egli non poteva fare altro che difenderne le frontiere, mentre i suoi nemici (o piuttosto il potere che li spingeva) preparavano attacchi che egli non poteva impedire. I Corsari saccheggiavano le regioni costiere, ma il maggior pericolo era a nord. Nelle vaste terre del Rhovanion, fra il Bosco Atro e il fiume Flutti, viveva infatti adesso un popolo feroce, interamente sottomesso all’ombra di Dol Guldur. Frequenti erano le loro scorrerie attraverso la foresta sino alla valle dell’Anduin, tanto che pian piano tutti abbandonarono le regioni a sud del Gaggiolo. Questi Balchoth aumentavano costantemente a causa dell’immigrazione di altri giunti da est, mentre la popolazione del Calenardhon era assai ridotta. Ed era assai difficile per Cirion difendere la linea dell’Anduin.
«Prevedendo la tempesta, Cirion inviò a nord dei soccorsi, ma troppo tardi, perché quell’anno i Balchoth avevano costruito molte grosse barche e zattere lungo le rive orientali dell’Anduin, e riuscirono a travolgere i difensori. Un esercito venuto dal Sud venne deviato e costretto a dirigersi verso il Limterso, ove fu improvvisamente assalito da una schiera di Orchi venuti dalle Montagne, e spinto verso l’Anduin. Allora dal Nord giunsero aiuti insperati, e per la prima volta si udirono a Gondor i corni dei Rohirrim. Eorl il Giovane venne con i suoi cavalieri e sterminò i nemici, e inseguì i Balchoth fino ad ucciderli tutti sui campi del Calenardhon. Cirion allora donò a Eorl quel territorio, e questi preste il Giuramento di Eorl, in cui s’impegnava a stringere alleanza, in caso di bisogno, con i Signori di Gondor».
All’epoca di Beren, diciannovesimo Sovrintendente, sopraggiunse un pericolo ancor più grande. Tre grosse flotte preparate da tempo giunsero da Umbar e dall’Harad, e assalirono le coste di Gondor con forze massicce; il nemico riuscì a metter piede su molte coste, spingendosi sino all’estuario dell’Isen. Nel medesimo tempo i Rohirrim venivano assaliti da ovest e da est, il loro paese fu invaso ed essi vennero costretti a rifugiarsi nelle valli dei Monti Bianchi. In quell’anno (2758) iniziò il Lungo Inverno con grandi freddi e nevi venuti da nord e da est, che durarono quasi cinque mesi. Helm di Rohan e i suoi due figli perirono in quella guerra; a Rohan e nell’Eriador regnavano la miseria e la morte. Ma a Gondor, a sud delle montagne, le cose andavano meno male, e prima che arrivasse la primavera Beregond figlio di Beren era riuscito a sopraffare gli invasori e aveva immediatamente inviato aiuti a Rohan. Egli fu il più grande capitano nato a Gondor dopo Boromir, e quando succedette al padre (2763) Gondor incominciò a riprendere forza. Ma Rohan fu più lento a ristabilirsi dalle profonde ferite ricevute. Per questo motivo Beren fu felice di accogliere Saruman e gli affidò le chiavi di Orthanc; da quell’anno (2759) Saruman visse a Isengard.
Ai tempi di Beregond ebbe luogo la Guerra dei Nani e degli Orchi nelle Montagne Nebbiose (2793-2799), di cui a sud si ebbero solo vaghe notizie finché gli Orchi fuggiti da Nanduhirion tentarono di attraversare Rohan per stabilirsi tra i Monti Bianchi. Le lotte e le battaglie durarono molti anni prima che il pericolo venisse definitivamente scongiurato.
Quando Belecthor II, ventunesimo Sovrintendente, morì, anche l’Albero Bianco di Minas Tirith seccò, ma rimase là in attesa «del ritorno del Re», perché non si riuscì a trovare un nuovo seme.
All’epoca di Tùrin II i nemici di Gondor si rimisero in movimento; Sauron ormai aveva riconquistato la propria forza e stava per risorgere. Tutti gli abitanti dell’Ithilien l’abbandonarono per installarsi a ovest oltre l’Anduin, perché la loro terra era infestata dagli Orchi di Mordor. Fu Tùrin che costruì rifugi segreti per i suoi soldati nell’Ithilien, di cui Henneth Annûn fu quello più a lungo conservato e custodito. Egli fortificò nuovamente l’isola di Cair Andros[28] per difendere l’Anórien. Ma il principale pericolo veniva dal Sud, dove gli Haradrim avevano occupato il Gondor meridionale, e vi erano costantemente battaglie lungo il corso del Poros. Quando l’Ithilien venne invaso, il Re Folcwine di Rohan mantenne il Giuramento di Eorl e ripagò il suo debito per l’aiuto ricevuto da Beregond, inviando a Gondor molti uomini. Con il loro aiuto Tùrin riportò una vittoria al guado del Poros, ma ambedue i figli di Folcwine caddero in battaglia. I Cavalieri li seppellirono secondo le usanze del loro popolo, e per loro fu eretto un unico tumulo, poiché erano fratelli gemelli. Rimase a lungo lì, Haudh in Gwanûr, alto sul bordo del fiume, e i nemici di Gondor temevano di passare davanti ad esso.
Turgon succedette a Tùrin, ma della sua epoca si ricorda soprattutto che due anni prima della sua morte, Sauron risorse, dichiarandosi apertamente e rientrando a Mordor, che da molto tempo ormai veniva preparato per il suo ritorno. Allora Barad-dûr venne ricostruita, il Monte Fato avvampò, e gli ultimi abitanti dell’Ithilien fuggirono. Alla morte di Turgon, Saruman prese per sé Isengard e la fortificò.
«Ecthelion II, figlio di Turgon, era un uomo saggio. Con il potere che gli rimaneva cominciò a rafforzare il proprio reame contro gli assalti di Mordor. Egli incoraggiò tutti gli uomini di valore vicini e lontani a entrare al suo servizio, dando a coloro che si mostravano degni di fiducia alti ranghi e ricompense. In tutto ciò che faceva godeva dell’aiuto e dei consigli di un grande capitano che egli amava più di ogni altro. Thorongil, lo chiamavano gli uomini di Gondor, l’Aquila della Stella, perché era veloce e lungimirante, e portava una stella d’argento sul suo manto; ma nessuno conosceva il suo vero nome né il suo paese di origine. Egli era infatti giunto da Rohan, dove aveva servito re Thengel, ma non era uno dei Rohirrim. Era un grande condottiero di terra e di mare, ma scomparve nelle ombre dalle quali era giunto prima della fine di Ecthelion.
«Thorongil ripeteva sovente a Ecthelion che la forza dei ribelli di Umbar era un grosso pericolo che minacciava Gondor, una minaccia che sarebbe divenuta micidiale per le provincie del Sud se Sauron avesse dichiarato apertamente guerra. Ricevette quindi finalmente il permesso del Sovrintendente e radunò una piccola flotta con la quale giunse inaspettatamente a Umbar in piena notte, riuscendo a incendiare gran parte delle navi dei Corsari. Egli stesso sconfisse il Capitano del Porto nel corso di una battaglia sui morì, e ritirò la sua flotta con poche perdite. Ma quando tornarono a Pelargir, tutti furono stupefatti e dispiaciuti di apprendere che egli non voleva ritornare a Minas Tirith, ove l’attendevano grandi onori.
«Egli inviò a Ecthelion un messaggio di addio, dicendo: “Altri compiti mi attendono ora, sire, e dovranno passare molti pericoli e lunghi anni prima che io ritorni a Gondor, se tale è il mio destino”. E benché nessuno potesse indovinare quali fossero questi compiti e chi avesse invocato il suo aiuto, seppero tuttavia dove egli si recava, poiché prese una barca e traversò l’Anduin, là disse addio ai suoi compagni e proseguì da solo; e quando fu visto per l’ultima volta il suo volto, era diretto verso le Montagne dell’Ombra.
«Vi fu molto sconforto nella Città alla notizia della partenza di Thorongil, e a tutti parve una grande perdita, ad eccezione forse di Denethor, figlio di Ecthelion, un uomo ormai maturo per la Sovrintendenza, che assunse quattro anni dopo, alla morte del padre.
«Denethor II era un uomo orgoglioso, alto, valoroso, e più regale di qualunque altro uomo apparso a Gondor da molti anni; era anche saggio e lungimirante, e colto nelle antiche saghe. Anzi, rassomigliava a Thorongil come se fosse stato un suo strettissimo parente, eppure venne sempre secondo dopo lo straniero nel cuore degli uomini e nella stima del padre. A quell’epoca molti pensarono che Thorongil fosse partito prima che il rivale divenisse suo padrone, benché Thorongil non avesse mai preteso rivaleggiare con Denethor, né ritenersi altro che il servitore del padre di lui. E su di un solo punto i loro consigli al Sovrintendente erano in disaccordo: Thorongil avvertiva spesso Denethor di non fidarsi di Saruman il Bianco di Isengard, e di accogliere piuttosto Gandalf il Grigio. Ma vi era poca simpatia fra Denethor e Gandalf, e dopo i giorni di Ecthelion il Grigio Pellegrino fu meno accetto di prima a Minas Tirith. Perciò più tardi, quando ogni cosa venne chiarita, molti pensarono che Denethor, il quale era di spinto assai perspicace e vedeva più profondamente degli altri suoi contemporanei, avesse scoperto chi fosse in verità Thorongil, e sospettasse che lui e Mithrandir progettassero di soppiantarlo.
«Quando Denethor divenne Sovrintendente (2984), dimostrò di essere un sovrano volitivo, che teneva ogni cosa nelle proprie mani. Parlava poco. Ascoltava i consigli e poi seguiva il proprio cervello. Si era sposato tardi (2976), prendendo in moglie Finduilas, figlia di Adrahil di Dol Amroth. Era una dama di grande bellezza e cuore gentile, ma prima che fossero trascorsi dodici anni morì. Denethor la amava, a modo suo, più profondamente di chiunque altro, ad eccezione forse del figlio primogenito che ella gli aveva dato. Ma alla gente pareva di vederla appassire nella città, come un fiore delle valli marittime trapiantato sopra una nuda roccia. L’ombra che incombeva a oriente la empiva di terrore, ed ella volgeva sempre lo sguardo a sud, in direzione del mare che rimpiangeva tanto.
«Dopo la sua morte, Denethor divenne più tetro e silenzioso di prima, e soleva trascorrere lunghe ore seduto in solitudine nella sua torre, immerso nei pensieri, prevedendo che l’assalto di Mordor sarebbe avvenuto durante la sua Sovrintendenza. Più tardi si apprese che” avendo bisogno di conoscere gli eventi futuri, ed essendo uomo fiero e sicuro della propria forza di volontà, egli aveva osato leggere nel palantir della Torre Bianca. Nessuno dei Sovrintendenti aveva mai osato fare ciò, e nemmeno i re Eärnil ed Eärnur, dopo la caduta di Minas Ithil, quando il palantir d’Isildur cadde nelle mani del Nemico; perché la Pietra di Minas Tirith era il palantir di Anàrion, il più strettamente legato a quello posseduto da Sauron.
«In questo modo Denethor apprese molte cose che accadevano all’interno del suo reame e lungi dalle sue frontiere, e gli uomini se ne meravigliavano grandemente; ma egli pagò cara tale scienza, invecchiando prima del tempo nella sua lotta contro il volere di Sauron. Così in Denethor crebbe l’orgoglio e anche la disperazione, finché non vide negli eventi del suo tempo che un’unica lotta fra il Signore della Torre Bianca ed il Signore di Barad-dûr, e diffidava di tutti coloro che resistevano a Sauron, a meno che non servissero lui direttamente.
«I tempi si avvicinavano all’inizio della Guerra dell’Anello, e i figli di Denethor crescevano e divenivano uomini. Boromir, il maggiore di cinque anni, prediletto del padre, gli rassomigliava nel volto e nell’orgoglio, ma in pochi altri aspetti. Era piuttosto un uomo simile all’antico Re Eärnur, che non desiderava moglie e si dilettava unicamente di armi; forte e temerario, poco interessato alla storia, salvo le narrazioni di remote battaglie. Faramir, il cadetto, gli rassomigliava fisicamente, ma era assai diverso di spirito. Egli sapeva leggere nel cuore degli uomini come il padre, ma ciò che vi vedeva lo spingeva piuttosto alla pietà che alla derisione. Egli era cavalleresco e cortese, amante di storia e di musica, ed era quindi considerato da molti suoi contemporanei assai meno coraggioso del fratello. Ma non era così: egli semplicemente non cercava la gloria nel pericolo senza motivo. Quando Gandalf veniva nella Città era lui ad accoglierlo, apprendendo ciò che poteva della sua scienza e saggezza, e questa e molte altre sue azioni indispettivano il padre.
«Eppure fra i due fratelli vi era un profondo amore, sin dal l’infanzia, quando Boromir proteggeva e aiutava Faramir. E da allora fra di essi non era sorta né gelosia né rivalità per l’affetto del padre o per l’ammirazione del popolo. Non sembrava possibile a Faramir che qualcuno a Gondor potesse rivaleggiare con Boromir, erede di Denethor, Capitano della Torre Bianca; e Boromir era del medesimo parere. Eppure i fatti dimostrarono una diversa verità. Ma di tutto ciò che accadde loro durante la Guerra dell’Anello si parla lungamente altrove. Dopo la Guerra finirono i tempi dei Sovrintendenti Regnanti, perché l’erede d’Isildur e Anàrion tornò, riprendendo il titolo di Re e facendo sventolare nuovamente il vessillo dell’Albero Bianco dalla Torre di Ecthelion».
«Arador era il nonno del Re. Suo figlio Arathorn chiese in sposa Gilraen la Bella, figlia di Dirhael, a sua volta discendente di Aranarth. Ma Dirhael si oppose a questo matrimonio, perché Gilraen era giovane e ancora non aveva raggiunto l’età in cui le donne dei Dùnedain erano solite sposarsi.
«“Inoltre”, egli diceva, “Arathorn è un uomo severo e maturo e diventerà capitano prima di quanto non si pensi; eppure il cuore mi dice che avrà vita breve”.
«Ma Ivorwen, sua moglie, anch’ella lungimirante, rispose: “A maggior ragione bisogna dunque far presto! I giorni si fanno bui prima della tempesta, e stanno per accadere grandi cose. Se questi due si sposano subito, può esservi speranza per la nostra gente, ma se tardano la speranza svanirà per sempre fino alla fine di quest’era”.
«E avvenne che quando Arathorn e Gilraen erano sposati da appena un anno, Arador fu fatto prigioniero dai Troll a nord di Gran Burrone e ucciso; e Arathorn divenne Capitano dei Dùnedain. L’anno seguente Gilraen gli diede un figlio, ed essi lo chiamarono Aragorn. Ma Aragorn aveva appena due anni quando Arathorn partì con i figli di Elrond per combattere gli Orchi e venne ucciso da una freccia che gli trafisse un occhio; la sua vita fu quindi davvero breve per uno della sua razza, poiché aveva appena sessant’anni quando cadde.
«Allora Aragorn, essendo ora l’erede d’Isildur, venne accolto nella casa di Elrond insieme con la madre, ed Elrond gli fece da padre e giunse ad amarlo come un figlio. Allora lo chiamarono Estel, cioè “Speranza”, e il suo vero nome e lignaggio furono tenuti segreti, come stabilito da Elrond; perché i Saggi sapevano che il Nemico cercava di scoprire l’erede d’Isildur, se ve n’era ancora uno sulla terra.
«Ma quando Estel aveva appena vent’anni, accadde che ritornò a Gran Burrone dopo grandi gesta in compagnia dei figli di Elrond; questi lo guardò e fu contento poiché vide che egli era bello e nobile ed era divenuto presto maturo, pur dovendo diventare ancor più grande di corpo e di spirito. Quel giorno Elrond lo chiamò con il suo vero nome, e gli svelò la sua identità, consegnandogli i beni ereditari della sua casata.
«“Ecco l’anello di Barahir”, egli disse, “il simbolo della nostra lontana parentela; ed ecco anche i frantumi di Narsil. Con essi potrai compiere grandi gesta, perché prevedo che la durata della tua vita sarà più lunga di quella degli Uomini, a meno che tu non soccomba sotto un male imprevisto o che tu fallisca la prova. Ma la prova sarà dura e lunga. Trattengo io lo Scettro di Annùminas, perché devi ancora meritartelo”.
«Il giorno seguente, al tramonto, Aragorn passeggiava nei boschi, e il suo cuore era alto e fiero; egli cantava, perché era pieno di speranza e perché il mondo era bello. Improvvisamente, mentre cantava, vide una fanciulla camminare su di un prato fra i bianchi tronchi delle betulle, ed egli si arrestò stupefatto, credendo di camminare in un sogno o di aver ricevuto il dono dei menestrelli elfici, che sanno fare apparire ciò che cantano innanzi agli occhi di coloro che lo ascoltano.
«Perché infatti Aragorn stava cantando una parte della Saga di Lùthien che narra dell’incontro di Lùthien e Beren nella foresta di Neldoreth. E, meraviglia!, ecco Lùthien camminare innanzi a lui a Gran Burrone, con un manto argento e azzurro, bella come il crepuscolo nelle terre elfiche; i suoi capelli scuri volavano nel vento improvviso, e sulla sua fronte brillavano gemme simili a stelle.
«Per un momento Aragorn la fissò in silenzio, ma temendo che ella scomparisse per sempre, la chiamò gridando: “Tinùviel, Tinùviel!”, così come aveva fatto Beren nei Tempi Remoti.
«Allora la fanciulla si volse verso di lui e sorridendo disse: “Chi sei? E perché mi chiami con quel nome?”.
«Ed egli rispose: “Perché credevo davvero che tu fossi Lùthien Tinùviel, di cui stavo cantando. Ma se non sei lei, allora cammini come lei”.
«Molti me lo hanno detto”, ella rispose gravemente. “Eppure il mio non è il suo nome, benché forse simile al suo sarà il mio destino. Ma tu chi sei?”.
«“Estel mi chiamavano”, egli rispose. “Ma sono Aragorn, figlio di Arathorn, Erede d’Isildur, Sire dei Dùnedain”; eppure mentre parlava sentiva che l’alto lignaggio che aveva reso il suo cuore così felice, valeva ormai ben poco, e non era nulla in confronto con la bellezza e la nobiltà della fanciulla.
«Ma ella rise allegramente e disse: “Allora siamo lontani parenti. Io infatti sono Arwen, figlia di Elrond, e mi chiamo anche Undómiel”.
«“Accade sovente”, disse Aragorn, “che in tempi pericolosi gli uomini celino il loro più prezioso tesoro; eppure mi meraviglio di Elrond e dei tuoi fratelli, perché sebbene io abbia dimorato in questa casa sin dalla mia infanzia, non ho mai udito parlare di te. Per quale motivo non ci siamo mai incontrati prima d’ora? Non credo certo che tuo padre ti abbia tenuta chiusa a chiave fra i suoi tesori!».
«“No”, ella disse, e guardò le Montagne che si ergevano a est. “Ho vissuto a lungo nella terra di mia madre laggiù a Lothlórien. Ma sono tornata da poco per rivedere mio padre. Erano molti anni ormai che non passeggiavo a Imladris”.
«Allora Aragorn si stupì, perché ella non dimostrava più anni di lui, che aveva vissuto non più di vent’anni nella Terra di Mezzo. Ma Arwen lo guardò nel profondo degli occhi e gli disse: “Non ti meravigliare! I figli di Elrond hanno la vita degli Eldar”.
«Allora Aragorn fu turbato perché vide la luce elfica sfavillare nei suoi occhi insieme con la saggezza di molti anni; e da quel momento egli amò Arwen Undómiel figlia di Elrond.
«Nei giorni che seguirono Aragorn fu silenzioso, e sua madre comprese che gli era accaduto qualcosa di strano; egli finalmente cedette alle sue domande e le narrò l’incontro fra gli alberi nel crepuscolo.
«“Figlio mio”, disse Gilraen, “le tue ambizioni sono molto alte, anche per un discendente di molti re. Questa dama è la più nobile e bella fra quelle che ora camminano sulla terra. E i mortali non dovrebbero stringere matrimoni con la razza elfica”.
«“Eppure apparteniamo anche noi a quella razza”, disse Aragorn, “se la storia dei miei avi, che ho appresa, narra la verità”.
«“Narra la verità,” disse Gilraen, “ma ciò accadeva molto tempo addietro, in un’altra era del mondo, prima della decadenza della nostra razza. E io temo per te, perché senza il volere di Elrond gli Eredi di Isildur si estingueranno fra breve. Ma non credo che il volere di Elrond ti sarà favorevole in tale questione”.
«“Allora i miei giorni saranno amari, e io camminerò solo nelle zone selvagge”, disse Aragorn.
«“Tale sarà in verità il tuo fato”, disse Gilraen, e benché ella possedesse la lungimiranza della sua gente, non gli disse altro dei suoi presagi, né parlò ad alcuno di ciò che suo figlio le aveva rivelato.
«Ma Elrond vedeva molte cose e leggeva in molti cuori. Un giorno, prima della fine dell’anno, chiamò a sé Aragorn e gli disse: “Aragorn, figlio di Arathorn, Sire dei Dùnedain, ascoltami! Un grande destino ti attende sia quello di ergerti al di sopra di tutti i tuoi avi succeduti a Elendil, sia quello di cadere nell’oscurità con tutti i superstiti della tua stirpe. Molti anni di travagli e sofferenze ti attendono. Non avrai moglie e non legherai a te in promessa alcuna donna prima che giunga la tua ora e che tu ti sia dimostrato degno di essa.
«Allora Aragorn si turbò e disse: “È possibile che mia madre ti abbia parlato di ciò?”.
«“No, certo”, disse Elrond. “I tuoi propri occhi ti hanno tradito. Ma io non parlo soltanto di mia figlia. Per il momento non ti fidanzerai con la figlia di nessun altro. Ma quanto ad Arwen la Bella, Dama di Imladris e di Lórien, Stella del Vespro della sua gente, ella è di lignaggio più alto del tuo e ha vissuto nel mondo talmente a lungo che tu non sei per lei che un germoglio in confronto a una giovane betulla di molte estati. Ella è troppo alta per te. Credo che tale sarà anche il suo parere. Ma anche se non lo fosse e se il suo cuore si volgesse verso di te, tu ne soffriresti a causa del destino che ci attende”.
«“Quale destino?”, disse Aragorn.
«“Sino a quando io dimorerò qui ella godrà della gioventù degli Eldar”, rispose Elrond, “ma quando partirò ella mi accompagnerà, se tale sarà la sua scelta”.
“Comprendo”, disse Aragorn, “che ho posato gli occhi sopra un tesoro non meno prezioso del tesoro di Thingol, che Beren un tempo desiderava. Questo è il mio fato”. Ma improvvisamente la capacità di preveggenza della sua gente si destò in lui, ed egli disse: “Messere Elrond, si avvicina ormai la fine della tua vita nella Terra di Mezzo, e ai tuoi figli toccherà scegliere fra lasciare te o lasciare questi luoghi”.
«“È vero”, disse Elrond. “L’ora si avvicina, benché debbano ancora trascorrere molti anni degli Uomini. Ma non vi sarà scelta per Arwen, la mia adorata, a meno che tu, Aragorn, figlio di Arathorn, ti metta fra noi e costringa uno dei due, te o me, a un’amara separazione oltre la fine del mondo. Tu non puoi sapere ancora che cosa sia meglio desiderare, per me”. Sospirò, e dopo qualche minuto, guardando gravemente il giovane, gli disse: “Gli anni porteranno ciò che vorranno portare. Non riparleremo più di ciò prima che ne siano trascorsi molti altri. I giorni si rabbuiano, e il male incombe”.
«Allora Aragorn si congedò affettuosamente da Elrond. Il giorno seguente disse addio a sua madre, alla casa di Elrond e ad Arwen, e partì verso luoghi selvaggi. Combatté per quasi trent’anni la lotta contro Sauron, e divenne amico di Gandalf il Saggio, dal quale apprese molta saggezza. Con lui fece molti pericolosi viaggi, ma con il trascorrere degli anni partì molto spesso da solo. Ardui e lunghi erano i sentieri che percorreva, e il suo aspetto divenne tetro e severo, salvo quando sorrideva; eppure tutti gli Uomini lo consideravano degno di grandi onori, come un re in esilio, quando non nascondeva le sue vere sembianze. Egli infatti viaggiava sotto molti aspetti diversi, e conquistò gloria e fama con nomi differenti. Cavalcò nell’esercito di Rohan, e combatté per il Sire di Gondor per terra e per mare; ma, al momento della vittoria, si allontanava dagli Uomini dell’Ovest e si recava da solo a sud o a est, esplorando il cuore degli Uomini, buoni o malvagi, e scoprendo i complotti e gli artifizi dei servitori di Sauron.
«Egli divenne così il più coraggioso degli Uomini, abile in ogni loro arte, colto in ogni loro storia, eppure era più di essi; perché la sua era una saggezza elfica, e nei suoi occhi avvampava una luce che pochi riuscivano a sopportare. Il suo volto era triste e severo a causa del destino che incombeva su di lui, e tuttavia in fondo alla sua anima viveva sempre la speranza, e di tanto in tanto l’allegria sorgeva in lui come una fonte da una roccia.
«Fu così che all’età di quarantanove anni Aragorn tornò dai perigli affrontati sulle oscure frontiere di Mordor, ove ora Sauron aveva ristabilito la sua dimora e preparava i suoi malefici. Egli era stanco e desiderava recarsi a Gran Burrone onde riposarsi prima di ripartire per un lungo viaggio; e lungo la via giunse ai confini di Lórien e fu accolto nella terra segreta da Dama Galadriel.
«Egli lo ignorava, ma Arwen Undómiel si trovava anch’essa là, trascorrendo ancora qualche tempo con la stirpe della madre. Era cambiata assai poco, perché gli anni mortali scivolavano su di essa, eppure il suo viso era più grave e il suo riso squillava di rado. Ma Aragorn aveva raggiunto la piena maturità di corpo e di mente; Galadriel lo pregò di deporre i consunti abiti da viaggio e lo vestì d’argento e di bianco, con un manto grigio-elfico e una brillante gemma in fronte. Egli parve allora assai superiore a qualunque Uomo, simile piuttosto a un Signore Elfico delle Isole dell’Ovest. Fu così che Arwen lo rivide dopo la loro lunga separazione, e quando egli le venne incontro sotto gli alberi di Caras Galadhon coperti di fiori d’oro, la sua scelta fu fatta e il suo destino deciso.
«Allora, per tutta una stagione essi passeggiarono insieme nelle radure di Lothlórien, finché egli dovette partire. La sera di Mezza Estate Aragorn, figlio di Arathorn, e Arwen figlia di Elrond si recarono in cima alla collina di Cerin Amroth, camminando scalzi sull’erba sempreverde, circondati da elanor e da niphredil che fiorivano intorno. Dalla sommità della collina guardarono a oriente l’Ombra e a occidente il Crepuscolo; si giurarono eterna fedeltà, e furono felici.
«Ed Arwen disse: “Oscura è l’Ombra, eppure il mio cuore gioisce, perché tu, Estel, sarai fra i grandi il cui coraggio la distruggerà”.
«Ma Aragorn rispose: “Ahimè! Io non posso prevederlo, e come potrà accadere mi è tuttora oscuro. Eppure con la tua speranza anch’io spererò. E respingo per sempre l’Ombra; ma neppure il Crepuscolo è fatto per me, o mia dama; perché io sono mortale, e se tu ti legherai a me, Stella del Vespro, anche tu dovrai rinunciare al Crepuscolo”.
«Ella rimase immobile come un candido albero, con lo sguardo perduto a occidente, e disse finalmente: “Mi legherò a te, Dùnadan, e mi allontanerò dal Crepuscolo. Eppure quella è la terra della mia gente e la dimora di tutta la mia razza”. Ella amava il padre teneramente.
«Quando Elrond apprese la scelta della figlia rimase silenzioso, benché il suo cuore soffrisse e trovasse il dolore a lungo temuto assai difficile a sopportare. Ma quando Aragorn tornò a Gran Burrone egli lo chiamò a sé e gli disse:
«“Figlio mio, verranno degli anni durante i quali ogni speranza svanirà, e ciò che seguirà non mi è chiaro. E ora un’ombra ci separa. Forse è stato deciso così, che il regno degli Uomini possa venire restaurato soltanto se io me ne andrò. E poiché ti amo come un figlio ti dico: Arwen Undómiel non diminuirà lo splendore della sua vita per un motivo futile. Ella non sarà la sposa di alcun Uomo, a meno che questi non sia al tempo stesso Re di Gondor e di Arnor. Anche in tal caso la nostra vittoria non potrà recare a me altro che dolore e una triste separazione… ma a te e a lei la speranza di qualche tempo di gioia. Ahimè, figlio mio! Temo che il Fato degli Uomini sembrerà ad Arwen arduo da affrontare, alla fine”.
«Le cose rimasero a questo punto fra Elrond e Aragorn, ed essi non riparlarono della questione; ma Aragorn ripartì verso pericoli e fatiche. E mentre il mondo si oscurava e la paura sommergeva la Terra di Mezzo, man mano che il potere di Sauron cresceva e Barad-dûr si ergeva sempre più alta e potente, Arwen dimorava a Gran Burrone. Quando Aragorn fu lontano, ella lo protesse con il pensiero; e nell’attesa piena di speranza gli preparò un grande vessillo regale, degno di colui che avrebbe preteso l’eredità di Elendil e la corona dei Numenoreani.
«Dopo qualche tempo Gilraen si congedò da Elrond e tornò fra la sua gente, vivendo da sola nell’Eriador; e vide di rado suo figlio, poiché egli trascorse molti anni in remoti paesi. Ma una volta Aragorn era ritornato a nord e si era recato da lei. In questa occasione, ella gli aveva detto prima che ripartisse:
«“Questa è la nostra ultima separazione, Estel, figlio mio. Le preoccupazioni mi hanno invecchiata, come se fossi una degli Uomini comuni; e ora che si avvicina, so di non potere affrontare l’oscurità del nostro tempo che si infittisce sulla Terra di Mezzo. Partirò presto”.
«Aragorn cercò di confortarla, dicendole: “Vi può ancora essere una luce al di là delle tenebre, e se così è, vorrei che tu la vedessi e fossi felice”.
«Ma ella rispose soltanto con questo linnod:
Onen i-Estel Edain, ù-chebin estel anim[29],
e Aragorn partì con il cuore rattristato. Gilraen morì prima della primavera seguente.
«Si avvicinò così la Guerra dell’Anello, narrata altrove dettagliatamente: si scoprirono i mezzi imprevedibili per sconfiggere Sauron e ogni desiderio e ogni speranza si realizzò. Accadde che al momento in cui Gondor stava per essere sconfitto Aragorn giunse dal Mare spiegando il vessillo di Arwen nella battaglia dei Campi del Pelennor, e fu per la prima volta acclamato re. E finalmente quando tutto fu finito, egli entrò in possesso dell’eredità dei padri e ricevette la corona di Gondor e lo scettro di Arnor; l’anno della Caduta di Sauron, a Mezza Estate, egli prese la mano di Arwen Undómiel, ed essi furono sposi nella città dei Re.
«La Terza Era finì così con speranza e vittoria; e tuttavia, fra i dolori di quell’Era uno dei più amari fu la separazione di Elrond e di Arwen, perché ormai li separavano il Mare e il fato al di là della fine del mondo. Quando il Grande Anello venne distrutto e i Tre perdettero ogni loro potere, Elrond si sentì stanco e abbandonò la Terra di Mezzo per non tornarvi mai più. Ma Arwen scelse di divenire mortale; eppure il destino non volle che morisse prima di aver perduto tutto ciò che le era appartenuto.
«Visse come Regina di Elfi e di Uomini per centovent’anni in grande gloria e felicità con Aragorn; ma egli un giorno sentì avvicinarsi la vecchiaia e comprese che i giorni della sua vita stavano per finire, per quanto lunghi fossero stati. Allora Aragorn disse ad Arwen:
«“Ormai, Dama Stella del Vespro, la più splendida di questo mondo e la più amata, il mio mondo sta svanendo. Abbiamo raccolto, abbiamo speso, e ora si avvicina il momento di pagare”.
«Arwen comprese ciò che voleva dire, e lo prevedeva da tempo; tuttavia, fu sconvolta dal dolore. “Vuoi dunque, sire, lasciare prima del tempo la tua gente che vive per la tua parola?”, ella disse.
«“Non prima del tempo”, egli rispose. “Se non vado adesso, sarò presto costretto a partire per forza. Eldarion nostro figlio è pienamente maturo per divenire re”.
«Aragorn si recò nella Casa dei Re in fondo alla Via Silente, e si distese sul lungo letto che era stato preparato per lui. Disse addio a Eldarion e gli porse la corona alata di Gondor e lo scettro di Arnor; poi tutti lo lasciarono, all’infuori di Arwen, la quale rimase in piedi, sola, accanto al letto. E, malgrado la sua saggezza e il suo lignaggio, ella non seppe trattenersi dal pregarlo di rimanere ancora per qualche tempo. Non era ancora stanca dei suoi giorni, e sentì l’amaro sapore della mortalità che aveva scelta.
«“Dama Undómiel”, disse Aragorn, “dura è invero l’ora, eppure fu decisa nel momento in cui ci incontrammo sotto le bianche betulle nel giardino di Elrond, ove nessuno più passeggia. E sul colle di Cerin Amroth, quando abbandonammo sia l’Ombra che il Crepuscolo, accettammo il nostro destino. Rifletti, mia adorata, e domandati se preferiresti vedermi appassire e cadere dal mio alto trono, impotente e irragionevole. No, mia dama, io sono l’ultimo dei Numenoreani e l’ultimo Re dei Tempi Remoti; a me fu data non soltanto una vita tre volte più lunga di quella degli Uomini della Terra di Mezzo, ma anche la grazia di partire volontariamente, restituendo il dono ricevuto. Ora, quindi, dormirò”.
«“Non ti dirò parole di conforto, perché per simili dolori non vi è conforto entro i confini del mondo. Ti attende un’ultima scelta: pentirti e recarti ai Rifugi, portando con te all’Ovest il ricordo dei giorni trascorsi insieme, un ricordo sempre verde, ma pur sempre soltanto un ricordo; o, altrimenti, attendere la Sorte degli Uomini”.
«“No, mio amato sire”, ella rispose, “quella scelta è stata fatta ormai da molto tempo. Non vi sono più navi che mi porteranno sin là, e devo attendere la Sorte degli Uomini, volente o nolente: la perdita e il silenzio. Ma voglio dirti, Re dei Numenoreani, che sinora non avevo compreso la storia della tua gente e la loro caduta. Li deridevo come se fossero stupidi e cattivi, ma ora finalmente li compiango. Perché se questo è, in verità, il dono dell’Uno agli Uomini, è assai amaro da ricevere”.
«“Così sembra”, egli disse. “Ma non lasciamoci sopraffare dalla prova finale, noi che anticamente rinunciammo all’Ombra e all’Anello. In tristezza dobbiamo lasciarci, ma non nella disperazione. Guarda! Non siamo vincolati per sempre a ciò che si trova entro i confini del mondo, e al di là di essi vi è più dei ricordi. Addio!”.
«“Estel, Estel!”, ella gridò, e mentre gli prendeva la mano e la baciava egli si addormentò. Allora in lui si rivelò una grande bellezza, e tutti coloro che vennero a guardarlo l’osservarono con meraviglia, perché videro che la grazia della sua gioventù, il coraggio della virilità e la saggezza e maestà della vecchiaia erano fusi in uno. Egli giacque a lungo là, immagine dello splendore dei Re degli Uomini immersa nella gloria raggiante precedente al crollo del mondo.
«Arwen partì, e la luce dei suoi occhi era spenta; al suo popolo parve che ella fosse diventata fredda e grigia come la notte d’inverno senza una stella. Disse addio a Eldarion, alle sue figlie e a tutti coloro che aveva amato, e lasciò la città di Minas Tirith; si recò nella terra di Lórien, e vi dimorò sola sotto gli alberi pallidi fino al giungere dell’inverno. Galadriel era partita, e anche Celeborn se n’era andato, e tutto era silenzio.
«Alla fine, mentre cadevano le foglie dei mallorn e la primavera era ancora lontana, ella si distese sul Cerin Amroth; e quella sarà la sua verde tomba finché il mondo cambierà, e i giorni della sua vita saranno del tutto obliati dagli uomini che nasceranno, e l’elanor e il niphredil non fioriranno più a est del Mare.
«Qui finisce questa storia, giunta a noi dal Sud; e dopo la scomparsa di Stella del Vespro questo libro non narra più nulla dei tempi passati».
«Eorl il Giovane era signore degli Uomini dell’Éothéod, un territorio vicino alle fonti dell’Anduin, compreso fra le ultime propaggini delle Montagne Nebbiose e i limiti settentrionali del Bosco Atro. Gli Éothéod si erano trasferiti in quelle regioni ai tempi di Re Eärnil II, provenienti dalle valli dell’Anduin e del Gaggiolo, ed erano originariamente dei parenti molto stretti dei Beorniani e degli abitanti dei margini occidentali della foresta. Gli antenati di Eorl dicevano di discendere dai re del Rhovanion, il cui reame si stendeva al di là del Bosco Atro prima delle invasioni dei Carrieri, considerandosi quindi imparentati con i re di Gondor discendenti da Eldacar. Preferivano le pianure e amavano soprattutto i cavalli e ogni genere di prodezze e virtuosismi a cavallo, ma poiché erano numerosi in quei giorni nelle valli centrale dell’Anduin, e l’ombra di Dol Guldur si allungava incessantemente, udendo della sconfitta del Re degli Stregoni, cercarono maggiore spazio al Nord, cacciando gli ultimi abitanti di Angmar sul fianco orientale delle Montagne. Ma ai tempi di Léod, padre di Eorl, erano diventati un popolo assai numeroso e si sentivano di nuovo compressi e sacrificati in un angusto territorio.
«Nel 2510 della Terza Era un nuovo pericolo minacciò Gondor. Una grande schiera di Uomini Selvaggi invase da nord-est il Rhovanion, e proveniente dalle Terre Brune attraversò l’Anduin con delle zattere. Al medesimo tempo, per caso o volutamente, gli Orchi (che a quei tempi prima della guerra contro i Nani erano molto potenti) discesero dalle Montagne. Gli invasori conquistarono il Calenardhon, e Cirion, Sovrintendente di Gondor, chiese aiuto al popolo del Nord, perché fra gli Uomini della Valle dell’Anduin e la gente di Gondor vi era da lungo tempo amicizia. Ma ormai nella valle del Fiume gli uomini erano poco numerosi e assai sparpagliati, ed era quindi difficile per essi dare l’aiuto necessario. Ma quando finalmente Eorl ebbe notizia dello stato di bisogno di Gondor, benché sembrasse ormai tardi, partì con un grande esercito di cavalieri.
«Egli giunse così alla battaglia del Campo di Celebrant, poiché quello era il nome dello spazio verde compreso fra l’Argentaroggia e il Limterso. L’esercito di Gondor era in pericolo. Sconfitto in pianura e tagliato fuori dal Sud, era stato respinto oltre il Limterso e improvvisamente assalito dalla schiera di Orchi, e costretto a indietreggiare sino all’Anduin. Avevano perduto ormai qualunque speranza quando, del tutto inaspettati, giunsero da nord i Cavalieri prendendo il nemico alle spalle. Allora le sorti della battaglia cambiarono, e gli avversari furono sterminati e respinti oltre il Limterso. Eorl li inseguì con i suoi uomini, e il terrore che destavano i cavalieri del Nord era tale che anche gli invasori delle Pianure furono presi dal panico e fuggirono oltre il Calenardhon».
Dai tempi della Peste, la popolazione di quella regione si era ridotta notevolmente, e molti erano stati massacrati dai selvaggi Esterling. Per ringraziarlo del suo aiuto, Cirion diede ad Eorl e alla sua gente il Calenardhon fra l’Anduin e l’Isen; questi andarono a prendere a nord le loro donne, i figli e i loro beni, e si installarono in quella terra. La chiamarono Mark dei Cavalieri, ed essi presero il nome di Eorlingas, ma a Gondor tutti chiamarono il paese Rohan e gli abitanti Rohirrim (il che significa Signori dei Cavalli). E così Eorl fu il primo Re del Mark, ed egli scelse come dimora una verde collina ai piedi dei Monti Bianchi, che costituivano la frontiera meridionale del suo paese. E là i Rohirrim vissero per sempre liberi, con i loro re e le loro leggi, ma in perpetua alleanza con Gondor.
«Molti signori e cavalieri e molte donne bere e valorose vengono evocati dai canti di Rohan che narrano del Nord. Dicono che Frumgar fosse il nome del capitano che aveva condotto il suo popolo all’Éothéod. Di suo figlio Fram si racconta che fu egli a uccidere Scatha, il grande drago di Ered Afithrin, facendo regnare la pace in tutto il paese per lunghi anni. Fram conquistò così grandi ricchezze, ma si trovò a dover sostenere una controversia con i Nani che reclamavano il bottino di Scatha. Fram si rifiutò di dar loro un soldo, inviando loro invece i denti di Scatha fatti a collana, dicendo: «Non troverete fra i vostri tesori gioielli simili, perché sono molto rari». Alcuni dicono che i Nani uccisero Fram per questo insulto. Non vi era quindi una grande simpatia fra gli Éothéod e i Nani.
«Léod era il nome del padre di Eorl. Egli era domatore di cavalli selvaggi, perché infatti ve n’erano molti allora nel paese. Catturò un puledro bianco che divenne presto un cavallo alto, bello e fiero. Nessuno riusciva a domarlo. Quando Léod osò montarlo, esso lo trascinò con sé e lo scaraventò a terra; la testa di Léod urtò contro una roccia, ed egli perì. Egli aveva allora appena quarantadue anni, e suo figlio era un giovinetto di sedici anni.
«Eorl giurò di vendicare il padre. Insegui a lungo il cavallo; infine lo scorse, e i suoi compagni pensavano di vederlo avvicinarsi a tiro d’arco e uccidere la bestia. Ma quando si avvicinarono, Eorl gridò con voce tonante: “Vieni qui, Flagello, affinché io ti dia un altro nome!”. Con stupore di tutti il cavallo volse la testa verso Eorl e gli si avvicinò, ed Eorl gli disse: “Il tuo nome da ora in poi sarà Felaróf. Amavi la libertà, e non te ne faccio una colpa. Ma ora mi devi un grosso compenso e cederai quindi a me la tua libertà fino alla fine della tua vita.
«Allora Eorl gli montò in groppa, e Felaróf si sottomise. Eorl lo condusse a casa senza morso né redini, e da allora lo cavalcò sempre in quel modo. Il cavallo comprendeva tutto ciò che gli uomini dicevano, ma permetteva soltanto ad Eorl di montargli in groppa. E fu proprio Felaróf a condurre Eorl al Campo di Celebrant, perché il cavallo dimostrò di avere una durata di vita pari a quella umana, e tutti i suoi discendenti ereditarono questo stesso dono. E la razza dei mearas non accettò mai di essere cavalcata da altri che dal Re del Mark e dai suoi figli, ad eccezione di Ombromanto. E gli Uomini dicevano che Béma (che gli Eldar chiamano Oromë) doveva averli portati dall’Occidente oltre il Mare.
«Dei Re del Mark compresi fra Eorl e Théoden il più famoso è Helm Mandimartello. Era un uomo severo e possente. Vi era in quei tempi un uomo di nome Freca, che pretendeva di discendere da Re Fréawine, sebbene a quanto pare avesse molto sangue dunlandiano e i capelli scuri. Egli divenne molto ricco e patente, possedendo vaste tenute su ambedue le rive dell’Adorn (un affluente dell’Isen proveniente dalla parte occidentale dell’Ered Nimrais). Si costruì una fortezza vicino alla sorgente del fiume, noncurante del re. Helm non aveva fiducia in lui, ma lo invitava sempre a partecipare alle sedute del consiglio, e Freca vi andava quando voleva.
«Freca giunse a una di queste sedute accompagnato da molti uomini, e chiese la mano della figlia di Helm per suo figlio Wulf. Ma Helm disse: “Sei diventato grande dall’ultima volta che ti ho visto qui fra noi, ma suppongo che sia soprattutto del grasso”; tutti risero alle sue parole, perché la cintura di Freca era assai larga.
«Allora Freca fu colto dalla rabbia: insultò il re, e gli disse: “I vecchi re che rifiutano il bastone che si offre loro rischiano di cadere in ginocchio”. E Helm rispose: “Suvvia! Il matrimonio di tuo figlio è una cosa secondaria; lascia che Helm e Freca ne discutano dopo. Per il momento il re e il suo consiglio hanno cose importanti e urgenti da deliberare”.
«Quando conclusero la seduta, Helm si alzò in piedi e appoggiando la sua grande mano sulla spalla di Freca disse: “Il re non permette risse nella sua casa, ma fuori si è più liberi”, e costrinse Freca a lasciare la reggia di Edoras, recandosi nei campi. E agli uomini di Freca che li seguivano disse: “Andatevene! Non abbiamo bisogno di spettatori. Dobbiamo discutere da soli una questione privata. Andate a parlare con i miei uomini!”. Ed essi, vedendo che gli uomini del re ed i suoi amici erano molto più numerosi, si allontanarono.
“Ora, Dunlandiano”, disse il re, “hai da regolare i conti soltanto con Helm, solo e disarmato. Ma hai già parlato troppo, e ora tocca a me. Freca, la tua follia è cresciuta come la tua pancia. Parli di un bastone! Se Helm non ama il bastone storto che gli viene tirato addosso, egli lo spezza. Così!”. E sferrò a Freca un tale pugno che questi cadde all’indietro stordito e morì poco dopo.
«Helm proclamò allora il figlio di Freca ed i parenti prossimi nemici del re, ed essi fuggirono, perché Helm aveva mandato molti cavalieri a cacciarli dai confini occidentale».
Quattro anni dopo (2758), Rohan fu in grande pericolo, ma non poterono giungere soccorsi da Gondor, che proprio allora venne attaccato da tre flotte di Corsari, mentre alle frontiere ardeva la guerra. Rohan nel frattempo veniva invaso da est, poiché i Dunlandiani avevano colto l’occasione per assalire il paese dal fiume Isen e da Isengard. Si scoprì che Wulf era il loro capo e che essi erano molto numerosi, poiché si erano alleati con dei nemici di Gondor che vivevano alle foci dell’Isen e del Lefnui.
I Rohirrim furono sconfitti e il loro paese invaso; e coloro che non erano stati uccisi o presi prigionieri si rifugiarono nelle valli delle montagne. Helm subì grosse perdite e fu costretto a battere in ritirata, abbandonando i Guadi dell’Isen e cercando riparo nel Trombatorrione e nel burrone che venne poi chiamato Fosso di Helm. E là venne assediato. Wulf s’impadronì di Edoras e s’installò a Meduseld, facendosi chiamare re. E là cadde in combattimento Haleth figlio di Helm, difendendo le porte sino all’ultimo.
«Poco dopo incominciò il Lungo Inverno, e Rohan fu sotto la neve per quasi cinque mesi (dal novembre del 2758 al marzo del 2759). Sia i Rohirrim che i loro nemici soffrirono duramente il freddo e la lunga carestia. Nel Fosso di Helm la fame era grande, e crebbe ancora dopo Capodanno; e per la disperazione Hàma, figlio cadetto del re, prese con sé alcuni uomini e tentò una sortita, disobbedendo al padre, e si smarrì nelle nevi con tutto il suo seguito. La fame e il dolore rendevano Helm smunto ma feroce, e il terrore che riusciva a ispirare era una difesa più valida delle armi di molti uomini. Egli soleva uscire da solo, vestito di bianco, e attraversare come un Troll delle nevi il campo dei nemici, uccidendone molti con le proprie mani. Si diceva infatti che se egli non portava armi su di sé, nessun’arma l’avrebbe colpito. I Dunlandiani pretendevano che in mancanza di altro cibo egli si nutrisse di carne umana, e questa leggenda venne creduta per lunghi anni. Helm aveva un grande corno, e tutti sapevano che prima di ogni sortita egli soleva suonarlo, facendolo rimbombare nel Fosso, e tale era il timore che s’impadroniva dei nemici, che invece di radunarsi per prenderlo o ucciderlo, fuggivano dalla Conca.
«Una notte si udì suonare il corno, ma Helm non tornò. Il mattino seguente apparve un raggio di sole, il primo dopo tanti giorni, e tutti videro una figura bianca in piedi sulla Diga, sola, perché nessun Dunlandiano osava avvicinarsi. Helm era in piedi, morto, ma diritto. Eppure la gente diceva di udire ancora a volte il suono del corno nel Fosso, mentre la collera di Helm vagava fra i nemici di Rohan uccidendone molti con la sola paura.
«L’inverno finì poco dopo, e Fréalàf, figlio di Hild, la sorella di Helm, abbandonò Dunclivo, dove molti si erano rifugiati, e con una piccola schiera di uomini disperati sorprese Wulf a Meduseld e lo uccise, riprendendo Edoras. Dopo le nevi vi furono grandi inondazioni, e la valle dell’Entalluvio divenne una vasta palude. Gli invasori perirono o fuggirono, e finalmente giunsero i soccorsi di Gondor, sia da est che da ovest. Prima della fine dell’anno (2759) i Dunlandiani vennero cacciati dal paese e persino da Isengard, e Fréalàf diventò re.
«Helm fu seppellito nel nono tumulo, ove per sempre crebbero poi i bianchi simbelmynë, talmente fitti da far sembrare il monticello coperto di nevi perpetue. Alla morte di Fréalàf fu iniziata una nuova linea di tumuli».
I Rohirrim soffrirono molto per la guerra, la carestia, e la perdita di bestiame e cavalli, e fu un bene che nessun altro pericolo sopraggiungesse per molti anni, perché solo ai tempi di Re Folcwine riuscirono a recuperare interamente le loro forze. All’incoronazione di Fréalàf apparve Saruman, portando doni e cantando gli elogi del coraggio dei Rohirrim. Tutti lo accolsero come un ospite di riguardo, ed egli si installa poco dopo a Isengard. E fu Beren, Sovrintendente di Gondor, ad accordargli questo permesso, poiché Isengard era una fortezza di proprietà di Gondor, e non faceva parte di Rohan. Beren affidò altresì a Saruman le chiavi di Orthanc, la torre che nessun nemico era mai riuscito a danneggiare o a conquistare. Così Saruman cominciò a comportarsi come un sovrano, perché da principio dimorò a Isengard in veste di luogotenente del Sovrintendente e guardiano della torre. Ma Fréalàf e Beren erano soddisfatti della situazione, sapendo che Isengard era nelle mani di un amico potente. Egli infatti sembrò a lungo amico, e forse nei primi tempi lo era davvero. Ma più tardi ognuno comprese che Saruman si era stabilito a Isengard sperando di trovare la Pietra che ancora vi era custodita e con l’intenzione di erigere una torre tutta per sé. E indubbiamente dopo il Bianco Consiglio (2953) le sue intenzioni nei riguardi di Rohan erano malefiche, nonostante egli fosse riuscito a occultarle molto bene. Egli si impadronì definitivamente di Isengard, e la trasformò in una fortezza dominata dalla paura, quasi a rivaleggiare con Barad-dûr. E scelse quindi i propri amici fra tutti coloro che odiavano Gondor e Rohan, fossero essi Uomini o altri esseri ancor più malefici.
Anno 2485-2545 1. Eorl il Giovane. Gli fu attribuito questo nome perché succedette al padre quando era ancor giovanetto, e perché rimase biondo e roseo fino alla fine dei suoi giorni. La sua vita fu troncata immaturamente da un assalto degli Esterling. Eorl cadde combattendo, e per seppellirlo fu eretto il primo tumulo, ove fu seppellito anche Felaróf.
2512-2570 2. Brego. Egli cacciò il nemico, e per lunghi anni Rohan non subì più alcun attacco. Nel 2569 completò il grande palazzo di Meduseld. Durante la festa suo figlio Baldor fece voto di percorrere i «Sentieri dei Morti» e non tornò mai più. Brego morì di dolore l’anno seguente.
2544-2645 3. Aldor il Vecchio. Secondogenito di Brego. Conosciuto come il Vecchio, perché visse molto a lungo e regnò per settantacinque armi. Durante il suo regno i Rohirrim si moltiplicarono e sterminarono gli ultimi Dunlandiani che vivevano ancora a est dell’Isen. Si installarono a Dunclivo e in altre valli delle montagne. Dei suoi tre successori non si hanno molte notizie, perché Rohan visse un periodo di pace e di prosperità.
2570-2659 4. Fréa. Primo maschio ma quarto figlio di Aldor; era già anziano quando salì sul trono.
2594-2680 5. Fréawine.
2619-2699 6. Goldwine.
2644-2718 7. Déor. Durante il suo regno i Dunlandiani fecero molte scorribande oltre l’Isen. Nel 2710 occuparono Isengard, allora deserta, e fu impossibile spodestarli.
2668-2741 8. Gram.
2691-2759 9. Helm Mandimartello. Alla fine del suo regno Rohan subì grosse perdite, causate dall’invasione e dal Lungo Inverno. Helm ed i suoi figli Haleth e Hàma perirono. Fréalàf, figlio della sorella di Helm, divenne re.
2726-2798 10. Fréalàf Hildeson. Durante il suo regno, Saruman si stabilì a Isengard, libera da Dunlandiani. La sua amicizia fu utile ai Rohirrim nei giorni di carestia e di miseria che seguirono.
2752-2842 11. Brytta. Il suo popolo lo chiamava Léola, perché tutti lo amavano; era generoso e sempre pronto ad aiutare chi ne avesse bisogno. Ai suoi tempi ebbe luogo una guerra contro gli Orchi giunti dal Nord in cerca di rifugi nei Monti Bianchi. Alla sua morte si pensava che gli Orchi fossero stati tutti sterminati o cacciati via; ma non era così.
2780-2851 12. Walda. Regnò per soli nove anni. Venne ucciso con tutti i suoi compagni intrappolati dagli Orchi mentre percorrevano sentieri di montagna venendo da Dunclivo.
2804-2864 13. Folca. Era un grande cacciatore, ma giurò di non cacciare più alcun animale prima di aver ucciso tutti gli Orchi che rimanevano a Rohan. Quando trovarono e distrussero l’ultima fortezza degli Orchi, egli cacciò il grande cinghiale di Everholt nel Firien. Lo uccise, ma morì in seguito alle ferite riportate.
2830-2903 14. Folcwine. Quando divenne re i Rohirrim erano tornati forti e potenti come in passato. Egli riconquistò il territorio compreso fra l’Adorn e l’Isen, occupato dai Dunlandiani. Rohan aveva ricevuto grandi aiuti da Gondor all’epoca del pericolo; e quindi, quando egli seppe che gli Haradrim stavano per assalire Gondor con un grosso esercito, inviò molti dei suoi uomini in aiuto al Sovrintendente. Avrebbe voluto comandarli egli stesso, ma ne fu dissuaso dai suoi figli gemelli Folcred e Fastred (nati nel 2858), che partirono al suo posto. Essi caddero l’uno di fianco all’altro durante una battaglia nell’Ithilien (2885). Tùrin II di Gondor inviò a Folcwine una ricca ricompensa in oro.
2870-2953 15. Fengel. Era il terzo maschio e quarto figlio di Folcwine. Nessuno loda la sua memoria. Era avido di cibo e di oro, e in costante conflitto con i suoi marescialli e i suoi figli. Thengel, il terzo figlio e unico maschio, lasciò Rohan appena maggiorenne e dimorò a lungo a Gondor, meritandosi molti onori al servizio di Turgon.
2905-2980 16. Thengel. Non si sposò che molto avanti in età (2943) con Morwen di Lossarnach a Gondor, benché ella avesse diciassette anni meno di lui. Ella partorì a Gondor tre figli, di cui Théoden, il secondo, unico maschio. Alla morte di Fengel i Rohirrim richiamarono Thengel in patria, ed egli tornò, molto riluttante. Ma si dimostrò un re buono e saggio, benché nella sua reggia si parlasse nel linguaggio di Rohan e molti fossero scontenti di ciò. Morwen gli diede altre due figlie a Rohan, e l’ultima, Théodwyn, era la più bella, pur essendo nata assai tardi (2963), quando il padre era già anziano. Suo fratello la amava teneramente. Poco dopo il ritorno di Thengel, Saruman si dichiarò Signore d’Isengard e cominciò a dare fastidio a Rohan, usurpandone le frontiere e sostenendone militarmente i nemici.
2948-3019 17. Théoden. La storia di Rohan lo ricorda con il nome di Théoden Ednew; egli cadde infatti in disonore soccombendo agli incantesimi di Saruman, ma fu guarito da Gandalf, risorgendo a nuova vita e conducendo i suoi uomini nella vittoria del Trombatorrione e in quella riportata sui Campi del Pelennor, la più grande battaglia della Terza Era. Egli cadde davanti ai cancelli di Mundburg. Riposò per qualche tempo nella sua terra di nascita, fra i Re di Gondor, ma fu riportato in patria e seppellito nell’ottavo tumulo della sua linea a Edoras. Incominciò allora una nuova linea.
Nel 2989 Théodwyn sposò Éomund dell’Estfalda, primo maresciallo del Mark. Il loro figlio Éomer nacque nel 2991, e la figlia Éowyn nel 2995. Sauron era già risorto, e la sua ombra si allungava sino a Rohan. Gli Orchi incominciarono le loro scorrerie nelle regioni orientali, uccidendo o rubando cavalli. Altri discesero dalle Montagne Nebbiose; molti erano grossi Uruk al servizio di Saruman, benché sia trascorso molto tempo prima che nascesse tale sospetto. Ad Éomund erano assegnati i confini orientali; egli amava molto i cavalli, e odiava intensamente gli Orchi. Quando arrivava notizia di un’incursione, egli soleva partire con pochi uomini e inseguirli in preda a una collera furibonda e senza prendere alcuna precauzione. Fu così che venne ucciso nel 3002, inseguendo una piccola schiera di Orchi sino alle frontiere dell’Emyn Muil, ove venne sorpreso da una grossa banda che lo attendeva nascosta fra le rocce.
Poco dopo, Théodwyn si ammalò e morì di dolore per la perdita del marito. Il re, triste e affranto, prese con sé i figli della sorella, trattandoli come agli propri. Egli infatti aveva un solo figlio, Théodred, di ventiquattro anni; la regina Elfhild era morta di parto e Théoden non si risposò mai. Éomer ed Éowyn crebbero in Edoras e videro l’ombra cupa sommergere il palazzo di Théoden. Éomer rassomigliava in tutto e per tutto a i suoi avi, mentre Éowyn era alta ed esile, con una grazia e una fierezza che aveva ereditato da Morwen di Lossarnach, chiamata dai Rohirrim Bagliore d’Acciaio.
2991-Q.E. 63 (3084) Éomer Éadig. Divenne, ancor giovanissimo, maresciallo del Mark (3017) ed ereditò l’incarico del padre di sorvegliare i confini orientale. Durante la Guerra dell’Anello Théodred cadde nel corso di una battaglia contro Saruman ai Guadi dell’Isen. Théoden, prima di morire sui Campi del Pelennor, nominò Éomer suo erede e lo chiamò re. Quel giorno anche Éowyn conquistò grande fama, combattendo in quella battaglia sotto mentite spoglie; la chiamarono da allora nel Mark la Dama dal Braccio di Scudo[30]. Éomer divenne un grande re, e poiché succedette a Théoden ancora molto giovane, regnò per ben sessantacinque anni, più a lungo di tutti i predecessori, ad eccezione di Aldor il Vecchio. Durante la Guerra dell’Anello egli strinse amicizia con Re Elessar e con Imrahil di Dol Amroth, e si recò spesso a Gondor negli anni successivi. Nell’ultimo anno della Terza Era prese in moglie Lothfriel, figlia di Imrahil. Gli succedette il figlio Elfwine il Bello.
Durante il regno di Éomer gli uomini del Mark conobbero la tanto agognata pace, la popolazione crebbe sia nelle valli che in pianura, e i cavalli si moltiplicarono. Re Elessar regnava su Gondor e Arnor, cioè su tutte le terre appartenenti agli antichi reami. Ma non regnò su Rohan perché rinnovò ad Éomer il dono di Cirion, ed Éomer ripeté il Giuramento di Eorl, e lo mantenne più volte. Perché, sebbene Sauron fosse stato sconfitto, gli odi e le malvagità che aveva suscitati e acuiti non si erano ancora spenti, e il Re dell’Ovest dovette vincere molti nemici prima che l’Albero Bianco potesse fiorire in pace. E ovunque combattesse Re Elessar, Re Éomer lo accompagnava; al di là del Mare di Rhûn e nei lontani campi del Sud si udì più volte scalpitare la cavalleria del Mark, e il Bianco Cavallo in campo verde sventolò al vento di molti paesi prima che Éomer diventasse vecchio.
A proposito degli inizi dei Nani vengono narrate strane storie, sia dagli Eldar che dagli stessi Nani; ma poiché sono eventi accaduti in tempi assai lontani dai nostri, ne parleremo brevemente. Durin è il nome che i Nani diedero al più anziano dei Sette Padri della loro razza, predecessore di tutti i re dei Lungobarbi. Egli visse solo, finché negli abissi del tempo all’epoca del risveglio del suo popolo giunse ad Azanulbizar, e stabilì la propria dimora nelle caverne sul Kheledzâram a est delle Montagne Nebbiose, dove poi furono le famose Miniere di Moria decantate da tanti menestrelli.
Egli visse così a lungo che tutti lo chiamavano Durin il Senzamorte. Eppure finalmente morì, prima che fossero finiti i Tempi Remoti, e la sua tomba si trova a Khazad-dûm; ma la sua linea non si estinse mai, e per cinque volte nacque nella sua casa un erede talmente simile al suo Avo, che ricevette il nome di Durin. I Nani erano in verità convinti che ognuno di questi eredi fosse la reincarnazione del Senza-morte; essi hanno infatti molte strane storie e credenze a proposito di loro stessi e del loro destino nel mondo.
Dopo la fine della Prima Era il potere e la ricchezza di Khazad-dûm crebbero enormemente; infatti poterono approfittare di tutti coloro che fuggirono dalle antiche città di Nogrod e Belegost nelle Montagne Azzurre, ai tempi del crollo di Thangorodrim, e si rifugiarono a Khazad-dûm, recando con sé le loro arti e tradizioni. Il potere di Moria perdurò attraverso gli Anni Oscuri e il dominio di Sauron, perché malgrado la devastazione dell’Eregion e la chiusura dei cancelli di Moria, le sale di Khazad-dûm erano troppo profonde e resistenti e piene di gente numerosa e ardita che Sauron non avrebbe potuto conquistare dall’esterno. Così le ricchezze dei Nani rimasero a lungo intatte, nonostante il popolo cominciasse a diminuire.
Accadde che verso la metà della Terza Era il re era di nuovo Durin, il sesto di questo nome. Il potere di Sauron, servitore di Morgoth, stava ricominciando a crescere nel mondo, benché l’Ombra nella Foresta che costeggiava Moria non fosse stata ancora riconosciuta come opera dell’Oscuro Signore. Tutte le entità malefiche erano in movimento. I Nani scavavano molto in profondità a quei tempi, cercando sotto il Barazinbar filoni di mithril, il metallo dal valore inestimabile che diveniva di anno in anno sempre più difficile da ottenere. E fu così che risvegliarono un essere orrendo che, fuggito da Thangorodrim, era rimasto nascosto nelle viscere della terra sin dalla venuta dell’Esercito dell’Ovest: un Balrog di Morgoth. Esso uccise Durin, e l’anno seguente suo figlio Nain I; allora la gloria di Moria svanì, e i suoi abitanti vennero decimati e costretti a fuggire.
La maggior parte dei superstiti si rifugiarono a nord, e Thràin I, figlio di Nain, giunse a Erebor, la Montagna Solitaria, vicina ai margini orientali del Bosco Atro. Iniziò nuovi lavori, e divenne Re ai piedi della Montagna. A Erebor trovò il grande gioiello, l’Arkengemma, Cuore della Montagna. Ma suo figlio Thorin I partì e si recò nell’estremo Nord, ove ormai si stava radunando la maggior parte del popolo di Durin, essendo quelle montagne ricche e inesplorate. Ma nei deserti circostanti dimoravano i draghi, e dopo molti anni erano divenuti nuovamente forti e numerosi; i draghi assalirono allora i Nani, saccheggiandoli e depredandoli. Alla fine Dàin I e il suo secondogenito Frór vennero uccisi sulla soglia della loro dimora da un grande drago del freddo.
Poco tempo dopo quasi tutto il popolo di Durin abbandonò le Montagne Grigie. Grór, figlio di Dàin, partì con molti seguaci diretto ai Colli Ferrosi; ma Thrór, l’erede di Dàin, tornò a Erebor insieme con Borin fratello di suo padre e con gli ultimi superstiti. Thrór riportò nel Gran Palazzo di Thràin l’Arkengemma, e il suo popolo prosperò e si arricchì, stimato e apprezzato da tutti gli Uomini che vivevano da quelle parti. Essi infatti non soltanto creavano oggetti splendidi e meravigliosi, ma anche armi di gran valore; e vi era un intenso traffico di minerali fra essi e i loro parenti dei Colli Ferrosi. E così gli Uomini Nordici che dimoravano nel territorio compreso fra il Celduin (Fiume Flutti) e il Carnen (Rossacque) divennero potenti e respinsero tutti i nemici giunti da est; i Nani vissero nell’abbondanza, ed Erebor era piena di festeggiamenti e di canti.
La notizia della ricchezza di Erebor si sparse in terre straniere e giunse alle orecchie dei draghi, e finalmente Smaug il Dorato, il più potente dei draghi della sua epoca, si ribellò e assalì inaspettatamente Re Thrór nella sua Montagna. Poco tempo dopo tutto il reame fu distrutto, e la vicina città di Valle era in rovina e deserta; ma Smaug entrò nel Gran Palazzo e si distese sopra un letto d’oro.
Dal saccheggio e dall’incendio scamparono molti Nani; Thrór e suo figlio Thràin II riuscirono a fuggire per ultimi da una porta segreta. Essi partirono con la loro famiglia per un lungo disperato vagare, seguiti da un piccolo gruppo di fedeli seguaci.
Molti anni dopo, Thrór, vecchio, povero e disperato, diede a suo figlio Thràin l’unico grande tesoro che possedeva ancora, l’ultimo dei Sette Anelli; poi se ne andò con un solo vecchio compagno, di nome Nàr. Al momento della separazione disse a Thràin, parlando dell’Anello:
«Questo potrebbe essere per te la base di una nuova fortuna, benché sembri improbabile. Ma per fare oro occorre averne». «Non intendi certo tornare a Erebor», disse Thràin. «Non alla mia età», rispose Thrór. «Affido a te e ai tuoi figli la vendetta contro Smaug. Ma sono stanco della povertà e della derisione degli Uomini. Vado a vedere che cosa posso trovare». Ma non disse dove.
Era forse un poco rimbambito a causa dell’età, della sfortuna e del continuo rimuginare sull’antico splendore di Moria ai tempi degli avi; o forse l’Anello stava ora diventando malefico, poiché il padrone si era risvegliato, e lo spingeva verso la follia e la distruzione. Dal Dun’and, dove abitava allora, si recò a nord con Nàr, ed essi traversarono il Valico Cornorosso e giunsero ad Azanulbizar.
All’arrivo di Thrór il Cancello di Moria era aperto. Nàr lo supplicò di essere cauto, ma egli non vi fece caso, e vi entrò con il portamento altero di un erede che ritorna. Nàr non lo vide più uscire. Rimase lì nascosto per molti giorni, finché una sera udì un grido e lo squillo di un corno, e un corpo venne scaraventato sugli scalini esterni. Temendo che fosse Thrór, si avvicinò strisciando, ma una voce gridò dal cancello:
«Coraggio, barbuto! Ti vediamo benissimo. Ma non devi avere paura, oggi. Ci servi come messaggero».
Allora Nàr si avvicinò, e scoprì che era davvero il corpo di Thrór, mutilato però della testa, che giaceva bocconi. Mentre era inginocchiato accanto al cadavere del padrone udì una risata, e la voce dell’Orco disse:
«Se i mendicanti non aspettano alla porta, ma entrano di nascosto e cercano di rubare, ecco come li trattiamo. Se un altro dei tuoi amici ficca la sua lurida barba qui dentro, avrà il medesimo trattamento. Va’ a dirlo in giro! Ma se la sua famiglia desidera sapere chi è adesso il re qui dentro, il nome è scritto sul viso. L’ho ucciso io! Sono io il padrone!».
Allora Nàr voltò la testa mozza e vi vide marcato sulla fronte, in rune che egli sapeva leggere, il nome di AZOG. E in quell’istante quel nome si impresse nel suo cuore e in quello di tutti gli altri Nani. Nàr si chinò per prendere la testa, ma la voce di Azog disse:
«Lasciala stare! Vattene! Eccoti una mancia, barba di accattone!». Si sentì colpire da un sacchetto. Conteneva poche monetine di scarso valore.
Piangendo, Nàr fuggì lungo il corso dell’Argentaroggia; voltandosi, vide che degli Orchi erano usciti dal cancello e stavano facendo a pezzi il corpo, gettandone i frammenti ai corvi.
Questa fu la storia che Nàr raccontò a Thràin; e quando questi ebbe pianto e si fu strappata la barba rimase silenzioso. Restò seduto per sette giorni senza pronunciar parola. Poi si alzò e disse: «Non possiamo sopportare ciò!». Quello fu l’inizio della Guerra tra gli Orchi e i Nani, che fu lunga e micidiale, e combattuta per lo più in luoghi profondi sotto terra.
Thràin inviò immediatamente dei messi che recassero la notizia a nord, est e ovest; ma ci vollero tre anni per radunare il loro esercito, al quale parteciparono folte schiere inviate dalle Casate di altri Padri; perché questo disonore subìto dall’erede del Più Anziano della loro razza li empiva di furore. Quando tutto fu pronto, essi attaccarono e saccheggiarono una dopo l’altra tutte le fortezze degli Orchi, da Gundabad al Gaggiolo. Ambedue le parti erano spietate, e vi furono morti e stragi di notte e di giorno. Ma i Nani avevano la vittoria in pugno grazie alla loro forza, alle loro insuperabili armi e al fuoco della loro ira; essi inseguirono Azog in tutte le conche e le valli delle montagne.
Infine, tutti gli Orchi superstiti si rifugiarono a Moria, e l’esercito dei Nani, inseguendoli, giunse ad Azanulbizar. Era questa una grande valle che giaceva fra i contrafforti delle montagne intorno al lago del Kheledzâram e faceva parte dell’antico reame di Khazad-dûm. Quando i Nani videro il cancello delle loro ancestrali dimore lanciarono un urlo che rimbombò come un tuono nella valle. Ma un grosso esercito nemico era radunato sulle pendici tutt’intorno, e dal cancello si riversò una moltitudine di Orchi che Azog aveva tenuti di riserva.
Sulle prime la fortuna fu contro i Nani, perché era un cupo giorno d’inverno senza sole, e gli Orchi erano temerari, decisi e assai superiori di numero; inoltre disponevano della posizione più favorevole. Iniziò così la Battaglia di Azanulbizar (o Nanduhirion in lingua elfica), al ricordo della quale ancor oggi gli Orchi rabbrividiscono e i Nani piangono. Il primo assalto dell’avanguardia condotta da Thràin fu respinto con molte perdite, e Thràin costretto a ritirarsi in un bosco di grandi alberi che s’innalzavano non lungi dal Kheledzâram. Lì cadde Frerin suo figlio, e Fundin suo parente, e molti altri; sia Thràin che Thorin rimasero feriti[31]. Altrove le sorti della battaglia oscillavano in mezzo a grandi carneficine, finché all’improvviso arrivarono le schiere provenienti dai Colli Ferrosi e decisero le sorti della battaglia. Giunti dopo gli altri ancor freschi, i guerrieri di Nain, figlio di Grór, caricarono gli Orchi sterminandoli fin sulle soglie di Moria, gridando: «Azog! Azog!», e spaccando con asce e picconi tutto ciò che ostacolava il loro cammino.
Allora Nain si piantò davanti al Cancello e gridò con voce tonante: «Azog! se ci sei vieni fuori! O forse i nostri sono giochi troppo maneschi per te?».
Allora Azog si fece avanti, ed essi videro un grande Orco con un’enorme testa coperta da un elmo, eppure agile e forte. Lo seguivano molti altri simili a lui, la sua guardia del corpo, e, mentre questi assalivano i soldati di Nain, Azog si rivolse a Nain e gli disse:
«Come? Un altro accattone alla mia porta? Vuoi fare la fine dell’altro?». Con queste parole si precipitò su Nain, ed entrambi si misero a combattere. Ma Nain era accecato dalla rabbia e stanco, mentre Azog era fresco, crudele e pieno di astuzia. Nain brandì un colpo violento con tutta la forza che gli rimaneva, ma Azog lo sviò, tirandogli un calcio negli stinchi, e l’ascia si spaccò per terra, mentre Nain incespicava in avanti. Allora Azog gli troncò la testa con un rapido colpo. Il collare di ferro parò il taglio della lama, ma tale fu la violenza del colpo che il collo di Nain si ruppe ed egli si accasciò.
Allora Azog si mise a ridere, e alzò il capo per lanciare un urlo di trionfo, ma l’urlo gli morì in gola. Vide infatti il suo esercito allo sbaraglio nella valle, e i Nani che andavano di qua e di là uccidendo senza incontrare alcuna resistenza, poiché gli Orchi fuggivano verso sud gridando terrorizzati. Intorno a lui tutti i soldati della sua guardia giacevano morti. Egli si voltò, correndo precipitosamente verso il Cancello.
Un Nano lo inseguì, brandendo un’ascia rossa. Era Dàin Piediferro, figlio di Nain. Riuscì ad afferrare Azog prima che varcasse il Cancello e lo uccise, staccandogli la testa. E quella fu considerata una grande prodezza, perché Dàin per i Nani era appena un adolescente. Ma una lunga vita e numerose battaglie lo attendevano, prima che cadesse, anziano ma fiero e diritto, durante la Guerra dell’Anello. Eppure, malgrado il suo coraggio e il suo furore, pare che quando ritornò dal Cancello fosse livido in faccia, come chi è reduce da un grande spavento.
Quando ebbero finalmente vinto la battaglia, tutti i Nani superstiti si riunirono ad Azanulbizar. Essi presero la testa di Azog e gli ficcarono in bocca il sacchetto con le monetine; poi la infilzarono in cima a un’asta. Quella notte però non vi furono feste né canti, perché innumerevoli erano i loro morti. Meno della metà infatti erano ancora in piedi o potevano sperare di guarire.
E tuttavia Dàin venne fra loro, privo di un occhio e azzoppato da una ferita alla gamba, e disse: «Bene! Abbiamo vinto. Khazad-dûm è nostro!».
Ma essi risposero: «Tu sei l’Erede di Durin, ma anche con un occhio solo dovresti vedere piuttosto bene. Abbiamo combattuto questa guerra per vendetta, e vendetta è stata fatta. Ma il suo sapore non è dolce. Se questo si chiama vincere, le nostre mani sono troppo piccole per accogliere questa vittoria».
Coloro che non appartenevano al popolo di Durin dissero: «Khazad-dûm non era la dimora dei nostri avi. Che cosa rappresenta per noi se non la speranza di un tesoro? Ma se dobbiamo andarcene senza le ricompense che meritiamo, meglio tornare al più presto nelle nostre terre».
Allora Thràin si rivolse a Dàin e disse: «Il mio popolo vuole dunque abbandonarmi?». «No», disse Dàin. «Tu sei il padre della nostra gente, e noi abbiamo sanguinato per te e siamo pronti a ricominciare. Ma non vogliamo entrare a Khazad-dûm. Tu non entrerai a Khazad-dûm. Io sono l’unico ad aver guardato attraverso l’ombra del Cancello. Al di là dell’ombra il Flagello di Durin è in agguato. Il mondo dovrà cambiare e qualche altro potere dovrà sopraggiungere prima che il popolo di Durin varchi di nuovo la soglia di Moria».
E così, dopo la battaglia, i Nani si sparpagliarono nuovamente. Ma prima, con grande fatica, spogliarono tutti i loro morti, per impedire agli Orchi di impadronirsi di un ricco bottino di armi e di cotte di maglia. Pare che ogni Nano tornato da quella battaglia recasse sulle spalle un pesante fardello. Innalzarono inoltre molti roghi e bruciarono tutti i cadaveri dei loro compagni. Nella valle furono abbattute grandi quantità di alberi, che non ricrebbero mai più, e il fumo dei roghi si vide persino da Lórien[32].
Quando non rimase che cenere ognuno tornò al proprio paese, e Dàin Piediferro condusse il popolo di suo padre ai Colli Ferrosi. Allora Thràin, in piedi accanto alla grande asta, disse a Thorin Scudodiquercia: «Alcuni penserebbero che l’abbiamo pagata cara, questa testa! Per essa abbiamo rinunciato al nostro regno. Vuoi tornare con me all’ovile? O preferisci mendicare il tuo pane alla porta di ricchi alteri?».
«All’ovile», rispose Thorin. «Il martello manterrà forti e agili le mie braccia, in attesa di poter adoperare strumenti più micidiali».
E così Thràin e Thorin tornarono nel Dun’and con i loro seguaci (fra i quali Balin e Glóin), ma poco dopo partirono nuovamente e vagarono nell’Eriador, finché stabilirono la loro dimora in esilio a est dell’Ered Luin, sulla riva del Luhun. Gli oggetti che crearono a quei tempi erano per lo più di ferro, ma essi ricominciarono a prosperare, e persino ad aumentare lentamente di numero[33]. Ma, come aveva detto Thrór, l’Anello aveva bisogno di oro per fare oro, ed essi ne avevano poco, come del resto scarseggiavano tutti gli altri metalli preziosi.
Di questo Anello possiamo in questa sede parlare brevemente. I Nani di Durin ritenevano che fosse il primo dei Sette ad essere stato forgiato; e dicono che fu dato al Re di Khazad-dûm, Durin III, dagli artigiani elfici e non da Sauron, benché il malefico potere di questi vi si fosse infiltrato, dal momento che Sauron aveva contribuito alla creazione di tutti e Sette gli Anelli. Ma i possessori dell’Anello non lo mostravano, non ne parlavano, e non lo cedevano che in punto di morte, affinché gli altri non sapessero a chi veniva consegnato. Alcuni credevano che fosse rimasto a Khazad-dûm, nascosto nelle tombe dei re, a meno che queste non fossero state saccheggiate; ma il popolo di Durin pensava (a torto) che Thrór lo avesse con sé quando si era imprudentemente recato a Moria. Che cosa poi ne fosse accaduto ognuno lo ignorava, tanto più che non fu trovato sul corpo di Azog.
È tuttavia possibile che, come credono oggi i Nani, Sauron fosse riuscito a scoprire chi possedeva l’Anello, l’ultimo rimasto libero, e che le costanti sventure degli eredi di Durin fossero in gran parte dovute alla sua malvagità. I Nani avevano infatti dimostrato di essere indomabili. L’unico potere che l’Anello esercitava su di essi era di infiammare i loro cuori rendendoli avidi d’oro e di oggetti preziosi, a tal punto che se non ne possedevano, ogni altra cosa pareva loro inutile e venivano colti dal furore e dal desiderio di vendetta. Ma sin dall’inizio la loro era una razza nata per resistere tenacemente ad ogni dominazione. Pur potendoli uccidere o spezzare, era impossibile renderli delle ombre sottomesse al potere altrui; per il medesimo motivo le loro vite non risentivano del possesso dell’Anello, ed esso non poteva né abbreviarle né allungarle. Una ragione di più perché Sauron li odiasse e bramasse di derubarli.
Fu quindi in parte a causa dell’influsso malefico dell’Anello che dopo qualche anno Thràin divenne insoddisfatto e insofferente. Il desiderio di oro ossessionava la sua mente. Finalmente, non potendo più resistere, volse i suoi pensieri verso Erebor, e decise di tornarvi. Non disse nulla a Thorin di ciò che tormentava il suo cuore, ma disse addio e partì accompagnato da Balin, Dwalin e alcuni altri.
Si sa ben poco di ciò che gli accadde in seguito. Sembrerebbe che non appena si fu allontanato con i suoi pochi compagni, Sauron lo abbia fatto inseguire dai suoi emissari. I lupi lo perseguitavano, gli Orchi lo assalivano, uccelli malefici seguivano la sua ombra, e più tentava di raggiungere il Nord, più incontrava ostacoli e colpi di sfortuna. In una notte buia, mentre errava nelle terre oltre l’Anduin, fu costretto da una pioggia nera a rifugiarsi con i suoi compagni sotto le fronde del Bosco Atro. L’indomani mattina egli non era più nell’accampamento, e i compagni lo chiamarono invano. Lo cercarono per giorni e giorni, e infine, persa ogni speranza, ripartirono e tornarono da Thorin. Molti anni dopo si seppe che Thràin era stato catturato e trascinato sino ai pozzi di Dol Guldur, dove lo avevano torturato e lo avevano depredato dell’Anello, per poi lasciarlo morire.
E così Thorin Scudodiquercia divenne l’Erede di Durin, ma un erede senza speranza. Alla scomparsa di Thràin egli aveva novantacinque anni, ed era un grande Nano dal portamento fiero; si contentò di rimanere nell’Eriador. Lavorò molto, commerciando e guadagnando grosse ricchezze, e il suo popolo crebbe grazie alla venuta di molti Nani del Popolo di Durin i quali avevano udito durante i loro vagabondaggi che egli dimorava a occidente. Essi avevano ora splendide dimore scavate nelle montagne e abbondanti provviste di merci, e la loro esistenza era ormai serena, benché i loro canti parlassero sempre della Montagna Solitaria.
Passarono gli anni. Nel cuore di Thorin avvamparono gli ultimi tizzoni mentre egli rimuginava sui torti subiti e meditava di vendicarsi del Drago. Sognava armi, eserciti, alleanze, e il suo grande martello rimbombava nella fucina; ma gli eserciti erano disperati e le alleanze infrante e poche le asce di cui disponeva la sua gente; allora una grande collera senza speranza ardeva in lui mentre martellava sull’incudine il ferro rovente.
Ma un giorno avvenne un casuale incontro fra Gandalf e Thorin, che trasformò le sorti della Casa di Durin e fu alla base di altri grandiosi eventi. Una sera Thorin, di ritorno da un viaggio, si fermò a trascorrere la notte a Brea. Gandalf era lì anch’egli, diretto verso la Contea, da dove mancava da più di vent’anni. Era stanco, e decise di fermarsi lì a riposare.
Fra i molti problemi che lo turbavano, vi era il pericolo che minacciava il Nord; egli sapeva infatti che Sauron progettava una guerra e che non appena si fosse sentito sufficientemente forte avrebbe assalito Gran Burrone. Ma l’unico ostacolo che si frapponeva fra Mordor e le terre di Angmar o i valichi delle montagne erano i Nani dei Colli Ferrosi. Al di là di essi esistevano i desolati possedimenti del Drago, e Sauron si sarebbe potuto servire di Smaug con terribili risultati. In quale modo lo si sarebbe potuto uccidere?
Proprio mentre Gandalf ponderava tali questioni, Thorin si avvicinò a lui e disse: «Messere Gandalf, ti conosco soltanto di vista, ma sarei felice di poterti parlare. In questi tempi sei apparso sovente nei miei pensieri, come se qualcuno mi istigasse a cercarti. E in verità avrei dovuto farlo, se avessi saputo dove trovarti».
Gandalf lo guardò stupito. «Ciò che mi dici è strano, Thorin Scudodiquercia», gli disse. «Anch’io infatti ho pensato a te, e benché ora sia diretto verso la Contea, avevo in mente di spingermi sino alle vostre dimore».
«Chiamale così, se vuoi», disse Thorin. «Sono misere abitazioni di esiliati. Ma saresti il benvenuto se accettassi di venire. Dico che sei saggio e che sai più di chiunque altro ciò che accade nel mondo: ho molti problemi che mi tormentano e sarei felice di conoscere il tuo parere».
«Verrò», disse Gandalf; «credo infatti che abbiamo almeno un problema in comune. Il Drago di Erebor è per me fonte d’inquietudine, e non credo che il nipote di Thrór lo abbia dimenticato».
Altrove è narrata la storia di quell’incontro: lo strano piano elaborato da Gandalf per aiutare Thorin, come Thorin e i suoi compagni partirono dalla Contea diretti alla Montagna Solitaria, e la strana e inaspettata fine della loro avventura. Qui ricordiamo soltanto le cose che concernono direttamente il Popolo di Durin.
Il Drago fu ucciso da Bard di Esgaroth, ma nella Valle si combatté una battaglia. Gli Orchi infatti si precipitarono a Erabor appena udirono del ritorno dei Nani, capeggiati da Bolg, figlio di quell’Azog che Dàin aveva ucciso ancora adolescente. In quella prima Battaglia della Valle, Thorin Scudodiquercia fu ferito a morte e venne seppellito in una tomba sotto la Montagna con l’Arkengemma sul petto. E lì caddero anche Fili e Kili, i figli di sua sorella. Dàin Piediferro suo cugino, suo erede legittimo, giunto dai Colli Ferrosi per aiutarlo, divenne allora Re Dàin II, e il Regno nella Montagna fu restaurato, come Gandalf aveva auspicato. Dàin fu un re grande e saggio, e durante il suo regno i Nani prosperarono e divennero forti.
Sul finire dell’estate di quell’anno (2941) Gandalf era riuscito a indurre Saruman e il Bianco Consiglio ad attaccare Dol Guldur, e Sauron si ritirò rifugiandosi a Mordor, per essere, egli credeva, al sicuro da tutti i nemici. Quando infine sopraggiunse la Guerra, l’assalto più massiccio fu rivolto a sud; e tuttavia allungando molto la mano destra Sauron avrebbe potuto creare grossi danni a nord, se non avesse incontrato la resistenza di Re Dàin e di Re Brand. Ed è proprio ciò che Gandalf disse a Frodo e Gimli quando trascorsero qualche tempo insieme a Minas Tirith. Poco prima erano giunte a Gondor notizie di eventi lontani.
«La morte di Thorin fu per me un dolore», disse Gandalf; «e ora apprendiamo che Re Dàin è caduto, combattendo nella Valle, mentre noi combattevamo qui. La chiamerei una grave perdita se non considerassi piuttosto degno di meraviglia il fatto che alla sua età potesse ancora maneggiare un’ascia con l’abilità che gli attribuiscono, ergendosi innanzi al corpo di Re Brand sino al calare delle tenebre davanti al Cancello di Erebor.
«Eppure le cose sarebbero potute andare assai diversamente, e molto peggio. Quando penserete alla grande Battaglia del Pelennor, non dimenticate le Battaglie della Valle e il coraggio del Popolo di Durin. Pensate a ciò che sarebbe potuto accadere. Fuochi di Draghi e spade selvagge nell’Eriador, notte cupa a Gran Burrone. Potrebbe ora non esserci una Regina a Gondor. E noi al nostro ritorno dalla vittoria avremmo potuto trovare nient’altro che cenere e distruzione. Ma tutto ciò è stato impedito… perché una sera, ai margini della primavera, io incontrai a Brea Thorin Scudodiquercia, un incontro casuale, diciamo noi nella Terra di Mezzo».
Dís era la figlia di Thràin II, l’unica donna della razza dei Nani ad essere nominata in queste storie. Gimli spiegò che vi erano poche Nane, probabilmente appena un terzo della intera popolazione. Esse si allontanano dalle loro dimore assai di rado, e soltanto in caso di estrema necessità. La loro voce, il loro aspetto e, quando viaggiano, anche il loro abbigliamento sono talmente simili a quelli dei Nani maschi che gli occhi e le orecchie della gente di altri paesi non sanno distinguerle: questo è all’origine della stupida idea degli Uomini, secondo cui non esistono le Nane e i Nani «nascono dalla roccia».
È proprio a causa della scarsità di donne che la razza dei Nani aumenta di numero assai lentamente, e corre gravi pericoli quando non dimorano in luoghi sicuri. I Nani infatti si sposano una volta sola nella vita, e sono gelosi come in ogni altra questione ove si tratti dei loro diritti. A dire il vero, non più di un terzo dei Nani prende moglie. Infatti, non tutte le donne si sposano: alcune desiderano chi non possono avere e rifiutano tutti gli altri. Quanto ai Nani, molti non desiderano il matrimonio, poiché sono troppo impegnati con il loro lavoro.
Gimli figlio di Glóin è famoso, perché fu uno dei Nove Viandanti partiti con l’Anello; fece parte del seguito di Re Elessar sino alla fine della Guerra. Lo soprannominarono Amico degli Elfi a causa del profondo affetto sorto fra lui e Legolas, figlio di Re Thranduil, e della sua venerazione per Dama Galadriel.
Dopo la caduta di Sauron, Gimli portò a sud una parte del popolo dei Nani di Erebor, e divenne Sire delle Caverne Scintillanti. Lui e la sua gente fecero grandi opere a Gondor e a Rohan. Per Minas Tirith forgiarono cancelli di mithril e d’acciaio per sostituire quelli distrutti dal Re degli Stregoni. Il suo amico Legolas portò anch’egli al Sud alcuni Elfi della Foresta Verde, ed essi dimorarono nell’Ithilien, che tornò ad essere la più bella di tutte le terre occidentali.
Ma quando Re Elessar rinunciò alla vita, Legolas seguì infine il desiderio del suo cuore e navigò al di là del Mare.
Abbiamo udito dire che Legolas prese con sé Gimli figlio di Glóin in virtù della loro profonda amicizia, la più profonda che fosse mai sorta fra un Elfo e un Nano. Se ciò è vero, è molto strano: cioè che un Nano fosse disposto a lasciare per un affetto la Terra di Mezzo, che gli Eldar accettassero di riceverlo, e che i Signori dell’Ovest glielo permettessero. Ma pare che Gimli sia partito anche spinto dal desiderio di rivedere la bellezza di Galadriel, ed è possibile che ella, potente fra gli Eldar, avesse ottenuto per lui questa grazia. Altro non si può dire.
La Prima Era si concluse con la Grande Battaglia, durante la quale l’Esercito di Valinor sbaragliò Thangorodrim e sopraffece Morgoth. Poi la maggior parte dei Noldor tornò nell’Estremo Occidente e dimorò ad Eressëa in vista di Valinor. Molti dei Sindar varcarono il Mare.
La Seconda Era finì con la prima sconfitta di Sauron, servitore di Morgoth, e il riacquisto dell’Unico Anello.
La Terza Era terminò con la Guerra dell’Anello; ma il principio della Quarta Era è collocato più tardi, al momento della partenza di Elrond e all’inizio della dominazione degli Uomini e del declino di tutte le altre «razze parlanti» della Terra di Mezzo.
Nel corso della Quarta Era le ere precedenti venivano sovente chiamate Tempi Remoti, ma impropriamente, poiché tale nome dovrebbe riferirsi esclusivamente ai tempi anteriori alla sconfitta di Morgoth.
Furono anni oscuri per gli Uomini della Terra di Mezzo, ma anni di gloria per Nùmenor. Degli eventi della Terra di Mezzo la documentazione è scarsa e poco esauriente, e le date sono spesso incerte.
All’inizio di questa era vi erano ancora numerosi Alti Elfi. La maggior parte dimorava nel Lindon, a ovest dell’Ered Luin; ma prima che venisse costruita Barad-dûr molti Sindar andarono a oriente, e alcuni stabilirono i loro reami in remote foreste; i loro popoli furono per lo più Elfi Silvani. Thranduil, re a nord della Grande Foresta Verde, era uno di questi. Nel Lindon, a nord del Luhun, dimorava Gil-galad, ultimo erede dei re dei Noldor in esilio. Egli venne riconosciuto Alto Re degli Elfi d’Occidente. Nel Lindon, a sud del Luhun, visse per un certo tempo Celeborn, parente di Thingol; sua moglie fu Galadriel, la più grande delle donne gnomiche. Era sorella di Finrod Felagmd, Amico degli Uomini, un tempo re di Nargothrond, che diede la vita per salvare Beren figlio di Barahir.
Più tardi alcuni Noldor si recarono nell’Eregion, sul fianco occidentale delle Montagne Nebbiose, in prossimità del Cancello Occidentale di Moria. I Noldor erano artisti meravigliosi e meno ostili nei riguardi dei Nani di quanto non lo fossero i Sindar; l’amicizia che nacque fra il popolo di Durin e gli Gnomi dell’Eregion fu la più profonda che vi sia mai stata fra le due razze. Celebrimbor era signore dell’Eregion e il più grande degli artisti; discendeva da Fëanor.
Anno 1 Fondazione dei Rifugi Oscuri; prima organizzazione del Lindon.
32 Gli Edain giungono a Nùmenor.
c. 40 Molti Nani lasciano le antiche città dell’Ered Luin e si trasferiscono a Moria accrescendone la popolazione.
442 Morte di Elros Tar-Minyatur.
c. 500 Sauron incomincia a risvegliarsi nella Terra di Mezzo.
548 Nascita di Silmariën a Nùmenor.
600 Le prime navi dei Numenoreani salpano per la Terra di Mezzo.
750 I Noldor fondano l’Eregion.
c. 1000 Sauron, allarmato dal crescente potere dei Numenoreani, sceglie Mordor per farne la sua fortezza. Incomincia a costruire Barad-dûr.
1075 Tar-Ancalimë diventa prima Regina Regnante di Nùmenor.
1200 Sauron cerca di attrarre a sé gli Eldar; Gil-galad rifiuta di trattare con lui, ma Sauron riesce a persuadere gli artigiani elfici dell’Eregion. I Numenoreani incominciano a costruire porti permanenti.
c. 1500 Gli artigiani elfici raggiungono, grazie all’insegnamento di Sauron, le più alte vette dell’arte. Incominciano a forgiare gli Anelli del Potere.
c. 1590 Nell’Eregion vengono forgiati i Tre Anelli.
c. 1600 Sauron forgia l’Unico Anello nell’Orodruin. Si conclude la costruzione di Barad-dûr. Celebrimbor intuisce gli intenti di Sauron.
1693 Guerra tra gli Elfi e Sauron, i Tre Anelli son celati.
1695 L’esercito di Sauron invade l’Eriador. Gil-Galad manda Elrond nell’Eregion.
1697 L’Eregion devastato. Morte di Celebrimbor. I cancelli di Moria sono chiusi. Elrond si ritira con i Noldor superstiti e fonda il rifugio di Imladris.
1699 Sauron semina il terrore nell’Eriador.
1700 Tar-Minastir invia da Nùmenor una grossa flotta nel Lindon. Sauron viene sconfitto.
1701 Sauron è cacciato dall’Eriador. L’Occidente gode di un periodo di pace.
c. 1800 Da questo momento i Numenoreani incominciano a costituire insediamenti stabili lungo le coste. Sauron estende il suo potere a oriente. L’ombra cade su Nùmenor.
2251 Tar-Atanamir prende lo scettro. Ribellione e divisione dei Numenoreani. Prima apparizione dei Nazgûl o Schiavi de; Nove Anelli.
2280 Umbar diventa una roccaforte di Nùmenor.
2350 Costruzione di Pelargir, che diventa il porto principale dei Fidi Numenoreani.
2899 Ar-Adûnakhôr prende lo scettro.
3175 Pentimento di Tar-Palantir. Guerra civile a Nùmenor.
3255 Ar-Pharazôn il Dorato prende lo scettro.
3261 Ar-Pharazôn salpa e giunge a Umbar.
3262 Sauron è preso prigioniero e portato a Nùmenor; 3262.
3310, Sauron seduce il Re e corrompe i Numenoreani.
3310 Ar-Pharazôn inizia il Grande Apparato di Guerra.
3319 Ar-Pharazôn assale Valinor. Caduta di Nùmenor. Elendil fugge con i suoi figli.
3320 Fondazione dei Reami in Esilio: Arnor e Gondor. Le Pietre vengono divise. Sauron ritorna a Mordor.
3429 Sauron attacca Gondor, s’impadronisce di Minas Ithil e incendia l’Albero Bianco. Anàrion difende Minas Arnor e Osgiliath.
3430 Ultima Alleanza tra gli Elfi e gli Uomini.
3431 Gil-galad ed Elendil marciano verso Imladris.
3434 L’esercito dell’Alleanza traversa le Montagne Nebbiose. Battaglia di Dagorlad e sconfitta di Sauron. Incomincia l’assedio di Barad-dûr.
3440 Uccisione di Anàrion.
3441 Sauron sconfitto da Elendil e Gil-galad, che periscono in combattimento. Isildur prende l’Unico Anello. Sauron scompare e gli Schiavi dell’Anello svaniscono nelle ombre. Fine della Seconda Era.
Anni di decadenza degli Eldar. Ebbero un lungo periodo di pace durante il quale adoperarono i Tre Anelli mentre Sauron dormiva e l’Unico Anello era smarrito; ma non tentarono nulla di nuovo, vivendo delle memorie del passato. I Nani si nascosero in rifugi segreti ove custodivano i loro tesori; ma quando il male cominciò a destarsi e i draghi apparvero, i loro antichi tesori vennero saccheggiati ad uno ad uno ed essi divennero un popolo errante. Moria rimase a lungo un luogo sicuro, ma i suoi abitanti diminuirono a tal punto che gran parte delle vaste dimore erano buie e vuote. La saggezza e la durata della vita dei Numenoreani incominciarono anch’esse a diminuire, mentre essi si mescolavano con gli Uomini comuni.
Trascorsi circa mille anni, apparve la prima ombra sulla Grande Foresta Verde, e nella Terra di Mezzo giunsero gli Istari o Stregoni. Si disse poi che venivano dall’Estremo Occidente ed erano messaggeri inviati a contestare il potere di Sauron e ad unire tutti coloro che avevano la forza di volontà necessaria a resistergli; ma era loro vietato opporre al potere di Sauron il proprio potere, e cercare di dominare Elfi e. Uomini con la forza e la paura.
Apparvero quindi nelle vesti di Uomini, pur non essendo mai giovani e invecchiando assai lentamente. Disponevano di molti poteri fisici e spirituali, rivelavano a pochi il loro vero nome, adoperando i soprannomi che gli altri davano loro. I due più importanti (pare che in tutto fossero cinque) ricevettero dagli Eldar i nomi di Curunìr, «l’Uomo Abile», e Mithrandir, «il Grigio Pellegrino», ma per gli Uomini del Nord essi erano Saruman e Gandalf. Curunir si recò sovente a est, ma si stabilì poi a Isengard. Mithrandir era tra i due quello più amico agli Eldar, viaggiava soprattutto a occidente, e non scelse mai una dimora stabile.
Durante tutta la Terza Era soltanto i possessori dei Tre Anelli sapevano chi fossero gli altri proprietari. Ma in seguito si venne a sapere che essi erano dapprima stati nelle mani dei tre grandi Eldar: Gil-galad, Galadriel e Cirdan. Gil-galad prima di morire diede il suo a Elrond; Cirdan cedette più tardi il proprio a Mithrandir. Cirdan infatti vedeva più lontano e più in profondità di chiunque altro nella Terra di Mezzo, e accolse con gioia Mithrandir ai Rifugi Oscuri, poiché sapeva donde egli venisse e dove sarebbe infine ritornato.
«Prendi questo anello», gli disse, «perché ardue saranno le tue fatiche; esso ti sarà di aiuto nel corso delle tremende imprese che hai deciso di affrontare. Questo infatti è l’Anello di Fuoco e con esso potrai riscaldare i cuori in un mondo che diventa sempre più freddo. Quanto a me, il mio cuore è vicino al Mare, e io dimorerò sulle grigie sponde fino alla partenza dell’ultima nave. Ti aspetterò».
Anno 2 Isildur pianta un seme dell’Albero Bianco a Minas Anor. Egli affida a Meneldil il Regno del Sud. Disastro a Campo Gaggiolo; Isildur viene ucciso insieme con i suoi tre figli maggiori.
3 Ohtar porta a Imladris i frantumi di Narsil.
109 Elrond sposa la figlia di Celeborn.
130 Nascita di Elladan e di Elrohir, figli di Elrond.
241 Nascita di Arwen Undómiel. C,
420 Re Ostoher ricostruisce Minas Anor.
490 Prima invasione degli Esterling.
500 Rómendacil I sconfigge gli Esterling.
541 Rómendacil muore sul campo di battaglia.
830 Falastur inizia la linea dei Re Navigatori di Gondor.
861 Morte di Eärendur, e divisione di Arnor.
933 Re Eärnil I conquista Umbar, che diviene una fortezza di Gondor.
936 Eärnil disperse in mare.
1015 Re Ciryandil ucciso durante l’assedio di Umbar.
1050 Hyarmendacil conquista l’Harad. Gondor raggiunge l’apice della potenza. Un’ombra incombe sulla Foresta Verde che la gente comincia a chiamare Bosco Atro. I Periannath vengono per la prima volta menzionati in alcuni documenti, a proposito della venuta dei Pelopiedi nell’Eriador.
c. 1100 I Saggi (gli Istari e i capi degli Eldar) scoprono che un potere malefico si è stabilito a Dol Guldur. Pensano che si tratti di uno dei Nazgûl.
1149 Regno di Atanatar Alcarin.
c. 1150 I Paloidi si recano nell’Eriador. Gli Sturoi passano il Valico Cornorosso e si stabiliscono nel Dun’and.
c. 1300 Esseri malefici ricominciano a moltiplicarsi. Gli Orchi pullulano sulle Montagne Nebbiose e attaccano i Nani. Riappaiono i Nazgûl. Il loro capo si reca a nord, ad Angmar. I Periannath emigrano a ovest; molti si installano a Brea.
1356 Re Argeleb I muore combattendo contro il Rhudaur. In questo periodo gli Sturoi abbandonano il Dunland; alcuni tornano nelle Terre Selvagge.
1409 Il Re degli Stregoni di Angmar invade il territorio di Arnor. Re Arveleg I viene ucciso. Difesa di Fornost e di Tyrn Gorthad. Distruzione della Torre di Amon Sûl.
1432 Muore Re Valacar di Gondor; comincia la Lotta delle Stirpi.
1436 Incendio di Osgiliath e perdita del palantir. Eldacar fugge nel Rhovanion; suo figlio Ornendil viene ucciso.
1437 Incendio di Osgiliath e perdita del palantir. Eldacar fugge nel Rhivanion; suo figlio Ornendil viene ucciso.
1447 Eldacar ritorna, e caccia l’usurpatore Castamir. Battaglia dei Guadi dell’Erui. Assedio di Pelargir.
1448 I ribelli compiono una sortita e s’impadroniscono di Umbar.
1540 Re Aldamir cade lottando contro gli Uomini dell’Harad e i Corsari di Umbar.
1551 Hyarmendacil II sconfigge gli Uomini dell’Harad.
1601 Molti Periannath emigrano da Brea e ricevono in dono delle terre oltre il Baranduin da Argeleb II.
c. 1630 Ad essi si uniscono gli Sturoi venuti dal Dun’and.
1634 I Corsari devastano Pelargir e uccidono Re Minardil.
1636 La Grande Peste fa strage a Gondor. Morte di Re Telemnar e dei suoi figli. L’Albero Bianco muore a Minas Anor. La peste dilaga a nord e ad ovest, e molte parti dell’Eriador divengono deserte. Oltre il Baranduin, i Periannath sopravvivono, ma subiscono ingenti perdite.
1640 Re Tarondor sposta la residenza del Re a Minas Anor, e pianta un seme dell’Albero Bianco. Osgiliath comincia a cadere in rovina. Cessa la sorveglianza su Mordor.
1810 Re Telumehtar Umbardacil riconquista Umbar e respinge i Corsari.
1851 Incominciano le scorrerie dei Carrieri a Gondor.
1856 Gondor perde i territori orientali, e Narmacil II cade in battaglia.
1899 Re Calimehtar sconfigge i Carrieri sul Campo di Dagorlad.
1900 Calimehtar costruisce la Torre Bianca a Minas Anor.
1940 Gondor e Arnor riallacciano relazioni e stringono un’alleanza. Arvedui sposa Firiel figlia di Ondoher di Gondor.
1944 Ondoher cade combattendo. Eärnil sconfigge il nemico nel sud Ithilien; vince quindi la Battaglia del Campo e respinge i Carrieri nelle Paludi Morte. Arvedui rivendica la corona di Gondor.
1945 Eärnil II riceve la corona.
1974 Fine del Regno del Nord. Il Re degli Stregoni invade l’Arthedain e prende Fornost.
1975 Arvedui annega nella Baia di Forochel. I palantiri di Annùminas e di Amon-Sûl vengono smarriti. Eärnur porta nel Lindon una flotta. Il Re degli Stregoni viene sconfitto nella Battaglia di Fornost, e inseguito sino agli Erenbrulli. Egli scompare dal Nord.
1976 Aranarth prende il titolo di Capitano dei Dùnedain. I tesori di Arnor vengono affidati a Elrond.
1977 Rumgar conduce a nord gli Éothéod.
1979 Bucca della Palude diventa il primo Conte della Contea.
1980 Il Re degli Stregoni si reca a Mordor e vi raduna i Nazgûl. Un Balrog appare a Moria e uccide Durin VI.
1981 Uccisione di Nain I. I Nani fuggono da Moria. Molti Elfi Silvani di Lórien fuggono a sud. Perdita di Amroth e della valle del Nimrodel.
1999 Thràin I si reca a Erebor e vi fonda un regno dei Nani «sotto la Montagna».
2000 I Nazgûl escono da Mordor e assediano Minas Ithil.
2002 Caduta di Minas Ithil, poi conosciuta come Minas Morgul. Cattura del palantir che si trovava nella torre.
2043 Eärnur Re di Gondor. Sfidato dal Re degli Stregoni.
2050 Il Re degli Stregoni ripete la sfida. Eärnur si reca a Minas Morgul e scompare. Mardil è il primo Sovrintendente Regnante.
2060 Si accresce il potere di Dol Guldur. I Saggi temono che si tratti di Sauron pronto a risorgere.
2063 Gandalf si reca a Dol Guldur. Sauron indietreggia e si rifugia a est. Inizio della Pace Vigile. I Nazgûl attendono in silenzio a Minas Morgul.
2210 Thorin I lascia Erebor e si reca a nord alle Montagne Grigie ove si stanno radunando quasi tutti i superstiti del Popolo di Durin.
2340 Isumbras I diventa tredicesimo Conte, e primo della casa dei Tuc. I Vecchiobecco si installano nella Terra di Buck.
2460 Fine della Pace Vigile. Sauron ritorna a Dol Guldur con nuove forze.
2463 Si costituisce il Bianco Consiglio. Déagol lo Sturoi. trova l’Unico Anello e viene assassinato da Sméagol.
2470 Sméagol-Gollum si nasconde nelle Montagne Nebbiose.
2475 Gondor viene nuovamente attaccato. Osgiliath è definitivamente distrutta, e il ponte di pietra crolla.
c. 2480 Gli Orchi costruiscono fortezze segrete nelle Montagne Nebbiose al fine di sbarrare tutti i valichi che conducono nell’Eriador. Sauron comincia a popolare Moria con le sue creature.
2509 Celebrían, in viaggio per Lórien, viene assalita al Valico Cornorosso e trafitta da una freccia avvelenata.
2510 Celebrían parte, diretta oltre il Mare. Orchi ed Esterling sopraffatti a Calenardhon. Eorl il Giovane è vincitore sul Campo di Celebrant. I Rohirrim si stabiliscono nel Calenardhon.
2545 Eorl cade combattendo.
2569 Brego figlio di Eorl termina la costruzione della Sala d’Oro.
2570 Baldor figlio di Brego varca la Porta Proibita e scompare. I Draghi cominciano a riapparire all’estremo Nord, tormentando i Nani.
2589 Dàin I ucciso da un Drago.
2590 Thrór ritorna a Erebor. Suo fratello Grór si reca ai Colli Ferrosi.
c. 2670 Tobaldo pianta l’«erba-pipa» nel Decumano Sud.
2683 Isengrim II diventa decimo Conte e comincia a scavare i Grandi Smial.
2698 Ecthelion I ricostruisce la Torre Bianca di &Minas Tirith.
2740 Nuova invasione degli Orchi nell’Eriador.
2747 Brandobras Tuc sconfigge una banda di Orchi nel Decumano Nord.
2758 Rohan, attaccato da est e da ovest, è sopraffatto. Gondor subisce l’assalto delle flotte dei Corsari. Helm di Rohan si rifugia nel Fosso di Helm. Wulf assedia Edoras.
2758 2759: il Lungo Inverno. Grandi perdite e sofferenze nel l’Eriador e nel territorio di Rohan. Gandalf soccorre la gente della Contea.
2759 Morte di Helm. Fréalàf caccia Wulf e inizia la seconda linea dei Re del Mark. Saruman si stabilisce a Isengard.
2770 Smaug il Drago assalta Erebor. Thrór fugge con Thràin II e Thorin lì.
2790 Thrór viene ucciso da un Orco di Moria. I Nani si radunano per preparare una guerra di vendetta. Nascita di Gerontius, più tardi conosciuto con il nome di Vecchio Tuc.
2793 Comincia la Guerra tra i Nani e gli Orchi.
2799 Battaglia di Nanduhirion davanti al Cancello Orientale di Moria. Dàin Piediferro ritorna ai Colli Ferrosi. Thràin lì e suo figlio Thorin partono verso ovest. Si stabiliscono nella parte meridionale dell’Ered Luin, oltre la Contea (2802).
2800-64 Gli Orchi del Nord tormentano Rohan. Re Walda viene ucciso (2861).
2841 Thràin parte con l’intenzione di recarsi a Erebor, ma è inseguito dai servitori di Sauron.
2845 Thràin il Nano imprigionato a Dol Guldur. L’ultimo dei Sette Anelli gli viene sottratto.
2850 Gandalf torna a Dol Guldur e scopre che effettivamente il padrone del luogo è Sauron, il quale sta raccogliendo tutti gli Anelli e cerca accanitamente notizie a proposito dell’Unico Anello e dell’Erede d’Isildur. Egli trova Thràin e riceve la chiave di Erebor. Thràin muore a Dol Guldur.
2851 Adunanza del Bianco Consiglio. Gandalf esorta ad assalire Dol Guldur. Saruman respinge la sua proposta[34]. Saruman incomincia a compiere ricerche in prossimità di Campo Gaggiolo.
2852 Muore Belecthor II di Gondor. Muore anche l’Albero Bianco e non se ne trova un nuovo seme. L’Albero Morto viene lasciato dov’era.
2885 Incitati da emissari di Sauron, gli Haradrim attraversano il Poros e attaccano Gondor. I figli di Folcwine di Rohan muoiono al servizio di Gondor.
2890 Bilbo nasce nella Contea.
2901 L’Ithilien viene abbandonato dalla maggior parte degli abitanti a causa dei ripetuti attacchi degli Uruk di Mordor. Costruzione del rifugio segreto di Henneth Annûn.
2907 Nascita di Gilraen madre di Aragorn II.
2911 Il Crudele Inverno. Il Baranduin e altri fiumi sono ghiacciati. Lupi bianchi invadono da nord l’Eriador.
2912 Grandi inondazioni devastano l’Enedwalth e il Minhiriath. Sarbad viene distrutta e abbandonato.
2920 Morte del Vecchio Tuc.
2929 Arathorn, figlio di Arador dei Dùnedain, sposa Gilraen.
2930 Arador ucciso dai Troll. Nascita di Denethor II, figlio di Ecthelion II, a Minas Tirith.
2931 Aragorn figlio di Arathorn II nasce il primo di marzo.
2933 Arathorn II viene ucciso. Gilraen porta Aragorn a Imladris. Elrond lo accoglie come figlio adottivo e lo chiama Estel (Speranza); la sua progenitura gli viene celata.
2939 Saruman scopre che i servitori di Sauron stanno ispezionando l’Anduin nei pressi di Campo Gaggiolo e che Sauron è quindi al corrente della fine di Isildur. E preoccupato, ma non dice nulla al Consiglio.
2941 Thorin Scudodiquercia e Gandalf vanno a trovare Bilbo nella Contea. Bilbo incontra Sméagol-Gollum e trova l’Anello. Seduta del Bianco Consiglio; Saruman acconsente all’attacco contro Dol Guldur, poiché ora vuole impedire a Sauron di cercare nel Fiume. Sauron ha elaborato i propri piani e abbandona Dol Guldur. Nella Valle avviene la Battaglia dei Cinque Eserciti. Morte di Thorin II. Bard di Esgaroth uccide Smaug. Dàin dei Colli Ferrosi diventa Re sotto la Montagna (Dàin II).
2942 Bilbo torna nella Contea con l’Anello. Sauron si reca di nascosto a Mordor.
2944 Bard ricostruisce la Valle e diventa Re. Gollum lascia le Montagne in cerca del «ladro» dell’Anello.
2948 Nascita di Théoden figlio di Thengel, Re di Rohan.
2949 Gandalf e Balin vanno a trovare Bilbo nella Contea.
2950 Nasce Finduilas, figlia di Adrahil principe di Dol Amroth.
2951 Sauron dichiara apertamente il proprio ritorno e raduna a Mordor le proprie forze. Incomincia a ricostruire Barad-dûr. Gollum si dirige verso Mordor. Sauron manda tre Nazgûl a rioccupare Dol Guldur. Elrond rivela a «Estel» il suo vero nome e la sua progenitura, e gli affida i frantumi di Narsil. Arwen, appena tornata da Lórien, incontra Aragorn nei boschi di Imladris. Aragorn parte per le Terre Selvagge.
2953 Ultima seduta del Bianco Consiglio. Si discute la questione degli Anelli. Saruman finge di avere scoperto che l’Unico Anello, sceso lungo il corso dell’Anduin, è scomparso nel Mare. Saruman si ritira a Isengard e ne fa la sua fortezza. Nutrendo per Gandalf gelosia e paura, gli mette delle spie alle calcagna e si accorge del suo interesse per la Contea. Allora invia degli agenti a Brea e nel Decumano Sud.
2954 Il Monte Fato avvampa nuovamente. Gli ultimi abitanti dell’Ithilien fuggono oltre l’Anduin.
2956 Aragorn incontra Gandalf e nasce così la loro amicizia.
2957-80 Aragorn intraprende i suoi lunghi viaggi e il suo peregrinare. Si fa chiamare Thorongil, e serve sia Thengel di Rohan ché Ecthelion II di Gondor.
2968 Nascita di Frodo.
2976 Denethor sposa Finduilas di Dol Amroth.
2977 Balin figlio di Bard diventa Re della Valle.
2978 Nascita di Boromir figlio di Denethor II.
2980 Aragorn ritorna a Lórien dove incontra per la seconda volta Arwen Undómiel. Aragorn le dona l’anello di Barahir ed essi si giurano eterna fedeltà sulla collina di Cerin Amroth. Verso quest’epoca Gollum raggiunge i confini di Mordor e conosce Shelob. Théoden diventa Re del Mark.
2983 Nascita di Faramir figlio di Denethor. Nascita di Samvise.
2984 Morte di Ecthelion II. Denethor II diventa Sovrintendente di Gondor.
2988 Finduilas muore ancor giovane.
2989 Balin lascia Erebor e si reca a Moria.
2991 Éomer, figlio di Éomund, nasce a Rohan.
2994 Balin muore e la colonia dei Nani viene distrutta.
2995 Nascita di Éowyn, sorella di Éomer.
3000 L’ombra di Mordor si estende. Saruman osa adoperare il palantir di Orthanc, ma viene irretito da Sauron che possiede la Pietra d’Ithil. Egli tradisce definitivamente il Consiglio. Le sue spie riferiscono ç—he la Contea è rigorosamente custodita dai Raminghi.
3001 Festa d’addio di Bilbo. Gandalf sospetta che il suo Anello sia l’Unico Anello. Nella Contea la vigilanza viene raddoppiata. Gandalf cerca notizie di Gollum e chiede l’aiuto di Aragorn.
3002 Bilbo, ospite di Elrond, si stabilisce a Gran Burrone.
3004 Gandalf si reca da Frodo nella Contea, e ripete le sue visite saltuarie durante i quattro anni successivi.
3007 Brand, figlio di Bain, diventa Re della Valle. Morte di Gilraen.
3008 In autunno, ultima visita di Gandalf a Frodo.
3009 Gandalf e Aragorn, in cerca di Gollum, per tutti gli otto anni successivi ispezionano le valli dell’Anduin, il Bosco Atro e le Terre Selvagge sino ai confini con Mordor. A un certo punto, durante questi anni, Gollum si era spinto sino a Mordor ed era stato catturato da Sauron. Elrond manda a chiamare Arwen, che ritorna a Imladris; le Montagne e tutte le regioni orientali sono diventate pericolose.
3017 Gollum viene liberato dal potere di Mordor. Trovato da Aragorn nelle Paludi Morte, viene condotto da Thranduil nel Bosco Atro. Gandalf si reca a Minas Tirith e legge la pergamena d’Isildur.
12 Gandalf raggiunge Hobbiville.
20 Sauron attacca Osgiliath. Più o meno alla medesima epoca Thranduil viene assalito, e Gollum fugge.
4 Boromir parte da Minas Tirith.
10 Gandalf imprigionato a Orthanc.
Persa ogni traccia di Gollum. Si pensa che, inseguito ad un tempo dagli Elfi e dai servitori di Sauron, si sia rifugiato a Moria; ma, una volta scoperta la via che conduceva al Cancello Occidentale, non sarebbe riuscito ” venirne fuori.
18 Gandalf fugge da Orthanc di prima mattina. I Cavalieri Neri attraversano i Guadi dell’Isen.
19 Gandalf giunge a Edoras in veste di mendicante, e non gli è permesso entrare.
20 Gandalf riesce ad entrare a Edoras. Théoden gli ordina di andarsene: «Prendi un cavallo qualsiasi, ma non voglio vederti qui domani sera!».
21 Gandalf incontra Ombromanto, ma il cavallo non vuole essere avvicinato. Egli insegue Ombromanto per ore attraverso i campi.
22 I Cavalieri Neri giungono di sera a Sarnoguado, e allontanano i Raminghi di guardia. Gandalf raggiunge Ombromanto.
23 Quattro Cavalieri entrano nella Contea prima dell’alba. Gli altri inseguono i Raminghi verso est, quindi tornano a sorvegliare il Verdecammino. Un Cavaliere Nero giunge sul calare della notte a Hobbiville. Frodo lascia Casa Baggins. Gandalf parte da Rohan dopo aver domato Ombromanto.
24 Gandalf attraversa l’Isen.
26 La Vecchia Foresta. Frodo incontra Bombadil.
27 Gandalf traversa l’Inondagrigio. Seconda notte con Bombadil.
28 Gli Hobbit vengono catturati dagli Spettri dei Tumuli. Gandalf arriva a Sarnoguado.
29 Frodo giunge a Brea. Gandalf va a trovare il Gaffiere.
30 Nelle prime ore del mattino, incursioni a Crifosso e nella locanda di Brea. Frodo lascia Brea. Gandalf giunge a Crifosso e arriva a Brea di sera.
1 Gandalf parte da Brea.
3 Viene assalito di notte a Colle Vento.
6 L’accampamento ai piedi di Colle Vento viene attaccato durante la notte. Frodo è ferito.
9 Glorfindel lascia Gran Burrone.
11 Caccia i Cavalieri dal Ponte sul Mithelthel.
13 Frodo traversa il Ponte.
18 Glorfindel incontra Frodo al crepuscolo. Gandalf arriva a Gran Burrone.
20 Fuga attraverso il Guado del Bruinen.
24 Frodo guarisce. Boromir arriva di sera a Gran Burrone.
25 Consiglio di Elrond. Dicembre 25 La Compagnia dell’Anello lascia Gran Burrone al crepuscolo.
8 La Compagnia arriva nell’Agrifogliere.
11-12 Neve sul Caradhras.
13 Di prima mattina, assalto dei lupi. La Compagnia raggiunge il Cancello Occidentale di Moria sul calar della notte. Gollum incomincia a seguire il Portatore dell’Anello.
14 Notte nella Sala Ventuno.
15 Il Ponte di Khazad-dûm e la caduta di Gandalf. La Compagnia raggiunge il Nimrodel a notte inoltrata.
17 La Compagnia arriva di sera a Caras Galadhon.
23 Gandalf insegue il Balrog sino al picco di Zirak-zigil.
25 Egli fa precipitare il Balrog negli abissi, e muore. Il suo corpo giace sul picco.
14 Lo Specchio di Galadriel. Gandalf riprende vita ma giace in uno stato semicosciente.
16 Addio a Lórien. Gollum osserva la partenza da un nascondiglio sulla sponda occidentale del fiume.
17 Gwaihir porta Gandalf a Lórien.
23 Le barche vengono assalite nottetempo a Sarn Gebir.
25 La Compagnia passa gli Argonath e si accampa a Parth Galen. Prima Battaglia dei Guadi dell’Isen; morte di Théodred figlio di Théoden.
26 La Compagnia si scioglie. Morte di Boromir; il suo corno è udito a Minas Tirith. Meriadoc e Peregrino catturati. Frodo e Samvise s’inoltrano nell’Emyn Muil orientale. Aragorn parte all’inseguimento degli Orchi. Éomer apprende della discesa della banda di Orchi dall’Emyn Muil.
27 Aragorn raggiunge all’alba le rupi occidentali. Éomer, disobbedendo agli ordini di Théoden, parte verso mezzanotte dall’Estfalda per cacciare gli Orchi.
28 Éomer raggiunge gli Orchi ai margini della Foresta di Fangorn.
29 Meriadoc e Peregrino riescono a fuggire, e incontrano Barbalbero. I Rohirrim attaccano gli Orchi all’alba e li annientano. Frodo scende dall’Emyn Muil e incontra Gollum. Faramir vede la barca funebre recante il corpo di Boromir.
30 Entaconsulta. Éomer, rientrando a Edoras, incontra Aragorn.
1 All’alba Frodo incomincia ad avventurarsi nelle Paludi Morte. Continua l’Entaconsulta. Aragorn incontra Gandalf il Bianco; partono insieme per Edoras. Faramir lascia Minas Tirith per compiere una missione nell’Ithilien.
2 Frodo termina la traversata delle Paludi. Gandalf giunge a Edoras e guarisce Théoden. I Rohirrim cavalcano a ovest per assalire Saruman. Seconda Battaglia dei Guadi dell’Isen. Erkenbrand viene sconfitto. L’Entaconsulta ha termine nel pomeriggio: gli Ent marciano verso Isengard, giungendovi di notte.
3 Théoden si ritira nel Fosso di Helm. Inizia la Battaglia del Trombatorrione. Gli Ent completano la distruzione di Isengard.
4 Théoden e Gandalf partono dal Fosso di Helm diretti a Isengard. Frodo raggiunge i tumuli ai margini della Desolazione del Morannon.
5 Théoden giunge a Isengard a mezzogiorno. Discussione con Saruman a Orthanc. Un Nazgûl alato sorvola l’accampamento di Dol Baran. Gandalf parte con Peregrino alla volta di Minas Tirith. Frodo evita di essere veduto dal Morannon e parte al crepuscolo.
6 Aragorn raggiunto dai Dùnedain di prima mattina. Théoden lascia il Trombatorrione e si dirige verso Clivovalle. Aragorn parte dopo di lui.
7 Frodo condotto da Faramir a Henneth Annûn. Aragorn giunge a Dunclivo sul calare della notte.
8 Aragorn si avvia all’alba verso i «Sentieri dei Morti»; giunge a mezzanotte a Erech. Frodo lascia Henneth Annûn.
9 Gandalf giunge a Minas Tirith. Faramir parte da Henneth Annûn. Aragorn lascia Erech e giunge a Calembel. Frodo raggiunge al crepuscolo la Via di Morgul. Théoden giunge a Dunclivo. L’oscurità si estende oltre i confini di Mordor.
10 Il Giorno Senza Alba. L’adunata di Rohan: i Rohirrim partono da Dunclivo. Faramir viene salvato da Gandalf innanzi al cancello della Città. Aragorn attraversa il Ringló. Un esercito del Morannon s’impadronisce di Cair Andros e invade l’Anórien. Frodo passa il Crocevia e vede partire l’esercito di Morgul.
11 Gollum va da Shelob, ma vedendo Frodo addormentato sta per pentirsi. Denethor invia Faramir a Osgiliath. Aragorn raggiunge Linhir e s’inoltra nel Lebennin. La parte orientale di Rohan è invasa da nord. Primo assalto a Lórien.
12 Gollum conduce Frodo nella tana di Shelob. Faramir retrocede sino alle Fortezze della Strada Maestra. Théoden si accampa sotto il Min-Rimmon. Aragorn respinge il nemico verso Pelargir. Gli Ent sconfiggono gli invasori di Rohan.
13 Frodo catturato dagli Orchi di Cirith Ungol. Invasione del Pelennor. Faramir rimane ferito. Aragorn raggiunge Pelargir e cattura la flotta. Théoden è nella Foresta Druadana.
14 Samvise trova Frodo nella Torre. Assedio di Minas Tirith. I Rohirrim, condotti dagli Uomini Selvaggi, raggiungono il Bosco Grigio.
15 Nelle prime ore del mattino il Re degli Stregoni spezza i cancelli della Città. Denethor si costruisce un rogo e muore fra le fiamme. All’alba si odono i corni dei Rohirrim insieme con il canto del gallo. Battaglia del Pelennor. Morte di Théoden. Aragorn spiega il vessillo di Arwen. Frodo e Samvise fuggono, e incominciano il loro viaggio a nord, lungo il Morgai. Battaglia fra gli alberi nel Bosco Atro; Thranduil respinge le schiere di Dol Guldur. Secondo assalto a Lórien.
16 Discussione fra i capitani. Frodo dall’alto del Morgai guarda il Monte Fato.
17 Battaglia della Valle. Re Brand e Re Dàin Piediferro soccombono. Molti Nani e Uomini si rifugiano a Erebor e vengono assediati. Shagrat porta il manto, la cotta di maglia e la spada di Frodo a Barad-dûr.
18 L’Esercito dell’Ovest parte da Minas Tirith. Frodo giunge in vista di Isenmouthe; viene raggiunto dagli Orchi sulla via da Durthang all’Udûn.
19 L’Esercito arriva alla Valle di Morgul. Frodo e Samvise fuggono, e incominciano la loro lunga marcia lungo la strada di Barad-dûr.
22 Il terribile tramonto. Frodo e Samvise lasciano la strada per dirigersi a est verso il Monte Fato. Terzo assalto a Lórien.
23 L’Esercito lascia l’Ithilien. Aragorn congeda i timorosi. Frodo e Samvise abbandonano armi e altri oggetti.
24 Frodo e Samvise intraprendono l’ultima tappa del viaggio sino ai piedi del Monte Fato. L’Esercito si accampa nella Desolazione del Morannon.
25 L’Esercito è circondato sui Colli di Scorie. Frodo e Samvise raggiungono il Sammath Naur. Gollum afferra l’Anello e cade nella Voragine del Fato. Crollo di Barad-dûr e morte di Sauron.
Dopo il crollo della Torre Oscura e la morte di Sauron, l’Ombra scomparve dai cuori di tutti i nemici di Sauron, ma la disperazione e il terrore invasero l’animo dei suoi servitori e alleati. Per tre volte Dol Guldur aveva assalito Lórien, ma, oltre al coraggio degli Elfi, che dimoravano in quella terra, il potere latente a Lórien era troppo grande per poter essere sconfitto da altri che da Sauron in persona. E benché i meravigliosi boschi avessero subìto dei danni ai confini, gli assalti furono respinti; quando l’Ombra passò, Celeborn condusse l’esercito di Lórien con molte barche al di là dell’Anduin. Essi s’impadronirono di Dol Guldur, e Galadriel ne distrusse le mura e ne vuotò i pozzi; la foresta venne ripulita di ogni lordura, e purificata. Anche nel Nord vi erano state lotte e danni. Il reame di Thranduil era stato invaso, e dopo una lunga battaglia fra gli alberi e grandi incendi Thranduil era finalmente uscito vittorioso. Il giorno del Capodanno Elfico, Celeborn e Thranduil s’incontrarono in mezzo alla foresta, e mutarono il nome di Bosco Atro in Eryn Lasgalen, il Bosco di Foglieverdi. Thranduil estese il suo regno a tutte le regioni settentrionali, sino alle montagne che si ergono nella foresta; Celeborn prese la parte meridionale del bosco, a sud degli Stretti, e lo chiamò Lórien orientale; tutta là vasta foresta nel mezzo venne donata ai Beorniani e agli Uomini dei Boschi. Ma dopo che Galadriel se ne fu andata, Celeborn si stancò del suo regno, e si recò a Imladris a dimorare con i figli di Elrond. Nella Foresta Verde gli Elfi Silvani vissero indisturbati, ma a Lórien ormai rimasero ben pochi degli antichi abitanti, e a Caras Galadhon non vi furono più canti né luci.
Mentre il grosso degli eserciti di Sauron assediava Minas Tirith, una schiera di alleati dell’Oscuro Signore, che da tempo minacciava le frontiere di Re Brand, traversò il Fiume Carnen, e Brand fu respinto fino alla Valle. Egli ricevette allora l’aiuto dei Nani di Erebor, e ai piedi della Montagna ebbe luogo una grande battaglia. Dura ben tre giorni, ma alla fine sia Re Brand che Re Dàin Piedi ferro furono uccisi, e gli Esterling riportarono la vittoria. Ma non riuscirono a impadronirsi del Cancello, e numerosi Nani e Uomini si rifugiarono a Erebor, rimanendovi assediati. Quando arrivò la notizia delle grandi vittorie nel Sud, l’esercito settentrionale di Sauron rimase sconvolto e gli assediati ne approfittarono per farsi avanti e metterli in rotta, facendo fuggire lontano, a est, tutti i superstiti, che non turbarono mai più la Valle. Allora Bard II, figlio di Brand, divenne Re nella Valle, e Thorin III Elminpietra, figlio di Dàin, fu Re sotto la Montagna. Essi inviarono i loro ambasciatori all’incoronazione di Re Elessar, e i loro reami rimasero poi per sempre, finché durarono, amici di Gondor, vivendo sotto la corona e la protezione del Re dell’Ovest.
27: Bard II e Thorin III Elminpietra cacciano il nemico dalla Valle.
28: Celeborn traversa l’Anduin; incomincia la distruzione di Dol Guldur.
6: Incontro di Celeborn e Thranduil.
8: Grandi onori ai Portatori dell’Anello sul Campo di Cormallen.
1: Incoronazione di Re Elessar; Elrond e Arwen partono da Gran Burrone.
8: Éomer ed Éowyn partono per Rohan insieme con i agli di Elrond.
20: Arrivo a Lórien di Elrond e Arwen.
27: La scorta di Arwen lascia Lórien.
14: I figli di Elrond incontrano la scorta e portano Arwen a Edoras.
16: Partono per Gondor.
25: Re Elessar trova l’Alberello Bianco.
Primo Lithe: Arwen giunge a Minas Tirith.
Giorno di Mezza Estate: Nozze di Elessar e Arwen.
18: Éomer torna a Minas Tirith.
19: La scorta funebre di Re Théoden si mette in marcia.
7: La scorta giunge a Edoras.
10: Funerali di Re Théoden.
14: Gli ospiti lasciano Edoras.
18: Giungono al Fosso di Helm.
22: Arrivo a Isengard; al tramonto si separano dal Re dell’Ovest.
28: Raggiungono Saruman e questi si dirige verso la Contea.
6: Accampamento in vista delle Montagne di Moria.
13: Celeborn e Galadriel partono, gli altri si recano a Gran Burrone.
21: Arrivo a Gran Burrone.
22: Centoventinovesimo compleanno di Bilbo. Saruman arriva nella Contea.
5: Gandalf e gli Hobbit lasciano Gran Burrone.
6: Traversano il Guado del Bruinen; Frodo soffre nuovamente a causa della ferita.
28: Raggiungono Brea sul calar della notte.
30: Partenza da Brea. I «Viaggiatori» raggiungono il Brandivino al crepuscolo.
1: Vengono arrestati a Chianarana.
2: Arrivano a Lungacque e sollevano il popolo della Contea.
3: Battaglia di Lungacque e morte di Saruman. Fine della Guerra dell’Anello.
13 marzo: Frodo si sente male (giorno anniversario della ferita velenosa di Shelob).
6 aprile: Il mallorn fiorisce nel Prato della Festa.
1 maggio: Samvise sposa Rosie Cotton. Giorno di Mezza Estate: Frodo si dimette dall’incarico di Sindaco e Will Piedebianco riprende il suo posto.
22 settembre: Centotrentesimo compleanno di Bilbo.
6 ottobre: Frodo è di nuovo malato.
13: Frodo è di nuovo malato.
25: Nascita di Elanor la Bella[36], figlia di Samvise. Secondo il calendario di Gondor, la Quarta Era incomincia con questa data.
21: Frodo e Samvise partono da Hobbiville.
22: Incontrano l’Ultima Cavalcata dei Custodi degli Anelli a Terminalbosco.
29: Raggiungono i Rifugi Oscuri. Frodo e Bilbo salpano insieme con i Tre Custodi. Fine della Terza Era.
6: Samvise torna a Casa Baggins.
C.C. 1422 All’inizio di questo anno incomincia, secondo il Calendario della Contea, la Quarta Era; ma la numerazione degli anni non ricominciò da capo, bensì continuò regolarmente.
1427 Will Piedebianco si dimette. Samvise viene eletto Sindaco della Contea. Peregrino Tuc sposa Diamante di Lungo Squarcio. Re Elessar pubblica un editto che proibisce agli Uomini di entrare nella Contea, e ne fa un Paese Libero sotto la protezione dello Scettro del Nord.
1430 Nascita di Faramir, figlio di Peregrino.
1431 Nascita di Cioccadoro, figlia di Samvise.
1432 Meriadoc, chiamato il Magnifico, diventa Signore della Terra di Buck. Re Éomer del Mark e Dama Éowyn dell’Ithilien gli inviano splendidi doni.
1434 Peregrino diventa Conte, e da quel momento è chiamato «il Tuc». Re Elessar nomina il Conte, il Signore di Buck e il Sindaco Consiglieri del Regno del Nord. Mastro Samvise viene eletto Sindaco per la seconda volta.
1436 Re Elessar si reca al Nord, e dimora per qualche tempo lungo il Lago Evendim. Va anche al Ponte sul Brandivino, ove saluta i suoi amici. Dà a Mastro Samvise la Stella dei Dùnedain, ed Elanor diventa damigella d’onore della Regina Arwen.
1441 Mastro Samvise eletto Sindaco per la terza volta.
1442 Mastro Samvise, sua moglie ed Elanor si recano a Gondor, ove si trattengono per un anno. Mastro Tolman Cotton lo sostituisce nel suo incarico di Sindaco.
1448 Mastro Samvise eletto Sindaco per la quarta volta.
1451 Elanor la Bella sposa Fastred di Verdolmo sui Luoghi Lontani.
1452 I Confini Occidentali, dai Luoghi Lontani sino ai Colli Torrioni (Emyn Beraid) vengono donati dal Re alla Contea. Molti Hobbit vi si trasferiscono.
1454 Nasce Elfstan il Paloide, figlio di Fastred e di Elanor.
1455 Mastro Samvise è Sindaco per la quinta volta. Per sua richiesta, il Conte nomina Fastred Custode dei Confini Occidentali. Fastred ed Elanor si stabiliscono a Sottotorri sui Colli Torrioni ove dimoreranno per molte generazioni i loro discendenti, i Paloidi delle Torri.
1463 Faramir Tuc sposa Cioccadoro, figlia di Samvise.
1469 Mastro Samvise diventa Sindaco per la settima e ultima volta, poiché nel 1476, alla fine del suo incarico, ha novantasei anni.
1482 Morte di Madama Rosie, moglie di Mastro Samvise, il giorno di Mezza Estate. Il 22 settembre Mastro Samvise parte da Casa Baggins e si reca ai Colli Torrioni. Là vede per l’ultima volta Elanor, alla quale consegna il Libro Rosso, custodito poi per sempre dai Paloidi. E di generazione in generazione si è tramandata la credenza che Samvise, partito dalle Torri, si sia recato ai Rifugi Oscuri e abbia attraversato il Mare, ultimo dei Portatori dell’Anello.
1484 In primavera giunse nella Terra di Buck un messaggio da Rohan: Re Éomer desiderava vedere Messere Holdwine per l’ultima volta. Meriadoc era già anziano (102 anni) ma ancora sano e vigoroso. Si consultò con il suo amico il Conte, e poco dopo ambedue affidarono beni e incarichi ai figli e passarono Sarnoguado. Non furono mai più visti nella Contea. Si seppe poi che Messere Meriadoc si era recato a Edoras per trascorrere qualche tempo con Re Éomer prima che morisse in autunno. Poi Meriadoc e il Conte Peregrino andarono a Gondor, ove dimorarono durante gli ultimi brevi anni di vita che rimanevano loro; quando morirono, furono composti a Rath Dinen insieme con i grandi di Gondor.
1541 Il primo di marzo avvenne la morte di Re Elessar. Dicono che i letti di Meriadoc e Peregrino fossero stati posti accanto a quello del grande Re. Allora Legolas costruì nell’Ithilien una barca grigia, discese il corso dell’Anduin e traversò il Mare; con lui pare vi fosse Gimli il Nano. Quando quella barca si allontanò, finì di esistere la Compagnia dell’Anello nella Terra di Mezzo.
I nomi elencati nei seguenti alberi genealogici sono soltanto alcuni dei tanti. I personaggi elencati furono, per la maggior parte, ospiti alla Festa d’Addio di Bilbo, O diretti antenati di questi. GE ospiti della festa sono sottolineati. E indicato anche qualche nome di persone che hanno a che fare con gli eventi narrati. Si forniscono inoltre informazioni genealogiche relative a Samvise, capostipite della famiglia dei Giardinieri, divenuta più tardi rinomata e influente.
I numeri posti dopo i nomi sono date di nascita (e di morte, quando queste sono ricordate). Le date sono sempre riferite al Calendario della Contea, calcolato a partire dal giorno in cui i fratelli Marcho e Blanco attraversarono il Brandivino, nell’Anno 1 della Contea (1601 della Terza Era).
Gorhendad Vecchiobecco delle Paludi nel 740 c. inizia la costruzione di Villa Brandy e cambia il nome della famiglia in Brandibuck.
(quest'albero genealogico mostra anche l'origine delle famiglia dei giardinieri del Colle e dei Belpiccolo delle Torri)
Essi si stabilirono nelle Paludi Occidentali, territorio annesso recentemente alla Contea (per concessione di Re Elessar), esteso dai Luoghi Lontani ai Colli Torrioni. Essi diedero origine ai Belpiccolo delle Torri, Guardiani dei Confini Occidentali, che creditarono il Libro Rosso, facendone parecchie copie con varie note e successive aggiunte.
Lithe = Giorno di Mezzo Anno o di Mezza Estate (superlithe)
Ogni anno cominciava col primo giorno della settimana, sabato, e finiva con l’ultimo giorno della settimana, venerdì. Il Giorno di Mezzo Anno (detto anche Giorno di Mezza Estate), e, negli anni bisestili, il Superlithe, faceva parte a sé, e non prendeva nome da nessuno dei giorni della settimana. Il Lithe precedente il Giorno di Mezzo Anno era chiamato Primo Lithe, quello successivo al Giorno di Mezzo Anno era detto Seconde Lithe. Il giorno con cui finiva l’anno era detto Primo Capodanno (C.A.) quello con cui cominciava, Secondo Capodanno. Il Superlithe era un importante giorno festivo, ma non cadde mai negli anni che hanno attinenza con la storia dell’Anello. Cadde invece nel 1420, l’anno del famoso raccolto e della incantevole estate, e pare che i festeggiamenti di quell’anno, senza precedenti a memoria d’Hobbit, superassero ogni termine di confronto.
Il Calendario della Contea differiva dal nostro in molti punti. L’anno indubbiamente aveva la medesima lunghezza[37]: ora quei tempi sembrano assai lontani quando sono calcolati in anni e vite d’uomo, ma alla memoria del Mondo essi non sembrano molto remoti. Gli Hobbit riferiscono che quando erano ancora un popolo errante non possedevano «settimane», e, pur avendo dei «mesi» regolati più o meno dal ciclo della Luna, erano assai vaghi e imprecisi nell’annotare date e nel fare calcoli. Quando incominciarono a stabilirsi nei territori occidentali dell’Eriador, adottarono il metodo del Re dei Dùnedain, che originariamente derivava dagli Eldar; ma gli Hobbit della Contea vi introdussero parecchie piccole modifiche. Questo calendario, chiamato Calendario della Contea, venne poi adottato anche a Brea, fatta però eccezione per l’abitudine della Contea di considerare come Anno 1 l’anno della prima colonizzazione di Marcho e Blanco.
È sovente difficile reperire, in antiche storie e tradizioni, informazioni precise a proposito di cose di uso comune ritenute ovvie dalla gente di quel tempo (come i nomi delle lettere o dei giorni della settimana, o i nomi e le lunghezze dei mesi). Ma a causa del loro diffuso interesse per le genealogie e gli studi di storia antica compiuti dai più eruditi dopo la Guerra dell’Anello, gli Hobbit della Contea sembrano essersi occupati molto delle date; hanno infatti persino redatto complesse tavole che mostrano le relazioni fra il loro sistema di cronologia e quelli degli altri popoli. Io non sono un esperto in materia, ed è possibile che abbia commesso molti errori; ma comunque la cronologia degli anni cruciali C.C. 1418-1419 è riportata con tale precisione nel Libro Rosso che non vi possono essere dubbi circa l’ordine dei giorni e dei mesi in quel periodo.
Appare chiaro che gli Eldar della Terra di Mezzo, che disponevano, come notò Samvise, di una durata di vita assai più lunga, prendevano in considerazione esclusivamente lunghi periodi; in Quenya, la parola yén, che viene sovente tradotta con «anno», equivale in realtà a 144 dei nostri anni. Gli Eldar preferivano, per lo più, i calcoli compiuti con un sistema dodecimale. Essi chiamavano ré il giorno solare, calcolato da tramonto a tramonto. Lo yén conteneva 52.596 giorni. A fini rituali piuttosto che pratici gli Eldar avevano una settimana o enquië di sei giorni; e lo yén conteneva 8.766 enquier calcolati in modo continuo per tutto il periodo.
Nella Terra di Mezzo gli Eldar osservavano anche un breve periodo o anno solare chiamato coranar, «circuito del sole», se considerato più o meno astronomicamente, ma per lo più chiamato loa, «crescita» (soprattutto nei territori di nord-ovest) considerando cioè innanzi tutto i mutamenti stagionali della vegetazione, com’era abituale per gli Elfi. Il loa era suddiviso in periodi che potevano rappresentare sia lunghi mesi sia corte stagioni. Questi indubbiamente variavano a seconda delle regioni; ma gli Hobbit forniscono informazioni esclusivamente riguardo al Calendario di Imladris. In questo calendario vi erano sei «stagioni», i cui nomi in Quenya erano tuilë, lairë, yàvië, quellë, brivë, coirë, traducibili con «primavera, estate, autunno, languore, inverno, stimolo». I nomi Sindarin erano ethuil, laer, lavas, firith, rhiw, echuir. «Languore» veniva anche chiamato lasse-lanta, «caduta delle foglie» e in Sindarin narbeleth, «sole calante».
Lairë e brivë avevano ciascuno 72 giorni, e tutti gli altri 54. Il loa incominciava con yestarë, il giorno precedente a tuilë, e finiva con mettarë, il giorno successivo a coirë. Fra yàvië e quellë erano inseriti tre enderi o «giorni intermedi». Tutto ciò dava origine ad un anno di 365 giorni, che veniva allungato ogni dodici anni raddoppiando gli enderi (aggiungendo cioè tre giorni).
Come risolvessero eventuali imprecisioni, non sappiamo. Se l’anno allora era come adesso, lo yén sarebbe risultato troppo lungo, e di più che di un giorno. Che esistesse una inesattezza lo si apprende dai Calendari del Libro Rosso, che contengono una nota secondo la quale, a Gran Burrone, ogni tre anni, l’ultimo yén veniva accorciato di tre giorni, e cioè si ometteva in quell’anno di raddoppiare i tre enderi; «ma ciò non si è verificato ai nostri tempi». Non vi è alcuna indicazione circa i rimedi proposti per ulteriori inesattezze.
I Numenoreani trasformarono questo sistema. Essi divisero il loa in periodi più brevi e più regolari, e incominciarono l’anno a metà inverno, come era la consuetudine degli Uomini del Nordovest dai quali avevano avuto origine nella Prima Era. In seguito adottarono una settimana di 7 giorni, e calcolarono il giorno da alba ad alba (intendendo per alba il sorgere del sole dal mare ad oriente).
Il sistema numenoreano in uso a Nùmenor, Arnor e Gondor, sino all’ultimo re, veniva chiamato Computo del Re. L’anno normale comprendeva 365 giorni. Era diviso in dodici astar o mesi, di cui dieci avevano 30 giorni, e due 31. Gli astar lunghi erano quelli prima e dopo il Giorno di Mezzo Anno, approssimativamente i nostri giugno e luglio. Il primo giorno dell’anno era chiamato yestarë, il giorno di mezzo (183”) loëndë e l’ultimo mettarë; questi tre giorni non appartenevano ad alcun mese. Ogni quattro anni, ad eccezione dell’ultimo secolo (baranyë), due enderi o «giorni intermedi» venivano sostituiti ai loëndë.
A Nùmenor i calcoli incominciavano con il primo anno della Seconda Era. Il disavanzo causato dal dedurre un giorno dell’ultimo anno di un secolo veniva equilibrato soltanto nell’ultimo anno di un millennio, creando un disavanzo millennale di 4 ore, 46 minuti, 1000, 2000, 3000 della Seconda Era. Dopo la caduta di Nùmenor, nel 3319 S.E., il sistema fu mantenuto dagli esuli, ma venne notevolmente trasformato all’inizio della Terza Era con una nuova numerazione: invece di 3 T.E. (3444 S.E.) si introdusse un altro anno corto di soli 365 giorni, creando un disavanzo di 5 ore, 48 minuti, 46 secondi. Le addizioni millennali furono effettuate con 441 anni di ritardo: 1000 T.E. (4441 S.E.) e 2000 T.E. (5441 S.E.). Per ridurre gli errori determinati da questi mutamenti e l’accumulazione dei disavanzi millennali, il Sovrintendente Mardil pubblicò un calendario corretto destinato a entrare in vigore nel 2060 T.E., dopo una speciale aggiunta di 2 giorni al 2059 (5500 S.E.), raggiungendo così 5 millenni e mezzo dall’inizio del sistema numenoreano. Rimanevano tuttavia 8 ore di disavanzo. Hador aggiunse 1 giorno al 2360, benché il disavanzo non fosse ancora di tale entità. In seguito non furono operati altri cambiamenti. (Nel 3000 T.E. questi fatti vennero trascurati a causa della minaccia di guerra imminente). Alla fine della Terza Era, dopo altri 660 anni, il disavanzo non ammontava ancora a un giorno.
Il Calendario Corretto introdotto da Mardil fu chiamato Computo del Sovrintendente, e venne in seguito adottato da quasi tutti coloro che adoperavano il linguaggio Ovestron, all’infuori degli Hobbit. I mesi erano tutti di 30 giorni, e vennero introdotti due giorni che non appartenevano ad alcun mese: uno fra il terzo ed il quarto mese (marzo, aprile), e uno fra il nono e il decimo (settembre, ottobre). Questi cinque giorni indipendenti, yestarë, tuilérë, loëndë, yàviérë, mettarë, erano giorni festivi.
Gli Hobbit erano tradizionalisti, e continuarono ad adoperare una forma del Computo del Re adattato alle loro usanze particolari. I mesi erano tutti uguali, e di 30 giorni; ma essi avevano tre Giorni Estivi, chiamati nella Contea i Lithe o Giorni Lithe, fra giugno e luglio. L’ultimo giorno dell’anno e il primo dell’anno seguente erano chiamati Capodanno. I giorni di Capodanno e di Lithe non venivano computati nei mesi; quindi, il primo gennaio era il secondo e non il primo giorno dell’anno. Ogni tre anni, salvo l’ultimo anno del secolo[38], vi erano quattro giorni Lithe. I Lithe e i Capodanno erano le principali festività. Il giorno Lithe aggiunto occasionalmente dopo il Giorno di Mezzo Anno, e il 184” giorno aggiunto negli anni bisestili venivano chiamati Superlithe, ed erano giorni di grandi festeggiamenti. Il periodo del Capodanno durava in tutto sei giorni, includendo gli ultimi tre e i primi tre di ogni anno.
La gente della Contea introdusse qualche modifica al sistema (adottata in seguito anche a Brea), chiamata Riforma della Contea. Essi trovavano che lo spostamento dei giorni della settimana, i quali cambiavano di anno in anno a seconda delle date, creava disordini e inconvenienti; all’epoca di Isengrim II stabilirono quindi che il giorno in soprannumero, il quale alterava la successione, non avrebbe più fatto parte della settimana. Fu così che il Giorno di Mezzo Anno o di Mezza Estate (e il Superlithe) venne escluso dal computo delle settimane e non ricevette più alcun nome specifico. In conseguenza di questa riforma l’anno incominciò sempre con il Primo Giorno della settimana, e finì sempre con l’Ultimo Giorno; e alla data di un certo anno corrispondeva invariabilmente, in qualsiasi altro anno, il medesimo giorno della settimana, tanto che la gente della Contea non si preoccupò nemmeno più di indicare il nome del giorno nelle lettere e nei diari[39]. Finché rimanevano a casa propria ciò era indubbiamente comodo, ma non lo era più appena si allontanavano dalla Contea o da Brea.
Nelle mie note e nella narrazione ho adoperato i nomi moderni sia dei giorni che dei mesi, benché naturalmente né gli Eldar né i Dùnedain né gli Hobbit li utilizzassero. Mi è parso indispensabile tradurre i nomi dall’Ovestron, per evitare confusioni, tanto più che le implicazioni stagionali dei nostri nomi sono più o meno simili a quelle della Contea. Sembra comunque che il Giorno di Mezzo Anno dovesse corrispondere quanto più possibile al solstizio d’estate. In tal caso le date della Contea erano in anticipo rispetto alle nostre di circa dieci giorni, e il nostro Capodanno corrisponderebbe all’incirca al loro 9 gennaio.
Nell’Ovestron i nomi Quenya dei mesi furono conservati, così come i nomi latini sono largamente adoperati nelle altre lingue. Essi erano: Narvinyë, Nénimë, Scilimë, Viressë, Lótessë, Nàrië, Cermië, Urimë, Yavannië, Narquelië, Hisimë, Ringarë. I nomi Sindarin, adoperati soltanto dai Dùnedain, erano: Narwain, Ninui, Gwaeron, Gwirith, Lothron, Nórui, Cerveth, Orui, Ivanneth, Narbeleth, Hithui, Girithron.
In questa nomenclatura gli Hobbit, sia della Contea che di Brea, non seguivano tuttavia le usanze dell’Ovestron e rimanevano invece fedeli ad antichi nomi locali, che avevano a quanto pare appreso in tempi remoti dagli Uomini delle valli dell’Anduin; in ogni caso, si potevano trovare nomi assai simili nella Valle e a Rohan. Il significato di quei nomi, creati dagli Uomini, era stato ormai da lungo tempo dimenticato dagli Hobbit, anche se in passato essi lo avevano conosciuto; di conseguenza le forme erano state notevolmente alterate: -aio per esempio, che appare alla fine di alcuni nomi, è una deformazione di (lun)ario.
I nomi della Contea sono riportati nel Calendario. È da notarsi che Solfeggiante veniva solitamente pronunciato e anche a volte scritto Soleggiante; Trimoscato veniva spesso scritto Trimoxato (arcaicamente Trimokshat); e Taglieraio veniva pronunciato Talleraio o Tartagliaio. I nomi di Brea differivano da questi, ed erano: Fratellaio, Solleggiante, Canapaio, Cettinaio, Trimoscato, Lithe, I Giorni d’Estate, Canicolaio, Maritaio, Mietitore, Invername, Fioreggiante, Capodannata. Fratellaio, Cettinaio e Capodannata erano adoperati anche nel Decumano Est[40].
La settimana hobbit era di origine dùnadan, e i nomi erano traduzioni di quelli dei giorni dell’antico Regno del Nord, che a loro volta derivavano dagli Eldar. La settimana di sei giorni degli Eldar comprendeva giorni dedicati alle Stelle, alla Luna e al Sole, ai Due Alberi, ai Cieli, e ai Valar o Poteri, in quest’ordine; L’ultimo era il giorno principale della settimana. I nomi in Quenya erano Elenya, Anarya, Isilya, Aldùya, Menelya, Valanya (o Tàrion); i nomi in Sindarin erano: Orgilion, Oranor, Orithil, Orgaladhad, Orbelain (o Rodyn).
I Numenoreani conservarono i nomi e l’ordine, ma trasformarono il quarto giorno in Aldëa (Orgaladh), riferendosi esclusivamente all’Albero Bianco, di cui Nimloth, quello che cresceva nel Cortile del Re a Nùmenor, era considerato un discendente. Inoltre, poiché desideravano un settimo giorno ed erano grandi navigatori, inserirono un «Giorno del Mare», Eärenya (Oraearon), dopo il giorno dedicato al Cielo.
Gli Hobbit adottarono questa sistemazione, ma i significati dei nomi furono presto dimenticati, e le forme notevolmente abbreviate, soprattutto nel linguaggio di ogni giorno. La prima traduzione dei nomi numenoreani fu probabilmente redatta duemila anni o più prima della fine della Terza Era, quando la settimana dei Dùnedain (la prima usanza adottata da popoli stranieri) fu accolta dagli Uomini del Nord. Gli Hobbit, come per i nomi dei mesi, si attennero a queste traduzioni, benché altrove nell’area Ovestron venissero adoperati i nomi Quenya.
Nella Contea non furono conservati molti antichi documenti. Alla fine della Terza Era il più importante era indubbiamente il Gianopelle o Diario di Tucboro[41]. Le prime annotazioni dovevano risalire almeno a novecento anni prima della nascita di Frodo, e molte di esse sono citate negli annali e genealogie del Libro Rosso. I giorni della settimana vi appaiono in forme arcaiche, di cui le seguenti sono le più antiche: (1) Sterrendei, (2) Sunnendei, (3) Monendei, (4) Trewesdei, (5) Hevenesdei, (6) Meresdei, (7) Highdei. Nel linguaggio dell’epoca della Guerra dell’Anello erano diventati Sterday, Sunday, Monday, Trewsday, Hevensday (o Hensday), Mersday, Highday.
Ho tradotto anche questi nomi nella nostra lingua, incominciando naturalmente con domenica e lunedì, che appaiono con il medesimo nome nella settimana della Contea, e riportando poi gli altri in seguito. È da notarsi comunque che i significati connessi con questi nomi erano alquanto diversi nella Contea. L’ultimo giorno della settimana, venerdì (Highday), era il giorno principale; nel pomeriggio si faceva vacanza e la sera c’erano festeggiamenti. Il sabato corrispondeva quindi al nostro lunedì e il loro giovedì al nostro sabato[42].
Vale la pena menzionare qualche altro nome riguardante il tempo, anche se non adoperato in calcoli precisi. Le stagioni di solito venivano chiamate tuilë primavera, lairë estate, yàvië autunno (o messe), brivë inverno; ma esse non erano tuttavia definite con precisione, e quellë (o lasselanta) era il nome dato a volte alla fine dell’autunno e all’inizio dell’inverno.
Gli Eldar attribuivano un’importanza del tutto particolare al «vespro» (nelle regioni settentrionali) come ora dello sbiadire e dello sbocciare delle stelle. Avevano molti nomi per definirlo, e i più consueti erano tindómë e undómë, il primo riferito al crepuscolo prima dell’alba, il secondo a quello dopo il tramonto. Il nome Sindarin era uial, e più precisamente minuial e aduial. Nella Contea i termini corrispondenti erano morrowdim ed evendim. Cfr. Lago Evendim, traduzione di Nenuial.
Il Calendario e le date della Contea sono gli unici che presentino notevole importanza per la narrazione della Guerra dell’Anello. Giorni, mesi e date nel Libro Rosso sono tutti tradotti in termine della Contea, o altrimenti, se citati in originale, l’equivalente viene fornito in nota. Giorni e mesi, nel Signore degli Anelli, si riferiscono quindi al Calendario della Contea. Le uniche differenze fra questo e il nostro calendario nel periodo cruciale fra la fine del 3018 e l’inizio del 3019 (C.C. 1418-1419) che meritino di essere precisate sono le seguenti: l’ottobre del 1418 ha soltanto 30 giorni, il primo gennaio è il secondo giorno del 1419, e febbraio ha 30 giorni; quindi il 25 marzo, data della caduta di Barad-dûr, corrisponderebbe al nostro 27 marzo. La data comunque era 25 marzo sia nel Computo del Re che in quello del Sovrintendente.
Il Nuovo Computo iniziò con il Regno restaurato, 3019 T.E.; costituiva un ritorno al Computo del Re, adattato però al loa degli Eldar[43], incominciando cioè con il principio della primavera.
Nel Nuovo Computo l’anno cominciava il 25 marzo, in commemorazione della caduta di Sauron e delle gesta dei Portatori dell’Anello. I mesi conservavano gli antichi nomi, il primo essendo ora Viressë (aprile), ma cominciavano cinque giorni prima che in passato, e avevano tutti 30 giorni. Vi erano tre Enderi o Giorni Intermedi (il secondo dei quali chiamato Loëndë) fra Yavannië (settembre) e Narquelië (ottobre), che corrispondevano agli antichi 23, 24, 25 settembre. Ma in onore di Frodo il 30 Yavannië, che corrispondeva al 22 settembre, data del suo compleanno, fu proclamato giorno di festa; si risolse il problema degli anni bisestili raddoppiando questo giorno, chiamato Cormarë o Giorno dell’Anello.
La Quarta Era incominciò con la partenza di Messere Elrond, che avvenne nel settembre 3021; ma nel Regno, a fini documentativi, si considerò anno 1 della Quarta Era l’anno inaugurato secondo il Nuovo Computo il 25 marzo 3021.
Questo calendario venne adottato durante il regno di Re Elessar in tutti i paesi, ad eccezione della Contea, dove continuò ad essere in vigore il Calendario della Contea. L’anno 1 della Quarta Era fu quindi per gli Hobbit il 1422 e, pur tenendo conto del cambiamento di Era, essi continuarono a considerare come suo giorno iniziale il Secondo Capodanno 1422, e non il 25 marzo precedente. marzo che il 22 settembre; ma nel Decumano Ovest, specialmente nel territorio circostante il Colle di Hobbiville, divenne consueto divertirai e ballare nel Prato della Festa il 6 aprile, tempo permettendo. Alcuni dicevano che era il compleanno del vecchio Sam Giardiniere, altri che era il giorno in cui per la prima volta, nel 1420, era fiorito l’Albero d’Oro, altri ancora che era il Capodanno Elfico. Nella Terra di Buck il Corno del Mark squillò al tramonto ogni 2 novembre, seguito da falò e da festeggiamenti[44].
La Lingua Corrente o Ovestron è stata interamente tradotta nella nostra lingua. Tutti i nomi hobbit e i termini specifici devono essere pronunciati con i relativi accenti e suoni: per esempio, Bolger ha una g come germano, e mathom rima con Tom.
Nel trascrivere gli idiomi arcaici ho cercato di rappresentare i suoni originali (ammesso che si possano determinare) con la massima accuratezza, e di proporre nello stesso tempo termini che non abbiano un carattere grottesco nella nostra moderna tradizione letteraria. L’Alto Elfico Quenya è stato ravvicinato quanto più possibile al Latino: per questo motivo si è preferito sostituire k con c in ambedue gli idiomi Eldarin.
Premetto alcune osservazioni per coloro che fossero interessati a simili particolari.
C ha sempre il suono k anche prima della e e della i. Celeb = argento, si pronuncia keleb.
CH viene adoperato esclusivamente per raffigurare il suono gutturale del tedesco bach, e non dell’inglese church, né dell’italiano chiesa. Eccetto che in fine di parola e davanti alla consonante t, nel linguaggio di Gondor questo suono finì con l’indebolirsi in una h aspirata che si può notare ancora in alcuni nomi propri, come Rohan, Rohirrim (Imrahil è un nome di origine numenoreana).
DH rappresenta il suono dolce del th inglese, come in these clothes. Di solito deriva direttamente dalla d, come nel Sindarin galadh = albero (mentre invece è alda in Quenya); a volte in vece deriva da h + r, come in Caradhras = Cornorosso, originariamente caran-rass.
F si pronuncia normalmente eccetto che in fine di parola, dove viene adoperato per rappresentare il suono v, (come in inglese of), come in Gandalf, Fladrif.
G si pronuncia sempre gutturalmente come la g di guardare; gil = stella, che si ritrova in Gondor, Gilraen, Osgiliath, deve quindi essere pronunciato ghil.
H da sola, ossia senza altre consonanti, è aspirata come nell’inglese house e behold. La combinazione Quenya ht sta a raffigurare il suono cht come in Tedesco acht: ad esempio nel nome Telumehtar = Orione[45]. Vedi anche CH, DH, L, R, TH, W, Y.
I all’inizio di una parola e prima di una vocale funge da consonante come nella parola yoga, ma soltanto in Sindarin, ad esempio nei nomi Ioreth, Iarwain. Vedi anche Y.
K viene usata nei linguaggi non provenienti dagli idiomi elfici con il medesimo valore della c; kh raffigura quindi il suono ch nel linguaggio degli Orchi: Grishnâkh, o nell’Adunaico (Numenoreano): Adunakhor. Per quanto riguarda il parlare dei Nani (come la lingua Kluzdul) vedi la nota.
L rappresenta più o meno il suono della l iniziale italiana, come in lungo. Se però è situata fra una e o una i e una consonante, oppure in fine di parola dopo e o t, si pronuncia con il palato. (Gli Eldar avrebbero probabilmente trascritto la parola italiana bello come beolo). Se muto, questo suono viene rappresentato da LH (derivante di solito da sl- iniziale). In Quenya arcaico ciò veniva scritto hl, e pronunciato l nella Terza Era.
NG viene pronunciato ng come nell’inglese finger, salvo in fine di parola dove la g finale quasi non si pronuncia. Questo suono si trovava anche all’inizio delle parole in Quenya, ma è stato qui trascritto con n, come in Noldo, secondo la pronuncia della Terza Era.
PH suona come f. Viene adoperato (a) se il suono f è in fine di parola, come in alph = cigno; (b) se il suono f deriva da una p come in i-P(h)eriannath = i Mezzuomini (perian); (c) nelle poche parole dove sta per ff (derivato da pp) come in Ephel = recinto esterno; (d) in Adunaico e in Ovestron, come in Ar-Pharazôn (pharaz = oro).
QU rappresenta cw, una combinazione assai frequente in Quenya che non esiste in Sindarin.
R si pronuncia sempre come in Italiano, sia davanti a vocali che davanti a consonanti. Pare che gli Orchi e anche alcuni Nani adoperassero una r gutturale che gli Eldar trovavano obbrobriosa. RH sta per la r afona (per lo più derivata da un’antica sr iniziale), che in Quenya veniva scritta br. Vedi L.
S rappresenta sempre il suono della s italiana come in so, sì; il suono z non esisteva né in Quenya né in Sindarin.
SH nell’Ovestron dei Nani e degli Orchi va pronunciato come sc in scivolare, sciogliere.
TH è il suono dolce del th inglese. Era divenuto s nel Quenya parlato, pur essendo scritto con una lettera diversa: ad esempio, in Quenya Isil (Sindarin Ithil) = luna.
TY rappresenta il suono ti come in tiorba, e deriva per lo più da c o t + y. Di solito in Ovestron questo suono veniva sostituito con ci (come in ciotola, ciuco), assai più frequente in questo idioma. Vedi Y a proposito di HY.
V è uguale alla v italiana ma non si adopera in fine di parola. Vedi F.
W si pronuncia come la w inglese, ossia we, wa, wo, wi = ue, ua, uo, ui. Era un suono iniziale abbastanza frequente in Quenya, anche se in questo libro non se ne trova alcun esempio. Nella trascrizione del Quenya sono state adoperate sia la v che la w, malgrado il tentativo di assimilarne l’ortografia a quella del Latino, poiché i due suoni di origine del tutto distinta esistevano ambedue in quell’idioma.
Y in Quenya sta per il suono i nei dittonghi io, ia, ie. In Sindarin y è sempre una vocale (vedi oltre). Vi è il medesimo rapporto fra HY ed y che fra HW e w: in Quenya ciò si trascriveva eht, iht.
Il suono dolce sc, assai frequente nell’Ovestron, veniva spesso sostituito ad esso da coloro che parlavano questo idioma. Vedi TY. HY derivava di solito da she khy-; in ambedue i casi le parole affini in Sindarin e in Quenya presentano una h iniziale, come in Harad e Hyarmen, che significano «Sud» rispettivamente in Sindarin e in Quenya.
È da osservarsi che le consonanti scritte due volte, come tt, ll, ss, nn rappresentano consonanti lunghe, o doppie. Alla fine dei vocaboli di più di una sillaba venivano di solito troncate: Rohan invece di Rochann (arcaico Rochand).
In Sindarin le combinazioni ng, nd, mb, particolarmente frequenti nei primi idiomi Eldarin, subirono in seguito numerose trasformazioni. mb divenne ovunque m, pur continuando a contare come una consonante doppia per motivi di accentuazione (vedi oltre), e si scrive quindi mm nei casi in cui altrimenti l’accento potrebbe essere incerto[46]. ng rimase immutato, tranne che all’inizio e in fine di parola, dove si trasformò in una semplice nasale. nd divenne per lo più nn come Ennor = Terra di Mezzo, Quenya Endore; rimase invece nd alla fine dei monosillabi pienamente accentuati come thond = radice (Morthond = Radice Nera), e davanti alla lettera r, come in Andros = lunga schiuma. Questo nd si ritrova altresì in alcuni antichi nomi derivati da epoche arcaiche, come ad esempio Nargothrond, Gondolin, Beleriand. Nel corso della Terza Era il gruppo nd in fondo a parole più lunghe si trasformò in n, come in Ithilien, Rohan, Anórien.
Vocali
Le vocali sono a, e, i, o, u, oltre ad y (quest’ultima usata soltanto in Sindarin). In linea di massima si può dire che i suoni rappresentati da queste lettere erano uguali ai nostri, benché naturalmente numerosi accenti locali siano difficili da individuare[47]. Alle vocali a, e, i, o, u corrispondevano pressappoco i suoni che si trovano nei vocaboli italiani padre, deve, bivio, dove, nube.
In Sindarin le e, a, o lunghe avevano il medesimo valore delle vocali brevi, poiché ne derivavano. In Quenya invece la e e la o lunghe venivano pronunciate correttamente, come solevano gli Eldar, ossia più accentuate e più «chiuse» delle vocali brevi.
Il Sindarin era l’unico idioma che possedesse la u modificata, con un suono più cupo, come in Francese lune. Era in parte una modifica di o ed u, e in parte una derivazione di antichi dittonghi eu, iù. Per esprimere questo suono adoperavano la lettera y, come nella parola Iyg = serpente (Quenya leuca), o emyn, plurale di amon = collina. A Gondor questa y veniva di solito pronunciata come se fosse una i.
Le vocali lunghe sono di solito contrassegnate dall’accento acuto, come in alcune varietà di caratteri fëanoriani. In Sindarin le vocali lunghe in terminI monosillabici sono indicate con l’accento circonflesso, poiché in tal caso tendono ad essere particolarmente allungate[48]; ad esempio dûn, rispetto a Dùnadan. L’uso dell’accento circonflesso in altri linguaggi, come l’Adunaico o l’idioma dei Nani, non ha alcun significato particolare, e viene sfruttato esclusivamente per caratterizzare le diverse lingue (così come l’uso della lettera k).
La e finale non è mai muta. Per accentuarne il suono la e finale è sovente, ma non costantemente, scritta ë.
I gruppi er, ir, ur (in fine di parola o davanti una consonante) devono essere pronunciati come in Italiano per, dir, pur, allungando molto la vocale.
In Quenya ui, oi, ai, iù, au, eu sono dittonghi (vengono cioè pronunciati come un’unica sillaba). Tutte le altre coppie di vocali sono di due sillabe, il che viene spesso indicato scrivendo: óa, óo, oó.
In Sindarin i dittonghi si scrivono ae, ai, ei, oe, ui, au. Le altre combinazioni non sono dittonghi. In fine di parola, au si trova frequentemente in Inglese nella forma aw ed era tutt’altro che raro in Fëanoriano.
Tutti questi dittonghi[49] erano «muti», vale a dire che l’accento sottolineava il primo elemento e che la combinazione delle due vocali era una semplice «addizione» dei due suoni. Quindi ai, ei, oi, ui dovevano pronunciarsi come in Italiano.
La posizione dell’accento, o enfasi, non è indicata, poiché negli idiomi Eldarin di cui si parla la collocazione è determinata dalla forma del vocabolo. Nelle parole di due sillabe l’accento cade quasi sempre sulla prima; nei termini più lunghi cade invece sulla penultima se questa contiene una vocale lunga, un dittongo o una vocale seguita da due (o più) consonanti. Quando l’ultima sillaba contiene (come sovente accade) una vocale breve seguita da una (o nessuna) consonante, l’enfasi cade sulla sillaba precedente, ossia la terzultima. Gli idiomi Eldarin ed in particolar modo il Quenya abbondavano di vocaboli di questo ultimo tipo.
Negli esempi seguenti la vocale accentata è indicata dalla lettera maiuscola: isIldur, Orome, erEssëa, fËanor, ancAlima, elentAri; dEnethor, periAnnath, ecthElion, pelArgir, silIvren. Termini del tipo di elentàri = regina delle stelle, che accentano cioè le vocali é, à, ó, sono poco frequenti in Quenya a meno che non si tratti, come in questo caso, di parole composte. Sono meno rari con le vocali i, u, come in andùne = occidente tramonto. In Sindarin si tratta sempre ed esclusivamente di parole composte. Va osservato che in Sindarin dh, th, ch sono considerate consonanti singole poiché rappresentano una sola lettera delle antiche scritture.
NOTA. Negli idiomi non derivati dalle lingue Eldarin le lettere hanno il medesimo valore, ad eccezione del linguaggio dei Nani. In questa lingua, che non possiede i suoni th e ch (kh), essi si pronunciano come se fossero t o k + una h aspirata.
La z rappresenta la medesima lettera nell’alfabeto italiano. gh nel Linguaggio Nero e in quello degli Orchi è una cosiddetta «aspirata retroversa» (che sta a g come dh sta a d), come in ghlish, agli.
I nomi «esterni», cioè quelli che gli Uomini davano ai Nani, presentano forme nordiche, ma il valore delle lettere è quello precedentemente descritto. Ciò vale anche per i nomi di luoghi e di persone a Rohan (dove non erano stati modernizzati), ad eccezione di éa, éo considerati dittonghi e da leggersi quindi come in beato, Teofilo; la y è una u modificata. Le forme modernizzate sono facilmente riconoscibili e vanno pronunciate come in Italiano. Si tratta per lo più di nomi di luoghi come Eilenach (per Eilenagh).
Le scritture e le lettere adoperate nella Terza Era erano di origine Eldarin, e già a quel tempo molto antiche. Avevano già raggiunto il pieno sviluppo alfabetico, ma ve n’erano in uso delle altre più arcaiche, in cui figuravano le sole consonanti.
Gli alfabeti erano di due tipi, originariamente indipendenti fra loro: il Tengwar o Tiw, da me tradotto in «lettere», e il Certar o Cirth, tradotto in «rune». Le lettere Tengwar erano state create per la scrittura con penna o pennello, e le figure squadrate delle iscrizioni derivavano dalle forme di scrittura. Le Certar venivano adoperate quasi esclusivamente per le incisioni.
Le Tengwar erano le più antiche, essendo state elaborate dai Noldor, la stirpe degli Eldar più abile in questo genere di cose, molto prima del loro esilio. Le più arcaiche lettere Eldarin, le Tengwar di Rùmil, non venivano adoperate nella Terra di Mezzo. Le lettere più recenti, le Tengwar di Fëanor, erano per lo più una nuova invenzione, benché derivassero in parte dalle lettere di Rùmil. Furono portate nella Terra di Mezzo dagli esuli Noldor, diffondendosi in tal modo fra gli Edain e i Numenoreani. Nel corso della Terza Era esse venivano adoperate più o meno nella medesima area in cui si parlava la Lingua Corrente.
Le lettere Cirth furono originariamente elaborate nel Beleriand dai Sindar, e vennero adoperate a lungo esclusivamente per l’iscrizione di nomi e di brevi epigrafi su legno o pietra. Per questo motivo esse presentano forme angolari, assai simili a quelle delle nostre rune, pur differendo da queste in molti particolari e soprattutto nell’ordine in cui si presentano. Le Cirth, nella loro forma più arcaica e più semplice, si diffusero a est durante la Seconda Era e divennero note a molti popoli, agli Uomini e ai Nani, e persino agli Orchi, i quali le trasformarono adattandole ai propri fini a seconda della loro maggiore o minore abilità. Una di queste forme semplificate era ancora in uso presso gli Uomini della Valle, e un’altra simile presso i Rohirrim.
Ma nel Beleriand, prima della fine della Prima Era, le Cirth, in parte sotto l’influenza delle Tengwar dei Noldor, vennero riadattate e ulteriormente sviluppate. La loro forma più completa e ordinata era conosciuta con il nome di Alfabeto di Daeron, poiché la tradizione elfica lo fa risalire a Daeron, menestrello e saggio della corte di Re Thingol di Doriath. Fra gli Eldar l’Alfabeto di Daeron non sviluppò vere e proprie forme di corsivo, poiché scrivendo gli Elfi adoperavano le lettere fëanoriane. Gli Elfi dell’Ovest abbandonarono quasi completamente l’uso delle rune. Ma nel territorio dell’Eregion l’Alfabeto di Daeron venne conservato a lungo e fu diffuso a Moria diventando l’alfabeto preferito dai Nani. Da allora essi lo adottarono definitivamente, portandolo con loro al Nord. Per questo motivo lo si chiamò sovente in seguito Angerthas Moria o le Lunghe File di Rune di Moria. I Nani comunque conoscevano tutte le scritture correnti, e molti scrivevano perfettamente le lettere fëanoriane, ma quando si trattava di mettere per iscritto la loro lingua, si attenevano sempre alle lettere Cirth, elaborando forme che si potessero scrivere con penna.
La tavola mostra, in caratteri di stampa, tutte le lettere abitualmente adoperate nei paesi occidentale durante la Terza Era. L’ordine seguito è quello dell’epoca, quello cioè in cui le lettere venivano enunciate una dopo l’altra.
Questa scrittura non era originariamente un «alfabeto», ossia una serie casuale e convenzionale di lettere munita ognuna di un proprio valore indipendente, recitate in un ordine tradizionale senza alcun nesso logico con le loro forme e funzioni[50]. Era invece piuttosto un sistema di segni consonanti, di forma e stile assai simile, che potevano venire adattati a piacere, onde rappresentare le consonanti di linguaggi adoperati (o elaborati) dagli Eldar. Nessuna di queste lettere aveva in se stessa un valore fisso, ma gradualmente si vennero a riconoscete alcune relazioni fra di esse.
Il sistema conteneva ventiquattro lettere principali, 1-24, organizzate in quattro témar (serie), ognuna delle quali possedeva sei tyeller (gradi). Vi erano altresì delle «lettere aggiuntive», di cui 25-36 sono degli esempi. Di queste, soltanto 27 e 29 sono lettere strettamente indipendenti; le altre sono semplicemente modificazioni di lettere principali; vi erano anche un certo numero di tehtar (segni) di vario uso. Questi non appaiono nella tavola.
Le lettere primarie erano tutte formate da un telco (gambo) e da un lùva (arco). Le forme del tipo 1-4 erano considerate normali. Il gambo poteva essere rivolto verso l’alto, come per 9-16, o accorciato come per 17-24. L’arco poteva essere aperto, come nelle Serie I e III, oppure chiuso, come nelle Serie II e IV; in ambedue i casi, inoltre, poteva venire raddoppiato, come nelle forme 5-8.
La teorica libertà di applicazione era stata modificata a tal punto dall’uso durante la Terza Era, che la Serie I era di solito applicata alle dentali, o serie t (tincotéma), e la serie II alle labiali o serie p (parmatéma). L’applicazione delle Serie III e IV variava a seconda delle esigenze delle diverse lingue.
In lingue affini all’Ovestron, che facevano largo uso di suoni consonantici[51] simili all’inglese ch, i, sh, veniva adoperata soprattutto la Serie III; in tal caso la Serie IV veniva applicata alle normali serie k (calmatéma). Nel linguaggio Quenya, che possedeva oltre alle calmatéma anche una serie palatale (tyelpetéma) e una serie labiale (quessetéma), le palatali venivano rappresentate per mezzo di un segno fëanoriano diacritico denotante «segue y» (di solito due punti sotto la lettera), mentre la Serie IV era una serie kw.
Entro queste regole generali erano comunemente osservate le seguenti relazioni. Le lettere normali, Grado 1, venivano applicate alle consonanti mute tenui: t, p, k, ecc… Il raddoppiamento dell’arco indicava un’addizione di «voce»: quindi, se 1, 2, 3, 4 = ti, p, c, k, (o t, p, k, kw), allora 5, 6, 7, 8, = d, b, i, g (o d, b, g, gw). Il gambo eretto indica che la consonante si trasforma in una «aspirata», assumendo quindi i precedenti valori per Grado 1, Grado 3 (9-12) = th, t, sh, ch (o th, f, hk, kbw/hw), e Grado 4 (13-16) == dh, v, zh, gh (o dh, v, gh, ghw/w).
Il sistema fëanoriano originario possedeva inoltre un grado in cui il gambo si stendeva sia sopra che sotto la linea. Questo di solito rappresentava consonanti aspirate (per es. t + h, p + h, k + h) ma eventualmente poteva rappresentare anche altre variazioni consonantiche, a piacere. Tali variazioni non erano necessarie nei linguaggi della Terza Era che usavano questa calligrafia, ma le forme col gambo esteso sopra e sotto venivano spesso adoperate come varianti (più chiaramente distinte dal Grado 1) dei Gradi 3 e 4.
Il Grado 5 (17-20) era generalmente applicato alle consonanti nasali: 17 e 18 erano per esempio i segni più comuni per n ed m. Secondo il principio innanzi citato il Grado 6 avrebbe quindi dovuto rappresentare le nasali mute; ma poiché tali suoni (come il gallese nh e l’antico inglese hn) erano assai rari nei linguaggi in questione, il Grado 6 (21-24) veniva di solito utilizzato per le più deboli o «semivocaliche» consonanti di ogni serie. Consisteva nelle forme più piccole e semplici delle lettere primarie. Così il 21 veniva spesso adoperato per raffigurare una r debole (non arrotata), esistente originariamente nel Quenya e considerata nel sistema di quel linguaggio come la più debole delle consonanti tincotéma; il 22 molto spesso rappresentava la w; dove la Serie III fungeva da serie palatale, il 23 veniva di solito adoperato come un’y in qualità di consonante[52]. Poiché alcune consonanti del Grado 4 tendevano ad affievolirsi con l’uso e ad avvicinarsi e quasi confondersi con quelle del Grado 6 (come precedentemente descritto), molte di queste cessarono di avere una funzione precisa nei linguaggi Eldarin. E fu proprio da queste lettere che derivò in seguito gran parte delle vocali.
NOTA. La comune scrittura Quenya divergeva dall’uso delle lettere precedentemente descritte. Il Grado 2 veniva infatti usato per i suoni nd, mb, ng, ngw, tutti assai frequenti, poiché b, g, gw non apparivano che in queste combinazioni, e per i suoni rd, ld, si utilizzavano le lettere speciali 26-28. (Per lv, non lw, molti, e in particolare gli Elfi, adoperavano lb; ciò veniva trascritto con le lettere il Grado 4 per le frequenti combinazioni nt, mp, nk, nqu, poiché il Quenya non possedeva dh, gh, ghw, e utilizzava per la v la forma 22. Vedi in seguito i nomi delle lettere Quenya.
Le lettere aggiuntive. Il numero 27 veniva universalmente impiegato per il suono l. Il n. 25 (originariamente una deformazione del 21), per la r «piena», arrotata. I nn. 26, 28 erano modificazioni di questi. Venivano infatti per lo più utilizzati per r (rh) e l (lh) rispettivamente; ma nel Quenya erano usati per rd e ld. Il 29 corrisponde alla s, e il 31 (con doppio arco) alla z nei linguaggi ove esisteva questo suono. Le forme invertite 30 e 32, pur essendo utilizzabili come segni indipendenti, finivano di solito per fungere da varianti del 29 e del 31, a seconda della comodità di scrittura, per es. se accompagnate da un tehtar apposto sopra la lettera.
Il n. 33 era in origine una variazione raffigurante un tipo più debole del n. 11, e l’uso più frequente, nella Terza Era corrispondeva alla h. Il 34, se usato, raffigurava di solito la w (hw) afona. Il 35 e 36, se impiegati come consonanti, venivano per lo più applicati rispettivamente all’y e alla w.
Le vocali erano in vario modo rappresentate dai tehtar, di solito posti sopra una consonante. In linguaggi del tipo Quenya, in cui la maggior parte delle parole terminava con una vocale, il tehtar veniva collocato sulla consonante precedente; in idiomi del tipo Sindarin, ove quasi tutti i vocaboli finivano con una consonante, veniva posto sopra la consonante seguente. Quando non vi erano consonanti presenti in posizione idonea, il tehtar veniva appoggiato ad una «piccola base», la cui forma più comune era quella di una i senza punto. I tehtar adoperati nelle diverse lingue per indicare le vocali erano molto numerosi. I più comuni, di solito applicati a vari tipi di e, i, a, o, u, sono esposti negli esempi forniti. I tre punti, la forma più usuale per la a, venivano scritti diversamente in calligrafie più rapide, adoperando spesso una forma simile a un accento circonflesso[53]. Un unico punto e un «accento acuto» venivano frequentemente usati per la i e la e (o viceversa). Le virgole raffiguravano la o e la u. Nell’iscrizione dell’Anello la u è rappresentata con una virgola rivolta a destra; ma sul frontespizio questo segno sta ad indicare una o, mentre la virgola rivolta a sinistra indica la u. Era comunque più frequente la virgola a destra, e le sue applicazioni dipendevano dall’idioma in questione: nel Linguaggio Nero la o era assai rara.
Le vocali lunghe venivano di solito rappresentate apponendo il tehtar sulla «base lunga», di cui una forma comune era la i senza punto. Si poteva altresì procedere raddoppiando il tehtar, il che però avveniva soprattutto nel caso di virgole, e più raramente in presenza di «accenti». Due punti erano invece per lo più adoperati in seguito ad una y.
L’iscrizione del Cancello Occidentale di Moria illustra un tipo di «scrittura piena» con le vocali rappresentate da lettere separate. Vi sono raffigurate tutte le lettere vocaliche in uso nel Sindarin. È da notarsi l’uso del n. 30 per rappresentare la y vocalica, e anche l’espressione di dittonghi grazie all’apposizione del tehtar sulla lettera vocalica, indicante «segue y». Per raffigurare «segue w» (come nei suoni au, aw) si soleva usare la virgola u, o una sua variante di questo tipo ~. Ma i dittonghi venivano spesso scritti per intero, come nella trascrizione fonetica. La lunghezza delle vocali veniva così indicata dall’«accento acuto», chiamato in tal caso andaith, «segno lungo».
Oltre ai tehtar vi era un certo numero di altri segni, per lo più adoperati per abbreviare la scrittura, specialmente nel caso di frequenti combinazioni di vocali che venivano in tal modo sostituite da un simbolo. Fra queste, una sbarra (o un segno simile al tilde spagnolo) posta sopra una consonante significava spesso che questa era preceduta da una nasale della medesima serie (come nt, mp, nk); un segno simile applicato sotto la lettera significava di solito che la consonante era lunga o raddoppiata. Un gancetto attaccato alla base dell’arco (come in hobbit, parola frequente nei manoscritti) soleva indicare «segue s», specialmente nelle combinazioni ts, ps, ks (x), assai frequenti in Quenya.
Non esisteva naturalmente alcun «modo» per rappresentare i vocaboli di una lingua come l’Inglese o l’Italiano. Se ne potrebbe elaborare uno foneticamente adatto, sulla base del sistema fëanoriano. Il breve esempio a p. 82 non è un tentativo di dimostrazione, ma piuttosto un esempio di ciò che un uomo di Gondor avrebbe potuto scrivere, esitando fra i valori delle lettere familiari nel suo «modo» e la tradizionale ortografia di una lingua come l’Inglese. È da osservare che un punto sotto la lettera (di cui un significato era quello di vocale debole) viene qui impiegato nella rappresentazione di and, ma anche nella parola here per raffigurare la e muta finale; the, of, ed altri termini monosillabici di uso frequente venivano sostituiti con abbreviazioni (dh allungato, v allungata, v con sbarra sottoposta).
I nomi delle lettere. In tutti gli idiomi, lettere e segni avevano ciascuno un nome, ma tali nomi descrivevano il significato fonetico di ogni particolare idioma. Si senti comunque sovente la necessità di un nome che descrivesse ogni lettera in se stessa, soprattutto per spiegarne il significato in altri linguaggi. A questo fine, si adoperarono i «nomi completi» in lingua Quenya, anche se si trattava di illustrare impieghi specifici del Quenya. Ogni «nome completo» era in Quenya un vero e proprio vocabolo contenente la lettera in questione.
Ove possibile, essa figurava all’inizio della parola, ma in caso contrario seguiva immediatamente la vocale iniziale. I nomi delle lettere secondo la tavola erano: (1) tinco = metallo, parma = libro, calma = lampada, quesse = piuma; (2) ando = cancello, umbar = fato, anga = ferro, ungwe = ragnatela; (3) thule (sule) = spirito, formen = nord, barma = tesoro (o aba = rabbia), hwesta = brezza; (4) anto = bocca, ampa = gancio, anca = mascella, unque = un fosso; (5) neimen = occidente, malta = oro, noldo (arcaico ngoldo) = una delle stirpi dei Noldor, nwalme (o ngwalme) = tormento; òre = cuore (mente interiore), vala = potere celeste, anna dono vilya = aria, cielo (arcaico wilya); rómen = est, arda = regione, lambe = lingua, alda = albero, silma = luce di stelle, silme nuquerna (s invertite), are = luce del sole (o nome della lettera esse), àre nuquerna; hyarmen = sud, hwesta sindarinwa, yanta = ponte, ùre = calore. Ove esistono varianti significa che i nomi erano stati attribuiti prima di alcuni mutamenti che trasformarono il Quenya parlato dagli Esuli. Così il n. 11 veniva chiamato harma quando rappresentava la ch aspirata, ma quando questo suono diveniva una h aspirata dolce di tipo iniziale (pur rimanendo mediana)[54], gli si attribuiva il nome aba. àre originariamente era àze, ma quando questa z si confuse con il 21, tale segno venne adoperato per il suono ss molto frequente nel linguaggio Quenya, e gli fu dato il nome di esse. hwesta sindarinwa o «hw grigio-elfico» era chiamato in tal modo perché in Quenya il chw e hw. I nomi delle lettere più correnti ed usate erano 17 n, 33 hy, (vedi Sindarin dûn o annûn, barad, rhûn o amrûn, forod). Queste lettere di solito indicavano i punti cardinali anche nei linguaggi che adoperavano termini molto diversi. Nei paesi occidentali venivano elencati nell’ordine seguente: O, S, E, N; hyarmen e formen significavano precisamente regione situata a sinistra e regione situata a destra (con una collocazione opposta a quella esistente nella maggior parte degli idiomi degli Uomini).
Il Certhas Daeron venne originariamente elaborato esclusivamente per rappresentare i suoni del Sindarin. Le lettere più antiche erano i nn. 1, 2, 5, 6; 8, 9, 12; 18, 19, 22; 29, 31; 35, 36; 39, 42, 46, 50; e una certh variante fra 13 e 15. L’assegnazione dei valori non seguiva alcun ordine sistematico. I nn. 39, 42, 46, 50 erano vocali e rimasero tali in tutti i successivi sviluppi. I nn. 13, 15 venivano adoperati per h o s, a seconda che il 35 venisse adoperato per s o h. Questa tendenza alla variabilità nell’assegnazione dei valori di s e di h continuò nelle ulteriori elaborazioni. Nei caratteri composti da un «gambo» e da un «ramo», 1-3 1, l’attacco del «ramo», se effettuato da una sola parte, avveniva di solito sul lato destro. L’inverso si trovava a volte ma era privo di significato fonetico.
L’estensione e l’elaborazione di questo certhas fu chiamata inizialmente Angerthas Daeron, poiché le lettere aggiunte alle cirth arcaiche e la loro rielaborazione erano attribuite a Daeron. Comunque, le aggiunte più importanti, e cioè l’introduzione di due nuove serie, 13-17 e 23-28, erano in realtà probabilmente invenzioni dei Noldor dell’Eregion, poiché venivano utilizzate per la riproduzione di suoni inesistenti in Sindarin.
Nell’adattamento dell’Angerthas si possono osservare i seguenti principi (evidentemente ispirati al sistema fëanoriano): (1) aggiungere un’asta a un «ramo» significava maggiore intensità di «voce»; (2) invertire il certh significava trasformarlo in «aspirata»; (3) collocare un ramo su ambedue i lati del gambo aggiungeva intensità di voce e un suono nasale. Questi principi venivano applicati regolatmente, ad eccezione di un unico punto. Per il Sindarin (arcaico) era necessario un segno indicante una m aspirata (o una v nasale), e poiché il modo migliore per realizzare ciò era di invertire il segno della m, al numero 6 reversibile veniva quindi attribuito il valore di m, mentre il n. 5 diveniva hw.
Il n. 36, il cui valore teorico era z, veniva adoperato, nell’ortografia Quenya o Sindarin, invece di ss; vedi fëanoriano 31. Il n. 39 veniva usato sia per i che per y (consonante); 34, 35 venivano usati indifferentemente per la s; e il 38 indicava la frequente sequenza nd, benché questa non fosse formalmente simile alle dentali.
Nella Tavola dei Valori, quelli sulla sinistra sono, se separati da un trattino, i valori delle Angerthas arcaiche. Quelli a destra sono i valori delle Angerthas dei Nani di Moria[55]. I Nani di Moria, come si vede, introdussero un certo numero di mutamenti di valore non sistematici, oltre a un certo nuovo cirth: 37, 40, 41, 53, 55, 56. La dislocazione dei valori era dovuta essenzialmente a due cause: (1) l’alterazione dei valori di 34, 35, 54 rispettivamente in h (il principio chiaro o glottideo di una parola con vocale iniziale che appariva nel Khuzdul), e in s; (2) l’abbandono dei numeri 14, 16, sostituiti dai Nani con 29 e 30. Il conseguente uso del 12 per la r, l’invenzione del da unirsi al 54 nel suo valore di s, e il conseguente uso del 36 per n, e del nuovo certh 37 per ng, sono altre osservazioni da farsi. I nuovi 55 e 56 erano originariamente una forma tronca del 46 e venivano adoperati per vocali del tipo di quelle che figurano nella parola inglese butter, assai frequenti negli idiomi dei Nani e Ovestron. Se deboli o svanite, venivano spesso ridotte a una semplice asta senza gambo. Questo Angerthas Moria è rappresentato nell’iscrizione tombale.
I Nani di Erebor utilizzavano una ulteriore modificazione di questo sistema, conosciuto con il nome di «Modo di Erebor», ed esemplificato nel Libro di Mazarbul. Le principali caratteristiche erano: l’uso del 43 per z, del 17 per ks (x), e l’invenzione di due nuovi cirth, il 57 e il 58, per ps e ts. Essi reintrodussero altresì il 14 e il quali varianti del 19 e del 21. Queste peculiarità non sono incluse nella tavola, salvo le speciali lettere cirth di Erebor, nn. 57, 58.
Il linguaggio rappresentato in questa narrazione dalla nostra lingua era l’Ovestron o «Lingua Corrente» dei paesi occidentali della Terra di Mezzo nella Terza Era. In quell’epoca esso era infatti diventato il linguaggio di quasi tutti i popoli parlanti (ad eccezione degli Elfi) che vivevano entro i confini degli antichi reami di Arnor e Gondor, e cioè lungo tutte le coste da Umbar sino alla nordica Baia di Forochel, e all’interno sino alle Montagne Nebbiose e all’Ephel Dùath. Si era inoltre diffuso lungo il corso dell’Anduin, occupando le terre a ovest del Fiume e a est delle montagne fino a Campo Gaggiolo.
All’epoca della Guerra dell’Anello, alla fine cioè della Terza Era, questi erano ancora i confini di tale idioma, benché ormai grandi zone dell’Eriador fossero deserte e pochi Uomini dimorassero sulle sponde dell’Anduin fra il Gaggiolo e Rauros.
Alcuni degli antichi Uomini Selvaggi abitavano ancora la Foresta Druadana nell’Anórien; e sui colli del Dun’and vivevano alcuni superstiti di un’antica stirpe, coloro che un tempo occupavano quasi rutto Gondor. Questi popoli rimanevano fedeli alle loro lingue; nelle pianure di Rohan dimorava una nuova popolazione del Nord, i Rohirrim, che erano emigrati in quelle terre circa cinquecento anni prima. Ma l’Ovestron veniva adoperato come seconda lingua da tutti coloro che conservavano il proprio idioma, persino dagli Elfi, non solo ad Arnor e a Gondor, ma anche in tutte le valli dell’Anduin, e ad est sino ai margini orientali del Bosco Atro. Persino fra gli Uomini Selvaggi e i Dun’andiani, che evitavano gli altri popoli, vi erano coloro che sapevano parlarlo, anche se stentatamente.
A proposito degli Elfi.
Nei Tempi Remoti gli Elfi si divisero in due rami principali: gli Elfi Occidentali (Eldar) e gli Elfi Orientali. A quest’ultima stirpe apparteneva la maggior parte degli Elfi del Bosco Atro e di Lórien; ma i loro idiomi non appaiono in questa storia, nella quale tutti i termini e i nomi elfici sono di forma Eldarin[56].
In questo libro si trovano due tipi di linguaggi Eldarin: l’Alto Elfico o Quenya e il Grigio-Elfico o Sindarin. L’Alto Elfico era un antico linguaggio di Eldamar oltre i Mari, il primo che sia stato formulato mediante la scrittura.
Non era più la lingua parlata, ma era divenuta in un certo qual modo un «latino elfico», ancora adoperato nelle cerimonie, e in materia di saghe e di canti, dagli Alti Elfi tornati in esilio nella Terra di Mezzo alla fine della Prima Era.
Il Grigio-Elfico era originariamente derivato dal Quenya, essendo il linguaggio di quegli Eldar i quali erano giunti alle sponde della Terra di Mezzo e invece di traversare il Mare erano rimasti sulle coste del Beleriand. Il loro Re era Thingol Grigiornanto di Doriath, e durante il lungo crepuscolo il loro idioma si era trasformato con la mutevolezza delle terre dei mortali, divergendo notevolmente dal linguaggio degli Eldar di là dal Mare.
Gli Esuli, vissuti fra i più numerosi Grigi Elfi, avevano adottato il Sindarin per l’uso quotidiano; esso è quindi l’idioma di tutti gli Elfi che appaiono in questa narrazione, poiché costoro erano tutti di razza Eldarin, anche se le genti che governavano erano di stirpi inferiori. La più nobile di tutti era Dama Galadriel della casa reale di Finarphir e sorella di Finrod Felagund, Re di Nargothrond. Nel cuore di tutti gli Esuli la nostalgia del Mare era un inguaribile tormento; nell’animo dei Grigi Elfi un’inquietudine latente, che una volta destata non poteva più essere placata.
A proposito degli Uomini.
L’Ovestron era un idioma degli Uomini, pur addolcito e arricchito da influssi elfici. Era originariamente il linguaggio di coloro che gli Eldar chiamavano Antani o Edain, «Padri degli Uomini», e cioè propriamente la gente delle Tre Case di Amici degli Elfi che si recò a occidente nel Beleriand durante la Prima Era e aiutò gli Eldar nella Guerra dei Grandi Gioielli contro l’Oscuro Potere del Nord.
Dopo la sconfitta dell’Oscuro Potere, che causa la rovina e la distruzione di quasi tutto il Beleriand, per ricompensare gli Amici degli -Elfi fu concesso loro di traversare anch’essi il Mare come gli Eldar. Ma poiché il Reame Immortale era loro proibito, venne loro destinata una grande isola, la più occidentale di tutte le terre mortali. Il nome di quell’isola era Nùmenor (Ovesturia). La maggior parte degli Amici degli Elfi parti quindi per andarsi a stabilire a Nùmenor, ove divenne un popolo grande e patente, di famosi navigatori e ricchi armatori. Essi erano belli di volto e alti di statura, e la durata della loro vita era tre volte più lunga di quella degli Uomini della Terra di Mezzo. Essi erano i Numenoreani, Re degli Uomini, che gli Elfi chiamavano Dùnedain.
I Dùnedain erano gli unici fra gli Uomini a parlare un idioma elfico; i loro avi avevano infatti appreso il Sindarin, tramandandolo ai figli con pochi mutamenti attraverso gli anni e le generazioni. E i più eruditi fra loro studiavano anche l’Alto Elfico, il Quenya, apprezzandolo più di ogni altra lingua, e adoperandolo per battezzare luoghi particolarmente noti o gloriosi o persone di sangue reale e di grande fama[57].
Ma la lingua nativa dei Numenoreani rimase per lo più il loro ancestrale idioma, l’Adunaico, al quale in seguito, man mano che crebbe il loro orgoglio, i re e signori numenoreani fecero ritorno; gli unici a non abbandonare il linguaggio elfico furono quei pochi che rimasero fedeli alla loro amicizia di lunga data con gli Eldar. Durante gli anni del loro potere, i Numenoreani possedettero molti porti e fortezze sulle coste occidentali della Terra di Mezzo, come basi per le loro flotte; uno dei porti più importanti era Pelargir, presso le Foci dell’Anduin. Là si parlava l’Adunaico che, integrato da molti vocaboli di linguaggi degli Uomini comuni, divenne la Lingua Corrente, e si diffuse lungo tutte le coste fra coloro che avevano rapporti con l’Ovesturia.
Dopo la caduta di Nùmenor, Elendil condusse i superstiti Amici degli Elfi sulle coste nord-occidentali della Terra di Mezzo, ove dimoravano già molti Uomini di sangue, in parte o interamente, numenoreano, i quali però avevano quasi dimenticato l’idioma elfico. E quindi i Dùnedain, sin dal principio, furono assai meno numerosi degli Uomini comuni con i quali vissero o che governarono, essendo essi signori dalla lunga vita e dalla somma potenza e saggezza. Essi adoperarono quindi la Lingua Corrente nel trattare con altri popoli e nel governare i propri vasti reami, ma la estesero arricchendola di molte parole di origine elfica.
Ai tempi dei re numenoreani questo linguaggio Ovestron nobilitato si diffuse ovunque, persino fra i loro nemici, e fu sempre più adoperato dagli stessi Dùnedain, tanto che all’epoca della Guerra dell’Anello era assai raro che la gente a Gondor conoscesse l’Elfico, e ancor più raro che lo parlasse abitualmente. Gli abitanti di Gondor vivevano per lo più a Minas Tirith e nelle campagne adiacenti, e nella terra dei principi tributari di Dol Amroth. Eppure, i nomi di quasi tutti i luoghi e persone nel reame di Gondor erano di forma e significato elfici. Le origini di alcuni di essi erano da tempo obliate, e discendevano indubbiamente dagli idiomi in uso prima della partenza delle navi numenoreane; fra questi termini figuravano Umbar, Arnach, Erech, e i nomi di montagne come Rimmon. Forlong era anch’esso un nome del medesimo tipo.
La maggior parte degli Uomini delle regioni settentrionali dei paesi occidentali discendeva dagli Edain della Prima Era, o da loro affini. Adoperavano quindi linguaggi simili all’Adunaico, di cui alcuni conservavano ancora molta affinità con la Lingua Corrente. Di questa razza erano gli abitanti delle valli dell’Anduin: Beorniani, e Uomini dei Boschi del Bosco Atro occidentale; e anche gli Uomini che dimoravano più a est, a Lago Lungo e a Valle. Dai territori compresi fra il Gaggiolo e Carrock veniva la gente chiamata a Gondor Rohirrim, Padroni di Cavalli. Essi parlavano ancora il loro -idioma ancestrale, battezzando con nuovi nomi quasi tutti i luoghi di questo loro nuovo paese; essi stessi si attribuirono il nome di Eorlingas, o Uomini del Riddermark. Ma le tradizioni di questo popolo erano frequentemente scritte nella Lingua Corrente, ed essi la parlavano in modo aristocratico, come i loto alleati di Gondor; a Gondor infatti, luogo di origine dell’Ovestron, questo idioma manteneva ancora uno stile più aggraziato ed antiquato.
Del tutto diverso era il linguaggio degli Uomini Selvaggi della Foresta Druadana. Differente, o soltanto vagamente affine era l’idioma dei Dun’andiani, ultimi superstiti degli abitanti dei Monti Bianchi. Gli Uomini Morti di Dunclivo erano della medesima loro razza. Ma durante gli Anni Oscuri alcuni abitanti si erano trasferiti nelle valli meridionali delle Montagne Nebbiose, e da lì alcuni si erano recati nelle terre deserte, spingendosi a nord fino ai Tumulilande. Da questi discendevano gli Uomini di Brea, i quali erano divenuti sudditi del Regno settentrionale di Arnor, adottandone il linguaggio Ovestron. Soltanto nel Dun’and gli Uomini di questa razza conservarono le proprie antiche usanze e lingue, consuetudini e costumi di un popolo segreto, ostile ai Dùnedain e nemico spietato dei Rohirrim.
Della loro lingua in questo libro non appare altro che il termine Forgoil, nome che essi attribuivano ai Rohirrim (e che pare significasse Teste di Paglia). Dunland e Dunlandiani erano i nomi dati loro dai Rohirrim, perché erano scuri di pelle e di capelli; non vi è quindi alcun nesso fra la parola dunn in questi nomi e il termine Grigio-Elfico Dûn = Ovest.
A proposito degli Hobbit.
Gli Hobbit della Contea e di Brea avevano adottato da circa mille anni la Lingua Corrente. La adoperavano a modo loro, liberamente e senza particolari attenzioni, ma i più eruditi fra di essi disponevano ancora di un idioma più rigoroso se richiesto da una speciale occasione.
Non vi sono documenti attestanti l’esistenza di un linguaggio peculiare agli Hobbit. In passato essi avevano infatti sempre adoperato gli idiomi degli Uomini presso i quali o fra i quali dimoravano. Essi adottarono quindi rapidamente la Lingua Corrente dopo essersi trasferiti nell’Eriador, e quando poi si stabilirono a Brea avevano già cominciato a dimenticare il loro antico linguaggio. Era questo evidentemente un linguaggio del tipo di quelli in uso fra gli Uomini delle valli dell’alto Anduin, simile a quello dei Rohirrim; gli Sturoi meridionali sembrano però aver adottato un linguaggio affine a quello dei Dun’andiani prima di emigrare a nord nella Contea[58].
Di tutto ciò all’epoca di Frodo rimaneva ancora qualche traccia in nomi e termini locali, di cui molti rassomigliavano assai da vicino a quelli di Rohan e della Valle. L’esempio più notevole è fornito dai nomi di giorni, mesi e stagioni; parecchi altri vocaboli del genere (come mathom e smial) erano ancora di uso comune, e altri si riferivano a luoghi della Contea e di Brea. I nomi di persona degli Hobbit erano anch’essi assai particolari e derivavano sovente da termini arcaici.
Hobbit era il nome che il popolo della Contea dava a tutta la gente della sua stessa razza. Gli Uomini li chiamavano Mezzuomini e gli Elfi Periannath. L’origine della parola hobbit era stata per lo più dimenticata. Pare comunque che fosse un nome attribuito originariamente ai Pelopiedi dagli Sturoi e dai Paloidi, forma abbreviata e disseccata di un termine conservato integralmente a Rohan: holbytla = «scavatori di buchi».
A proposito delle altre razze.
Ent. Gli esseri più antichi nella Terza Era erano gli Onodrim o Enyd. Ent era il nome dato loro dalla gente di Rohan. Gli Eldar li conoscevano in tempi lontani, e dagli Eldar gli Ent attinsero non il loro proprio linguaggio, bensì il desiderio di parlare. L’idioma che avevano creato era diverso da tutti gli altri: lento, sonoro, agglomerato, ripetitivo, serpeggiante da tutti i punti di vista, formato da una molteplicità di sfumature fra le vocali e di distinzioni di tono e intensità che persino gli Eldar più eruditi non avevano mai tentato di trascrivere. Ma essi lo adoperavano soltanto fra loro, benché non fosse certo necessario tenerlo segreto, dato che nessun altro sarebbe mai riuscito ad apprenderlo.
Gli Ent erano comunque molto abili nello studio dei linguaggi, che imparavano rapidamente e non dimenticavano mai più. Più di tutti amavano però gli idiomi degli Eldar, e in particolare l’antico Alto Elfico. Gli strani nomi e vocaboli che gli Hobbit udirono pronunciare da Barbalbero e dagli altri Ent, erano quindi in Elfico, o frammenti di lingue elfiche collegati insieme alla maniera ent[59]. Alcuni sono Quenya: come per esempio Taurelilômëa-tumbalemorna Tumbaletaurëa-Lémëanor, che può tradursi «Foresta-dalle-mille-ombre-nera-profonda-valle Profonda-valle-boscosa-Terra-tetra», e che per Barbalbero significava più o meno: «vi è un’ombra nera nelle profonde valli della foresta». Altri vocaboli sono Sindarin: Fangorn = barba (di) albero, o Fimbrethil = esile betulla.
Gli Orchi e il Linguaggio Nero. Orchi è il nome dato a questo popolo malefico dalle altre genti, adottato in origine dai Rohirrim. In Sindarin il nome era orch, indubbiamente imparentato con il termine uruk nel Linguaggio Nero, benché questo venisse di solito esclusivamente applicato ai grossi Orchi soldati provenienti da Mordor e da Isengard. Le altre razze venivano chiamate, specialmente dagli Uruk-hai, snaga, «schiavi».
Gli Orchi furono inizialmente allevati nei Tempi Remoti dall’Oscuro Potere. Pare che non avessero un loro linguaggio, ma che s’impadronissero di un gran numero di vocaboli degli altri idiomi, manipolandoli a modo loro; eppure non riuscivano a creare che dialetti brutali, appena sufficienti a esprimere ciò che era loro necessario, cioè maledizioni e bestemmie. Questi esseri pieni di malvagità, che odiavano persino i loro simili, svilupparono velocemente un numero tanto vasto di barbari dialetti quanto numerosi erano i loro vari gruppi e accampamenti, rendendo così estremamente difficile la comunicazione fra i membri delle diverse tribù.
Fu così che durante la Terza Era gli Orchi incominciarono a usare la lingua Ovestron che permetteva alle varie tribù di comunicare fra loro; inoltre molti dei gruppi più antichi, come quelli che dimoravano nel Nord e nelle Montagne Nebbiose, usavano da tempo l’Ovestron come propria lingua, ma in un modo tale da farlo diventare brutto e sgradevole quasi quanto i dialetti delle tribù. In questo idioma, tark, «uomo di Gondor», era una forma accorciata di tarkil, un termine Quenya per indicare in Ovestron chi fosse di discendenza numenoreana.
Si dice che il Linguaggio Nero fosse stato elaborato da Sauron durante gli Anni Oscuri e che egli desiderasse farne la lingua di tutti coloro che lo servivano, fallendo però nel suo intente. Dal Linguaggio Nero derivarono comunque molte parole di uso frequente, e assai diffuse fra gli Orchi, come ghâsh, «fuoco», ma dopo la prima sconfitta di Sauron tale idioma nella sua forma originaria venne dimenticato da tutti, eccetto che dai Nazgûl. Quando Sauron risorse, esso tornò ad essere il linguaggio di Barad-dûr e dei capitani di Mordor. L’iscrizione sull’Anello era nell’antico Linguaggio Nero, mentre le maledizioni dell’Orco di Mordor nelle Due Torri erano pronunciate nella forma svilita in uso presso i soldati della Torre Oscura, di cui Grishnâkh era il capitano. Sharkû in quell’idioma significa «vecchio uomo».
Troll. Troll è la traduzione del Sindarin torog. All’origine, nel crepuscolo dei Tempi Remoti, questi erano esseri informi e smorti, e il loro linguaggio non era più evoluto di quello delle bestie. Ma Sauron li aveva sfruttati, insegnando loro quel poco che potevano apprendere e iniettando nelle loro menti ogni forma di malizia. I Troll acquisirono quindi ciò che poterono del linguaggio degli Orchi, e nelle Terre occidentali i Troll delle Pietre parlavano una forma svilita della Lingua Corrente.
Ma alla fine della Terza Era apparve a sud del Bosco Atro e lungo i confini montagnosi di Mordor una razza di Troll sin allora sconosciuta. Nel Linguaggio Nero, il loro nome era Olog-hai. Nessuno dubitava die fossero creature di Sauron, pur ignorando da quale ceppo provenissero. Alcuni ritenevano che non fossero Troll ma Orchi giganti; ma gli Olog-hai erano sia fisicamente che mentalmente assai diversi persino dalla razza più grande di Orchi, che superavano in forza e dimensioni. Erano Troll, ma impregnati della malvagità del loro padrone: una razza crudele, forte, agile, feroce e astuta, e più dura della pietra. A differenza delle altre razze del Crepuscolo, essi sopportavano il Sole purché Sauron li sostenesse con il proprio volere. Essi parlavano poco, e l’unico linguaggio che conoscessero era quello Nero di Barad-dûr.
Nani. I Nani sono una razza a parte. Delle loro strane origine e del perché fossero al tempo stesso simili e diversi dagli Elfi e dagli Uomini, narra il Silmarillion; ma gli Elfi della Terra di Mezzo non conoscevano questa loro storia, mentre le vicende degli Uomini erano confuse con i ricordi delle altre razze.
Sono una razza per lo più robusta e resistente, segreta, laboriosa, fedele ai ricordi del male (e del bene) ricevuto, amante della roccia, delle gemme, delle cose che prendono forma nelle mani degli artigiani più che di ciò che vive di una vita propria. Ma non sono di natura malvagia, e pochi di loro servirono spontaneamente il Nemico, nonostante ciò che raccontavano le storie degli Uomini. Questi infatti invidiavano la loro ricchezza e l’arte delle loro mani, e fra le due razze regnava l’ostilità.
Ma durante la Terza Era esistevano tuttavia nella Terra di Mezzo stretti legami fra gli Uomini e i Nani; e il carattere particolare dei Nani fece sì che, viaggiando e commerciando per vari paesi, come fecero dopo la distruzione delle loro antiche dimore, cominciassero a usare i linguaggi degli Uomini fra i quali vivevano. Eppure in segreto (un segreto che, a differenza degli Elfi, non rivelavano a nessuno, nemmeno ai loro amici) essi adoperavano ancora il loro strano idioma, che attraverso gli anni aveva subito ben pochi mutamenti (diventando piuttosto un linguaggio di eruditi) in luogo della Lingua Corrente; e lo curavano e lo custodivano gelosamente come un prezioso tesoro del passato. Pochi sono coloro che, all’infuori dei Nani, riuscirono ad apprenderlo. Nella nostra vicenda appare soltanto nei nomi di luoghi citati da Gimli ai propri compagni e nel grido di battaglia che egli lanciò durante l’assedio del Trombatorrione. Questo in ogni caso non era segreto, e lo si era udito gridare nel corso di molte battaglie da quando il mondo era giovane. Baruk Khazâd! Khazâd ai-mênu! = «Asce dei Nani! I Nani vi assaltano!».
I nomi di Gimli e di tutti gli appartenenti alla sua razza sono di origine settentrionale, derivati dai linguaggi degli Uomini. I loro veri nomi segreti non furono mai rivelati dai Nani a gente di razza diversa, e nemmeno scritti sulle pietre tombali.
Nel presentare l’argomento del Libro Rosso come una storia che va letta dalla gente di oggi, l’intero quadro linguistico è stato tradotto per quanto possibile in termini attuali. Solo gli idiomi diversi dalla Lingua Corrente sono stati lasciati nella loro forma originale, ma essi appaiono per lo più in nomi di luoghi e di persone.
La Lingua Corrente, essendo il linguaggio degli Hobbit e dei loro racconti, è stata trasposta in lingua moderna. In questo processo la differenza fra i diversi tipi di Ovestron si è inevitabilmente affievolita, malgrado i tentativi di rappresentare tali differenze con variazioni nella nostra lingua; ma la divergenza fra pronuncia e idioma della Contea e Ovestron parlato dagli Elfi o dagli alti Uomini di Gondor era assai maggiore di quanto non risulti da questo libro. Gli Hobbit infatti parlavano per lo più un dialetto rustico, mentre a Gondor e a Rohan era in uso un linguaggio più antico, più puto e formule.
Va messa in luce una caratteristica distinzione, la quale è sovente di grande importanza, ma si è dimostrata quasi impossibile da rendere nella nostra lingua. L’Ovestron distingueva infatti i pronomi della seconda e terza persona (sia singolare che plurale) in «familiari» e «deferenziali». Una delle caratteristiche della Contea era per l’appunto l’abbandono delle forme deferenziali nella lingua di ogni giorno; la gente dei villaggi, soprattutto del Decumano Ovest, leadoperava ancora, ma come vezzeggiativi. Era questa una delle abitudini alle quali si riferivano gli abitanti di Gondor quando parlavano dello strano linguaggio hobbit. Peregrino Tuc, per esempio, durante i suoi primi giorni di permanenza a Minas Tirith, adoperò le forme familiari nel rivolgersi a gente di ogni rango, compreso Sire Denethor in persona; l’anziano Sovrintendente ne fu probabilmente divertito, ma i suoi servitori rimasero certo stupefatti. Questa grande libertà nell’uso delle forme familiari contribuì sicuramente al diffondersi delle voci circa il rango elevato che Peregrino rivestiva nel proprio paese.
Va osservato che Hobbit come Frodo, e altre persone come Gandalf e Aragorn non usano sempre il medesimo stile, a ragion veduta. Gli Hobbit più colti ed eruditi avevano qualche nozione di «linguaggio da libri», come veniva chiamato nella Contea; e inoltre erano assai rapidi nell’annotare e nell’adottare lo strie di coloro che incontravano. Era comunque naturale che la gente che viaggiava molto parlasse più o meno adeguandosi alle usanze dei luoghi in cui si trovava, specialmente poi nel caso di uomini come Aragorn che prendevano molta cura nel nascondere la loro origine e i loto affari. Eppure a quei tempi tutti i nemici del Nemico riverivano ciò che era antico, il linguaggio non meno di altre cose, e ne ricavavano un piacere proporzionato al livello delle loro conoscenze. Gli Eldar, essendo maestri nell’arte del parlare, possedevano molti stili, anche se riusciva loro spontaneo parlare gli idiomi che più si avvicinavano al loro, che era ancora più antico di quello di Gondor. Anche i Nani erano molto abili, e si sapevano adattare facilmente alla compagnia in cui si trovavano, benché la loro pronuncia sembrasse ad alcuni aspra e gutturale. Ma gli Orchi e i Troll parlavano come capitava, senza alcun amore per le parole e le cose, e la loro lingua era ancora più abietta e disgustosa di quanto non risulti dalla mia traduzione. Non penso che qualcuno desideri degli esempi più concreti, benché siano assai facili da trovarsi. Ancor oggi coloro che hanno la mentalità d’Orchi parlano in una maniera molto simile: tetre ripetizioni piene di odio e di disprezzo, talmente lontane dal bello e dal buono da aver perso ogni valore verbale salvo per coloro che considerano forte e deciso solo ciò che è squallido.
Questo tipo di traduzione è frequente, in quanto inevitabile in ogni racconto che si riferisca al passato; è assai raro che proceda oltre. Eppure io non mi sono fermato qui: ho tradotto anche i nomi Ovestron a seconda del loro significato. In questo libro, quando si trovano nomi o titoli nella nostra lingua, significa che all’epoca queinomi erano frequenti nella Lingua Corrente, e venivano adoperati oltre a quelli originali (di solito in idiomi elfici), o in loro vece.
I nomi in Ovestron erano per la maggior parte traduzioni di nomi arcaici: come Gran Burrone, Argentaroggia, Rivalunga, il Nemico, la Torre Oscura. Alcuni differivano leggermente nel significato: Monte Fato per Orodruin = montagna incandescente, o Bosco Atro per Taur e-Ndaedelos = foresta della grande paura. Alcuni erano alterazioni di nomi elfici: ad esempio Luhun e Brandivino derivavano da Lhûn e Baranduin.
Questo modo di procedere va forse giustificato. Mi sembrava che presentare tutti i nomi nelle forme originali avrebbe resa oscura la comprensione di un aspetto della vita di allora, che invece era assai chiaro agli occhi degli Hobbit (il cui punto di vista intendevo soprattutto conservare): il contrasto fra una lingua molto diffusa che per loro era consueta come l’Italiano o l’Inglese lo sono per noi, e gli ultimi residui di idiomi molto più antichi e nobili. Se avessi semplicemente trascritto tutti i nomi, essi sarebbero apparsi al lettore moderno egualmente remoti ed incomprensibili: ad esempio, se il nome elfico Imladris e la sua traduzione in Ovestron Karningul fossero stati ambedue lasciati immutati. Ma chiamare Gran Burrone Imladris era come parlare oggi di Winchester chiamandolo Camelot, con la differenza che l’identità fra i due era certa, pur vivendo a Gran Burrone un sire di fama assai superiore a quella di cui godrebbe oggi Arturo, se fosse ancora re a Winchester.
Il nome della Contea (Sûza) e di tutti gli altri luoghi abitati dagli Hobbit sono stati quindi italianizzati, cosa alquanto facile, poiché tali nomi erano di solito composti di elementi simili a quelli che troviamo ancor oggi nei toponimi italiani: sia parole frequenti come «colle» o «campo» o suffissi del tipo di «-poli», «-landia». Alcuni invece, come già notato, derivavano da antichi vocaboli hobbit ormai fuori uso.
Quanto ai nomi di persone, quelli in uso nella Contea e a Brea erano assai particolari per quei tempi, tanto più che da alcuni secoli era sorta la strana abitudine di tramandare nomi ad intere famiglie. La maggior parte di questi cognomi aveva ovvi significati (poiché derivavano da soprannomi scherzosi, o da toponimi o, specialmente a Brea, da nomi di alberi e piante). Oltre a questi, rimaneva però un paio di nomi più antichi il cui significato era andato smarrito, e che io ho semplicemente trasposto foneticamente come Tuc invece di Tûk o Boffin per Bophin.
Ho trattato i nomi di persona, per quanto possibile, nel medesimo modo. Alle bambine, gli Hobbit erano soliti dare nomi di fiori o di gemme. Ai maschi, invece, nomi privi del tutto di significato; di questo tipo erano altresì alcuni nomi femminili. Vi sono molte inevitabili ma casuali rassomiglianze con nomi di oggi, come Otto, Odo, Drogo, Dora, Cora e simili. Ho conservato questi nomi, pur adattandoli alla nostra lingua, alterandone cioè le finali, dato che per gli Hobbit a indicava il maschile e o ed e erano femminili.
In alcune famiglie più antiche, e specialmente in quelle originariamente Paloidi come i Tuc e i Bolgeri, vigeva invece l’abitudine di dare nomi altisonanti. Poiché la maggior parte di questi sembrano tratti da arcaiche leggende sia di Uomini che di Hobbit, e, pur essendo per gli Hobbit del tutto privi di significato, rassomigliano ai nomi degli Uomini della valle dell’Anduin o del Mark, ho pensato di tradurli con quegli antichi nomi di origine franca e gotica che ancor oggi si adoperano o si leggono. In questo modo sono riuscito almeno a conservare il contrasto sovente comico fra nomi di persona e cognomi, contrasto di cui gli Hobbit stessi erano perfettamente consci. Nomi d’origine classica erano poco frequenti; gli equivalenti più prossimi al Latino e al Greco per gli eruditi della Contea erano gli idiomi elfici, che gli Hobbit adoperavano assai di rado nella loro nomenclatura. Infatti, pochi di essi conoscevano quello che chiamavano «il linguaggio dei re».
I nomi degli abitanti della Terra di Buck differivano da quelli del resto della Contea. La gente delle Paludi e i loro discendenti installatisi al di là del Brandivino erano assai bizzarri. Senza dubbio, ereditarono dall’antico linguaggio degli Sturoi meridionali gran parte dei loro stranissimi nomi, che ho di solito lasciati immutati, poiché se oggi ci sembrano curiosi, allora lo erano altrettanto. Avevano uno stile vagamente «celtico».
Poiché la sopravvivenza di tracce degli antichi idiomi degli Sturoi e degli Uomini di Brea rassomiglia al perdurare di elementi celtici in Inglese, ho qualche volta imitato questa lingua nella mia traduzione. Brea, Arceto, Bosco Cet sono modellati su arcaiche nomenclature britanniche. Un solo nome di persona è stato alterato in questo senso. Meriadoc, infatti, è stato scelto proprio per il fatto che il nome abbreviato di questo personaggio, Kali, significava in Ovestron «allegro, gaio» pur essendo di fatto un troncamento del nome Kalimac, un vocabolo della Terra di Buck ormai privo di significato.
Non ho adoperato nelle mie trasposizioni alcun nome di origine ebraica o simile, poiché non vi è nulla nei nomi Hobbit che possa corrispondere a questo elemento che appare nei nostri nomi. I nomi brevi come Sam, Tom, Tim, Mat erano frequenti, in quanto abbreviazioni di veri e propri nomi Hobbit come Tolma, Tomba, Matta e simili. Ma i veri nomi di Sam e di suo padre Ham erano Ban e Ran, in quanto troncamenti di Banazir e Ranugad, che in origine erano soprannomi significanti «semplicione» e «casalingo», ed erano poi caduti in disuso rimanendo soltanto come nomi propri in alcune famiglie.
Essendomi spinto tanto oltre nel mio intento di modernizzare e di rendere familiari i nomi e il linguaggio degli Hobbit, mi sono trovato coinvolto in un ulteriore procedimento. I linguaggi degli Uomini imparentati con l’Ovestron dovevano a mio parere essere tradotti sottolineando la stretta parentela con la nostra lingua. Ho quindi reso l’idioma di Rohan simile ad una lingua moderna nella fase arcaica, poiché era abbastanza vicino alla Lingua Corrente e strettamente collegato all’antica lingua degli Hobbit settentrionali, e simile in qualche modo all’arcaico Ovestron. Nel Libro Rosso si legge ripetutamente che all’udire l’idioma di Rohan gli Hobbit riconoscevano molte parole e sentivano una notevole affinità con la loro propria lingua, per cui mi sembrava assurdo lasciare nomi e parole dei Rohirrim in uno stile del tutto incomprensibile.
In parecchi casi ho modernizzato la forma dei toponimi di Rohan, come Dunclivo e Acquaneve, ma non sono stato costante, poiché ho seguito l’esempio degli Hobbit. Essi alteravano i nomi a seconda di come li udivano, e se erano composti di elementi che riconoscevano o che rassomigliavano a nomi di luoghi della Contea; ma per lo più li lasciavano immutati, come ho fatto io con Edoras = le corti.
Il linguaggio ancor più nordico della Valle appare in questo libro esclusivamente nei nomi dei Nani di quella regione, i quali adoperavano la lingua degli Uomini di quelle zone e vi coniavano i loro nomi «esterni». Questa ormai è una stirpe di cui narrano soltanto le leggende popolari e le filastrocche per bambini; ma nella Terza Era risplendeva ancora il bagliore della loro antica gloria e potenza, anche se un po’ affievolito. Essi sono infatti i discendenti degli antichi Naugrim dei Tempi Remoti, nei cui cuori arde il sacro fuoco di Aluë il Fabbro e la scottante brace del loro lungo odio per gli Elfi, e nelle cui mani vive ancora insuperata un’incredibile abilità nel lavorare la pietra. La loro dimora si chiamava infatti Phurunargian, che nel loro linguaggio significava «Luogo scavato dai Nani» ed era nome di antica origine. Ma gli Elfi le avevano dato senza alcun amore il nome di Moria: gli Eldar infatti, purcostretti a volte nelle loro aspre guerre contro il Nemico a costruire fortezze sotterranee, non amavano tali dimore. Avevano bisogno di terreni coperti di verde e delle luci del cielo, e Moria nel loro idioma significava Voragine Nera. Ma i Nani l’avevano battezzato Khazad-dûm, Palazzo dei Khazâd, e questo almeno fu un nome che non tennero gelosamente segreto, poiché era il loro vero nome, dato loro da Aulë sin dalle origini sepolte negli abissi del tempo.
Elfi è il termine adoperato per tradurre sia Quendi, «gli oratori», nome dato dagli Alti Elfi all’intera schiatta, sia Eldar, nome delle Tre Stirpi che cercavano il Reame Immortale e che vi giunsero al principio dei Giorni (ad eccezione dei soli Sindar). Questa antica parola era l’unica disponibile, e un tempo era ancora adatta a evocare i ricordi di questo popolo o a incutere negli Uomini il desiderio di emularlo. Ma ormai significa poco, e forse risveglia nella mente di molti fantasie stupide o graziose, ma in ogni caso tanto diverse dagli antichi Quendi quanto lo sono le farfalle dai rapidi falchi… non che alcun Quendi possedesse ali corporali, innaturali per essi come per gli Uomini. Essi erano una razza alta e bella, i Figli del mondo, e fra essi gli Eldar erano come re ormai scomparsi: il Popolo del Grande Viaggio, il Popolo delle Stelle. Erano grandi, dalla pelle chiara e gli occhi grigi, pur avendo capigliature brune, ad eccezione della dorata progenie di Finrod; e nelle loro voci vi erano più melodie che in qualsiasi voce umana sinora udita. Erano valorosi, ma la storia di coloro che tornarono in esilio nella Terra di Mezzo fu una triste storia; benché il loro destino fosse stato in passato unito a quello dei Padri, non è ora uguale a quello degli Uomini. Il loro reame scomparve molto tempo addietro, ed essi ora dimorano oltre i confini del mondo per non tornare mai più.
Hobbit è un’invenzione. In Ovestron, quando ci si riferiva a questo popolo, si adoperava la parola banakil = mezzuomo. La gente della Contea e di Brea usava invece il termine kuduk, che non si trova altrove. Eppure Meriadoc nota che il Re di Rohan si serviva della parola kûd-dûkan = «abitante di tane». Poiché, come in precedenza ho osservato, gli Hobbit parlavano un tempo un idioma assai simile a quello dei Rohirrim, è probabile che kuduk derivasse da kûd-dûkan. Ho tradotto quest’ultimo vocabolo con holbytla per motivi precedentemente spiegati, e hobbit potrebbe essere facilmente una forma derivata da holbytta, se questo nome fosse esistito nella nostra antica lingua.
Gamgee. Secondo la tradizione di famiglia, esposta nel Libro Rosso, il cognome Galbasi, o in forma ridotta Galpsi, derivava dal nome del villaggio di Galabas, che si supponeva derivasse da gatab = gioco, e un vecchio elemento -bas, più o meno equivalente a un nostro suffisso vichi. Gamvichi (pronunciato Gammigi) sembrava quindi una buona trasposizione. Comunque, nel ridurre Gammigi in Gamgi per rappresentare Galpsi, non era inteso alcun riferimento al legame fra Samvise e la famiglia dei Cotton, anche se un simile scherzo corrisponderebbe perfettamente alla mentalità hobbit.
Cotton infatti sta per Hlothran, un nome di villaggio abbastanza comune nella Contea, derivante da hloth = tana o caverna a due camere, e ranu = un piccolo gruppo di simili dimore sul fianco di una collina. Come cognome potrebbe essere una forma alterata di hlo-thram(a) = abitante di una casetta di campagna. Hlothram, che io ho tradotto con Cotman, era il nome del nonno del vecchio Cotton.
Brandivino. I nomi dati dagli Hobbit a questo fiume erano alterazioni dell’Elfico Baranduin (con accento su and), derivante da baran = bruno dorato, e duin = (grande) fiume. Brandivino sembrava una normale corruzione di Barauduin, A dire il vero, il più antico nome hobbit era Branda-nîn = acque di confine, il che sarebbe stato reso meglio con Marchborn; comunque, era ormai espressione scherzosa comune il riferirsi al colore del fiume chiamandolo Bralda-him = birra inebriante.
Bisogna in ogni caso notare che quando i Vecchiobecco (Zaragamba) mutarono il loro nome in Brandibuck (Brandagamba) il primo elemento significava «terra di confine», e Marchbuc sarebbe stata una traduzione più adatta. Ma solo un Hobbit molto ardito avrebbe osato chiamare il Signore della Terra di Buck Brandagamba in sua presenza.