PARTE PRIMA LA COMPAGNIA DELL’ANELLO


PROLOGO

1. A proposito degli Hobbit

Questo libro riguarda principalmente gli Hobbit, e dalle sue pagine il lettore imparerà molto sul loro carattere e un po’ della loro storia; ulteriori informazioni potranno trovarsi nel Libro Rosso dei Confini Occidentali, già pubblicato col titolo di Lo Hobbit. Questa storia è tratta dai più antichi capitoli del Libro Rosso, scritti da Bilbo in persona, il primo Hobbit divenuto famoso nel resto del mondo, e da lui intitolati Andata e Ritorno poiché narravano il suo viaggio verso l’Est e il ritorno a casa. Fu questa un’avventura che avrebbe più tardi coinvolto tutti gli Hobbit nei grandi avvenimenti di un’Era di cui parleremo.

Molti, comunque, desidererebbero saperne di più su questo popolo primordiale, e per questi lettori ho annotato qui i punti essenziali della tradizione hobbit e riassunto le sue prime vicende.

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Il popolo hobbit è discreto e modesto, ma di antica origine, meno numeroso oggi che nel passato; amante della pace, della calma e della terra ben coltivata, il suo asilo preferito era una campagna scrupolosamente ordinata e curata. Ora come allora, essi non capiscono e non amano macchinari più complessi del soffietto del fabbro, del mulino ad acqua o del telaio a mano, quantunque abilissimi nel maneggiare attrezzi di ogni tipo. Anche in passato erano estremamente timidi; ora, poi, evitano addirittura con costernazione «la Gente Alta», come ci chiamano, ed è diventato difficilissimo trovarli. Hanno una vista ed un udito particolarmente acuti, e benché tendano ad essere grassocci e piuttosto pigri, sono agili e svelti nei movimenti. Sin dal principio possedevano l’arte di sparire veloci e silenziosi al sopraggiungere di genti che non desideravano incontrare, ma ora quest’arte l’hanno talmente perfezionata, che agli Uomini può sembrare quasi magica. Gli Hobbit, invece, non hanno mai effettivamente studiato alcun tipo di magia; e quella loro rara dote è unicamente dovuta ad una abilità professionale che l’eredità, la pratica, e un’amicizia molto intima con la terra hanno reso inimitabile da parte di razze più grandi e goffe.

Essi sono infatti minuscoli; anche i più alti fra loro sono più piccoli dei Nani, sebbene meno tozzi e robusti. La loro statura è variabile, ed oscilla da due a quattro piedi; ma ormai è raro che qualcuno arrivi a tre piedi, giacché pare che col tempo si siano rimpiccioliti e che in passato fossero più alti. Secondo quanto riferisce il Libro Rosso, Brandobras Tuc (Ruggibrante), figlio di Isengrim Secondo, misurava due braccia ed era capace di montare a cavallo. Il suo record fu battuto in tutta la storia hobbit da altri due personaggi soltanto; ma di questo parleremo in seguito.

Per quanto riguarda gli Hobbit della Contea, di cui tratta questo nostro racconto, essi erano, nei tempi di pace e di benessere, un popolo allegro e spensierato; portavano vestiti di colori vivaci, preferendo il giallo ed il verde, ma calzavano raramente scarpe, essendo i loro piedi ricoperti di un pelo riccio e folto, proprio come i loro capelli, che erano solitamente castani, e le piante dure e callose come suole. Perciò l’unica forma di artigianato che praticassero poco era la fabbricazione di calzature, benché avessero lunghe dita abilissime, capaci di creare tanti altri oggetti utili ed artistici. Più che belli, i loro visi erano generalmente gioviali, illuminati da occhi vivacissimi e guance colorite, con una bocca fatta per ridere, bere e mangiare. Ed era proprio ciò che facevano: mangiavano, bevevano e ridevano con tutto il cuore, amavano fare a tutte le ore scherzi infantili, e pranzavano sei volte al giorno, quando ne avevano la possibilità. Erano ospitali: feste e regali, che offrivano con grande generosità ed accettavano con entusiasmo, costituivano il loro massimo divertimento.

La parentela che ci unisce agli Hobbit, malgrado la loro recente ostilità, è più che evidente e molto più stretta che non quella che ci unisce agli Elfi o persino ai Nani. In tempi lontani parlavano le lingue degli Uomini, a modo loro, ed avevano le stesse preferenze e le stesse antipatie. Quale sia però la nostra esatta parentela, ormai nessuno lo può più dire: gli albori della civiltà hobbit sono persi nei Tempi Remoti caduti nell’oblio; solamente gli Elfi conservano ancora ricordi di quel tempo che fu, ma sono solo ricordi della loro propria storia, ove gli Uomini hanno poco posto e gli Hobbit niente del tutto. Eppure è un fatto che gli Hobbit siano vissuti tranquilli e pacifici nella Terra di Mezzo per anni e anni prima che gli altri popoli si accorgessero della loro presenza; e, dato che il mondo è pieno zeppo di strane creature, questi piccoli esseri sembravano ben poco importanti. Fu ai tempi di Bilbo e del duo erede Frodo che essi acquistarono improvvisamente, senza desiderarlo per nulla, importanza e fama, importunando non poco i consigli dei Saggi e dei Grandi.

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Quei giorni (la Terza Era della Terra di Mezzo) sono ormai molto lontani, e la configurazione di tutti i paesi è cambiata; ma le regioni in cui allora vivevano gli Hobbit sono senza alcun dubbio le stesse ove essi passano tuttora i loro giorni: il nord-ovest del Vecchio Mondo e ad est del Mare. Gli Hobbit del tempo di Bilbo non avevano la più vaga idea di quale fosse il loro luogo d’origine. L’amore per lo studio (a parte l’erudizione genealogica) era molto poco diffusa ma vi era ancora qualche membro delle antiche casate che studiava i libri di famiglia, e che raccoglieva persino cronache dei tempi passati e di terre lontane abitate dagli Elfi, dagli Uomini e dai Nani. Quanto alle loro proprie cronache, esse furono intraprese solamente dopo l’installazione nella Contea, e persino le loro più antiche leggende risalgono appena all’Epoca della Lunga Marcia. Risulta comunque chiaramente da queste leggende, dai loro particolari usi e costume e dal loro strano linguaggio, che gli Hobbit, come molti altri popoli, in un lontano passato migrarono verso ovest.

I loro primi racconti lasciano intravedere il tempo in cui dimoravano nelle alte vallate dell’Anduin, tra la Grande Foresta Verde e le Montagne Nebbiose; nessuno può dire perché essi intrapresero più tardi la difficile e pericolosa traversata delle montagne, scendendo nella valle dell’Eriador: le loro cronache parlano del numero sempre crescente di Uomini in quel posto e di una grande ombra che oscurò la foresta, alla quale diedero perciò il nome di Bosco Atro.

Prima di valicare le montagne, gli Hobbit erano già divisi in tre razze: i Pelopiedi, gli Sturoi ed i Paloidi. I Pelopiedi erano i più scuri, bassi e minuti; non portavano barba né scarpe; avevano mani e piedi piccoli ed agili, e preferivano la montagna alla pianura.

Gli Sturoi, al contrario, erano tozzi e ben piantati; avevano mani e piedi più grandi e prediligevano la campagna e le rive dei fiumi. I Paloidi infine, chiari di pelle e di capelli, erano i più alti e magri; essi amavano i boschi e le foreste.

I Pelopiedi erano stati in passato, allorché vivevano ancora sulle falde dei monti, grandi amici dei Nani. Furono i primi a emigrare verso ovest, attraversando l’Eriador per giungere fino al Colle Vento, mentre gli altri erano rimasti nelle Terre Selvagge. Erano la razza più tipica e caratteristica, e di gran lunga la più numerosa. Inclinavano a stabilirsi definitivamente in un posto, e conservarono a lungo l’antico costume di vivere in caverne e gallerie sotterranee.

Gli Sturoi, i meno timidi, errarono molto tempo lungo le sponde del Gran Fiume Anduin, quindi seguirono i Pelopiedi nel loro viaggio verso ovest, dirottando a sud lungo il corso del Rombirivo. Molti di loro vi sostarono, tra Sarbad ed i confini del Dunand, prima di ritornare al Nord.

I Paloidi, ramo nordico degli Hobbit, erano i meno numerosi; dotati per le lingue e per il canto piuttosto che per l’artigianato, preferivano la caccia all’agricoltura. Dopo aver valicato le montagne a nord di Gran Burrone e costeggiato il Fiume Bianco, giunsero nell’Eriador dove si mescolarono presto alle altre due razze; ciò nonostante, essendo più spericolati ed avventurosi, furono spesso loro a comandare i clan dei Pelopiedi e degli Sturoi. Le grandi famiglie, quali i Tuc ed i Signori di Buck, si distinguevano, all’epoca di Bilbo, per il forte temperamento paloidiano.

Ad ovest dell’Eriador, tra le Montagne Nebbiose ed i Monti Luhun, vivevano Uomini ed Elfi. Vi erano persino gli ultimi Numenoreani, i re degli Uomini giunti per Mare dall’Ovesturia in tempi remoti; ma poiché stavano velocemente sparendo, le terre del loro Regno del Nord erano in un pietoso stato di abbandono. Vi era quindi spazio in abbondanza, e presto si formarono le prime piccole comunità di Hobbit. Della maggior parte di queste colonie, ai tempi di Bilbo, non vi era più alcuna traccia. Una sola delle più importanti sopravviveva ancora a circa quaranta chilometri dalla Contea, a Brea e nel circostante Bosco Cet.

Fu senza dubbio a questi tempi che gli Hobbit appresero l’alfabeto dei Numenoreani, ai quali gli Elfi avevano insegnato a scrivere. Dimenticarono così tutte le lingue che avevano adoperate prima, per parlare unicamente la Lingua Corrente, il cosiddetto Ovestron, di uso comune nelle terre dei re da Arnor a Gondor e sulle coste del Mare dal Golfo di Belfalas a Luhun. Conservarono però ancora qualche termine, come i nomi dei mesi e dei giorni e gran parte dei nomi di persona.

All’incirca dalla stessa epoca cominciarono a contare gli anni, segnando così la fine delle leggende ed il nascere della storia hobbit. Fu nell’anno 1601 della Terza Era che i due fratelli paloidi, Marcho e Blanco, partirono da Brea; e avendo ottenuto il permesso dal gran re di Fornost[4] attraversarono il fiume Baranduin seguiti da un gran numero di Hobbit; passarono sul Ponte di Arcoinpietra, costruito nei giorni di splendore del Regno del Nord, ed occuparono le terre comprese tra il fiume ed i Luoghi Lontani. Fu loro solamente chiesto, come compenso, di riparare tutte le strade ed i ponti, in particolar modo il Grande Ponte, di augurare buon viaggio ai messi del re e di riverire la sua regalità.

Così ebbe inizio l’Era della Contea, e gli Hobbit fissarono come Primo Anno quello del passaggio del Brandivino (nuovo nome dato da loro al Fiume). Tutte le date seguenti sono state calcolate in base a questo calendario[5]. Gli Hobbit d’occidente s’innamorarono subito del loro nuovo paese e vi restarono per sempre, scomparendo così nuovamente dalla storia degli Uomini e degli Elfi. Fino alla morte dell’ultimo re rimasero ufficialmente suoi sudditi sebbene avessero i loro propri capi e non si occupassero per nulla di ciò che accadeva nel resto del mondo. Sostengono di aver mandato degli arcieri in aiuto del re durante la battaglia di Fornost contro il capo degli Stregoni di Angmar, quantunque la storia degli Uomini non lo riferisca. In ogni modo, quella guerra segnò la fine del Regno del Nord; gli Hobbit presero allora in mano le redini del paese e scelsero fra i loro capi un Conte che sostituisse il re. Soltanto qualche guerra turbò i mille anni seguenti e, dopo la Peste Nera (C.C. 37)[6], essi si moltiplicarono e si arricchirono fino alla catastrofe del Lungo Inverno e alla conseguente carestia che ne sterminò a migliaia. All’epoca della nostra storia, comunque, i Giorni della Fame (1158-60) erano molto lontani, e gli Hobbit avevano ritrovato il benessere. La terra era ricca e generosa, e prima dello stato di abbandono in cui l’avevano trovata, aveva conosciuto bravi coltivatori che curavano le fattorie, le piantagioni di granturco, i vigneti ed i boschi di proprietà del re.

Questo paese, che si estendeva per quaranta leghe dai Luoghi Lontani al Brandivino, e per cinquanta dalle brughiere del Nord alle paludi del Sud, fu chiamato dagli Hobbit La Contea poiché la regione, attiva negli affari e nel commercio, era sotto l’autorità del Conte.

Noncuranti del resto del mondo, abitato da strani esseri oscuri, conducevano in quel ridente angolo della terra una vita talmente ordinata e bene organizzata che finirono per credere che pace e prosperità fossero normali nella Terra di Mezzo, nonché un diritto di ogni popolo ragionevole. Dimenticarono o ignorarono quel poco che sapevano sui Guardiani e sulle pene di coloro che avevano lottato per la pace della Contea. Erano protetti, ma lo dimenticarono.

Gli Hobbit non avevano mai amato la guerra, né combattuto fra di loro. In principio erano naturalmente stati costretti a lottare per sopravvivere, ma all’epoca di Bilbo nessuno se ne ricordava più. L’ultima battaglia prima dell’inizio di questo libro, e certo l’unica combattuta all’interno della Contea, fu la Battaglia di Terreverdi (C.C. 1147), durante la quale Brandobras Tuc mise in fuga gli Orchi che avevano invaso il paese. Finanche le tempeste si erano calmate, ed i lupi che un tempo solevano venire dal Nord nei terribili inverni glaciali in cerca di preda, esistevano ormai soltanto nelle favole della nonna. Così, benché possedessero ancora poche armi, gli Hobbit le adoperavano unicamente come trofei, appese ai muri e sui camini, o raccolte nel museo di Pietraforata, detto Palazzo Mathom. Chiamavano infatti mathom tutto ciò che non sapevano come utilizzare ma che non desideravano eliminare. Le loro abitazioni erano generalmente piene di mathom, di cui la maggior parte era costituita dai regali che si scambiavano tra di loro.

Nonostante la pace ed il benessere di cui godevano, gli Hobbit erano rimasti stranamente resistenti. Era difficile impaurirli ed ucciderli; e quel loro amore inesauribile per tutte le cose buone era dovuto al fatto che sapevano, se necessario, farne a meno e resistere alle ostilità degli Uomini ed alle avversità della natura, tanto da destare meraviglia in coloro che non li conoscevano bene e che di loro vedevano soltanto i pancioni ed i visi ben pasciuti. Benché lenti nel combattimento e non particolarmente dotati per lo sport, all’occorrenza sapevano ancora adoperare le armi, e persino nelle situazioni più disparate e senza scampo si comportavano valorosamente. Erano arcieri abilissimi, per via della vista straordinariamente acuta e della fermezza della mano; e se un Hobbit raccoglieva una pietra, era bene correre subito al riparo; e gli animale che tentavano di assalirli lo apprendevano a proprie spese.

Le caverne, che ritenevano fossero state le loro prime abitazioni, erano tuttora la dimora che preferivano, benché col passar del tempo si fossero dovuti trasferire altrove. All’epoca di Bilbo la legge voleva che soltanto i più ricchi ed i più poveri vi abitassero ancora. I poveri vivevano in tane estremamente primitive, dei veri e propri buchi con una sola finestra o addirittura senza, mentre le caverne dei benestanti continuavano ad essere ampliate e decorate. Siccome quei lunghi tunnel, che chiamavano smial, non potevano essere ricavati ovunque, nelle pianure e nelle conche, gli Hobbit si trovarono costretti a costruire in superficie. Ora, persino sulle colline e negli antichi villaggi come Hobbiville o Tucboro, o nel capoluogo della Contea, Pietraforata sui bianchi Poggi, sorgevano edifici di legno, pietra o mattoni. Vi abitavano soprattutto mugnai, fabbri, cordai ed altri artigiani i quali già al tempo delle caverne solevano costruirsi laboratori e botteghe.

Pare che i primi a creare fattorie e granai fossero gli abitanti delle Paludi lungo il Brandivino; gli Hobbit di quella regione, chiamata Decumano Est, erano grossi, avevano gambe corte e se pioveva portavano stivaletti. Si sapeva, comunque, che erano in gran parte di sangue sturoi, e lo dimostrava la barbetta che molti di loro si facevano crescere. Infatti, nessun Pelopiede e nessun Paloide aveva la minima traccia di barba. La gente delle Paludi, dopo aver occupato per qualche tempo la Terra di Buck, contrada ad est del Fiume, si trasferì poi in gran parte a nord, nella Contea, conservando però strane parole e nomi bizzarri, ignoti nel resto del paese.

È probabile che l’arte dell’edilizia, come molte altre arti, provenisse dai Numenoreani. Ma erano stati gli Elfi ad insegnarla agli Uomini, e gli Hobbit potrebbero averla appresa direttamente da loro. Gli Elfi di Alto Lignaggio non avevano infatti ancora abbandonato la Terra di Mezzo, e vivevano ad ovest nei Rifugi Oscuri ed in altri luoghi non lontani dalla Contea. Si potevano ancora vedere, oltre i confini occidentali, tre torri di epoca immemorabile, costruite dagli Elfi. Luccicavano da lontano illuminate dai raggi della luna. La più alta era anche la più lontana, e si innalzava su di un colle verdeggiante. Gli Hobbit del Decumano Ovest sostenevano che si dovesse vedere il Mare dall’alto della torre, ma nessuno vi si era mai arrampicato. Erano infatti pochi quelli che avevano visto o attraversato il Mare, e pochissimi quelli ritornati per narrare le avventure vissute. I più non sapevano nuotare, e fiumi e barche destavano la loro diffidenza. Con l’andar del tempo parlarono sempre meno con gli Elfi, ed incominciarono a temerli e a sospettare di coloro che li frequentavano. Si allontanarono il più possibile dalle colline occidentali e dal Mare, diventato per loro il simbolo della paura e della morte.

A quell’arte dell’edilizia che avevano appreso dagli Elfi e dagli Uomini, gli Hobbit diedero un carattere tutto particolare. Torri non ne volevano, e le loro case erano infatti tutte basse, lunghe e comode. Il tipo più antico non era che un’imitazione degli smial, dai tetti di paglia, di erba secca o di muschio, e dai muri leggermente curvi. Da allora, comunque, avevano fatto molti progressi e perfezionato le costruzioni grazie agli stratagemmi insegnati loro dagli Elfi o escogitati da loro stessi. L’unica particolarità dell’architettura hobbit tuttora esistente era la forma circolare delle finestre e persino delle porte.

Case e caverne della Contea erano grandi ed abitate da famiglie numerose (Bilbo e Frodo Baggins erano più unici che rari, essendo scapoli e grandi amici degli Elfi). Alcuni, come per esempio i Tuc dei Grandi Smial ed i Brandibuck di Villa Brandy, vivevano con più generazioni di parenti in relativa pace nella vasta e ramificata dimora avita. Tutti gli Hobbit avevano uno spiccato senso della famiglia e tenevano molto alle parentele. Disegnavano lunghi ed intricati alberi genealogici dagli innumerevoli rami che, parlando di loro, è importantissimo conoscere. Sarebbe impossibile stabilire in questo libro anche solo un albero genealogico che comprenda unicamente i membri principali delle grandi famiglie di quell’epoca. Ve ne sono parecchi alla fine del Libro Rosso dei Confini Occidentali, ma costituiscono un piccolo volume a sé, estremamente noioso per chiunque, eccetto che per gli Hobbit che adoravano questo genere di cose. Si dilettavano a riempire meticolosamente libri interi di cose che già sapevano, in termini chiari e senza contraddizioni.

2. A proposito dell’erba-pipa

È bene qui far cenno di un’altra originale abitudine degli Hobbit: solevano aspirare o inalare, con pipe di legno o di argilla, il fumo proveniente dalla combustione di certe foglie che chiamavano erba-pipa o foglia-pipa e che probabilmente erano una varietà di quella che noi chiamiamo Nicotiana. Un gran mistero avvolge le origini di questo strano costume, o «arte» come la chiamano gli Hobbit. Tutte le notizie che fu possibile procurarsi, le riunì in un libro Meriadoc Brandibuck (Signore della Terra di Buck), e data la parte importante che tanto lui quanto il tabacco del Decumano Sud occupano in questo libro, è opportuno citare l’introduzione della sua opera intitolata L’Erborista della Contea.

«È questa un’arte», sostiene, «che possiamo certo dire di aver inventata noi. Quando gli Hobbit incominciarono a fumare nessuno lo sa; tutte le leggende e storie di famiglia ne parlano come di una abitudine esistita da sempre. Da secoli le genti della Contea fumavano vari tipi di erbe, le une amare, le altre più dolci. Un fatto sicuro è che il primo a coltivare l’autentica erba-pipa nei suoi giardini, ai tempi di Isengrim Secondo, verso l’anno 1070 secondo il Calendario della Contea, fu Tobaldo Soffiatromba di Pianilungone. Le varietà prodotte in quella regione, come la Foglia di Pianilungone, il Vecchio Tobia e la Stella del Sud, sono tuttora le più pregiate.

«Il Vecchio Tobia non volle mai svelare, nemmeno in punto di morte, dove scoprì quella pianta. Sapeva tutto sulle erbe, ma non era un gran viaggiatore. Pare che da giovane si recasse spesso a Brea, e certo non si allontanò mai più di tanto dalla Contea. È dunque possibile che sentisse parlare della pianta a Brea dove, ora perlomeno, cresce molto bene sulle falde delle colline. Gli Hobbit di quella regione pretendono infatti di essere stati i primi a fumare; sostengono di aver fatto tutto prima o meglio della gente della Contea, che chiamano “abitanti delle colonie”; e su questo punto credo che abbiano probabilmente ragione. Fu certo da Brea che l’arte di fumare l’autentica erba-pipa si è diffusa recentemente fra i Nani, i Raminghi, gli Stregoni, i viaggiatori che attraversavano quella regione e fra altre genti ancora. Il centro e nucleo di sviluppo di quest’arte fu così l’antica osteria di Brea Il Puledro Impennato, di proprietà della famiglia Cactaceo da tempo immemorabile.

«Ciò nonostante, dalle ricerche compiute da me personalmente durante numerosi viaggi nel Sud, risulta che detta erba non è originaria delle nostre parti; credo provenga invece dall’Ovesturia, e che fu poi da lì portata dagli Uomini, attraverso il Mare. A Gondor è abbondante, più folta e profumata che non a nord, dove non cresce spontanea e per sopravvivere e fiorire ha bisogno di luoghi caldi e riparati come Pianilungone. Gli Uomini di Gondor la chiamano dolce galenas, e ne apprezzano solo la fragranza dei fiori. Forse, nei secoli tra la venuta di Elendil ed i giorni nostri, fu trasportata verso nord lungo il Verdecammino. Persino i Numenoreani riconoscono che gli Hobbit furono i primi a metterla in una pipa. Prima di noi nemmeno gli Stregoni vi avevano pensato, benché uno di loto che conoscevo tanto tempo fa avesse appreso questa nostra arte e la praticasse, come tutte le altre arti che conoscevo, alla perfezione».

3. L’Ordinamento della Contea

La Contea era divisa in quattro regioni delle quali abbiamo già parlato: i Decumani Sud, Nord, Est ed Ovest: questi a loro volta erano divisi in un certo numero di signorie che portavano ancora i nomi delle antiche e potenti famiglie. Ma ai tempi della nostra storia questi nomi si trovavano anche fuori dalle rispettive signorie. Quasi tutti i Tuc vivevano ancora in Tuclandia, ma né i Baggins né i Boffin vivevano nelle loro antiche signorie. Fuori dei Decumani, vi erano i Confini Occidentali e Orientali; la Terra di Buck ed i Confini Occidentali furono aggiunti alla Contea nell’anno 1462.

La Contea non aveva in quel tempo un vero e proprio «governo». Ogni famiglia si occupava dei suoi affari. I lavori agricoli necessari per produrre i generi alimentari ed i continui pasti occupavano interamente le loro giornate. Negli altri settori non erano, in linea di massima, avidi ed ingordi bensì generosi e moderati, tanto che le dimensioni dei fondi, fattorie e botteghe rimanevano immutate per intere generazioni.

Avevano conservato l’antica tradizione che voleva il re a Fornost, o Roccanorda, come preferivano chiamare quel villaggio a nord della Contea. Ma da quasi mille anni non vi erano più re, e le rovine di Roccanorda erano invase dall’erba. Ciò nonostante gli Hobbit continuavano a dire, parlando di popoli selvaggi e di esseri crudeli (i Troll, per esempio), che non avevano mai conosciuto il re. Attribuivano infatti al re dei tempi antichi tutte le leggi fondamentali, e generalmente le osservavano di loro spontanea iniziativa, considerandole regole antiche e giuste.

La famiglia Tuc fu certo per molto tempo la più patente, poiché il titolo e le mansioni del Conte (dopo essere toccati ai Vecchiobecco) erano passati a loro. Il primogenito portava dunque il titolo di Conte; era il giudice supremo della Corte di Giustizia, presidente dell’Assemblea Nazionale e capo dell’esercito hobbit. Istituzioni che però esistevano solo in periodi di emergenza, ormai più unici che rari, per cui il «Conteato» non era altro che un’onorificenza. La famiglia Tuc godeva comunque di una stima e di un rispetto particolari, essendo numerosa ed immensamente ricca; inoltre, generava rampolli forti e volitivi, dalle abitudini bizzarre e dal temperamento avventuroso e spericolato. Ora che i tempi erano cambiati, questo lato del carattere dei ricchi era mal visto, e tollerato anziché apprezzato. Gli Hobbit, tuttavia, conservarono l’abitudine di chiamare il capo famiglia «il Tuc» e di aggiungere al suo nome, se necessario, un numero: per esempio, Isengrim Secondo.

L’unico vero e proprio ufficiale della Contea era il Sindaco di Pietraforata, eletto ogni sette anni alla Fiera Gratuita sui bianchi Poggi, in occasione della grande festa Lithe di Mezza Estate. Il solo compito del Sindaco era di presiedere i frequenti banchetti festivi; senonché, essendo egli anche Ministro delle Poste e Primo Guardacontea, doveva occuparsi contemporaneamente dei Servizi di Messi e della Guardia nazionale. Questi erano gli unici due servizi della Contea, e i Messi erano i più numerosi e di gran lunga i più attivi. Pochi tra gli Hobbit erano i letterati, ma coloro che lo erano scrivevano spessissimo a tutti gli amici ed a una scelta cerchia di parenti non raggiungibili con una passeggiata pomeridiana.

Guardacontea era il nome dato dagli Hobbit a quelli che più rassomigliavano ai nostri poliziotti. Non portavano certo uniformi (ne ignoravano persino l’esistenza), ma solo una piuma sul berretto, e si occupavano molto più degli smarrimenti di animali che non della sicurezza delle persone. Erano in tutto dodici, tre per ogni Decumano, addetti al Lavoro Interno. Un corpo armato più importante, i cui effettivi variavano secondo le necessità, era impiegato per sorvegliare le frontiere ed impedire a qualsiasi straniero, grande, piccolo o importante che fosse, di dare fastidio.

All’epoca in cui comincia la nostra storia, il numero dei Confinieri, come venivano chiamati, era notevolmente aumentato. Vi erano stati infatti molti rapporti e lagnanze su strani esseri ed ignote creature che vagavano attorno alle frontiere e che talvolta le attraversavano. Era questo il primo segno che le cose non andavano come dovevano e come in passato erano sempre andate, eccetto che nelle favole e leggende di tempi remoti. Eppure, quasi nessuno vi preste attenzione: nemmeno Bilbo si rese conto di ciò che poteva significare. Erano passati sessant’anni da quando era partito per il suo famoso viaggio, ed era considerato molto vecchio anche dagli Hobbit, che spessissimo raggiungevano i cento anni. Conservava ancora gran parte dell’enorme fortuna che aveva portata con sé al suo ritorno. A quanto ammontasse non lo rivelò mai a nessuno, nemmeno a Frodo, il suo nipote preferito. E non svelò mai il segreto dell’anello che aveva trovato.

4. A proposito della Scoperta dell’Anello

Il Libro Rosso racconta che un giorno si presentò alla porta di Bilbo il grande Stregone, Gandalf il Grigio, accompagnato da tredici Nani, tra i quali nientemeno che Thorin Scudodiquercia, discendente di re, ed i suoi dodici compagni d’esilio. Benché sbalordito e incredulo, Bilbo partì con loro, in una mattina d’aprile del 1341 (Calendario della Contea) alla ricerca del gran tesoro appartenuto ai Re dei Nani. Si diceva che fosse stato seppellito sotto la Montagna, nella Valle a sud di Erebor. Il Drago di guardia al tesoro fu ucciso. La spedizione fu coronata da un brillante successo. Tuttavia, nonostante la Battaglia dei Cinque Eserciti, durante la quale Thorin e molti altri valorosi cavalieri persero la vita, l’impresa non avrebbe avuto molto rilievo nella storia, o meritato più di un accenno nei lunghi annali della Terza Era, se non si fosse verificato uno strano incidente. Il gruppo diretto verso le Terre Selvagge fu assalito dagli Orchi in un alto valico delle Montagne Nebbiose; durante la lotta Bilbo si smarri nelle profonde miniere nere degli Orchi. Brancolando nel buio, posò una mano in terra, e gli capitò di trovare un anello. Gli parve, allora, un semplice caso, e si mise l’anello in tasca.

Cercando una via d’uscita, Bilbo giunse alla fine della galleria nel ventre della montagna. In quel luogo viveva Gollum, lontano dalla luce del giorno, su un isolotto in mezzo a un gran lago ghiacciato. Era un piccolo essere ripugnante: adoperava i grandi piedi piatti come remi, per muovere una piccola barca, mentre con pallidi occhi fosforescenti osservava i pesci ciechi che le sue lunghe dita afferravano ed infilavano, ancora vivi, in bocca. Mangiava ogni essere vivente che riusciva a catturare e strangolare, persino gli Orchi. Possedeva un tesoro segreto venuto in suo possesso molti anni prima, quando viveva ancora alla luce: un anello d’oro capace di, rendere invisibile colui che lo portava. Era l’unica cosa che amava, il suo «talismano» col quale parlava e discuteva anche quando non l’aveva con sé. Di solito lo teneva nascosto nel suo isolotto, al sicuro in un buco, fuorché quando cacciava o spiava gli Orchi al lavoro nella miniera.

Gollum avrebbe certo subito attaccato Bilbo se avesse avuto con sé l’anello al momento del loro incontro. Invece era l’Hobbit ad avere un’arma, un coltello elfico che adoperava a mo’ di spada. Per guadagnare tempo, il mostro lo sfidò al gioco degli enigmi: se Bilbo non fosse riuscito a risolvere gli enigmi, egli l’avrebbe ucciso e divorato; nel caso contrario, sarebbe stato lui a fare qualcosa per Bilbo: gli avrebbe mostrato, cioè, la via d’uscita dalla galleria.

Bilbo, smarrito nel buio, senza speranza, incapace sia di avanzare che di tornare indietro, accettò la sfida. Alla fine fu Bilbo a vincere, più per fortuna (sembra) che per intelligenza; infatti, non sapendo più che cosa chiedere, ed avendo inavvertitamente toccato l’anello raccolto nella galleria, domandò: «Che cosa ho in tasca?»; Gollum, pur avendo dato tre risposte, non riuscì a trovare quella giusta.

I pareri dei Commentatori sono discordi, se considerare veramente, cioè in base alle regole del gioco, l’ultima domanda di Bilbo come un vero e proprio «enigma» oppure come una semplice «domanda»; ma tutti sono d’accordo nel dire che Gollum, avendo accettato la sfida e tentato di risolvere l’ultime quesito, era irrevocabilmente tenuto a rispettate la promessa. Bilbo, colto dall’improvvisa idea che quella viscida creatura potasse essere falsa e bugiarda, pregò vivamente Gollum di mantenere la parola, vincolo sacro che nessuno oserebbe mai rompere. Ma dopo anni di buio, il cuore di Gollum era diventato nero e in lui covava la falsità: fuggi furtivamente sulla sua isoletta in mezzo alle scure acque, di cui Bilbo ignorava l’esistenza. Lì, pensava, era il suo «talismano» che l’avrebbe protetto e confortato, ora che si sentiva furioso ed affamato.

Ma l’anello era sparito; l’aveva perso, glielo avevano rubato. Mandò un urlo che fece rizzare i capelli sulla testa di Bilbo, il quale non aveva pero capito che cosa fosse successo. Un’idea balenò improvvisamente nella mente di Gollum: «Ecco che cosa aveva in tasca!», gridò, e si precipitò per ammazzare l’Hobbit e riprendersi il suo tesoro. Nell’oscurità gli occhi di Gollum brillavano come una fiamma verde. Bilbo si accorse del pericolo giusto in tempo per fuggire su per la galleria lontano dal lago: e di nuovo la sua buona stella lo salve. Mentre correva, mise una mano in tasca e l’anello gli si infilò dolcemente al dito. Gollum lo sorpassò e si mise a guardia dell’uscita per impedire al «ladro» di scappare. Bilbo, seguendo stancamente il mostro che imprecava e piagnucolava, indovinò il segreto dell’anello: aveva trovato lui il magico amuleto e con esso lì il modo per sfuggire agli Orchi e a Gollum. La speranza fu come una luce nell’oscurità.

Infine arrivarono davanti ad un’apertura pressoché invisibile che conduceva alle uscite inferiori della miniera sul lato est della Montagna. Gollum si mise all’agguato e Bilbo fu tentato di ucciderlo con la spada. Ma la pietà glielo impedì, ed egli non volle che l’anello, unica sua speranza di sopravvivenza, gli servisse per ammazzare una creatura impaurita e in situazione di svantaggio. Raccogliendo tutte le proprio forze, saltò al di là di Gollum nel buio, e scappò giù per il passaggio, inseguito dalle grida di odio e di disperazione del suo nemico: «Al ladro, al ladro! Baggins! Sia maledetto in eterno!».

* * *

Lo strano è che la prima versione dei fatti data da Bilbo ai suoi compagni era molto diversa da questa. Egli infatti disse loro che Gollum gli aveva promesso un «regalo» se avesse vinto il gioco; quando poi era andato sull’isola a cercare l’anello, si era accorto che il suo tesoro era sparito: un anello magico che gli era stato regalato molto tempo prima per il suo compleanno. Bilbo si sarebbe reso conto allora che si trattava dell’anello trovato nel tunnel, ma non avrebbe detto niente e come premio, invece del gioiello, si sarebbe fatto indicare l’uscita. Questo è ciò che Bilbo scrisse nelle sue memorie, e sembra non aver mai più, nemmeno dopo il Consiglio di Elrond, modificato il testo che è così riportato dall’edizione originale del Libro Rosso e da molte copie e riassunti. Solo le copie più tardive contengono ambedue le versioni, ispirate agli appunti di Frodo e di Samvise, i quali, malgrado fossero venuti a conoscenza della verità, si mostrarono sempre molto resta a cancellare e distruggere qualcosa scritta di proprio pugno dal loro compatriotta.

Chi fin dal principio non credette mai alla storia raccontata da Bilbo, fu Gandalf, che continuò ad essere molto incuriosito dalla storia dell’anello. Dopo innumerevoli interrogatori che dettero origine a una certa tensione nei loro rapporti, Gandalf riuscì finalmente ad apprendere da Bilbo la verità. Lo stregone teneva molto a conoscere l’esatta versione dei fatti e considerava preoccupante e sospetto che il caro amico non gli avesse detto la verità sin dall’inizio, come aveva sempre fatto. L’idea del «regalo» non era comunque una semplice invenzione alla hobbit. Gliel’avevano suggerita, dichiarò poi Bilbo, le parole borbottate da Gollum, che riferendosi più volte all’anello, lo aveva chiamato «regalo di compleanno». Anche questo Gandalf lo trovava strano ed ambiguo, ma la verità non gli fu rivelata che anni ed anni dopo, come vedremo più in là.

Sulle ultime avventure di Bilbo non vi è più molto da dire. Grazie all’anello, riuscì a varcare l’uscita della miniera ed a fuggire lontano dagli Orchi, raggiungendo i compagni. Adoperò l’anello molte altre volte prima di rientrare a casa, specialmente per venire in aiuto agli amici, mantenendo tuttavia il segreto per quanto gli fu possibile. Al suo ritorno ne parla unicamente a Gandalf e a Frodo; nessun altro nella Contea conosceva l’esistenza dell’anello, o perlomeno così egli credeva. Soltanto a Frodo mostrò ciò che stava scrivendo: il diario del suo viaggio.

Al suo ritorno, Bilbo appese la spada Pungolo sul camino e preste ad un museo, e precisamente al Palazzo Mathom di Pietraforata, la meravigliosa armatura proveniente dal tesoro del Drago e regalatagli dai Nani. Ma conservò in un cassetto di Casa Baggins l’antica mantella con cappuccio che aveva portato durante il viaggio, e in tasca, assicurato ad una catenella, il prezioso anello che non lasciava mai.

Ritornò a Casa Baggins il 22 giugno; aveva allora cinquantadue anni (C.C. 1342), e nella Contea non si verificò alcun fatto degno di nota fino ai preparativi per festeggiare il suo centoundicesimo compleanno. È qui che incomincia la nostra Storia.

Nota sulla documentazione della Contea

La parte sostenuta dagli Hobbit negli avvenimenti della Terza Era che portarono all’annessione della Contea al Reame Unificato, destò in loro un crescente interesse per la propria storia; molte delle loro tradizioni, tramandate fino allora per via orale, furono raccolte e trascritte. Le grandi famiglie si interessarono anche degli avvenimenti occorsi nelle altre parti del Reame e molti dei loro membri ne studiarono le antiche storie e leggende. Alla fine del primo secolo della Quarta Era, vi erano già nella Contea numerose biblioteche ricche di libri storici e di preziosi documenti.

Le collezioni più belle e numerose si trovavano probabilmente a Sottotorri, ai Grandi Smial, ed a Villa Brandy. La nostra storia, che riguarda la fine della Terza Era, è tratta per la maggior parte dal Libro Rosso dei Confini Occidentali. Il nome di questa importante fonte di notizie sulla Guerra dell’Anello è dovuto al fatto che fu a lungo conservata a Sottotorri dai Belpiccolo, Custodi dei Confini Occidentali[7]. Era originariamente il diario privato di Bilbo, che egli recò con sé a Gran Burrone. Frodo, avendolo riportato nella Contea assieme ad altri numerosi appunti, lo completò nel 1420-1421 (C.C.) con la storia della Guerra. Egli vi annesse tre grossi volumi rilegati in pelle rossa, donatigli da Bilbo come regalo d’addio. A Sottotorri aggiunsero poi, a questi quattro volumi, un quinto contenente commentari genealogici, ed altro materiale riguardante gli Hobbit della Compagnia dell’Anello.

L’originale del Libro Rosso non è pervenuto fino a noi, ma abbiamo gran parte delle copie fatte per i discendenti di Samvise. La più importante ha una storia complessa. Scritta a Gondor, probabilmente su richiesta del pronipote di Peregrino, e completata nell’anno Grandi Smial. Lo scriba aggiunse la nota seguente: «Findegil, Scrittore del Re, conclude il suo lavoro nell’anno 172 della Quarta Era. È la copia dettagliata e precisa del Libro del Conte che si trova a Minas Tirith. E questo a sua volta è la copia fatta su richiesta del Re Elessar, del Libro Rosso di Periannath. Quest’ultimo era stato portato al Re dal Conte Peregrino nel 64 della Quarta Era (anno del suo ritorno a Gondor)».

Il Libro del Conte fu dunque la prima copia del Libro Rosso e contiene tutto ciò che nelle edizioni seguenti fu perduto oppure omesso. A Minas Tirith fu molto commentato, ed in particolare furono corretti alcuni nomi, termini e citazioni in lingua gnomica; vi fu anche aggiunto un riassunto del Racconto di Aragorn ed Arwen. La versione integrale pare sia stata scritta da Barallir, nipote del Commissario Faramir, poco dopo la morte del Re. Ma l’importanza dell’opera di Findegil è dovuta principalmente al fatto che essa è l’unica copia contenente le complete Traduzioni dall’Elfico di Bilbo. Si tratta di tre volumi, scritti tra il 1403 ed il 1418, che dimostrano l’abilità e l’erudizione dell’autore nel servirsi di tutte le fonti d’informazione disponibili a Gran Burrone. Essi trattano unicamente dei Tempi Remoti, e Frodo non li adoperò affatto, per cui non è necessario parlarne in questa sede.

Da quando Meriadoc e Peregrino erano diventati i capi delle rispettive influenti famiglie, mantenendo però le conoscenze ed i rapporti che avevano con Rohan e con Gondor, le biblioteche di Tucboro e di Buckburgo si riempirono di opere indipendenti dal Libro Rosso. A Villa Brandy ve ne erano che parlavano dell’Eriador e della storia di Rohan. Alcune fu proprio Meriadoc a comporle o ad iniziarle; tra i suoi lavori erano tuttavia più popolari L’Erborista della Contea, ed il Calcolo degli Anni nel quale confrontava i calendari della Contea e di Brea con quelli di Gran Burrone, Gondor e Rohan. Scrisse anche un breve trattato intitolato Antichi termini e Nomi della Contea, nel quale mostrava un particolare interesse per la ricerca di termine tipici della Contea, come per esempio mathom, e di elementi arcaici nei nomi delle località che avevano affinità con la lingua dei Rohirrim.

I libri della biblioteca dei Grandi Smial, benché contenessero cronache storiche più dettagliate e minuziose, erano di minor interesse per le genti della Contea; nessun volume era stato scritto da Peregrino, il quale però aveva raccolto molte opere redatte dagli scribi di Gondor: erano in maggior parte copie o riassunti di storie e leggende su Elendil ed i suoi successori. I Grandi Smial erano l’unico posto della Contea dove si potevano trovare esaurienti documentazioni relative alla storia di Nùmenor ed all’ascesa di Sauron. Fu inoltre probabilmente compilata lì, grazie al materiale raccolto da Meriadoc, la Cronaca degli Anni.[8] Benché le date, specialmente quelle della Seconda Era, siano spesso ipotetiche, esse meritano l’attenzione dei lettori. Forse Meriadoc trovò gran parte delle informazioni a Gran Burrone, dove si recò più volte. Vivevano colà, assieme a qualche Alto Elfo, i figli di Elrond, rimasti dopo la partenza del padre. Dicono che Celeborn vi si trasferì dopo che Galadriel se ne era andata via; ma nessuno conosce il giorno in cui egli disse addio ai Rifugi Oscuri, portando con sé l’ultimo vivido ricordo dei Tempi Remoti della Terra di Mezzo.

LIBRO PRIMO

CAPITOLO I UNA FESTA A LUNGO ATTESA

Quando il signor Bilbo Baggins di Casa Baggins annunziò che avrebbe presto festeggiato il suo centoundicesimo compleanno con una festa sontuosissima, tutta Hobbiville si mise in agitazione.

Bilbo era estremamente ricco e bizzarro e, da quando sessant’anni prima era sparito di colpo, per ritornare poi inaspettatamente, rappresentava la meraviglia della Contea. Le ricchezze portate dal viaggio erano diventate leggendarie, ed il popolo credeva, benché ormai i vecchi lo neghino, che la collina di Casa Baggins fosse piena di grotte rigurgitanti di tesori. E, come se ciò non bastasse, ad attirare l’attenzione di tutti contribuiva la sua inesauribile, sorprendente vitalità. Il tempo passava lasciando poche tracce sul signor Baggins: a novant’anni era tale e quale era stato a cinquanta, a novantanove incominciarono a dire che si manteneva bene: sarebbe stato più esatto dire che era immutato. Vi erano quelli che scuotevano la testa, borbottando che aveva avuto troppo dalla vita: non sembrava giusto che qualcuno possedesse (palesemente) l’eterna giovinezza ed allo stesso tempo (per fama) ricchezze inestimabili.

«Sono cose che dovremo scontare», dicevano; «non è secondo natura, e ci porterà dei guai!».

* * *

Ma finora guai non ve ne erano stati, ed essendo il signor Baggins generoso, la gente gli perdonava facilmente le sue stranezze e la sua fortuna. Mantenne i rapporti con i parenti (eccetto naturalmente i Sackville-Baggins) e contava molti devoti ammiratori fra la gente umile e ordinaria. Ma non ebbe amici intimi fin quando alcuni suoi giovani cugini non incominciarono a diventare grandi.

Il maggiore ed il preferito era Frodo Baggins. A novantanove anni Bilbo lo adottò e lo portò con sé a Casa Baggins, e tutte le speranze dei Sackville-Baggins sfumarono. Si dà il caso che tanto Bilbo quanto Frodo festeggiassero il compleanno il 22 settembre. «Sarebbe meglio che tu venissi a stare da me», disse un giorno Bilbo, «così potremmo festeggiare insieme i nostri compleanni». A quell’epoca Frodo era ancora negli enti, come gli Hobbit chiamavano gli irresponsabili anni tra l’infanzia e la maggiore età (33).

* * *

Passarono dodici anni. Ad ogni compleanno avevano organizzato a Casa Baggins gradevoli feste; era chiaro che questa volta preparavano qualcosa di veramente eccezionale. In autunno Bilbo avrebbe compiuto centoundici anni; 111, un numero un po’ curioso ed una veneranda età per un Hobbit (il Vecchio Tuc stesso aveva raggiunto soltanto i centotrenta anni); Frodo ne avrebbe compiuti trentatré era un numero importante, perché segnava la data della maggiore età.

La gente incominciò a parlarne a Hobbiville ed a Lungacque; la notizia dell’evento imminente si sparse in tutta la Contea. La storia della vita ed il carattere del signor Baggins tornarono ad essere l’argomento principale di conversazione. Molti facevano cerchio intorno agli anziani per farsi raccontare ciò che ricordavano di lui.

Il pubblico più attento era certo quello del vecchio Ham Gamgee detto il Gaffiere, alla piccola osteria L’Edera sulla via per Lungacque. Parlava autorevolmente, essendo stato per quarant’anni giardiniere di Casa Baggins e ancora prima aiutante del vecchio Forino. Adesso che stava diventando anche lui vecchio e reumatizzato, il suo figlio minore Sam Gamgee si occupava del lavoro. Sia il padre che il figlio erano in ottimi rapporti con Bilbo e con Frodo. Vivevano anch’essi sulla Collina, al numero 3 di via Saccoforino, appena un po’ più in giù di Casa Baggins.

«Il signor Bilbo è un gentilhobbit, l’ho sempre detto, molto simpatico e perbene», dichiarò il Gaffiere. Era la pura verità: Bilbo lo trattava molto bene, chiamandolo «Mastro Ham» e informandosi costantemente circa la crescita delle verdure. In materia di «radici» e in particolar modo di patate, il Gaffiere era considerato da tutto il vicinato (e da se stesso) il migliore esperto.

«Com’è quel Frodo che vive con lui?», s’informò il vecchio Naquercio di Lungacque. «Si chiama Baggins, ma pare che sia più che per metà di sangue Brandibuck. Non so proprio perché diamine un Baggins di Hobbiville sia andato a cercarsi una moglie nella Terra di Buck, dove la gente è così strana».

«Non c’è da meravigliarsi se è strana», interruppe Nonno Duepiedi (il vicino di casa del Gaffiere): «vivono sulla riva sbagliata del Brandivino, vicinissimo alla Vecchia Foresta. Se le storie che raccontano sono vere, è certo un posto buio e pericoloso».

«Hai ragione, Nonno!», disse il Gaffiere. «I Brandibuck non vivono nella Vecchia Foresta, tuttavia sono proprio una strana razza. Trafficano con barche su quel grande fiume, e non è una cosa normale. Non ci sarebbe da stupirsi se un giorno o l’altro capitasse loro qualche guaio. Comunque, di Hobbit gentili come il signor Frodo è difficile incontrarne. Somiglia moltissimo al signor Bilbo, e non soltanto fisicamente. Dopo tutto suo padre era un Baggins. Che persona onesta e rispettabile il signor Drogo Baggins! Non ci fu mai niente da dire sul suo conto fin quando non annegò».

«Annegato?», chiesero parecchie voci. Avevano naturalmente già sentito parlare di questo e di altri strani fatti, ma la passione tipicamente hobbit per le storie di famiglia li spingeva a riascoltare tutto da capo.

«Perlomeno, così si racconta», rispose il Gaffiere. «Bisogna innanzi tutto sapere che il signor Drogo sposò la povera signorina Primula Brandibuck, cugina in primo grado del signor Bilbo da parte di madre (la madre era la figlia minore del Vecchio Tuc); il signor Drogo era cugino in secondo grado del signor Bilbo, quindi Frodo e Bilbo sono cugini sia in primo che in secondo grado, mi seguite? Il signor Drogo era a Villa Brandy col suocero, il vecchio Padron Gorbadoc; vi si recava spesso da quando si era sposato, poiché aveva una spiccata tendenza al mangiare, e Gorbadoc offriva banchetti succulenti ed abbondanti. Mentre con sua moglie faceva una gita in barca sul Fiume Brandivino, caddero tutti e due in acqua ed annegarono, ed il povero signorino Frodo, ancora bambino, rimase solo».

«Ho sentito dire che fecero la gita dopo pranzo, al chiaro di luna», disse il vecchio Naquercio, «e che fu il peso di Drogo a far affondare la barca».

«Io invece ho sentito dire che la moglie lo spinse fuori dalla barca e che lui se la trascinò dietro», disse Sabbioso, il mugnaio di Hobbiville.

«Non dovresti far caso a tutto ciò che ti dicono, Sabbioso», replicò il Gaffiere che non aveva molta simpatia per il mugnaio. «Non c’è nessuna ragione di parlare di spinte o di altre cose simili. Le barche sono insidiose per chi se ne sta tranquillamente seduto senza prevedere gli eventuali pericoli. Comunque, eravamo rimasti che il povero signorino Frodo si trovò improvvisamente orfano ed abbandonato in mezzo a quegli strani Bucklandesi, come li chiamereste voi; fu cresciuto ed educato a Villa Brandy, una vera e propria caserma, dove risiedevano permanentemente non meno di un paio di centinaia di parenti del vecchio Padron Gorbadoc. Bisogna riconoscere che il signor Bilbo fece un gran bel gesto riportando il ragazzo a vivere tra la gente normale.

«Quelli che ci rimasero male furono i Sackville-Baggins. Avevano creduto di diventare loro i padroni di Casa Baggins quella volta che Bilbo partì e che tutti lo credevano morto. Ed eccolo che ritorna e li caccia via, e continua a vivere anni ed anni, senza mai invecchiare di un solo giorno, che sia benedetto! Ed un bel giorno spunta fuori con un erede e le carte tutte in regola. I Sackville-Baggins non metteranno mai più piede in Casa Baggins, o perlomeno è da sperarsi».

«C’è un bel gruzzolo di soldi nascosto lassù, mi hanno detto», intervenne uno straniero in viaggio d’affari da Pietraforata al Decumano Ovest. «Pare che la cima della collina sia piena zeppa di forzieri d’oro e d’argento e di gioielli».

«Allora voi ne sapete più di me», rispose il Gaffiere; «io non ho mai sentito parlare di gioielli. Il signor Bilbo non ha certo problemi finanziari, ed è libero di adoperare il suo denaro come meglio crede; ma non penso che si sia messo a scavare gallerie. Io lo vidi al suo ritorno dal Viaggio, che risale a sessanta anni fa, quando ero ancora ragazzo. Da poco facevo pratica dal vecchio Forino, cugino di mio padre, che mi mise a guardia del giardino, per impedire alla gente di gironzolare e di calpestare tutto. E un bel giorno arrivò il signor Bilbo su per la collina, con un piccolo cavallo carico di enormi sacchi e di un paio di casse. Non metto in dubbio che fossero pieni di tesori provenienti da terre straniere, dove pare che le montagne siano d’oro, ma non erano in numero sufficiente da riempire delle gallerie. Mio figlio Sam ne saprà più di me; va e viene da Casa Baggins. È pazzo per le storie dei vecchi tempi e sta ore ed ore ad ascoltare il signor Bilbo che le racconta. Il padrone gli ha anche insegnato a leggere e scrivere, senza cattive intenzioni, beninteso, e spero che non ne verrà niente di male.

«Elfi e Draghi!, gli dico. Cavoli e patate son fatti per gente come noi. Non t’impicciare degli affari dei tuoi superiori, o ti capiteranno guai a non finire, gli dico. E lo dico anche a voi», aggiunse lanciando uno sguardo al mugnaio ed al forestiero.

Ma il Gaffiere non riuscì a convincere gli ascoltatori; la leggenda della ricchezza di Bilbo era troppo profondamente radicata nella mente dei più giovani.

«Sì, ma figuriamoci quante cose avrà aggiunte a quelle che portò la prima volta», ribatté il mugnaio, esprimendo ciò che tutti pensavano. «Sta spesso fuori casa, c’è tutta quella gente di fuori che va a trovarlo, Nani che entrano di notte, quel vagabondo prestigiatore di un Gandalf e tutti gli altri: di’ pure quel che vuoi, Gaffiere, ma Casa Baggins è un posto equivoco, e gli abitanti lo sono ancora di più».

«Mi sembra che sia piuttosto lei, caro signor Sabbioso, a dire quel che le pare su di un argomento che conosce ancora meno delle barche, ed è tutto dire», disse il Gaffiere rispondendo per le rime e detestando il mugnaio più che mai. «Se sono equivoci loro, avremmo bisogno di un po’ più di gente equivoca da queste parti. Fra di noi c’è chi non offrirebbe un bicchiere di vino ad un amico, anche se avesse le pareti di casa ricoperte d’oro. A Casa Baggins si che fanno bene le cose! Il mio Sam dice che tutti saranno invitati alla festa e che a ciascuno, dico bene a ciascuno, sarà dato un regalo. Pensate, manca meno di un mese!».

* * *

Quel mese era settembre, il più bel settembre che ci si potesse augurare. Qualche giorno dopo si sparse la notizia (probabilmente fornita dall’autorevole Sam) che ci sarebbero stati fuochi d’artificio, come non se ne erano visti nella Contea da più di un secolo, da quando era morto il Vecchio Tuc.

Il tempo passava e «il giorno» si avvicinava. Uno strano carro pieno di strani pacchetti arrivò una sera a Hobbiville e salì faticosamente la collina che portava a Casa Baggins. Gli Hobbit sbalorditi uscirono tutti sulle soglie illuminate dai lampioni per vederlo meglio. Era guidato da gente di fuori, che cantava insolite canzoni: Nani con lunghe barbe e cappucci a punta. Qualcuno di loro rimase a Casa Baggins. Alla fine della seconda settimana di settembre, un carro proveniente dal Ponte sul Brandivino traversò Lungacque in pieno giorno. Era guidato da un vecchio con un aguzzo cappello blu, un largo mantello grigio ed una sciarpa color argento. Aveva una folta barba e sopracciglia cespugliose che spuntavano oltre le falde del cappello. Un gruppo di bambini hobbit seguì il carro, correndo attraverso Hobbiville e poi su per la collina. Avevano indovinato giusto: portava un carico di fuochi d’artificio. Davanti alla porta di Casa Baggins il vecchio si mise a scaricare; c’erano grossi pacchi di tutte le forme, contrassegnati con una grande G rossa e con la runa elfica E .

Era naturalmente il sigillo di Gandalf, ed il vecchio era Gandalf in persona, lo Stregone la cui fama nella Contea era dovuta in primo luogo alla sua abilità nel maneggiare fuochi, fumi e luci. Il suo vero lavoro era di gran lunga più difficile e pericoloso, ma la gente della Contea non lo sospettava nemmeno. Per loro rappresentava soltanto una delle tante attrazioni della festa. I bambini hobbit, eccitatissimi, gridarono: «G come Grandioso!», ed il vecchio sorrise. Lo conoscevano di vista, benché non venisse a Hobbiville che rare volte e si fermasse poco; ma non avevano mai, né loro né gli altri, a meno che non fossero più che anziani, assistito ad uno dei suoi spettacoli pirotecnici, ricordi di un passato leggendario.

Quando il vecchio ebbe finito di scaricare, aiutato dai Nani e da Bilbo, questi regalò qualche spicciolo ai bambini, che rimasero tuttavia molto contrariati di non ricevere né razzi, né petardi.

«Correte via, adesso!», disse Gandalf. «State certi che ne avrete in abbondanza quando sarà venuto il momento». Quindi sparì in casa assieme a Bilbo e la porta si chiuse dietro di loro. I piccoli fissarono la porta invano per un bel po’ di tempo e, convinti che il giorno della festa non sarebbe mai arrivato, se ne andarono di malavoglia.

* * *

A Casa Baggins, Bilbo e Gandalf sedevano in una piccola stanza, davanti alla finestra spalancata sul giardino. Il tardo pomeriggio era luminoso e calmo. Bocche di leone, girasoli, nasturzi rossi e gialli, fiori incandescenti si arrampicavano su per i muri facendo capolino dalle finestre rotonde. «Com’è vivo e risplendente il tuo giardino!», esclamò Gandalf. «Sì», rispose Bilbo, «gli sono molto affezionato, come a tutta la mia cara vecchia Contea, ma credo di aver bisogno di una lunga vacanza».

«Vuoi dire che hai intenzione di continuare a seguire il tuo piano?».

«È così. Ho preso questa decisione alcuni mesi fa, e non ho cambiato idea».

«Molto bene. So ch’è inutile discuterne. Attieniti pure al tuo piano, a tutto il piano però, dalla prima all’ultima parola, e ti auguro di riuscirci nel migliore dei modi per te e per noi tutti».

«È quanto spero. Comunque ho intenzione di divertirmi giovedì, ed ho preparato un piccolo scherzo».

«Mi domando chi riderà», disse Gandalf scuotendo la testa.

«Lo vedremo», rispose Bilbo.

* * *

Il giorno dopo, decine e decine di carri salirono a Casa Baggins. Ci furono dei malcontenti che borbottarono qualcosa come «disprezzare le cose locali», ma in settimana migliaia di ordinazioni si riversarono da Casa Baggins, con richiesta di ogni tipo di attrezzi, provviste ed oggetti di lusso che fossero disponibili ad Hobbiville, a Lungacque ed in qualunque altro luogo nelle vicinanze. La gente fu presa dall’entusiasmo; si mise a contare i giorni che mancavano, aspettando col cuore in gola il fattorino, nella speranza di un invito.

Passarono pochi giorni e gli inviti cominciarono a riversarsi, bloccando l’ufficio postale di Hobbiville ed inondando letteralmente quello di Lungacque. Furono necessari altri fattorini: ve ne era sempre una schiera che saliva o scendeva la collina, recando centinaia di gentili variazioni sul tema: «Grazie infinite; saremo lieti di prender parte alla festa».

Un cartello fu attaccato al cancello di Casa Baggins: «VIETATO L’INGRESSO AI NON ADDETTI AI LAVORI PER LA FESTA», ma facevano entrare difficilmente anche coloro che partecipavano o pretendevano di partecipare ai lavori. Bilbo era occupatissimo: scriveva inviti, cancellava dalla lista coloro che avevano già risposto, imballava regali, e faceva per proprio conto dei preparativi strettamente personali. Fin dall’arrivo di Gandalf non si era fatto più vedere.

Una bella mattina, gli Hobbit si svegliarono e videro il grande campo, ai piedi della casa di Bilbo, coperto di corde e pali per sorreggere tende e padiglioni. Un’entrata fu ricavata nel muricciolo che dava sulla strada, abbellita da una gradinata a cui si accedeva attraverso un imponente cancello bianco. Le tre famiglie hobbit che abitavano nella via Saccoforino, limitrofa al campo, seguivano attentamente i lavori, invidiate da tutti. Il vecchio Gaffiere si fermava a guardare fingendo di lavorare in giardino.

Si innalzarono tende; un padiglione particolarmente grande coprì l’albero che cresceva in mezzo al campo, e che si trovò così orgogliosamente a capotavola del buffet principale. Lampioni furono appesi ad ognuno dei suoi rami e, fatto ancor più promettente (per gli Hobbit), fu installata un’enorme cucina all’aria aperta nell’angolo nord del piazzale. Da tutte le osterie e i ristoranti del paese arrivò una marea di cuochi per aiutare i Nani e gli altri strani personaggi che avevano il loro quartier generale in Casa Baggins. L’eccitazione era al culmine.

Mercoledì, la vigilia della festa, il cielo si annuvolò, e una profonda angoscia si sparse nella Contea. Ma venne l’alba di giovedì nubi: si alzarono le bandiere e fu dato il via ai divertimenti. Bilbo Baggins la chiamava una «festa», ma in realtà era un insieme di spettacoli e di divertimenti. Si può dire che tutti coloro che vivevano nelle vicinanze erano stati invitati, e se qualcuno, per sbaglio, fosse stato dimenticato, la cosa non era grave, poiché spuntava lo stesso. C’era anche molta gente delle altre regioni della Contea, e persino alcune persone arrivate da oltre confine. Bilbo in persona riceveva gli ospiti (e gli scrocconi), in piedi davanti al nuovo cancello bianco. Aveva doni per tutti, anche per coloro Che Uscivano dalla porta di servizio rientrando una seconda volta dal cancello. Gli Hobbit avevano l’abitudine di fare regali agli altri il giorno del proprio compleanno; di solito non si trattava di oggetti costosi, e venivano offerti molto meno generosamente che in quell’occasione; bisogna ammettere che non era un uso da condannare. Infatti a Hobbiville e a Lungacque ricorreva ogni giorno il compleanno di qualcuno: chiunque abitava da quelle parti aveva così la possibilità di ricevere almeno un regalo alla settimana, e malgrado la frequenza non ne erano mai stufi.

In questa occasione i doni erano straordinariamente belli. I bambini hobbit a causa dell’eccitazione per un po’ dimenticarono persino di mangiare. Giocattoli così meravigliosi non ne avevano mai visti, e ve ne erano anche di magici. Molti erano stati ordinati un anno prima, avevano fatto tutta la strada dal Monte e dalla Valle ed erano di autentica fabbricazione nanesca.

Quando il padrone di casa ebbe ricevuto tutti gli ospiti, si diede il via alle danze, alla musica, ai giochi, alle canzoni e, naturalmente, ci si precipitò a mangiare e bere. Tre erano i pasti ufficiali: colazione, merenda e pranzo (o cena). La colazione e la merenda erano caratterizzate dal fatto che gli invitati sedevano a tavola e mangiavano assieme. Durante il resto del tempo, si vedeva invece solo una quantità di gente che mangiava e beveva senza interruzione e ciò dalle undici alle sei e mezzo, ora in cui cominciò lo spettacolo pirotecnico.

I fuochi d’artificio erano di Gandalf: non solo era stato lui a portarli fino a Casa Baggins, ma li aveva anche progettati e costruiti, ed ora li proiettava nel cielo creando effetti particolari di piogge incandescenti e di razzi multicolori. Nel frattempo veniva distribuito un gran numero di petardi, girandole, mortaretti, castagnole, fiaccole, candele nane, fontane elfiche e scatole a sorpresa. Erano gli uni più belli degli altri. L’arte e l’abilità di Gandalf si erano perfezionate col passar del tempo.

Il cielo era illuminato a giorno: voli di scintillanti uccelli dal dolce canto; verdi alberi dai tronchi di fumo scuro, le cui foglie si aprivano come tutta una primavera sbocciata in un solo attimo; rami incandescenti dai quali piovevano sfavillanti fiori sui piccoli Hobbit strabiliati, boccioli che dileguavano in un profumo soave prima di sfiorare i loro visi volti verso l’alto; zampilli di farfalle svolazzanti che brillavano fra gli alberi; colonne di fuoco colorato s’innalzavano trasformandosi in aquile, nani e falangi di candidi cigni in volo; tempeste rosse, acquazzoni dalle gocce color limone; una foresta di lance argentate che si rizzò nello spazio col rumore di un esercito all’assalto, per piombare poi nell’acqua fischiando come cento serpenti arroventati. Vi fu poi l’ultima sorpresa in onore di Bilbo che, come aveva previsto Gandalf, sbigottì ed emozionò i presenti. Le luci si spensero; una massa di fumo s’innalzò: prese la forma di una montagna dalla cima incandescente vista in lontananza. Vomitava fiamme verdi e scarlatte, quindi dal suo ventre volò fuori un drago d’oro rosso, non in grandezza naturale, ma estremamente verosimile; sputava fuoco dalle possenti mascelle e lanciava verso il pubblico sguardi infuocati e terribili; ci fu un ruggito; poi il drago passò sibilando tre volte sulla testa della gente. Tutti si gettarono a terra e molti batterono la testa. Il drago tornò a passare su di loro alla velocità di un treno, fece un salto mortale e scoppiò nel cielo di Lungacque con un boato assordante.

«È il segnale per il pranzo!», disse Bilbo. Gli Hobbit, dimenticando immediatamente la paura, schizzarono in piedi come molle. La cena era splendida, con abbondanza per tutti; solo coloro che erano invitati allo speciale pranzo di famiglia non vi parteciparono. Il pranzo aveva luogo nel grande padiglione con l’albero e gli inviti erano strettamente riservati a dodici dozzine di persone (numero che gli Hobbit chiamavano «un lordo», termine che non era però considerato adatto alle persone). Gli ospiti erano tutti scelti tra le famiglie imparentate con Frodo e Bilbo, salvo qualche intimo amico come Gandalf. Vi erano molti giovani Hobbit che avevano avuto dai genitori il permesso di uscire; gli Hobbit erano infatti molto larghi di manica con i figli circa le uscite serali e le ore piccole, in particolar modo quando si presentava l’occasione di sfruttare un pasto gratuitamente. Tirar su i giovani Hobbit richiedeva enormi provviste alimentati.

C’erano moltissimi Baggins e Boffin, ed anche numerosi Tuc e Brandibuck; parecchi Scavari (parenti di Bilbo da parte della Nonna Baggins) e vari Paffuti (congiunti del Nonno Tuc), oltre a vari rappresentanti dei Rintanati, dei Bolgeri, dei Serracinta, dei Tassi, dei Boncorpi, dei Soffiatromba e dei Tronfipiede. Alcuni di questi erano molto lontanamente imparentati con Bilbo e alc-uni persino non erano mai stati a Hobbiville, poiché vivevano in remoti angoli della Contea. Nemmeno i Sackville-Baggins furono dimenticati: Otto e sua moglie Lobelia erano infatti tra i presenti. Trovavano Bilbo antipaticissimo e detestavano Frodo, ma davanti ad un biglietto d’invito tanto sontuoso, scritto in oro, pensarono che fosse impossibile rifiutare. Inoltre, il loro cugino Bilbo era da anni un espertissimo buongustaio, e la sua tavola era tenuta in grande considerazione.

I centoquarantaquattro ospiti aspettavano con ansia il succulento pasto, malgrado temessero il discorso commemorativo del padrone di casa (inevitabile conclusione). Bilbo era tipo da lanciarsi in reminiscenze poetiche, e talvolta, dopo qualche bicchierino, di rievocare le assurde avventure del suo misterioso viaggio. Gli ospiti non furono delusi: il banchetto fu estremamente piacevole, e li impegnò a fondo, per l’abbondanza, varietà, sontuosità e durata. Durante tutta la settimana che seguì, la richiesta di generi alimentari nella regione fu scarsa; ma i commercianti non se la presero troppo poiché gli approvvigionamenti di Bilbo avevano esaurito le scorte di tutti i negozi, dei magazzini e di tutte le cantine nel giro di alcune miglia.

Alla fine del pranzo (se si può chiamare fine), ci fu il discorso. I più, giunti ormai alla meravigliosa fase che chiamavano «saziare gli angoli», erano di buon umore e tolleranti. Centellinando la bevanda preferita e rosicchiando i deliziosi dolcetti, dimenticarono i loro timori. Erano pronti ad ascoltare qualsiasi cosa, e generosi nell’applaudire ad ogni pausa.

«Miei cari», cominciò Bilbo alzandosi in piedi.

«Silenzio! Silenzio! Ascoltate!», gridarono forte alcune voci,. ripetendo poi in coro a più riprese le stesse parole, come se riluttanti nel seguire il proprio ordine. Bilbo lasciò la tavola e salì su una sedia ai piedi dell’albero illuminato. La luce dei lampioni batteva sul suo viso sorridente; i bottoni d’oro brillavano sul panciotto, di seta ricamata. Era lì in piedi, con una mano infilata nella tasca dei calzoni, agitando l’altra per richiamare l’attenzione.

«Miei cari Baggins e Boffin», ricominciò, «beneamati Tuc e Brandibuck, Scavari e Paffuti, Rintanati e Soffiatromba, Bolgeri e Serracinta, Boncorpi, Tassi, e Tronfipiede».

«Tronfipiedi!», urlò furente un vecchio Hobbit dal fondo del padiglione. Il suo cognome era beninteso Tronfipiede, e a buon diritto: i suoi piedi erano enormi, straordinariamente pelosi, e ambedue posati nel bel mezzo del tavolo.

«Tronfipiede», ripeté imperterrito Bilbo; «ed infine miei cari Sackville-Baggins, benvenuti dopo tanto tempo di lontananza da Casa Baggins. Oggi è il mio centoundicesimo compleanno: adesso ho centoundici anni!».

«Hurrà! Hurrà! Tanti Auguri!», gridarono tutti assieme, battendo gioiosamente le mani sul tavolo. Bilbo stava parlando meravigliosamente bene; questo era il genere che piaceva loro: conciso ed evidente.

«Spero che vi stiate divertendo tutti come me». Applausi assordanti, voci che urlano «Sì!» (ed altre «No!»).Strombazzamenti, suono di zampogne, cornamuse, flauti ed altri strumenti musicali. Vi erano, come ho già detto, un’infinità di bambini hobbit, e centinaia di scatole a sorpresa musicali erano state festosamente distribuite. La maggior parte portava il marchio «Valle», il che non dispose molto favorevolmente gli Hobbit; ma riconobbero poi all’unanimità che erano meravigliose. Contenevano strumenti di piccole dimensioni, ma di perfetta fabbricazione e dal suono incantevole; tanto che un gruppo di giovani Tuc e Brandibuck, presumendo che Zio Bilbo avesse terminato il discorso (evidentemente era stato detto tutto il necessario), improvvisarono un’orchestrina ed attaccarono a suonare un’allegra marcetta. Messer Everardo Tuc e la signorina Melitot Brandibuck salirono sul tavolo e, scuotendo una campana che tenevano in mano, si lanciarono nello Scattanello: un ballo molto simpatico, ma un po’ troppo sfrenato.

Bilbo non aveva per niente finito il discorso. Afferrò il corno di un giovanotto che era in piedi vicino a lui, e suonò tre volte con tutte le sue forze. Il fracasso cessò d’un colpo.

«Non vi tratterrò a lungo», gridò acclamato dagli ospiti; «vi ho riuniti per un Motivo preciso». C’era qualcosa di preoccupante nel tono della sua voce. Il silenzio divenne quasi generale e un paio di Tuc aguzzarono le orecchie.

«Anzi, per tre Motivi! Innanzi tutto per dirvi che voglio tanto bene a voi tutti, e che centoundici anni di vita in mezzo a gente così straordinaria ed ammirevole non sono sufficienti». Scroscio di applausi ed acclamazioni.

«Conosco la metà di voi soltanto a metà; e nutro, per meno della metà di voi, metà dell’affetto che meritate». Era una frase inattesa e piuttosto intricata. Ci furono uno o due applausi qua e là, ma la maggior parte delle persone era troppo intensamente occupata a sbrogliarla per rendersi conto se era un complimento.

«In secondo luogo, per festeggiare il mio compleanno». Altre acclamazioni. «o, per meglio dire, il nostro compleanno. Oggi ricorre infatti il compleanno del mio nipote ed erede Frodo, il quale raggiunge la maggiore età, e viene in possesso della sua eredità». Qualche anziano batté meccanicamente le mani e si levarono da parte dei giovani grida di «Viva Frodo! Frodo! Buon vecchio Frodo!». I Sackville-Baggins guardarono torvo, domandandosi cosa significasse «venire in possesso della sua eredità».

«Il nostro numero complessivo è centoquarantaquattro. Siete stati scelti per raggiungere questo notevole totale: un “lordo’, per adoperare la nostra tipica espressione». Niente applausi: il tutto era semplicemente ridicolo. Molti ospiti ed in particolar modo i Sackville-Baggins, si sentivano insultati ed offesi, convinti di essere stati invitati unicamente per «riempire», come della merce in una cassetta. «Un “lordo”! Ci mancava solo questo! Che volgare!».

«Se mi è concesso riferirmi a tempi ormai lontani, è anche l’anniversario del mio arrivo a Esgaroth sul Lago Lungo, in una botte. In quell’occasione dimenticai completamente che era il giorno del mio compleanno. Avevo appena cinquantun anni allora, e uno di più o uno di meno non faceva molta differenza. Il banchetto fu splendido e divertentissimo malgrado il mio terribile raffreddore. Ricordo che riuscivo con fatica a dire “Grazie dande a duddi. È ciò che voglio ripetervi oggi, ma senza storpiare le parole: grazie tante a tutti per essere venuti alla mia piccola festa».

Silenzio ostinato. Tutti erano terrorizzati al pensiero che qualche canzone o poesia fosse imminente; si stavano annoiando a morte. Perché non se ne stava zitto e non li lasciava brindare in pace alla sua salute? Ma Bilbo non cantò né recitò. S’interruppe un istante e poi proseguì

«In terzo ed ultimo luogo, desidero fare un annuncio». Quest’ultima parola giunse così forte e all’improvviso, che molti saltarono in piedi (quelli che ne erano ancora capaci). «Mi rincresce dovervi comunicare che quantunque, come vi ho detto prima, centoundici anni trascorsi in mezzo a voi siano davvero troppo pochi, ora è giunta la fine. Me ne vado. Parto subito. Addio!».

* * *

Scese dalla sedia e scomparve. Una luce accecante abbagliò per un attimo gli invitati. Quando aprirono gli occhi, non c’era più nessuna traccia di Bilbo. Centoquarantaquattro Hobbit stralunati caddero a sedere. Il vecchio Odo Tronfipiede tolse i piedi dal tavolo e si mise a pestare per terra. Seguì un silenzio di tomba, fino al momento in cui, dopo qualche profondo respiro, ogni Baggins, Boffin, Tuc, Brandibuck, Scavari, Paffuti, Rintanati, Bolgeri, Serracinta, Tassi, Boncorpi, Soffiatromba e Tronfipiede incominciò a parlare contemporaneamente.

Erano tutti scandalizzati dal cattivo gusto dello scherzo, e decisero che bisognava bere e mangiare in abbondanza per guarire dallo choc e dal cattivo umore. «È pazzo. L’ho sempre detto», si sentiva dire da tutti a più riprese. Persino i Tuc (con qualche eccezione) consideravano assurdo e grottesco il comportamento di Bilbo. Per il momento la maggior parte degli invitati era convinta che la scomparsa del padrone di casa non fosse altro che uno stupido e ridicolo scherzo.

Ma il vecchio Rori Brandibuck non ne era tanto sicuro. Né l’età né tanto meno il pasto luculliano gli avevano offuscato la mente; disse a sua nuora Esmeralda: «C’è qualcosa di strano in tutto ciò, mia cara! Mi sa tanto che il nostro pazzo di un Baggins se ne è di nuovo andato via. Vecchio scemo! Ma non c’è da preoccuparsi: non si è portato via niente da mangiare», e chiamò forte Frodo per dirgli di mandare dell’altro vino.

Frodo era l’unico fra i presenti a non aver aperto bocca. Era rimasto per qualche minuto seduto in silenzio accanto alla sedia vuota di Bilbo, ignorando domande e commenti. Lo scherzo l’aveva divertito, benché fosse già al corrente di tutto. Davanti alla sdegnata sorpresa degli ospiti, con molta difficoltà era riuscito a trattenersi dal ridere. Ma allo stesso tempo si sentiva profondamente scosso: tutt’a un tratto si era reso conto che amava immensamente il vecchio Hobbit. La maggior parte degli ospiti aveva ripreso a mangiare ed a bere, discutendo sulle passate e presenti bizzarrie di Bilbo. Solo i Sackville-Baggins se n’erano andati via infuriati. Frodo non ne volle più sapere della festa. Dopo aver dato l’ordine di servire altro vino, finendo in silenzio il proprio bicchiere alla salute di Bilbo, uscì furtivamente dal padiglione.

* * *

Quanto a Bilbo Baggins, fin dalle prime parole del discorso, aveva giocherellato con l’anello d’oro nascosto in tasca: il suo magico anello ch’era riuscito a mantenere segreto per tanti anni. Mentre scendeva dalla sedia se lo infilò al dito, e nessun Hobbit lo vide mai più a Hobbiville.

Ritornò con passo arzillo nella sua tana, fermandosi un momento ad ascoltare, col sorriso sulle labbra, il frastuono che proveniva dal padiglione ed il rumore dei divertimenti nel resto del campo. Entrò. Si tolse l’abito scuro e lo piegò accuratamente, avvolse in carta velina il panciotto di seta ricamata e lo mise a posto. Indossò velocemente un vecchio vestito rattoppato e stretto alla vita da una logora cintura di cuoio e vi appese una sciabola inguainata in uno sdrucito fodero di pelle nera. Tolse da un cassetto chiuso una vecchia mantella con cappuccio, odorante di naftalina, che era stata tenuta a lungo sotto chiave come un oggetto prezioso, ma che era talmente rammendata e stinta, da non poterne più distinguere il colore: forse verde scuro. Gli andava molto grande. Si recò nello studio, e da una grande cassaforte estrasse un pacchetto avvolto in vecchi indumenti, un manoscritto rilegato in pelle rossa ed una busta voluminosa. Ficcò libro e pacchetto in un grosso sacco pesante che aveva preparato e che era ormai quasi pieno. Dopo avere infilato nella busta l’anello d’oro e la catenella, la chiuse, la sigillò e la indirizzò a Frodo. Dapprima la posò sulla mensola del camino, ma poi, ripensandoci, la riprese e la mise in tasca, In quel momento la porta si aprì e Gandalf entrò veloce.

«Ciao!», disse Bilbo. «Stavo proprio pensando se saresti venuto a salutarmi».

«Sono contento di trovarti finalmente visibile», rispose lo stregone sedendosi su una sedia; «volevo raggiungerti per scambiare le ultime quattro parole. Suppongo tu sia convinto che tutto è riuscito splendidamente e come previsto dal tuo piano».

«Proprio così», disse Bilbo. «Malgrado la sorpresa di quel lampo che se ha fatto trasalire me, figuriamoci gli altri! Una tua piccola aggiunta, suppongo».

«Hai indovinato. Saggiamente sei riuscito a mantenere segreto quell’anello per tutti questi anni, e mi è parso necessario dare ai tuoi ospiti qualcosa che potesse spiegare loro la tua improvvisa scomparsa».

«E rovinarmi lo scherzo. Sei un impertinente ficcanaso», disse ridendo Bilbo; «ma probabilmente tu sai meglio di me ciò che si deve fare, come al solito».

«Quelle rare volte che so qualcosa! Ma tutta questa storia non mi convince molto. Sei arrivato alla conclusione: hai fatto il tuo piccolo scherzo, spaventato ed offeso la maggior parte dei tuoi parenti, e dato alla Contea un argomento di conversazione per i prossimi nove giorni: anzi, direi per i prossimi novantanove. Hai qualche altra intenzione?».

«Certo. Sento proprio il bisogno di una vacanza, di una lunghissima e piacevole vacanza. Sarà probabilmente eterna; non credo proprio che tornerò. Ti dirò anzi che non ne ho alcuna intenzione e che ho già preso le misure necessarie. Sono vecchio, Gandalf. Non dimostro i miei anni, ma sto incominciando a sentire un peso in fondo al cuore. E poi dicono che mi mantengo bene!?», sbuffò. «Io che mi sento tutto magro, come dire, teso; rendo l’idea? Come del burro spalmato su di una fetta di pane troppo grande. Non è una cosa normale; devo aver bisogno di un cambiamento d’aria o roba simile».

Lo sguardo penetrante di Gandalf lo scrutò attentamente. «Hai ragione, non può essere normale», disse pensoso. «Ritengo che dopo tutto il tuo piano sia il migliore».

«Ho già deciso e predisposto tutto. Voglio rivedere le montagne, Gandalf, le montagne; e trovare un posto dove riposare. Pace e tranquillità, senza centinaia di parenti che ficcano il naso dappertutto, ed una coda di gente alla porta che vuole favori. Desidero trovare un posto dove poter finire il mio libro; ho immaginato una bellissima conclusione: “E visse felice e contento fino alla fine dei suoi giorni”».

Gandalf rise e disse: «Mi auguro che sia così. Ma nessuno leggerà il libro, qualunque sia la fine».

«Chissà forse tra molti anni qualcuno lo leggerà. E Frodo lo ha già letto fino al punto dove mi sono interrotto. Veglierai su Frodo e gli darai una mano, vero?».

«Certo, ogni volta che potrò fare a meno delle mani, gliele darò tutte e due».

«Sarebbe venuto con me se glielo avessi chiesto. Anzi, poco prima della festa, me l’ha proposto lui stesso, ma in fondo non è ancora convinto di voler partire. Ho bisogno di rivedere le zone selvagge e le montagne prima di morire; lui è ancora innamorato della Contea, dei boschi, dei campi e dei ruscelli. È qui che si sente a suo agio. Naturalmente gli lascio tutti i miei beni, eccetto qualche piccola cosa. Spero che sarà felice quando si sarà abituato a vivere solo: è giunta l’ora in cui deve diventare padrone di se stesso».

«Gli lasci proprio tutto? Anche l’anello, no? Eravamo già d’accordo su questo punto, ricordi?».

«Ma…. sì, forse sì, suppongo…», balbettò Bilbo.

«Dov’è?».

«In una busta, se lo vuoi proprio sapere», rispose Bilbo impaziente. «Là sul camino. Anzi, no! Ce l’ho qui in tasca!», esitò. «Che strano, però!», mormorò incantato. «Dopo tutto, perché no? Perché non dovrebbe rimanere dov’è?».

Per la seconda volta Gandalf lo fissò a lungo, con un bagliore negli occhi. «Credo, Bilbo», disse pacatamente, «che sarebbe meglio lasciarlo, quest’anello. Non ne hai voglia?».

«Be’, sì e no. Ora che è giunto il momento, ti confesso che non mi garba affatto dovermene privare. E non vedo poi perché lo dovrei fare. Che motivo ci sarebbe?», chiese; e la sua voce mutò improvvisamente, diventando aspra, diffidente e seccata. «Non fai altro che infastidirmi con questa storia dell’anello; eppure non ti sei mai preoccupato di tutti gli altri oggetti che ho portato dal Viaggio».

«Infatti, ma dovevo infastidirti, perché volevo la verità», replicò Gandalf. «Era molto importante. Gli anelli magici sono, come dire… magici; inoltre sono strani e rari. Ero interessato al tuo anello da un punto di vista direi quasi professionale, e lo sono tuttora. Desidero sapere dov’è, se te ne parti di nuovo per uno dei tuoi viaggi. Comunque penso che tu l’hai tenuto abbastanza. Non ne avrai più bisogno, Bilbo, ne sono certo».

Bilbo arrossì, ed una scintilla di collera brillò nei suoi occhi. Il suo viso affettuoso si fece duro. «E perché no?», gridò; «non tocca a te impicciarti di ciò che faccio delle cose che mi appartengono. L’anello è mio. Sono stato io a trovarlo: è toccato a me».

«Certo, certo», disse Gandalf, «ma non c’è bisogno d’arrabbiarsi».

«Se sono arrabbiato è unicamente colpa tua», replicò Bilbo; «è mio, ti dico, è la mia proprietà, il mio tesoro; sì il mio tesoro».

Il viso dello stregone rimase grave e vigile, e soltanto un barlume nel più profondo dei suoi occhi mostrò che era sorpreso e molto allarmato.

«Qualcuno già prima di te l’ha chiamato il suo tesoro».

«Ed ora sono io a chiamarlo così! Perché non dovrei, anche se tanto tempo fa lo disse Gollum? Ed ho intenzione di tenerlo, capito?».

Gandalf si alzò in piedi. Parlò severamente. «Sei un pazzo se lo fai, Bilbo», disse; «ogni tua parola dimostra sempre più chiaramente che sei diventato schiavo di quell’anello. Devi disfartene, e poi potrai partire ed essere libero».

«Farò quel che mi pare e andrò dove mi piace», ribatté ostinato Bilbo.

«Ma mio caro Hobbit», esclamò Gandalf, «siamo stati amici per tutta la vita e mi devi qualcosa. Suvvia! Mantieni la promessa: rinuncia all’anello».

«Senti, se lo vuoi tu, dillo una buona volta!», urlò Bilbo, «ma sii certo che non l’avrai. Non darò mai via il mio tesoro: ecco la mia risposta». E posò la mano sull’elsa della sua piccola spada.

Gli occhi di Gandalf lanciarono fiamme. «Fra poco sarò io ad arrabbiarmi», disse. «Guai a te se ripeti una sola volta quel che hai detto! Vedrai Gandalf il Grigio perdere le staffe». Fece un passo in direzione di Bilbo e parve che si ergesse alto e minaccioso; la sua ombra riempì la piccola stanza.

L’Hobbit indietreggiò verso il muro, ansimante, con la mano avvinghiata alla tasca. Rimasero così per qualche istante, uno dirimpetto all’altro, e l’aria della stanza sembrò vibrare come una corda tesa. Lo sguardo di Gandalf rimase fisso su Bilbo. Lentamente le mani dell’Hobbit allentarono la presa ed egli incominciò a tremare.

«Non capisco che cosa ti succeda, Gandalf», disse; «non ti ho mai visto così prima d’oggi. Che vuoi? L’anello è mio, no? Sono stato io a trovarlo, e Gollum mi avrebbe ucciso se non l’avessi tenuto. Checché egli abbia detto, io non sono un ladro».

«Non ti ho mai accusato di esserlo», rispose Gandalf, «e nemmeno io lo sono. Non sto cercando di derubarti, ma di aiutarti. Vorrei che tu ti fidassi di me come nel passato». Si allontanò, e l’ombra scomparve. Sembrò rimpicciolirsi e tornare ad essere un vecchio grigio, curvo ed inquieto.

Bilbo si passò la mano sugli occhi. «Mi dispiace», disse, «ma mi sentivo così strano. Eppure in un certo senso sarebbe un sollievo non aver più questo assillo. È diventato un peso per me, negli ultimi tempi. A volte mi sembra come un occhio che mi guarda fisso, e ad ogni momento sono tentato di metterlo al dito e di sparire, sai? Oppure mi domando se è al sicuro e lo tolgo dalla tasca per accertarmene. Ho cercato di chiuderlo sotto chiave, ma ho scoperto che non avevo pace sentendolo lontano da me. Non so proprio perché, e non riesco nemmeno a prendere una decisione».

«Allora abbi fiducia nel mio consiglio. È una decisione già presa. Parti e lascialo qui: separatene. Dallo a Frodo ed io veglierò su di lui».

Bilbo rimase un minuto teso ed incerto. Infine sospirò. «Va bene», annuì facendosi forza, «farò come dici tu». Quindi scrollò le spalle sorridendo tristemente: «Dopo tutto, questa storia della festa doveva servire proprio a questo scopo: fare un sacco di regali di compleanno per incoraggiarmi a dar via anche l’anello. Non è servito a niente, ma sarebbe un peccato sprecare tutti i miei bei preparativi: rovinerebbe completamente lo scherzo».

«Verrebbe meno l’unico aspetto positivo di tutta questa storia», disse Gandalf.

«Benissimo», disse Bilbo; «sarà di Frodo, come tutto il resto». Trasse un profondo sospiro. «Ma ora è tempo che vada, o qualche altro mi acchiappa. Ho già salutato e non ce la farei a salutare da capo». Prese la borsa e si diresse verso la porta.

«Hai ancora l’anello in tasca», gli fece notare lo stregone.

«Già, è vero!», esclamò Bilbo, «ed anche il testamento e gli altri documenti. È meglio che te li dia ed incarichi te di darli a Frodo. L’anello sarà più al sicuro».

«No, non me lo dare», disse Gandalf; «mettilo sul camino. Non corre nessun pericolo in attesa che Frodo lo venga a prendere! Io l’aspetterò, sta’ pur certo».

Bilbo tolse dalla tasca la busta, ma mentre stava per posarla vicino all’orologio, la sua mano si ritirò bruscamente ed il pacchetto cadde per terra. Prima che potesse raccoglierlo, lo stregone si chinò a prenderlo e lo mise a posto. Di nuovo la rabbia contrasse per un attimo il viso dell’Hobbit, ma poi lasciò il posto ad un’espressione di sollievo e ad una risata.

«Un’altra cosa fatta!», disse. «Ora sì che posso partire!».

Si recarono nell’ingresso. Bilbo scelse il bastone preferito, quindi fischiò e tre Nani sbucarono dalle varie camere dove erano indaffarati.

«Siamo pronti?», chiese Bilbo. «Avete imballato tutto, e le etichette sono state incollate?»

«È stato fatto tutto», risposero.

«E allora in cammino!». Uscì dalla porta principale.

Era una notte splendida ed il cielo nero puntellato di stelle. Alzò lo sguardo, annusando l’aria. «Come è bello! Come è bello essere di nuovo in viaggio per la Via con i Nani! Era ciò che rimpiangevo da anni! Addio!», disse guardando la sua vecchia casa ed inchinandosi sulla porta. «Addio, Gandalf!».

«Arrivederci, Bilbo. Sii cauto e prudente. Ormai sei abbastanza vecchio e forse anche abbastanza saggio per saperti regolare».

«Non ci tengo ad essere prudente. Non stare in pensiero per me! Non sono mai stato così felice ed è tutto dire. Ma è giunta l’ora. Sono finalmente trascinato via», soggiunse; e poi a bassa voce, quasi si rivolgesse a se stesso, cantò dolcemente nella notte:

La Via prosegue senza fine

Lungi dall’uscio dal quale parte.

Ora la Via è fuggita avanti,

Devo inseguirla ad ogni costo

Rincorrendola con piedi alati

Sin all’incrocio con una più larga

Dove si uniscono piste e sentieri.

E poi dove andrò? Nessuno lo sa.

S’interruppe e rimase un attimo silenzioso. Quindi, senza dire altro, si allontanò dalle luci e dalle voci che venivano dai campi e dalle tende e, seguito dai suoi tre compagni, entrò da dietro nel suo giardino trotterellando giù per il sentiero scosceso. Saltò oltre la siepe in un posto ove era più bassa e prese per le brughiere, traversando la notte come un fruscio di vento nell’erba.

Quando sparì dalla vista, Gandalf rimase qualche istante a scrutar fisso nell’oscurità. «Arrivederci, caro Bilbo! Al nostro prossimo incontro!», mormorò, e rientrò in casa.

* * *

Frodo rincasò poco dopo, e lo trovò seduto al buio, immerso nei suoi pensieri. «È partito?», chiese.

«Sì», rispose Gandalf, «alla fine è partito!».

«Vorrei, anzi ho sperato fino all’ultimo che si trattasse soltanto di uno scherzo», disse Frodo. «Ma in fondo al cuore sapevo che intendeva veramente andarsene. Lui scherzava sempre sulle cose serie. Se almeno fossi tornato prima, l’avrei potuto salutare un’ultima volta».

«Credo che in fin dei conti preferisse sparire silenziosamente», disse Gandalf. «Non essere troppo turbato. È al sicuro, ora. Ti ha lasciato un pacchetto lì sul camino».

Frodo prese la busta, le diede uno sguardo ma non la aprì.

«Vi troverai il suo testamento, e qualche altro documento, credo», disse lo stregone. «D’ora in poi sei tu il padrone a Casa Baggins. Qualcosa mi dice che ci sia anche un anello d’oro».

«L’anello!», esclamò Frodo. «Me lo ha lasciato?! Chissà perché. Comunque potrebbe essere utile».

«Potrebbe, ma potrebbe anche non esserlo», replicò Gandalf; «se fossi in te non lo adopererei. Ma mi raccomando: tienilo segreto e al sicuro; ed ora, buona notte, io me ne vado a letto!».

* * *

Quale padrone di Casa Baggins, Frodo sentì che aveva il noioso dovere di salutare gli ospiti. Ormai per tutto il campo si era sparso il rumore di strani avvenimenti, ma Frodo si limitava ad assicurare che tutto sarebbe stato chiarito entro l’indomani. Verso mezzanotte le carrozze vennero a prendere le persone importanti. Una per una svanirono nel buio, piene di Hobbit sazi, ma estremamente insoddisfatti. Dei giardinieri vennero, secondo le istruzioni, per portar via con le carrette coloro che erano inavvertitamente rimasti indietro.

La notte passò lenta. Il sole si alzò. Gli Hobbit si alzarono alquanto più tardi. Passavano le ore della mattinata. Arrivò gente che incominciò (secondo gli ordini ricevuti) a smontare e togliere di mezzo i padiglioni, i tavoli e le sedie, i cucchiai ed i coltelli, le bottiglie ed i piatti, le lanterne, i vasi con gli arbusti in fiore, le briciole e le carte, le borse, i guanti ed i fazzoletti dimenticati e i manicaretti rimasti. Quindi arrivò una quantità di altra gente (senza averne ricevuto l’ordine): Baggins, Boffin, Bolgeri, Tuc ed innumerevoli altri ospiti che risiedevano o si trovavano nelle vicinanze. A mezzogiorno, persino coloro che si erano rimpinzati a più non posso, erano in piedi e gironzolavano davanti Casa Baggins, formando una grande folla non invitata ma nemmeno inaspettata.

Frodo era in piedi sulla soglia, sorridente, ma stanco e preoccupato. Accoglieva tutti, ma non aveva nulla da aggiungere a ciò che aveva detto la sera precedente. La sua risposta a tutte le pressanti domande era semplicemente: «Il signor Bilbo Baggins se ne è andato; e, a quel che so, definitivamente». Qualcuno, a cui Bilbo aveva lasciato dei «messaggi», fu invitato ad entrare in casa.

Nell’ingresso era accatastata un’infinita varietà di pacchi, pacchetti, piccoli articoli d’arredamento ed oggetti vari. Su ognuno era stata applicata un’etichetta. Ve ne erano molte con questo tipo di dicitura:

«Per ADELARDO TUC, STRETTAMENTE PERSONALE, da parte di Bilbo», su di un ombrello. Adelardo se ne era portati via molti, e senza cartellino.

«Per DORA BAGGINS, in memoria di una LUNGA corrispondenza, con affetto, Bilbo», su di un gran cestino per la carta straccia. Dora era la sorella di Drogo e la più anziana superstite femminile della famiglia. Aveva novantanove anni, e per più di cinquanta aveva scritto fiumi di belle parole e di buoni consigli.

«Per MILO RINTANATI, augurandomi che gli sia utile, Bilbo Baggins», su di una penna d’oro con calamaio. Milo non aveva mai risposto ad alcuna lettera.

«Per la mia cara ANGELICA, da parte di zio Bilbo», su di uno specchio tondo e convesso. Angelica era una graziosa giovane della famiglia Baggins e palesemente troppo soddisfatta del proprio viso.

«Per la collezione di UGO SERRACINTA, da parte di un contribuente»,, su di una libreria (vuota). Ugo prendeva a prestito un’infinità di libri che non restituiva mai.

«Per LOBELIA SACKVILLE-BAGGINS, in REGALO», su di una cassetta di cucchiaini d’argento. Bilbo era convinto che, quando lui era stato via per la prima volta, Lobelia si era impossessata di gran parte della sua argenteria. Lei lo sapeva benissimo; perciò, quando sul tardi arrivò anche lei, afferrò subito il significato recondito… ma pure i cucchiaini.

* * *

Questa non è che una piccola parte dei regali ammucchiati. La casa di Bilbo era alquanto ingombra di cose eterogenee da lui racimolate nel corso della lunga vita. D’altronde tutte le caverne hobbit tendevano ad essere particolarmente ingombre: l’abitudine dei numerosissimi regali di compleanno ne era una delle cause principali, il che non vuol certo dire che i regali di compleanno fossero sempre nuovi; uno o due mathom, la cui funzione era stata ormai dimenticata da tempi immemorabili, avevano circolato per tutta la zona. Ma Bilbo era solito regalare oggetti nuovi e conservare i doni che riceveva. Si faceva così finalmente un po’ di spazio nella vecchia caverna.

Ogni regalo d’addio era munito di un cartellino, scritto di proprio pugno da Bilbo, e su parecchi si leggevano motteggi e prese in giro. Ma, naturalmente, la maggior parte degli oggetti era assegnata a chi più li desiderava e fu accolta con entusiasmo. Gli Hobbit più poveri, ed in particolar modo quelli di via Saccoforino, furono colmati di doni. Il vecchio Gaffiere Gamgee ricevette due sacchi di patate, una vanga nuova fiammante, un cappotto di lana ed un flacone di unguento contro l’artrosi. Il vecchio Rori Brandibuck, quale atto di riconoscenza per la sua ospitalità, ebbe una dozzina di bottiglie di Vecchi Vigneti: un ottimo vino rosso, forte, del Decumano Sud, ben stagionato poiché l’aveva imbottigliato il padre di Bilbo. Rori dimenticò tutti i suoi rancori e, dopo la prima bottiglia, proclamò Bilbo un uomo straordinario.

Rimaneva per Frodo roba in quantità. Senza contare che naturalmente tutti i gran tesori, oltre ai libri, ai quadri ed all’abbondantissimo mobilio, ormai appartenevano a lui. Ma nessun accenno o allusione a denaro o gioielli non fu regalato né un centesimo, né una perlina di vetro.

Frodo ebbe un pomeriggio spossante. In un baleno si era sparsa la stravagante notizia che l’intera dimora veniva distribuita gratuitamente; bastarono pochi minuti per riempire di gente fino all’inverosimile Casa Baggins: gente che non aveva nessun motivo di essere lì, ma che non si riusciva a tener fuori. Etichette furono strappate e confuse, scoppiarono interminabili litigi. Alcuni conducevano trattative ed effettuavano scambi nell’ingresso, altri cercavano di svignarsela con oggetti di minore importanza non destinati a loro, o con qualsiasi cosa apparentemente abbandonata o non tenuta d’occhio. La strada che portava al cancello era bloccata da carriole e carretti.

In mezzo a tutto quel trambusto arrivarono i Sackville-Baggins. Frodo si era ritirato per un po’ in camera sua, ed aveva lasciato di guardia il suo amico Merry Brandibuck[9]. Quando Otto, furioso, pretese di vedere Frodo, Merry s’inchinò educatamente dicendo:

«È stato colto da un lieve malessere, e per il momento sta cercando di riposare».

«Di nascondersi, vuoi dire», ribatté Lobelia; «comunque sia, volente o nolente, siamo fermamente decisi a vederlo. Sei pregato d’andarglielo a dire!».

Merry li fece aspettare un bel po’ nell’atrio, dove ebbero così modo di scoprire i cucchiaini lasciati loro in regalo da Bilbo, cosa che non contribuì certo a migliorare il loro umore. Finalmente furono fatti accompagnare nello studio. Frodo era seduto alla scrivania, circondato da un mare di carte. Sembrava indisposto o perlomeno la visita dei Sackville-Baggins lo indisponeva manifestamente; si alzò giocherellando con qualcosa che aveva in tasca. Comunque si comportò molto educatamente.

I Sackville-Baggins erano alquanto offensivi. Incominciarono con offrirgli somme irrisorie (come quando si tratta fra amici) per vari oggetti di valore senza cartellino. Quando Frodo rispose che veniva dato via soltanto ciò che Bilbo aveva espressamente stabilito, replicarono che tutto l’affare era molto losco.

«Una sola cosa è chiara per me», disse Otto, «e cioè che tu fai proprio un bel colpo. Pretendo di vedere il testamento».

Otto sarebbe stato l’erede di Bilbo, se questi non avesse adottato Frodo. Egli lesse il testamento con attenzione e andò in bestia. Infatti il testo era, sfortunatamente per lui, molto chiaro e corretto (in conformità alle norme hobbit che esigono tra l’altro l’apposizione delle firme di sette testimoni in inchiostro rosso).

«Giocati di nuovo!», disse a sua moglie. «Avere atteso sessant’anni per quella miseria di cucchiaini». Schioccò le dita in faccia a Frodo e marciò via sbattendo la porta. Ma non era altrettanto facile sbarazzarsi di Lobelia. Poco dopo Frodo uscì dallo studio per controllare l’andamento delle cose e la trovò che gironzolava ancora per la casa, esplorando tutti gli angoli, frugando in ogni cantuccio, percuotendo muri e pavimenti. La condusse fuori dall’edificio energicamente, dopo averle tolto l’impiccio di numerosi oggetti (alquanto preziosi) che chissà come erano andati a cadere nel suo ombrello. Sul volto di Lomelia si dipinse l’atroce tormento dell’anima alla ricerca disperata di una frase di commiato che potesse annientarlo; ma tutto ciò che seppe dire, voltandosi sulla soglia fu:

«Un giorno lo rimpiangerai, ragazzo mio! Perché non te ne sei andato via pure tu? Che c’entri tu qui? Non sei un Baggins, sei… sei un Brandibuck!».

«L’hai sentita, Merry? Era un insulto se vogliamo», esclamò Frodo chiudendo la porta dietro di lei.

«Era un complimento», disse Merry Brandibuck, «e quindi, naturalmente, ben lungi dall’esser vero!».

Esplorarono insieme la casa, espellendo tre giovani Hobbit (due Boffin ed un Bolgeri) che sfondavano tranquillamente le pareti di una delle cantine. Frodo ebbe persino una zuffa col giovane Sancio Tronfipiede (nipote del vecchio Tronfipiede) che si era messo a scavare nella grande dispensa dove gli sembrava di sentire un’eco. La leggenda dei tesori di Bilbo suscitava non solo curiosità ma anche forti speranze; infatti l’oro conquistato in modo misterioso, se non addirittura losco, appartiene, come tutti sanno, a chiunque lo trovi senza essere stato interrotto nella ricerca.

Quando ebbe finalmente sopraffatto e scaraventato fuori il giovane Sancio, Frodo crollò su di una sedia nell’ingresso.

«È ora di chiudere bottega, Merry», disse; «chiudi la porta a chiave e non aprire più a nessuno fino a domani, anche se vengono con un ariete!». Quindi andò a rinfrancarsi con una tardiva tazza di tè.

Si era appena seduto, quando bussarono piano alla porta d’ingresso. «Di nuovo Lobelia, probabilmente», pensò; «deve avere escogitato qualcosa di veramente malvagio ed essere tornata sui suoi passi per dirmela. Può aspettare».

Continuò a sorseggiare il suo tè, noncurante del ripetersi di colpi sempre più forti. Ad un tratto la testa dello stregone fece capolino dalla finestra.

«Se non mi apri, Frodo, scaravento la porta attraverso tutta la caverna fino all’altro lato della collina», disse.

«Mio caro Gandalf, solo mezzo secondo!», esclamò Frodo precipitandosi fuori della stanza ad aprire la porta. «Vieni! Vieni! Ero convinto che fosse Lobelia».

«Allora ti perdono. L’ho intravista poco fa che guidava un calesse in direzione di Lungacque con una faccia da fare accagliare il latte appena munto».

«Quella stessa faccia ce l’avevo davanti io, poco prima. Ti assicuro che stavo per infilarmi l’anello di Bilbo: desideravo ardentemente di sparire».

«Non ti azzardare a fare una cosa del genere!», esclamò Gandalf sedendosi. «Sii cauto con quell’anello, Frodo! Ti dirò che è soprattutto per questo che sono venuto a dirti un’ultima parola».

«Che c’è?».

«Cosa sai esattamente in proposito?».

«Solo ciò che mi ha detto Bilbo. Ho sentito la sua storia: come l’ha trovato e poi adoperato, durante il suo viaggio, beninteso».

«Questo è il punto: quale storia?», chiese Gandalf.

«Oh! non certo quella che raccontò ai Nani e scrisse nel suo libro», rispose Frodo. «Mi ha narrato la vera versione dei fatti, poco dopo la mia venuta qui, confessandomi che tu l’avevi infastidito a tal punto che era stato costretto a raccontartela e dicendomi che era quindi opportuno che la conoscessi anch’io. “Niente segreti fra noi, Frodo”, mi disse; “ma non devono essere divulgati. Comunque sia, l’anello è mio”».

«Interessante», disse Gandalf; «e che ne pensi di tutta questa storia?».

«Vuoi dire di tutto quel che ha inventato sul «regalo»? Be’, fin dal primo momento ho trovato la storia vera molto più verosimile, e non sono riuscito a capire perché l’avesse trasformata in quel modo. Oltre tutto non era affatto nel carattere di Bilbo fare questo genere di cose. Ho trovato il tutto alquanto strano e sono rimasto molto perplesso».

«Anch’io. Ma le cose più strane possono accadere a coloro che possiedono tali tesori e li adoperano. Che ti sia di ammonimento e ti inciti ad essere estremamente prudente con quell’anello. È probabile che abbia qualche altro potere, oltre quello di farti sparire quando più ti aggrada».

«Non ti capisco», disse Frodo.

«Nemmeno io capisco esattamente di che cosa si tratta», rispose lo stregone. «Mi sono soltanto messo a riflettere sulla natura di quell’anello, ed in particolar modo da ieri sera. Nessuna ragione di preoccuparti, comunque. Ma ascolta il mio consiglio: adoperalo molto, molto raramente o, meglio ancora, mai. Soprattutto non servirtene in modo tale da provocare chiacchiere e destare sospetti. Te lo ripeto ancora: custodiscilo bene e tienilo segreto!».

«Sei molto misterioso! Che cosa temi?».

«Non ne sono certo, per cui non ti dico altro. Forse sarò in grado di farti sapere qualcosa al mio ritorno. Parto immediatamente: perciò ti saluto, e a presto».

«Immediatamente!», gridò Frodo. «Ed io che credevo rimanessi almeno una settimana. Contavo tanto sul tuo aiuto».

«Infatti era nelle mie intenzioni, ma ho dovuto cambiare idea. Può darsi che stia via per un bel po’, ma tornerò a trovarti non appena mi sarà possibile. Non ti meravigliare quando mi vedrai arrivare quatto quatto: d’ora in poi verrò nella Contea in incognito. Mi sono reso conto di non essere molto bene accetto. Dicono che sono un guastafeste e un perturbatore della pace. C’è persino gente che mi accusa di aver rapito Bilbo, o peggio. Anzi, ti dirò che si vocifera che tu ed io abbiamo complottato insieme per impadronirci della sua fortuna».

«Che gente!», esclamò Frodo. «Certo intendi parlare di Otto e Lobelia. Abominevole! Gliela darei Casa Baggins con tutto il resto, se solo riuscissi a mettermi in contatto con Bilbo e andarmene a vagabondare pei campi con lui. Amo la Contea, ma sto incominciando a rimpiangere di non essere partito anch’io. Chissà se lo vedrò mai più in vita mia».

«Anch’io me lo chiedo», disse Gandalf, «e ci sono tante altre cose che vorrei sapere. Ma è ora di andarmene! Stai bene, e attento alle mie visite improvvise, specialmente nelle ore più impensate. Addio!».

Frodo lo accompagnò alla porta. Con un ultimo cenno di mano Gandalf si allontanò a passo sorprendentemente spedito; ma Frodo ebbe l’impressione che il vecchio stregone fosse stranamente curvo come sotto il peso di un grosso fardello. La sera si oscurò rapidamente e la figura ammantata scomparve presto nel crepuscolo. Molto tempo sarebbe passato prima che Frodo lo rivedesse.

CAPITOLO II L’OMBRA DEL PASSATO




Non bastarono né nove né novantanove giorni per placare le chiacchiere. La seconda scomparsa del signor Bilbo Baggins fu discussa a Hobbiville e finanche nel resto della Contea per un anno ed un giorno, ma rimase viva nelle memorie molto più a lungo. Diventò la favola preferita dai giovani Hobbit, e col tempo Baggins il Matto, che soleva volatilizzarsi con un’esplosione ed un lampo e riapparire con sacchi pieni d’oro e di gioie, diventò il personaggio leggendario favorito e continuò a vivere a lungo anche quando tutti i fatti realmente avvenuti caddero nell’oblio.

Ma nel frattempo, nei dintorni, l’opinione più corrente era che Bilbo, al quale da tempo mancava qualche rotella, diventato pazzo del tutto era fuggito nell’Azzurro[10]. Indubbiamente lì era caduto in qualche laghetto o in qualche fiume, ponendo così fine ai suoi giorni in modo tragico ma non intempestivo. La colpa di tutto ciò veniva generalmente attribuita a Gandalf.

«Se quel dannato lo lasciasse in pace, il giovane Frodo forse si sistemerebbe e metterebbe la testa a posto con un po’ di buonsenso hobbit», dicevano tutti. E con sorpresa generale lo stregone lasciò Frodo solo e questi si sistemò, ma il buonsenso non era molto evidente. Anzi, incominciò subito coll’ereditare da Bilbo la reputazione di eccentricità. Rifiutò di portare il lutto e l’anno seguente diede una festa in onore del centododicesimo compleanno di Bilbo, che chiamò «Festa dei Cento Chili». Ma era dir poco, poiché gli invitati erano venti e durante i numerosi pasti nevicò cibo e piovvero bevande, come dicono gli Hobbit.

Alcuni erano scandalizzati, ma Frodo organizzò la tradizionale Festa per il Compleanno di Bilbo per anni ed anni, finché pure loro vi si abituarono. Diceva di non credere che Bilbo fosse morto, e quando gli chiedevano: «Ma allora dov’è?», si limitava ad alzare le spalle.

Viveva solo, come Bilbo; ma aveva un gran numero di amici, specialmente nella nuova generazione hobbit (la maggior parte discendeva dal Vecchio Tuc), i quali andavano avanti e indietro da Casa Baggins ed erano straordinariamente affezionati a Bilbo. Folco Boffin e Fredegario Bolgeri erano di questi; ma i suoi amici più intimi si chiamavano Peregrino Tuc (soprannominato Pipino) e Merry Brandibuck (il cui vero nome, Meriadoc, nessuno più ricordava). Frodo vagabondava con loro per la Contea; ma il più delle volte errava da solo e, con enorme stupore delle persone ragionevoli, sovente lo si poteva veder camminare lontano da casa tra boschi e colline illuminate dalle stelle. Merry e Pipino sospettavano che, come soleva fare Bilbo, a volte si recasse a trovare gli Elfi.

* * *

Col tempo la gente cominciò a notare che anche Frodo mostrava segni incontestabili di «buona conservazione». Fisicamente pareva ancora robusto ed energico come un Hobbit appena uscito dall’adolescenza. «Certa gente sembra prediletta dalla fortuna», dicevano, e fu soltanto allorché Frodo s’avvicinava alla matura età di cinquant’anni che incominciarono a trovare la cosa estremamente strana.

Frodo stesso, vinto lo sgomento iniziale, scoprì che essere padrone della propria vita e l’unico signor Baggins di Casa Baggins, era piuttosto piacevole. Per alcuni anni fu molto felice e non si preoccupò molto del futuro. Ma nel suo intimo cresceva inesorabilmente il rimpianto di non essere partito con Bilbo. Si sorprendeva spesso, soprattutto in autunno, a vagheggiare di zone selvagge, e nei suoi sogni apparivano strane visioni di montagne sconosciute. Incominciò a dirsi: «Forse attraverserò il Fiume, un giorno», ma l’altra parte di lui stesso rispondeva sempre ed invariabilmente: «Non ancora».

Questa strana sensazione permaneva, ed i quaranta giungevano al crepuscolo, mentre il suo cinquantesimo compleanno si avvicinava: si rendeva conto che cinquanta era un numero particolarmente significativo (o infausto). Era in ogni modo a quell’età che Bilbo era stato improvvisamente travolto dalle avventure. Frodo incominciava ad essere irrequieto, ed i vecchi sentieri gli sembravano troppo battuti. Esaminava carte geografiche e si chiedeva cosa vi fosse al di là dei bordi; le piante fatte nella Contea erano colorate di bianco nelle zone oltre i confini. Prese l’abitudine di girovagare più lontano e quasi sempre solo; Merry e gli altri amici lo osservavano ansiosamente. Spesso lo si poteva vedere camminare e parlare con gli strani viandanti che incominciavano a quell’epoca ad apparire nella Contea.

* * *

Giravano voci di strani eventi accaduti nel mondo esterno; e poiché Gandalf non si era fatto vivo e non mandava da parecchi anni alcun messaggio, Frodo si mise a raccogliere tutte le notizie possibili ed immaginabili. Molti Elfi, i quali prima non si recavano che molto di rado nella Contea, traversavano ogni sera i boschi diretti ad ovest: passavano ma non tornavano mai indietro; abbandonavano la Terra di Mezzo, disinteressandosi per sempre dei suoi problemi. Vi era un insolito numero di Nani per le strade. L’antica Via Est-Ovest che giungeva fino ai Rifugi Oscuri, all’estremo limite della Contea, era stata sempre adoperata dai Nani che si recavano alle loro miniere nelle Montagne Azzurre. Essi costituivano per gli Hobbit la principale fonte d’informazione circa gli avvenimenti nelle contrade lontane; ma non chiedevano queste notizie che rare volte; in linea di massima i Nani parlavano poco e gli Hobbit non chiedevano niente. Ma ora Frodo incontrava spesso strani Nani di terre lontane alla ricerca di un rifugio ad ovest. Erano inquieti, e taluni sussurravano qualcosa come «il Nemico» e «la Terra di Mordor».

Questo era un nome che gli Hobbit conoscevano unicamente tramite le leggende di un oscuro passato, che incombeva come un’ombra sullo sfondo della loro memoria: era un nome infausto ed angoscioso. Sembrava che le forze del male, un tempo insediate nel Bosco Atro e poi cacciate via dal Bianco Consiglio, riapparissero ora centuplicate nelle vecchie fortezze di Mordor. La Torre Oscura pareva fosse stata ricostruita: da lì le forze si diramavano in tutte le direzioni, tanto che all’estremo est e giù a sud c’erano guerre, ed il panico cresceva. Di nuovo gli Orchi si moltiplicavano, sulle montagne. I Troll giravano in terre straniere, non più lenti ed ottusi, ma astuti e muniti di armi spaventose. E si facevano delle allusioni velate ad esseri ancora più terribili ma senza nome.

Naturalmente, ben poco di tutto ciò giungeva alle orecchie del popolino, ma finanche i più sordi e misantropi incominciarono a sentire strane storie, e coloro che per lavoro dovevano recarsi ai confini, vedevano cose insolite. La conversazione al Drago Verde di Lungacque, una sera di primavera del cinquantesimo anno di Frodo, mostrò che persino nel cuore della pacifica Contea giungevano remote notizie, che però la maggior parte degli Hobbit non prendeva sul serio.

Sam Gamgee sedeva in un angolo vicino al fuoco, e di fronte a lui stava Ted Sabbioso, figlio del mugnaio; parecchi altri Hobbit campagnoli ascoltavano con attenzione la loro conversazione.

«Quante cose misteriose si sentono di questi tempi! Vero?», esclamò Sam.

«Certo che si sentono, se si vogliono ascoltare. Ma si possono anche sentire fiabe, favole e storie per bambini rimanendo in casa, se si vuole», ribatté Ted.

«Senza dubbio», replicò Sam; «e scommetto che alcune di esse contengono più verità di quanto comunemente non si creda. Chi ha inventato tutte queste storie, in ogni modo? Prendi i draghi, per esempio».

«No, grazie, non m’interessano», disse Ted; «me ne parlavano quando ero ragazzino, ma non ho nessun motivo al mondo per crederci, oggi come oggi. C’è un solo Drago a Lungacque, ed è Verde», disse tra le risate generali.

«Va bene», disse Sam, ridendo assieme agli altri. «Ma che te ne pare di questi Uomini-alberi, che si potrebbero chiamare giganti? Un sacco di gente insiste nel dire di averne visto uno più alto di un albero, al di là delle Brughiere del Nord, poco tempo fa».

«Chi è questa gente?».

«Mio cugino Al, innanzi tutto. Lavora per il signor Boffin a Surcolle, e va a caccia su nel Decumano Nord. Lui ne ha visto uno!».

«Può darsi che dica così. Intanto il tuo caro Al va sempre dicendo di aver visto cose strane: è possibilissimo che veda cose che non esistono».

«Ma questo era grande come un olmo, e camminava, e ad ogni passo faceva sei braccia, come se fossero stati pochi pollici».

«Allora scommetto che quello che gli era parso un olmo, era proprio un olmo».

«Ma questo camminava, ti dico, e poi non ci sono olmi nelle Brughiere del Nord».

«E allora Al non può averne visto uno», affermò Ted.

Ci furono risatine sommesse e qualche applauso: il pubblico sembrava attribuire a Ted un punto di vantaggio sull’avversario. «In ogni modo», disse Sam, «non puoi negare che altre persone, oltre al nostro Al, abbiano visto della gente strana attraversare la Contea: attraversarla, dico. E c’è un sacco di gente che non lasciano entrare alle frontiere. I Confinieri non hanno mai avuto tanto lavoro.

«Ho anche sentito dire che gli Elfi fuggono verso ovest. Pare che vadano ai porti, ben lontano oltre le Bianche Torri». Sam agitò il braccio con un gesto vago: né lui né nessun altro sapeva quale fosse la distanza dal Mare, oltre le vecchie torri al di là dei confini occidentali della Contea. Ma un’antica tradizione voleva che in quella contrada remota si trovassero i Rifugi Oscuri, dai quali di tanto in tanto delle navi elfiche salpavano per non tornare mai più.

«Stanno percorrendo centinaia e centinaia di miglia attraverso il Mare, con le vele issate al vento; vanno ad ovest e ci lasciano qui», disse Sam, come se canticchiasse una nenia, scuotendo gravemente il capo triste. Ma Ted rise.

«Non c’è niente di nuovo in tutto ciò: basta sentire le vecchie leggende. Comunque, non vedo cosa possa importare a te o a me se quelli se ne vanno. Lasciali salpare e navigare! Ma scommetto qualsiasi cosa che né tu né altri della Contea li ha mai visti in procinto di partire».

«Non ne sono così sicuro», mormorò Sam pensosamente. Un giorno gli era parso intravedere un Elfo nei boschi, e sperava vederne altri in futuro. Di tutte le leggende che gli avevano raccontato durante l’infanzia, i frammenti ed i pezzi di racconti e storie, dimenticati per metà, che narravano quel poco che gli Hobbit sapevano sul conto degli Elfi, l’avevano sempre profondamente commosso.

«C’è qualcuno persino da queste parti che conosce i Luminosi, e che riceve loro notizie», disse. «C’è per esempio il signor Baggins per il quale lavoro: fu lui a raccontarmi che navigavano e lui sa un bel po’ di cose sugli Elfi. Il vecchio signor Bilbo ne sapeva ancora di più: quanto ne parlavamo insieme, quando ero ancora un ragazzino!».

«Oh, quei due poi sono completamente rimbambiti!», disse Ted. «O perlomeno il vecchio Bilbo era notoriamente matto, e Frodo lo sta diventando. Se è da gente come questa che prendi le tue notizie, allora stiamo freschi! Bene, amici, io me ne vado a casa. Alla vostra salute!». Bevve l’ultimo sorso ed uscì rumorosamente.

Sam rimase seduto in silenzio e non aprì più bocca. Aveva molto su cui riflettere: innanzi tutto c’era una quantità di lavoro da sbrigare nel giardino di Casa Baggins, e l’indomani sarebbe stata una giornata molto piena ed indaffarata, se il tempo si schiariva. L’erba cresceva velocemente. Ma vi era altro nella mente di Sam oltre il giardinaggio. Dopo qualche istante si alzò sospirando ed uscì. Erano i primi giorni di aprile ed il cielo si stava rasserenando dopo le interminabili piogge. Il sole, tramontato da poco, aveva ceduto alla fresca sera pallida che sbiadiva lentamente nella notte. Camminò fino a casa attraversando Hobbiville e risalendo la collina alla luce delle prime stelle e fischiettando sommesso ed assorto.

* * *

Fu proprio allora che Gandalf riapparve dopo la lunga assenza. Era stato via tre anni dal giorno della Festa. Aveva fatto una breve capatina da Frodo e, dopo averlo osservato ben bene, se n’era ripartito. Nei due anni seguenti si era fatto vivo abbastanza spesso, spuntando all’improvviso quando il sole era già calato, per scomparire poi senza preavviso prima dell’alba. Si rifiutava di parlare dei propri viaggi ed affari e sembrava soprattutto interessarsi a particolari di scarsa importanza riguardanti la salute e le attività di Frodo.

Poi improvvisamente le visite cessarono. Erano passati più di nove anni dall’ultima volta che Frodo l’aveva visto, e stava incominciando a pensare che lo stregone non sarebbe mai più tornato e che ormai si fosse completamente disinteressato degli Hobbit. Ma quella sera, mentre Sam tornava a casa ed il crepuscolo sbiadiva, udì provenire dalla finestra dello studio i leggeri colpetti un tempo familiari.

Frodo accolse il vecchio amico con sorpresa ed immensa gioia. Si fissarono a lungo.

«Tutto bene, eh?», esclamò Gandalf. «Sembri sempre lo stesso, Frodo!».

«Anche tu», rispose Frodo; ma in fondo trovava Gandalf più vecchio e logoro. Sollecitò notizie sul suo conto e sul resto del mondo, e presto furono immersi nella conversazione e rimasero in piedi fino a molto tardi.

La mattina seguente, dopo una tarda colazione, lo stregone si sedette con Frodo alla finestra aperta dello studio. Un allegro fuoco brillava nel camino, ma il sole era caldo ed il vento spirava verso sud. Tutto pareva fresco ed il nuovo verde della primavera scintillava nei campi e sulle punte delle dita degli alberi.

Gandalf pensava ad una primavera di quasi ottant’anni addietro, quando Bilbo era scappato via da Casa Baggins senza nemmeno un fazzoletto. I suoi capelli erano adesso forse più bianchi di allora, la sua barba e le sue sopracciglia forse più lunghe, ed il suo volto più segnato dalle preoccupazioni e dalla saggezza; ma i suoi occhi brillavano della stessa luce, ed egli fumava e faceva anelli di fumo col medesimo vigore e piacere di allora.

Finiva ora di fumare in silenzio, poiché Frodo sedeva zitto, profondamente immerso nei propri pensieri. Persino nella luce mattutina sentiva l’ombra scura delle notizie portate da Gandalf. Infine ruppe il silenzio.

«Ieri sera avevi incominciato a dirmi strane cose a proposito del mio anello, Gandalf», disse, «e poi ti sei interrotto, sostenendo che certi argomenti vanno trattati alla luce del giorno. Non credi che faresti bene a terminare il discorso, ora? Dici che l’anello è pericoloso, molto più di quanto io non possa immaginare. In che modo?».

«In molti modi», rispose lo stregone. «E di gran lunga più potente di quanto non osassi immaginare da principio; tanto potente che finirebbe col sopraffare del tutto qualunque mortale ne avesse il possesso. Sarebbe l’anello ad essere padrone di lui.

«In Eregion, molto tempo fa, si fabbricavano numerosi anelli elfici, quelli che voi chiamate anelli magici, e ve ne erano beninteso di vari tipi: alcuni più potenti ed altri meno. Gli anelli minori erano solo campioni e prove, fatti per esercitarsi quando non si era ancora completamente padroni dell’arte, e i fabbri elfici li consideravano delle bazzecole, benché, secondo me, fossero anch’essi rischiosi per i mortali. Ma i Grandi Anelli del Potere erano pericolosissimi.

«Un mortale caro Frodo, che possiede uno dei Grandi Anelli, non muore, ma non cresce e non arricchisce la propria vita: continua semplicemente, fin quando ogni singolo minuto è stanchezza ed esaurimento. E se adopera spesso l’Anello per rendersi invisibile, sbiadisce: infine diventa permanentemente invisibile e cammina nel crepuscolo sorvegliato dall’oscuro potere che governa gli Anelli. Sì, presto o tardi, tardi se egli è forte e benintenzionato, benché forza e buoni propositi durino ben poco presto o tardi, dicevo, l’oscuro potere lo divorerà».

«Spaventoso!», esclamò Frodo. Seguì un altro lungo silenzio. Dal giardino saliva il fruscio della falce di Sam Gamgee che tagliava l’erba.

«Da quanto tempo conosci tutto ciò?», chiese infine Frodo. «Che cosa sapeva Bilbo?».

«Sono convinto che Bilbo non sapesse altro che ciò che ti ha raccontato», rispose Gandalf. «Non ti avrebbe certo dato niente che a suo avviso potesse costituire un pericolo, anche se gli avevo promesso di vegliare su di te. Trovava l’anello splendido ed estremamente utile in ogni evenienza; se qualcosa non funzionava o gli pareva strano, pensava sempre di averne lui la colpa. Diceva che l’anello era diventato “un enorme peso” e non faceva che preoccuparsene; ma non sospettò mai che la colpa di tutto ciò fosse da attribuirsi all’anello stesso. Si era però accorto che l’oggetto doveva essere ben custodito e sorvegliato; non aveva sempre le stesse dimensioni e lo stesso peso. Si rimpiccioliva e si espandeva in maniera curiosa, e a volte scivolava all’improvviso da un dito al quale poc’anzi andava stretto».

«Sì, a questo proposito mi mise in guardia nella sua ultima lettera», disse Frodo, «perciò l’ho sempre tenuto legato con la sua catenella».

«Molto saggio da parte tua», disse Gandalf. «Ma il mistero della sua lunga vita Bilbo non lo collegò mai con l’anello. Se ne attribuiva tutto il merito e ne era molto orgoglioso. Ciò nonostante si rendeva conto che stava diventando irrequieto e come nauseato. “Magro e teso”, diceva: segno che l’anello incominciava ad esercitare il suo dominio su di lui».

«Da quanto tempo conosci tutto ciò?», chiese nuovamente Frodo.

«Conosco? Io ho conosciuto molte cose che solo i Saggi conoscono. Ma se intendi dire da quando conosco qualcosa di questo anello, bene, ti dovrei rispondere che ancora non conosco. Ci sarebbe da fare un’ultima prova, ma non nutro ormai più alcun dubbio sulle mie congetture.

«Quando ebbi i miei primi sospetti?», meditò sondando la propria memoria. «Vediamo. Fu in quell’anno che il Bianco Consiglio cacciò via l’oscuro potere dal Bosco Atro, poco prima della Battaglia dei Cinque Eserciti: fu proprio allora che Bilbo trovò il suo anello. Un’ombra, un’ombra cadde allora sulla mia anima, benché non sapessi ancora quale fosse la causa del mio timore. Mi sono spesso chiesto come avesse fatto Gollum a procurarsi un Grande Anello (infatti non ebbi mai alcun dubbio sulla natura del suo “tesoro”). Poi Bilbo mi raccontò la sua curiosa storia, sostenendo di averlo “vinto”, ma non vi prestai mai fede. Quando infine riuscii a fargli confessare la verità, compresi subito che egli aveva mentito per scongiurare qualsiasi rivendicazione sull’anello che possedeva “di diritto”; molto simile alla storia di Gollum e del suo “regalo di compleanno”. Le menzogne erano troppo simili per il mio intuito. Era più che evidente che l’anello possedeva qualche infausto potere che agiva immediatamente sul proprietario. Quello fu per me il primo vero segno d’allarme, e mi resi conto che le cose non andavano per il giusto verso. Dissi ripetutamente a Bilbo che non era consigliabile adoperare certi anelli, ma lui si offendeva e spesso si arrabbiava. C’era ben poco che io potessi fare. Se glielo avessi tolto, sarebbe stato ancora peggio, senza contare che non ne avevo il diritto. Potevo soltanto osservare e aspettare. Forse avrei dovuto consultare Saruman il Bianco, ma era come se qualcosa me lo impedisse».

«Chi è costui?», domandò Frodo. «Non l’ho mai sentito nominare».

«Forse no», rispose Gandalf. «Gli Hobbit non hanno, anzi non avevano niente a fare con lui. Egli è grande fra i Saggi. È il gran maestro del mio ordine e capo del Consiglio. La sua scienza è profonda e vastissima, ma il suo orgoglio lo è altrettanto, e qualsiasi intromissione lo indispettisce. Lo studio degli anelli elfici, piccoli o grandi che siano, è di sua competenza. Ha compiuto indagini interminabili alla ricerca del segreto della loro origine e fattura; ma quando furono discussi gli Anelli durante una seduta del Consiglio, il poco che ci svelò della sua erudizione parve in contrasto con i miei timori. E così i miei dubbi si assopirono, ma rimasi irrequieto: continuai ad osservare e ad aspettare.

«Bilbo sembrava completamente normale. Gli anni passavano. Il tempo scorreva e non lasciava tracce su di lui. Pareva eternamente giovane. L’ombra oscurò di nuovo la mia anima e cercai di rassicurarmi dicendomi: “La sua famiglia è longeva da parte di madre. C’è ancora tempo; conviene aspettare”.

«E così feci; fino a quella notte in cui lasciò la casa. Fece e disse delle cose che mi riempirono il cuore di un timore che nemmeno le parole di Saruman seppero calmare. Sapevo finalmente che una potenza oscura e mortale era all’opera. Da allora ho dedicato i miei giorni alla ricerca della verità!».

«Ma Bilbo non ne ha avuto un danno irreparabile, no?», chiese Frodo ansiosamente. «Col tempo tornerà ad essere normale, voglio dire: potrà riposare in pace?». «Si sentì subito meglio», disse Gandalf. «Ma c’è una sola Potenza al mondo che sa tutto sugli Anelli e sui loro effetti; ed a quanto mi consta, nessuna Potenza al mondo sa tutto sugli Hobbit. Tra i Saggi sono l’unico ad interessarmi della tradizione hobbit: un campo estremamente oscuro, ma pieno di sorprese. Sono esseri dolci come il miele e resistenti come le radici degli alberi secolari. Credo che alcuni di loro saprebbero resistere agli Anelli molto più a lungo di quanto non pensino i Saggi. Non credo sia il caso di preoccuparti per Bilbo.

«Certo, l’anello è stato in suo possesso per lunghi anni ed egli se ne servì, ragion per cui ci vorrà molto tempo prima che l’influsso sparisca, prima che egli possa rivederlo senza conseguenze nefaste, per esempio. Vedrai che poi vivrà felice per anni ed anni, rimanendo com’era al momento in cui lo lasciò; il fatto che abbia rinunciato all’anello spontaneamente, è molto importante. No, io non temevo più per il caro vecchio Bilbo, ora che aveva abbandonato quell’orribile arnese. È della tua sicurezza che mi sento terribilmente responsabile.

«Sin dalla partenza di Bilbo mi sono profondamente interessato a te, ed a tutti questi deliziosi ed assurdi Hobbit indifesi. Sarebbe un grande lutto per il mondo se l’Oscuro Potere dominasse la Contea; se tutti i vostri cari, allegri, folli Bolgeri, Soffiatromba, Boffin, Serracinta ed altri, per non parlare dei ridicoli Baggins, fossero ridotti in schiavitù».

Frodo rabbrividì. «Perché dovremmo esserlo?», chiese. «E a che gli servirebbero questi schiavi?».

«A dir la verità», rispose Gandalf, «credo che abbia finora, dico finora, assolutamente ignorato l’esistenza del popolo hobbit. Dovreste ringraziare il cielo. Ma ormai non avete più certezza alcuna; egli non ha bisogno di voi (ha una quantità di servitori molto più utili), tuttavia non potrà più dimenticarvi. E certo sarebbe di gran lunga più soddisfatto sapendo gli Hobbit schiavi e miserabili anziché liberi e felici. Esiste anche un sentimento misto di malvagità e di desiderio di vendetta!».

«Vendetta?», esclamò Frodo. «E perché? Non vedo proprio cosa c’entri tutto ciò con Bilbo, con me e con il nostro anello».

«C’entra e come!», disse Gandalf. «Non sai ancora qual è il vero pericolo; ma presto lo conoscerai. Io stesso non ne ero ancora sicuro l’ultima volta che sono venuto qui da te, ma col tempo ho confermato le mie teorie: dammi un attimo l’anello».

Frodo lo tirò fuori dalla tasca dei calzoni, dov’era attaccato ad una catenella fissata alla cintura. Lo staccò e lo consegnò lentamente allo stregone. Era diventato all’improvviso terribilmente pesante, come se rifiutasse di essere toccato da Gandalf o come se Frodo stesso fosse riluttante a darlo.

Gandalf lo guardò alla luce. Sembrava fatto di oro puro e solido. «Ci vedi scritto nulla?», chiese.

«No», rispose Frodo. «Non c’è assolutamente niente. È del tutto liscio e non troverai né un graffio né un punto logoro».

«Ebbene, osserva attentamente!», e lo stregone lo lanciò all’improvviso nel mezzo dei tizzoni incandescenti del camino, con sommo stupore e rammarico di Frodo, che con un grido si slanciò per afferrare le molle; ma Gandalf lo trattenne.

«Fermo!», ordinò con timbro severo, lanciando una rapida occhiata a Frodo da sotto le setolose sopracciglia.

L’anello non subì alcuna apparente trasformazione. Dopo un PO’ Gandalf si alzò, chiuse le imposte e tirò le tende. La stanza diventò scura e silenziosa, benché il rumore delle forbici di Sam, ora più vicino alle finestre, giungesse ancora attutito dal giardino. Per un attimo lo stregone rimase in piedi fissando il fuoco, quindi dopo essersi chinato per prendere l’anello con le molle e posarlo per terra davanti al camino, lo raccolse subito. Frodo lanciò un grido.

«È perfettamente freddo», lo rassicurò Gandalf. «Prendilo». Frodo tese una mano riluttante: l’anello sembrava più spesso e pesante che mai.

«Tienilo tra il pollice e l’indice e guardalo da vicino!», disse Gandalf.

Frodo fece come diceva lo stregone, e vide delle linee finissime, più fini di quella della più esile penna d’oca, tutto intorno all’anello, sia all’interno che all’esterno: linee di fuoco che parevano formare le lettere di un flusso di parole. Brillavano estremamente luminose ed incandescenti, eppur remote, come se scolpite in abissali profondità.



«Non riesco a leggere questa scrittura di fuoco», confessò Frodo con voce malferma.

«No», disse Gandalf, «ma io sì. Le lettere sono elfiche, scritte alla maniera arcaica, ma la lingua è quella di Mordor, che non voglio però pronunziare qui. Ti dirò semplicemente cosa vuol dire più o meno nella Lingua Corrente:

Un Anello per domarli, Un Anello per trovarli,

Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli.

«Sono solo due versi di un antichissimo poema della tradizione elfica:

Tre Anelli ai Re degli Elfi sotto il cielo che risplende,

Sette ai Principi dei Nani nelle lor rocche di pietra,

Nove agli Uomini Mortali che la triste morte attende,

Uno per l’Oscuro Sire chiuso nella reggia tetra

Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra nera scende.

Un Anello per domarli, Un Anello per trovarli,

Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli,

Nella Terra di Mordor, dove l’Ombra cupa scende».

S’interruppe qualche secondo e poi disse con voce lenta e grave: «Questo è l’Anello Sovrano, quello che serve a dominarli tutti. È quell’Unico Anello che egli perse molto tempo fa, affievolendo di parecchio la propria potenza. Lo desidera più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma non deve mai più riaverlo».

Frodo rimase muto ed immobile. Il terrore, giganteggiante come una nuvola nera sorta da est per inghiottirlo, sembrava stringerlo in una morsa. «Quest’anello!», balbettò. «Ma com’è possibile che l’abbia io?».

* * *

«Ah!», esclamò Gandalf. «È una lunga storia. Risale ai primordi, su su fino agli Anni Neri, che solo i dotti e gli eruditi ricordano ancora. Se ti dovessi raccontare tutta la storia, saremmo ancora seduti qui quando l’inverno sarà succeduto alla primavera.

«Ma ieri sera ti ho parlato di Sauron il Grande, l’Oscuro Signore. Le voci che corrono sono vere: egli s’è messo di nuovo in movimento, abbandonando il suo forte nel Bosco Atro per ritornare ad abitare la vecchia fortezza nella Torre Oscura. È un nome che persino voi Hobbit avete sentito, come un’ombra ai confini delle vecchie storie. Sempre, dopo una disfatta ed una tregua, l’Ombra si trasforma e s’ingigantisce nuovamente».

«Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!», esclamò Frodo.

«Anch’io», annuì Gandalf, «come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato. E ormai i giorni cominciano ad apparire neri e foschi. Il Nemico sta diventando rapidamente molto forte. I suoi piani sono lungi dall’essere maturi, credo, ma sono già a buon punto. Dovremo lottare con accanimento. Avremmo dovuto farlo anche senza questo terribile evento. Al Nemico manca ancora una cosa che gli possa dare la forza e la scienza necessarie a demolire ogni resistenza, distruggere le ultime difese e far piombare tutte le terre in una seconda oscurità: gli manca un Anello, l’Unico.

«I Tre più belli sono stati nascosti dai Re degli Elfi e la sua mano non li ha mai sfiorati né macchiati. Dei Sette toccati ai Re dei Nani, tre li ha ripresi e gli altri sono stati annientati dai Draghi. I Nove che diede agli Uomini Mortali, grandi ed orgogliosi, servirono ad irretirli. Tanto tempo fa caddero sotto il dominio di quell’Unico Anello diventandone gli Spettri, ombre sotto la sua grande Ombra, i suoi servitori più terribili. Tanto tempo fa, ormai. Quanti anni sono passati dal giorno in cui i Nove si allontanarono! Eppure, chissà? Mentre l’Ombra torna ad ingigantirsi potrebbero tornare. Ma ora basta! Non bisogna parlare di queste cose nemmeno di mattina in Contea.

«Questo è il punto: i Nove se li è riuniti attorno, come anche i Sette che non sono stati distrutti. I Tre sono ancora nascosti, ma ciò non lo preoccupa più. Vuole solo quell’Unico, quello che fece lui stesso, che gli appartiene. Gli aveva trasfuso gran parte del suo potere, affinché potesse dominare tutti gli altri. Se lo recupera, potrà di nuovo comandarli tutti, ovunque essi siano, anche i Tre nascosti; tutto ciò che è stato compiuto con essi sarà messo a nudo, ed egli sarà più forte che mai.

«È questo è il terribile evento, Frodo. Egli pensava che quell’Unico fosse stato annientato, che gli Elfi l’avessero distrutto, come infatti avrebbe dovuto essere. Ma ora sa che non è distrutto, che è stato trovato: e lo sta disperatamente cercando e non riesce a pensare ad altro. È la sua grande speranza ed il nostro angoscioso terrore». «Ma perché non è stato annientato?», gridò Frodo. «E come ha fatto il Nemico a perderlo, se era così forte e se ci teneva talmente al suo tesoro?». Strinse forte l’Anello che teneva in mano, come se vedesse già protesi, minacciosi davanti a lui, degli oscuri artigli.

«Gli fu tolto», rispose Gandalf. «Molto tempo fa la forza degli Elfi era più potente di adesso, e ancora non tutti gli Uomini erano ridotti in schiavitù. Gli Uomini dell’Ovesturia accorsero ad aiutarli. È un capitolo di storia arcaica che è forse opportuno ricordare; anche allora c’era panico e dolore, e l’oscurità si infittiva, ma le gesta di valore e le grandi imprese non furono del tutto vane. Forse un giorno ti racconterò l’intera storia, o te la farai raccontare da qualcuno che la conosce ancor meglio di me.

«Ma per il momento, poiché ciò che ti interessa e ti serve di più è di sapere com’è che l’anello è caduto nelle tue mani, mi limiterò a raccontarti questa parte della storia, che è già piuttosto lunga. Furono Gilgalad, il Re elfico, ed Elendil dell’Ovesturia a sconfiggere Sauron, pagando con la propria vita quella eroica impresa; fu così che Isildur, figlio di Elendil, si impadronì dell’Anello tagliando a Sauron il dito che lo portava. Lo spirito dell’Oscuro Signore, completamente sopraffatto, fuggì via e rimase nascosto per lunghi anni, fin quando la sua ombra riprese nuovamente forma nel Bosco Atro.

«Ma l’Anello fu perduto: cadde nel Gran Fiume, Anduin, e sparì. Mentre Isildur procedeva verso nord, costeggiando la sponda orientale del Fiume, gli Orchi, che gli avevano teso un agguato vicino a Campo Gaggiolo, trucidarono quasi tutta la sua gente. Isildur riuscì a tuffarsi in acqua, e mentre nuotava l’Anello gli scivolò dal dito e lui tornò ad essere visibile: gli Orchi lo scorsero subito e lo uccisero con le frecce».

Gandalf s’interruppe un istante. «E lì, negli stagni profondi in mezzo a Campo Gaggiolo», proseguì «l’Anello uscì dalla leggenda e nessuno ne seppe più niente; ma anche questi fatti che ti ho narrato sono ignorati pressoché da tutti, e persino il Consiglio dei Saggi non riuscì a scoprire altro. Ma credo d’aver finalmente penetrato il mistero e di poter continuare la storia.

* * *

«Molto tempo dopo, ma sempre tanti e tanti anni fa, viveva lungo le sponde del Gran Fiume, all’estremità delle Terre Selvagge, un piccolo popolo abile ed ingegnoso. Penso che dovesse essere di razza hobbit ed affine agli avi degli Sturoi, poiché amava molto il Fiume, vi nuotava spesso e lo percorreva con piccole imbarcazioni di canna. Vi era tra questa gente una famiglia che godeva di grande stima e reputazione, essendo più numerosa e benestante delle altre, a capo della quale stava una progenitrice severa, saggia ed esperta nelle antiche tradizioni del suo popolo. La persona più curiosa e intrigante della famiglia si chiamava Smeagol. S’interessava di radici e di origine; si tuffava negli stagni profondi, scavava sotto gli alberi e le altre piante, forava gallerie nelle montagnole. Non guardava più le sommità dei monti e delle colline, le foglie sugli alberi o i fiori arrampicati su pei muri: la sua testa ed i suoi occhi erano rivolti verso il basso.

«Aveva un amico di nome Déagol che gli rassomigliava, pur essendo più acuto di vista, ma meno forte e veloce. Un giorno presero una barca e scesero fino a Campo Gaggiolo, dove fiorivano gli iris e le canne. Arrivati lì, Smeagol scese e si mise a gironzolare lungo le rive, mentre Déagol rimase sull’imbarcazione a pescare. All’improvviso, un grosso pesce abboccò e, prima di poter reagire, Déagol si sentì trascinare fuori dalla barca giù nel fondo. Lì gli parve di vedere qualcosa che luccicava sul fondale e, abbandonando la lenza e trattenendo il fiato, l’afferrò.

«Tornato in superficie mezzo soffocato, con alghe nei capelli e un pugno di melma in mano, nuotò fino alla riva e, meraviglia!, quando sciolse il fango, vide un bell’anello d’oro brillare sul suo palmo e scintillare al sole: gli si riempì il cuore di gioia. Ma Smeagol l’aveva osservato da dietro un albero e, mentre Déagol gongolava felice per il suo anello, gli si avvicinò silenziosamente.

«“Dammi quel che hai in mano, Déagol, amore caro”, disse Smeagol da dietro le spalle dell’amico.

«“Perché?”», chiese Déagol.

«“Perché è il mio compleanno, amore caro, ed io voglio quell’anello”, rispose Smeagol.

«“Non m’importa”, disse Déagol. “Ti ho già fatto un regalo per la tua festa, e ho speso più di quanto potessi. Questo l’ho trovato io e lo terrò io”.

«“Oh! Veramente, amore caro?”, disse Smeagol, ed afferrò la gola di Déagol, strangolandolo: l’oro sembrava così lucido e bello! Si mise al dito l’anello.

«Nessuno seppe mai cos’era successo a Déagol; era stato assassinato lontano da casa ed il suo cadavere giaceva abilmente nascosto. Smeagol tornò solo. Scoprì che in famiglia nessuno lo vedeva quando portava al dito l’anello. Era molto compiaciuto della sua scoperta che teneva accuratamente segreta; se ne serviva per penetrare segreti che l’incuriosivano e sfruttava in modo perverso e malvagio le notizie che apprendeva. Diventò attento a tutte le occasioni adatte alla sua cattiveria. L’anello gli aveva conferito un potere proporzionato alla sua statura. Non c’è da meravigliarsi se tutti incominciarono ad odiarlo e se parenti ed amici lo fuggivano (quando era visibile). Lo prendevano a calci e lui mordeva loro i piedi. Si mise a rubare e prese l’abitudine di borbottare da solo e di gorgogliare con la gola. Fu così che lo soprannominarono Gollum, maledicendolo e cacciandolo via; sua nonna, desiderando vivere in pace, lo espulse dalla famiglia e gli ordinò di non mettere mai più piede nella sua caverna.

«Egli vagò solitario, versando qualche lacrima sulla cattiveria del mondo, e risalì il Fiume, giungendo così ad un torrente che scorreva giù dalle montagne, del quale seguì il corso. Afferrava i pesci nelle profondità dei flutti con dita invisibili e li mangiava crudi. Un giorno di gran caldo, mentre si chinava sull’acqua per rinfrescarsi, sentì qualcosa bruciargli la nuca e fu abbagliato da una luce fortissima che si rifrangeva sul ruscello affliggendo i suoi occhi bagnati. Si domandò cosa fosse, poiché si era dimenticato dell’esistenza del Sole. Allora, per l’ultima volta, volse la testa verso l’alto e mostrò i pugni.

«Ma abbassando lo sguardo vide in lontananza le cime delle Montagne Nebbiose, dalle quali nasceva il torrente. Un pensiero gli balenò improvviso alla mente: “Sotto quelle montagne sì che farà fresco! Lì, all’ombra ed al buio, il Sole non potrebbe più guardarmi. Le radici di quelle montagne devono essere veramente profonde e chissà quanti segreti vi sono sepolti, che mai nessuno ha scoperto e svelato”.

«Ed allora partì di notte per le alture, dove trovò una piccola caverna dalla quale erompeva il torrente oscuro. Strisciò viscido e lento come un baco fin nel cuore del monte, sparendo dalla faccia della terra. L’Anello lo seguì nelle ombre e colui che lo aveva forgiato non ne seppe mai niente, nemmeno quando il suo potere riprese a crescere ed a rinforzarsi».

* * *

«Gollum!», esclamò Frodo. «Gollum? Vuoi dire che quello era lo stesso orribile mostro incontrato da Bilbo? Quale orrore!». «Trovo che sia una vicenda molto triste», disse Gandalf, «e sarebbe potuta capitare a molti altri, anche a certi Hobbit di mia conoscenza».

«Non posso credere che Gollum fosse imparentato con gli Hobbit, nemmeno lontanamente!», disse Frodo con ardore. «Che pensiero orrendo!».

«Eppure è verissimo», replicò Gandalf. «In ogni modo, ne so molto più io sulle origini del vostro popolo che tutti gli Hobbit messi insieme. E devi riconoscere che la storia stessa di Bilbo suggerisce la parentela. Avevano un’infinità di cose in comune nel modo di pensare e di ricordare: si capivano straordinariamente bene, molto meglio che non un Hobbit con un Nano, per esempio, o con un Orco, o persino con un Elfo. Pensa a tutti gli enigmi che ambedue conoscevano: mi sembra molto significativo».

«Sì», disse Frodo, «ma anche altri popoli, oltre gli Hobbit, pongono enigmi che sono talvolta molto simili. Gli Hobbit non barano, e Gollum non aveva altro proposito che quello di barare: non faceva che cercare disperatamente di distrarre Bilbo, e sono convinto che il suo animo malvagio godeva a dare inizio ad un gioco che, se avesse vinto, gli avrebbe procurato una facile vittima e che, nel caso contrario, lo avrebbe lasciato senza danni».

«Purtroppo hai ragione», annuì Gandalf. «Ma c’era anche qualcos’altro che tu non riesci bene a capire. Gollum non era completamente distrutto: aveva dimostrato di essere molto più robusto di quanto noi Saggi avremmo pensato... proprio come un Hobbit. Un piccolo angolo della sua mente rimaneva ancora intatto, e quel giorno una luce lo attraversò come una fessura nel buio: luce del passato. Provò che era piacevole sentire nuovamente una voce gentile, che faceva rivivere in lui il ricordo del vento, degli alberi, del sole sull’erba, e di altre meraviglie dimenticate.

«Ma tutto ciò, naturalmente, non avrebbe che inviperito la parte malvagia della sua anima, a meno che non fosse riuscito a dominarla infine ed a guarirla dall’insania». Gandalf sospirò. «Ahimè Ho ben poca speranza che vi riesca. Tuttavia non è un caso disperato, nonostante abbia posseduto l’Anello talmente a lungo da non ricordarsi quasi più di quando se ne è appropriato. Da parecchio tempo ormai lo portava poco: nel buio del suo antro di rado ne aveva bisogno. Certo non si è sbiadito: pur essendo magro è ancora tenace. Ma l’Anello gli rodeva lo spirito ed il tormento era diventato insopportabile.

«Aveva scoperto che tutti i “grandi segreti” sepolti sotto le montagne non erano altro che vuota notte. Non c’era niente più da trovare, niente più che valesse la pena fare, soltanto furtivi pasti malvagi e ricordi sdegnati. Era un povero diavolo miserabile: odiava l’oscurità ed odiava ancor più la luce, odiava qualsiasi cosa ed innanzi tutto l’Anello».

«Come sarebbe a dire?», interruppe Frodo. «l’Anello non era il suo tesoro e l’unica cosa al mondo alla quale tenesse? Se lo odiava, perché non se ne è liberato, perché non è partito lasciandolo lì?».

«Dopo tutto quel che ti ho raccontato, ormai dovresti incominciare a capire, Frodo», disse Gandalf. «Lui lo odiava ed amava, così come odiava ed amava se stesso. Non poteva liberarsene: non aveva più alcuna forza di volontà.

«Un Anello del Potere vive la propria vita: può benissimo scivolare a tradimento, ma il suo custode non lo abbandonerà mai. Al massimo potrà considerare l’idea di affidarlo alle cure di qualcun altro, e ciò durante una fase iniziale, quando la presa è ancora molto leggera. Ma non mi risulta che nessun altro nella storia, oltre Bilbo, abbia effettivamente compiuto la rinuncia. Anche Bilbo, da solo, senza il mio aiuto, non ce l’avrebbe mai fatta, ed in ogni caso non sarebbe stato capace di abbandonarlo o buttarlo via. Non era Gollum, Frodo, a prendere le decisioni: era l’Anello. Fu l’Anello stesso ad andarsene».

«Come, proprio in tempo giusto per incontrare Bilbo?!», esclamò Frodo. «Non pensi che un Orco sarebbe stato più adatto?».

«Non è assolutamente il caso di scherzare», disse Gandalf; «e soprattutto nella tua posizione. Fu l’evento più straordinario in tutta la storia dell’Anello fino ai giorni nostri: l’arrivo di Bilbo in quel preciso minuto, il fatto che vi posasse la mano sopra, ciecamente, nel buio.

«C’era più di una potenza in gioco, Frodo. L’Anello stava cercando di tornare dal proprio padrone. Era scivolato di mano a Isildur e l’aveva tradito; poi, quando ne ebbe l’occasione, afferrò il povero Déagol che fu assassinato e, dopo di lui, Gollum, che aveva pressoché divorato e consumato. L’Anello non aveva ormai più bisogno di questo piccolo essere ignobile e meschino, e se fosse rimasto ancora con lui, non avrebbe mai più abbandonato quello stagno profondo. Così, ora che il suo padrone si era svegliato, invadendo con il suo pensiero oscuro le enormi contrade che circondavano il Bosco Atro, esso abbandonò Gollum, e capitò in mano della persona più incredibile: Bilbo della Contea!

«Dietro a questo incidente vi era un’altra forza in gioco, che il creatore dell’Anello non avrebbe mai sospettata. È difficile da spiegarsi, e non saprei essere più chiaro ed esplicito: Bilbo era destinato a trovare l’Anello, e non il suo creatore. In questo caso, anche tu eri destinato ad averlo, il che può essere un pensiero incoraggiante».

«Non lo è affatto», disse Frodo; «benché non sia certo di averti capito bene. Ma come hai fatto a scoprire tutte queste cose sull’Anello e su Gollum? Sei certo di ciò che dici, o stai ancora congetturando?».

Gandalf guardò Frodo, ed i suoi occhi brillarono. «Molte cose già le sapevo ed il resto l’ho appreso a poco a poco. Ma non starò a farti un racconto delle mie ricerche. La storia di Elendil ed Isildur e dell’Unico Anello, tutti i Saggi la conoscono. Basta la sola scritta di fuoco per dimostrare che il tuo è l’Unico Anello, senza bisogno di andare a cercare altre prove».

«E questo quando l’hai scoperto?», interloquì Frodo.

«Soltanto pochi minuti fa in questa stanza, naturalmente», rispose lo stregone con prontezza. «Ma me l’aspettavo. Sono tornato dai miei lunghi viaggi bui e dall’interminabile ricerca proprio per quest’ultima verifica. Era la prova finale ed ora tutto è chiaro! Trovare quale fosse la parte di Gollum in questa storia ed inserirla nel resto della vicenda è stato un compito piuttosto arduo. Ho incominciato col congetturare alcune cose, ma ora non sto più indovinando. So tutto: ho visto Gollum».

«L’hai visto?», esclamò Frodo strabiliato.

«Certo. Era naturalmente la prima cosa da farsi, se possibile. Vi provai tanto tempo fa, e finalmente vi sono riuscito».

«Allora mi sai dire cosa accadde dopo che Bilbo fu scappato con l’Anello?».

«Questo non lo so esattamente. Quel che ti ho raccontato era ciò che Gollum era disposto a confessare, non nel modo in cui te l’ho narrato io, beninteso, poiché egli è un bugiardo ed ogni sua parola deve essere soppesata. Per esempio, continuò imperterrito a chiamare l’Anello il suo “regalo di compleanno”. Sosteneva che glielo aveva dato sua nonna, che possedeva un’infinità di begli oggetti di quel genere. Una storia ridicola. Non metto in dubbio il fatto che la vecchia progenitrice fosse il capofamiglia, un grande personaggio a modo suo, ma sostenere che possedesse vari Anelli elfici era la cosa più assurda che si potesse inventare. E quanto alla storia del regalo, non ci vuol molto a capire che era una menzogna. Ma una menzogna con un pizzico di verità.

«L’assassinio di Déagol ossessionava Gollum ed egli si era creato una specie di alibi che ripeteva instancabilmente al suo “tesoro”, mentre rodeva ossa nell’oscurità, tanto che alla fine anche lui ne era quasi convinto. Era effettivamente il suo compleanno. Déagol era tenuto a dargli l’Anello. Era spuntato così all’improvviso per essere affidato a lui. Era il suo regalo di compleanno. E così via di seguito.

«Lo sopportai quanto più mi fu possibile, ma la verità era disperatamente importante, e alla fine fui costretto ad essere duro. Misi in lui la paura del fuoco, e gli cavai fuori lentamente, a brano a brano, l’intera storia, frammista a piagnucolii e recriminazioni. Era convinto che io lo prendessi in giro e lo sfruttassi. Ma quando ebbe finito di raccontarmi la sua storia, si fermò al gioco degli enigmi ed alla seguente fuga di Bilbo, e si rifiutò di proseguire. Fece solo qualche oscura allusione. Aveva terrore di qualcos’altro, oltre che di me. Borbottava minaccioso che si sarebbe ripreso ciò che gli apparteneva; avrebbe fatto vedere lui alla gente come reagiva contro chi l’aveva preso a calci e costretto a finire in una caverna, ed infine derubato. Gollum aveva ora dei buoni amici, affezionati e molto molto forti. Essi l’avrebbero aiutato e gliel’avrebbero fatta pagare ai Baggins! Questo pensiero lo ossessionava. Odiava Bilbo e lo malediceva: inoltre sapeva anche da dove veniva».

«Come aveva fatto a scoprirlo?», chiese Frodo.

«Bilbo fu talmente sciocco da dire a Gollum come si chiamava. Una volta avuta quell’informazione, era facile per Gollum scoprire di che paese era, se fosse uscito dal suo antro. Ed infatti ne uscì. Il desiderio dell’Anello fu più forte della paura degli Orchi, e persino del suo odio per la luce. Dopo un anno o due lasciò le montagne. Capisci, benché egli fosse ancora vincolato all’Anello da una passione morbosa, non ne era più divorato; incominciò a rivivere. Si sentiva vecchio, terribilmente vecchio, ma meno timido, ed aveva una fame spaventosa.

«La luce, quella del Sole e della Luna, la odiava e la temeva ancora, e così sarà per sempre, credo. Ma era molto furbo: scoprì che poteva nascondersi dai raggi del Sole e dal chiaro di Luna, e farsi strada, silenzioso e veloce nel più cupo della notte coi suoi occhi pallidi e freddi, ed afferrare piccoli esseri impauriti o incauti. La nuova aria ed il cibo fresco lo rinvigorirono ed incoraggiarono. Giunse, com’era da aspettarsi, fino al Bosco Atro».

«È lì che l’hai trovato?», domandò Frodo.

«Sì, lo vidi lì, ma prima se ne era andato lontano, errando alla ricerca di Bilbo. Era difficile apprendere da lui qualcosa di nuovo, poiché le sue frasi erano costantemente interrotte da minacce e maledizioni. “Che aveva quello nelle sue tasche?”, diceva. “Non l’ho detto io, non l’ho detto, tesoro mio. Imbroglio, imbroglio. No, non era onesta la domanda. È stato lui, lui è stato ad imbrogliare prima. Ha infranto le regole. Lo dovevamo schiacciare, strizzare, caro tesoro mio. Ma lo faremo mio caro tesoro”.

«Questo è un esempio della sua conversazione; non penso che tu voglia sentirne ancora. Ho penato giorni e giorni per capirlo. Dagli accenni frammisti alle imprecazioni ho potuto dedurre che i suoi viscidi piedi l’avevano condotto fino ad Esgaroth e persino nelle vie della Valle, per ascoltare e curiosare ovunque. Ebbene, la notizia dei grandi eventi si sparse per tutte le Terre Selvagge e molti avevano sentito parlare di Bilbo e sapevano di dov’era. Non avevamo affatto tenuto segreto il nostro viaggio di ritorno all’Ovest, a casa sua. Le orecchie aguzze di Gollum appresero presto e facilmente ciò che volevano sapere».

«E allora perché non proseguì nella sua ricerca di Bilbo?», chiese Frodo. «Perché non è venuto fin qui nella Contea?».

«Ah!», rispose Gandalf, «ecco il punto. Credo che Gollum tentasse di giungere fino al paese di Bilbo. Egli partì per il suo viaggio ed arrivò ad ovest fino al Grande Fiume. Ma lì deviò. Non perché fu spaventato dalla distanza. No, ci dovette essere qualcos’altro a trascinarlo via, o perlomeno questo è ciò che pensano i miei amici che l’hanno inseguito per conto mio.

«Gli Elfi dei Boschi furono i primi a pedinarlo: un compito facile per loro, poiché la sua traccia era ancora fresca. Egli li condusse attraverso il Bosco Atro e poi nuovamente indietro; ma non riuscirono mai a raggiungerlo e catturarlo. Il Bosco non rumoreggiava che di lui, giravano storie spaventose persino tra le bestie e gli uccelli. I Boscaioli dicevano che un nuovo terrore sgomentava le popolazioni, un fantasma assetato di sangue. Si arrampicava sugli alberi per strappare i nidi, si inoltrava nelle caverne per rapire i piccoli, sgusciava dalle finestre alla ricerca di neonati in culla.

«Ma al limite occidentale del Bosco Atro la traccia deviava. Vagò giù verso sud, uscendo dal campo di investigazione degli Elfi dei Boschi, e poi si perse. Fu allora che commisi un grande errore. Sì, Frodo, e non il primo, benché tema proprio che sia il peggiore ed il più grave. Lasciai la cosa a metà; lasciai fuggire Gollum, perché avevo ben altro da pensare allora, e nutrivo ancora fiducia nella scienza di Saruman.

«Tutto ciò accadde molti anni fa. Numerose, interminabili giornate oscure e pericolose mi hanno fatto pagare da allora il mio sbaglio. La traccia era fredda quando ripresi l’inseguimento, ossia dopo che Bilbo fu partito da Casa Baggins. E la mia ricerca sarebbe stata vana se non avessi avuto l’appoggio di un amico: Aragorn, il più gran viaggiatore e cacciatore del mondo attuale. Cacciammo Gollum insieme per l’intera lunghezza delle Terre Selvagge, senza speranza e senza successo. Ma infine, quando mi ero dato per vinto ed ero sul punto di decidermi a cercarlo in altre direzioni, Gollum fu trovato. Il mio amico, scampato a grandi pericoli, tornò trascinandosi quell’essere miserevole.

«Gollum si rifiutò di dire ciò che aveva fatto. Piangeva ininterrottamente accusandoci di essere crudeli, mentre molti singhiozzi e molti gollum gli stringevano la gola. E quando lo incalzavamo di domande, si lamentava, comportandosi servilmente sfregandosi le lunghe mani, leccandosi le dita come se gli dolessero, o se si rammentasse di qualche atroce tortura. Ma temo che non vi siano dubbi possibili: era avanzato, viscido e lento, passo per passo, un miglio dopo l’altro, fino a sud, giungendo finalmente alla Terra di Mordor».

* * *

Nella stanza cadde un silenzio pesante e penoso. Frodo sentiva i battiti del proprio cuore. Anche fuori tutto pareva immobile. Adesso persino le forbici di Sam tacevano.

«Sì, a Mordor», disse Gandalf. «Ahimè, Mordor attira tutto ciò che di cattivo c’è al mondo, e l’Oscuro Potere tendeva con tutta la sua diabolica forza a riunire lì tutti i malvagi. L’Anello del Nemico aveva lasciato un segno profonde su Gollum, il quale non poté resistere al richiamo. Le genti di tutte le terre sussurravano di quella nuova Ombra nel Sud, che odiava l’Occidente. Ecco i suoi “nuovi, cari amici”, essi sì che l’avrebbero aiutato a vendicarsi!

«Povero diavolo! Avrebbe appreso molto in quel paese, troppo per non esserne sconvolto. E poi un bel giorno, mentre stava curiosando in agguato, fu preso prigioniero e sottoposto ad un interrogatorio. E così l’intera faccenda venne alla luce. Quando i miei amici lo trovarono aveva trascorso laggiù parecchio tempo, e stava per lasciare quella contrada con qualche intento perfido e malvagio. Ma ciò conta ben poco ormai. Il danno maggiore era stato fatto.

«Sì, ahimè! Per suo tramite il Nemico ha saputo che l’Unico Anello è stato ritrovato. Egli sa dove cadde Isildur. Sa anche esattamente dove Gollum trovò il suo “tesoro”. Sa che è uno dei Grandi Anelli, poiché dà la longevità. Sa che non è uno dei Tre, dal momento che non sono mai stati smarriti, e che non sopportano la malvagità. Sa che questo non è uno dei Sette o uno dei Nove, giacché quelli sono tutti sotto il suo controllo. Sa che questo è l’Unico, e credo che finalmente abbia anche sentito parlare degli Hobbit e della Contea.

«La Contea: forse la sta cercando ora, se non ha già scoperto dove si trova. Mio caro Frodo, temo proprio che egli possa pensare che il nome Baggins, a lungo inosservato, sia diventato di colpo importantissimo».

«Ma è una cosa atroce!», gridò Frodo. «Molto, ma molto peggio delle peggiori conclusioni che avevo tratto dalle tue allusioni e dai tuoi ammonimenti. O Gandalf, il più caro e sincero tra i miei amici, che devo fare? Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile e ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione».

«Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità. E fu ben ricompensato di questo suo gesto, Frodo. Stai pur certo che se è stato grandemente risparmiato dal male, riuscendo infine a scappare ed a trarsi in salvo, è proprio perché all’inizio del suo possesso dell’Anello vi era stato un atto di Pietà».

«Mi dispiace», disse Frodo; «ma sono terrorizzato e non ho alcuna pietà per Gollum».

«Non l’hai visto», interloquì Gandalf.

«No, e non ne ho alcuna intenzione», disse Frodo. «Non riesco a capirti; vuoi dire che tu e gli Elfi l’avete lasciato continuare a vivere impunito, dopo tutti i suoi atroci crimini? Al punto in cui è arrivato è certo malvagio e maligno come un Orco, e bisogna considerarlo un nemico. Merita la morte».

«Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E parecchi che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi: sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze. Ho poca speranza che Gollum riesca ad essere curato ed a guarire prima di morire. Ma c’è una possibilità. Egli è legato al destino dell’Anello. Il cuore mi dice che prima della fine di questa storia l’aspetta un’ultima parte da recitare, malvagia o benigna che sia; e quando l’ora giungerà, la pietà di Bilbo potrebbe cambiare il corso di molti destini, e soprattutto del tuo. Comunque, noi non l’abbiamo ucciso: è molto vecchio e misero. Gli Elfi Silvani lo tengono in prigione, ma lo trattano con tutta la dolcezza del loro cuore saggio e buono».

«Ma anche se Bilbo ha fatto bene a non uccidere Gollum, è stato un grande errore tenersi l’Anello; se almeno l’avesse lasciato lì!», disse Frodo. «Non so che cosa darei per tornare indietro, far sì che non l’avesse mai trovato, e che non fosse poi venuto in mio possesso! Perché mi hai permesso di tenerlo? Perché non mi hai costretto a gettarlo via o a distruggerlo?».

«Permetterti? Costringerti?», disse lo Stregone. «Ma non hai ascoltato le mie parole? Non pensi a ciò che stai dicendo. Quanto poi a gettarlo via, sarebbe stato un evidente errore. Questi sono Anelli che si fanno ritrovare. In cattive mani avrebbe potuto causare grandi danni. Peggio di tutto, sarebbe potuto cadere nelle mani del Nemico. Anzi, sono sicuro che sarebbe successo proprio così; questo infatti è l’Unico, e tutta la potenza del Nemico è concentrata su di esso, per riuscire a trovarlo oppure a trarlo a sé.

«Devo riconoscere, caro Frodo, che la tua era una posizione pericolosa; e ciò mi ha tenuto inquieto e preoccupato per lunghi anni. Ma la posta in gioco era tale che dovevamo correre qualche rischio, benché anche durante quei nove anni che passai lontano dalla Contea, tu e la tua terra siate stati ininterrottamente custoditi e protetti da uno sguardo vigile. Pensavo che, se tu non l’adoperavi, l’Anello non poteva avere su di te un effetto duraturo o permanente; certo nessun effetto profondamente maligno e nemmeno, in ogni caso, irrimediabile. Tra l’altro, devi tener presente che nove anni fa, quando ti vidi per l’ultima volta, non ero propriamente sicuro delle mie ipotesi».

«Ma perché non distruggerlo? Dici che lo si sarebbe dovuto fare già da molto tempo: perché non farlo ora?», gridò Frodo. «Se mi avessi avvertito o magari mandato un messaggio, me ne sarei certo disfatto».

«Veramente? E in che modo? Ci hai mai provato?».

«No, ma suppongo si possa martellare o fondere».

«Benissimo, allora provaci!», disse Gandalf. «Provaci subito!».

* * *

Frodo tolse nuovamente di tasca l’Anello e lo guardò. Adesso era liscio ed uniforme, senza alcun segno o indizio apparente. L’oro sembrava molto bello e puro, e Frodo ammirò la ricchezza e lo splendore del colore, la perfezione della forma. Era un oggetto straordinario e di altissimo pregio. Prima di averlo in mano, la sua intenzione era di scaraventarlo lontano, nella parte più infocata del camino. Ma ora si accorgeva che non era cosa facile, che avrebbe avuto bisogno di un grandissimo sforzo di volontà. Soppesò l’Anello, esitante e imponendosi di pensare a tutto ciò che Gandalf gli aveva detto; poi riunì tutte le sue forze per lanciarlo lontano nel fuoco, ma scoprì di esserselo rimesso in tasca.

Gandalf rise sardonicamente. «Lo vedi? Si sta impadronendo di te, e anche tu, Frodo, già non riesci a sbarazzartene, e non hai più la volontà di distruggerlo. Ed io non ti potrei “costringere, se non con la forza, cosa che sconvolgerebbe la tua mente. Ma quanto a rompere l’Anello, la forza è del tutto vana. Anche colpendolo con una mazza da fabbro, non lo scalfiresti nemmeno. Le tue mani e le mie mai lo potranno disgregare.

«Questo piccolo fuoco non fonderebbe certo nemmeno l’oro comune. L’Anello, nel bel mezzo di esso, non è stato minimamente danneggiato e non si è nemmeno riscaldato. Ma nessun fabbro e nessuna fucina in tutta la Contea sarebbero in grado di alterarlo. Nemmeno le fornaci e le incudini dei Nani vi riuscirebbero. È stato detto che il fuoco di drago può fondere e consumare gli Anelli del Potere, ma oggidì sulla terra non vi è un solo drago, il cui antico fuoco sia ancora vivo ed intenso a tal punto da riuscirvi; e comunque non è mai esistito un drago, nemmeno Ancalagon il Nero, che potesse danneggiare l’Unico Anello, l’Anello Dominante, poiché era stato forgiato da Sauron in persona.

«C’è una sola strada: trovare la Voragine del Fato, negli abissi dell’Orodruin, la Montagna di Fuoco, e lanciarvi l’Anello, se desideri effettivamente distruggerlo ed impedire per sempre al Nemico di impadronirsene».

«Certo che desidero distruggerlo, e con tutte le mie forze!», gridò Frodo. «O che perlomeno venga distrutto. Non sono affatto amante delle imprese perigliose. Cosa darei per non aver mai visto quest’Anello! Perché è toccato a me? Come mai sono stato scelto io?».

«Queste sono domande senza risposta», disse Gandalf. «Puoi credere che ciò non è dovuto ad alcun merito particolare o personale: non certo per via della forza o della sapienza, in ogni caso. Ma sei stato scelto tu, ed hai dunque il dovere di adoperare tutta la forza, l’intelligenza ed il coraggio di cui puoi disporre».

«Ma posseggo talmente poco di tutto ciò! Tu sei saggio e potente, prendilo tu l’Anello!».

«No!», gridò Gandalf, saltando in piedi. «Con quel potere, il mio diventerebbe troppo grande e troppo terribile. E su di me l’Anello acquisterebbe un potere ancor più spaventoso e diabolico». I suoi occhi lanciarono fiamme ed il suo viso fu illuminato da un fuoco interno. «Non mi tentare! Non desidero eguagliare l’Oscuro Signore. Se il mio cuore lo desidera, è solo per pietà, pietà per i deboli, e bisogno di forza per compiere il bene. Ma non mi tentare Non oso prenderlo, nemmeno per custodirlo senza adoperarlo. Il desiderio sarebbe troppo irresistibile per le mie forze. Ne avrei tanto bisogno: grandi pericoli mi attendono».

Andò alla finestra e spalancò tende ed imposte. La luce del sole inondò nuovamente la stanza. Sam passò per il sentiero nel giardino fischiettando. «Ed ora», disse lo stregone, voltandosi verso Frodo, «sta a te decidere; ma ti starò sempre accanto per aiutarti». Gli posò la mano sulla spalla. «Ti aiuterò a sostenere questo peso, fin quando toccherà a te sopportarlo. Ma dobbiamo fare qualcosa, e subito: il Nemico sta per agire».

* * *

Seguì un lungo silenzio. Gandalf tornò a sedersi e tirò qualche boccata dalla pipa, come smarrito nei pensieri. Gli occhi parevano chiusi, ma da sotto le palpebre osservava intensamente Frodo. Questi fissava rapito la brace incandescente nel camino, finché il suo campo visivo ne fu invaso, e sembrava che guardasse nel profondo abisso di pozzi infocati. Pensava alla leggendaria Voragine del Fato ed al terrore della Montagna di Fuoco.

«Ebbene», disse infine Gandalf. «A che stai pensando? Hai deciso il da farsi?».

«No!», rispose Frodo, ritornando improvvisamente dal buio alla realtà, e constatando con enorme sorpresa che non era buio, e che dalla finestra poteva vedere il giardino assolato. «Anzi, forse sì. Se ho ben capito ciò che mi hai detto, suppongo che io debba tenere l’Anello e custodirlo, almeno per il momento, noncurante di ciò che mi potrebbe capitare».

«Qualsiasi diabolica e funesta cosa dovesse capitarti, giungerebbe molto molto lentamente, se riesci a tenerlo unicamente per quello scopo», disse Gandalf.

«Lo spero», disse Frodo; «ma spero che tu possa trovare presto un miglior guardiano. Tuttavia mi sembra di costituire un pericolo, un grande pericolo per tutti coloro che vivono intorno a me. Non posso conservare l’Anello e rimanere qui; dovrei lasciare Casa Baggins, lasciare la Contea, abbandonare tutto e partire», sospirò. «Vorrei tanto salvare la Contea, se potessi farlo, benché sia stato spesso indotto a pensare che gli abitanti sono di una stupidità e di una noia incommensurabili, e che, data la situazione, un terremoto o una invasione di draghi sarebbero la cosa migliore. Ma ora non la penso più così. Sento che fin quando saprò che la mia Contea è sempre qui, comoda e sicura, girovagare ed errare sarà per me più facile, conscio che in una parte del mondo c’è un appoggio stabile e saldo che mi attende, anche se non vi dovessi più metter piede.

«Naturalmente, qualche volta ho già meditato di partirmene, ma come per una specie di vacanza, una serie di avventure simili a quelle di Bilbo o ancora più belle, con una conclusione pacifica e rassicurante. Ma ora si tratterebbe di esilio, di una fuga dal pericolo nel pericolo, trascinandolo appresso a me. E suppongo che dovrò partire solo, per compiere quest’impresa e salvare la Contea. Ma, come mi sento piccolo, sradicato e… disperato. Il Nemico è talmente forte e terribile!».

Non confessò a Gandalf il violento desiderio che si era impadronito di lui mentre parlava: il desiderio di seguire Bilbo e la speranza di riuscire forse persino a rintracciarlo. Diventò così forte da vincere la paura: sarebbe corso fuori di lì con piacere, per poi percorrere rapido e veloce la strada, senza cappello, come aveva fatto Bilbo una mattina simile di tanti anni addietro.

«Mio caro Frodo!», esclamò Gandalf «Gli Hobbit sono veramente esseri stupefacenti, come ho sempre sostenuto. Puoi imparare tutto sui loro usi e costumi in un mese, e tuttavia dopo cento anni riescono a meravigliarti ed a stupirti. Non osavo aspettarmi una risposta simile, nemmeno da te. Ma Bilbo non sbagliò nella scelta del suo successore, pur non avendo la più vaga idea dell’importantissima parte che costui era destinato a sostenere… Purtroppo credo che tu abbia ragione. L’Anello non potrà rimanere nascosto nella Contea ancora a lungo; per il tuo bene e per quello del tuo popolo, dovrai partire lasciando la tua casa, ed il cognome Baggins sarebbe tutt’altro che prudente portarlo fuori della Contea, o nelle Terre Selvagge. Ti darò ora un nome adatto al tuo viaggio. Dal momento della tua partenza ti chiamerai signor Sottocolle.

«Ma non credo sia indispensabile che tu vada solo; perlomeno se conosci qualcuno di cui ti puoi fidare, che sarebbe pronto a combattere al tuo fianco e che tu saresti disposto a trascinare in mezzo a pericoli ignoti. Ma se cerchi un compagno, sii estremamente cauto nella scelta! E stai attento a ciò che dici, anche agli amici più intimi. Il Nemico ha molte spie e molti modi di sentire».

S’interruppe d’un tratto come per ascoltare. Frodo notò come tutto fosse calmo, in casa e fuori. Gandalf si avvicinò quatto quatto ad un lato della finestra; quindi con un balzo saltò sul davanzale, allungando un braccio all’esterno e verso il basso. Si sentì uno squittio soffocato, seguito dal comparire della testa ricciuta di Sam Gamgee tirata per un orecchio.

«Bene, bene, bene! Cosa mi tocca vedere!», esclamò Gandalf. «Sam Gamgee, no? Che diamine stavi facendo?».

«Il cielo benedica vossignoria, signor Gandalf!», disse Sam. «Assolutamente niente! Insomma stavo soltanto potando l’aiuola sotto la finestra, non so se mi spiego». Raccolse le sue forbici e le mostrò come prova della sua buona fede.

«Non ti sei spiegato affatto», ribatté Gandalf. «È già da un bel po’ di tempo che non ti sento più trafficare con le forbici. Da quando stai origliando?».

«Origliare? Signore, chiedo scusa, ma non capisco. Non vi sono origlieri in giardino, e non ve ne sono mai stati», rispose Sam.

«Non fare lo scemo! Cos’hai sentito e perché ascoltavi?». Gli occhi di Gandalf lampeggiavano e le sue sopracciglia sporgevano irte come setole.

«Padron Frodo, signore!», gridò Sam tremante. «Ditegli di non farmi del male! Di non trasformarmi in qualche strana bestia! Il mio vecchio padre morirebbe di crepacuore! Non avevo cattive intenzioni, signore, ve lo giuro!».

«Non ti farà niente», disse Frodo trattenendo con difficoltà una risata, pur essendo anch’egli stupito e alquanto perplesso. «Sa meglio di me che non hai cattive intenzioni. Ma ora rispondi immediatamente alle domande senza farti pregare!».

«Ebbene, signore», disse Sam balbettando leggermente, «ho sentito un sacco di cose su di un nemico e su degli anelli che non ho ben capito; e parlavano anche del signor Bilbo, di draghi e di montagne di fuoco, e di… di Elfi, signore. Ascoltavo perché non potevo farne a meno, non so se mi spiego. Il cielo mi perdoni, ma mi piace tanto questo genere di storie, e ci credo, anche se Ted mi prende in giro. Oh gli Elfi! Signore, cosa darei per vedere gli Elfi! Non potete portarmi con voi, signore, quando andate a trovare gli Elfi?».

Gandalf scoppiò a ridere. «Vieni dentro!», gridò, e con ambedue le braccia sollevò il povero Sam stupefatto, con tanto di forbici, potature e tutto il resto, e dopo averlo fatto passare dalla finestra lo depose in piedi davanti a sé. «Portarti a vedere gli Elfi, eh!», disse, osservando Sam da vicino, con un abbozzo di sorriso sulle labbra. «Così sai anche che il signor Frodo sta per partire?».

«Sì, signore. Ed è per questo che ho singhiozzato e voi mi avete sentito. Ho cercato di trattenermi, signore, ma non ce l’ho proprio fatta!».

«Non ho altra scelta, Sam», disse Frodo triste ed accorato. Si era improvvisamente reso conto che abbandonare la Contea significava una separazione molto più dolorosa di un semplice addio alle sue piccole domestiche comodità di Casa Baggins. «Devo assolutamente partire. Ma se mi sei veramente affezionato», e dicendo ciò guardò fisso Sam, «se mi vuoi veramente bene, sarai muto come una tomba. Altrimenti sai che ti succede? Se ti lasci scappare una sola parola di quel che hai sentito, mi auguro che Gandalf ti tramuti in un rospo macchiato e riempia il giardino di orribili serpi».

Sam cadde in ginocchio tremante. «Alzati, Sam», disse Gandalf. «Ho in mente una soluzione migliore. Qualcosa che ti terrà la bocca chiusa e t’insegnerà ad ascoltare i discorsi degli altri. Partirai col signor Frodo!».

«Io, signore!», gridò Sam, balzando in piedi come un cane invitato a fare una passeggiata. «Io vedere gli Elfi e tutto il resto! Meraviglioso!», esclamò entusiasta e scoppiò in lacrime.

CAPITOLO III IN TRE SI È IN COMPAGNIA




«Dovrai andartene silenziosamente, e dovrai andartene presto», disse Gandalf. Erano passate due o tre settimane e Frodo non accennava ad incominciare i preparativi di partenza.

«Lo so, ma è un po’ difficile fare tutt’e due le cose», obiettò. «Se sparisco come Bilbo, lo saprà tutta la Contea in quattro e quattr’otto».

«Certo che non devi sparire!», disse Gandalf. «Sarebbe una pessima trovata. Ho detto presto e non immediatamente. Se trovi un modo per svignartela di qui senza che tutti lo sappiano, vale la pena perdere un po’ di tempo. Ma non devi aspettare troppo a lungo».

«Che te ne pare dell’autunno, all’incirca nel periodo del nostro compleanno?», chiese Frodo. «Dovrei farcela ad organizzare tutto per allora».

A dire il vero, Frodo era estremamente riluttante a partire, ora che ne era giunto il momento. Casa Baggins pareva più incantevole e comoda che mai, e voleva godersi il più possibile la sua ultima estate nella Contea, assaporandone tutte le delizie. Una volta giunto l’autunno, sapeva che almeno una parte della sua anima sarebbe stata ben disposta al viaggio, come sempre in quella stagione. Segretamente aveva già deciso di partire il giorno del suo cinquantesimo compleanno, il centoventottesimo di Bilbo. Sembrava in qualche modo il giorno adatto per partire sulle sue tracce. Seguire Bilbo era la cosa che occupava maggiormente i suoi pensieri, e l’unica cosa che rendesse sopportabile l’idea della partenza. Pensava il meno possibile all’Anello, e in quali avventure esso l’avrebbe potuto condurre. Ma non comunicò a Gandalf tutti i suoi pensieri. Era sempre difficile capire ciò che lo stregone indovinava.

Gandalf guardò Frodo sorridendo. «Benissimo», disse, «credo che possa andare: ma non rinviare di un solo giorno. Sto diventando molto ansioso ed inquieto. Nel frattempo, sii cauto, e non lasciarti sfuggire neanche una parola su dove andrai. E bada bene che Sam Gamgee non parli. Se fa qualcosa del genere, lo trasformo veramente in un rospo».

«Quanto a dove andare», disse Frodo, «sarebbe un po’ difficile tradirmi, poiché non ne ho la più pallida idea io stesso».

«Non essere assurdo!», disse Gandalf. «Non ti sto mica raccomandando di non lasciare il tuo indirizzo all’ufficio postale! Ma tu stai per abbandonare la Contea, e questo non si deve sapere fin quando non sarai già molto lontano. E devi andare, o perlomeno incamminarti, in una direzione precisa, Nord, Sud, Est oppure Ovest, che nessuno però deve conoscere».

«Sono stato così sopraffatto dal pensiero di lasciare Casa Baggins, e di dire addio a tutte le cose alle quali tengo, che non ho mai pensato alla direzione», disse Frodo. «In fin dei conti dove devo dirigermi? Come mi orienterò? Qual è lo scopo della mia ricerca? Bilbo era partito alla caccia di un tesoro, e ne era ritornato; io invece vado a perdere un tesoro, e senza ritorno possibile, a quanto capisco».

«Ma non puoi capire molto», disse Gandalf, «e nemmeno io. Forse il tuo compito sarà di trovare la Voragine del Fato, o forse toccherà ad altri avventurarsi in quei paraggi, non lo so. In ogni caso, non sei ancora pronto per quel lungo cammino».

«Direi proprio di no!», esclamò Frodo. «Ma nel frattempo che direzione devo prendere?».

«Verso il pericolo, ma non con troppa premura, o avventatamente», rispose lo stregone. «Se vuoi il mio parere, ti consiglierei di andare verso Gran Burrone. Non dovrebbe essere un viaggio troppo pericoloso, benché la Via sia meno facile da percorrere oggi che non in passato, e peggiori notevolmente coll’incalzare delle stagioni».

«Gran Burrone!», disse Frodo. «Molto bene; andrò a est, direzione Gran Burrone. Porterò Sam a vedere gli Elfi; ne sarà entusiasta». Parlava senza dar peso alle parole; ma il suo cuore fu improvvisamente mosso dal desiderio di vedere la casa di Elrond Mezzoelfo, e di respirare l’aria di quella profonda valle dove ancora vivevano in pace molti Luminosi.

* * *

Una sera d’estate, una notizia stupefacente giunse all’Edera ed al Drago Verde. I giganti e le altre meraviglie alle frontiere passarono in secondo piano, cedendo il posto a un fatto estremamente importante: il signor Frodo vendeva Casa Baggins, anzi l’aveva già venduta… ai Sackville-Baggins.

«Ed ha guadagnato anche una bella sommetta!», dicevano gli uni. «Sotto costo!», dicevano gli altri; «tanto più che l’acquirente è la signora Lobelia». (Otto era morto qualche anno prima, alla matura ma insoddisfatta età di centodue anni).

Ma il motivo per il quale il signor Frodo vendeva la sua splendida caverna fu ancora più discusso del prezzo. Alcuni sostenevano la tesi (appoggiati dagli accenni e dalle allusioni del signor Baggins in persona) che la fortuna di Frodo stava per esaurirsi. Avrebbe lasciato Hobbiville e sarebbe andato a vivere modestamente di rendita tra i suoi parenti Brandibuck, nella Terra di Buck. «Il più lontano possibile dai Sackville-Baggins», altri aggiungevano. Ma l’idea che si erano fatta della ricchezza incommensurabile dei Baggins di Casa Baggins era talmente radicata nella mente di tutti, che la maggior parte la trovò una soluzione del tutto inconcepibile, molto più incredibile di qualsiasi altra spiegazione dettata dal cervello o dalla immaginazione: i più pensavano ad un oscuro complotto di Gandalf non ancora venuto alla luce. Infatti, benché cercasse di passare inosservato, e non uscire che di notte, era opinione che egli «si nascondeva su a Casa Baggins». Come potesse un trasloco far parte di un suo nuovo programma di stregonerie, nessuno lo sapeva, ma un fatto era bell’e sicuro: Frodo Baggins tornava nella Terra di Buck.

«Sì partirò in autunno», diceva a tutti. «Merry Brandibuck mi sta cercando una piccola caverna accogliente tutta per me, o forse anche una casetta».

Di fatto però aveva già scelto e comprato con l’aiuto di Merry una piccola casa a Crifosso, nella campagna oltre Buckburgo. A tutti, meno Sam, diceva che aveva intenzione di stabilirvisi definitivamente. La decisione di dirigersi verso est gliene aveva suggerito l’idea, poiché la Terra di Buck costituiva il confine orientale della Contea; ed avendo egli trascorso l’infanzia in quella regione, il fatto di volervi ritornare era un pretesto del tutto plausibile.

* * *

Gandalf rimase nella Contea per più di due mesi. Poi, una delle ultime sere di giugno, poco dopo la messa a punto del piano di Frodo, annunciò all’improvviso che l’indomani mattina sarebbe partito. «Soltanto per poco tempo, spero», disse. «Ma è bene fare una capatina al Sud, oltre i confini, per vedere che succede e raccogliere un po’ di notizie, se possibile. Sono rimasto troppo inattivo».

Parlava disinvolto, ma a Frodo parve alquanto preoccupato. «È accaduto qualcosa?», domandò.

«No, non proprio, ma ho avuto sentore di una cosa che m’impensierisce e che voglio vedere da vicino. Se poi mi sembrasse necessaria una tua partenza immediata, tornerò subito o ti manderò almeno un messaggio. Nel frattempo attieniti al tuo piano; ma sii più cauto che mai, e soprattutto custodisci bene l’Anello. Lascia che te lo ripeta ancora: non adoperarlo!».

Partì all’alba. «Potrei tornare da un momento all’altro», disse. «Al più tardi sarò qui per la festa d’addio. Penso che dopo tutto potresti aver bisogno della mia compagnia lungo la Via».

Sulle prime Frodo fu piuttosto infastidito, e non cessava dal chiedersi cosa fosse giunto all’orecchio di Gandalf, ma poi la sua inquietudine si calmò; e con il bel tempo dimenticò i suoi guai. Raramente si era avuta nella Contea un’estate così splendida e luminosa, ed un autunno tanto ricco e generoso: gli alberi erano sovraccarichi di mele, il grano era alto e fitto, ed il miele gocciolava dagli alveari.

L’autunno era prossimo quando Frodo cominciò nuovamente a preoccuparsi per Gandalf: settembre stava per finire, e non arrivavano notizie. Il Compleanno ed il trasloco si avvicinavano rapidamente, eppure Gandalf non si faceva vivo e non mandava alcun messaggio. A Casa Baggins fervevano i preparativi. Un paio di amici di Frodo andarono a stare con lui per aiutarlo ad imballare la roba: Fredegario Bolgeri e Folco Boffin, e naturalmente i suoi amici per la pelle Pipino Tuc e Merry Brandibuck. Lavorando assieme con entusiasmo, misero sottosopra tutta la casa.

Il 20 settembre due carri partirono alla volta di Crifosso, carichi di roba: trasportavano nella nuova dimora tutto il mobilio e gli altri articoli che Frodo non aveva venduto. Il giorno seguente Frodo si fece più ansioso nell’attesa di Gandalf. Giovedì mattina, giorno del compleanno, l’alba si levò chiara e luminosa come tanti anni addietro in occasione della gran festa di Bilbo. E Gandalf non arrivava. Di sera Frodo diede la festa d’addio: erano in pochi, soltanto lui e i quattro amici che tanto l’avevano aiutato. Era turbato, e non aveva voglia di vedere gente. Il pensiero che fra breve avrebbe dovuto separarsi dai suoi giovani amici gli pesava sul cuore, si domandava come fare per annunciare la triste novella.

I quattro più giovani Hobbit erano, comunque, di ottimo umore, e presto la festa diventò allegra ed animata malgrado l’assenza di Gandalf. La stanza da pranzo era spoglia, oltre al tavolo e le sedie, ma il cibo eccellente ed il vino molto buono: il vino di Frodo non era stato compreso tra i beni venduti ai Sackville-Baggins. «I Sackville-Baggins possono fare quel che vogliono di tutta l’altra roba, appena ci metteranno le grinfie, ma in tutti i casi per questo ho trovato un’ottima sistemazione!», disse Frodo, bevendo d’un fiato l’ultimo sorso di Vecchi Vigneti.

Dopo aver cantato e parlato delle molte cose che avevano fatto assieme, brindarono al compleanno di Bilbo, alla sua salute e a quella di Frodo, come si era sempre fatto. Uscirono quindi a prendere una boccata d’aria, a dare un’occhiata alle stelle, e poi andarono a coricarsi. La festa di Frodo era finita, e Gandalf non era arrivato.

* * *

L’indomani mattina furono molto occupati a caricare nel terzo carro il resto del bagaglio. Quando ebbero finito, Merry montò a cassetta con Grassotto (ossia Fredegario Bolgeri) e partì, dicendo: «Qualcuno deve arrivare prima di te per riscaldarti la casa. Ci vediamo presto, dopodomani, se non vi addormentate per strada!».

Folco tornò a casa dopo colazione, ma Pipino rimase con Frodo che, ansioso ed irrequieto, aguzzava invano le orecchie nella speranza che qualche suono gli annunciasse l’arrivo di Gandalf. Aveva deciso di aspettare fino al calar della notte. Dopo di che, se Gandalf avesse avuto bisogno urgente di lui, si sarebbe potuto recare a Crifosso, arrivando fors’anche prima: infatti Frodo aveva deciso di andare a piedi. Per fare un viaggio piacevole e per poter dare allo stesso tempo un’ultima occhiata alla sua Contea, il piano di Frodo era di camminare con la massima calma da Hobbiville al Traghetto di Buckburgo.

«Così riprenderò l’allenamento», disse, guardandosi in uno specchio polveroso dell’atrio mezzo vuoto. Da molto non faceva più le solite passeggiate, e trovò l’immagine riflessa piuttosto floscia.

Dopo colazione spuntarono i Sackville-Baggins, Lobelia e suo figlio Lotho dai capelli color stoppa, il che infastidì terribilmente Frodo. «Finalmente è nostra!», disse Lobelia mettendo piede in casa. Non era educato, e nemmeno del tutto vero, poiché l’atto di vendita di Casa Baggins avrebbe avuto effetto soltanto dopo la mezzanotte. Ma Lobelia aveva un’attenuante: aveva dovuto aspettare settantasette anni più di quanto non pensasse, prima di poter essere lei la padrona; ed ora aveva cento anni! In ogni modo era venuta a controllare che tutto ciò che aveva comprato vi fosse ancora e vi rimanesse; inoltre voleva le chiavi. Ci volle un bel po’ di tempo per soddisfarla, poiché aveva portato con sé un inventario completo che verificò fino all’ultimo articolo. Finalmente se ne andò col suo adorato Lotho, con la chiave di riserva, e con la promessa che l’altra chiave sarebbe stata affidata ai Gamgee di via Saccoforino, cosa che palesemente non le garbava: riteneva i Gamgee capaci di saccheggiare la caverna durante la notte. Frodo non le offrì nemmeno un sorso di tè.

Egli bevve il suo in cucina, in compagnia di Pipino e di Sam Gamgee. Era stato annunciato ufficialmente che Sam si sarebbe recato anch’egli nella Terra di Buck, «per sbrigare le faccende del signor Frodo, ed occuparsi del piccolo giardino»; decisione approvata dal Gaffiere, ma che non riuscì a consolarlo della prospettiva di avere Lobelia come vicina di casa.

«Il nostro ultimo pasto a Casa Baggins», disse Frodo alzandosi da tavola. Lasciarono a Lobelia tutti i piatti da lavare. Pipino e Sam legarono con una cinghia i tre fagotti e li ammonticchiarono nel portico. Pipino andò poi a fare un ultimo giro in giardino e Sam sparì.

* * *

Il sole tramontò. Casa Baggins pareva triste, tenebrosa e devastata. Frodo girovagò per le stanze familiari e vide la luce del tramonto scolorire sui muri, e le ombre strisciare fuori dagli angoli. Lentamente il buio inondò la casa. Egli uscì, scese per il sentiero fino al cancello, e fece pochi passi sulla Strada della Collina. Si aspettava quasi di vedere Gandalf salire verso di lui nel crepuscolo.

Il cielo era sgombro e le stelle cominciavano a scintillare. «Sarà una bella notte», disse ad alta voce. «È un buon principio. Ho voglia di camminare, non ce la faccio più ad aspettare senza far niente. Io parto, e Gandalf mi seguirà». Si stava voltando per tornare sui propri passi, quando sentì delle voci venire da dietro la svolta di via Saccoforino. Si fermò. Una delle voci era senz’alcun dubbio quella del vecchio Gaffiere. L’altra non la conosceva, e suonava sgradevole. Non riusciva a capire ciò che diceva, ma sentiva le risposte del Gaffiere alquanto stridule. Il vecchio gli sembrò seccato.

«No, il signor Baggins è partito, è andato via stamani, ed il mio Sam è andato via con lui. E comunque anche tutta la sua roba è partita. Sì, venduta e spedita via, vi dico. Perché? Non sono affari miei, e nemmeno vostri. Dove si è trasferito? Non è un segreto: a Buckburgo, o qualcosa del genere, laggiù da quelle parti. Sì, c’è un bel po’ di strada; io personalmente non ci sono mai stato: c’è della gente strana, lì nella Terra di Buck. No, non posso trasmettere nessun messaggio. Buona notte!».

I passi si allontanarono giù per la collina. Frodo si chiese come mai gli fosse di gran sollievo il fatto che non la risalissero. «Suppongo che sarà stufo di tutte queste domande e di questa curiosità sul mio conto», pensò. «Che ficcanasi sono!». Ebbe una mezza idea di andare a chiedere al Gaffiere chi gli aveva fatto tante domande, ma poi ci ripensò e tornò in fretta a Casa Baggins.

Pipino era seduto sul suo fagotto nel portico, Sam non c’era. Frodo fece qualche passo nell’atrio buio: «Sam’», chiamò. «Sam, è ora!».

«Arrivo, signore!», fu la risposta che giunse da molto lontano, seguita dopo qualche attimo da Sam, che si asciugava la bocca. Si stava congedando dal barile di birra in cantina.

«Hai fatto una buona provvista?», chiese Frodo.

«Sissignore, mi terrà su per un bel po’, signore».

Frodo chiuse a chiave la porta rotonda e diede la chiave a Sam. «Corri a portarla a casa tua, Sam», disse, «poi taglia per via Saccoforino, e raggiungici al più presto davanti al cancello del sentiero al di là dei prati. Non attraverseremo il villaggio questa sera. Ci sono troppe orecchie tese e troppi ficcanasi». Sam corse via a tutta velocità.

«Eccoci finalmente in marcia!», disse Frodo. Si caricarono i fagotti sulle spalle, raccolsero ognuno il proprio bastone, e girarono l’angolo occidentale di Casa Baggins. «Addio!», disse Frodo, guardando le buie finestre inanimate. Fece con la mano un cenno di saluto, quindi voltandosi si affrettò a raggiungere Peregrino (seguendo ignaro le tracce di Bilbo), giù per il sentiero del giardino. Saltarono la siepe in un posto dov’era più bassa e presero per i campi, attraversando l’oscurità come un fruscio nell’erba.

* * *

In fondo al pendio occidentale della Collina, giunsero al cancello che si apriva su un piccolo sentiero. Si fermarono per aggiustare le cinghie dei loro fagotti. Infine apparve Sam, trotterellando veloce e respirando rumorosamente, col suo pesante fardello ben saldo sulle spalle, e con in testa un grosso e sformato sacco di feltro che chiamava cappello: al chiaro di luna rassomigliava molto a un Nano.

«Scommetterei che avete dato a me tutta la roba più pesante», protestò Frodo. «Compiango le lumache e tutti quelli che si trasportano la casa sulle spalle».

«Io posso portarne ancora, signore. Il mio fagotto è molto leggero», mentì coraggiosamente Sam. «No, no, Sam!», disse Pipino. «Gli fa bene. Non ha altro da portare che ciò che ci ha ordinato d’imballare. È stato un po’ indolente in questi ultimi tempi, e sentirà meno il peso del fagotto quando avrà smaltito un po’ del suo».

«Sii buono con un povero vecchio Hobbit», disse Frodo ridendo. «Sarò sicuramente più esile di un fuscello quando arriverò alla Terra di Buck. Ma stavo dicendo delle sciocchezze. Ti sospetto di averne preso più di quanto ti toccasse, Sam, e lo verificherò alla prossima sosta». Riprese il suo bastone. «Ebbene, ci piace a tutti camminare nella notte», disse, «perciò facciamo ancora qualche miglio prima di coricarci».

Seguirono il sentiero verso ovest per qualche centinaio di passi, quindi l’abbandonarono per voltare a sinistra e prendere silenziosamente la via dei campi. Camminarono in fila indiana lungo le siepi e le bordure di piante cedue, e la notte li inghiottì. Nei loro mantelli scuri erano invisibili, come muniti ognuno di un anello magico. Essendo tutti Hobbit, e poiché si studiavano di essere silenziosi, il rumore che facevano era talmente impercettibile che nemmeno un Hobbit l’avrebbe sentito. Passavano inosservati persino davanti agli animaletti selvaggi nei boschi e alle bestiole nei campi.

Dopo un bel po’ di tempo attraversarono l’Acqua, ad ovest di Hobbiville, su uno stretto ponticello di tavole. In quel punto il corso non era che un nastro nero e contorto, orlato da ontani scuri. Qualche miglio più a sud, attraversarono veloci la grande strada del Ponte sul Brandivino; erano giunti in Tuclandia. Voltarono verso sud-est in direzione del Paese dalle Verdi Colline. Quando ebbero percorso i primi passi di salita, si voltarono per vedere le luci di Hobbiville brillare in lontananza nella dolce valle dell’Acqua. Ma ben presto sparirono tra le falde, delle colline immerse nella notte. Intravidero anche Lungacque, accanto al suo lago grigio. Quando finalmente la luce dell’ultima fattoria sparì nell’oscurità, Frodo, guardando furtivamente fra gli alberi, agitò la mano in segno d’addio.

«Chissà se guarderò mai più giù in quella valle», mormorò pensoso.

Dopo circa tre ore di cammino, si fermarono per riposarsi. La notte era chiara, fresca e stellata, ma spirali di nebbia salivano dai ruscelli e dagli umidi prati, simili a fumo, arrampicandosi lungo le falde dei colli. Le betulle semispoglie si dondolavano sulle loro teste a un debole venticello, stagliandosi come una rete nera contro il cielo sbiadito. Dopo un pranzo molto frugale (per degli Hobbit), proseguirono, giungendo presto a uno stretto cammino che andava su e giù, diventando di un grigio pallido nell’oscurità davanti a loro: era la strada che portava a Boschesi, Scorta ed al Traghetto di Buckburgo. Si arrampicava lontano dalla strada maestra e dalla valle dell’Acqua, attorcigliandosi su per le falde delle Verdi Colline, fino a Terminalbosco, un angolo selvaggio del Decumano Est.

Percorse ancora un paio di miglia, s’inoltrarono in un Viottolo tagliato profondamente nella roccia, a cui sovrastavano grandi alberi che lasciavano stormire le foglie secche nella notte. Era perfettamente buio. Prima cantarono, o fischiettarono assieme una melodia, essendo ormai lontani da orecchie indiscrete; quindi proseguirono in silenzio e Pipino cominciò a rimanere indietro. Infine, allorché si misero a scalare una pendice ripida e scoscesa, si fermò e sbadigliò: «Ho tanto sonno che fra poco crollo in mezzo alla strada. Avete intenzione di dormire in piedi, voi? È quasi mezzanotte».

«Credevo che ti piacesse camminare di notte», disse Frodo. «Ma non c’è tutta questa fretta; Merry ci aspetta dopodomani, perciò abbiamo altri due giorni a disposizione. Ci fermeremo al primo posto adatto».

«Il vento soffia da ovest», disse Sam. «Se andiamo dall’altro lato di questo colle, troveremo un posto abbastanza comodo e riparato signore. Se la memoria non mi tradisce, un po’ più avanti dovrebbe esserci un bosco d’abeti non troppo umido». Sam conosceva bene il paese nel giro di trenta miglia da Hobbiville, ma quello era il limite delle sue conoscenze geografiche.

Poco oltre il colmo della collina videro il bosco d’abeti. Abbandonarono il viottolo e si inoltrarono nel buio resinoso degli alberi, raccogliendo pezzi di legno, rami morti e pigne per fare un fuoco. Presto in mezzo a loro, ai piedi di un abete secolare, crepitò un’allegra fiamma; rimasero seduti fin quando le teste incominciarono a dondolare. Poi, ognuno nel proprio cantuccio fra le radici del vecchio albero imponente, si raggomitolarono avvolti in coperte e mantelli, e caddero subito in un sonno profondo. Non fecero turni di guardia: persino Frodo non temeva alcun pericolo, poiché erano ancora nel cuore della Contea. Qualche piccolo essere incuriosito si avvicinò ad osservarli quando si fu spento il fuoco. Una volpe, che attraversava il bosco per affari suoi personali, si arrestò qualche minuto ad annusare.

«Hobbit!», pensò. «Incredibile! Avevo sentito dire che avvenivano strane cose in questo paese, ma trovare addirittura degli Hobbit che dormono all’aria aperta sotto un albero! E sono in tre! C’è sotto qualcosa di molto strano». Aveva perfettamente ragione, ma non riuscì mai a scoprire che cosa.

Venne la mattina, pallida ed appiccicosa. Il primo a svegliarsi fu Frodo; si accorse che una radice gli aveva bucato la schiena e che riusciva a stento a muovere il collo. «Camminare per divertimento! Ma chi me l’ha fatto fare? Perché non sono partito in carro?», pensò, come faceva sempre all’inizio di una spedizione. «E pensare che tutti i miei bei materassi di piume sono stati venduti ai Sackville-Baggins. Queste radici sono molto più adatte per loro!». Si stiracchiò. «Sveglia, Hobbit!», vociò. «È una bella giornata».

«Non vedo proprio niente di bello!», disse Pipino tirando fuori un occhio da sotto la coperta. «Sam! Prepara la colazione per le nove e mezzo! È pronto il mio bagno caldo?».

Sam sussultò apparentemente alquanto turbato.

«Nossignore, non è pronto, signore!», disse.

Frodo tirò la coperta di dosso a Pipino, voltandolo a pancia all’aria, quindi fece quattro passi fino al margine del bosco. Lontano, ad oriente, il sole rosso si levava dalla nebbia che copriva densa e pesante il paesaggio. Gli alberi autunnali, pennellati d’oro e di carminio, parevano navigare senza radici in un mare d’ombra. In basso, a sinistra, la strada scendeva scoscesa in un burrone e spariva dalla vista.

Quando tornò, vide che Sam e Pipino avevano acceso il fuoco. «Acqua!», gridò Pipino. «Dov’è l’acqua?».

«Non tengo acqua in tasca, di solito», rispose Frodo.

«Credevamo fossi andato a cercarla», disse Pipino dandosi da fare col cibo, le tazze ed i piattini. «Faresti bene ad andarci, ora».

«Puoi venire anche tu, sai?», disse Frodo. «E dato che ci sei, porta tutte le bottiglie». Trovarono un ruscello ai piedi della collina. Riempirono le bottiglie ed un piccolo ramino da campeggio ad una cascatella di qualche decina di pollici, dove l’acqua ghiacciata cadeva da una sporgenza di pietra grigia. Si lavarono il viso e le mani, sbuffando e spruzzando.

Quando ebbero finito di fare colazione, ed i fagotti furono di nuovo ben imballati, erano le dieci passate e la giornata stava diventando calda e luminosa. Discesero il pendio, attraversarono il ruscello in un punto dove si tuffava sotto la strada, risalirono il versante opposto, e poi di nuovo su e giù decine di volte lungo la cresta dei colli; i cappotti, le coperte, l’acqua, il cibo e gli altri attrezzi vari incominciarono a pesare terribilmente.

Il cammino che li attendeva prometteva di essere caldo e faticoso. Comunque, dopo qualche miglio la strada smise di andare su e giù: si arrampicò fino ad una cima alquanto ripida, serpeggiando

In tre si è in compagnia faticosamente, e da lì si preparò a scendere per l’ultima volta. Davanti agli Hobbit si stendevano ora le pianure macchiate qua e là da chiazze di alberi che fondevano in lontananza in una silvestre nebbiolina marrone. Guardarono, oltre Terminalbosco, il Fiume Brandivino. La strada serpeggiava ai loro piedi e pareva uno spago.

«La via prosegue senza fine», disse Pipino; «ma io no, senza riposarmi. È giunta da tempo l’ora della colazione». Si sedette sulla banchina pietrosa che costeggiava la strada ed affondò lo sguardo nella foschia oltre la quale, ad est, scorreva il Brandivino e dove si trovava il confine del paese in cui aveva passato tutta la vita. Sam era in piedi accanto a lui, con i suoi grandi occhi tondi dilatati, per meglio vedere queste terre a lui sconosciute ed il nuovo orizzonte. «Gli Elfi vivono in quei boschi?», chiese.

«No, che io sappia», rispose Pipino. Frodo era silenzioso. Anche lui fissava le giravolte della strada, come se le vedesse per la prima volta. Improvvisamente disse ad alta voce, ma come a se stesso:

La Via prosegue senza fine

Lungi dall’uscio dal quale parte.

Ora la Via è fuggita avanti,

Devo inseguirla ad ogni costo

Rincorrendola con piedi alati

Sin all’incrocio con una più larga

Dove si uniscono piste e sentieri.

E poi dove andrò? Nessuno lo sa.

«Sembrano versi del vecchio Bilbo», disse Pipino. «Oppure è una tua imitazione? Non molto incoraggiante, comunque».

«Non lo so», rispose Frodo. «Mi sono venuti così alla mente, ad un tratto, come se li stessi creando io: ma è possibile che li abbia sentiti tanto tempo fa. Certo mi ricordano molto il Bilbo degli ultimi anni prima della partenza. Diceva spesso che la Via è unica, ed è come un grande fiume: le sue sorgenti si trovano davanti ad ogni soglia, ed ogni sentiero ne è l’affluente. “È pericoloso ed impegnativo uscire di casa, Frodo”, mi ripeteva sempre. “Cammini per la strada e, se non fai attenzione, chissà fin dove sei trascinato. Ti rendi conto che questo è il sentiero che attraversa il Bosco Atro, e che, se non glielo impedisci, ti potrebbe portare fino alla Montagna Solitaria, o ancor più in là, in chissà quali posti terribili? “. Me lo diceva stando in piedi in mezzo al sentiero che parte da Casa Baggins, specialmente al ritorno da qualche passeggiata».

«Ebbene, la strada non mi trascinerà in nessun posto, almeno per un’ora», sentenziò Pipino, liberandosi dal peso del suo fagotto. Gli altri lo imitarono, posando i loro sulla banchina, e sedettero con le gambe allungate in mezzo alla strada. Dopo essersi riposati, fecero un’abbondante colazione, e quindi si riposarono un altro po’.

* * *

Il sole era basso all’orizzonte e i viaggiatori scendendo dalla collina potevano vedere la campagna immersa nella luce del tardo pomeriggio. Non avevano incontrato anima viva cammin facendo. Quella strada non era molto frequentata perché non adatta ai carri e poi perché il traffico con Terminalbosco era piuttosto scarso. Procedevano da un’ora o più, quando Sam sostò bruscamente come per ascoltare. Si trovarono nella piana, e la strada, dopo molti meandri, proseguiva diritta attraverso pascoli erbosi, ove si ergevano sparsi alcuni alberi d’alto fusto indici dei vicini boschi.

«Sento un cavallo o un pony venire dietro di noi per la strada», disse Sam.

Si voltarono, ma una curva nascondeva il resto del sentiero. «Chissà che non sia Gandalf che ci raggiunge», disse Frodo; ma sentiva di non credere alle proprie parole mentre le pronunciava e fu colto dall’improvviso violento desiderio di sottrarsi alla vista del cavaliere.

«Forse non è molto importante», disse scusandosi, «ma preferirei non esser visto da nessuno qui per la strada. Non ne posso più della gente che spia, commenta e discute ogni mia azione. E se si tratta di Gandalf», soggiunse dopo un attimo, «gli prepareremo una piccola sorpresa, per fargli pagare il ritardo. Presto, nascondiamoci subito!».

Gli altri due corsero velocemente a sinistra, accovacciandosi in un piccolo fosso non lontano dalla strada. Frodo esitò un istante: la curiosità o qualche altro sentimento lottavano contro il suo desiderio di nascondersi. Il rumore degli zoccoli si avvicinava. Fece appena in tempo a buttarsi per terra in un ciuffo d’erba alta dietro un albero che fiancheggiava la strada. Quindi alzò cautamente la testa e guardò oltre le grosse radici. Un cavallo nero stava comparendo alla svolta; non un piccolo pony hobbit, ma un vero destriero con sopra un uomo imponente, che pareva rannicchiato sulla sella, avvolto in un grande manto nero con cappuccio, dal quale uscivano soltanto gli stivali infilati nelle lucide staffe.

Il volto, in ombra, era invisibile. Quando giunse all’altezza dell’albero e di Frodo, il cavallo si fermò. Il cavaliere rimase immobile con la testa piegata, come in ascolto. Dall’interno del cappuccio proveniva come un sibilo di uomo che annusasse, come per cogliere un odore elusivo; la testa si voltò da una parte e dall’altra della strada.

Un irragionevole terrore di essere scoperto s’impadronì di Frodo, ed egli pensò all’Anello. Osava appena respirare, eppure il desiderio di toglierlo dalla tasca diventò tanto forte che mosse lentamente la mano. Sentiva che sarebbe bastato infilarlo per essere salvo. Il consiglio di Gandalf sembrava assurdo: Bilbo pure aveva adoperato l’Anello. «Sono ancora nella Contea», pensò, e la sua mano palpava la catenella. In quel momento il cavaliere si alzò in groppa e scosse le redini. Il cavallo avanzò, prima lentamente al passo e proseguendo poi con un trotto veloce.

Frodo si mosse carponi fino al margine della strada, osservando il cavaliere rimpicciolirsi sempre più in lontananza. Non ne era sicuro, ma gli parve che all’improvviso, prima di sparire dalla vista, il cavallo avesse voltato a destra della strada, inoltrandosi fra gli alberi.

«Ebbene, tutto ciò è assai strano, ed è molto inquietante», disse Frodo, parlando a se stesso, mentre si dirigeva verso i suoi compagni. Pipino e Sam erano rimasti distesi nel fosso e non avevano visto niente; Frodo descrisse allora il cavaliere ed il suo misterioso comportamento.

«Non so perché, ma ero convinto che fiutasse per cercarmi, e sentivo che non mi dovevo assolutamente far scoprire. Non ho mai visto o provato qualcosa di simile nella Contea fino ad oggi».

«Ma che ha a fare uno della Gente Alta con noi Hobbit?», chiese Pipino. «E che fa in questa parte della terra?».

«Ci sono alcuni Uomini in giro», disse Frodo. «Giù nel Decumano Sud pare che abbiano avuto delle seccature con la Gente Alta. Ma non ho mai sentito parlare di niente che rassomigliasse a questo cavaliere. Chissà da dove viene».

«Chiedo scusa, signore», interloquì Sam improvvisamente. «Io so da dove viene. Questo cavaliere nero viene da Hobbiville, a meno che ce ne siano altri come lui in giro. E so anche dove sta andando».

«Come sarebbe a dire?», chiese aspramente Frodo guardandolo stupefatto. «Perché non hai parlato prima?».

«Mi è venuto in mente solo adesso, signore. È successo così: quando sono tornato a casa ieri sera per riportare la chiave, mio padre mi fa: “Ciao, Sam! Credevo fossi partito stamattina col signor Frodo. È venuto uno strano individuo a chiedere del signor Baggins di Casa Baggins. È appena andato via; l’ho spedito a Buckburgo, ma non mi piaceva affatto quel tipo. Sembrò arrabbiarsi un bel po’ quando gli dissi che il signor Baggins era partito per sempre. Mi sibilava in faccia, mi sibilava. Da farti venire i brividi!”. “Che tipo era?”, chiedo al Gaffiere. “Non lo so”, dice lui. “Ma non era un Hobbit. Alto e tutto nero e si curvava su di me. Mi sa tanto che era uno della Gente Alta venuto dall’estero. Parlava anche strano”. Non potevo più perder tempo lì ad ascoltare, signore, dato che voi aspettavate, e comunque non ci feci molto caso, perché il Gaffiere sta diventando vecchio e mezzo cieco, e fra l’altro doveva fare già buio, quando quel tizio è arrivato su per la Collina, trovando mio padre che prendeva una boccata d’aria per via Saccoforino. Spero che non abbiamo combinato guai, signore, né lui né io, signore».

«Il Gaffiere non ha nessuna colpa, in ogni modo», disse Frodo. «A dir la verità, io l’ho sentito parlare con uno straniero che sembrava investigare sul mio conto, e stavo per andare a chiedergli chi fosse. Peccato non averlo fatto e che tu non me l’abbia detto prima: sarei stato più prudente lungo la strada».

«Comunque, potrebbe anche darsi che questo cavaliere non abbia niente a vedere con lo straniero del Gaffiere», disse Pipino. «Abbiamo lasciato Hobbiville il più segretamente possibile e non vedo come avrebbe potuto seguirci».

«E come spiegate il fatto che annusasse, signore?», disse Sam. «E poi il Gaffiere ha detto che era un tipo nero».

«Se avessi aspettato Gandalf!», mormorò Frodo. «Ma forse non avrei fatto che peggiorare la situazione».

«Allora sai, o immagini qualcosa sul conto di questo cavaliere?», chiese Pipino, che aveva sentito quel che Frodo mormorava. «Non so, e preferirei non immaginare», disse Frodo. «E va bene, cugino Frodo! Per il momento tieniti pure i tuoi segreti, se vuoi fare il misterioso. Ma ora che facciamo? Non mi dispiacerebbe affatto rosicchiare qualcosa e bere un sorso, ma penso che sia meglio allontanarci da qui. Questo fatto di parlare di cavalieri che fiutano con nasi invisibili mi ha scombussolato».

«Sì, credo anch’io che sia bene proseguire», annuì Frodo, «ma non sulla strada, nel caso che il cavaliere dovesse tornare indietro o che un altro lo stesse seguendo. Abbiamo ancora un bel po’ di cammino da fare, oggi: la Terra di Buck è ancora lontana».

* * *

Le ombre degli alberi si stagliavano lunghe e sottili sull’erba, quando gli Hobbit si misero in marcia. Avanzavano ad un tiro di sasso sulla sinistra della strada, stando nascosti il più possibile, il che ostacolava la marcia, tanto più che l’erba era folta ed abbarbicata al terreno accidentato, e gli alberi diventavano man mano più fitti.

Il sole era tramontato, rosso, dietro le colline alle loro spalle, e la sera giunse prima che ritornassero sulla strada, in fondo al lungo tavoliere che essa tagliava dritta per molte miglia. In quel punto voltava a sinistra e scendeva nelle basse terre dello Iale, dirigendosi quindi verso Scorta. Di là partiva però anche, sulla destra, un sentiero che serpeggiava poi tra le vecchie querce di un bosco fino a Boschesi. «Questa è la nostra direzione», disse deciso Frodo.

Non lontano dall’incrocio, l’enorme carcassa di un albero sbarrò loro la strada: era ancora vivo, e teneri germogli crescevano attorno ai moncherini degli arti amputati in tempi immemorabili; ma era vuoto, ed una grossa fenditura dal lato opposto alla strada facilitava l’ingresso. Gli Hobbit vi strisciarono dentro, e si sedettero su una specie di pavimento di foglie vecchie e di legno marcio. Riposarono e consumarono un pasto leggero, parlando sommessi ed interrompendosi di tanto in tanto per ascoltare.

Quando ripresero il cammino, il bosco era immerso nel crepuscolo. Il vento dell’Ovest sospirava tra i rami. Le foglie sussurravano. Presto la strada incominciò a scendere dolcemente e pareva si tuffasse nel vespro. Nell’oscurità dell’Oriente una stella spuntò sugli alberi. Camminavano a fianco a fianco con lo stesso ritmo, per tener su lo spirito. Dopo qualche tempo, allorché le stelle furono fitte e scintillanti, dimenticarono la loro inquietudine, e non tesero più l’orecchio. Si misero a canticchiare dolcemente, come fanno tutti gli Hobbit quando camminano, e soprattutto quando, di notte, stanno rientrando a casa. La maggior parte è solita cantate una ninna-nanna, o un inno alla cena; ma quella che canticchiavano i nostri tre Hobbit era una marcia (non senza accenni però alla cena ed al letto). Bilbo Baggins aveva scritto le parole su una melodia vecchia come le colline e le aveva insegnate a Frodo mentre camminavano per i viottoli della valle dell’Acqua, parlando d’avventure.

Rosso è il fuoco nel camino,

Sotto al tetto un letto aspetta;

Ma non son stanchi i nostri piedi,

Voltato l’angolo incontrar potremmo

D’improvviso un albero oppure un grosso sasso,

Che nessuno oltre noi ha visto.

Alberi e fiori, foglie e fuscelli

Fateli passare! Fateli passare!

Sotto al nostro cielo colli e ruscelli

Passeranno oltre! Passeranno oltre!

Voltato l’angolo forse ci aspetta

Un ignoto portale o una strada stretta;

Se purtroppo oggi tirar oltre dobbiamo,

Può darsi che domani questa strada facciamo,

Prendendo sentieri nascosti

Che portano alla Luna o al Sole.

Mela, spina, noce, prugna,

Fateli passare! Fateli passare!

Sabbia, pietra, stagno, dirupo,

In bocca al lupo! In bocca al lupo!

Dietro è la casa, davanti a noi il mondo,

E mille son le vie che attendon, sullo sfondo

Di ombre, vespri e notti, il brillar delle stelle.

Davanti allor la casa, e dietro a noi il mondo,

Tornar potremo a casa con passo infin giocondo.

Ombre e crepuscolo, nuvole e foschia

Sbiadiranno via! Sbiadiranno via!

Fuoco e luce, da bere e da mangiare,

Così tutti a letto poi potremo andare!

La canzone finiva così. «E ci vogliamo andare! E ci vogliamo andare!», cantò forte Pipino.

«Silenzio!», disse Frodo. «Mi sembra di sentire di nuovo rumore di zoccoli».

Si fermarono d’un tratto e rizzarono le orecchie, fermi e silenziosi come ombre d’alberi. Un po’ più indietro sul sentiero risuonò un rumore di zoccoli, chiaro e distinto, trasportato dal vento. Veloci e silenziosi sgusciarono via dal viottolo e si rifugiarono nell’ombra profonda delle vecchie querce.

«Non andiamo troppo lontano!», sussurrò Frodo. «Non voglio che mi veda, ma voglio vedere se è un altro Cavaliere Nero».

«Molto bene!», disse Pipino, «ma non ti dimenticare che annusa!».

Lo scalpitio si avvicinò. Non avevano tempo per cercare un nascondiglio migliore dell’oscurità tra gli alberi; Sam e Pipino si accovacciarono dietro un grosso tronco, mentre Frodo si riavvicinò di qualche passo al sentiero pallido e grigiastro, come una fascia di luce sbiadita attraverso il bosco. Sulla sua testa le stelle erano fitte nel buio, e non c’era la luna.

Lo scalpitio cessò. Frodo vide qualcosa di scuro traversare uno spazio più chiaro fra due alberi e poi fermarsi. Gli sembrava di poter distinguere la sagoma nera di un cavallo, guidato da un’ombra nera più piccola. L’ombra nera, in piedi nel punto dove essi avevano abbandonato il viottolo, oscillò da un lato all’altro. A Frodo sembrò di sentire qualcuno annusare. L’ombra si chinò per terra ed incominciò a strisciare verso di lui.

Il desiderio d’infilarsi l’Anello s’impadronì nuovamente di Frodo; ma questa volta con molta più forza, tanta forza che prima di potersene rendere conto, la sua mano frugava già in tasca. Ma in quell’attimo giunse un suono misto di canto e di risa. Voci chiare e trillanti s’innalzarono volando nell’aria chiara illuminata dalle stelle. L’ombra nera si raddrizzò e retrocedette, montò in groppa e, attraversando il sentiero, parve svanire dall’altra parte nell’oscurità. Frodo trasse un sospiro.

«Gli Elfi!», esclamò Sam, sussurrando. «Gli Elfi, signore!». Si sarebbe precipitato fuori, correndo impetuosamente verso le voci, se non l’avessero trattenuto.

«Sì, sono gli Elfi», disse Frodo. «A volte s’incontrano a Terminalbosco. Non vivono nella Contea, ma vi immigrano in Primavera ed in Autunno dalle loro terre lontane al di là dei Colli delle Torri, grazie al cielo! Voi non l’avete visto, ma quel cavaliere Nero si è fermato proprio qui, e stava strisciando verso noi, quando giunsero le note della canzone. Appena ha sentito le voci è fuggito via».

«E gli Elfi?», disse Sam, troppo eccitato per preoccuparsi del cavaliere. «Non possiamo andarli a vedere?».

«Ascolta! Stanno venendo verso di noi», disse Frodo, «basta aspettare».

Il canto si avvicinò: una voce si elevava al di sopra delle altre, nella bella lingua elfica, che Frodo conosceva poco e che gli altri ignoravano del tutto. Eppure, fuse insieme, parole e melodia parvero plasmarsi nelle loro menti sotto forma di parole che capivano solo parzialmente. Questa è la canzone che Frodo sentì:

Candida-neve! Candida-neve! Limpida dama!

Regina al di là dei Mari Occidentali!

Luce per noi che qui girovaghiamo

Ove gli alberi tessono un’oscura trama!

Gilthoniel! O Elbereth!

Limpidi i tuoi occhi e terso il tuo respiro!

Candida-neve! Candida-neve! Noi te decantiamo

In un ermo paese dal Mar molto lontano.

O stelle che durante l’Anno Cupo

Le sue brillanti mani hanno tessuto,

In campi ove l’aria è limpida e lucente

Vi vediamo fiorire pari a boccioli d’argento!

O Elbereth! O Gilthoniel!

Ricordiamo ancora noi che viviamo

In un luogo boscoso da te tanto lontano,

Il tuo chiaror stellare sui Mari Occidentali.

La canzone terminava così.

«Ma questi sono gli Alti Elfi! Hanno parlato di Elbereth!», disse Frodo stupefatto. «Sono un ramo dei Luminosi che non si vedono quasi mai qui nella Contea. Ne sono rimasti pochissimi nella Terra di Mezzo, ad oriente del Grande Mare. Che inattesa fortuna!».

Gli Hobbit sedettero nell’oscurità a lato del sentiero. Passò qualche minuto e gli Elfi si avvicinarono, scendendo il viottolo verso la valle. Camminavano lentamente e i tre amici potevano vedere la luce delle stelle scintillare sui loro capelli e nei loro occhi. Non portavano con sé alcuna luce, eppure pareva emanare dai loro piedi un barlume simile a quello che diffonde la luna prima di salire alta nel cielo, lungo i contorni delle montagne e delle colline. Ora avanzavano in silenzio, e quando finalmente furono passati tutti, L’ultimo Elfo si voltò e, guardando gli Hobbit, scoppiò a ridere.

«Ciao, Frodo!», salutò. «Stai facendo tardi? O forse ti sei smarrito?». Poi chiamò forte gli altri, che tornarono sui loro passi e si riunirono attorno ai tre amici.

«È una cosa veramente straordinaria!», dissero. «Tre Hobbit di notte in un bosco! Non abbiamo mai più visto niente di simile da quando Bilbo è partito. Che significa?».

«Cari Luminosi», rispose Frodo, «significa soltanto che stiamo percorrendo la stessa strada. Mi piace camminare sotto le stelle, e gradirei moltissimo la vostra compagnia».

«Ma noi non abbiamo bisogno di compagnia; e poi gli Hobbit sono così monotoni e noiosi!», disse ridendo. «E come fai a sapere che percorriamo la stessa strada, se non sai dove stiamo andando?».

«E voi come fate a sapere il mio nome?», replicò Frodo.

«Sappiamo molte cose», dissero. «Ti abbiamo visto con Bilbo tempo fa, benché tu allora probabilmente non ci abbia notati». «Chi siete e chi è il vostro signore?», chiese Frodo.

«Io sono Gildor», rispose il capo, l’Elfo che aveva salutato per primo. «Gildor Inglorion della Casa di Finroci. Siamo Esufi e la maggior parte dei nostri parenti è partita da tempo immemorabile; anche noi ormai ci tratterremo poco e presto torneremo nella nostra terra, al di là del Grande Mare. Abbiamo però dei parenti e degli amici che vivono tranquillamente a Gran Burrone. Suvvia, Frodo, dicci dove stai andando ora. Vediamo un’ombra di paura sulla tua anima».

«O Saggi Amici», interruppe ansioso Pipino, «diteci qualcosa dei Cavalieri Neri!».

«Cavalieri Neri?», ripeterono a bassa voce. «Perché chiedi dei Cavalieri Neri?».

«Perché oggi due Cavalieri Neri ci hanno sorpassato, o forse era lo stesso incontrato due volte», disse Pipino. «L’ultimo è fuggito via pochi minuti fa, quando siete arrivati voi».

Gli Elfi non risposero subito, ma confabularono prima nella loro lingua. Infine Gildor si voltò verso gli Hobbit. «Questo non è il luogo adatto per parlarne», disse. «Pensiamo che fareste meglio a venire con noi. Non è nelle nostre abitudini, ma per questa volta faremo la strada assieme, e vi alloggeremo noi questa notte, se vi fa piacere».

«O Luminosi! È una fortuna insperata!», disse Pipino. Sam era senza parole. «Ti ringrazio di tutto cuore, Gildor Inglorion», disse Frodo inchinandosi. «Elen sila lùmenn’ omentielvo, una stella brilla sull’ora del nostro incontro», soggiunse in alto elfico.

«Attenzione, amici!», gridò ridendo Gildor. «Non parlate dei vostri segreti! Abbiamo qui uno studioso dell’Antica Lingua: Bilbo era un buon maestro. Andiamo, Amico degli Elfi!», disse inchinandosi verso Frodo. «Vieni con i tuoi amici ed unisciti alla nostra compagnia! Fareste bene a camminare in mezzo a noi, per evitare di smarrirvi. Il cammino sarà molto faticoso».

«Perché? Dove state andando?», chiese Frodo.

«Per questa notte nelle foreste sulle colline che sovrastano Boschesi. Sono parecchie miglia, ma il riposo sarà ancor più piacevole, ed il viaggio di domani più corto».

Ripresero la marcia in silenzio, passando come ombre e lucciole: quando volevano, gli Elfi potevano (ancora più degli Hobbit) camminare senza produrre il minimo fruscio. Pipino, già insonnolito, inciampò un paio di volte; ma l’Elfo alto che gli stava accanto lo prese per il braccio impedendogli di cadere. Sam camminava a fianco di Frodo, come in sogno, e sul suo viso era dipinta un’espressione mista di paura e di gioia stupefatta.

* * *

I boschi che fiancheggiavano il sentiero diventarono più fitti; gli alberi erano ora più giovani e folti e, lungo il viottolo che scendeva a precipizio in una falda della collina molti cespugli di noccioli crescevano sulle pendici da ambedue i lati. Infine gli Elfi deviarono a destra, fuori del sentiero. Una pista erbosa correva pressoché invisibile nella fitta foresta, ed essi la seguirono, nel suo ripido serpeggiare su per le pendici boscose, fino alla sommità della cresta dei colli che si ergevano nella fertile pianura della grande vallata. Uscirono all’improvviso dal buio denso degli alberi, e si trovarono in una vasta radura colorata di grigio dalla notte. Era circondata su tre lati dai boschi, ad est si apriva uno strapiombo, ove crescevano alberi scuri le cui chiome ondeggiavano nella brezza. Ancor più sotto, la pianura si estendeva piatta ed offuscata, dominata dalle stelle. In primo piano, a poche miglia di distanza, qualche luce brillava a Boschesi.

Gli Elfi sedettero sull’erba a parlare sommessamente fra loro; pareva si fossero dimenticati della presenza degli Hobbit. Frodo e i suoi compagni si avvolsero in mantelli e coperte, mentre già la sonnolenza li intorpidiva. La notte si inoltrava, e le ultime luci della valle si spensero. Pipino si addormentò su un soffice monticello che gli faceva da cuscino.

Alta ad oriente si ergeva Remmirath, la Rete di Stelle, e dalla nebbia, solenne, maestosa, si innalzò la rossa Borgil, incandescente come un gioiello di fuoco. Improvvisamente un leggero colpo di vento spazzò via la nebbia come fosse un velo, e Menelvagor, lo Spadaccino del Cielo, apparve in tutto lo splendore della sua cinta scintillante, mentre sorgeva all’orizzonte della terra. Gli Elfi, tutti insieme, intonarono una canzone e ad un tratto un fuoco avvampò sotto gli alberi illuminandoli con la sua luce rossa.

«Venite!», gridarono gli Elfi agli Hobbit. «Venite! È giunta l’ora di conversare in allegria!».

Pipino si alzò a sedere sfregandosi gli occhi. Rabbrividì. «C’è un fuoco nell’atrio, e del cibo per gli ospiti affamati», disse un Elfo in piedi davanti a lui.

All’estremità sud della radura c’era un’apertura, dove il verde tappeto s’inoltrava nel bosco, formando un vasto spiazzo ricoperto dalle fronde degli alberi, simile a un atrio. I grossi tronchi si ergevano ai due lati come colonne. Nel centro fiammeggiava un falò, e sugli alberi-colonne ardevano torce d’oro e d’argento. Gli Elfi sedettero attorno al fuoco, sull’erba o sui ceppi di vecchi tronchi segati. Alcuni andavano avanti e indietro portando tazze e versando da bere, altri distribuivano piatti ricolmi di ogni genere di cibo.

«Ci dispiace che il pranzo sia misero e magro», dissero agli Hobbit, «ma ci troviamo nei boschi, lontani dalle nostre dimore. Quando verrete ospiti a casa nostra vi tratteremo meglio!».

«Mi sembra un pasto degno di una festa di compleanno», disse Frodo.

In seguito Pipino ricordò assai poco di ciò che bevvero e mangiarono, poiché la sua mente era inondata dalla luce che brillava sui volti degli Elfi, ed il suono delle voci, così armonioso e vario, gli dava la sensazione di vivere in un sogno. Ma rammentò un pane dal sapore più fragrante di quello che avrebbe un panino all’olio per chi muore di fame; e le frutte dolci come il miele e più succose di quelle coltivate amorosamente nei frutteti. Nella sua coppa traboccava un nettare squisito, fresco come una fonte di montagna, dorato come un pomeriggio estivo.

Sam non riuscì mai ad esprimere, o persino a tracciare nella propria mente un’immagine chiara di ciò che pensò e provò quella notte, benché essa costituisse per lui uno degli avvenimenti più importanti della sua vita. La migliore descrizione che seppe trovare fu: «Ebbene, signore, se sapessi coltivare mele come quelle, mi chiamerei un giardiniere. Ma il canto! era il canto che mi andava al cuore; non so se mi spiego come vorrei».

Frodo mangiava, beveva, chiacchierando con entusiasmo; ma la sua mente era concentrata principalmente sulle parole scambiate fra gli Elfi. Capiva un po’ la loro lingua, ed ascoltava avidamente. Ogni tanto rivolgeva la parola a coloro che lo servivano, ringraziandoli in elfico. Essi gli sorridevano dicendo raggianti: «Ecco un gioiello fra gli Hobbit».

Dopo un po’ Pipino si addormentò profondamente; lo presero in braccio con dolcezza e lo portarono in un luogo riparato ai piedi degli alberi dove, sdraiato su un soffice letto, ronfò tutta la notte. Sam si rifiutò di lasciare il suo padrone. Quando ebbero portato Pipino a letto, egli andò ad accucciarsi ai piedi di Frodo, dove infine chinò il capo e chiuse gli occhi. Frodo rimase a lungo sveglio chiacchierando con Gildor.

Parlarono di molte cose vecchie e nuove, e Frodo interrogò Gildor sugli avvenimenti nel vasto mondo, oltre i confini della Contea. Le notizie erano per lo più tristi e funeste: l’ingigantirsi dell’oscurità, le guerre degli Uomini e la fuga degli Elfi. Infine Frodo chiese ciò che più gli stava a cuore:

«Dimmi, Gildor, hai più rivisto Bilbo da quando lasciò Casa Baggins?».

Gildor sorrise. «Sì», rispose, «due volte. Ci disse addio in questo stesso posto. Poi lo rividi ancora, molto lontano da qui». Non volle dir più nulla su Bilbo, e Frodo tacque.

«Non mi chiedi e non mi dici molto sul tuo conto, Frodo», disse Gildor. «Ma so già qualcosa, ed il resto lo leggo sul tuo viso e dietro le tue domande, nel pensiero. Lasci la Contea, eppure dubiti di trovare ciò che cerchi, e di compiere la tua missione, e persino di ritornare un giorno. Non è forse così?».

«Sì; eppure credevo che la mia partenza fosse un segreto conosciuto solo da Gandalf e dal mio fido Sam», disse Frodo, lanciando un occhiata a Sam che russava dolcemente.

«Il segreto non giungerà al Nemico tramite noi», disse Gildor.

«Il Nemico?», esclamò Frodo. «Allora sai perché lascio la Contea?».

«Non so per quale motivo il Nemico ti stia inseguendo», rispose Gildor, «ma sento che è così, per quanto strano mi possa sembrare. E ti metto in guardia: il pericolo è davanti a te e dietro di te, e su ambedue i lati».

«Intendi parlare dei cavalieri? Temevo che fossero dei servitori del Nemico. Che cosa sono i Cavalieri Neri?».

«Gandalf non ti ha detto niente?».

«Niente riguardo ad esseri di questo genere».

«Allora non penso tocchi a me dirti altro; non vorrei che la paura ti impedisse di continuare il viaggio. Mi sembra che tu sia partito appena in tempo, e ora devi affrettarti, senza soste né ritorni; sappi che la Contea non è più un riparo per te».

«Non riesco ad immaginare quale informazione sarebbe più terrificante delle tue allusioni e dei tuoi ammonimenti!», esclamò Frodo. «Sapevo che il pericolo mi aspettava, beninteso; ma non sapevo di incontrarlo nella nostra Contea. Non può forse un Hobbit andarsene in pace a piedi dall’Acqua al Fiume?».

«Ma la Contea non appartiene solo a voi», disse Gildor. «Altri l’hanno abitata prima degli Hobbit, ed altri ancora l’abiteranno quando non ci sarete più. Il mondo si estende tutt’intorno a voi: potete rinchiudervi in un recinto, ma non potete impedire per sempre al mondo di penetrarvi».

«Lo so; eppure ho sempre creduto la Contea tanto sicura e tranquilla. Cosa posso fare ora? Il mio piano era di partire di nascosto e di recarmi a Gran Burrone; ma ora i miei passi sono spiati e seguiti, prima ancora di arrivare nella Terra di Buck».

«Credo tu debba seguire il tuo piano», disse Gildor. «Non penso che la Via sarà troppo dura e difficile per te. Ma se desideri un consiglio più lucido, chiedilo a Gandalf. Non conosco il motivo della tua fuga, e non posso quindi sapere con quali mezzi i tuoi inseguitori ti attaccheranno. Gandalf, invece, deve sapere tutto. Penso che lo rivedrai prima di lasciare la Contea».

«Spero proprio di sì. Ma questo è un altro punto che mi rende ansioso. Ho aspettato invano Gandalf per tanti giorni. Sarebbe dovuto venire a Hobbiville non più tardi di due notti fa, ma non si è fatto vivo. Cosa può essergli successo? Pensi che dovrei aspettarlo?».

Gildor restò un momento silenzioso. «Queste notizie non mi piacciono», disse infine. «Il ritardo di Gandalf non è un buon segno. Ma si dice: Non t’impicciare degli affari degli Stregoni, perché sono astuti e suscettibili. Tocca a te scegliere se andare o aspettare».

«Si dice anche», rispose Frodo: «Non rivolgerti agli Elfi per un consiglio, perché ti diranno sia no che sì».

«Si dice veramente?», disse Gildor ridendo. «È molto raro che gli Elfi esprimano il loro parere, poiché i consigli sono doni pericolosi, anche se scambiati fra saggi, e tutte le strade possono finire in un precipizio. Ma cosa faresti al posto mio? Mi hai detto poco sul tuo conto; come potrei dunque scegliere meglio di te? Ma se tieni veramente ad avere il mio consiglio, te lo darò in nome della nostra amicizia. Credo che dovresti partire immediatamente, senza tardare; e se Gandalf non dovesse tornare prima della tua partenza, allora ti consiglio anche di non andar via solo. Porta teco amici fidati e volenterosi. Ora dovresti essere riconoscente, perché mi costa molto darti questi suggerimenti. Gli Elfi hanno anch’essi molti dispiaceri, e le cose degli Hobbit e di altre creature di questa terra li riguardano poco. I nostri sentieri incrociano i loro molto raramente, per caso o per un dato fine. Forse quest’incontro non è dovuto a un puro caso; ma quale possa esserne lo scopo non mi è ben chiaro, e temo di dir troppo».

«Ti sono grato dal profondo», disse Frodo. «Ma vorrei tanto Che mi dicessi chiaramente chi sono i Cavalieri Neri. Se seguo il tuo consiglio può darsi che non veda Gandalf ancora per molto tempo, ed è bene che conosca il pericolo che mi persegue».

«Non è sufficiente sapere che sono servitori del Nemico?», rispose Gildor. «Fuggili! Non rivolger loro mai la parola! Sono micidiali. Non chiedermi più niente! Ma c’è nel mio cuore il presentimento che prima della fine di quest’avventura tu, Frodo figlio di Drogo, ne saprai più di Gildor Inglorion su queste crudeli e maligne cose, Che Elbereth ti protegga!».

«Ma dove troverò il coraggio necessario?», chiese Frodo. «È ciò di cui ho più bisogno».

«Lo troverai nei luoghi più impensati», disse Gildor. «Spera il meglio! E ora dormi! Quando vi sveglierete domattina saremo già partiti; ma dirameremo messaggi in tutti i paesi. Le Compagnie Viaggianti sapranno del vostro cammino, e coloro che hanno potere per il bene staranno all’erta. Ti nomino Amico degli Elfi; che le stelle possano brillare sulla fine del tuo viaggio! Raramente abbiamo trovato tanto piacere nella compagnia di un estraneo, ed è bello sentir frasi dell’Antica Lingua sulle labbra di altri viandanti in giro per il mondo».

Mentre Gildor pronunziava le ultime parole, Frodo sentì che la sonnolenza lo stava cogliendo. «Ora voglio dormire», disse; e l’Elfo lo condusse in un angolino riparato accanto a Pipino dove, su un soffice letto, cadde in un profondo sonno senza sogni.

CAPITOLO IV UNA SCORCIATOIA CHE PORTA AI FUNGHI




La mattina dopo, Frodo si svegliò fresco e arzillo. Il suo asilo era formato dai rami intrecciati di un albero flessibile, che piovevano fino a terra come una tenda. Il letto era d’erba e di felci, soffice e profondo, e stranamente profumato. Il sole brillava attraverso le foglie agitate dalla brezza e ancora verdi malgrado la stagione. Frodo saltò su ed uscì.

Sam sedeva sull’erba vicino al margine della foresta. Pipino, in piedi, esaminava il cielo e il tempo. Nessun segno degli Elfi.

«Ci hanno lasciato frutta, pane e bevande», disse Pipino. «Vieni a fare colazione. Il pane è quasi buono come ieri sera. Non ne volevo lasciare nemmeno un boccone, ma Sam ha pensato a te».

Frodo si sedette accanto a Sam e cominciò a mangiare. «Qual è il programma per oggi?», chiese Pipino.

«Di arrivare a Buckburgo il più presto possibile», rispose Frodo, intento a mangiare.

«Credi che vedremo quei Cavalieri?», chiese Pipino allegramente. Di mattina e col sole persino l’eventualità di incontrarne un intero esercito non lo allarmava molto.

«Sì, probabilmente», disse Frodo, poco entusiasta del ricordo. «Però spero che riusciremo ad attraversare il fiume senza essere visti».

«Gildor ti ha detto qualcos’altro sul loro conto?».

«Ben poco, solo enigmi ed allusioni», disse Frodo evasivamente.

«Hai chiesto perché annusano?».

«Non ne abbiamo parlato», rispose Frodo con la bocca piena.

«Male! Sono certo che è una cosa molto importante».

«Nel qual caso sono certo che Gildor si sarebbe rifiutato di spiegarmela», disse brusco Frodo. «E ora lasciami un PO’ in pace! Non ho voglia di rispondere a un fuoco di fila di domande mentre sto mangiando. Ho voglia di riflettere».

«Santo cielo!», esclamò Pipino. «Facendo colazione?». Si allontanò verso il margine del bosco.

La mattina luminosa (luminosa a tradimento, pensò Frodo) non aveva cacciato dalla sua mente la paura dell’inseguimento, e ponderò le parole di Gildor. La voce allegra di Pipino giunse fino a lui: correva sull’erba verde cantando.

«No! Non potrei mai!», si disse. «Una cosa è portarmi i miei giovani amici attraverso tutta la Contea, camminando finché siamo affamati e sfiniti, quando cibo e letto paiono ancor più dolci. Ma portarli in esilio, dove non c’è forse rimedio alla fame e alla fatica, è ben diverso, anche se vengono volentieri. L’eredità è soltanto mia. Penso che nemmeno Sam dovrebbe venire con me». Guardò Sam Gamgee e scoprì che Sam lo stava osservando.

«Ebbene, Sam!», gli disse. «Che te ne pare? Lascerò la Contea al più presto possibile; anzi, ho preso la decisione di non fermarmi nemmeno un giorno a Crifosso, se posso farne a meno».

«Benissimo, signore».

«Hai ancora l’intenzione di accompagnarmi?».

«Sissignore».

«Sarà molto pericoloso, Sam. È già pericoloso adesso, ed è più che probabile che nessuno dei due torni indietro».

«Se voi non tornate, signore, non tornerò nemmeno io, state pur certo», disse Sam. «“Non lasciarlo!”, mi hanno detto “Lasciarlo?”, ho detto io. “Non lo farò mai. Io vado con lui, anche se scala la Luna, e se quei Cavalieri Neri cercano di fermarlo, dovranno fare i conti con Sam Gamgee!”, ho detto. Loro si sono messi a ridere».

«Chi sono loro? E di che stai parlando?».

«Gli Elfi, signore. Abbiamo parlato un po’ ieri sera; sembravano sapere che voi ve ne andavate, e mi è parso inutile negare. Che gente meravigliosa, gli Elfi! Meravigliosa!».

«Lo sono effettivamente», annuì Frodo. «Ti piacciono ancora, adesso che li hai visti da vicino?».

«Non so come dire, ma è come se fossero al di sopra di ciò che piace o non piace», rispose Sam. «Quel che penso di loro non conta. Sono molto diversi da come me li immaginavo: così giovani e vecchi, e così felici e tristi allo stesso tempo».

Frodo guardò Sam alquanto sorpreso, aspettandosi quasi di vedere un segno esterno dello strano cambiamento che pareva avesse subito. Non sembrava più la voce del vecchio Sam Gamgee che credeva di conoscere. Eppure lì seduto stava proprio il vecchio Sam Gamgee, con la sua faccia di sempre, ma insolitamente pensierosa.

«Hai ancora voglia di lasciare la Contea, ora che il tuo desiderio di vedere gli Elfi è stato esaudito?», Frodo gli chiese.

«Sì, signore. Non so come spiegarlo, ma da ieri mi sento diverso. Mi sembra di vedere avanti a me, lontano. So che percorreremo una strada lunghissima verso l’oscurità; ma so che non posso tornare indietro. Non è per vedere Elfi, né draghi, né montagne che ora voglio… Non so nemmeno io che cosa voglio esattamente: ma ho qualcosa da fare prima della fine, qualcosa che si trova avanti a me e non nella Contea. Devo arrivare fino in fondo, signore, non so se mi capite».

«Non molto bene, a dire il vero. Ma vedo che Gandalf ha scelto per me un buon compagno. Sono contento di affrontare insieme il viaggio».

Frodo terminò la colazione in silenzio. Quindi si alzò guardando il panorama ai suoi piedi e chiamò Pipino.

«Tutti pronti? Si può partire?», chiese mentre Pipino arrivava correndo. «Dobbiamo metterci subito in cammino. Ci siamo svegliati tardi ed abbiamo ancora un bel po’ di miglia da fare davanti a noi».

«Tu ti sei svegliato tardi, vuoi dire», ribatté Pipino. «Io ero già sveglio da un pezzo; ed ora stiamo solo aspettando che tu finisca di mangiare e di riflettere».

«Ho finito di fare ambedue le cose adesso: ho intenzione di arrivare al Traghetto di Buckburgo al più presto. E non fare tutto il giro per tornare sulla strada che abbiamo lasciato ieri sera: ho l’intenzione di tagliare diritto da qui attraverso la campagna».

«Allora hai intenzione di volare», disse Pipino. «A piedi non potrai mai tagliare dritto in nessun posto da queste parti del paese».

«Possiamo tagliare dritto più della strada», rispose Frodo. «Il Traghetto è a sud-est di Terminalbosco; ma la strada volta a sinistra e puoi anche vederne una curva verso nord lì in fondo. Fa tutto il giro dell’estremità nord delle Paludi, per incrociare sopra Scorta la strada che viene dal Ponte: un giro di parecchie miglia. Potremo abbreviare la via di almeno un quarto, andando diritto da qui dove siamo fino al Traghetto».

«Chi va piano va sano e va lontano», obiettò Pipino. «La campagna è molto impervia da queste parti, e giù nelle Paludi ci sono stagni e una quantità di altri intralci ed ostacoli: conosco bene queste terre. E se ti preoccupi dei Cavalieri Neri, non vedo perché dovrebbe essere peggio incontrarli sulla strada che in un bosco o in un campo».

«È meno facile trovare gente nei boschi e nei campi», rispose Frodo; «e se corre voce che tu sei sulla strada, è molto più probabile che ti cerchino lì, anziché in altri luoghi».

«E va bene!», disse Pipino. «Ti seguirò in ogni stagno ed in ogni fosso, ma mi costa molto! Ci tenevo tanto a fare un salto alla Pertica d’Oro di Scorta prima del tramonto. Hanno la migliore birra del Decumano Est, o perlomeno ce l’avevano fino a qualche tempo fa. È da un bel po’ che non l’assaggio».

«La questione è chiusa», disse Frodo. «Chi va piano va sano e va lontano, ma chi si ferma non va avanti. Ti terremo ad ogni costo lontano dalla Pertica d’Oro. Dobbiamo assolutamente arrivare a Buckburgo prima che faccia notte. Che ne dici, Sam?».

«Non mi allontanerò un passo da voi, signore», rispose Sam (nonostante una certa apprensione ed un profondo rimpianto per la migliore birra del Decumano Est).

«Allora, se vogliamo penare tra roveti e pantani, partiamo subito!», disse Pipino.

* * *

Faceva già quasi caldo come il giorno prima; ma delle nuvole cominciarono ad apparire ad occidente. Pareva che minacciasse di piovere. Gli Hobbit si affrettarono a scendere giù per uno strapiombo ricoperto d’erba, tuffandosi nella boscaglia. Il loro percorso avrebbe lasciato Boschesi sulla sinistra e, tagliando obliquamente attraverso i folti boschi del fianco orientale della collina, avrebbe raggiunto la pianura sottostante. Ciò permetteva loro di arrivare direttamente al Traghetto, percorrendo una campagna aperta, eccezion fatta per qualche muricciolo o qualche steccato. Frodo riteneva che ci fossero una ventina di miglia da percorrere in linea retta.

Si rese presto conto che la boscaglia era più fitta e ingarbugliata di quanto non credesse. Non c’erano sentieri nel sottobosco; ed essi procedevano con una certa lentezza. Arrivati con difficoltà in fondo allo strapiombo, trovarono un corso d’acqua proveniente dalle colline e profondamente incassato fra sponde ripide e sdrucciolevoli coperte di rovi. Tagliava perpendicolarmente la loro linea di marcia, intralciandoli non poco. Non potevano saltarlo, e nemmeno attraversarlo, senza bagnarsi, graffiarsi ed infangarsi. Si fermarono, deliberando sul da farsi. «Primo scacco!», disse Pipino sorridendo sarcastico.

Sam guardò indietro. Attraverso un varco tra gli alberi intravide la cima dello strapiombo verdeggiante che avevano appena percorso. «Guardate!», disse, afferrando il braccio di Frodo. Si voltarono a guardare: sul bordo della scarpata, al di sopra delle loro teste, si staccava nitido contro il cielo un cavallo. Sulla sua groppa una figura nera.

Rinunciarono immediatamente a ogni idea di ritornare sui loro passi. Frodo fece strada, tuffandosi rapido tra i folti cespugli lungo il ruscello. «L’abbiamo scampata bella!», disse a Pipino. «Avevamo ragione tutti e due. Siamo già costretti a deviare dalla scorciatoia; ma ci siamo nascosti appena in tempo. Tu, Sam, che hai l’udito fino, senti qualcosa avvicinarsi?».

Rimasero immobili, trattenendo il respiro mentre ascoltavano; ma non udirono alcun rumore d’inseguimento. «Non credo che proverà a far scendere il cavallo dalla scarpata», disse Sam, «ma immagino che sappia che noi siamo passati di lì. La miglior cosa è avanzare».

Avanzare non era la più facile delle imprese. Avevano i fagotti da portare attraverso cespugli e rovi resistenti e folti. La cresta delle colline alle loro spalle ostacolava il passaggio del vento, e l’aria era grave e stagnante. Quando infine riuscirono a sbucare in un terreno più aperto, erano accaldati, stanchi, pieni di graffi ed insicuri della direzione che avevano preso. Gli argini del corso d’acqua diminuivano progressivamente d’altezza, mentre il torrente, ora più largo e meno profondo, si avvicinava alla pianura, diretto verso le Paludi e il Fiume.

«Ma questo è il ruscello Scorta!», esclamò Pipino. «Se vogliamo tentare di riprendere il nostro itinerario, dobbiamo traversarlo immediatamente e tenerci sulla destra».

Dopo aver guadato il ruscello, si affrettarono a percorrere allo scoperto un vasto spiazzo senza alberi, dove crescevano abbondanti i giunchi. Giunsero così a un’altra cintura di alberi composta per la maggior parte da alte querce, frammiste qua e là a qualche olmo e a qualche frassino. Il terreno era abbastanza piano, le fratte pressoché inesistenti; ma gli alberi molto fitti ostacolavano la vista. Le foglie turbinavano in mezzo a improvvise raffiche di vento, e le prime gocce cominciarono a cadere da un cielo minaccioso. Appena il vento si calmò, scrosciarono torrenti di pioggia. Arrancavano penosamente, cercando di attraversare quanto più in fretta potessero grossi cumuli di foglie secche e ciuffi di erbe alte, mentre intorno a loro la pioggia devastatrice cadeva a cateratte. Non parlavano, ma si guardavano continuamente alle spalle e scrutavano il bosco a destra e a sinistra.

Dopo mezz’ora Pipino disse: «Spero che non abbiamo girato troppo verso sud, e che non stiamo camminando nella foresta longitudinalmente! Non è una cinta molto larga, non più di un miglio nei punti più grandi, ed avremmo dovuto essere dall’altro lato, ormai».

«La cosa peggiore che potremmo fare», disse Frodo, «sarebbe di metterci a camminare a zigzag. Continuiamo per la nostra strada! Non ho molta voglia di tornare allo scoperto».

* * *

Continuarono per un altro paio di miglia. Il sole riapparve fra nuvole stracciate e la pioggia diminuì. Era mezzogiorno passato; sentirono un gran bisogno di mangiare. Si fermarono sotto un olmo, il cui fogliame era ancora fitto, benché stesse rapidamente ingiallendo, ed ai cui piedi il terreno era abbastanza asciutto e riparato. Quando misero mano alle provviste, videro che gli Elfi avevano riempito le bottiglie di una rinfrescante bevanda color oro pallido e dal profumo di un miele ricavato da migliaia di fiori diversi. Dopo poco tempo scherzavano allegri, ridendosela della pioggia e dei Cavalieri Neri. Sentivano che presto le ultime miglia sarebbero state dietro le loro spalle.

Frodo appoggiò la schiena contro il tronco dell’albero e chiuse gli occhi. Sam e Pipino, seduti accanto, cominciarono a cantare dolcemente:

O! O! O! Ho bisogno del nettare dal bel colore

Per guarire il mio cuore ed annegare il mio dolore.

La pioggia può cadere ed il vento soffiare,

È lunghissima la strada che mi resta da fare,

Ma sotto un grande albero io mi riposerò

E le nuvole veloci passare guarderò.

O! O! O! ricominciarono da capo più forte. Ma bruscamente s’interruppero. Frodo saltò in piedi. Un lungo gemito portato dal vento giunse alle loro orecchie, come il grido di qualche essere malvagio e solitario: prima stridulo, poi quasi soffocato, terminò con una nota estremamente acuta. E, mentre stavano lì immobili, chi in piedi chi seduto, come pietrificati, un altro lamento, più debole e lontano ma non meno raccapricciante, rispose al primo. Seguì un lungo silenzio, interrotto solo dal rumore del vento tra le foglie.

«E quello cos’era?», chiese infine Pipino, affettando una certa disinvoltura, ma alquanto tremante. «Se era un uccello, è uno che non ho mai sentito nella Contea prima d’oggi».

«Non era un uccello; non era una bestia», rispose Frodo. «Era un richiamo, o un segnale. C’erano parole in quel lamento parole che non conosciamo. Ma nessun Hobbit ha una voce del genere».

Non ne parlarono più: pensavano tutti ai Cavalieri, ma non dissero niente. Erano restii a partire e riluttanti a rimanere; ma prima o poi avrebbero dovuto attraversare l’aperta campagna fino al Traghetto, ed era meglio mettersi subito in cammino, alla luce del giorno. In quattro e quattr’otto rifecero i fagotti e ripartirono.

* * *

Poco dopo giunsero al limite del bosco. Grandi pascoli si stendevano a perdita d’occhio. Si accorsero di avere infatti deviato troppo a sud. In lontananza, oltre la piana ed il Fiume, potevano scorgere la collinetta di Buckburgo, che si trovava ora però alla loro sinistra. Uscirono cauti e silenziosi dall’orlo della foresta e s’avviarono attraverso i campi con passo spedito.

Dapprima si sentirono inquieti e spaventati, senza il riparo degli alberi. Dietro di loro, in lontananza, si ergeva l’altura ove si erano rifocillati il mattino. Frodo si aspettava quasi di vedere il profilo distante di un cavaliere staccarsi nitido e nero sulla cresta dei colli, contro il pallido cielo; ma non ve n’era traccia. Il sole, sgusciato fuori dalle nuvole lacerate, brillava di nuovo caldo ed accecante, scendendo verso le colline che avevano appena lasciato. La paura svanì, ma non il senso d’inquietudine. La campagna stava diventando meno selvaggia ed apparvero le prime colture. Presto incontrarono campi arati e seminati, prati e pascoli ben tenuti, siepi, recinti e canali di drenaggio. Tutto sembrava silenzioso e pacifico, come un qualsiasi angolo della Contea. Il loro umore migliorava man mano che andavano avanti. Il Fiume si avvicinava sempre di più ed i Cavalieri Neri parevano ormai fantasmi dei boschi lontani dietro le loro spalle.

Seguirono il bordo di un enorme campo di rape, giungendo di fronte a un robusto cancello che dava su di un sentiero fiancheggiato da siepi basse e regolari. In fondo si poteva vedere un gruppetto d’alberi. Pipino si fermò.

«Conosco questi campi e questo cancello!», esclamò. «Siamo nelle terre del vecchio Maggot. Ci dev’essere la sua fattoria in mezzo a quegli alberi».

«Dalla padella nella brace!», disse Frodo, allarmato come se Pipino avesse dichiarato che il sentiero conduceva al covo di un drago. Gli altri lo guardarono meravigliati.

«Che cos’ha il vecchio Maggot che non va?», chiese Pipino. «È un buon amico di tutti i Brandibuck. Siamo d’accordo, è il terrore di tutti coloro che oltrepassano i limiti della sua proprietà, e i suoi cani sono spaventosi e feroci, ma dopo tutto la gente di qui, essendo vicina alle frontiere, deve stare molto in guardia e all’erta».

«Lo so», disse Frodo, «ma ciò non impedisce», aggiunse timido e mortificato, «che lui ed i suoi cani mi terrorizzino. Ho evitato la sua fattoria per anni ed anni. Mi sorprese parecchie volte, quando ero ragazzo e vivevo a Villa Brandy, a cercare funghi nella sua proprietà. L’ultima volta mi diede un sacco di scapaccioni e poi mi mostrò ai suoi cani. “Guardate bene, ragazzi”, disse loro; “la prossima volta che questo giovane mascalzone mette piede nelle mie terre, potete divorarlo. Adesso cacciatelo via!”. Mi rincorsero fino al Traghetto, e non dimenticherò mai la paura che ebbi, pur convinto che quelle brave bestie conoscevano il loro mestiere e non mi avrebbero nemmeno sfiorato».

Pipino rise. «Be’, è ora che facciate la pace, specialmente se hai intenzione di tornare a vivere nella Terra di Buck. Il vecchio Maggot è una gran brava persona… se lasci stare i suoi funghi. Camminiamo sul viale, così non potrà dire che stiamo calpestando i suoi prati. Se lo incontriamo, gli parlerò io. È un buon amico di Merry e ci fu un tempo in cui venivamo spesso a fargli visita».

* * *

Percorsero il sentiero e giunsero davanti a una casa e ad altri edifici dai tetti ricoperti di paglia, che facevano capolino fra gli alberi. I Maggot, i Piedimelma di Scorta, e la maggior parte degli abitanti delle Paludi erano tipi casalinghi. E la fattoria, solidamente costruita in mattoni e circondata da un muro molto alto, lo dimostrava chiaramente. Un cancello di legno si apriva sul viale.

All’improvviso, mentre si stavano avvicinando, sentirono dei cani latrare ed abbaiare furiosamente e una voce possente urlare: «Rata! Zanna! Lupo! Venite, ragazzi!».

Frodo e Sam si fermarono sui due piedi, ma Pipino fece ancora qualche passo. Il cancello si aprì e tre immensi cani si precipitarono nel viale, dirigendosi a tutta velocità verso i viaggiatori ed abbaiando ferocemente. Non fecero alcun caso a Pipino; ma Sam si appiattì contro il muro, annusato sospettosamente da due cani che gli ricordavano stranamente i lupi e che ringhiavano allorché egli si muoveva. Il più grosso e feroce dei tre si era fermato al cospetto di Frodo, ringhiando e fremendo.

Al cancello apparve un Hobbit ben piantato, dalle spalle larghe e dalla faccia tonda e grossa. «E allora? Chi siete mai e che diavolo volete?», chiese.

«Buona sera, signor Maggot!», disse Pipino.

L’agricoltore lo guardò da vicino. «Ma chi si vede! Mastro Pipino! Anzi, il signor Peregrino Tuc in persona», esclamò, mentre la sua espressione torva si trasformava in un grande sorriso. «È un bel po’ di tempo che non ti vedo da queste parti. Sei stato fortunato che ti abbia riconosciuto: stavo proprio per ordinare ai miei cani di sbranare gli stranieri. Stanno succedendo cose molto curiose di questi tempi. C’è sempre stata gente strana a girovagare e curiosare da queste parti: troppo vicini al Fiume, siamo», disse scuotendo il capo. «Ma individui strani e misteriosi come quello non ne ho visti in tutta la vita. Non attraverserà la mia terra senza permesso una seconda volta, se riesco a pescarlo».

«Di chi stai parlando?», chiese Pipino.

«Allora non l’avete visto?», disse Maggot. «È andato su per il viale verso la strada maestra, pochi minuti fa. Un individuo losco, e faceva domande losche. Ma è meglio che entriate, così chiacchiereremo più comodamente. Ho una birra specialissima, se tu ed i tuoi amici volete favorire in casa».

Evidentemente Maggot era ben felice di raccontare altro circa l’incidente, purché lo facessero parlare come e dove voleva lui; accettarono dunque unanimemente la proposta. «E i cani?», chiese ansiosamente Frodo.

Il vecchio rise. «Non vi faranno niente, a meno che non glielo ordini io. Rata! Zanna! Qui! Cuccia!», gridò. «Lupo, cuccia!». Con grande sollievo di Frodo e di Sam, i cani si allontanarono, permettendo loro di muoversi liberamente.

Pipino presentò a Maggot gli altri due: «Il signor Frodo Baggins», disse. «Probabilmente non ti ricorderai di lui; ma ha vissuto un certo tempo a Villa Brandy». Al nome Baggins l’agricoltore sussultò, lanciando a Frodo un’occhiata penetrante. Per un attimo questi pensò che il ricordo dei funghi rubati fosse tornato alla mente del vecchio, il quale avrebbe ordinato ai cani di cacciarlo fuori. Ma il vecchio Maggot lo prese per un braccio.

«La cosa diventa sempre più strana!», esclamò. «Voi siete il signor Baggins? Venite, venite dentro, dobbiamo fare quattro chiacchiere».

Entrarono in cucina e si sedettero vicino al grande camino. Maggot arrivò con un grosso boccale di birra e riempì quattro bicchieri. Era davvero buona, e Pipino fu largamente ricompensato della mancata sosta alla Pertica d’Oro. Sam sorseggiava la birra, alquanto sospettoso e diffidente. Non aveva alcuna fiducia negli abitanti delle altre parti della Contea; inoltre non era per nulla disposto a legare subito con qualcuno che aveva preso il suo padrone a scapaccioni, anche se molto tempo addietro.

Dopo qualche commento sul tempo e sulle prospettive agricole (ambedue non peggiori del solito), il vecchio Maggot posò il suo bicchiere e li guardò uno per uno.

«Ed ora, caro signor Peregrino», disse, «da dove sei venuto e dove mai stai andando! Stavi venendo a farmi visita? Perché se è così hai attraversato il cancello senza che io ti vedessi».

«Be’, no», rispose Pipino; «ti confesserò, poiché l’hai indovinato, che abbiamo preso il sentiero dall’altra estremità, dopo aver attraversato i tuoi campi. Ma è stato un puro caso. Ci siamo smarriti nelle foreste vicino a Boschesi, nel tentativo di prendere una scorciatoia che ci portasse al Traghetto».

«Se avevate fretta, la strada sarebbe stata di gran lunga più adatta», disse il vecchio agricoltore. «Ma non era quello che mi preoccupava. Hai il permesso di passeggiare per la mia proprietà quando ti pare e piace, caro Peregrino. Ed anche voi, signor Baggins, benché supponga che i funghi vi piacciano ancora». Rise. «Eh sì! ho riconosciuto il nome. Ricordo benissimo il tempo in cui il giovane Frodo Baggins era il peggior monello della Terra di Buck. Ma non era di funghi che volevo parlare. Avevo sentito pronunciare il nome Baggins pochi attimi prima che arrivaste. Cosa credete che quel losco individuo abbia chiesto?».

Aspettarono ansiosi che continuasse. «Ebbene», proseguì Maggot pregustando già l’effetto della sua rivelazione, «arrivò su di un grosso cavallo nero, e dopo esser entrato dal cancello, che per caso era aperto, si piantò davanti alla mia porta. Era tutto nero anche lui, avvolto in un mantello e con un cappuccio in testa, come se non volesse essere riconosciuto. “Che può mai volere nella Contea?”, mi sono detto. Non c’è molta Gente Alta in giro al di qua delle frontiere, e comunque mai avevo sentito parlare di un tipo come questo. “Buon giorno!”, gli dico, uscendo di casa. “Questo sentiero non porta in nessun posto, e ovunque voi siate diretto, la via più rapida è la strada che avete appena lasciato”. Il suo aspetto non mi piaceva affatto, e quando Rata, avvicinandosi, lo ebbe annusato una volta, guai come punto da una vespa: mise la coda fra le gambe e fuggì a precipizio ululando. Il tizio nero sedeva immobile.

«“Vengo da lì”, disse lento e stranamente rigido, mostrando dietro di sé ad ovest le mie terre, pensate un po’! “Avete visto Baggins?” chiese con una voce strana curvandosi verso di me. Non riuscivo a vedere il suo viso, poiché il cappuccio lo nascondeva completamente. Un brivido mi traversò la schiena, ma non vedevo perché dovesse cavalcare per le mie terre con tanta faccia tosta.

«“Andate via! “, gli dissi. “Non c’è nessun Baggins in questa parte della Contea. Voi siete in una regione sbagliata. Fareste bene a tornare a ovest fino a Hobbiville, ma sulla strada, questa volta”.

«“Baggins è partito”, rispose sussurrando. «Sta venendo qui. Sta per arrivare. Desidero trovarlo. Se passa me lo farete sapere? Tornerò con dell’oro.

«“Vi sbagliate”, dissi. “Tornerete da dove siete venuto, ed immediatamente. Vi do un minuto e poi chiamo tutti i miei cani”.

«Emise una specie di sibilo. Avrebbe potuto essere una risata, o qualsiasi altra cosa. Quindi spronò il suo gran cavallo dritto contro di me, ma riuscii a scansarlo appena in tempo. Chiamai i cani, ma egli si voltò in un baleno e, dopo aver passato il cancello, partì a rotta di collo su per il viale fino alla strada maestra. Che ve ne pare?».

Frodo rimase qualche tempo immobile fissando il fuoco. Il suo unico pensiero era adesso come diavolo avrebbe fatto per raggiungere il Traghetto. «Non so proprio che cosa pensare», rispose infine.

«E allora ve lo dirò io!», disse Maggot. «Non avreste mai dovuto aver a fare con quelli di Hobbiville, signor Frodo. La gente è strana da quelle parti». Sam si agitò sulla sedia, adocchiandolo con ostilità. «Ma voi siete stato sempre un tipo irrequieto. Quando seppi che avevate lasciato i Brandibuck per andare a stare dal vecchio signor Bilbo, dissi subito che vi sareste messo nei guai. Ascoltatemi bene, signor Frodo: tutto ciò è dovuto agli strani traffici del signor Bilbo. Il suo denaro pare l’avesse trovato in modo curioso in terre straniere. Forse qualcuno vorrà sapere che ne è dell’oro e dei gioielli che si dice egli avesse seppellito nella collina di Hobbiville».

Frodo tacque: le perspicaci congetture del vecchio erano alquanto sconcertanti.

«Ebbene, signor Frodo», proseguì Maggot. «Mi fa molto piacere vedere che avete avuto il buonsenso di tornare a star qui nella Terra di Buck. Vi consiglio vivamente di rimanerci. E cercate di non avere niente a fare con tutta quella gente di fuori. Troverete parecchi amici da queste parti. Se uno di questi tizi neri torna a chiedere di voi, so io cosa rispondergli. Gli dirò che siete morto o che avete lasciato la Contea, o qualcosa del genere. E potrebbe anche essere vero: chi ci dice che non sia il vecchio signor Bilbo che stanno cercando?».

«Forse avete ragione», disse Frodo, sfuggendo lo sguardo del vecchio e continuando a fissare il fuoco.

Maggot lo osservò pensosamente. «Bene, vedo che avete le vostre idee. È chiaro come il sole che non è stato il puro caso a condurre qui voi e quel cavaliere lo stesso pomeriggio; e può darsi che le mie notizie non siano state dopo tutto per voi una grande novità. Non vi sto chiedendo di dirmi qualcosa che intendete tenere per voi, ma vedo che avete dei problemi. Forse state pensando che non sarà molto facile arrivare fino al Traghetto senza essere raggiunto?».

«È proprio ciò che stavo pensando», disse Frodo. «Ma dobbiamo cercare ad ogni costo di arrivarci; e non ci riusciremo stando qui seduti a riflettere. Perciò penso proprio che dobbiamo andare. Grazie, grazie per le vostre cortesie! Sono stato terrorizzato di voi e dei vostri cani per più di trent’anni, mio caro Maggot, benché ciò possa sembrarvi ridicolo. È un gran peccato, perché avrei goduto di una buona amicizia, ed ora mi dispiace dovermene andar via così presto. Ma tornerò, forse, un giorno, se la sorte lo vorrà».

«Sarete il benvenuto a qualsiasi ora», disse Maggot. «Ma mi è venuta un’idea. Il sole è già quasi tramontato, e noi fra poco pranzeremo: generalmente ci corichiamo poco dopo di lui. Ci farebbe molto piacere, se voi e tutti gli altri rimaneste a mangiare con noi».

«Anche a noi!», rispose Frodo. «Ma purtroppo dobbiamo andarcene subito. Anche partendo ora farà buio prima di arrivare al Traghetto».

«Ma aspettate un attimo! Stavo per dire: dopo pranzo attaccherò un piccolo carro e vi condurrò tutti al Traghetto. Sarà un bel po’ di cammino risparmiato, e vi farà anche evitare, forse, delle seccature d’altro genere».

Frodo accettò l’invito, con gran sollievo di Pipino e di Sam. Il sole era già sceso dietro le colline occidentali, e l’oscurità avanzava rapidamente. Le tre figlie di Maggot e due dei suoi figli entrarono portando un abbondante pasto ed apparecchiarono la grande tavola. Accesero delle candele per far luce in cucina e misero dell’altra legna sul fuoco. La signora Maggot andava avanti e indietro indaffaratissima. Arrivarono un paio di altri Hobbit appartenenti alla grande famiglia della fattoria e poco dopo erano tutti seduti a tavola. C’era birra in abbondanza e un copioso piatto di funghi e pancetta, oltre a tanti altri cibi campagnoli, sani e nutrienti. I cani, sdraiati accanto al fuoco, rosicchiavano ossa e croste di formaggio.

Quando ebbero finito, Maggot ed i suoi figli uscirono con una lanterna per preparare il carro. Faceva già buio nel cortile quando gli ospiti vi saltarono su, dopo avervi buttato i loro fagotti. Il vecchio si sedette a cassetta e frustò i due robusti pony. La moglie stava in piedi, alla luce della porta aperta.

«Stai attento, Maggot», gridò. «Non ti mettere a litigare con gli estranei e torna subito a casa!».

«Certo!», rispose, e guidò il carro fuori del cancello. Non c’era un alito di vento nella notte calma e silenziosa, ma l’aria era piuttosto fredda. Avanzavano lentamente e con le luci spente. Dopo qualche miglio giunsero alla fine del sentiero, che attraversava un profondo fossato per poi risalire un piccolo pendio fino alla carreggiata della strada maestra.

Maggot scese e scrutò le tenebre a nord ed a sud; ma non si riusciva a vedere niente, e nessun suono turbava la quiete notturna. Dei fili sottili di nebbia proveniente dal fiume pendevano sul fossato e strisciavano sui campi.

«Diventerà molto fitta», disse Maggot. «Ma accenderò la lanterna solo quando avrò voltato per tornarmene a casa. Questa sera sentiremo arrivare per la strada chiunque molto prima di incontrarlo».

* * *

C’erano ancora cinque miglia dal viale della proprietà Maggot al Traghetto. Gli Hobbit si imbacuccarono bene, ma le loro orecchie erano tese e pronte a percepire qualsiasi suono che non fosse il cigolio delle ruote ed il lento clop degli zoccoli dei pony. A Frodo il carro sembrava avanzare più lento di una lumaca. Accanto a lui Pipino stava per appisolarsi, mentre Sam fissava davanti a sé nella nebbia che si infittiva.

Giunsero finalmente all’ingresso del viale che portava al Traghetto. Era indicato da due alti pali bianchi che giganteggiarono all’improvviso sulla loro destra. Il vecchio Maggot fece entrare i suoi pony ed arrestò il carro scricchiolante. Si apprestavano a scendere, veloci e silenziosi, quando a un tratto sentirono ciò che avevano tutti tanto temuto: rumore di zoccoli sulla strada, rumore di zoccoli che veniva verso di loro.

Maggot saltò giù e tenne ferme le teste dei pony, scrutando le tenebre di fronte a sé. Clip-clop, clip-clop, il cavaliere si avvicinava. Lo scalpitio risuonava forte e nitido nell’immobile aria nebbiosa.

«È meglio che vi nascondiate, signor Frodo», disse Sam ansiosamente. «Mettetevi giù sdraiato e copritevi con le coperte e noi manderemo questo cavaliere a farsi benedire!». Saltò giù e si mise accanto a Maggot. I Cavalieri Neri avrebbero dovuto cavalcare sul suo cadavere prima di avvicinarsi al carro. Clop-clop, clop-clop, il cavaliere stava per venire loro addosso. «Ehi là!», gridò il vecchio Maggot. Lo scalpitio si interruppe d’un tratto. Credettero d’individuare vagamente nella nebbia, a un paio di passi di distanza, una figura scura ed ammantata.

«E allora!», disse Maggot, lanciando a Sam le redini ed avanzando deciso e minaccioso in direzione dell’estraneo. «Fermo lì dove siete! Cosa volete e dove state andando?».

«Cerco il signor Baggins. L’avete visto per caso?», disse una voce soffocata… ma la voce era quella di Merry Brandibuck. Una lanterna fu accesa, illuminando il viso stupefatto del vecchio agricoltore.

«Signor Merry!», esclamò.

«Certo! Chi credevate che fosse?», disse Merry avvicinandosi. A mano a mano che egli usciva dalla nebbia e che i loro timori si quietavano, il cavaliere parve rimpicciolirsi sino alla normale dimensione hobbit. Montava un pony ed aveva una sciarpa avvolta attorno al collo ed al mento per proteggersi dal freddo e dall’umidità.

Frodo fu con un balzo giù a salutarlo. «Eccovi, infine!», esclamò Merry. «Incominciavo proprio a domandarmi se sareste arrivati oggi, dopo tutto, e stavo tornando a casa per mangiare. Quando ho visto arrivare la nebbia, l’ho attraversata e mi sono messo a cavalcare verso Scorta, per vedere se eravate caduti in qualche fosso. Non riesco proprio a capacitarmi da che parte siate venuti! Dove li avete trovati, signor Maggot? Nel vostro stagno, in mezzo alle anatre, forse?».

«No, li ho colti in fallo mentre stavano illecitamente calpestando la mia proprietà», rispose il vecchio, «e stavo per farli sbranare dai cani; ma vi racconteranno loro stessi la storia, non dubitate. Ora, se permettete, signor Merry, signor Frodo e gli altri amici, io me ne torno a casa. La signora Maggot starà in pensiero per me, con la notte così fitta e buia».

Indietreggiò col carro nel sentiero e lo girò. «Ebbene, buona notte a tutti», disse. «È stata una giornata strana, non c’è che dire. Ma tutto è bene quel che finisce bene, benché forse non è ancor ora di dirlo, prima di aver varcato la porta di casa. Devo confessare che mi sentirò un altro quando sarò al sicuro nella mia fattoria». Accese i fanali e si alzò. Improvvisamente trasse un enorme cesto da sotto il sedile: «Stavo quasi per dimenticarmene», disse. «La signora Maggot ha preparato questo per il signor Baggins, con tanti auguri». Lo porse giù, e si avviò seguito da un coro di ringraziamenti e di buona notte.

Guardarono scomparire nella notte nebbiosa i pallidi cerchi di luce intorno ai fanali. D’un tratto Frodo rise: dal cesto chiuso che aveva in mano veniva un buon odore di funghi.

CAPITOLO V UNA CONGIURA SMASCHERATA

«Adesso faremmo bene anche noi ad andarcene a casa», disse Merry. «È chiaro che c’è qualcosa di strano in tutto ciò, ma ne riparleremo più tardi».

Scesero giù per il viale del Traghetto, un viale dritto, curato, bordato da grandi pietre imbiancate. Dopo un centinaio di passi circa, giunsero alla riva del fiume e all’ampia banchina di legno accanto alla quale era ormeggiato un grosso traghetto. La superficie dell’acqua brillava alla luce proveniente dalle lampade di due alti fanali. Dietro di loro la nebbia, nei campi della pianura, ricopriva già le siepi; ma l’acqua ai loro piedi era buia, e soltanto qua e là qualche chiazza di foschia attorcigliata, simile a una spirale di fumo, appannava le canne lungo le sponde. Pareva che sull’altra riva ci fosse meno nebbia.

Merry condusse il pony sul traghetto, facendolo passare su un pontile, mentre gli altri lo seguivano; allontanò quindi l’imbarcazione spingendo con un lungo palo. Il Brandivino scorreva ampio e pacifico davanti a loro. Dall’altro lato gli argini erano scoscesi, ed un sentiero vi si arrampicava serpeggiando. Anche là brillavano dei fanali. In lontananza giganteggiavano i contorni del Colle Buck dal quale, velate da fini strati di foschia, splendevano tante finestre tonde gialle e rosse. Erano le finestre di Villa Brandy, l’antica residenza dei Brandibuck.

* * *

Molto tempo addietro Gorhendad Vecchiobecco, capostipite della famiglia Vecchiobecco, una delle più antiche delle Paludi e forse anche della Contea, aveva attraversato il fiume, confine est originario del paese. Egli eresse (e scavò) Villa Brandy, trasformò il suo nome in Brandibuck e si installò lì quale signore di quel che in pratica era un piccolo territorio indipendente. La sua famiglia crebbe e si moltiplicò, e continuò a crescere dopo la sua scomparsa, finché Villa Brandy occupò l’intera collinetta, provvista di tre portoni, parecchie porte di servizio e all’incirca di un centinaio di finestre. I Brandibuck ed i loro numerosi dipendenti incominciarono allora a scavare e poi a costruire, tutt’intorno. Così ebbe origine la Terra di Buck, una fascia densamente popolata tra il fiume e la Vecchia Foresta, una specie di colonia della Contea. Il capoluogo era Buckburgo, aggrappata ai pendii e alle alture dietro Villa Brandy.

La gente della Palude era in ottimi rapporti con gli abitanti della Terra di Buck, e l’autorità del Signore della Villa (così veniva infatti chiamato il capo della famiglia Brandibuck) era persino riconosciuta dai contadini tra Scorta e Sirte. Ma la maggior parte degli abitanti della vecchia Contea considerava i Bucklandesi gente curiosa e mezzo straniera, benché, in fin dei conti, non differissero molto dagli altri Hobbit dei quattro Decumani. Una sola cosa li caratterizzava: possedevano barche ed alcuni sapevano anche nuotare.

Il loro paese non era originariamente protetto ad est; fu così che vi fecero crescere una siepe: la Frattalta. Essendo stata piantata molte generazioni addietro, adesso era spessa, alta e robusta, poiché la curavano molto. Aveva la forma di un grande semicerchio che, partito dal Ponte sul Brandivino, si allontanava poi dal fiume giungendo a Finfratta (dove il Sinuosalice esce dalla Foresta e si getta nel Brandivino): più di due miglia da un’estremità all’altra. Ma non era certo una protezione sufficiente. La Foresta era in molti punti vicinissima alla siepe. I Bucklandesi chiudevano le porte a chiave quando calava la notte, e ciò era quanto mai insolito per la Contea.

* * *

Il traghetto si spostava lento sull’acqua. La riva della Terra di Buck si avvicinava. Sam era l’unico della compagnia che non aveva mai attraversato il fiume in vita sua. Una strana sensazione s’impadronì di lui mentre la corrente lenta e gorgogliante fluiva sotto l’imbarcazione: la sua vecchia vita era rimasta indietro nelle nebbie, ed ora lo attendeva un’avventura oscura e tenebrosa. Si grattò il capo, e provò un attimo il desiderio fugace che il signor Frodo avesse continuato a vivere in pace a Casa Baggins.

I quattro Hobbit scesero dal traghetto. Merry lo stava ormeggiando e Pipino era già, col pony alla briglia, su per il sentiero, quando Sam (che si era voltato a dare un ultimo saluto alla Contea) disse in un roco sussurro:

«Guardate indietro, signor Frodo! Vedete qualcosa?».

Sull’altra riva, sotto ai fanali lontani, si riusciva appena a distinguere un contorno che pareva quello di un fardello nero abbandonato. Ma in quel momento sembrò muoversi e ondeggiare da un lato all’altro, come per osservare il terreno da vicino. Quindi scivolò, e tornò carponi nelle tenebre oltre i fanali.

«Cosa diamine è quell’affare?», esclamò Merry.

«Qualcosa che ci sta inseguendo», disse Frodo. «Ma non chiedermi nient’altro per il momento! Andiamocene immediatamente da qui!». Corsero su per il viottolo fino alla sommità dell’argine, ma quando si voltarono di nuovo per guardare l’altra riva, la nebbia la nascondeva completamente alla vista.

«Grazie al cielo non tenete imbarcazioni sulla sponda occidentale!», esclamò Frodo. «Sai se i cavalli possono attraversare il fiume?».

«Andando venti miglia a nord, e passando sul Ponte del Brandivino, oppure nuotando: ma non ho mai sentito dire che un cavallo abbia attraversato a nuoto il Brandivino», rispose Merry. «E poi che c’entrano i cavalli?».

«Te lo dirò dopo. Andiamo a casa e poi potremo parlare».

«Benissimo. Tu e Pipino conoscete la strada; io vi precedo per avvertire Grassotto Bolgeri del vostro arrivo imminente. Prepareremo il pranzo e tutto il resto».

«Abbiamo già pranzato questa sera col vecchio Maggot», disse Frodo) «ma credo che un bis sarebbe bene accetto».

«E lo avrete! Dammi qua quel cesto!», disse Merry, e cavalcò via nel buio.

* * *

C’era un po’ di strada da fare tra il Brandivino e la nuova dimora di Frodo a Crifosso, Oltrepassarono alla sinistra il Colle Buck e Villa Brandy, ed alla periferia di Buckburgo imboccarono la strada maestra che dal Ponte si dirigeva a sud. Dopo averne percorso un paio di miglia in direzione nord, giunsero a un viale che sboccava sulla destra della carreggiata. Lo seguirono per un altro miglio nelle sue salite e discese per la campagna.

Infine incontrarono un piccolo cancello in mezzo a una siepe molto fitta. L’oscurità non lasciava nemmeno intravedere la casa: si ergeva all’interno della siepe, in mezzo a un grande prato circolare contornato di una cinta di piccoli alberi. Frodo l’aveva scelta per la sua posizione appartata e perché non vi erano altre abitazioni nei paraggi. Si poteva entrare ed uscire senza essere notati: era stata costruita molti anni addietro dai Brandibuck per gli ospiti o i familiari che desiderassero scappare per qualche tempo dalla vita tumultuosa e affollata di Villa Brandy. Era una casa di campagna, ma all’antica, e rassomigliava a una caverna hobbit: lunga e bassa, a un solo piano, un tetto ricoperto di zolle erbose, finestre circolari e una grande porta tonda.

Camminando per il viale erboso, videro la casa immersa nell’oscurità: le finestre erano buie e le persiane tutte chiuse. Frodo bussò e Grassotto Bolgeri aprì la porta. Una luce amica inondò i nuovi arrivati, che entrarono veloci, chiudendosi all’interno assieme ad essa. Si trovarono in un grande atrio con porte che davano su ambedue i lati e davanti a un corridoio che attraversava diametralmente la casa.

«Ebbene, che te ne pare?», chiese Merry giungendo dal corridoio. «Abbiamo fatto del nostro meglio perché rassomigliasse in poco tempo a una casa. Dopo tutto, Grassotto ed io siamo arrivati solo ieri con l’ultimo carico di roba».

Frodo si guardò intorno: rassomigliava proprio a una casa. Molti dei suoi oggetti preferiti o di quelli di Bilbo (nel loro nuovo scenario gli riportarono alla memoria più vivo che mai il suo ricordo) erano stati ordinati così come erano a Casa Baggins. Il posto era piacevole, comodo e accogliente, e Frodo scoprì che avrebbe tanto desiderato installarsi lì sul serio e godere per sempre pace e tranquillità. Non gli sembrava giusto che i suoi amici si fossero dati tanta pena, e di nuovo si chiese come avrebbe fatto a comunicar loro la notizia della sua partenza imminente, anzi immediata. Ma doveva farlo quella sera stessa, prima di andare a coricarsi.

«È deliziosa!», disse facendosi forza. «Non mi par quasi di essermi trasferito».

* * *

I viaggiatori appesero i mantelli e posarono i fagotti per terra. Merry li condusse in fondo al corridoio e spalancò una porta. Ne uscì un’ondata di vapore.

«Un bagno!», gridò Pipino esultante. «Benedetto sia Meriadoc!».

«In che ordine entreremo?», chiese Frodo. «Prima i più anziani oppure i più veloci? In ambedue i casi saresti l’ultimo, Mastro Peregrino».

«Fidatevi di me per organizzare un po’ meglio le cose!», disse Merry. «Non possiamo incominciare la vita a Crifosso con un litigio per i bagni. In quella stanza ci sono tre vasche e una caldaia piena d’acqua bollente. Troverete anche accappatoi, asciugamani, tappetini e sapone. Spicciatevi a entrare!».

Merry e Grassotto andarono in cucina, dall’altro lato del corridoio, e fecero gli ultimi preparativi per una tarda cena. Dal bagno giungevano stralci di varie canzoni che cercavano di sopraffarsi, frammisti ai rumori di spruzzi, sguazzi e schizzi. Improvvisamente la voce di Pipino riuscì a dominare le altre, cantando una delle canzoni da bagno preferite da Bilbo.

Canta! Perché il bagno sul finir del giorno

Sai che laverà via il fango più immondo!

Pazzo è colui che si rifiuta di cantare;

Dell’Acqua Calda non vi è piacer più salutare!

Dolce è della pioggia che cade intorno il suono,

E del ruscel che scorre dal colle al pianoro;

Ma meglio della pioggia e dell’impetuoso torrente,

È l’Acqua Calda di un fango fumante e bollente.

D’acqua fredda il bisogno noi risentiamo a volte

Per cavare la sete e procurar sollievo;

Ma in questi casi è meglio di Birra una botte

E giù per la tua schiena Acqua Calda a dirotto.

Bello è veder l’acqua zampillare

E da una fonte limpida al sole scintillare,

Ma suono di fontana non sarà mai sì piacevole

Come dello sguazzar nell’Acqua Calda il rumor allettevole!

Si udì un tremendo tonfo, e un grido di Frodo; dal bagno di Pipino una colonna d’acqua schizzò verso il soffitto.

Merry vociò dalla porta: «Che ne dite del pranzo e della botte di birra?». Frodo uscì strofinandosi i capelli.

«C’è tanta di quell’acqua per aria che devo venire in cucina ad asciugarmi», disse.

«Cielo!», esclamò Merry dando un’occhiata al bagno il cui pavimento di pietra pareva navigare. «Dovresti toglier tutta quell’acqua prima di venire a tavola, Peregrino», disse, «e spicciati o non ti aspetteremo».

Pranzarono in cucina vicino al fuoco scoppiettante. «Penso che voi tre ne abbiate abbastanza dei funghi!», disse Fredegario, senza però molta speranza.

«E invece ne vogliamo!», gridò Pipino.

«Sono miei!», disse Frodo. «Dati a me personalmente dalla signora Maggot, regina tra le mogli d’agricoltore. Giù le mani, ingordi! Vi servirò io!».

Gli Hobbit hanno per i funghi una passione travolgente, più forte di qualsiasi forma di avidità della Gente Alta: fatto che giustifica parzialmente le lunghe spedizioni del giovane Frodo nei rinomati campi delle Paludi, e la collera fremente del danneggiato, ossia, la maggior parte delle volte, del vecchio Maggot. In questa occasione ve n’erano in abbondanza per tutti, anche da un punto di vista hobbit. E vi erano anche molte altre pietanze per completare il pranzo, alla fine del quale persino Grassotto Bolgeri trasse un sospiro di soddisfazione. Allontanarono il tavolo, e avvicinarono le sedie al fuoco.

«Sparecchiamo dopo», disse Merry; «adesso raccontatemi tutto! Immagino che avrete avuto un sacco di avventure, e non è giusto, perché io non c’ero. Voglio che mi raccontiate la storia da capo a fondo e soprattutto che mi spieghiate cosa gli era preso al vecchio Maggot e perché mi parlava in quel modo. Sembrava quasi spaventato, cosa pressoché inconcepibile».

«Siamo stati tutti spaventati», disse Pipino, dopo un breve silenzio durante il quale Frodo continuò a fissare il fuoco, muto e immobile. «Anche tu lo saresti stato, se per due giorni interi i Cavalieri Neri ti avessero inseguito». «E cosa sono?».

«Tipi neri su cavalli neri», rispose Pipino. «Se Frodo non ha intenzione di parlare, ti racconterò io la storia sin dal principio». Descrisse quindi minuziosamente il loro viaggio dal momento in cui avevano lasciato Hobbiville. Sam annuiva e partecipava con cenni di testa ed esclamazioni. Frodo rimase silenzioso.

«Crederei che state inventando tutto», disse Merry, «se non avessi visto quel fantasma nero sul pontile, e sentito il vecchio Maggot parlare in un modo così strano. Tu che ne pensi, Frodo?».

«Il cugino Frodo è stato molto misterioso», disse Pipino. «Ma è giunta l’ora della rivelazione. Finora non abbiamo altre indicazioni che la supposizione di Maggot: lui dice che il tesoro di Bilbo c’entra in qualche modo».

«Ma quella era solo una supposizione», s’affrettò a interrompere Frodo. «Maggot non sa niente di sicuro».

«Il vecchio Maggot è astuto e perspicace», disse Merry. «Succedono molte cose nella sua testa tonda che le sue parole non lasciano trapelare. Ho sentito dire che molto tempo fa soleva recarsi spesso nella Vecchia Foresta, e ha fama di conoscere molte cose strane ed arcane. Ma puoi almeno dirci, Frodo, se credi che le sue congetture siano ben fondate o del tutto fantasiose e sballate?».

«Credo», rispose Frodo lentamente, «che sia sulla buona strada. C’è senz’altro un collegamento con le avventure del vecchio Bilbo, ed i cavalieri stanno cercando, o bisognerebbe piuttosto dire cacciando, lui o me. Se volete saperlo, temo anche che sia una cosa da prendersi sul serio, e che non sono al sicuro né qui né in nessun altro posto». Guardò intorno a sé le finestre e le pareti, come se temesse di vederle improvvisamente sprofondare. Gli altri lo osservavano in silenzio, scambiandosi occhiatine d’intesa.

«Fra poco vuota il sacco», sussurrò Pipino a Merry, che annuì col capo.

«Ebbene», disse infine Frodo, sollevando il busto e raddrizzando la schiena come se avesse preso una decisione. «Non posso tenere il segreto più a lungo. Ho qualcosa da dire a tutti voi, ma non so proprio da dove incominciare».

«Credo di poterti essere di aiuto», disse Merry dolcemente, «avviando io il discorso».

«Come sarebbe a dire?», chiese Frodo, guardandolo con stupore.

«Soltanto questo, mio caro Frodo: tu sei infelice, perché non sai come dirci addio. Avevi intenzione di lasciare la Contea, beninteso, ma il pericolo ti è piombato addosso più presto di quanto non pensassi, ed ora hai preso la risoluzione di partire immediatamente. E non ne hai voglia. A noi tutti dispiace molto».

Frodo aprì la bocca e la richiuse. La sua faccia stupefatta e sbigottita era talmente comica a vedersi che scoppiarono a ridere. «Caro vecchio Frodo!», disse Pipino. «Credevi veramente di essere riuscito a gettare polvere negli occhi di noi tutti? Non sei abbastanza furbo né cauto per questo. Sin da aprile rumini la partenza, e ti congedi dai luoghi che preferisci. Era così evidente! Ti sentivamo ogni momento borbottare: “Chissà se rivedrò mai più stendersi ai miei piedi questa valle! ” ed altre cose simili. E poi tutta quella commedia che hai recitato, facendo finta di aver finito il denaro, fino al punto di vendere Casa Baggins, così carica di piacevoli ricordi, a quegli odiosi Sackville-Baggins! E tutte quelle conversazioni a quattr’occhi con Gandalf!».

«Santo cielo!», esclamò Frodo. «Ed io che credevo di essere stato furbo e prudente! Mi chiedo che cosa direbbe Gandalf! Tutta la Contea starà discutendo della mia partenza, allora?».

«Oh no!», disse Merry. «Non ti preoccupare! Il segreto non potrà essere custodito a lungo, è ovvio, ma per il momento credo che solo noi cospiratori ne siamo al corrente. Dopo tutto devi pensare che ti conosciamo bene e che la nostra è la confidenza di una vita. Di solito riusciamo ad indovinare ciò che stai pensando. Io, fra l’altro, conoscevo anche Bilbo. A dir la verità, ti stavo osservando da vicino sin dal momento della sua partenza. Pensavo che prima o poi l’avresti seguito; anzi, credevo che saresti partito prima, e da qualche tempo in qua siamo stati molto in ansia. Eravamo terrorizzati che te la svignassi di nascosto e da solo, come aveva fatto lui. Da questa primavera, poi, teniamo gli occhi sgranati e prepariamo una quantità di piani per conto nostro. Non riuscirai a svignartela tanto facilmente!».

«Ma devo partire», disse Frodo. «Non posso farne a meno, amici cari. È una sventura per tutti noi, ma non serve a niente cercare di trattenermi. Poiché avete scoperto ciò che mi rattrista, vi prego, aiutatemi, e non mi rendete le cose ancora più difficili e penose!».

«Ma allora non hai capito!», disse Pipino. «Tu devi partire, perciò dobbiamo partire anche noi. Merry ed io veniamo con te. Sam è un’ottima persona, e salterebbe nella gola di un drago per soccorrerti, se non inciampasse nei propri piedi; ma avrai bisogno di più di un compagno nella tua pericolosa avventura».

«Miei cari e adorati Hobbit!», esclamò Frodo profondamente COMMOSSO. «Non potrei mai permettervi una cosa simile. Anche questa è una risoluzione presa tanto tempo fa. Parlate di pericolo, ma non vi rendete conto della vera realtà. Non è una caccia al tesoro, né un viaggio d’andata e ritorno: sto fuggendo da un pericolo mortale verso un altro pericolo mortale».

«Ma certo che ci rendiamo conto», disse Merry irremovibile. «Ed è per questo che abbiamo deciso di seguirti. Sappiamo che l’Anello non è cosa da scherzarci sopra, ma faremo il possibile per aiutarti nella lotta con il Nemico».

«L’Anello!», disse Frodo, completamente stralunato.

«Sì, l’Anello», ripeté Merry. «Mio caro vecchio Hobbit, non ti accorgi degli amici ficcanaso. È da anni che sono al corrente dell’esistenza dell’Anello, da prima che Bilbo partisse, per esser più precisi; ma poiché evidentemente egli lo considerava un segreto, mi sono tenuto per me la mia scoperta, fin quando formammo il nostro complotto. Naturalmente non conoscevo Bilbo bene come conosco te: ero troppo giovane, e lui più prudente di te… ma non sufficientemente. Se t’interessa, ti dirò come giunsi ai primi sospetti».

«Racconta!», disse debolmente Frodo.

«Com’era da aspettarsi, la sua rovina furono i Sackville-Baggins. Un giorno, circa un anno prima della Festa, mentre camminavo per la strada, vidi Bilbo davanti a me. Improvvisamente, in lontananza, apparvero i Sackville-Baggins che si dirigevano verso di noi. Bilbo rallentò, e poi a un tratto sparì. Ero talmente stupefatto, che ebbi appena la forza di nascondermi anch’io ma in un modo un po’ più normale: attraversai la siepe proseguendo poi all’interno il mio cammino. Mentre guardavo la strada attraverso le foglie, dopo che i Sackville-Baggins si furono allontanati, all’improvviso Bilbo riapparve, proprio davanti ai miei occhi. Stava infilando in tasca qualcosa, ed io vidi scintillare dell’oro.

«Dopo quel giorno tenni gli occhi ben aperti. Anzi, ti confesserò che mi misi a spiare; ma devi ammettere che gli avvenimenti erano tali da interessare chiunque, in particolar modo un adolescente come me. Credo di essere l’unico in tutta la Contea, oltre te, Frodo, ad aver visto il libro segreto del vecchio Bilbo».

«Hai letto il suo libro!», gridò Frodo. «Giusto cielo! Niente è dunque sicuro?».

«Mai del tutto sicuro, direi», rispose Merry. «Ma gli ho potuto dare soltanto uno sguardo, e l’impresa è stata ardua. Non lasciava mai il libro in giro. Mi domando dove è andato a finire. Non mi dispiacerebbe darci un’altra occhiata. Ce l’hai tu, Frodo?».

«No, non era a Casa Baggins, deve esserselo portato via».

«Dunque, dicevamo», proseguì Merry, «che tenni la bocca chiusa, fino a quando le cose diventarono serie, ossia in primavera. Allora organizzammo la nostra congiura: e poiché anche noi facevamo sul serio, non abbiamo avuto troppi scrupoli. Non sei un osso molto facile a rodersi e Gandalf ancora meno. Ma, se desideri conoscere il nostro investigatore capo, te lo posso presentare».

«Dov’è?», chiese Frodo, guardandosi intorno, come se s’aspettasse di veder uscire da un armadio un personaggio mascherato e sinistro.

«Vieni avanti, Sam!», ordinò Merry, mentre Sam s’alzava arrossendo fino alla radice dei capelli. «Ecco la nostra fonte d’informazioni! E ti assicuro che ne ha raccolte un bel PO’ prima di essere smascherato. Dopo di che si considerò vincolato da un giuramento e da allora si è rifiutato di collaborare ulteriormente».

«Sam!», esclamò Frodo, al colmo dello stupore, e incapace di decidere se si sentiva incollerito, divertito, sollevato, oppure semplicemente istupidito.

«Sissignore!», disse Sam. «Vi chiedo scusa, signore! E non volevo farvi un torto, signor Frodo, e nemmeno al signor Gandalf. Devo dire che lui però aveva del buonsenso e quando voi avete detto partirò solo, lui disse: “No! Portati qualcuno di cui ti puoi fidare!”».

«Ma pare che non mi possa fidare di nessuno», disse Frodo.

Sam lo guardò sconsolato. «Tutto dipende dal punto di vista», interloquì Merry. «Puoi fidarti di noi in quanto non ti lasceremo mai, nella buona e nella cattiva sorte, fino all’ultimo istante. E puoi fidarti di noi in quanto manterremo qualsiasi segreto e sapremo custodirlo meglio di te. Ma non ti fidare di noi per lasciarti affrontare da solo il pericolo, e partire senza una parola. Siamo i tuoi amici, Frodo, e comunque la decisione è già presa. Sappiamo quasi tutto quel che Gandalf ti ha detto; sappiamo parecchie cose sull’Anello; siamo orribilmente spaventati, ma ti accompagneremo, o ti verremo dietro come segugi».

«Dopo tutto, signore», disse Sam, «voi fareste bene a seguire il consiglio degli Elfi. Gildor vi ha detto di portare amici volonterosi, e non potete negare di averli trovati».

«Non lo nego», disse Frodo, guardando Sam che ora sorrideva. «Non lo nego, certo, ma d’ora in poi puoi russare o non russare: tanto non crederò mai più che tu stia dormendo, se non dopo averti preso a calci per accertarmene. Siete una massa d’imbroglioni e di mascalzoni!», tuonò, rivolgendosi agli altri. «Benedetti ragazzi!», disse ridendo, mentre si alzava agitando le braccia. «Mi do per vinto: seguo il consiglio di Gildor. Se il pericolo non fosse così angoscioso, salterei e ballerei di gioia. Però, anche così, non posso fare a meno di sentirmi felice come non lo ero da molto tempo. Temevo questa notte».

«Benissimo! Tutto a posto! Urrà per Capitan Frodo ed il suo equipaggio», urlarono ballando in cerchio intorno a lui. Merry e Pipino intonarono una canzone che avevano evidentemente preparato per l’occasione.

Era composta sul modello della canzone dei Nani che molto tempo addietro aveva rallegrato l’inizio del viaggio avventuroso di Bilbo e la musica era la stessa:

Addio a voi, mio atrio e mio caro braciere,

Il vento può soffiare e la pioggia cadere

Ma Prima della rugiada, che l’alba fresca bagna,

Noi marcerem pei boschi e sull’alta montagna.

A Gran Burrone, ove sono gli Elfi intenti all’opre,

In radure che un fine velo di nebbia ricopre,

Arriverem attraverso lande deserte e brughiere,

E da lì poi dove andrem, nessuno può sapere.

Davanti a noi i nemici e dietro lo spavento,

Il nostro letto sarà sotto il cielo e nel vento,

Fino al giorno in cui con la stanchezza in volto,

Il viaggio sarà finito, ed il compito svolto.

Dobbiamo andare! Dobbiamo andare!

Prima che l’alba incominci a spuntare!

«Molto bene!», disse Frodo. «Ma in questo caso ci sono un sacco di faccende da sbrigare prima di andare a letto, per questa sera ancora sotto un tetto».

«Ehi! ma quella era poesia!», esclamò Pipino. «Non avrai per caso l’intenzione di partire davvero prima dell’alba?».

«Non lo so», rispose Frodo. «Temo quei Cavalieri Neri: sono certo che è imprudente rimanere a lungo nello stesso posto, soprattutto poi nel posto ove si sa che ero diretto. Anche Gildor mi ha consigliato di non perdere tempo. Eppure vorrei tanto vedere Gandalf. Mi sono accorto che persino Gildor si è preoccupato sentendo che Gandalf non si è più fatto vivo. Tutto dipende da due cose: fra quanto tempo i Cavalieri potrebbero essere a Buckburgo? E fra quanto tempo saremmo noi pronti a partire? Ci vorranno molti preparativi».

«La risposta alla seconda domanda», disse Merry, «è che fra un’ora saremo pronti per partire: ho preparato praticamente tutto. Ci sono sei pony in una stalla al di là dei campi: attrezzi e vettovaglie sono già imballati, salvo qualche vestito di riserva e il cibo deperibile».

«Vedo che il complotto è stato laborioso ed efficiente», disse Frodo. «Ma che ne pensi dei Cavalieri Neri? Pensi che sarebbe pericoloso aspettare Gandalf ancora un giorno?».

«Dipende da ciò che pensi che farebbero i Cavalieri se ti trovassero qui», rispose Merry. «A quest’ora avrebbero potuto essere qui, se non fossero fermi al Cancello Nord, dove la Siepe scende verso la riva del fiume, da questo lato del Ponte. Le guardie del cancello non li faranno passare di notte e credo che anche di giorno cercherebbero di impedir loro di passare, benché essi possano entrare con la forza. In ogni caso, non permetterebbero loro di proseguire prima di aver mandato un comunicato al Signore della Villa, poiché l’aspetto dei Cavalieri non sarebbe certo di loro gradimento, direi anzi che li spaventerebbe. Ma, naturalmente, la Terra di Buck non può resistere a lungo contro un eventuale attacco risoluto. E poi non si può mai dire: è anche possibile persino che domattina un Cavaliere Nero arrivi, chieda del signor Baggins e sia lasciato passare. Ormai lo sanno quasi tutti che sei tornato a vivere a Crifosso».

* * *

Frodo rimase a lungo pensoso. «Ho preso una risoluzione: parto domattina appena fa giorno», disse infine. «Ma non prenderò la strada: sarebbe meglio aspettare qui anziché fare una cosa del genere. Se attraverso il Cancello Nord, sarà subito nota a tutti la mia partenza dalla Terra di Buck mentre potrebbe rimanere segreta almeno per qualche giorno. Inoltre, il Ponte e la Via Est vicino alla frontiera saranno certamente sorvegliati dai Cavalieri, anche se non sono entrati proprio nella Terra di Buck. Non sappiamo quanti sono, ma almeno due e probabilmente anche di più. L’unica cosa da farsi è partire in una direzione del tutto inconsueta e inaspettata».

«Ma ciò vuol dire addentrarsi nella Vecchia Foresta!», esclamò Fredegario terrorizzato. «Non puoi pensare una cosa del genere: è altrettanto pericolosa dei temutissimi Cavalieri Neri».

«Non del tutto», disse Merry. «È una soluzione disperata, ma penso che Frodo abbia ragione: è l’unico modo di andarsene senza averli immediatamente alle calcagna. Con un po’ di fortuna li potremmo distanziare notevolmente».

«Fortuna? Nella Vecchia Foresta?», obiettò Fredegario. «Nessuno ha mai avuto fortuna in quel luogo. Vi perdereste; non è un posto frequentato dalla gente».

«Non è vero affatto!», disse Merry. «I Brandibuck ci vanno, di tanto in tanto, quando gli gira. Abbiamo un ingresso privato: Frodo c’è stato una volta, tanto tempo fa; io ci sono entrato varie volte, per lo più di giorno, naturalmente, quando gli alberi sono insonnoliti ed abbastanza tranquilli».

«Ebbene, fate come vi pare!», disse Fredegario. «Io ho più paura della Vecchia Foresta che di qualsiasi altra cosa al mondo: le storie che raccontano sono spaventose. Ma io non ho voce in capitolo, poiché non prendo parte alla spedizione. In ogni modo, sono molto contento che qualcuno rimanga qui per raccontare a Gandalf quando tornerà e sono certo che sarà qui da un minuto all’altro tutto quel che avete fatto».

Per quanto affezionato a Frodo, Grassotto Bolgeri non aveva alcun desiderio di lasciare la Contea, né di vedere quel che si trovava oltre i Confini. La sua famiglia era originaria del Decumano Est, e precisamente di Boldigenio nel Campoponte, ma lui non aveva mai attraversato il Ponte del Brandivino. Secondo il piano progettato dai congiurati, il suo compito era di rimanere a Crifosso, occupandosi dei ficcanasi e facendo credere a tutti, il più a lungo possibile, che il signor Baggins viveva ancora lì. Si era persino portato dei vecchi vestiti di Frodo per poter sostenere il ruolo in maniera ancor più convincente. Nessuno pensò però a quanto questo ruolo potesse esser pericoloso.

«Eccellente!», esclamò Frodo, quando gli ebbero spiegato il loro piano. «Altrimenti non avremmo potuto lasciare alcun messaggio per Gandalf. Non so se questi Cavalieri sappiano leggere O no, ma certo non avrei mai osato rischiare di scrivere un messaggio, nel caso essi entrassero qui e perquisissero la casa. Ma poiché Grassotto è pronto a difendere la fortezza, e poiché ora son sicuro che Gandalf conosce la strada che stiamo percorrendo, la mia decisione è presa e la prima cosa che farò domattina è di partire per la Vecchia Foresta».

«Un’altra cosa fatta», disse Pipino. «Ti confesserò che preferisco di gran lunga il nostro compito a quello di Grassotto; pensa un po’: aspettare qui che vengano i Cavalieri Neri!».

«Aspetta di essere domani nel cuore della Foresta», ribatté Fredegario. «Vedrai che, prima che siano passate ventiquattr’ore, rimpiangerai di non esser qui con me».

«Inutile discutere ancora», interloquì Merry. «Dobbiamo ancora far ordine, sbrigare le ultime faccende prima di andarci a coricare. Vi chiamerò io prima dell’alba».

* * *

Quando finalmente furono a letto, passò qualche tempo prima che Frodo riuscisse ad addormentarsi. Le gambe gli dolevano per la lunga marcia ed era felice al pensiero che l’indomani avrebbe potuto finalmente cavalcare. Colto dal torpore, fece un vago sogno, nel quale gli pareva di affacciarsi a una finestra molto alta che dava su un buio bosco di alberi aggrovigliati e nodosi. Sotto, fra le radici, sentiva piccoli esseri e strane creature strisciare e fiutare; era sicuro che prima o poi, a furia di fiutare, l’avrebbero scoperto.

Improvvisamente udì un rumore in lontananza. In un primo momento credette che fosse un gran vento ululante sulle foglie della foresta. Ma poi capì che non erano foglie, bensì il frastuono incessante del Mare lontano: suono che non aveva mai udito in vita sua, benché avesse a più riprese agitato ed inquietato i suoi tumultuosi sogni. Ad un tratto si rese conto di essere allo scoperto: dopo tutto, non c’erano alberi intorno a lui: si trovava in mezzo a una brughiera fosca e scura e uno strano odore di sale impregnava l’aria. Guardando verso l’alto, vide davanti a sé ergersi solitaria, su di uno sperone minaccioso e scosceso, una torre bianca e alta. Lo prese un gran desiderio di scalare la torre e vedere il Mare. Incominciò ad arrancare su per la scarpata verso la torre: ma all’improvviso una luce abbagliante squarciò il cielo, seguita dal fragore di un tuono.

CAPITOLO VI LA VECCHIA FORESTA

Frodo si svegliò improvvisamente. Era ancora buio nella stanza. Merry era lì in piedi che teneva con una mano una candela e batteva con l’altra sulla porta. «E va bene! Che succede?», chiese Frodo, ancora scosso e confuso.

«Che succede!», esclamò Merry. «È ora di alzarsi. Sono le quattro e mezza e c’è molta nebbia. Vieni! Sam sta preparando la colazione, persino Pipino è in piedi. Io ho già sellato i pony e ho portato qui quello da impiegare come portabagagli. Sveglia quel poltrone di un Grassotto! Si deve almeno alzare per salutarci e vederci partire».

Poco dopo le sei, i cinque Hobbit erano pronti per partire. Grassotto Bolgeri stava ancora sbadigliando. Sgusciarono silenziosamente fuori casa; Merry, che era il capofila, conduceva un pony carico: presero un sentiero che attraversava un folto d’alberi dietro la casa e poi percorsero parecchi campi. Le foglie degli alberi brillavano e finanche il più piccolo ramo gocciolava: l’erba pareva grigia sotto una coltre di fredda rugiada. Tutto era tranquillo ed i rumori molto distanti sembravano chiari e vicini: polli che schiamazzavano in un cortile, qualcuno che chiudeva la porta di una casa lontana.

Nella stalla i pony aspettavano: erano piccoli animali vigorosi, del tipo che piace tanto agli Hobbit, non veloci ma adatti al faticoso lavoro di una lunga giornata. Vi saltarono in groppa e qualche minuto dopo cavalcavano nella nebbia che pareva riluttante ad aprirsi davanti a loro e che si richiudeva repellente alle loro spalle. Dopo aver cavalcato lenti e silenziosi per circa un’ora, videro improvvisamente ergersi la Siepe. Era alta, imponente e intessuta di ragnatele argentee.

«Come farete ad attraversarla?», chiese Fredegario.

«Seguitemi», disse Merry, «e lo vedrete». Girò a sinistra e, dopo aver costeggiato la Siepe per qualche passo, li condusse in un punto dove essa si curvava verso l’interno seguendo l’orlo di un fossato. Il terreno era stato scavato a qualche distanza dalla Siepe, ed i muri di mattoni, che da ambedue i lati del pendio si innalzavano severi e verticali, s’inarcavano improvvisamente, formando un tunnel che si tuffava in profondità sotto la Siepe per sbucare nel fossato dall’altra parte.

Qui Grassotto Bolgeri si fermò. «Arrivederci, Frodo!», disse. «Desidererei tanto che tu non andassi nella Foresta. Spero solo che non abbiate bisogno di soccorso prima dell’alba. Comunque, buona fortuna, oggi e sempre!».

«Se la Vecchia Foresta è la peggiore delle avventure che ci aspetta, allora siamo davvero fortunati», disse Frodo. «Di’ a Gandalf che si affretti a seguirci sulla Via Est: noi la raggiungeremo fra breve e la percorreremo a spron battuto».

«Addio!», gridarono e, cavalcando giù per il pendio, il tunnel li inghiottì, sottraendoli alla vista di Fredegario.

Era buio e l’aria umida. All’altra estremità un cancello dalle sbarre di ferro grosse e pesanti chiudeva il tunnel. Merry smontò, aprì il catenaccio che lo teneva chiuso, e quando furono passati tutti lo riaccostò. Il cigolio dei gangheri e il clic della serratura suonarono minacciosi.

«Ecco fatto!», esclamò Merry. «Avete lasciato la Contea. Adesso siete fuori, ai margini della Vecchia Foresta».

«Le storie che raccontano sono vere?», chiese Pipino.

«Non so di che storie stai parlando», rispose Merry. «Se intendi dire le storie di orchi e streghe che raccontavano le zie di Grassotto, rigurgitanti di folletti, lupi e altre cose del genere, la risposta è no. O comunque io non ci credo. Ma la Foresta è strana: tutto in lei è molto più vivo, più conscio di ciò che succede intorno, direi quasi che capisce molto di più che non le cose della Contea. E gli alberi non amano gli estranei: ti osservano e ti scrutano. Generalmente si accontentano di guardarti, finché è ancora giorno, e non fanno gran che. Può darsi che rare volte i più ostili abbassino un ramo o caccino fuori una radice, o ti afferrino con una liana. Ma di notte avvengono le cose più allarmanti, o perlomeno così raccontano. Personalmente ci sono venuto soltanto un paio di volte dopo il calar del sole, e non mi sono mai allontanato dalla Siepe. Mi sembrava di sentire tutti gli alberi sussurrare fra loro, passandosi notizie e messaggi e complottando in un linguaggio inintelligibile; e vedevo i rami oscillare e palpare nel buio senza un alito di vento. Pare che effettivamente gli alberi si muovano, e possano circondare gli estranei e incastrarli; vero è che molto tempo fa attaccarono la Siepe: avanzarono e le si piantarono proprio vicino, curvandosi dall’altra parte. Ma gli Hobbit vennero, tagliarono centinaia di alberi, facendone un gran falò in mezzo alla Foresta; poi bruciarono tutto il terreno compreso in una lunga fascia a est della Siepe. Dopo questa sconfitta, gli alberi rinunciarono ad attaccare, ma divennero nemici dichiarati. Esiste ancora, nel punto dove fu fatto il falò, un vasto spiazzo completamente nudo».

«Solo gli alberi sono pericolosa?», chiese Pipino.

«Parecchie cose strane vivono nel cuore della Foresta e all’altra estremità», disse Merry, «o perlomeno così ho sentito dire; ma non le ho mai viste. Però c’è qualcosa che fa i sentieri: in qualunque momento si arrivi, si trovano viottoli e piste, che sembrano spostarsi e trasformarsi di volta in volta in un modo molto curioso. Non lontano da questo tunnel si trova, o piuttosto si trovava fino a qualche tempo fa, l’imboccatura di un sentiero piuttosto largo che porta alla Radura del Falò e che prosegue, poi, più o meno nella nostra direzione, leggermente a nord-est. Questo è il sentiero che cercherò di imboccare».

* * *

Gli Hobbit, lasciando dietro di sé il cancello del tunnel, cavalcarono attraverso l’ampio fossato. All’altra estremità vi era un viottolo non ben delineato che conduceva al margine della Foresta, a un centinaio di metri dalla Siepe: ma appena giunto fra gli alberi, il sentiero scompariva. Guardando il cammino percorso, potevano scorgere la fascia scura della Siepe attraverso il fogliame folto degli alberi che già li circondavano fitti. Guardando di fronte, riuscivano a vedere soltanto tronchi d’alberi d’infinite varietà e dimensioni: dritti o curvi, contorti, inclinati, tozzi o slanciati, lisci e lisi o ruvidi e nodosi; ma tutti erano grigi o verdi, ricoperti di muschio, licheni e altre piante parassite viscide o ispide.

Merry era l’unico che paresse alquanto allegro. «Faresti bene a condurci tu, e a trovare quel sentiero», gli disse Frodo, «Non perdiamoci e non dimentichiamo da che parte sta la Siepe!».

Si aprirono un varco tra gli alberi; i loro pony presero a camminare lenti evitando accuratamente le innumerevoli radici contorte ed intrecciate. Non c’era sottobosco. Il terreno saliva gradualmente ma decisamente e, mentre avanzavano, sembrava che gli alberi diventassero più alti, più scuri e più fitti. Non vi era alcun rumore, salvo di tanto in tanto quello di una goccia d’umidità che cadeva tra le foglie immobili. Per il momento non vi erano né sussurri, né sospiri, né mormorii, né movimenti fra le piante, ma tutti si sentivano molto a disagio ed erano pervasi da un certo malessere, sentendosi osservati con una disapprovazione che giungeva alla malevolenza e persino all’ostilità. Questa sensazione diventava sempre più forte, e presto si sorpresero a lanciare rapide occhiate verso l’alto o a voltarsi indietro veloci come in guardia contro un colpo improvviso.

Non c’era ancora alcuna traccia di sentieri e pareva che gli alberi ostruissero loro costantemente la via, ostacolando non poco la marcia. Pipino sentì improvvisamente di non farcela più e senza avvertire lanciò un urlo: «Ohi! Ohi!», gridò. «Non voglio farvi alcun male. Lasciatemi soltanto passare, per favore!».

Gli altri s’arrestarono, colti di sorpresa; ma il grido fu attutito e soffocato come da una pesante tenda. Nessuna eco e nessuna risposta giunse alle loro orecchie, anche se il bosco sembrò infittirsi maggiormente e diventare ancor più difficile e guardingo di prima.

«Non griderei, se fossi in te», disse Merry. «Fai più male che bene».

Frodo incominciava a domandarsi se ce l’avrebbero mai fatta e se non avesse avuto torto portando anche gli altri in quel bosco abominevole. Merry guardava da una parte e dall’altra e già pareva incerto sulla direzione da prendere. Pipino se ne accorse: «Non c’è voluto molto tempo per perderci», gli disse, ma in quell’istante Merry emise un fischio di sollievo e puntò il dito avanti a sé.

«Bene, bene!», esclamò. «È proprio vero che questi alberi si spostano. La Radura del Falò è lì davanti a noi, ma il sentiero sembra essersene andato via!».

* * *

La luce aumentava man mano che avanzavano. Improvvisamente sbucarono fuori dagli alberi in un ampio spazio circolare. Guardarono con una certa sorpresa sulle loro teste il cielo limpido ed azzurro, poiché da sotto il soffitto di alberi non avevano potuto veder giungere la luce mattutina, né alzarsi il velo di nebbia. Il sole, tuttavia, non era abbastanza alto per brillare nella radura, ed i suoi raggi illuminavano soltanto le cime degli alberi. Le foglie erano più spesse e di un verde più intenso tutt’intorno alla Radura, che recintavano come un muro solido e resistente. Non vi cresceva nemmeno un albero: solo erbaccia e un’infinità di grandi piante selvatiche: una cicuta tutta gambo e scolorita, prezzemolo silvestre, gramigna picchiettata da ceneri lanuginose, ortiche, rovi e cardi rampanti. Un posto lugubre, che tuttavia a loro parve un giardino allegro e accogliente dopo la tetra e buia Foresta.

Gli Hobbit si sentirono incoraggiati e levarono i loro sguardi speranzosi verso la luce del giorno che splendeva nel cielo. Dal lato opposto della radura vi era, nel muro di alberi, un’apertura dalla quale partiva, nitido, un sentiero. Lo vedevano proseguire nel bosco, ampio e agevole, scoperto in alcuni posti, con solo qua e là delle zone d’ombra dove gli alberi si riavvicinavano, ricoprendolo con i loro rami scuri e aggrovigliati. Percorsero quel sentiero: era ancora in lieve salita, ma cavalcarono molto più spediti e col cuore leggero: pareva quasi che la Foresta avesse allentato la sua morsa e si fosse dopo tutto decisa a lasciarli passare liberamente.

Ma dopo un po’ l’aria cominciò a diventare calda e irrespirabile, Gli alberi ai due lati del viottolo si fecero sempre più vicini e i viaggiatori non riuscivano a vedere che pochi passi avanti a sé. Mai come allora sentirono l’ostilità e la cattiveria del bosco concentrate su di loro. Il silenzio era tale che il rumore degli zoccoli che calpestavano le foglie secche e inciampavano di tanto in tanto su radici nascoste, suonava come un tonfo alle loro orecchie. Frodo cercò di cantare qualcosa per infondere coraggio, ma la sua voce era solo un mormorio.

O voi che errate nel paese oscuro,

Non disperate! Benché d’aspetto a volte cupo e duro,

Ogni bosco finisce

Ed il sole apparisce:

Il sole dell’alba, il sole del vespro,

Il giorno che nasce o che muore grandioso,

Poiché il bosco svanisce ad ovest o ad est…

Ma prima che giungesse alla fine, la sua voce si perse nel silenzio. L’aria era sempre più pesante, e pronunciare ogni parola richiedeva uno sforzo penoso. Alle loro spalle un grosso ramo cadde con fracasso da un vecchio albero inclinato sul sentiero. Le piante sembrarono chiuderglisi davanti.

«Non gli piace affatto tutto quel “finire” e “svanire”», disse Merry. «Ti consiglio di non cantare più per il momento. Aspetta di arrivare dall’altro lato e poi ci volteremo tuonando un coro di sfida!».

Parlava con disinvoltura e, se era tormentato dall’ansia o dall’inquietudine, non lo dimostrava affatto. Gli altri non risposero; erano depressi: un grosso peso oberava il cuore di Frodo, che ad ogni passo si rammaricava sempre più di aver osato sfidare la minaccia degli alberi. Stava, anzi, proprio per fermarsi e proporre di tornare indietro (se era ancora possibile), quando le cose presero una nuova piega. Il sentiero smise di salire, proseguendo in pianura per un certo tratto. Gli alberi cupi si distanziarono e la strada continuò quasi dritta. A una certa distanza, più innanzi, si ergeva una collina verde e senza alberi, simile a una testa calva in mezzo al bosco circostante. Il sentiero pareva dirigersi direttamente verso di essa.

* * *

Affrettarono nuovamente il passo, felici all’idea di arrampicarsi per un po’ al di sopra del tetto della Foresta. Il sentiero si sprofondò, ma riprese a salire, conducendoli infine ai piedi delle ripide falde del colle, ove, dopo essere sbucato fuori dagli alberi, si confuse nell’erba. Tutt’intorno all’alta collina, il bosco aggrovigliato pareva una folta capigliatura riccia attorno a una chierica.

Gli Hobbit si inerpicarono coi loro pony su per innumerevoli giravolte, giungendo infine alla sommità. Ivi si fermarono per guardarsi intorno. L’aria era scintillante e il sole brillava, ma la foschia impediva di scorgere le cose lontane. La nebbia era ormai quasi Scomparsa; soltanto qua e là ne rimaneva un po’ nel più fitto del bosco: a sud, da una profonda fessura che tagliava dritta la Foresta, si innalzava come vapore o nuvole di fumo bianco.

«Quello», disse Merry mostrando col dito, «è il corso del Sinuosalice. Viene dai Tumulilande e scorre verso sud-ovest attraverso la Foresta prima di sboccare nel Brandivino sotto Finfratta. Non è certo quella la direzione da prendere! Dicono che la valle del Sinuosalice sia il luogo più strano e misterioso dell’intero bosco, addirittura il nucleo dal quale proviene e si sviluppa tutto il mistero».

Gli altri guardarono là dove Merry puntava il dito, ma videro ben poco, oltre la coltre di nebbia sulla valle umida e profonda, al di là della quale la parte sud della Foresta spariva alla vista.

Il sole, sulla cima della collina, cominciava a scottare. Dovevano essere circa le undici; ciò nonostante, la foschia autunnale ostruiva loro ancora la vista nelle altre direzioni. A ovest non discernevano né il profilo della Siepe né, al di là di essa, la valle del Brandivino. A nord, dove si voltarono a guardare speranzosi, non videro niente che potesse sembrare la fascia della grande Via Est, verso la quale erano diretti. Erano su un’isola in un mare di alberi e l’orizzonte era velato.

A sud-est il terreno scendeva molto ripido, come se le falde della collina proseguissero in profondità sotto gli alberi, simili alle spiagge di un’isola che altro non sono che le pendici di un monte sorto da acque profonde. Si sedettero sul prato e, guardando i boschi ai loro piedi, fecero colazione. Quando il sole girando giunse a mezzogiorno, s’intravidero lontanissimi a est i contorni grigio-verdi dei Tumulilande che si estendevano da quel lato al di là della Vecchia Foresta. Ciò li rallegrò non poco: era riconfortante vedere l’esistenza di qualcosa oltre i confini del bosco, benché non avessero intenzione di andarvi se potevano farne a meno. Infatti, i Tumulilande nelle leggende hobbit godevano di una reputazione tetra e sinistra come quella della Foresta.

* * *

Finalmente decisero di rimettersi in marcia. Il sentiero che li aveva condotti fino al colle riapparve sul lato nord ma, appena ebbero percorso qualche decina di passi, s’accorsero che curvava deciso verso destra. Presto cominciò a scendere ripido ed essi si resero conto che puntava proprio verso la valle del Sinuosalice; proprio la direzione che non desideravano seguire. Discussero per un po’ e poi decisero di abbandonare quel sentiero impervio ed orientarsi verso nord; infatti, benché non fossero riusciti a vederla dalla cima della collina, la Via era certamente da quella parte e non poteva distare che qualche miglio. Inoltre, verso nord e alla sinistra del sentiero, il terreno sembrava più asciutto e sgombro ed i pendii da risalire meno rigogliosi di vegetazione; pini e felci sostituivano le querce e le ceneri lanuginose e le altre piante strane ed arcane che spuntavano nel fitto del bosco.

Da principio parve che avessero scelto bene; avanzarono con speditezza, benché sembrasse che avessero inspiegabilmente deviato verso est ogni qual volta riuscivano a intravedere il sole in una radura. Ma dopo un po’ di tempo gli alberi diventarono nuovamente fitti e ostili, finanche nei punti dove da lontano parevano più radi e meno intricati. Poi, improvvisamente, si trovarono davanti a profonde fessure del terreno, come solchi di enormi ruote giganti o come ampi fossati e strade sprofondate lasciate in stato d’abbandono da tempi immemorabili e soffocate dai rovi. Quelle fenditure sbarravano loro la via, costringendoli a scendere con lentezza e difficoltà le ripide scarpate e inerpicarsi dall’altro lato; operazione complicata e faticosa per i cavalli. Ogni volta, quando arrivavano in fondo, trovavano il fosso pieno zeppo di cespugli fitti e di fratte spinose che stranamente non cedevano mai sulla sinistra e si piegavano con una certa docilità unicamente verso destra: erano quindi sempre obbligati a percorrere un certo tratto di strada là basso prima di trovare un passaggio che li portasse sull’altra cresta. E ogni volta che, a stento, giungevano su, gli alberi apparivano più scuri e minacciosi, e poiché verso sinistra e verso l’alto diventava sempre più difficile aprirsi un varco, erano forzati a deviare a destra e verso il basso.

* * *

Dopo un’ora o due erano completamente disorientati e l’unica certezza che avessero, era che da parecchio tempo avevano completamente abbandonato la direzione nord. Venivano continuamente deviati: stavano semplicemente seguendo una via scelta per loro, diretta a sud-est nel cuore della Foresta e non verso l’uscita.

Il giorno era inoltrato, quando si trovarono in una fessura molto più ampia e profonda delle altre. Era tanto ripida e invasa dalla vegetazione che dovettero rinunciare ad arrampicarsi nuovamente, sia sulla china opposta e sia su quella che avevano appena disceso. Tutto ciò che potevano fare, senza essere costretti ad abbandonare cavalli e bagaglio, era di proseguire nel fossato… sempre più verso il basso.

La terra diventò molle, e in alcuni posti paludosa; delle sorgive apparvero lungo la scarpata e presto si trovarono a costeggiare un ruscello che scorreva in un letto d’erbe e di canne. Quindi il terreno prese a scendere scosceso e il ruscello, ormai impetuoso e rumoroso, fluiva e scrosciava giù per cascate e pendii. Erano in un burrone profondo e mezzo buio, completamente chiuso in alto sulle loro teste dagli alberi inarcati e intrecciati.

Dopo molto cammino, percorso cadendo e inciampando lungo il corso d’acqua, sbucarono improvvisamente fuori dalle tenebre. Videro brillare la luce del sole come al di là di un cancello. Giunti all’aperto si accorsero di aver percorso un vallo incassato in un’altissima cresta, ai piedi della quale si estendeva una vasta zona verdeggiante d’erbe e di canne. In lontananza si ergeva un’altra cresta quasi altrettanto ripida. Un pomeriggio insonnolito e dorato dal sole tardo ma ancora caldo inondava la terra chiusa tra le due scarpate. Nel mezzo serpeggiava, pigro e sinuoso, un fiume marrone scuro, fiancheggiato da antichi salici, ricoperto da salici, ostruito da salici caduti e macchiato da migliaia di foglie di salice sbiadite. L’aria ne era satura ed esse volteggiavano gialle tra i rami, trasportate da una dolce brezza tiepida che spirava nella valle, dove le canne frusciavano e i rami dei salici scricchiolavano.

«Ebbene, adesso perlomeno so dove siamo!», esclamò Merry. «Siamo arrivati quasi all’opposto di dove volevamo andare. Questo è il Fiume Sinuosalice! Io vado in esplorazione».

Uscì alla luce sparendo nelle erbe alte. Dopo un po’ ritornò e riferì che il terreno tra i piedi delle creste e il fiume era abbastanza solido; in alcuni punti le zolle erbose giungevano fino all’acqua. «Inoltre», disse, «mi pare che ci sia qualcosa di simile a un viottolo che serpeggia lungo questa riva del fiume. Se voltiamo a sinistra e lo seguiamo, finiremo per spuntare sul lato est della Foresta».

«Direi!», disse Pipino. «Ossia, se la pista prosegue e non ci conduce semplicemente in una palude piantandoci lì. Chi credi abbia tracciato quel sentiero e perché? Certo non per fare comodo a noi. Sto diventando molto sospettoso sulla Foresta e su tutto ciò che contiene, e comincio a credere a tutte le storie che raccontano. Hai un’idea di quanta strada dovremmo fare verso est?».

«No», rispose Merry. «Non so proprio a che punto siamo del Sinuosalice e non so chi potrebbe venire da queste parti così spesso da tracciare un sentiero. Ma non riesco a vedere o immaginare altra via di uscita».

Non avendo più nulla da dire, uscirono dal burrone, in fila indiana, e Merry li condusse fino al viottolo che aveva scoperto. Ovunque le canne e le erbe erano altissime e folte, ma una volta trovato, il sentiero era facile da seguirsi nelle sue giravolte studiate appositamente per serpeggiare sul terreno più solido in mezzo al fango e alle pozzanghere. Talvolta incontrava altri rigagnoli e ruscelli che scorrevano giù dalle terre più alte della Foresta in mezzo a burroni, fino al Sinuosalice: in questi punti, tronchi d’albero o fasci di sterpi accuratamente disposti servivano da ponticelli.

* * *

Gli Hobbit incominciarono a sentire molto caldo. Eserciti d’insetti d’ogni tipo ronzavano nelle loro orecchie e il sole pomeridiano bruciava le loro spalle. Infine giunsero improvvisamente in un luogo leggermente ombreggiato: grossi rami grigi si inarcavano da una parte all’altra del sentiero. Ogni passo diventava più faticoso del precedente. La sonnolenza sembrava sprigionarsi dal terreno diffondendosi nelle gambe e cadere dolcemente dall’aria sul capo e sugli occhi.

Frodo sentiva il mento ricadergli sul petto e la testa dondolare. Proprio davanti a lui Pipino cadde in ginocchio. Frodo si fermò. «È inutile», sentì dire a Merry. «Non possiamo fare un altro passo avanti senza riposarci: dobbiamo fare un sonnellino. È fresco sotto i salici. Ci sono meno insetti!».

A Frodo quelle parole non piacquero: «Andiamo!», gridò. «Non possiamo riposarci per ora. Dobbiamo prima uscire dalla Foresta». Ma gli altri erano troppo intontiti per dargli retta. Sam sbadigliava e sbatteva le palpebre come istupidito.

D’un tratto anche Frodo si sentì vincere dal torpore. La testa gli girava. Non c’era alcun rumore nell’aria. Le mosche avevano smesso di ronzare. Soltanto un suono pressoché impercettibile, il vibrare di una melodia quasi sussurrata, frusciava nel fogliame al di sopra delle loro teste. Alzò faticosamente le palpebre pesanti e vide chino su di lui un enorme salice, vecchio e canuto. Sembrava proprio gigantesco, con i suoi rami scomposti che si innalzavano come braccia aggrappate al cielo, con mani dalle dita lunghe e nodose, con il suo tronco nocchioso e contorto, spalancato da parecchie fessure che scricchiolavano al muoversi dei rami. Le foglie svolazzanti contro il cielo luminoso l’abbagliarono ed egli cadde per terra, rimanendo disteso.

Merry e Pipino si trascinarono avanti per sdraiarsi con la schiena contro il fusto del salice. Le fessure del tronco si spalancavano come fauci pronte a riceverli mentre la chioma ondeggiava frusciando. Alzarono lo sguardo verso le foglie grigie e gialle che si dondolavano dolcemente in controluce: chiusero gli occhi e parve loro di riuscire a percepire delle parole, parole fresche che parlavano d’acqua e di sonno. Caddero nell’incantesimo e sprofondarono in un sonno profondo, ai piedi del grande salice grigio.

Frodo rimase sdraiato qualche minuto, lottando contro il sonno che lo stava vincendo, ma poi con un grande sforzo riuscì ad alzarsi in piedi. Sentiva un desiderio impellente d’acqua fresca. «Aspettami, Sam», balbettò. «Devo bagnare i piedi; un momento».

Come in sogno, vagò verso il lato dell’albero che si specchiava nell’acqua, dove grosse radici attorcigliate si tuffavano nel fiume come piccoli draghi nodosi curvi nell’intento di bere. Si sedette a cavalcioni di una di esse, sguazzando coi piedi nella fresca acqua marrone. E, all’improvviso, anche lui s’addormentò con la schiena contro l’albero.

Sam si sedette grattandosi la testa e spalancando la bocca in un cavernoso sbadiglio. Era preoccupato. Quella improvvisa sonnolenza gli pareva sinistra. «Non si spiega col sole e l’aria calda. C’è sotto qualcos’altro», borbottò fra i denti. «Questo grosso albero non mi piace, non m’ispira fiducia. Di bene in meglio! Adesso si mette a cantate di sonno! No, la cosa non mi convince!».

Si tirò su e barcollando corse a vedere che ne era dei pony. Vide che due si erano allontanati per un certo tratto lungo il sentiero; li aveva appena afferrati e li stava riportando accanto agli altri, quando udì due rumori: uno forte e l’altro meno, ma molto chiaro e distinto; il primo era lo scroscio di qualcosa di pesante precipitato in acqua; il secondo era il suono simile al clic della serratura di una porta chiusa rapidamente.

Tornò precipitosamente sulla riva. Frodo era nell’acqua, vicino alla sponda, e una grande radice sembrava ricoprirlo e tenerlo giù: ma egli non si dibatteva. Sam lo afferrò per la giacca, lo trascinò via da sotto la radice, poi con grande sforzo lo issò sulla riva. Frodo si svegliò quasi subito, tossì e sbuffò.

«Lo sai, Sam», disse infine, «quest’orribile albero mi ha scaraventato dentro! Me ne sono accorto: la grossa radice si è voltata e mi ha infilato dentro».

«Stavate sognando, forse, signor Frodo», disse Sam. «Non vi dovreste sedere in simili posti quando avete sonno».

«E gli altri che fanno?», chiese Frodo. «Mi domando che genere di sogni li sta dilettando».

Fecero il giro dell’albero e allora Sam capì il clic che aveva sentito. Pipino era svanito: la fessura accanto alla quale si era appoggiato si era richiusa ermeticamente. Merry era intrappolato: un’altra fessura si era richiusa intorno alla sua vita; le gambe erano fuori, ma il resto del corpo era immerso in una cavità oscura, i cui bordi lo serravano come pinze.

Frodo e Sam si misero a dar calci contro il tronco nel posto dove Pipino si era appoggiato. Quindi fecero sforzi sovrumani per spalancare le mandibole che afferravano il povero Merry. Tutto fu vano.

«Che cosa spaventosa!», gridò Frodo furioso. «Perché mai abbiamo messo piede in questa orrenda Foresta? Come vorrei che fossimo ancora tutti a Crifosso!». Prese a calci l’albero con tutte le forze. Un fremito appena percettibile corse lungo il fusto fino ai rami; le foglie frusciarono e sussurrarono; ma il suono ora era quello di una risata sommessa e lontana.

«Non abbiamo un’ascia nel nostro bagaglio, signor Frodo?», chiese Sam.

«Ho portato solo una piccola accetta per tagliare la legna per il fuoco», rispose Frodo, «ma non servirebbe certo a niente».

«Un momento!», gridò Sam, colpito da un’idea suggeritagli dalla legna da fuoco. «Forse col fuoco riusciremo a ottenere qualcosa!».

«Forse», disse Frodo dubbioso. «Potremmo riuscire solo ad arrostire vivo Pipino all’interno del tronco».

«Potremmo anche riuscire a far del male ed a spaventare quest’albero, innanzi tutto», disse Sam con espressione feroce. «Se non li lascia liberi, lo demolisco, anche se dovessi rosicchiarlo». Corse ai cavalli e tornò con due esche per accendere il fuoco e un’accetta. Raccolsero presto foglie, erbe secche, pezzi di corteccia e frammenti di rami e ammonticchiarono tutto contro il tronco dal lato opposto dei prigionieri. Appena Sam coll’esca riuscì a sprigionare una scintilla, l’erba secca s’incendiò e s’innalzò una vampata di fiamme e di fumo. I rami crepitarono. Piccole lingue di fuoco lambirono la scorza ruvida e sfregiata del vecchio albero scottandolo. Un tremito agitò tutto il salice. Le foglie parvero fischiare di dolore e di rabbia. Si sentì un urlo di Merry e dal cuore dell’albero giunse un grido soffocato di Pipino.

«Spegnetelo! Spegnetelo!», urlò Merry. «Mi stritola e mi taglia in due, sennò. Me l’ha detto lui!».

«Chi? Cosa?», strillò Frodo, precipitandosi dall’altro lato dell’albero.

«Spegnetelo! Spegnetelo!», supplicò Merry. I rami del salice cominciarono a ondeggiare violentemente. Un suono, simile a un boato di vento che travolge gli alberi d’intorno strappandone i rami, si levò all’improvviso come se avessero lanciato una pietra nel pacifico torpore della valle e scatenato fremiti di collera che si ripercuotevano in tutta la Foresta. Sam calpestò i tizzoni del piccolo falò. Frodo invece, senza sapere chiaramente perché e cosa sperasse, corse per il sentiero gridando aiuto! aiuto! aiuto! Gli sembrava di riuscire a malapena a sentire il suono della propria voce stridula: il vento del salice la soffiava via e l’annegava in un fragore di foglie fruscianti appena le parole uscivano dalla sua bocca; si sentì disperato: perso e disarmato.

Si arrestò all’improvviso. Udiva una risposta, o perlomeno così gli pareva; ma sembrava venire dall’interno della Foresta e da molto lontano. Si voltò ad ascoltare e presto non ebbe più dubbi: qualcuno cantava; era una voce profonda e felice, e cantava allegra e spensierata, ma cantava cose del tutto prive di senso.

Ehi dol! Bel dol! Suona un dong dillo!

Suona un dong! Salta ancor! Salice bal billo!

Tom Bom, bel Tom, Tom Bombadillo!

Con un filo di speranza, e con il timore di qualche nuovo pericolo, Frodo e Sam rimasero in piedi, immobili. D’un tratto, dopo tutta quella filza di parole assurde e prive di senso (o che parevano tali), la voce diventò forte e limpida ed intonò questa canzone:

Ehi dol! Vieni bel dol! Cara dol! Mio tesoro!

Il vento soffia leggero e la stella spunta d’oro

Laggiù ai piedi della Collina che brilla alla luce solare,

Sulla soglia aspetta il debole chiarore stellare,

La mia graziosa dama, figlia della Regina del Fiume,

Esile più di un salice, più limpida dell’acqua, più brillante di un lume.

Il vecchio Tom Bombadil ha colto dei gigli d’acqua,

E saltellando torna, e mai nel giorno tacque.

Ehi! Vieni bel dol! Cara dol! Mio tesor!

Baccador, Baccador, un’allegra bacca d’or!

Povero Vecchio Uomo Salice, hai nascosto le radici,

Ma Tom ha fretta adesso. La sera giungerà tosto.

Il vecchio Tom Bombadillo ha colto dei gigli d’acqua

e saltellando torna, e mai nel giorno tacque.

Frodo e Sam ascoltavano come fossero incantati. Il vento si calmò: le foglie pendevano di nuovo tranquille sui rami rigidi. Udirono un altro breve brano di canzone e poi all’improvviso apparve, saltellante e danzante sopra i rovi lungo il sentiero, un vecchio cappello malconcio con un alto cocuzzolo e una larga piuma blu infilata nella fascia. Con un altro salto e un altro balzo apparve alla loro vista un uomo, o comunque un personaggio che somigliava molto a un uomo. Era troppo grande e pesante per essere un Hobbit, anche se forse non alto quanto uno della Gente Alta; ma era tanto rumoroso, camminava goffo con i suoi stivaloni infilati alle grosse gambe, e attraversava a passo di carica erbe e cespugli come una mucca che s’affretta all’abbeveratoio, che pareva proprio uno della Gente Alta. Aveva una lunga barba castana, e gli occhi azzurri e luminosi brillavano in un viso rosso come un pomodoro maturo, ma increspato da centinaia di rughe ridenti. Su una grande foglia, che teneva in mano come fosse un vassoio, eran disposti a mucchio candidi gigli.

«Aiuto!», gridarono Frodo e Sam, correndogli incontro a mani tese.

«Ehi! Ehi! Fermi!», esclamò il vecchio alzando una mano. Gli Hobbit si fermarono di colpo come paralizzati all’improvviso. «Ed ora, piccoli amici, dove state andando, ansimanti come mantici? Cosa sta succedendo? Sapete chi sono? Sono Tom Bombadil. Ditemi cos’è che non va! Tom ha molta fretta adesso. Non mi schiacciate i gigli!».

«I miei amici sono intrappolati nel salice», disse affannosamente Frodo.

«Mastro Merry è stritolato in una fessura!», gridò Sam.

«Cosa?», urlò Tom Bombadil saltando in aria. «Il Vecchio Uomo Salice? Così male si comporta, eh? Ora provvedo subito. Conosco la canzone che fa per lui. Vecchio Uomo Salice Grigio! Gli congelo il midollo se non si comporta come si deve. Canterò fin quando non gli avrò smembrato tutte le radici e il vento impetuoso gli avrà strappato di dosso foglie e rami! Vecchio Uomo Salice!».

Posò amorosamente i suoi gigli per terra e corse all’albero, dove vide i piedi di Merry spuntare ancora dal fusto: il resto era già inghiottito. Tom appoggiò le labbra sulla fessura e si mise a cantare con voce dolce e suadente. Non riuscivano a cogliere le parole, ma Merry evidentemente si svegliò e incominciò a tirar calci. Tom si allontanò con un balzo e, dopo aver staccato un ramo che pendeva vicino, colpì ripetutamente il fusto dell’albero. «Lasciali uscire immediatamente, Vecchio Uomo Salice!», disse. «Che ti salta in testa? Non dovresti essere sveglio. Mangia la terra! Scava profondo! Sorseggia l’acqua! Dormi subito! Bombadil te lo ordina!». Quindi afferrò i piedi di Merry e lo tirò fuori dalla fessura che si stava improvvisamente allargando.

Con uno strappo e uno schianto l’altra fessura si squarciò e Pipino ne fu catapultato fuori come da un calcio. Poi ambedue le fenditure si richiusero ermeticamente con un rumore secco. Un brivido attraversò la pianta dalle radici all’ultima foglia, seguito dal silenzio più assoluto.

«Grazie!», esclamarono gli Hobbit uno dopo l’altro.

Tom Bombadil scoppiò a ridere. «Ebbene, miei piccoli amici!», disse, curvandosi per guardarli bene in faccia. «Dovete venire a casa mia! La tavola è apparecchiata con crema gialla, miele dorato, pane bianco e burro. Baccador ci aspetta. Avremo tempo per le domande più tardi intorno alla tavola. Seguitemi camminando più presto che potete!». Dicendo ciò raccolse i suoi gigli e, con un cenno della mano, partì lungo il sentiero verso est saltellando, danzando e cantando ancora forte le sue strofe balzane.

Troppo stupiti e sollevati per poter parlare, gli Hobbit si misero a seguirlo, ma le loro gambe erano corte per tenergli dietro, e Tom poco dopo sparì innanzi a loro mentre la sua voce andava man mano allontanandosi e indebolendosi. Ma, a un tratto, il suo canto parve tornare indietro sulle ali del vento come un richiamo.

Veloci, piccoli miei che il Sinuosalice risalite!

Tom va già avanti e le candele accende.

Ad ovest cala il Sole e la notte vi attende.

Giunta l’oscurità, la nostra porta aprite,

Dai vetri e le finestre la luce s’intravede,

Non temete i neri ontani ed i salici canuti!

Non temete rami e radici, ché Tom vi precede.

Veloci, venite, vi aspetterem seduti.

Dopo ciò gli Hobbit non udirono più niente. In quel momento il sole parve tuffarsi fra gli alberi alle loro spalle. Pensarono ai raggi obliqui del vespro scintillanti sul Fiume Brandivino ed alle finestre di Buckburgo sfavillanti di miriadi di luci. Grandi ombre si proiettavano su loro; tronchi e rami, scuri e minacciosi, dominavano il sentiero. Una nebbiolina bianca incominciò ad alzarsi, formando onde e spire sulla superficie del fiume e qua e là attorno alle radici degli alberi che lo fiancheggiavano. Il terreno ai loro piedi emanava un vapore offuscato che si mescolava alla luce del crepuscolo giunto rapidamente.

Diventò un’impresa ardua seguire il sentiero, e gli Hobbit erano stanchissimi. Le gambe pesavano come piombo. Strani rumori furtivi frusciavano tra i cespugli ed i rovi ai due lati del viottolo; se rivolgevano lo sguardo verso il pallido cielo, intravedevano facce bizzarre, nodose e bernoccolute staccarsi nere e cupe contro un chiarore stellare e osservarli maligne e malevole dall’alta cresta e dai margini della Foresta. Avevano l’impressione che tutto ciò che li circondava fosse irreale e che si affannassero in un sogno infausto e senza risveglio.

I loro piedi stavano per rifiutarsi di compiere un altro passo avanti, quando si accorsero che il terreno saliva dolcemente. L’acqua incominciò a mormorare. Nell’oscurità intravidero scintillare bianca la schiuma, dove il fiume scrosciava in una piccola cascata. Poi, all’improvviso, gli alberi si diradarono e la nebbia scomparve. Uscirono dalla Foresta e una grande distesa d’erba li accolse. Il fiume, ora piccolo e rapido, balzava allegro e gorgogliante giù dalle cascate per venir loro incontro, scintillando qua e là sotto le stelle che già brillavano in cielo.

L’erba che calpestavano era morbida e bassa, come se rasata o falciata. Le fronde della Foresta alle loro spalle erano ben tondate, più regolari di una siepe. Il sentiero procedeva pianeggiante, ben curato e bordato di pietre; dopo qualche giravolta su di un cocuzzolo erboso e grigio nella pallida notte stellata, videro un po’ più in alto, al di là di una curva, brillare accoglienti le luci di una casa. Il sentiero discese, poi salì nuovamente un ampio pendio verdeggiante fino alla luce.

D’un tratto, un fiotto di luce dorata inondò la soglia di una porta apertasi all’improvviso. Sul colle, in fondo al sentiero, la casa di Tom Bombadil li aspettava. Al di là, una ripida scarpata grigia e brulla lasciava discernere a est, nel buio della notte, i contorni oscuri dei Tumulilande.

Hobbit e pony affrettarono il passo, già quasi dimentichi della stanchezza e della paura. Ehi! Vieni, bella dol! La canzone giunse alle loro orecchie come un benvenuto.

Ehi! Vieni, bella dol! Giunti son gli amici!

Hobbit! Cavallini! Siam tutti ora felici!

Viva il divertimento! Cantiamo tutti assieme!

Un’altra voce, limpida, giovane e antica come la Primavera, sgorgò simile a un ruscello d’argento: pareva la melodia dell’acqua che scorre gioiosa dai colli assolati giù nella pianura immersa nella notte.

Viva il divertimento! Cantiamo tutti assieme

Di sole, stelle, luna, nebbia, pioggia e speme,

Luce sul bocciolo, rugiada sulle piume,

Rovi sullo stagno ombroso, gigli sull’acqua che freme.

Vecchio Tom Bombadil, e la Figlia del Fiume!

Gli Hobbit giunsero sulla soglia inondata dalla luce dorata, mentre risuonavano le ultime note della canzone.

CAPITOLO VII NELLA CASA DI TOM BOMBADIL

I quattro Hobbit varcarono l’ampia soglia di pietra e si arrestarono, abbagliati. Erano in una stanza lunga dal soffitto basso, illuminata a giorno da lampade che oscillavano appese alle travi della volta, mentre sul tavolo di lucido legno scuro un’infinità di candele alte e gialle ardevano allegramente.

Su una sedia all’altra estremità della stanza sedeva una donna. La lunga chioma bionda le scendeva sulle spalle; la sua veste era verde, del verde dei giovani germogli, tempestata di argentee perle di rugiada; e la cintura d’oro pareva una catena di gigli incastonata di non-ti-scordar-di-me. Ai suoi piedi, migliaia di candidi gigli galleggiavano in vasi di ceramica verde e marrone, pari a un piccolo lago intorno a un trono.

«Siate i benvenuti, cari ospiti!», disse; e a quella voce gli Hobbit capirono che era la stessa limpida voce che avevano sentito cantare poco prima. Fecero qualche timido passo avanti, inchinandosi profondamente ed a più riprese, goffi, stupiti e impacciati come gente che, avendo bussato alla porta di una casetta per chiedere un bicchier d’acqua, si fosse improvvisamente trovata al cospetto di una splendida giovane regina elfica interamente vestita di fiori. E quando ella corse loro incontro, sentirono il suo abito frusciare come una dolce brezza sulle rive fiorite di un fiume.

«Venite, cara gente!», disse, prendendo Frodo per mano. «Ridete e siate felici! Sono Baccador, la Figlia del Fiume». Quindi passò loro accanto e andò a chiudere la porta, dicendo, mentre vi si appoggiava dolcemente: «Chiudiamo fuori la notte! Forse temete ancora le nebbie oscure e le ombre minacciose degli alberi e le acque profonde e gli esseri malvagi. Non abbiate più paura! Per questa notte siete sotto il tetto di Tom Bombadil».

Gli Hobbit la guardavano estasiati e lei li guardò uno per uno e sorrise. «Dolce dama Baccador!», osò infine dire Frodo, sentendosi profondamente turbato e commosso da una gioia inspiegabile. Aveva provato a volte una sensazione simile, incantato dalla dolce voce degli Elfi; tuttavia questo sortilegio era diverso: un piacere meno nobile e meno intenso, ma più profondo e umano penetrava fino in fondo al cuore, meraviglioso eppure non misterioso. «Dolce dama Baccador!», disse nuovamente. «Ora capisco da dove veniva la gioia nascosta nelle canzoni che udivamo!

Esile più di un salice! Più limpida dell’acqua! Più brillante di un lume!

O giunco chinato sul lago! O dolce Figlia del Fiume!

Tu sei estate e primavera, e poi nuovamente estate!

Tu delle fronde le risa, e brezza sulle cascate!».

D’un tratto si fermò, balbettando, sopraffatto dalla sorpresa di sentirsi parlare in quel modo. Ma Baccador rise.

«Benvenuto!», disse. «Non sapevo che la gente della Contea avesse favella sì poetica. Ma vedo che sei un amico di Elfi; la luce in fondo ai tuoi occhi e il suono della tua voce ne sono una prova. Qual felice incontro! Sedete adesso, in attesa del Messere della casa! Non tarderà: sta accudendo alle vostre stanche bestie».

Gli Hobbit si sedettero grati e felici su basse sedie di giunco, mentre Baccador si occupava della tavola; e i loro occhi seguivano ogni suo movimento, la cui grazia, agilità e armonia li riempivano di soave letizia. Dal retro della casa giungeva il suono di un canto. Ogni tanto coglievano, frammisto a molti bel dol e bal billo e suona un dong dillo, il ritornello:

Vecchio Tom Bombadil è un tipo allegro;

Ha gli stivali gialli e la giacca blu cielo.

«Graziosa dama!», disse dopo qualche attimo Frodo. «Perdona, se la mia domanda ti sembrerà stolta, ma potresti dirmi chi è Tom Bombadil?».

«È lui», rispose Baccador, interrompendo i suoi agili movimenti per sorridergli. Frodo la guardò perplesso. «È lui, come avete visto», ella disse in risposta al suo sguardo, «è lui il Messere di bosco, acqua e collina».

«Allora tutta questa terra gli appartiene?».

«Oh no!», rispose, e il suo sorriso svanì. «Sarebbe un fardello troppo pesante», soggiunse a bassa voce, come se parlasse con se stessa. «Gli alberi e le erbe e ogni cosa che cresce o che vive in questa terra non hanno padrone. Tom Bombadil è il Messere. Nessuno ha mai afferrato il vecchio Tom mentre camminava nella foresta, o mentre guadava il fiume, o mentre saltellava sulla sommità delle colline, sotto i raggi del sole o nell’oscurità. Egli non ha timore. Tom Bombadil è Signore».

Una porta si aprì e Tom Bombadil entrò. Non portava più il cappello, e foglie autunnali incoronavano la sua folta capigliatura castana. Rise, e avvicinatosi a Baccador le prese una mano.

«Ecco la mia bella dama!», disse, inchinandosi davanti a lei. «Ecco la mia Baccador tutta vestita di verde e d’argento e cinta di fiori! È apparecchiata la tavola? Vedo crema gialla e miele, e pane bianco e burro; vedo riuniti assieme latte, formaggio, verdi erbe e bacche mature. Sarà sufficiente per noi? È pronto il nostro pranzo?».

«Il pranzo è pronto», rispose Baccador; «ma i tuoi ospiti forse non lo sono!».

Tom batté le mani esclamando: «Tom! Tom! I tuoi amici sono stanchi e te ne sei scordato! Venite, venite, miei gioiosi amici, Tom vi porterà a rinfrescarvi! Via lo sporco dalle mani e la fatica dagli stanchi visi! Gettate via i vostri manti fangosi e pettinate i nodi dei capelli!».

Aprì la porta e si fece seguire lungo un piccolo corridoio che in fondo curvava ad angolo retto. Giunsero così in una stanza dal soffitto basso e inclinato: doveva essere una rimessa costruita all’estremità nord della casa. Le pareti erano di pietra, ma quasi interamente ricoperte di stuoie verdi e di tende gialle; le mattonelle del pavimento erano cosparse di freschi giunchi verdi. Quattro morbidi materassi, dalle bianche coperte rimboccate, erano stesi per terra uno accanto all’altro. Alla parete opposta c’era una lunga panchina munita di bacinelle di ceramica e di brocche piene d’acqua calda e fredda. Soffici pantofole verdi erano preparate ai piedi di ogni letto.

* * *

Lavati e rinfrescati, gli Hobbit si sedettero poco dopo a tavola dove Baccador e il Messere avevano già preso posto ai due capi. Il pasto fu lungo e gioioso, e benché gli Hobbit divorassero come soltanto un Hobbit affamato sa divorare, c’era di tutto in abbondanza. La bevanda che empiva le loro ciotole pareva acqua fresca e pura, e tuttavia li inebriò come vino, dando loro voglia di cantare. Gli ospiti si accorsero improvvisamente che il canto sgorgava spontaneamente dalle loro labbra, quasi fosse più semplice e naturale cantare che parlare.

Infine, Tom e Baccador si alzarono e sparecchiarono veloci; impedirono agli ospiti di dare una mano e li fecero anzi accomodare su comode sedie, provviste di soffici sgabelli per appoggiarvi gli stanchi piedi; nel grande camino ardevano rami di melo diffondendo un dolcissimo profumo. Quando tutto fu in ordine, spensero le luci della stanza, salvo una lampada e un paio di candele poste ai lati del camino. Baccador si avvicinò allora agli Hobbit tenendo in mano una candela e augurò ad ognuno la buona notte e un sonno tranquillo.

«Riposate in pace fino al mattino», disse. «Non temete i rumori notturni! Sappiate che nulla può attraversare porte e finestre e nulla penetra in questa casa, salvo il chiarore della luna e delle stelle e il vento della cima del colle. Buona notte!». Scomparve dalla stanza con un fruscio e un bagliore; il suono dei suoi passi era simile al fluire di un ruscello giù per i colli, fra pietre fresche, nella quiete della notte.

Tom rimase a lungo seduto accanto a loro in silenzio, mentre ognuno cercava di racimolare il coraggio per una sola delle innumerevoli domande che avrebbe desiderato porre durante il pranzo. Il sonno pesava sulle loro palpebre. Finalmente Frodo si decise a parlare:

«Dimmi, Messere: mi avevi udito chiamare, questo pomeriggio, o fu soltanto il caso a dirigere i tuoi passi verso di noi in quel momento?».

Tom si scosse come un uomo svegliato all’improvviso da un piacevole sogno. «Eh? Cosa?», disse. «Se ti avevo sentito chiamare? No, non ho sentito niente, ero molto occupato a cantare; a portarmi da voi fu solo il caso, se così vuoi chiamarlo. Non era in programma, benché ti stessi aspettando; avevamo ricevuto tue notizie, sapevamo che eravate in viaggio e sapevamo pure che sareste venuti giù lungo il fiume: tutti i sentieri portano lì, al Sinuosalice. Il Vecchio Uomo Salice Grigio è un potente cantore e difficilmente la gente piccolina riuscirebbe a eludere i suoi ingegnosi stratagemmi. Ma Tom aveva un compito da svolgere, che non osava rinviare». La testa incominciò a ciondolargli come se fosse nuovamente colto da sonno; ma continuò cantilenando dolcemente:

Avevo un compito da svolgere: coglier tanti gigli,

Verdi foglie e gigli candidi per la mia dolce dama,

Per conservare gli ultimi, prima della fine dell’anno,

Al riparo dalla neve, a fiorire ai suoi piedi.

Ogn’anno sul finir dell’estate li vado a cercare per lei,

In un limpido stagno profondo, lontano sul Sinuosalice;

Lì, in primavera, sono i primi a sbocciare, e lì i più lunghi a durare,

E lì, tanto tanto tempo addietro, trovai la Figlia del Fiume,

Dolce Baccador seduta in mezzo ai giunchi.

Aprì gli occhi e guardò gli Hobbit con un improvviso bagliore azzurro:

Ed è stato un bene per voi, perché ormai non tornerò più

Lì in fondo lungo le acque del fiume,

Ora che l’anno muore. E nemmeno passerò più

La casa del Vecchio Uomo Salice Grigio

Fino a primavera, quando allegra la Figlia del Fiume

Va ballando nel sinuoso sentiero e si tuffa nell’acqua.

Tacque nuovamente; ma Frodo non poté trattenersi dal fargli un’altra domanda, quella a cui teneva di più. «Parlaci, Messere, dell’Uomo Salice», disse. «Chi è? Non avevo mai sentito parlare di lui prima d’oggi».

«No, zitto!», esclamarono Merry e Pipino all’unisono saltando su. «Non è ora! Aspetta domattina!».

«Giusto!», disse il vecchio. «Questa è l’ora del riposo; è nefasto parlare di certe cose quando il mondo è immerso nell’ombra. Dormite fino alle luci del mattino, riposate sul cuscino! Non temete i rumori notturni; non abbiate paura di salici grigi!». Così dicendo, prese la lampada spegnendola con un soffio; quindi, tenendo in mano le due candele, li accompagnò fuori della stanza.

I materassi e i cuscini erano soffici e morbidi come piume, e le coperte di candida lana. Appena s’infilarono sotto le lenzuola, affondando nel comodo letto, chiusero gli occhi e s’addormentarono.

* * *

Era notte fonda, e Frodo faceva sogni cupi e tormentosi. Allora gli apparve la luna nuova, i cui deboli raggi rischiaravano un muro di roccia nera che giganteggiava davanti a lui e dove un arco buio si apriva come un gran cancello. A Frodo parve che qualcosa lo sollevasse verso l’alto e, nell’ascesa, vide che il muro di roccia era una corona di colli che circondava una pianura: al centro si ergeva un pinnacolo di pietra simile a un’alta torre edificata da un artefice sovrumano. Sulla cima stava, ritta, la figura di un uomo. La luna s’innalzò e parve arrestarsi un momento sulla sua testa, facendone scintillare i capelli bianchi mossi dal vento. Dalla pianura oscura giungevano le grida di voci crudeli e l’ululato di feroci lupi. All’improvviso, la sagoma di due grandi ali oscurò la luna. La figura alzò le braccia e una luce lampeggiò dallo scettro che reggeva in mano. Un’aquila maestosa solcò l’aria e, calatasi su di lui, lo portò via con sé. Le voci gemettero ed i lupi mugolarono. Si udì come il boato di un vento turbinoso, accompagnato dal fragore di zoccoli che venivano da est galoppando, galoppando, galoppando. «I Cavalieri Neri!», pensò Frodo svegliandosi di soprassalto, col rumore degli zoccoli che gli rimbombava ancora in testa. Si domandò se avrebbe mai avuto il coraggio di abbandonare quelle pareti di pietra solide e sicure. Rimase immobile, all’erta, in ascolto; ma tutto era silenzio ed egli si voltò infine di fianco riaddormentandosi e abbandonandosi in qualche altro sogno vago e poi obliato.

Accanto a lui Pipino sognava beato, ma d’un tratto i suoi sogni si trasformarono ed egli si voltò gemendo. All’improvviso si svegliò, o gli parve di essersi svegliato, pur continuando a sentire nell’oscurità il rumore che aveva turbato il suo sonno: tip-tap, squiic: sembravano rami agitati dal vento, arbusti che grattavano e grattavano i muri: criic, criic, criic. Immaginò che ci fossero salici nelle vicinanze della casa; poi fu colto dal panico, convinto di non essere in una vera e propria casa ma all’interno del salice che rideva ancora sarcastico con quella sua abominevole voce stridula e cigolante. Si sollevò bruscamente a sedere e il soffice materasso cedette sotto di lui, riportandolo alla realtà. Si distese nuovamente, più tranquillo. Gli sembrava di sentire l’eco di soavi parole: «Non temete nulla! Riposate in pace sino al mattino! Non abbiate paura dei rumori notturni!». Si riaddormentò.

Il sonno pacifico di Merry fu turbato soltanto da un mormorio di acqua: acqua che scorreva fluida, dolcemente, e che poi si espandeva, si espandeva irresistibilmente e circondava la casa come uno stagno fondo, buio e senza sponde. Gorgogliava sotto i muri e saliva, lenta ma inesorabile. «Annegherò!», si disse. «Troverà un modo per penetrare in casa ed io annegherò». Aveva l’impressione di trovarsi disteso in un fango molle e viscido, e sentiva di non poter più resistere: d’un balzo saltò su, poggiando un piede su di una mattonella fredda e dura. Allora si ricordò dov’era e si rimise a letto. Gli parve di sentire o di ricordarsi l’eco di soavi parole: «Sappiate che nulla attraversa porte e finestre e nulla penetra in questa casa, salvo il chiarore della luna e delle stelle e il vento della cima del colle». Un alito d’aria tiepida mosse le tende. Egli respirò profondamente e si riaddormentò.

Sam ricordò ben poco, ma gli parve di aver fatto un sonno piacevolissimo, ammesso che il sonno di un ghiro possa essere piacevole.

* * *

Si svegliarono, tutt’e quattro assieme, alla luce del mattino. Tom gironzolava per la stanza fischiettando come uno storno. Quando sentì che si stiracchiavano, batté le mani gridando: «Ehi! Vieni bel dol! Cara dol! Amici cari!». Aprì le tende gialle alle due estremità della stanza e gli Hobbit si accorsero allora della presenza di due finestre, una rivolta a est e l’altra a ovest.

L’aria mattutina li rinfrescò ed essi saltarono fuori dal letto. Frodo corse alla finestra ad oriente e vide che dava su di un orto ricoperto di grigia rugiada. Si era quasi aspettato di vedere prati interamente ricoperti d’erba, di un’erba calpestata da migliaia di zoccoli. Una parete di fagiolini rampicanti gli ostruiva la vista, ma al di là riusciva a intravedere la lontana sommità della collina che si stagliava contro il cielo albeggiante. La mattina era pallida: a est, dietro lunghe nuvole simili a fili di lana con le punte colorate di rosso, lo sfondo pareva uno stagno giallo e scintillante. Il cielo annunciava la pioggia imminente, ma la luce si diffondeva rapida e i fiori rossi dei fagiolini ardevano fra le umide foglie verdi.

Pipino si affacciò alla finestra rivolta a occidente, e i suoi occhi spaziarono in un mare di nebbia; la Foresta ne era totalmente avvolta. Gli pareva di guardare dall’alto un tetto di nuvole spiovente. In un punto, che doveva essere un canale o un dirupo, il mare di nebbia si trasformava in un susseguirsi di spirali e di pennacchi: capì che si trattava della valle del Sinuosalice. Il torrente scorreva giù per la collina alla sua sinistra, scomparendo nelle ombre bianche. Accanto alla finestra c’erano delle aiuole e una siepe ben tagliata e ricoperta di una rete argentata, al di là della quale un pallido prato grigio luccicava di rugiada. Non c’era nemmeno un salice in vista.

«Buon giorno, gioiosi amici!», esclamò Tom, spalancando la finestra a oriente. L’aria che inondò la stanza era fresca e odorava di pioggia. «Credo proprio che il sole non si farà vivo, oggi. Ho passeggiato a lungo, saltellando sin dall’alba grigia sulle sommità delle colline, annusando l’aria e il vento, e l’erba era umida sotto i miei piedi, umido il cielo sulla mia testa. Ho svegliato Baccador cantando sotto la sua finestra, ma non c’è niente che riesca a destare gli Hobbit la mattina presto. Di notte sussultano nel buio e si addormentano quando ormai è arrivata la luce! Suona un ding dillo! Svegliatevi ora, miei allegri amici! Dimenticate i rumori notturni! Suona un ding dillo del! Dillo del, miei cari! Se vi affrettate troverete la colazione che vi attende sulla tavola. Ma se arrivate tardi, avrete solo erba e pioggia!».

Inutile dire che, nonostante la minaccia di Tom non sembrasse molto seria, gli Hobbit si precipitarono, alzandosi da tavola molto tardi, quando ormai era stata vuotata. Né Tom né Baccador presero parte alla colazione. Tom lo sentivano muoversi affaccendato per casa, far rumore in cucina, andar su e giù per le scale, rovistare negli armadi e cantare di tanto in tanto qui e là. La stanza dove si trovavano si affacciava a occidente sulla valle nebbiosa. La finestra era aperta e l’acqua gocciolava giù dalle gronde del tetto gorgogliando. Prima che finissero la colazione, le nuvole si erano addensate e ammassate a tal punto da formare un pesante soffitto, e una grigia pioggia fitta e ostinata cadeva silenziosamente, formando un’uggiosa tenda che nascondeva completamente la Foresta.

Mentre guardavano fuori della finestra, la limpida voce di Baccador giunse alle loro orecchie dall’alto, come se fluisse dolcemente giù dal cielo insieme alla pioggia. Cantava soavemente, e dalle poche parole che riuscivano a distinguere capirono che era una canzone di pioggia, dolce come l’acquerugiola sulle aride colline, che narrava la storia di un fiume, dalla nascita in una sorgiva d’alta montagna fino allo sbocco nel vasto Mare. Gli Hobbit ascoltavano rapiti; Frodo si sentiva il cuore leggero e felice, e ringraziava il tempo che ritardava la loro partenza. Il pensiero della separazione e dell’addio l’aveva tormentato sin dal momento del risveglio, ma ora si rendeva conto che per quel giorno non avrebbero proseguito.

* * *

Il vento soffiava turbinoso da nord verso ovest, spingendo valanghe di nuvole sempre più grosse e più nere che rovesciavano scrosci di pioggia torrenziale sulle brulle cime dei Tumulilande. Non si vedeva altro, intorno alla casa, che acqua e diluvio. Frodo, in piedi vicino alla porta aperta, osservava il bianco terreno gessoso trasformato in un piccolo fiume lattiginoso che scorreva gorgogliando verso la valle. Tom Bombadil arrivò trotterellando dall’altro lato della casa, agitando le braccia come per proteggersi dalla pioggia: e quando varcò con un balzo la soglia, pareva davvero asciutto, eccetto che per gli stivali, che si tolse e posò in un angolo del camino. Quindi si sedette nella poltrona più comoda e chiamò gli Hobbit intorno a sé.

«Oggi è il giorno in cui Baccador fa il bucato», disse, «e le pulizie autunnali. Troppo umido per degli Hobbit: è meglio che si riposino un po’, dato che ne hanno l’opportunità! È un giorno adatto per i lunghi racconti, per le domande e le risposte, e Tom incomincerà dunque a narrare».

Raccontò loro molte storie favolose, a volte parlando sottovoce, come a se stesso, a volte guardandoli improvvisamente con i suoi luminosi occhi blu intenso che spuntavano da sotto le folte sopracciglia. Spesso la sua voce intonava un dolce canto ed egli si alzava, danzando per la stanza. Parlò loro di api e di fiori, delle abitudini degli alberi, delle strane creature della Foresta, di cose buone e di cose malvagie, di cose amiche e di cose nemiche e ostili, di cose crudeli e di cose gentili, e dei segreti nascosti sotto i rovi aggrovigliati.

Man mano che ascoltavano, cominciarono a capire la vita della Foresta, una vita distaccata da loro, indipendente e armoniosa, e si sentirono estranei, in un mondo a sé. Il Vecchio Uomo Salice era costantemente presente nei discorsi di Tom, e Frodo apprese molto sul suo conto, tanto da soddisfare la sua curiosità e da riempirsi d’inquietudine, poiché non erano certo notizie confortanti. Le parole di Tom mettevano a nudo il cuore e i pensieri degli alberi, che erano spesso cupi e bizzarri, pieni di odio per tutto ciò che cammina liberamente sulla terra e che rode, morde, strappa, rompe, sega e brucia: distruttori e usurpatori. Non a caso veniva chiamata Vecchia Foresta, poiché era estremamente antica, l’ultima superstite di immensi boschi dimenticati. In essa vivevano ancora, invecchiando insieme alle brulle colline, i padri dei padri degli alberi, memori dei tempi in cui erano ancora loro i signori. Gli innumerevoli anni li avevan riempiti di orgoglio, di profonda saggezza, ma anche di malizia. Ma il più pericoloso di tutti era il Grande Salice: il suo cuore era marcio, ma verde era la sua forza; era astuto, padrone dei venti, e il suo canto e il suo pensiero attraversavano i boschi seguendo le due rive del fiume. Il suo spirito grigio e assetato traeva vigore e potenza dalla terra in cui si diffondeva con una fine trama di radici, mentre nell’aria si espandeva come la linfa di infiniti invisibili rami: ebbe così sotto il suo dominio quasi tutti gli alberi della Foresta, dalla Siepe fino ai remoti Tumulilande.

Improvvisamente il discorso di Tom abbandonò i boschi e risalì saltellando il corso del giovane fiume, oltre le cascate tumultuose, oltre i sassi e le rocce levigate, oltre i prati verde intenso cosparsi di fiorellini, oltre le umide fessure, giungendo infine ai Tumulilande. Sentirono così parlare dei Grandi Tumuli, delle verdi montagnole, dei recinti di pietra sulle colline, nelle grotte e nelle caverne. Greggi di pecore belavano. Sorsero mura verdi e mura bianche. Sulle alture si ergevano delle fortezze. Re di piccoli reami si combattevano aspramente, mentre il giovane Sole brillava come un tizzone sul rosso metallo delle loro spade fiammanti e avide. Ci furono vittoria e sconfitta; le torri cadevano, le fortezze bruciavano, e le fiamme salivano sino in cielo. Oro fu versato sulle bare di re e regine morti, e cumuli di terra li ricoprirono; le porte di pietra furono chiuse, e l’erba crebbe su tutto. Le pecore tornarono per un po’ a brucare l’erba, ma presto i colli furono nuovamente vuoti. Un’ombra uscì da luoghi oscuri e remoti, e le ossa si agitarono sotto la terra. Spettri dei tumuli errarono nelle caverne con tintinnii di anelli alle fredde dita e catene d’oro al vento. Recinti di pietra sbucarono da terra sghignazzando ai raggi di luna come denti rotti.

Gli Hobbit rabbrividirono. Le voci sugli Spettri dei Tumuli al di là della Foresta erano giunte sino alla Contea. Ma non era una storia che un Hobbit amasse ascoltare, anche stando comodamente e al sicuro seduto davanti a un camino. Improvvisamente i quattro ricordarono quel che l’allegria della casa aveva allontanato dalla loro mente: subito dietro le loro spalle si ergevano quelle abominevoli colline. Persero il filo del discorso e si lanciarono un’occhiata preoccupata, agitandosi irrequieti sulle sedie.

Quando finalmente riuscirono a concentrarsi di nuovo su ciò che diceva il vecchio Tom, scoprirono che aveva percorso molta strada, giungendo in strane regioni al di là della loro memoria e del loro pensiero cosciente, in tempi quando il mondo era più vasto e le acque scorrevano direttamente alla Spiaggia occidentale. E Tom continuava cantando a risalire le epoche, fino all’antica luce stellare, quando solo i padri degli Elfi vegliavano. Poi all’improvviso smise di parlare, e videro che la testa gli cominciava a ciondolare, come se stesse per addormentarsi. Gli Hobbit sedevano immobili e silenziosi, estasiati; e parve che il sortilegio delle sue parole avesse placato il vento, asciugato le nuvole e allontanato la luce del giorno per far posto all’oscurità giunta dall’Ovest e dall’Est: il cielo era inondato dal bagliore di bianche stelle.

Frodo non riusciva a capire se mattina e sera si fossero alternati per uno o più giorni. Non si sentiva né stanco né affamato: soltanto colmo di meraviglia. Le stelle brillavano attraverso la finestra e il silenzio dei cieli sembrava circondarlo. Finalmente riuscì a vincere il suo rapimento e parlò, come colto da un’improvvisa paura del silenzio. «Messere, chi sei?», gli chiese.

«Eh, cosa?», disse Tom raddrizzandosi, mentre i suoi occhi rifulgevano nelle tenebre. «Non conosci ancora il mio nome? Questa è l’unica risposta. Dimmi: chi sei, solitario, essere senza nome? Ma tu sei giovane ed io molto vecchio. Il più anziano, ecco chi sono. Ricordate, amici, quel che vi dico: Tom era qui prima del fiume e degli alberi; Tom ricorda la prima goccia di pioggia e la prima ghianda. Egli tracciò i sentieri prima della Gente Alta, e vide arrivata la Gente Piccola. Era qui prima dei Re e delle tombe e degli Spettri dei Tumuli. Quando gli Elfi emigrarono a ovest, Tom era già qui, prima che i mari si curvassero; conobbe l’oscurità sotto le stelle quand’era innocua e senza paura: prima che da Fuori giungesse l’Oscuro Signore».

Un’ombra sembrò passare davanti alla finestra e gli Hobbit lanciarono un’occhiata fugace attraverso i vetri. Quando si voltarono di nuovo, videro Baccador in piedi sulla porta, incorniciata di luce. Reggeva una candela, riparando la fiamma dalla corrente d’aria con una mano; e la luce traspariva come un raggio di sole attraverso una conchiglia.

«La pioggia è finita», disse, «e nuovi ruscelli scorrono sotto le stelle verso la pianura. È, ora di ridere e di stare in allegria!».

«Ed è anche ora di bere e di mangiare!», esclamò Tom. «Le lunghe storie mettono sete. E a furia di ascoltare, mattino, pomeriggio e sera, si diventa affamati!». Così dicendo, saltò in piedi e con un balzo prese dal camino una candela che accese alla fiamma di quella di Baccador; quindi danzò intorno al tavolo ed improvvisamente, saltando fuori dalla porta, scomparve.

Ritornò presto, portando un grande vassoio ricolmo di ogni bene. Tom e Baccador apparecchiarono la tavola, mentre gli Hobbit li guardavano metà meravigliati e metà sorridenti: sì dolce era la grazia di Baccador e sì allegre e bizzarre le piroette di Tom. Eppure, in qualche modo sembravano tessere un’unica danza, armonizzandosi e completandosi, dentro e fuori la stanza e tutt’intorno al tavolo; ben presto cibo, piatti, e luci furono al loro posto. La stanza era illuminata a giorno da candele bianche e gialle. Tom s’inchinò verso i suoi ospiti: «La cena è pronta»?, disse Baccador, e gli Hobbit videro allora che era tutta vestita d’argento, con una cintura bianca, ed i calzari di un tessuto a squame di pesce. Tom era invece tutto in azzurro limpido, azzurro come dei non-ti-scordar-di-me lavati dalla pioggia, e le sue calze erano verdi.

* * *

La cena fu anche più buona dei pasti precedenti. Se la magia delle parole di Tom aveva fatto saltare agli Hobbit uno o più pasti, ora che erano a tavola parve loro di essere digiuni da almeno una settimana. Non cantarono e nemmeno parlarono per un bel po’, attenti unicamente ai loro affari. Ma quando ebbero rinfrancato cuori e spiriti, le loro voci risuonarono di nuovo allegre e ridenti.

Quando ebbero finito di mangiare, Baccador cantò molte canzoni; canzoni che partivano gioiose e spensierate dalle verdi colline e Cadevano dolcemente nel silenzio; in quei silenzi, con gli occhi della fantasia, videro immagini di laghi immensi e sconosciuti nelle cui profondità si rispecchiavano il cielo limpido e le stelle brillanti come gemme. Baccador augurò quindi loro la buonanotte, e li lasciò seduti lì accanto al camino. Ma ora Tom era sveglio ed arzillo, e li sommerse di domande.

Scoprirono che sapeva già molto di loro e delle loro famiglie, e persino della storia e degli eventi della Contea sin da tempi che gli Hobbit stessi non ricordavano ormai più. Non se ne stupirono; ma egli rivelò come gran parte delle informazioni più recenti gli fossero state fornite dal vecchio Maggot, che egli pareva considerare persona molto più importante di quanto non avessero immaginato: «C’è terra solida sotto i suoi vecchi piedi, creta sulle sue dita, saggezza nelle sue ossa, e i suoi occhi sono ben aperti». Era anche chiaro che Tom aveva rapporti con gli Elfi, e pareva che in qualche modo Gildor l’avesse informato della fuga di Frodo.

Tom sapeva tante cose, e le sue domande erano sì astute, che Frodo gli raccontò sul conto di Bilbo e sulle proprie speranze ed angosce più di quanto non avesse mai detto allo stesso Gandalf. Tom annuiva, e quando gli sentì nominare i Cavalieri Neri una luce balenò nei suoi occhi.

«Mostrami il prezioso Anello!», gli disse improvvisamente nel bel mezzo di un discorso; e Frodo, con sua enorme sorpresa, si tolse di tasca l’Anello e, sganciando la catenella, lo tese a Tom senza indugio.

Sulla sua grande mano scura parve ingrandirsi. Poi all’improvviso se lo mise all’occhio, e scoppiò a ridere. Per un attimo gli Hobbit videro l’immagine, comica e impressionante allo stesso tempo, del suo occhio blu intenso incorniciato da un cerchio d’oro. Quindi Tom infilò l’Anello alla punta del dito mignolo e lo accostò alla luce della candela. Da principio gli Hobbit non notarono niente di anormale, ma ad un tratto spalancarono stupefatti la bocca: Tom non accennava a scomparire!

Tom rise nuovamente, e poi fece roteare per aria l’Anello che, con un lampo, svanì. Frodo lanciò un grido, ma Tom si chinò verso di lui, consegnandoglielo con un sorriso.

Frodo lo osservò da vicino e con una certa diffidenza, come chi avesse prestato un gioiello a un prestigiatore. L’Anello era lo stesso, o perlomeno era quello il suo aspetto e il peso: quell’Anello infatti era sempre parso a Frodo stranamente pesante. Ciò nonostante, qualcosa lo spingeva a volersene accertare. Era forse leggermente seccato con Tom che prendeva tanto alla leggera quel che persino Gandalf considerava estremamente importante e pericoloso. Aspettò che la conversazione riprendesse e, mentre Tom raccontava una storia assurda sui tassi e le loro strane abitudini, colse l’occasione e s’infilò al dito l’Anello.

Merry si voltò verso di lui per dirgli qualcosa e sussultò, frenando a mala pena un’esclamazione di stupore. Frodo si sentì in certo qual modo soddisfatto: doveva essere davvero il suo Anello se Merry guardava la sedia istupidito, senza riuscire evidentemente a vederlo. Si alzò e, silenziosamente, si allontanò dal camino dirigendosi verso la porta.

«Ehi tu!», gridò Tom, lanciandogli lo sguardo più penetrante dei suoi occhi luminosi. «Ehi! Vieni qui, Frodo! Dove te ne stai andando? Tom Bombadil non è ancora diventato tanto cieco da non vederti. Togliti quell’anello d’oro! La tua mano sta molto meglio senza. Torna qui! Lascia perdere i giochetti e siediti accanto a me! Abbiamo ancora tante cose da dirci, e dobbiamo pensare a domattina. Tom vi deve insegnare la strada giusta e impedire che i vostri passi vadano vagando senza meta».

Frodo rise, sforzandosi di sembrare compiaciuto, e togliendosi l’Anello tornò a sedersi accanto al fuoco. Tom disse che senz’alcun dubbio l’indomani sarebbe stata una bella giornata piena di sole che avrebbe così reso la loro partenza piacevole e confortata da lieti auspici. Ma era consigliabile partire di buon’ora, poiché in quella regione il tempo era una cosa della quale neanche Tom poteva essere a lungo sicuro: a volte era più rapido a cambiare che non Tom a togliersi la giacca. «Non sono io il padrone delle tempeste», disse, «e nessun altro che cammini con due gambe lo è».

Seguendo il suo consiglio, stabilirono di puntare direttamente a nord, attraversando le basse pendici occidentali dei Tumulilande: in quel modo, forse, ce l’avrebbero fatta a raggiungere la Via Est in un giorno, evitando di passare per i Tumuli. Tom disse loro di non aver paura, ma di non andare ficcando il naso ovunque.

«Non uscite dai verdi prati. Non v’impicciate delle vecchie pietre o dei freddi Spettri dei Tumuli, non andate curiosando nelle loro case, se non siete creature intrepide dall’impavido cuore di leone!». Lo ripeté più di una volta, raccomandando loro di attraversare i Tumuli soltanto sul fianco occidentale, se fossero per caso costretti a valicarne. Quindi insegnò loro una strofa da cantare l’indomani per scongiurare eventuali pericoli o difficoltà.

Oh! Tom Bombadil, Tom Bombadillo!

Nell’acqua, bosco e colle, tra il salice e il giunchiglio,

Con fuoco, sole e luna, ascolta il mio richiamo!

Vieni, Tom Bombadil, del tuo aiuto abbisogniamo!

Dopo che ebbero tutti cantato in coro questa strofa dietro a lui, Tom diede loro ridendo una manata sulla spalla, e prendendo le candele li ricondusse alla camera da letto.

CAPITOLO VIII NEBBIA SUI TUMULILANDE

Quella notte non udirono alcun rumore. Soltanto Frodo sentì, non sapeva se in sogno o no, fluire armoniosamente un dolce canto: sembrava una fioca luce dietro una grigia tenda di pioggia, una luce che diventava sempre più forte e intensa, fino a trasformare tutto il velo in una coltre di vetro e d’argento. E quando infine la tenda si sollevò, gli apparve lontano una campagna verdeggiante cosparsa del rosa dell’aurora.

La visione scomparve ed egli si svegliò. Tom era già in piedi che fischiettava come un albero pieno d’uccelli, e il sole diffondeva i suoi raggi obliqui lungo le falde del colle e attraverso la finestra aperta. Fuori, tutto era immerso in una luce verde e oro pallido.

Dopo la colazione, che anche questa volta consumarono da soli, si apprestarono agli addii, e quantunque la mattina fosse fresca, limpida e serena, sotto un cielo autunnale di un azzurro immacolato, gli animi erano tristi. Una fresca brezza veniva da nord-ovest. I docili pony si muovevano irrequieti e vivaci, annusando l’aria. Tom uscì di casa e agitò il cappello, danzando sulla soglia. Esortò gli Hobbit a saltare in groppa e a partire, mantenendo una buona andatura.

Cavalcarono lungo un sentiero che serpeggiava dal retro della casa, salendo leggermente verso il nord della collina. Erano appena smontati e stavano conducendo i cavalli su per l’ultimo tratto di ripida salita, quando Frodo si fermò d’un tratto.

«Baccador!», esclamò. «Mia graziosa dama, tutta vestita di verde e d’argento! Non ci siamo congedati da lei, e non l’abbiamo più vista dopo ieri sera!». Era tanto afflitto che voltò il pony per tornare sui propri passi; ma in quel momento alle loro orecchie giunse un limpido richiamo. Ella era in piedi sulla cima della collina, agitando la mano in segno di saluto: i suoi capelli sciolti al vento scintillavano luminosi al sole. Il luccicare della rugiada sull’erba si sprigionava dai suoi piedi mentre danzava armoniosa.

Affrettarono il passo per il pendio e si fermarono ansimanti accanto a lei, inchinandosi. Ma con un gesto del braccio ella mostrò loro il paesaggio: guardarono dalla sommità del colle le terre immerse nella luce della mattina. Le immagini erano ora nitide e chiare quanto erano state scure e nebbiose dal poggio nella Foresta, che vedevano ergersi a ovest pallido e verde in mezzo ai cupi alberi circostanti. Da quelle parti il terreno era accidentato e creste e collinette boscose brillavano verdi, gialle e ruggine nascondendo dietro i loro frastagli la Valle del Brandivino. A sud, oltre il corso del Sinuosalice, il Brandivino scintillava lontano in un grande meandro, e scorreva via dalla pianura in luoghi sconosciuti agli Hobbit. A nord, al di là dei Tumuli che si rimpicciolivano in lontananza, la pianura si estendeva verde e grigia con qua e là dei rigonfi color pastello, per poi sbiadirsi in un orizzonte vago e impreciso. A est i Tumulilande si ergevano cupi e severi, uno dopo l’altro, e scomparivano alla vista, rimanendo nell’immaginazione. E l’immagine era quella di uno scintillio di bianco che si fondeva con l’orlo del cielo, e sussurrava azzurre parole remote di antiche favole e leggende che parlavano delle alte arcane montagne.

Respirarono profondamente l’aria del mattino, e parve loro che un balzo e un’allegra cavalcata li avrebbero condotti ovunque desiderassero. Sembrava imbelle e ridicolo evitare accuratamente le falde dei Tumuli, mentre avrebbero dovuto saltellare e piroettare baldanzosi come Tom sulle bianche pietre delle colline puntando direttamente verso le Montagne.

Baccador parlò, e i loro sguardi e i loro pensieri si volsero immediatamente su di lei. «Veloci, adesso, amici, graziosi amici!», disse. «Non cambiate programma! Continuate sempre a nord, col vento nell’occhio sinistro ed il nostro augurio nei vostri passi! Affrettatevi, ché il Sole brilla!». E rivolgendosi a Frodo disse: «Addio, Amico di Elfi, buon viaggio e buona fortuna! È stato un incontro gioioso!».

Ma Frodo non trovò parole per rispondere. S’inchinò profondamente, quindi saltò in groppa e, seguito dai suoi amici, procedette adagio giù per il lieve pendio dietro la collina. La casa di Tom Bombadil e la valle e la Foresta scomparvero alla vista. L’aria diventò più calda nel vallone tra le mura verdi dei due colli, e il profumo dell’erba più dolce e intenso. Voltandosi, quando ebbero raggiunto il fondo dell’avvallamento, videro in lontananza Baccador delinearsi contro il cielo, piccola ed esile e simile a un fiore smagliante: era in piedi immobile, e li guardava, con le braccia tese verso di loro. La sua voce risuonò limpida e soave per l’ultima volta mentre, agitando la mano, scompariva dietro la collina.

* * *

Il sentiero serpeggiava sul fondo del vallone, aggirando i piedi di un ripido colle e giungendo in una valle più profonda e più ampia, inerpicandosi poi sulle creste di varie colline, scendendo lungo chine e declivi, risalendo versanti scoscesi, tuffandosi in altre valli verdeggianti per poi scalare i fianchi di nuove montagnole. Non vi erano alberi o corsi d’acqua in vista: la campagna era ricoperta di un’erba bassa e morbida, e immersa in un pacifico silenzio interrotto soltanto dal sussurro della brezza sulle creste e dalle romite grida di uccelli raminghi. Mentre avanzavano, il sole era salito alto in cielo e faceva caldo. Ad ogni nuova cresta che scalavano, la brezza pareva diminuire. Quando intravidero di nuovo il paesaggio a occidente, la Foresta lontana sembrava fumare, come se dolce e silente la pioggia del giorno precedente stesse evaporando da foglie, erbe e radici. Là ove la vista si perdeva, un’ombra simile a un’oscura foschia si confondeva con il cielo blu intenso, caldo e pesante come un coperchio.

Verso mezzogiorno giunsero sulla sommità ampia e piatta di una collina, simile a un piatto piano incorniciato da un bordo verde. Non c’era alito di vento e il cielo sembrava sfiorare le loro teste. Cavalcarono fino all’altra estremità per guardare verso nord. E la vista li rinfrancò, poiché capirono di aver percorso più strada di quanto non pensassero. Certo, l’idea che potevano farsi delle distanze era vaga e ingannevole, ma non vi era alcun dubbio che i Tumuli stavano per finire. Una lunga valle serpeggiava verso nord ai loro piedi, infilandosi poi tra due ripide creste. Al di là sembrava non ci fossero più colline. Dritto davanti a loro scorsero una lunga linea scura e indistinta. «È un filare di alberi», disse Merry, «e dev’essere senz’altro la Via. Per miglia e miglia a est del Ponte sul Brandivino è fiancheggiata da alberi, che alcuni sostengono siano stati piantati in tempi remoti».

«Splendido!», esclamò Frodo. «Se proseguiamo col ritmo di questa mattina, saremo lontani dai Tumuli prima del calar del sole, e potremo cercarci un comodo asilo per la notte». Ma mentre parlava, il suo sguardo errò verso est, ed egli si accorse che da quella parte le colline erano alte e dominavano minacciose, alcune inghirlandate da corone verdeggianti, altre irte di pietre che puntavano verso l’alto come zanne appuntite da verdi gengive.

L’immagine era inquietante, ed essi le voltarono le spalle ritornando verso il centro dello spiazzo. Nel bel mezzo si ergeva un’unica pietra, alta sotto il sole. La sua massa informe non proiettava alcun’ombra; eppure pareva carica di significato, come un punto di riferimento, o un dito protettore, o piuttosto indicatore. Ma essi erano affamati, e il sole splendeva ancora nell’impavido meriggio: si sedettero appoggiando la schiena contro il lato est della pietra, che era fresca, come se il sole non avesse il potere di riscaldarla; ma in quel momento la sensazione era piacevole. Consumarono abbondanti cibi e bevande, facendo la miglior colazione all’aria aperta che si possa desiderare: le vettovaglie provenivano infatti tutte da «giù sotto il Colle», e Tom li aveva provvisti di copiose scorte alimentari. I pony vagavano liberi sull’erba.

* * *

La cavalcata rapida attraverso le colline, l’abbondante colazione, il calore del sole di mezzogiorno, il profumo dell’erba, lo star comodamente seduti un po’ troppo a lungo, con le gambe distese e gli occhi rivolti verso il cielo sereno sono forse fattori sufficienti a spiegare ciò che avvenne. Il fatto è che improvvisamente si svegliarono inquieti e ansiosi da un sonno che non si erano affatto ripromessi di fare. La pietra era gelida e proiettava verso oriente una pallida ombra che li copriva. Il sole, di un giallo pallido e slavato, occhieggiava attraverso la nebbia; a nord, a sud e ad est, la nebbia era fitta, fredda e bianca. L’aria era silenziosa, pesante e umida. I pony stavano in piedi, uno accanto all’altro, con la testa bassa.

Gli Hobbit saltarono in piedi allarmati, e corsero al bordo occidentale. Scoprirono di essere in un’isola in mezzo a un mare di nebbia. E mentre guardavano angosciati il sole del tramonto, lo videro tuffarsi davanti ai loro occhi fra i bianchi flutti, e una fredda ombra grigia incominciò a diffondersi da est. La nebbia s’inerpicò su per le pendici, li scavalcò, li ricoprì, dilatandosi sulla testa degli Hobbit sino a formare un soffitto: erano prigionieri in una gabbia di nebbia al centro della quale si ergeva la pietra.

Ebbero l’impressione che una trappola si chiudesse intorno a loro, ma non si persero del tutto d’animo. Ricordavano ancora l’immagine ricca di speranza della Via alberata e sapevano in che direzione si trovava. In tutti i casi, tale era adesso l’antipatia e l’ostilità che provavano per quella specie di catino, che l’idea di rimanervi anche un solo attimo non li sfiorò nemmeno. Rifecero i fagotti con tutta la velocità delle loro dita infreddolite e anchilosate.

Dopo pochi minuti stavano già conducendo i pony al di là del bordo dello spiazzo, e giù per il lungo pendio nord del colle dentro il mare di nebbia. Man mano che scendevano l’aria si faceva più fredda e più umida e sulle loro fronti gelide i capelli gocciolavano scomposti. Arrivati in fondo sentirono tanto freddo che furono costretti a fermarsi per prendere i mantelli e i cappucci nei quali si imbacuccarono e che poco dopo sarebbero stati ricoperti di gocce grigie. Quindi montarono nuovamente in groppa e proseguirono lenti, su e giù per le asperità del terreno. Si dirigevano alla meno peggio verso l’apertura tra le due creste scoscese, all’estremità nord della lunga valle che avevano veduto la mattina. Una volta attraversata quella specie di passo, avrebbero dovuto soltanto proseguire in linea retta per raggiungere prima o poi la Via. Non osavano formulare altri pensieri, eccetto forse una vaga speranza che al di là dei Tumuli la nebbia sparisse.

* * *

La loro andatura era molto lenta. Camminavano uno dietro l’altro per evitare di perdersi e di vagare in direzioni opposte, e Frodo apriva il varco. Sam veniva immediatamente dietro di lui, seguiva Pipino, e infine Merry. La valle sembrava estendersi all’infinito. Improvvisamente Frodo vide qualcosa che lo rincuorò: davanti a loro un contorno oscuro si delineava attraverso la nebbia; si resero conto che stavano finalmente avvicinandosi al passaggio tra le due creste, al cancello nord dei Tumulilande. Se riuscivano ad attraversarlo, erano salvi.

«Coraggio! Seguitemi!», gridò voltandosi indietro e accelerando il passo. Ma la sua speranza si tramutò presto in inquietudine e angoscia. Le macchie scure diventarono più scure ma anche più piccole, e improvvisamente davanti a lui giganteggiarono torve e leggermente inclinate verso l’interno, come pilastri di una porta senza architrave, due immense pietre erette.

Non ricordava di averne viste nella valle, guardando giù dalla sommità del colle, quella mattina. Prima di rendersi conto di ciò che stava facendo, si trovò in mezzo ad esse, e l’oscurità sembrò piombargli intorno. Il suo cavallo si mise a sbuffare e a indietreggiare, quindi s’impennò, scaraventandolo a terra. Voltandosi, Frodo si accorse di essere solo: gli altri non l’avevano seguito.

«Sam!», chiamò. «Pipino! Merry! Venite! Perché non mi seguite?».

Ma il suo richiamo rimase senza risposta. Fu colto dal panico, e tornò indietro correndo fra le due pietre e gridando disperatamente: «Sam! Sam! Merry! Pipino!». Il cavallo prese la fuga attraverso la nebbia e scomparve. Gli parve di sentire un richiamo giungere da molto lontano: «Ehi! Frodo! Froooodo!». Veniva da est, ossia dalla sua sinistra, mentre in piedi sotto le grandi pietre scrutava invano le infide tenebre. Si lanciò in direzione della voce, e si avvide di doversi inerpicare su per la pendice scoscesa di una collina.

Mentre si arrabattava per salire, chiamò una seconda volta, e poi di nuovo, ripetutamente, sempre più costernato e sfinito; per un certo tempo non udì risposta, ma infine, debole, lontanissimo e dall’alto giunse un urlo. «Frodo! Frooooodo!», strillavano le voci affogate dalla nebbia. E poi un grido come aiuto! aiuto! aiuto! ripetuto più volte, che finì con un ultimo aiuto! seguito da un lungo lamento interrotto bruscamente. Si precipitò inciampando e cadendo verso le grida con tutta la rapidità che le sue gambe spossate gli consentivano; ma la luce se n’era ormai andata del tutto, e la notte cupa lo intrappolava, stringendolo come in una morsa: era assolutamente impossibile orientarsi. Gli sembrava di scalare, salire, inciampare all’infinito.

La diversa pendenza del terreno sotto i suoi piedi fu l’unico indizio a segnalargli di essere finalmente giunto sulla sommità del colle o della cresta. Era sfinito e sudava, pur sentendosi congelato. Il buio era pesto.

«Dove siete?», invocò, al colmo della disperazione.

* * *

Non ebbe risposta. Rimase immobile, con le orecchie tese, scrutando le tenebre. Si rese improvvisamente conto che faceva terribilmente freddo e che lassù il vento si era messo a soffiare, ed era un vento gelido. Il tempo stava cambiando. Brandelli e lembi di tetra nebbia gli passavano silenziosamente accanto. Il suo alito pareva fumo e l’oscurità era meno fitta e opprimente. Guardò verso l’alto e si accorse con sorpresa che alcune pallide stelle stavano spuntando sopra di lui fra strascichi di nubi e di nebbia che turbinavano vorticosamente contro il cielo. Il vento incominciò a fischiare nell’erba.

D’un tratto gli parve d’udire un grido soffocato e si mise ad avanzare verso di esso; mentre camminava la nebbia fu spazzata via e il cielo stellato apparve limpido e scoperto. Con uno sguardo capì di trovarsi sulla sommità tonda di una collina che doveva aver scalato dal lato nord, poiché adesso era rivolto verso sud. Da est soffiava impetuoso il vento glaciale. Alla sua destra s’innalzava, delineandosi contro il chiarore delle stelle occidentali, una fosca forma nera. Era un grande tumulo.

«Dove siete?», gridò ancora una volta, spaventato e incollerito al tempo stesso.

«Qui!», disse una voce fredda e profonda che sembrò uscire dalla terra. «Ti sto aspettando!».

«No!», disse Frodo; ma non riuscì a fuggire. Le sue gambe cedettero ed egli cadde intontito. Non successe niente e non vi fu alcun rumore. Tremante, guardò verso l’alto, in tempo per vedere una figura alta e scura fare ombra alle stelle. Essa si chinò su di lui. Gli parve di scorgere due occhi estremamente freddi nei quali l’unica cosa viva era una fioca luce proveniente da molto lontano. Quindi una morsa più forte e più fredda dell’acciaio l’afferrò, congelandogli le ossa. Non ricordò più niente.

* * *

Quando riprese i sensi, ci volle qualche tempo prima che riuscisse a rammentare altro oltre il senso di panico che l’aveva sopraffatto. Poi all’improvviso capì di essere prigioniero e di non avere scampo: era in un tumulo. Uno Spettro dei Tumuli l’aveva afferrato, soggiogandolo probabilmente con uno di quegli abominevoli sortilegi di cui parlavano le misteriose leggende. Non osava muoversi e rimase lì disteso come si trovava: supino su una fredda pietra, con le mani incrociate sul petto.

Benché la sua paura fosse così grande che pareva formar parte integrante dell’oscurità che lo circondava, si sorprese a pensare a Bilbo Baggins e alle sue storie, alle loro lunghe passeggiate per i viottoli della Contea, alle interminabili conversazioni su strade e avventure. C’è un seme di coraggio nascosto (a volte molto profondamente, bisogna dire) nel cuore dell’Hobbit più timido e ciccione, un seme che qualche pericolo fatale farà germogliare. Frodo non era né molto grasso, né molto timido; anzi, benché egli stesso non lo sapesse, Bilbo (ed anche Gandalf) l’aveva sempre considerato il miglior Hobbit della Contea. Credette di esser giunto al termine della sua avventura, una fine tragica e terribile, ma il pensiero gli infuse coraggio. Sentì i suoi muscoli tendersi e irrigidirsi, come pronti al balzo finale: non era più inerte come una vittima senza scampo.

Mentre giaceva per terra, riflettendo e raccogliendo le proprie forze, si rese conto d’un tratto che l’oscurità si stava lentamente sbiadendo e che una pallida luce verdolina si diffondeva intorno a lui. In un primo momento essa non gli fu di alcun aiuto per scoprire in qual posto si trovasse, poiché sembrava emanare dal suo corpo e dal terreno intorno e non aveva ancora raggiunto le pareti o il soffitto. Si voltò e vide, nel freddo chiarore, distesi accanto a lui, Sam, Pipino e Merry.

Erano anch’essi supini, ed i loro volti pallidi come la morte; portavano abiti bianchi. Tutt’intorno erano ammonticchiati dei tesori, d’oro probabilmente, ma che in quella luce parevano solo freddi e ripugnanti. Le loro teste erano cinte da preziosi cerchietti, portavano catene d’oro alla vita e alle dita numerosi anelli. Vi erano, coricate al loro fianco, delle spade, e ai loro piedi giacevano degli scudi. Ma un’unica spada sguainata posava sui loro tre colli.

* * *

Improvvisamente s’innalzò un canto, come un freddo mormorio che saliva e scendeva. La voce sembrava lontanissima e terribilmente lugubre, a volte acuta e stridula, a volte simile a un roco lamento proveniente dagli abissi della terra. Dal flusso incoerente e deforme dei suoni tristi ma orribili si riusciva di tanto in tanto a ricollegare gruppi di parole e lembi di frasi: parole empie, feroci, spietate, inesorabili e dolenti. La notte malediceva il giorno che la soppiantava, e il freddo imprecava contro il bramato caldo. Frodo era raggelato fino al midollo. Dopo qualche tempo il canto diventò più chiaro, e con la morte nel cuore si accorse che si era trasformato in un incantesimo:

Fredda la mano ed il cuore e le ossa,

Freddo anche il sonno è nella fossa:

Mai vi sarà risveglio sul letto di pietra,

Mai prima che muoia il Sole e la Luna tetra.

Nel vento nero le stelle anch’esse moriranno,

Ed essi qui sull’oro ancora giaceranno,

Finché l’oscuro signore non alzerà la mano

Sulla terra avvizzita e sul mare inumano.

Udì dietro di sé un cigolio e un raspamento. Alzandosi sul gomito, riuscì a vedere nella pallida luce che si trovavano in una sorta di corridoio, curvo dietro le loro teste. Da dietro la curva, un lungo braccio brancicava, le cui lunghe dita avanzavano verso Sam, che era il più vicino, e verso l’impugnatura della spada posata su di lui.

Dapprima Frodo ebbe la sensazione di essere stato veramente pietrificato dall’incantesimo, poi un pazzo desiderio di fuga s’impadronì di lui. Si domandò se, infilando l’Anello, sarebbe riuscito a eludere la sorveglianza dello Spettro dei Tumuli e a trovare qualche via d’uscita. Si vide correre libero sull’erba dei prati, addolorato della perdita di Merry, di Sam e di Pipino, ma vivo e vegeto. Gandalf avrebbe dovuto riconoscere che non c’era nient’altro da fare.

Ma il coraggio che si era destato in lui era ormai ingigantito: non avrebbe abbandonato i suoi amici in questo frangente. Esitò un istante, frugando in tasca, ma poi riuscì di nuovo a vincersi, proprio mentre la mano stava per sfiorarli. Prese allora una decisione repentina: afferrò la sciabola posata accanto a lui e si inginocchiò, curvandosi sui corpi dei suoi compagni. Quindi con tutte le forze vibrò un terribile colpo contro il braccio brancolante, all’attaccatura del polso: la mano si staccò, ma allo stesso tempo la sciabola si frantumò fino all’elsa. Si udì uno strillo stridulo e la luce svanì. Nell’oscurità si alzò un ringhio rabbioso.

Frodo cadde in avanti su Merry, la cui faccia era gelida. Tutt’a un tratto gli tornò alla mente, dopo che la nebbia e l’angoscia l’avevano cacciato via, il ricordo della casa ai piedi del Colle, e di Tom cantante e salterellante. Si rammentò della strofa che Tom aveva insegnato loro. Con un filo di voce disperata intonò il motivo: Oh! Tom Bombadil! e, pronunziando quel nome, parve rinvigorirsi e il suo canto divenne pieno e vivace, facendo rimbombare la stanza come un suono di tamburo o di tromba.

Oh! Tom Bombadil, Tom Bombadillo!

Nell’acqua, bosco e colle, tra il salice e il giunchiglio,

Con fuoco, sole e luna, ascolta il mio richiamo!

Vieni, Tom Bombadil, del tuo aiuto abbisogniamo!

Seguì un profondo silenzio, durante il quale Frodo sentiva i battiti del suo cuore. Dopo un momento che parve un’eternità, udì distintamente, ma molto lontana, come proveniente dal terreno o filtrata da mura spesse, una voce che rispose cantando:

Il vecchio Tom Bombadil è un tipo allegro,

Porta stivali gialli ed una giacca blu cielo.

Nessuno l’ha mai preso, perché Tom è il Messere;

Più potenti i suoi canti, e più veloci i suoi piedi.

Ci fu un gran fragore di valanga, e parve che pietre rotolassero e cadessero. La luce si diffuse tutt’intorno, la vera luce, quella pura del giorno. Un’apertura simile a una porta apparve all’estremità della stanza oltre i piedi di Frodo, e la testa di Tom (con cappello, piuma e tutto il resto) si delineò contro la luce del sole che si levava rosso e incandescente alle sue spalle. I raggi inondarono il pavimento e il viso dei tre Hobbit che giacevano accanto a Frodo. Erano tuttora immobili, ma il pallore mortale era scomparso: adesso parevano soltanto profondamente addormentati.

Tom si tolse il cappello, curvandosi per penetrare nella tetra stanza e cantando:

Va via, vecchio Spettro dei Tumuli, sparisci rapido al sole!

Diradati come la fredda nebbia, ululando più triste del vento,

Lontano dalle montagne, nelle terre squallide e brulle!

Non tornar mai più qui! Lascia vuoto il tuo tumulo!

Sii perso e dimenticato, più buio dell’oscurità,

Là dove apriranno i cancelli quando il mondo corretto sarà!

Quando ebbe pronunciato le ultime parole, si udì un grido e il lato della stanza che dava sull’interno del tumulo crollò con gran fragore. Seguì un lungo strillo acuto e lamentoso, che si smorzò spegnendosi in una lontananza imprecisata; e poi il silenzio.

«Vieni, amico Frodo!», disse Tom. «Usciamo da qui, andiamo sull’erba fresca! Aiutami a portarli».

Unendo le loro forze trascinarono fuori Merry, Pipino e Sam. Quando Frodo tornò per l’ultima volta nel tumulo, gli parve di vedere una mano amputata che si dimenava ancora, come un ragno ferito, su un monticello di terra. Dopo che egli fu nuovamente in superficie, Tom entrò, seguito da un gran calpestare, scalpitare e schiacciare. Quando finalmente uscì, portava a braccia un enorme carico di tesori: oggetti d’oro, d’argento, di rame, di bronzo, un’infinità di perle, gemme e gioielli. Si issò fuori dall’apertura verde del tumulo e li posò tutti sulla cima, al sole.

Rimase in piedi, col suo cappello in mano e il vento che gli muoveva i capelli, guardando i tre Hobbit che giacevano supini ai suoi piedi sull’erba del lato ovest della montagnola. Alzò la mano destra, e con una voce limpida e autoritaria pronunciò le seguenti parole:

Svegliatevi, allegri ragazzi! Svegliatevi al mio richiamo!

Siano caldi il cuore e le membra! La gelida pietra è caduta!

L’oscura porta è spalancata; la mano morta è rotta.

La Notte è stata cacciata, ed il Cancello vi aspetta!

Con immensa gioia di Frodo, gli Hobbit si mossero, stiracchiarono le braccia, si strofinarono gli occhi e infine improvvisamente balzarono su. Guardarono stupefatti intorno a sé, prima Frodo e poi Tom che giganteggiava in cima al tumulo sulle loro teste; finalmente i loro sguardi meravigliati si posarono sui fini panni bianchi che li ricoprivano, sulle corone d’oro pallido e le cinture che li cingevano, e sui gioielli che scintillavano tutt’intorno.

«Cos’è tutto questo?», esclamò Merry, sentendosi il cerchietto d’oro scivolare su di un occhio. Ma poi s’interruppe e un’ombra gli oscurò il viso mentre chiudeva le palpebre. «Certo, ora ricordo!», disse. «Gli uomini di Carn Dum ci hanno assaliti questa notte, e noi siamo stati sconfitti. Ah! la lancia nel mio cuore!». Si tastò il petto. «No! No!», disse, aprendo gli occhi. «Che sto dicendo? È stato un sogno. Dove sei stato, Frodo?».

«Credevo di essermi smarrito», rispose Frodo; «ma non voglio parlarne più. Pensiamo invece a quel che dobbiamo fare adesso! Proseguiamo la marcia!».

«Mascherati in questo modo, signore?», disse Sam. «Dove sono andati a finire i miei vestiti?». Scaraventò per terra cerchietto, cintura e anelli, volgendo tutt’intorno il suo sguardo smarrito, come se si aspettasse di trovare sull’erba, da qualche parte, mantello, giacca, calzoncini e altri indumenti hobbit.

«Non ritroverai i tuoi vestiti», disse Tom balzando giù dal tumulo e ridendo mentre danzava intorno a loro sotto i raggi del sole. Nessuno avrebbe mai detto che qualcosa di terribile e di spaventoso era avvenuto poco prima; l’orrore e il panico scomparvero dai loro cuori, guardando le sue piroette e il vivace bagliore dei suoi occhi.

«Cosa intendi dire?», chiese Pipino, guardandolo metà perplesso e metà divertito. «E perché no?».

Ma Tom scuoté il capo, dicendo: «Avete ritrovato voi stessi, sottratti alle acque profonde. I vestiti non sono che una piccola perdita, quando hai scampato il pericolo, e non sei annegato. Siate felici, graziosi amici, e lasciate che la cocente luce del sole riscaldi adesso il vostro cuore e le vostre membra! Toglietevi di dosso questi gelidi panni! Correte nudi sull’erba, mentre Tom va a cacciare per voi!».

Saltellò giù per la collina, fischiettando e chiamando. Seguendolo con lo sguardo, Frodo vide che correva verso sud, lungo il vallone tra la loro collina e la seguente, fischiettando sempre e gridando:

Ehi! Ehi! Venite qui! Dove girovagate?

Su, giù, qui, lì, vicino oppur Lontano?

Orecchie-aguzze, Saggio-naso, Coda-fischio e Zotico,

Amico Calze-bianche, e vecchio Grassotto Bozzolo!

Così cantava, correndo veloce, lanciando il cappello in aria e prendendolo al volo, finché scomparve dietro una falda delle colline; ma i suoi Ehi! Ehi! Venite qui! continuarono a risuonare, portati dal vento che aveva girato, soffiando ora verso sud.

* * *

L’aria stava diventando di nuovo molto calda. Gli Hobbit fecero ciò che Tom aveva detto loro, e scorrazzarono un bel po’ sull’erba. Quindi si sdraiarono al sole, godendone il calore come esseri improvvisamente trasportati da un inverno glaciale in un clima temperato, o come persone che dopo una lunga malattia e un’interminabile degenza si svegliano una mattina, accorgendosi di stare perfettamente bene e che la vita davanti a loro è ancora piena di gioia e di speranze.

Quando finalmente Tom ritornò, si sentivano di nuovo forti (e affamati). Riapparve prima il suo cappello, all’altra estremità del colle, seguito da una fila di sei pony obbedienti e disciplinati: i loro cinque più un altro. L’ultimo era palesemente il vecchio Grassotto Bozzolo: era più grande, più robusto, più grosso (oltre che più vecchio) dei loro. Merry, al quale appartenevano gli altri, non aveva mai dato loro simili appellativi, ed essi risposero per il resto della vita ai nuovi nomi affibbiati loro da Tom. Questi li chiamò uno per uno, ed essi scalarono la cima, fermandosi in fila. Tom fece agli Hobbit un grande inchino.

«Eccovi i pony!», disse. «A volte dimostrano d’aver più buonsenso di voi Hobbit girovaghi: e ce l’hanno nel naso. Fiutano il pericolo che incombe, e nel quale voi marciate diritto; e se corrono per mettersi in salvo, corrono nella direzione giusta. Dovete perdonarli: benché vi siano fedeli con tutto il cuore, non sono stati fatti per affrontare il pericolo degli Spettri dei Tumuli. Ma eccoli nuovamente tutti qui con voi, portando ancora in groppa i loro fardelli!».

Merry, Sam e Pipino poterono così indossare dei vestiti di ricambio che avevano a portata di mano; presto sentirono un caldo terribile, giacché erano costretti a portare indumenti più pesanti, preparati in previsione dell’inverno.

«Da dove spunta fuori il vecchio Grassotto Bozzolo?», chiese Frodo.

«È mio», disse Tom. «Il mio amico quadrupede, che però non monto spesso, e che va errando a volte molto lontano, libero per le colline. Quando i tuoi pony sono stati da me, hanno conosciuto il mio vecchio Bozzolo, e l’hanno fiutato nella notte, correndogli veloci incontro. Sapevo che lui avrebbe avuto cura di loro e con le sue sagge parole avrebbe disperso tutti i loro timori. Ma ora, mio festoso Bozzolo, il vecchio Tom ti salterà in groppa. Ehi, amici! Tom viene con voi, per condurvi sani e salvi fino alla strada; egli ha dunque bisogno di un pony. Non è mica facile chiacchierare con degli Hobbit a cavallo, mentre stai cercando di trotterellare accanto a loro sulle tue gambe!».

Gli Hobbit appresero con grande gioia la decisione di Tom e lo ringraziarono a non finire; ma Tom rise, dicendo che loro erano tanto abili nell’arte dello smarrirsi, che non si sarebbe sentito tranquillo finché non li avesse visti al sicuro oltre i confini della sua terra. «Ho tante cose da fare», disse: «costruire e cantare, parlare e camminare, e occuparmi della campagna. Tom non può star sempre accanto alle porte aperte e alle fessure dei salici. Tom deve badare alla sua casa, e Baccador aspetta».

* * *

Doveva essere ancora piuttosto presto, a giudicar dal sole, una via di mezzo tra le nove e le dieci: gli Hobbit pensarono che in ogni modo era l’ora di mangiare. Il loro ultimo pasto era la colazione accanto alla pietra fredda, la mattina precedente. Mangiarono il resto delle provviste di Tom, destinato alla cena del giorno prima, e qualche altra cosa che Tom aveva portato con sé. Non fu un lauto pasto, tenendo conto della natura hobbit e delle circostanze, ma essi si sentirono molto rinfrancati. Mentre mangiavano, Tom tornò sul tumulo a esaminare i tesori. Riunì la maggior parte in un mucchio che brillava e luccicava sull’erba al sole. Comandò loro di restare lì, «liberi d’esser presi da chiunque, bestie, uccelli, Uomini o Elfi, e ogni gentile creatura»: questo era infatti il modo per rompere l’incantesimo del Tumulo e allontanare per sempre i freddi e tetri Spettri. Per sé scelse dal mucchio una spilla incastonata di pietre azzurre dalle infinite sfumature, pari a quelle dei fiori di lino o delle ali di farfalla. La osservò a lungo, scuotendo la testa, come immerso in qualche Lontano e vago ricordo, e finalmente disse:

«Ecco un grazioso gingillo per Tom e per la sua dama! Dolce e soave colei che tanto tempo fa portò questo gioiello sulla sua spalla. Sarà Baccador a portarlo, adesso, e noi non la dimenticheremo mai!». Per ognuno degli Hobbit scelse un pugnale lungo e acuminato, a forma di foglia, di splendida fattura, intarsiato di serpenti oro e rossi. Le lame scintillarono quando li sfoderò e le pietre fiammeggianti parvero incastonate in uno strano metallo, leggero, forte e flessibile allo stesso tempo. Per via di qualche virtù recondita dei foderi, o dell’incantesimo dei Tumuli, le lame non erano state alterate dal tempo, smaglianti e sfolgoranti al sole.

«Vecchi coltelli sono lunghi come spade per gli Hobbit», disse. «Lame taglienti e punte acuminate sono una buona cosa per la gente della Contea che va peregrinando a est, a sud, o lontano nel pericolo e nell’oscurità». Disse loro che quei pugnali erano stati forgiati tanti anni addietro dagli Uomini dell’Ovesturia, nemici dell’Oscuro Signore, ma sopraffatti dal malvagio re di Carn Dum nella Terra di Angmar.

«Pochi sono coloro che li ricordano ancora», mormorò Tom, «eppure ve ne sono ancora che vanno errando, figli di re obliati che vagano in solitudine, e proteggono dalle cose maligne la gente inerme e sbadata».

Gli Hobbit non capirono il significato delle sue parole, ma esse tracciarono nelle loro menti la visione di un immenso spazio di tempo remoto, simile a una vasta pianura ombrosa sulla quale camminavano a gran passi figure di Uomini alti e foschi e con spade sfolgoranti: uno di essi aveva una stella in fronte. Ma la visione svanì e gli Hobbit si ritrovarono nel mondo illuminato dai raggi del sole. Era ora di rimettersi in cammino. Si prepararono, imballando i fagotti e caricandoli sui cavalli. Appesero alla cintura di cuoio, coperta dalla giacca, la loro nuova arma, sentendosi molto goffi e impacciati, e domandandosi se sarebbe servita a qualcosa. Non avevano mai considerato il combattimento come una delle probabili avventure della loro fuga.

* * *

Finalmente si avviarono. Dopo aver condotto i pony ai piedi della collina, saltarono in groppa e partirono al trotto attraverso la valle. Voltandosi videro la cima del Tumulo in alto sulla collina, ove la luce del sole sull’oro avvampava come una fiamma gialla. Quindi aggirarono una cresta dei Tumulilande, e l’immagine scomparve dalla loro vista.

Benché Frodo scrutasse da tutte le parti, non vide alcun segno delle grandi pietre che si ergevano come i pilastri di una porta, e dopo poco giunsero al cancello nord, che attraversarono velocemente, sbucando nella vasta pianura. Il viaggio fu molto allegro, con Tom Bombadil che trottava vispo e giulivo accanto o davanti a loro, sul suo Grassotto Bozzolo che si muoveva molto più rapidamente di quanto promettessero le sue dimensioni. Tom cantò gran parte del tempo, ma erano parole senza senso, o qualche strano linguaggio ignoto agli Hobbit, forse un antico linguaggio i cui vocaboli esprimevano solo gioia e letizia.

Avanzavano ad andatura sostenuta, ma si accorsero presto che la Via era più lontana di quanto immaginassero. Anche senza il contrattempo della nebbia, il sonnellino pomeridiano del giorno precedente avrebbe impedito loro di raggiungerla prima che si facesse notte. La linea scura che avevano visto non era una fila di alberi, ma una parete di cespugli che fiancheggiava un profondo fossato, al di là di una ripida scarpata. Tom disse che era una volta il confine di un reame, ma in tempi molto remoti. Parve loro che essa gli rammentasse qualcosa di molto triste, tanto che non volle parlarne più.

Scesero in fondo al fossato e, dopo aver scalato la parete opposta ed essere passati da una breccia nel muro di cespugli, Tom puntò dritto a nord, poiché avevano leggermente deviato verso ovest. La campagna era aperta e piuttosto pianeggiante, ed essi accelerarono l’andatura, ma il sole era già basso nel cielo quando finalmente scorsero un filare di alti alberi: erano giunti alla Via, dopo tante avventure inaspettate e perigliose. Percorsero al galoppo le ultime centinaia di passi e si arrestarono sotto le lunghe ombre degli alberi. Si trovavano sulla cima di un declivio e la Via, pallida e indistinta, a mano a mano che l’oscurità s’infittiva, serpeggiava ai loro piedi. In quel punto preciso la sua direzione era sud-ovest nord-est ed alla loro destra scendeva piuttosto ripidamente in un ampio bacino. Era piena di fosse, rigagnoli e pozzanghere, segni della recente pioggia.

Cavalcarono giù per il declivio e giunti in basso si guardarono tutt’intorno. L’immobilità e il silenzio regnavano assoluti. «Ebbene, finalmente l’abbiamo ritrovata!», esclamò Frodo. «Non penso che avremo perso più di due giorni con la mia scorciatoia attraverso la Foresta! E forse sarà un ritardo utile, se ha fatto perder loro le nostre tracce».

Gli altri si voltarono a guardarlo. La paura dei Cavalieri Neri si proiettò nuovamente su di loro come un’ombra tetra. Da quando erano penetrati nella Foresta, non avevano avuto altro pensiero che quello di tornare sulla Via. Soltanto adesso che si allungava ai loro piedi, si rammentarono del pericolo che li perseguitava e che molto probabilmente stava là in agguato. Guardarono ansiosi in direzione del sole che tramontava, ma la Via color ruggine era del tutto vuota.

«Credi», chiese Pipino esitante, «credi che sia possibile che c’inseguano, questa notte?».

«No, spero non questa notte», rispose Tom Bombadil; «e forse nemmeno domani. Ma non fidatevi delle mie congetture, perché non ho certezza alcuna. La mia scienza e il mio potere si affievoliscono col procedere verso est. Tom non è Messere dei Cavalieri della Terra Nera, che si estende molto remota da questo paese».

Ciò nonostante gli Hobbit avrebbero ardentemente desiderato che egli li accompagnasse: nessuno meglio di lui avrebbe saputo come comportarsi con i Cavalieri Neri. Fra poco si sarebbero avventurati in paesi del tutto sconosciuti, nominati soltanto dalle più vaghe, lontane e misteriose leggende della Contea; alla luce del crepuscolo sentirono improvvisamente una grande nostalgia della loro casa. Una profonda solitudine e un senso di smarrimento s’impadronirono della loro anima. Rimasero in piedi, silenziosi, restii all’idea della separazione definitiva, finché a poco a poco si resero conto che Tom li stava salutando, augurando loro buon viaggio e raccomandando di farsi cuore e di cavalcare a notte fonda senza fermarsi.

«Per oggi ancora Tom vi darà un buon consiglio, dopo di che sarà la vostra buona stella ad accompagnarvi e a guidarvi. Percorse tre O quattro miglia sulla Via, giungerete in un villaggio di nome Brea, ai piedi del Colle Brea, le cui porte affacciano verso occidente. Troverete una vecchia locanda chiamata Il Puledro Impennato. Omorzo Cactaceo ne è il valente proprietario. Vi potrete passare la notte, e domattina ripartire sul presto. Siate coraggiosi, ma cauti! Cavalcate verso il destino che vi attende con cuore intrepido e allegro!».

Lo pregarono di accompagnarli almeno fino alla locanda e di brindare con loro un’ultima volta, ma egli rifiutò ridendo e disse loro:


«Qui è la fine della terra di Tom: egli non passerà il confine.

Tom ha da badare alla sua casa, e Baccador è lì che lo aspetta!»


Quindi si voltò e, calcandosi in testa il cappello, con un balzo fu in groppa al vecchio Bozzolo. Cavalcò su per il declivio e scomparve nel crepuscolo cantando.

Gli Hobbit si arrampicarono anch’essi sulla cima del pendio e lo guardarono allontanarsi finché non svanì alla vista.

«Sapeste quanto mi dispiace dover lasciare Messer Bombadil!», esclamò Sam. «Non c’è che dire, è proprio una macchietta! Mi sa tanto che potremo far molta e molta strada senza incontrare un tipo così bizzarro. Ma vi confesso che mi farà un gran piacere la vista di questo Puledro Impennato del quale parlava. Spero che rassomigli al Drago Verde di casa nostra! Che razza di gente c’è a Brea?».

«Ci sono Hobbit a Brea», disse Merry, «ma c’è anche della Gente Alta. Credo che non dovremmo sentirci troppo spaesati. Il Puledro Impennato è un’ottima locanda. La mia gente ci viene di tanto in tanto».

«Sarà quel che volete, anche il miglior posto del mondo», disse Frodo, «ma comunque è fuori dalla Contea. Non vi comportate troppo come se foste a casa vostra! E per favore ricordatevi bene, tutti voi, che il nome Baggins NON dev’essere pronunciato in nessuna circostanza. Se bisogna proprio darmi un nome, mi chiamo signor Sottocolle».

Saltarono di nuovo in groppa ai loro pony e cavalcarono via silenziosamente nel crepuscolo. L’oscurità si diffuse velocemente mentre salivano e scendevano le falde dei colli. Infine videro delle luci brillare in lontananza.

Innanzi a loro si ergeva massiccio il Colle Brea, sbarrando la strada con la sua scura mole che spiccava contro il cielo stellato; ai piedi del suo fianco occidentale si vedevano case rannicchiate di un grosso villaggio. Affrettarono l’andatura dirigendosi verso di esso; il loro unico desiderio era ora di trovare un fuoco e una porta che si frapponesse tra loro e la notte.

CAPITOLO IX ALL’INSEGNA DEL «PULEDRO IMPENNATO»

Brea era il villaggio principale della Terra di Brea, una piccola regione abitata, simile a un’isola in mezzo a un mare di terre deserte. Oltre Brea c’era, dall’altro lato della collina, Staddle e, in una profonda valle leggermente più a est, Conca; infine, ai margini del Bosco Cet, Arceto. Tutt’intorno al Colle Brea e ai borghi si estendeva un paesaggio rurale di campi coltivati e piccoli boschi, largo solo poche miglia.

Gli Uomini di Brea erano castani, ben piantati e piuttosto bassi, di carattere giocondo e indipendente; non dipendevano da altri che da se stessi. Tuttavia i loro rapporti con gli Hobbit, gli Elfi, i Nani e gli altri abitanti del mondo circostante erano più intimi e amichevoli di quanto non fossero (e non siano tuttora) in generale i rapporti abituali alla Gente Alta. Secondo le loto leggende e i loro racconti, essi erano gli abitanti originari e i discendenti dei primi Uomini che emigrarono nella parte occidentale del mondo di mezzo. Pochi erano sopravvissuti ai tumultuosi eventi dei Tempi Remoti, ma quando i Re ritornarono al di qua del Grande Mare, vi trovarono ancora gli Uomini di Brea, i quali vi dimoravano anche quando il ricordo degli antichi Re si era ormai dileguato nell’erba.

In quei giorni nessun altro Uomo aveva ardito installarsi tanto a ovest, o a cento leghe dalla Contea. Ma nelle zone selvagge oltre Brea vi erano misteriosi vagabondi. La gente di Brea li chiamava i Raminghi e ignorava tutto sul loro conto. Erano più alti e più scuri degli Uomini di Brea e si diceva che avessero una vista e un udito eccezionali, e una straordinaria abilità nel comprendere il linguaggio delle bestie e degli uccelli. A seconda delle volte, vagavano verso sud, oppure verso est fino alle Montagne Nebbiose; ma ormai erano rimasti in pochi e si vedevano raramente. Quando spuntavano improvvisamente, portavano notizie di paesi remoti, e raccontavano strane storie di tempi dimenticati che tutti ascoltavano avidamente; ma la gente di Brea non li considerò mai veramente amici.

Vi erano anche parecchie famiglie di Hobbit residenti nella Terra di Brea, che a loro volta sostenevano di essere il più antico nucleo di Hobbit del mondo, fondato molto ma molto tempo prima che il Brandivino fosse attraversato e la Contea colonizzata. La maggior parte viveva a Staddle, benché ve ne fosse qualcuno a Brea stessa, soprattutto sulle pendici più alte della collina, al di sopra delle case degli Uomini. La Gente Alta e la Gente Piccola (come si autodenominavano) erano in rapporti amichevoli, occupandosi ognuno degli affari propri, come loro più garbava, pur considerandosi ambedue a giusto titolo parti essenziali del popolo di Brea. In nessun’altra parte del mondo esisteva questa bizzarra (ma eccellente) combinazione.

La gente di Brea, Alta e Piccola, non viaggiava molto, e si occupava principalmente degli affari dei suoi quattro villaggi. Occasionalmente qualche Hobbit di Brea si recava fino alla Terra di Buck, o al Decumano Est, ma gli Hobbit della Contea visitavano di rado quel piccolo territorio, pur situato a poco più di un giorno di cavalcata dal Ponte sul Brandivino. Qualche rara volta un avventuroso Bucklandese o un Tuc viaggiatore passava una o due notti nella Locanda, ma anche questa era diventata ormai una cosa inconsueta. Gli Hobbit della Contea, riferendosi a quelli di Brea o ad altri che vivevano fuori dei confini, li chiamavano i Profani, e li tenevano in poco conto, considerandoli rozzi e noiosi. Vi erano probabilmente, a quei tempi, più Profani in giro nell’Ovest del Mondo di quanto non immaginasse la gente della Contea. Alcuni erano, senza dubbio, nient’altro che vagabondi, pronti a scavare un fosso in qualsiasi montagnola ed a domiciliarsi lì per un tempo più o meno indeterminato. Comunque sia, nella Terra di Brea gli Hobbit erano perbene e agiati, e non più rustici della maggior parte dei loro lontani parenti della Contea. I tempi in cui c’era un grande andirivieni tra la Contea e Brea erano ancora vivi nella memoria di tutti, e comunque era risaputo che i Brandibuck avevano sangue di Brea nelle vene.

* * *

Il villaggio di Brea comprendeva all’incirca cento case di pietra della Gente Alta, la maggior parte delle quali situata al di sopra della Via, sul fianco della collina, e con le finestre rivolte verso ovest. Da quella parte vi era un profondo burrone che, partendo dalle falde del colle, tracciava un grande semicerchio, e la cui parte interna era chiusa da una fitta siepe. La strada lo attraversava su di un cavalcavia e, nel punto ove bucava la siepe, era sbarrata da un grande cancello. Vi era anche un cancello all’estremità sud, dove la Via usciva dal villaggio. Ambedue le porte venivano chiuse al calar della notte e i guardiani vivevano in piccole casette attigue.

Nel punto ove la Via voltava a destra per aggirare la base del colle, si trovava una grossa locanda. Era stata costruita molto tempo addietro, quando il traffico sulle strade era ancora molto intenso. Brea era infatti anticamente un importante crocevia: un’altra vecchia strada incrociava la Via Est poco dopo il burrone, all’estremità occidentale del borgo, e in passato Uomini e altre genti di varie specie la frequentavano molto. Strano come una Notizia da Brea era un’espressione comune nel Decumano Est, e datava da quei giorni, quando notizie dal Nord, dal Sud e dall’Est convergevano tutte verso la locanda e gli Hobbit della Contea solevano recarvisi spesso ad ascoltare. Ma le Terre del Nord erano ormai da tempo deserte e desolate, e la Via Nord non la si adoperava che di rado: era invasa dall’erba e la gente di Brea la chiamava perciò il Verdecammino.

La Locanda di Brea, comunque, era ancora lì, e l’oste era una persona importante. La sua casa era un luogo d’incontro per tutti coloro che fra gli abitanti, grandi o piccoli, dei quattro villaggi, fossero chiacchieroni, oziosi, curiosi e ficcanasi. Era anche un asilo per i Raminghi e per gli altri vagabondi, e per quei pochi viaggiatori (soprattutto Nani) che, provenienti o diretti alle Montagne, passavano ancora per la Via Est.

* * *

Faceva buio e già risplendevano le stelle, quando Frodo e i suoi compagni giunsero infine all’incrocio con il Verdecammino, avvicinandosi al villaggio. Arrivati al cancello ovest lo trovarono chiuso, ma un uomo era seduto sulla soglia di una delle casette attigue. Saltò in piedi e corse a prendere una lanterna, guardandoli stupefatto attraverso le sbarre del cancello.

«Che volete, e da dove venite?», chiese brusco.

«Siamo diretti alla locanda», rispose Frodo. «Stiamo viaggiando verso est, e non possiamo proseguire oltre questa notte».

«Hobbit! Quattro Hobbit! Non solo ma, a giudicar dall’accento, Hobbit della Contea», disse il guardiano, parlando a bassa voce con se stesso. Li guardò truce per qualche attimo, quindi aprì lentamente il cancello e li lasciò passare.

«Non ci capita spesso di vedere gente della Contea cavalcare di notte per la Via», proseguì, mentre essi sostavano un minuto accanto alla sua porta. «Mi perdonerete se vi chiedo che tipo di affari vi porta a est di Brea! E qual è il vostro nome, s’è lecito saperlo?».

«I nostri nomi e i nostri affari ci appartengono, e questo non è il posto adatto per discuterne», disse Frodo, al quale l’aspetto dell’uomo e il tono della sua voce non ispiravano affatto fiducia.

«I vostri affari sono affari vostri, senza dubbio», ribatté l’uomo, «ma è affar mio porre domande dopo il calar della notte».

«Siamo Hobbit della Terra di Buck, e ci va di viaggiare e di passare la notte qui nella locanda», interloquì Merry. «Io sono il signor Brandibuck. Soddisfatto adesso? Il popolo di Brea soleva un tempo essere garbato con i viaggiatori, o perlomeno così avevo sentito dire».

«Va bene, va bene!», disse l’uomo. «Non volevo mica offendervi! Ma vedrete che non sarà solo il vecchio Harry al cancello a farvi tante domande. C’è gente strana in giro. Se andate al Puledro Impennato troverete altri ospiti».

Augurò loro la buona notte ed essi non dissero più niente; ma Frodo intravide alla luce della lanterna che l’uomo li stava ancora adocchiando sospettosamente. Si chiese perché il guardiano fosse così diffidente, e se qualcuno si era informato delle mosse di un gruppetto di Hobbit. Chissà, forse si trattava di Gandalf? Avrebbe avuto il tempo di arrivare, poiché essi avevano subito un ritardo nella Foresta e nei Tumulilande. Ma nello sguardo e nella voce del guardiano del cancello c’era qualcosa di stranamente inquietante.

L’uomo li seguì un momento con gli occhi, quindi ritornò verso casa. Appena ebbe voltato le spalle, una figura scura scavalcò come un fulmine il cancello, scomparendo nell’ombra della strada del villaggio.

* * *

Gli Hobbit percorsero una leggera salita, oltrepassando qualche casa isolata, e si arrestarono davanti alla locanda. Le case parevano loro grandi e strane. Sam, guardando la locanda, con i suoi tre piani e le numerose finestre, si sentì venir meno. Si era immaginato di dover incontrare giganti più alti degli alberi e altri esseri ancor più terrificanti, prima o poi, durante questo viaggio avventuroso; ma in quel momento l’impressione riportata dal suo primo incontro con gli Uomini e con i loro grandi edifici era più che sufficiente; una conclusione fin troppo cupa e tetra per una giornata così stancante. Vide nella sua mente cavalli neri sellati, in piedi nell’ombra del cortile della locanda, e Cavalieri Neri scrutarli da finestre buie.

«Non avremo mica l’intenzione di passare la notte qui, vero, signore», esclamò. «Poiché ci sono degli Hobbit da queste parti, perché non cerchiamo qualcuno pronto a ospitarci? Ci sentiremmo più a casa nostra».

«Cos’ha la locanda che non va?», disse Frodo. «Ce l’ha raccomandata Tom Bombadil. Vedrai che una volta entrati ci sentiremo più a nostro agio».

Persino dall’esterno la locanda pareva un posto piacevole ad occhi abituati alle costruzioni degli Uomini. Si affacciava sulla Via, e due ali si estendevano sul retro, parzialmente scavate nelle pendici del colle, di modo che le finestre del secondo piano erano a livello col terreno. Un grande arco conduceva al cortile sito tra le due ali e, sotto l’arco, sulla sinistra, si apriva un’ampia porta in cima a qualche scalino. Dalla porta spalancata usciva un flusso di luce. All’arco era appesa una lanterna, sotto la quale oscillava un grande cartello: vi era raffigurato un cavallino bianco che si ergeva sulle zampe posteriori. Sull’architrave della porta si leggeva, dipinta in caratteri cubitali bianchi, la scritta seguente: IL PULEDRO IMPENNATO di OMORZO CACTACEO. Da molte delle finestre più basse la luce giungeva filtrata da spesse tende scure.

Mentre esitavano a entrare, qualcuno all’interno intonò una canzone allegra, seguito da un coro di voci potenti e spensierate. Ascoltarono un attimo quel suono incoraggiante e poi smontarono. La canzone finì fra uno scroscio di risa e di applausi.

Condussero i pony sotto l’arco e li lasciarono nel cortile, quindi salirono i gradini. Frodo camminava avanti e fu sul punto di scontrarsi con un piccolo uomo grasso dalla testa calva e dalla faccia rossa. Portava un grembiule bianco e correva avanti e indietro tra una porta e l’altra, reggendo un vassoio carico di coppe e di bicchieri pieni.

«Potremmo…», incominciò Frodo.

«Un attimo soltanto, per favore!», gridò l’uomo voltandosi mentre scompariva in una babele di voci e in una nuvola di fitto fumo. In un momento fu di nuovo accanto a loro, asciugandosi le mani con il grembiule.

«Buona sera, piccolo signore!», disse inchinandosi. «In che cosa posso esservi utile?».

«Desidereremmo letti per quattro, e stalle per cinque pony, se possibile. Voi siete il signor Cactaceo?».

«Sì, sono io, e di nome mi chiamo Omorzo. Omorzo Cactaceo ai vostri ordini! Venite dalla Contea, nevvero?», disse. Poi improvvisamente si batté la mano contro la fronte, come se cercasse di ricordarsi qualcosa che gli sfuggiva dalla mente. «Hobbit!», esclamò. «Mi fa pensare a qualcosa, ma non saprei dire… Potrei sapere i vostri nomi, signori?».

«Il signor Tuc e il signor Brandibuck», disse Frodo presentando i suoi amici. «E questo è Sam Gamgee. Il mio nome è Sottocolle».

«Ma guarda un po’!», esclamò il signor Cactaceo, facendo schioccare le dita. «Mi è sfuggito di nuovo! Ma me lo ricorderò, non appena avrò un minuto di tempo per pensare. Non so più dove mettere le mani, ma vedrò cosa posso fare per voi. È raro di questi tempi che capiti della gente della Contea, e mi dispiacerebbe che ve ne andaste insoddisfatti. Ma c’è già una tale folla qui dentro questa sera, che non so più che pesci pigliare. Non piove mai, diluvia soltanto, diciamo noi di Brea.

«Ehi! Nob!», vociò. «Dove sei, specie di infingardo trottapiano? Nob!».

«Arrivo, signore! Arrivo». Un Hobbit dall’aria gioconda schizzò fuori da una porta e, vedendo i viaggiatori, si fermò di colpo, osservandoli con grande interesse.

«Dov’è Bob?», chiese l’oste. «Non lo sai? E allora che aspetti a cercarlo? Mammalucco! Non ho mica sei gambe, io, e nemmeno sei occhi, sai?! Di’ a Bob che ci sono cinque cavalli che aspettano di essere messi nella stalla e che deve trovare il posto, in un modo o in un altro». Nob corse via ammiccando e sorridendo.

«Ebbene, che stavo dicendo?», disse il signor Cactaceo, battendo la mano contro la fronte. «Un pensiero caccia l’altro, non so se mi spiego. Questa sera sono occupatissimo, e la testa mi gira come una trottola. Ieri mi è arrivata della gente del Sud dal Verdecammino, il che è assai strano. Poi c’è tutto un gruppo di Nani viaggiatori diretto a occidente, che mi è spuntato stasera. E adesso voi. Se non foste Hobbit credo proprio che non avrei dove mettervi. Ma abbiamo un paio di stanze nell’ala nord, riservate esclusivamente agli Hobbit sin da quando costruimmo la casa. Al piano terra, come di solito essi preferiscono, e con le finestre tonde che a loro piacciono tanto. Spero che vi troverete bene. Non dubito che vorrete pranzare: vi farò preparare la cena il più presto possibile. Adesso seguitemi!».

Li condusse lungo un corridoio dove, dopo aver fatto qualche passo, aprì una porta. «Eccovi un piccolo salotto!», disse. «Spero che vada bene! Adesso però dovete scusarmi perché ho un mare di cose da fare. Non c’è tempo per parlare. Ho fretta, devo correre. È un lavoro pesante per due povere gambe, eppure non dimagrisco. Torno a fare una capatina fra poco. Se avete bisogno di qualcosa, suonate il campanello e Nob sarà ai vostri ordini. Se non viene, suonate e urlate!».

Scomparve infine, lasciandoli alquanto ansimanti: aveva la stupefacente capacità di non interrompere mai il suo torrente di parole, nemmeno nei momenti in cui aveva da fare. Gli Hobbit si trovarono in una piccola stanza comoda e accogliente. Un po’ di fuoco brillava nel camino, davanti al quale erano disposte alcune sedie basse e invitanti. C’era una tavola rotonda, già ricoperta da una tovaglia bianca, nel mezzo della quale si ergeva un grande campanello. Ma Nob, il cameriere hobbit, irruppe nella stanza molto prima che se ne servissero. Portava candele e un vassoio pieno di piatti. «Desiderano qualcosa da bere, i signori?», chiese. «Forse è bene che io vi mostri le stanze, mentre in cucina finiscono di preparare il pranzo».

Quando il signor Cactaceo e Nob tornarono con le pietanze, essi si erano già lavati e tracannavano grossi bicchieri di birra. La tavola fu apparecchiata in un batter d’occhio. C’erano minestra calda, carne fredda, una crostata di more, pagnotte di pane fresco, panetti di burro e una mezza forma di formaggio invecchiato; l’insieme poteva competere con i migliori pasti della Contea e il buon cibo semplice e sano dissipò gli ultimi dubbi di Sam (già notevolmente diminuiti dalla bontà della birra).

L’oste si affaccendò intorno a loro per un po’ e prima di andarsene disse, in piedi sulla porta: «Non so se vi può far piacere unirvi al resto della compagnia, quando avrete finito di pranzare. Forse però preferite andarvene direttamente a letto. In ogni modo, la compagnia sarà ben lieta di accogliervi, se vorrete farle quest’onore. È alquanto raro che capitino da queste parti dei Profani, anzi chiedo scusa, dei viaggiatori della Contea; e fa sempre piacere ascoltare un po’ di notizie, o qualche storia che vi passa per la mente, o qualche canzone. Ma fate come preferite e, mi raccomando, suonate il campanello se avete bisogno di qualcosa!».

Alla fine del pasto (durato un buon tre quarti d’ora e non ostacolato da discorsi superflui) si sentirono a tal punto rincuorati e incoraggiati, che Frodo, Pipino e Sam decisero di unirsi alla compagnia. Merry disse che l’aria della stanza sarebbe stata certo viziata. «Mi siederò qui tranquillamente accanto al camino e forse più tardi uscirò a fare quattro passi e a prendere una boccata d’aria. State in guardia e non dimenticate che la nostra fuga dev’essere segreta e che siamo ancora sulla strada maestra, non lontani dalla Contea!».

«Va bene!», disse Pipino. «Stai in guardia anche tu! Non ti perdere e non dimenticare che dentro casa si sta molto più al sicuro!».

* * *

La compagnia era nel grande salone della locanda. Appena i suoi occhi si furono abituati alla luce, Frodo notò che il gruppo era numeroso ed eterogeneo. Ciò che al primo momento l’aveva accecato era il bagliore di un grande falò, poiché le tre lampade appese alle travi del soffitto emanavano una luce fioca e quasi velata dal fumo. Omorzo Cactaceo era in piedi vicino al camino e parlava con qualche Nano ed uno o due Uomini dall’aspetto strano. Seduta sulle panche c’era la gente più svariata: Uomini di Brea, tutt’un gruppo di Hobbit locali (seduti insieme a chiacchierare), qualche altro Nano e un paio di figure vaghe, difficili da individuare, negli angoli e nelle zone d’ombra.

Appena gli Hobbit della Contea misero piede nella stanza, i Breatini li accolsero con un coro di benvenuto. Gli stranieri, e in particolare quelli che erano venuti per il Verdecammino, li osservarono con curiosità. L’oste presentò ai nuovi arrivati i suoi compatriotti, ma con una tale velocità che, malgrado fossero riusciti a captare non pochi nomi, non erano mai sicuri a chi appartenessero. Gli Uomini di Brea pareva avessero tutti nomi alquanto botanici (e che suonavano molto strani alla gente della Contea), come Caprifogli, Diterica, Stoppino, Melodoro, Lanicardo, Felci, per non parlare poi di Cactaceo. Alcuni Hobbit avevano nomi simili: gli Artemisia, per esempio, erano numerosi. Ma la maggior parte portava nomi piuttosto comuni, che si trovavano anche nella Contea, come Acclivi, Tasso, Lunghibuchi, Issasabbia, e Tunnel. C’erano parecchi Sottocolle di Staddle, i quali, poiché non consideravano possibile dividere un cognome con qualcuno che non fosse almeno lontanamente imparentato, presero a benvolere Frodo come un cugino da lungo tempo perduto.

Gli Hobbit di Brea erano di natura amichevole e curiosa, e presto Frodo si rese conto che una qualche spiegazione sul proprio conto e sul proprio da fare sarebbe stata indispensabile. Accennò al suo interesse per la storia e la geografia (e tutti annuirono col capo, benché nessuno dei due termini fosse molto frequente nel dialetto di Brea). Disse che aveva intenzione di scrivere un libro (questa sua rivelazione fu seguita da un silenzio stupefatto) e che lui e i suoi amici erano alla ricerca di informazioni sul conto degli Hobbit domiciliati fuori della Contea, e in particolar modo nei paesi orientali.

A questo punto si levò un coro di voci. Se Frodo avesse effettivamente avuto intenzione di scrivere un libro, e soprattutto se fosse stato fornito da natura di molte paia di orecchie, avrebbe raccolto in quei pochi minuti materiale sufficiente a riempire numerosi capitoli. E come se ciò non bastasse, gli fu fatto un elenco di tutti coloro ai quali si sarebbe potuto rivolgere per ulteriori informazioni, tra cui per primo «il nostro vecchio Omorzo». Ma dopo un po’, poiché Frodo non accennava a voler scrivere il libro in loro presenza, gli Hobbit tornarono alla carica con le loro domande sugli avvenimenti nella Contea. Frodo non si dimostrò molto loquace e presto rimase seduto solo in un angolo a guardarsi intorno e ad ascoltare.

Uomini e Nani parlavano soprattutto di ciò che stava accadendo in lontane contrade e si scambiavano notizie il cui contenuto stava ormai diventando fin troppo familiare alle loro orecchie. C’erano guai giù a sud, e apparentemente gli Uomini che avevano percorso il Verdecammino erano alla ricerca di terre ove potessero trovare un po’ di pace. I Breatini erano gente simpatica e comprensiva, ma palesemente non molto disposta ad accogliere un gran numero di estranei nel loro piccolo paese. Uno dei viaggiatori, un tipo strabico e dall’aspetto malaticcio, prevedeva che un numero sempre crescente di persone sarebbero emigrate verso nord nell’immediato futuro. «E se non si farà loro un po’ di posto, se lo faranno da sé. Hanno anche loro il diritto di vivere, come tutti gli altri», disse ad alta voce. Gli indigeni non parvero troppo entusiasti di quella prospettiva.

Gli Hobbit non prestavano molta attenzione a tutto ciò, tanto più che per il momento la cosa non sembrava toccarli da vicino. Era molto improbabile che la Gente Alta si mettesse a chiedere alloggio nelle caverne hobbit. Essi erano più interessati da Sam e da Pipino, che si sentivano adesso del tutto a loro agio e chiacchieravano allegramente degli avvenimenti della Contea. Pipino provocò molte risate, raccontando il crollo del tetto della Caverna-municipio di Pietraforata: Will Piedebianco, il Sindaco, che era anche l’Hobbit più grasso del Decumano Ovest, era stato letteralmente sepolto dalla calce e ne era uscito fuori che pareva un dolce di panna. Ma furono poste loro parecchie domande che preoccuparono Frodo. Uno dei Breatini, che diceva di essere stato più volte nella Contea, voleva sapere dove vivessero i Sottocolle e con chi fossero imparentati.

D’un tratto Frodo notò un individuo dall’aria strana, segnato dalle intemperie, che sedeva in ombra vicino al muro ascoltando attentamente la loro conversazione. Aveva un grosso boccale di metallo davanti a sé e fumava una pipa dal lungo cannello intagliato stranamente. Teneva le gambe distese e portava degli stivali alti di una pelle morbida e di ottima fattura, ma ormai alquanto logori e ricoperti di fango. Un mantello di pesante panno verde scuro scolorito dal tempo lo avviluppava interamente e, malgrado il calore della stanza, egli portava un cappuccio che gli faceva ombra al volto: ma i suoi occhi che osservavano gli Hobbit brillavano nella mezza oscurità.

«Chi è quello?», chiese Frodo, quando ebbe l’occasione di sussurrare all’orecchio del signor Cactaceo. «Non mi pare che ci sia stato presentato».

«Quello?», disse l’oste a bassa voce, lanciandogli un’occhiata senza però voltare la testa. «Non saprei dire esattamente. È uno di quelli che vanno vagando, e che noi chiamiamo Raminghi. È un tipo taciturno, ma se ci si mette, racconta storie veramente uniche. Scompare per un mese, un anno, e poi spunta di nuovo all’improvviso. La scorsa primavera l’ho visto un bel PO’ di volte, ma di questi tempi si fa vivo molto più di rado. Come si chiama veramente non l’ho mai saputo, ma da queste parti tutti lo chiamano Grampasso. Cammina velocissimo con quelle sue gambe lunghe, e non dice mai a nessuno il perché di tanta fretta. Ma qui da noi si usa dire che l’Est e l’Ovest non si spiegano, parlando dei Raminghi e, chiedo scusa, della gente della Contea. Strano che mi abbiate chiesto di lui». Ma in quel momento il signor Cactaceo fu chiamato altrove e la sua ultima osservazione rimase senza risposta.

Frodo si accorse che adesso Grampasso lo stava guardando, come se avesse sentito o indovinato ciò che era stato detto sul suo conto. A un certo punto, con un cenno del capo e della mano, invitò Frodo ad andarsi a sedere accanto a lui. Mentre questi si avvicinava, egli si tolse il cappuccio, scoprendo una capigliatura scura e irsuta con qua e là qualche macchia grigia, e un viso pallido e severo ove brillavano due occhi grigi e penetranti.

«Mi chiamano Grampasso», disse a bassa voce. «Son molto lieto di conoscervi, signor… Sottocolle, se il vecchio Cactaceo ha capito bene il vostro nome».

«L’ha capito benissimo», disse freddamente Frodo. Lo sguardo di quegli occhi penetranti lo metteva molto a disagio.

«Ebbene, signor Sottocolle», disse Grampasso, «se fossi in voi, direi ai vostri giovani amici di frenare la lingua. La birra, il camino e gli incontri casuali fanno sempre piacere, ma, come dire…, qui non siamo nella Contea. C’è gente strana in giro. Voi penserete che non tocca a me dirlo», aggiunse con una smorfia, notando l’occhiata carica di significato. «E ci sono stati dei tipi ancor più misteriosi in viaggio attraverso Brea, questi ultimi tempi», proseguì, osservando da vicino il suo interlocutore.

Frodo lo guardò senza aprir bocca e Grampasso non disse più niente. La sua attenzione sembrò improvvisamente concentrarsi su Pipino. Allarmatissimo, Frodo si rese conto che il ridicolo giovane Tuc, incoraggiato dal successo riscosso dalla sua storia sul grasso Sindaco di Pietraforata, si era addirittura lanciato in un’evocazione in chiave comica della festa d’addio di Bilbo. Stava già facendo un’imitazione del discorso e si avvicinava alla stupefacente scomparsa.

Frodo era urtato. La storia era del tutto innocua per la maggior parte degli Hobbit locali, senz’alcun dubbio; soltanto una vicenda ridicola di quella gente ridicola al di là del Fiume; ma alcuni (il vecchio Cactaceo, per esempio) non erano del tutto ignari ed avevano probabilmente avuto sentore, molto tempo addietro, della scomparsa di Bilbo. La storia avrebbe riportato alla loro mente il nome Baggins, specialmente poi se vi erano state delle inchieste e delle ricerche, lì a Brea, di recente.

Frodo si agitava irrequieto, incerto sul da farsi. Pipino era evidentemente molto lusingato dell’attenzione che riusciva a concentrare e pareva del tutto dimentico del pericolo che li minacciava. Frodo ebbe improvvisamente paura che gli saltasse persino in mente di menzionare l’Anello: sarebbe stata la catastrofe.

«Vedete di far qualcosa, e subito!», gli sussurrò Grampasso in un orecchio.

Frodo saltò in piedi e con un balzo fu ritto su di un tavolo, mettendosi a parlare. L’attenzione del pubblico di Pipino fu distolta; qualche Hobbit guardò Frodo ridendo e battendo le mani, persuaso che il signor Sottocolle avesse alzato un po’ troppo il gomito per quella sera.

Frodo si sentì improvvisamente molto sciocco e ridicolo, e si mise a giocherellare con ciò che aveva in tasca: era diventata ormai una sua abitudine ogni qual volta faceva un discorso. Sentì l’Anello attaccato alla catenella, ed il desiderio folle di infilarselo al dito e sparire dalla stanza, uscendo da quella situazione imbarazzante, s’impadronì di lui. Ma era come se il suggerimento gli venisse da fuori, da qualcuno o da qualcosa in quella stanza. Resistette energicamente alla tentazione, stringendo l’Anello come per tenerlo al sicuro e impedirgli di sfuggire e di combinare qualche guaio. In ogni modo, non gli dava alcuna ispirazione. Egli pronunziò qualche «parola di circostanza», come si soleva chiamare nella Contea: «Siamo tutti molto commossi dalla vostra calorosa accoglienza, e oso formulare la speranza che la mia breve visita possa contribuire a rinforzare gli antichi vincoli d’amicizia che uniscono Brea e la Contea»; quindi esitò e tossì.

Tutti gli occhi della stanza erano rivolti su di lui. «Una canzone!», gridò uno degli Hobbit. «Una canzone! Vogliamo una canzone!», gridarono tutti gli altri. «Coraggio, dài, cantaci qualcosa di nuovo!».

Frodo rimase un attimo come paralizzato. Quindi, con la forza della disperazione, intonò una canzone ridicola che piaceva molto a Bilbo (il quale ne era anche piuttosto orgoglioso, poiché ne aveva composto personalmente le parole). Parlava di una locanda, ed è probabilmente per questo che gli saltò in mente di cantarla. Ecco la versione integrale, della quale però, oggi come oggi, si ricordano solo alcune strofe.

C’è una locanda, un’allegra locanda,

Sotto un vecchio colle grigio,

Ove la birra è così scura,

Che anche l’Uomo della Luna

È sceso un giorno a berne un sorso.

Lo stalliere ha un gatto brillo,

Che suona un violino a tre corde;

Su e giù scorre l’archetto,

Stridulo a volte, a volte cheto,

Ed a volte solo un trillo.

L’oste invece ha un cagnolino

A cui piacciono gli scherzi;

Se gli altri ridono, davanti al camino,

Rizza l’orecchio ad ogni battuta,

Sghignazzando come un mattaccino.

Tengono anche una signora mucca,

Più orgogliosa di una regina,

Ma la musica le fa girar la testa,

Ed agitar la coda in segno di protesta,

E ballare allegra sull’erba verdina.

Se solo vedeste i piatti d’argento,

Ed i cassetti pieni di posateria!

Per la Domenica un servizio speciale

Si lucida sempre in lavanderia,

Il Sabato quando il sole cala lento.

L’Uomo della Luna beveva in abbondanza,

Ed il gatto brillo si mise a miagolare,

Un piatto ed un cucchiaio iniziaron la danza,

E la mucca in giardino saltava con baldanza,

E il cagnolin la coda cercava d’afferrare.

L’Uomo della Luna bevve un altro sorso

E poi rotolò giù dalla sedia sul dorso;

Lì si addormentò, sognando la birra scura,

Finché le stelle in cielo sbiadiron nell’aria pura,

E l’alba s’alzò rosa senz’ombra di paura.

Disse lo stalliere al suo gatto brillo:

«I cavalli bianchi della Luna

Nitriscono e mordono il morso,

Ma il loro padrone è disteso sul dorso,

E fra poco il Sole inizia il suo percorso».

Allora il gatto suonò sul suo violino

Una musica da far rizzare i morti lì vicino,

Squillava, grattava e strimpellava,

Mentre l’oste, scuotendo l’Uomo della Luna,

«Sveglia, son passate le tre!», gli gridava.

Trasportarono l’Uomo su per il colle,

E l’infilarono svelti nella Luna,

I cavalli partirono a galoppo folle,

La mucca arrivò saltando come sulle molle,

Piatto e cucchiaio andarono in cerca di fortuna.

Sempre più svelto suonava il violino,

Incominciò a ruggire il cagnolino,

Mucca e cavalli camminavan sulla testa,

Gli ospiti saltarono dal letto per far festa,

E tutti danzarono al suono dell’orchestra.

Ma la corda del violino si ruppe ad un tratto,

E la mucca saltò al di là della Luna,

Il cagnolino rise; divertente era il fatto,

Ed il piatto del Sabato andò a cercar fortuna

Col cucchiaio d’argento di Domenica ventura.

La Luna tonda rotolò dietro il colle,

Ed il Sole rizzò la bionda e la fiera testa,

Ma subito si disse: «Sogno o son desta?[11]».

Malgrado la sua luce illuminasse a festa,

Tutti tornarono a letto dopo la notte folle!

Un lungo applauso entusiasta salutò la fine della canzone. Frodo aveva una buona voce e le parole stuzzicavano la loro immaginazione. «Dov’è il vecchio Omorzo?», gridarono. «Deve sentirla anche lui! E poi Bob dovrebbe insegnare al suo gatto il violino, così potremmo ballare». Ordinarono dell’altra birra, quindi si misero ad urlare: «Un’altra volta, maestro! Coraggio, faccela ascoltare un’altra volta!».

Fecero bere a Frodo un bel sorso, e quando intonò nuovamente la sua canzone, gran parte dei presenti si unì in coro: la melodia era conosciuta, ed essi erano molto abili a imparare le parole. Adesso era Frodo a sentirsi molto soddisfatto: piroettava e saltellava sul tavolo e quando per la seconda volta cantò: E la mucca saltò al di là della Luna, spiccò un balzo per aria. Ma era zompato con troppa energia: piombò giù con fracasso su un vassoio pieno di boccali e, scivolando, capitombolò dal tavolo con un sibilo, un rombo, un tonfo e uno schianto! Il pubblico si sganasciò dalle risate, ma rimase paralizzato dallo stupore: il cantante era scomparso, svanito d’un tratto, come ingoiato dal terreno, senza lasciare un buco o una traccia!

Gli Hobbit di Brea, stralunati, saltarono in piedi chiamando a viva voce Omorzo Cactaceo. Tutti si allontanarono con diffidenza da Pipino e da Sam che si trovarono all’improvviso soli in un angolo, osservati da sguardi biechi e sospettosi. Era chiaro che adesso gran parte dei presenti li considerava i compagni di un mago viaggiante, i cui poteri e le cui mire erano avvolti nel mistero. Ma un breatino particolarmente scuro di pelle rimase a guardarli per un po’ con un’espressione per metà complice e per metà ironica che li mise molto a disagio, quindi sgusciò fuori dalla porta, seguito dal viaggiatore strabico che veniva dal Sud: i due avevano passato la serata sussurrando tra di loro. Harry, il guardiano del cancello, li seguì poco dopo.

Frodo si sentiva un idiota. Non sapendo che cosa fare, strisciò sotto i tavoli fino all’angolo buio dove si trovava Grampasso, immobile e impassibile. Frodo si appoggiò contro il muro, togliendosi l’Anello. Come diavolo si trovasse infilato al suo dito, era un vero e proprio mistero. L’unica spiegazione possibile era che, giocherellando con l’Anello mentre cantava, se l’era involontariamente infilato al dito quando aveva precipitosamente tolto la mano di tasca per parare la caduta. Per un attimo si domandò se non era stato l’Anello a giocargli un tiro; forse aveva cercato di rivelarsi in risposta a qualche ordine o desiderio che percepiva nella stanza. Non gli garbava affatto l’aspetto degli Uomini che erano appena usciti dalla stanza.

«Ebbene?», disse Grampasso, quando Frodo riapparve. «Perché vi siete comportato in quel modo? La peggiore delle cose che avreste potuto fare, molto peggio di tutti i discorsi dei vostri amici! Avete messo proprio il piede in fallo o, per meglio dire, il dito in fallo, non vi pare?».

«Non capisco che cosa intendiate dire», rispose Frodo, seccato e inquieto.

«Invece lo capite benissimo», ribatté Grampasso; «ma è meglio aspettare che si calmi tutta questa baraonda. Poi, se non vi dispiace, signor Baggins, desidererei far quattro chiacchiere con voi in un posticino tranquillo».

«A che proposito?», chiese Frodo, facendo finta di non aver sentito pronunziare il suo vero nome.

«Un fatto di notevole importanza… per ambedue», rispose Grampasso, guardando Frodo dritto negli occhi. «Credo di potervi dire qualcosa che sarà di vostro vantaggio».

«Benissimo», disse Frodo, facendo l’indifferente. «Più tardi ne riparleremo».

* * *

Nel frattempo intorno al camino ferveva un’animata discussione. Il signor Cactaceo era accorso trotterellando e ora stava cercando di ascoltare contemporaneamente più versioni contraddittorie dell’accaduto.

«L’ho visto, signor Cactaceo», disse un Hobbit; «o, per meglio dire, non l’ho più visto, se capite quel che intendo dire. Si è semplicemente dileguato per aria, non so se mi spiego».

«Non me lo dite, signor Artemisia!», esclamò l’oste, evidentemente perplesso.

«Ed invece è proprio così!», rispose Artemisia. «Ci metto la mano sul fuoco!».

«Ci dev’essere uno sbaglio da qualche parte», disse Cactaceo scuotendo il capo. «Bisogna ammettere che è piuttosto incredibile questa storia del signor Sottocolle che dilegua nell’aria pura, anzi bisognerebbe dire nell’aria viziata, trattandosi di questa stanza». «E allora adesso dov’è?», gridarono in coro parecchie voci. «E che ne so io? Ha il diritto di andar dove gli pare e di far quel che gli piace, purché paghi domattina. Lì comunque c’è il signor Tuc: lui non è scomparso».

«Sarà, ma io ho visto quel che ho visto, anzi quel che non ho visto», ribatté ostinatamente Artemisia.

«Ed io sono convinto che c’è uno sbaglio», ripeté Cactaceo, raccogliendo il vassoio da terra e racimolando i frantumi delle terraglie.

«Certo che c’è uno sbaglio!», disse Frodo. «Non sono affatto scomparso. Eccomi qui! Ho semplicemente fatto quattro chiacchiere con Grampasso lì nell’angolo».

Fece qualche passo avanti alla luce del camino, ma la maggior parte dei presenti indietreggiò, ancora più turbata e confusa di prima. Questa sua dichiarazione di essere strisciato via velocemente sotto i tavoli subito dopo la caduta non li soddisfaceva minimamente. La maggioranza degli Hobbit e degli Uomini di Brea uscì in quattro e quattr’otto, arrabbiatissima e per nulla disposta a beneficiare di ulteriori trattenimenti per la serata. Alcuni lanciarono a Frodo uno sguardo torvo e bieco, e se ne andarono borbottando tra i denti. I Nani e un paio di strani Uomini che erano rimasti per ultimi si alzarono infine e augurarono all’oste la buona notte, ma non degnarono nemmeno di uno sguardo Frodo e i suoi amici. Poco dopo, l’unico a non essersene andato era Grampasso, che sedeva inosservato accanto al muro.

Omorzo Cactaceo non sembrava arrabbiato né seccato. Sapeva benissimo che la sua locanda sarebbe stata affollatissima per molte sere consecutive, finché non avesse detto la sua sul nuovo sensazionale mistero. «Ebbene, cosa vi siete messo a fare, signor Sottocolle?», chiese. «Spaventare in questo modo i miei ospiti e rompere il mio vasellame con le vostre acrobazie!».

«Sono desolato di essere la causa di questa baraonda», disse Frodo. «Ma vi assicuro che non ne avevo la benché minima intenzione. È stato un disgraziatissimo incidente».

«Va bene, signor Sottocolle! Ma la prossima volta, prima di fare capitomboli, o giochi di prestigio, o qualsiasi altra cosa, avvertite prima la gente… ed avvertite me. Siamo molto diffidenti, da queste parti, di tutto ciò che è fuori dell’ordinario, che può sembrare misterioso, non so se mi spiego. Rimaniamo al primo momento perplessi e contrariati».

«Siate certo che non ho alcuna intenzione di ricominciare, signor Cactaceo. Adesso credo che sarebbe ora di andare a coricarsi. Partiremo presto, domattina. Vi occupate voi, per favore, di farci trovare pronti i cavalli alle otto in punto?».

«Senz’altro! Ma prima che voi partiate, desidererei parlarvi a quattr’occhi, signor Sottocolle. Mi è appena venuto in mente qualcosa che devo assolutamente dirvi. Spero che non vi dispiaccia. Sbrigo una o due faccende e poi sono da voi, se non disturbo».

«Ma certo!», disse Frodo avvilito. Pensò a quante conversazioni a quattr’occhi lo aspettavano prima di andare a letto, e cosa avrebbero rivelato. Questa gente faceva forse parte di una congiura contro di lui… Incominciò persino a sospettare che il viso rubicondo del vecchio Cactaceo nascondesse qualche oscuro progetto.

CAPITOLO X GRAMPASSO

Frodo, Pipino e Sam si avviarono verso il loro salottino. Era buio: Merry non c’era, e il fuoco era quasi spento. Quando l’ebbero riattivato, soffiando sulla brace e aggiungendo qualche pezzo di legna, si accorsero che Grampasso li aveva seguiti. Era tranquillamente seduto su una sedia accanto alla porta!

«Ehi!», esclamò Pipino. «Chi siete, e cosa volete?».

«Mi chiamo Grampasso», rispose: «e benché forse se ne sia dimenticato, il vostro amico mi ha promesso una chiacchieratina a quattr’occhi»

«Se non sbaglio, voi pretendete di potermi dire qualcosa che mi sarebbe utile», disse Frodo. «Di cosa si tratta?».

«Informazioni varie», rispose Grampasso. «Ma ho il mio prezzo, beninteso».

«Che significa?», chiese seccamente Frodo.

«Non spaventatevi! Significa solo che vi dirò tutto quel che so, dandovi anche qualche buon consiglio…. ma desidero una ricompensa».

«E in che cosa consisterebbe, se non vi dispiace?», disse Frodo. Sospettava ora di aver a fare con un furfante, e pensò con rammarico di aver con sé poco denaro. L’intera somma non avrebbe soddisfatto un criminale, ed egli comunque non poteva assolutamente privarsene.

«Non vi chiedo più di quanto voi possiate offrire», rispose Grampasso sorridendo, come avesse indovinato i pensieri di Frodo. «Soltanto questo: mi dovete portare con voi, fin quando decido di lasciarvi».

«Veramente!», esclamò Frodo, sorpreso ma non molto sollevato. «Anche se desiderassi un altro compagno di viaggio, non potrei accettare una simile proposta prima di sapere parecchie altre cose sul vostro conto e sui vostri affari».

«Eccellente!», disse Grampasso, incrociando le gambe e appoggiandosi comodamente allo schienale. «Pare che stiate ritrovando un PO’ del vostro buonsenso, e la cosa non può che rallegrarmi. Voi siete stato finora di gran lunga troppo negligente. Benissimo! Io vi dirò quel che so, e voi stabilirete la ricompensa. Forse sarete felice di accettare la mia proposta quando avrete sentito quel che ho da dirvi».

«Avanti, allora!», disse Frodo. «Cosa avete da dirmi?».

«Troppe, troppe cose oscure e sinistre», disse gravemente Grampasso. «Ma per quel che vi riguarda personalmente…». Si alzò e si avvicinò alla porta che aprì di colpo guardando fuori. Quindi la richiuse silenziosamente e tornò a sedere. «Le mie orecchie sono molto aguzze», proseguì, abbassando la voce, «e benché non abbia il potere di scomparire, ho dato la caccia a un sì gran numero di cose selvagge e di esseri guardinghi, che riesco generalmente a evitare di essere visto, quando lo desidero. Mi trovavo questa sera dietro la siepe che fiancheggia la Via ad ovest di Brea, quando vidi quattro Hobbit scendere dai Tumulilande. Inutile ripetere tutto ciò che dissero al vecchio Bombadil o fra di loro, ma una cosa in particolare attirò la mia attenzione. Mi raccomando, ricordatevi bene, disse uno di loro, che il nome Baggins non dev’essere pronunciato in nessuna circostanza. Se bisogna proprio darmi un nome, mi chiamo signor Sottocolle. La cosa m’interessò a tal punto che li seguii fin qui. Scavalcai il cancello appena fu richiuso alle loro spalle. Forse il signor Baggins ha un motivo onesto per voler lasciare a casa il proprio nome, nel qual caso consiglierei a lui e ai suoi amici di essere più prudenti».

«Non vedo che interesse possa avere il mio nome per un qualunque abitante di Brea», ribatté Frodo incollerito, «ed ancor meno perché interessi tanto voi. Il signor Grampasso ha forse un motivo onesto per spiare e origliare; nel qual caso gli consiglierei di spiegarlo».

«Ottima risposta!», disse ridendo Grampasso. «Ma la spiegazione è alquanto semplice: cercavo un Hobbit di nome Frodo Baggins. Lo dovevo trovare al più presto. Sapevo che portava con sé fuori della Contea un segreto che riguardava me e i miei amici. Non mi fraintendete!», esclamò, vedendo Frodo balzare in piedi e Sam saltar su con aria truce. «Saprò conservare il segreto meglio di voi. È necessaria molta cautela!». Si chinò in avanti per guardarli meglio. «Scrutate ogni ombra!», disse in un sussurro. «Cavalieri vestiti di nero hanno attraversato Brea. Lunedì pare che uno abbia percorso il Verdecammino, e che più tardi, dal Sud, ne sia giunto un altro».

* * *

Seguì un lungo silenzio. Infine Frodo, rivolgendosi a Pipino e a Sam: «Avrei dovuto immaginarlo», disse, «dal modo in cui siamo stati accolti dal guardiano del cancello. E anche l’oste pare abbia sentito qualcosa. Perché ha tanto insistito per farci unire alla compagnia? E perché diamine ci siamo comportati in modo così sciocco? Avremmo fatto meglio a rimanercene seduti qui tranquilli».

«Sarebbe stata una buona idea», disse Grampasso. «Vi avrei impedito di venire nel salone, se mi fosse stato possibile; ma l’oste non ne ha voluto sapere di farmi salire da voi, o di portarvi un mio messaggio».

«Credete che lui…», incominciò Frodo.

«No, il vecchio Cactaceo è un uomo a posto. Solo che i vagabondi misteriosi della mia specie non godono le sue simpatie». Frodo gli lanciò un’occhiata perplessa. «Be’, bisogna riconoscere che ho un aspetto piuttosto losco, che ne dite?», disse Grampasso con un sorriso malizioso e uno strano bagliore in fondo agli occhi. «Spero però che faremo amicizia e allora mi spiegherete quel che è avvenuto alla fine della canzone, il vostro piccolo scherzetto…».

«È stato soltanto un incidente!», interruppe Frodo.

«Ho i miei dubbi», disse Grampasso. «Sia, diciamo che è stato un incidente. Quell’incidente, però, ha reso pericolosa la vostra situazione».

«Non più di quanto lo fosse già», ribatté Frodo. «Sapevo che quei cavalieri mi inseguivano; ma adesso, comunque, pare che mi abbiano perso, e che se ne siano andati».

«Non ci contate!», disse seccamente Grampasso. «Torneranno. E ne verranno altri, tanti altri. So quanti sono: conosco questi cavalieri». S’interruppe, e i suoi occhi erano freddi e duri. «E c’è della gente in Brea della quale non bisogna fidarsi», proseguì. «Billy Felci, per esempio. Gode di una cattiva nomea nella Terra di Brea e ha sempre gente strana per casa. Lo avrete notato nel gruppo di questa sera: un tipo scuro dall’aria sarcastica. Confabulava con uno degli stranieri provenienti dal Sud, e sgusciarono fuori insieme subito dopo l‘“incidente”. Quella gente lì del Sud non è certo benintenzionata e, quanto a Felci, venderebbe l’anima e farebbe cattiverie per puro divertimento».

«Che cosa vuole vendere Felci, e che c’entra lui col mio incidente?», disse Frodo, risoluto a far finta di non capite le allusioni di Grampasso.

«Vuol vendere informazioni sul vostro conto, beninteso», rispose Grampasso. «Una descrizione della vostra esibizione sarebbe molto utile a certa gente. Non avrebbero certo più bisogno di scoprire il vostro vero nome. Credo più che probabile che essi lo sapranno questa notte stessa. Va bene così? Regolatevi come volete per la mia ricompensa: potete prendermi come guida o no. Ma vi posso dire che conosco tutte le terre tra la Contea e le Montagne Nebbiose, e che vi ho girovagato per parecchi anni. Sono più vecchio di quanto non sembri, e potrei esservi utile in varie occasioni. Dovrete abbandonare la strada da domani, perché sarà sorvegliata notte e giorno dai Cavalieri. Forse riuscirete a fuggire da Brea e a proseguire il vostro viaggio mentre il sole è ancora alto in cielo: ma non andrete lontani. Vi assaliranno in posti selvaggi, in luoghi oscuri e senza scampo. Volete che essi vi trovino? Sono terribili!».

Gli Hobbit lo guardarono e videro con sorpresa che il suo viso era come contratto dal dolore e che le sue mani stringevano i braccioli della sedia. Tutto nella stanza era immobile e silenzioso, e la luce pareva essersi affievolita. Egli rimase per qualche minuto seduto con lo sguardo perso nel vuoto, come se stesse rievocando ricordi lontani o ascoltando suoni nella remota Notte.

«Ascoltatemi!», disse infine, passandosi una mano sulla fronte. «Credo di saperne più di voi sui vostri inseguitori. Li temete, ma non abbastanza. Domani dovete assolutamente fuggire, se vi sarà possibile. Grampasso può indicarvi sentieri poco frequentati. Può venire con voi?».

Seguì un silenzio pesante. Frodo non rispondeva, la sua mente era confusa dal dubbio e dalla paura. Sam aggrottò le ciglia e guardò il padrone. Infine, non riuscendo più a trattenersi, disse:

«Col vostro permesso, signor Frodo, io direi no! Questo Grampasso ci avverte e ci dice di esser prudenti, e su questo punto io dico sì, e direi d’incominciare da lui. Viene dalle Terre Selvagge, e non ho mai sentito dire niente di buono sulla gente di quelle contrade. Sa qualcosa, è chiaro; troppo per i miei gusti. Ma non vedo perché dovremmo lasciarci condurre in posti selvaggi, in luoghi oscuri e senza scampo, come li chiama lui».

Pipino era irrequieto e mostrava il disagio. Grampasso non rispose a Sam, ma volse lo sguardo penetrante su Frodo. Frodo se ne accorse e lo sfuggì. «No», disse lentamente. «Non sono d’accordo. Credo, credo che voi non siate effettivamente quello che volete sembrare. Avete cominciato a parlarmi con l’accento di Brea, ma ora la vostra voce è mutata. C’è qualcosa di giusto nelle osservazioni di Sam: non capisco perché voi, pur avvisandoci di essere cauti e prudenti, ci chiediate di venire meno alla prudenza prendendovi per guida. A che serve il travestimento? Chi siete voi? Cosa sapete veramente sul… sui miei affari, e come fate a saperlo?».

«La lezione di prudenza è stata appresa bene, vedo», disse Grampasso con un ghigno. «Ma prudenza e indecisione sono due cose distinte e separate. Non riuscirete mai ad arrivare a Gran Burrone con le vostre sole forze, e questa è la vostra unica occasione: fidatevi di me. Dovete prendere una decisione. Risponderò a qualcuna delle vostre domande», disse, rivolgendosi a Frodo, «e spero che serva a qualcosa. Ma perché dovreste credere alla mia storia, se non avete fiducia in me sin da adesso? Comunque, eccovela…».

In quel momento si udì bussare alla porta. Il signor Cactaceo arrivava con le candele e dietro di lui Nob portava brocche piene d’acqua calda. Grampasso si ritirò in un angolo buio.

«Sono venuto a porgervi la buona notte», disse l’oste, posando le candele sul tavolo. «Nob! Porta l’acqua nelle camere!». Entrò e chiuse la porta.

«Dunque…», incominciò esitante e alquanto confuso e preoccupato. «Se ho fatto qualcosa di male, mi dispiace veramente. Ma una cosa caccia l’altra, bisogna riconoscerlo, ed io sono una persona indaffarata. Ma tra una faccenda e l’altra questa settimana mi sono sfuggite dalla mente molte cose. Spero che ora il torto non sia irrimediabile. Vedete, mi fu chiesto di tener gli occhi aperti nel caso arrivassero degli Hobbit della Contea, ed in particolar modo uno di nome Baggins».

«Cosa c’entra con me tutto ciò?», chiese Frodo.

«Voi lo sapete certo meglio di me», disse l’oste con uno sguardo d’intesa. «Non svelerò a nessuno il vostro segreto, ma mi è stato detto che questo Baggins avrebbe viaggiato col nome Sottocolle, e la descrizione che me ne fecero a suo tempo corrisponde perfettamente, oserei dire…».

«Ah sì, eh? E com’è questa descrizione?», esclamò Frodo, interrompendolo imprudentemente.

«Un piccoletto ben piantato e con le guance rosse», disse il signor Cactaceo solennemente. Pipino rise sotto i baffi, ma Sam ne fu turbato. «Comunque non basta, perché vale per la maggior parte degli Hobbit, Omorzo, mi disse», proseguì Cactaceo lanciando una occhiata a Pipino. «Ma quello di cui ti parlo è più alto e più chiaro della maggior parte degli Hobbit, ed ha una fossetta sul mento: un tipo impertinente dagli occhi vivaci. Chiedo scusa, ma è stato lui a dirlo, non io».

«L’ha detto lui? E chi è lui?», chiese Frodo ansioso.

«Gandalf, beninteso! Dicono che sia uno stregone, ma comunque sia è un mio caro amico. Se lo incontro di nuovo mi domando cosa mi dirà, ora: farà inaridire tutta la mia birra, o mi tramuterà in un pezzo di legno, o qualcosa di simile senza dubbio. È un po’ impetuoso. Ma pazienza, quel ch’è fatto è fatto e non c’è modo di tornare indietro».

«Ebbene, che cosa avete fatto?», disse Frodo che incominciava a spazientirsi, vedendo la lentezza di Cactaceo nello sbrogliare i propri pensieri.

«Dunque, dov’ero arrivato?», disse l’oste, interrompendosi e facendo schioccare le dita. «Ah sì! Il vecchio Gandalf. Tre mesi fa entra nella mia camera senza nemmeno bussare. Omorzo, dice, io parto domattina. Mi puoi fare un grande favore? Di’ soltanto che cosa, e sarà fatto, rispondo io. Ho molta fretta, dice lui, e non ho tempo di portare io stesso questo messaggio nella Contea. Hai qualcuno fidato da mandare? Posso trovare qualcuno, dico io, domani forse, o dopodomani. Più presto è meglio è, dice e mi dà la lettera. È indirizzata con molta precisione», disse il signor Cactaceo, estraendo una lettera dalla tasca e leggendo l’indirizzo lentamente e fieramente (teneva molto alla propria reputazione di uomo colto):

SIG. FRODO BAGGINS, CASA BAGGINS, HOBBIVILLE nella CONTEA.

«Una lettera per me da parte di Gandalf!», gridò Frodo.

«Ah!», disse il signor Cactaceo. «Ma allora il vostro vero nome è Baggins?».

«Sì», rispose Frodo, «e farete bene a darmi immediatamente quella lettera e a spiegarmi perché non me l’avete mandata. Forse eravate venuto a dirmi questo, ma ci è voluto un bel po’ per arrivare al sodo».

Il povero signor Cactaceo pareva molto turbato. «Avete ragione, signore», disse, «e vi chiedo perdono. Sono spaventato morto di quel che dirà Gandalf, se succede qualche guaio. Ma non l’ho fatto apposta. L’ho messa al sicuro, e poi non son riuscito a trovare nessuno disposto ad andare nella Contea né l’indomani, né il giorno seguente, e tutti i miei familiari avevan troppo da fare. Insomma, una cosa e un’altra, finché mi passò completamente dalla testa. Sono un uomo indaffarato. Farò quel che posso per aggiustare le cose, e se posso aiutarvi, vi prego di dirmelo… Lasciando stare la lettera, io ho dato a Gandalf la mia parola. Omorzo, mi disse, questo mio amico della Contea potrebbe passare da queste parti tra non molto tempo, in compagnia di qualcheduno. Si farà chiamare Sottocolle. Mi raccomando, ricordatene! Ma non fargli domande. E se io non sono con lui, può darsi che sia in difficoltà, e che abbia bisogno d’aiuto. Fa’ tutto quel che puoi per lui, e te ne sarò grato, mi disse. Ed eccovi, e a quanto pare il pericolo è vicino».

«Che intendete dire?», chiese Frodo.

«Quegli uomini neri», disse l’oste abbassando la voce. «Stanno cercando Baggins, e se le loro intenzioni sono buone, allora io sono un Hobbit. È successo lunedì, con tutti i cani che guaivano e le oche che gridavano. Segno nefasto, dissi. Venne Nob a dirmi che c’erano alla porta due uomini neri che chiedevano di un Hobbit di nome Baggins. A Nob i capelli si erano rizzati in testa. Cacciai via quei tipi neri sbattendogli la porta in faccia. Ma ho sentito dire che sono andati fino ad Arceto, chiedendo a tutti la stessa cosa. E anche quel Ramingo, Grampasso, ha fatto un sacco di domande. Figuratevi che cercava persino di venire qui da voi prima che aveste messo un boccone in bocca, cercava…».

«Infatti cercava!», disse improvvisamente Grampasso, mettendosi in luce. «E avremmo potuto evitare tanti guai, se tu non glielo avessi impedito, Omorzo».

L’oste trasalì. «Tu!», esclamò. «Sei sempre in mezzo ai piedi! Ora che cosa vuoi?».

«È qui col mio permesso», disse Frodo. «È venuto a offrirci il suo aiuto».

«Be’, suppongo che sappiate quel che fate», disse il signor Cactaceo, guardando Grampasso sospettosamente. «Ma se io fossi nei vostri panni, non mi porterei dietro un Ramingo».

«E allora chi ti porteresti dietro?», chiese Grampasso. «Un oste basso e grasso che si ricorda soltanto del proprio nome perché la gente glielo grida dalla mattina alla sera? Non possono rimanere al Puledro Impennato per tutta la vita. Una lunga strada li attende. Vuoi accompagnarli tu, e difenderli dagli uomini neri?».

«Io? Lasciare Brea? Non lo farei per tutto l’oro del mondo!», disse il signor Cactaceo, con un’aria molto spaventata. «Ma perché non ve ne state un po’ qui tranquillo, signor Sottocolle? Cosa sono tutti questi strani avvenimenti? Chi sono questi uomini neri, cosa cercano e da dove vengono?».

«Mi dispiace di non potervelo spiegare», rispose Frodo. «Sono stanco e preoccupato, ed è una storia lunga. Ma se avete intenzione di aiutarmi, devo dirvi che fin quando io sarò in questa casa, voi sarete in pericolo. Questi cavalieri Neri credo, non ne son sicuro, ma temo proprio che vengano da…».

«Vengono da Mordor», disse Grampasso a voce bassissima. «Da Mordor, Omorzo, se ciò ti dice qualcosa».

«Santo cielo!», gridò il signor Cactaceo impallidendo; il nome gli era evidentemente familiare. «È la peggior notizia ch’io abbia mai sentito in Brea!».

«Lo è», disse Frodo. «Siete ancora disposto ad aiutarmi?».

«Certo», rispose il signor Cactaceo. «Ora più che mai. Benché non sappia cosa possa fare uno come me contro… contro…», non riuscì a finire.

«Contro l’Ombra dell’Est», disse piano Grampasso. «Non molto, Omorzo, ma ogni piccolo aiuto può essere utile. Puoi far rimanere il signor Sottocolle qui per questa notte quale signor Sottocolle, e puoi dimenticare il nome Baggins, finché egli non è molto lontano».

«Lo farò», disse Cactaceo. «Ma scopriranno che lui è qui anche senza bisogno del mio aiuto, purtroppo. È un peccato che il signor Baggins abbia attirato su di sé l’attenzione, questa sera, per non dire altro. La storia della scomparsa del signor Bilbo l’avevano già sentita prima d’oggi qui in Brea. Persino il nostro Nob sta rimuginandoci sopra con la sua testa di rapa; e c’è gente più dritta di lui in Brea».

«Bene, possiamo solo sperare che i cavalieri non tornino subito», disse Frodo.

«Spero proprio di no», disse Cactaceo. «Ma che siano fantasmi o no, non entreranno molto facilmente al Puledro Impennato. Non preoccupatevi fino a domattina. Nob non aprirà bocca. Nessun uomo nero passerà dalle mie porte, finché mi reggo in piedi io. Faremo la guardia stanotte, io e la mia gente; ma voi farete bene a riposare, se ci riuscite».

«Comunque sia, dobbiamo essere svegli all’alba», disse Frodo. «Bisogna partire al più presto. La colazione alle sei e mezzo, per favore».

«Senz’altro, me ne occuperò personalmente», disse l’oste. «Buona notte, signor Baggins…. anzi, Sottocolle! Buona notte… Accidenti, e dov’è il vostro amico, il signor Brandibuck?».

«Non so», disse Frodo improvvisamente allarmato. Si erano completamente dimenticati di Merry, e si stava facendo tardi. «Temo che sia fuori. Disse che sarebbe andato a fare quattro passi e a prendere una boccata d’aria».

«Avete bisogno di essere sorvegliati e, protetti, non c’è che dire: sembrate in vacanza!», disse Cactaceo. «Ora mi spiccio a sbarrare porte e finestre, ma darò ordini di far entrare il vostro amico quando torna. Forse è meglio mandare Nob a cercarlo. Buona notte a tutti!». Infine il signor Cactaceo uscì, lanciando un’ultima occhiata diffidente a Grampasso e scuotendo la testa. I suoi passi si allontanarono nel corridoio.

* * *

«Ebbene?», disse Grampasso. «Cosa aspettate ad aprire quella lettera?». Frodo osservò attentamente il sigillo prima di romperlo. Era quello di Gandalf. Nell’interno vi era il seguente messaggio, scritto con la calligrafia forte ma aggraziata dello stregone:


IL PULEDRO IMPENNATO, BREA.

Giorno di Mezzo Anno, Calendario Contea 1418.


Caro Frodo,

Cattive notizie mi sono giunte sin qui. Devo partire immediatamente. Faresti bene a lasciare Casa Baggins fra non molto e ad andartene dalla Contea prima della fine del mese di luglio, al più tardi. Tornerò appena mi sarà possibile, e se tu sarai già partito ti seguirò. Lasciami un messaggio in questa locanda, se passi da Brea. Puoi fidarti dell’oste (Cactaceo). Forse incontrerai un mio amico per strada: un Uomo alto, magro, scuro, che taluni chiamano Grampasso. Sa i fatti nostri e ti aiuterà. Va’ a Gran Burrone: lì spero ci ritroveremo, finalmente. Se non dovessi venire prima della tua partenza, Elrond ti consiglierà sul da fare.


Affettuosamente tuo frettolosissimo

GANDALF

P.S. - NON l’adoperare MAI più, per nessuna ragione al mondo! Non viaggiare di notte!

P.P.S. - Accertati che sia il vero Grampasso. Ci sono un sacco di uomini strani in giro. Il suo vero nome è Aragorn.

Non tutto quel ch’è oro brilla,

Né gli erranti sono perduti;

Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza,

Le radici profonde non gelano.

Dalle ceneri rinascerà un fuoco,

L’ombra sprigionerà una scintilla;

Nuova sarà la lama ora rotta,

E re quel ch’è senza corona.

P.P.P.S. - Spero che Cactaceo ti faccia avere questa mia al più presto. Un brav’uomo, ma la sua memoria è come un ripostiglio: non troverai mai quel che cerchi. Se lo dimentica lo arrostisco.

Buon Viaggio!

Frodo lesse la lettera, quindi la tese a Pipino ed a Sam. «Il vecchio Cactaceo ha combinato veramente un bel pasticcio!», disse. «Merita di essere arrostito. Se l’avessi ricevuta immediatamente, ora potremmo essere tutti sani e salvi a Gran Burrone. Ma che sarà successo a Gandalf? Scrive come se si apprestasse ad affrontare un gran pericolo».

«È ciò che sta facendo da anni», disse Grampasso.

Frodo si voltò, guardandolo pensieroso e meditando sul secondo poscritto di Gandalf. «Perché non me l’hai detto sin dal primo momento che sei un amico di Gandalf?», chiese. «Non avremmo perso tempo».

«Credi? Credi che avreste prestato fede alle mie parole?», rispose Grampasso. «Non sapevo niente di questa lettera. Quel che invece sapevo, era di dovervi persuadere a fidarvi di me senza la minima prova, se volevo aiutarvi. In ogni caso non intendevo raccontarvi subito tutto sul mio conto. Anch’io vi dovevo studiare, ed accertarmi che foste veramente voi. Il Nemico mi ha preparato dei tranelli prima d’oggi. Non appena però fossi stato certo della vostra identità, sarei stato pronto a rispondere a qualsiasi domanda. Ma devo ammettere», aggiunse ridendo in uno strano modo, «che speravo mi prendeste per quel che ero. A volte un uomo braccato è stanco di diffidare e anela a un po’ d’amicizia. Ma lo so, il mio aspetto non ispira fiducia».

«Non ne ispira affatto, perlomeno a prima vista», rise Pipino, notevolmente risollevato dalla lettera di Gandalf. «Ma da noi nella Contea si dice che bello è chi fa la bella vita, e immagino che ci rassomiglieremo tutti, dopo aver passato giorni e notti in mezzo a siepi ed in fondo a fossi».

«Ci vorrebbe più di qualche giorno, di qualche mese, di qualche anno, o di qualche viaggio attraverso le Terre Selvagge per farvi rassomigliare a Grampasso», rispose. «E morireste prima, a meno che dopo tutto non siate fatti di una pasta più dura di quanto non sembri», aggiunse.

Pipino si diede per vinto, ma Sam non si scoraggiò, e continuava a guardare Grampasso in cagnesco. «Come facciamo a sapere che voi siete il Grampasso di cui ci parla Gandalf? Non avete mai accennato a Gandalf prima che spuntasse fuori questa lettera. Per quel che ne sappiamo potreste essere una spia che ne recita la parte per portarci con sé chissà dove. Potreste aver fatto fuori il vero Grampasso e aver preso i suoi vestiti. Cosa trovate da rispondere?».

«Che sei un tipo risoluto», rispose Grampasso. «Purtroppo l’unica risposta che posso darti, Sam Gamgee, è la seguente: se avessi ucciso il vero Grampasso, allora potrei uccidere anche voi. E vi avrei già uccisi senza tante chiacchiere. Se fossi alla caccia dell’Anello, lo potrei avere… e subito!».

Si alzò in piedi e parve all’improvviso diventare altissimo. Nei suoi occhi ardeva una luce penetrante e autoritaria. Scostando la cappa, mise la mano sull’elsa di una spada che pendeva al suo fianco dissimulata dalle pieghe del manto. Gli Hobbit non osavano muovere un dito. Sam seduto con la bocca spalancata lo guardava sbigottito.

«Ma io sono il vero Grampasso, fortunatamente», disse, abbassando verso di loro un viso improvvisamente addolcito da un luminoso sorriso. «Io sono Aragorn figlio di Arathorn; se con la vita o con la morte vi posso salvare, lo farò».

* * *

Vi fu un lungo silenzio. Infine Frodo disse esitante: «Credevo già che tu fossi un amico prima di ricevere la lettera, o almeno lo speravo. Mi hai spaventato più volte questa sera, ma non mai nel modo in cui l’avrebbero fatto i servitori del Nemico. Credo che una delle sue spie sarebbe… insomma sembrerebbe più onesta esteriormente, ma ti darebbe la sensazione di essere più equivoca, non so se mi spiego».

«Capisco!», esclamò ridendo Grampasso. «Io sembro equivoco, ma do la sensazione di essere onesto. È così? Non tutto l’oro brilla, né gli erranti sono perduti».

«Quei versi si riferivano a te, allora!», disse Frodo. «Non riuscivo a capire di cosa parlassero. Ma come fai a sapere che sono nella lettera di Gandalf, se non l’hai mai vista?».

«Infatti non lo sapevo», rispose. «Ma sono Aragorn, e quei versi accompagnano il mio nome». Estrasse la sua spada, ed essi videro che effettivamente la lama era rotta a una diecina di pollici dall’elsa. «Non serve a gran che, vero, Sam?», disse Grampasso. «Ma vicina è l’ora in cui tornerà nuova».

Sam non aprì bocca.

«Ebbene», disse Grampasso, «col permesso di Sam, possiamo dire che è cosa fatta. Ci sarà una lunga strada faticosa, domani. Anche se riusciamo a lasciare Brea senza troppe difficoltà, non possiamo certo sperare di partire inosservati. Ma cercherò di far perdere le nostre tracce al più presto. Conosco un altro paio di vie d’uscita dalla Terra di Brea, oltre la strada maestra. Appena ci saremo sbarazzati degli inseguitori, ci dirigeremo verso Colle Vento».

«Colle Vento?», disse Sam. «E che cos’è?».

«È una collina a nord della Via, circa a metà strada tra qui e Gran Burrone. Domina tutta la zona circostante e potremo godere di una veduta ampia e spaziosa. Anche Gandalf, nel caso ci stesse seguendo, vi si recherà. Dopo Colle Vento il nostro viaggio si farà più arduo e ci toccherà scegliere tra vari pericoli».

«Quando hai visto Gandalf l’ultima volta?», chiese Frodo. «Sai dov’è o cosa stia facendo?».

Grampasso aveva un’espressione grave sul volto. «Non so», disse. «Siamo venuti insieme ad ovest in primavera. In questi ultimi anni mi sono spesso occupato io di sorvegliare la frontiera della Contea, quando egli aveva da fare altrove. Capitava molto di rado che egli la lasciasse incustodita. Ci siamo visti l’ultima volta il primo di maggio, a Samoguado, giù lungo il Brandivino. Mi disse che gli affari da sbrigare con te erano andati bene, e che saresti partito per Gran Burrone l’ultima settimana di settembre. Poiché sapevo che lui era al tuo fianco, sono partito per i fatti miei, e purtroppo mi accorgo di aver fatto male; è chiaro che gli è arrivata qualche cattiva notizia mentre io non c’ero, ed egli non sapeva dove rintracciarmi.

«Sono molto turbato, ed è la prima volta che mi capita da quando lo conosco. Anche se non poteva venire in persona, avrebbe dovuto mandarci qualche messaggio. Molti giorni fa, quando tornai dal mio viaggio, mi comunicarono gravi notizie. Correva voce in lungo e in largo che Gandalf era irreperibile e che i Cavalieri erano in giro. Furono gli Elfi di Gildor a informarmi; più tardi mi dissero anche che tu eri partito di casa, ma non c’erano notizie della tua partenza dalla Terra di Buck. È da tempo che sorveglio ansiosamente la Via Est».

«Credi che i Cavalieri Neri abbiano qualcosa a fare con l’assenza di Gandalf?», chiese Frodo.

«Non riesco a immaginare chi altro avrebbe potuto ostacolarlo, eccetto il Nemico in persona», rispose Grampasso. «Ma non disperare! Gandalf è ben più grande di quanto non pensiate, voi della Contea… che di lui vedete soltanto gli scherzi e i giocattoli. Ma questo affare sarà la sua più grande impresa».

Pipino sbadigliò. «Chiedo scusa», disse, «ma sono stanco morto. Malgrado tutto il pericolo e l’inquietudine, ho bisogno di andarmene a letto o di addormentarmi qui seduto. Dov’è quello scemo di un Merry? Sarebbe divertente se ora dovessimo uscire al buio per andarlo a cercare!».

* * *

In quel momento udirono sbattere una porta, quindi passi affrettati lungo il corridoio. Merry irruppe nella stanza seguito da Nob. Chiuse in fretta la porta e vi si appoggiò, respirando affannosamente. Lo guardarono ansiosi e allarmati; dopo un attimo balbettò: «Li ho visti, Frodo! Li ho visti! Cavalieri Neri!».

«Cavalieri Neri!», gridò Frodo. «Dove?».

«Proprio qui, in paese. Son rimasto in casa per un’oretta. Poi voi non arrivavate, e allora sono uscito a far quattro passi. Stavo tornando e mi trovavo in piedi a qualche passo dall’aureola di luce della lanterna. Mentre guardavo le stelle, improvvisamente un brivido mi ha attraversato la schiena e ho sentito qualcosa di orribile avvicinarsi strisciando verso di me: c’era come un’ombra più scura tra le ombre dall’altro lato della strada, appena al di là del fascio di luce della lampada. Sgusciò immediatamente e senza rumore nell’oscurità. Non c’erano cavalli».

«Da che parte è andata?», chiese Grampasso interrompendolo vivacemente.

Merry sussultò, accorgendosi solo allora della presenza di un estraneo. «Coraggio!», disse Frodo. «Puoi parlare, è un amico di Gandalf. Poi ti spiegherò».

«Sembrò dirigersi su per la Via, verso est», proseguì Merry. «Io cercai di seguirla, ma naturalmente sparì quasi subito. Continuai, comunque, e girando l’angolo giunsi fino all’ultima casa sulla Via».

Grampasso guardò Merry pieno di stupore. «Il tuo cuore è coraggioso», gli disse; «ma è stato sciocco da parte tua seguire quell’ombra».

«Non so», disse Merry. «Né coraggioso né sciocco, credo. Non potevo farne a meno. Mi sembrava di essere attirato in qualche modo. Comunque la seguii, e improvvisamente mi giunse un suono di voci che sussurravano vicino alla siepe. Una borbottava e l’altra bisbigliava o sibilava. Non riuscivo a capir nulla di quel che dicevano. Non mi avvicinai, perché fui assalito dai tremiti e dai brividi. Terrorizzato, mi volsi indietro e stavo per darmela a gambe, quando qualcosa si avvicinò alle mie spalle ed io… io caddi per terra».

«L’ho trovato io, signore», interloquì Nob. «Il signor Cactaceo mi aveva mandato fuori con una lanterna a cercarlo. Sono andato prima fino al cancello occidentale, e poi sono tornato indietro verso il cancello sud. Accanto alla casa di Billy Felci mi parve di vedere qualcosa nella Via. Non ci giurerei, ma sembravano due Uomini curvi su qualcosa che stavano cercando di sollevare. Io lanciai un grido, e quando giunsi là dove mi era parso di vederli, non trovai altro che il signor Brandibuck disteso per terra sul margine della strada. Sembrava che stesse dormendo. Credevo di essere piombato in acque profonde, mi disse, mentre lo scuotevo. Aveva un’aria molto strana, e non appena riuscii a svegliarlo, saltò su e partì come un lampo».

«Temo che sia vero», disse Merry, «benché non mi ricordi quel che ho detto. Ho fatto un orribile sogno che non rammento. Non riuscivo più a reggermi in piedi; non so proprio cosa m’è preso».

«Lo so io», disse Grampasso. «L’Alito Nero. I Cavalieri devono aver lasciato i cavalli dall’altro lato del cancello sud che hanno attraversato di nascosto. Sapranno tutto, ormai che si sono incontrati con Billy Felci; e probabilmente quel tipo del Sud era anche lui una spia. È probabile che accada qualcosa questa notte, prima della nostra partenza da Brea».

«Che cosa succederà?», chiese Merry. «Prenderanno d’assalto la locanda?».

«No, non credo», disse Grampasso. «Non sono ancora tutti qui riuniti; e poi non è il loro metodo. Sono più forti nell’oscurità e nella solitudine: non attaccherebbero apertamente una casa dove c’è luce e molta gente…. non prima di aver giocato tutte le carte fino alla disperazione; tanto più che le immense distese dell’Eriador ci attendono ancora. Ma la loro forza è il terrore che incutono, e già parecchia gente qui a Brea è caduta nelle loro grinfie. Costringeranno quei disgraziati a fare chissà quale malvagità: Billy Felci, e qualcuno di quei forestieri, e forse anche Harry, il guardiano del cancello. Hanno discusso a lungo assieme, lunedì, al cancello occidentale. Li stavo osservando, e ho visto che Enrico era pallido come un cadavere e tremava tutto, quando se ne andarono».

«Ho l’impressione di essere circondato da nemici», disse Frodo. «Che dobbiamo fare?».

«Rimanere qui e non mettere piede nelle vostre stanze! Hanno sicuramente già scoperto quali sono. Le camere riservate agli Hobbit hanno finestre tonde e vicine al terreno e si affacciano a nord. Rimarremo tutti qui assieme e sbarreremo questa finestra e la porta. Ma innanzi tutto Nob ed io andremo a prendere il vostro bagaglio», rispose Grampasso.

Dopo che furono usciti, Frodo raccontò succintamente a Merry quanto era accaduto dopo la cena. Merry stava ancora rileggendo e soppesando la lettera di Gandalf, allorché Grampasso e Nob varcarono nuovamente la porta.

«Ebbene, signori», disse Nob, «ho raccolto tutta la vostra roba e sistemato un bel cuscino in mezzo a ogni letto. E ho fatto anche una bella imitazione della sua testa, signor Bag…. Sottocolle, con un tappetino di lana marrone, signore», aggiunse con un sorriso malizioso.

Pipino rise. «Molto rassomigliante!», disse. «Ma cosa succederà quando si accorgeranno dell’inganno?».

«Lo vedremo», disse Grampasso. «Speriamo di riuscire a difendere la fortezza sino a domattina».

«Buona notte», disse Nob, andando ad assumere il suo ruolo di guardiano delle porte.

Ammonticchiarono per terra arnesi e fagotti. Misero una sedia contro la porta e chiusero la finestra. Guardando fuori attraverso i vetri, Frodo vide che la notte era ancora luminosa. La Falcetta[12] oscillava e brillava su Colle Brea. Chiuse e sbarrò le pesanti persiane interne e tirò le tende. Grampasso ravvivò il fuoco e spense tutte le candele.

Gli Hobbit si distesero sulle coperte coi piedi rivolti verso il camino, ma Grampasso si sedette sulla sedia appoggiata alla porta. Chiacchierarono ancora per un no’, perché Merry aveva parecchie domande da fare.

«Saltato al di là della Luna!», disse ridendo sommessamente, mentre si arrotolava nella coperta. «Immagino com’eri ridicolo, Frodo! Ma rimpiango molto di non aver assistito alla scena. Le persone importanti di Brea ne parleranno ancora fra cent’anni».

«Lo spero», disse Grampasso. Rimasero tutti silenziosi; quindi, uno per uno, gli Hobbit si addormentarono.

CAPITOLO XI UN COLTELLO NEL BUIO




Mentre nella locanda di Brea gli Hobbit si apprestavano a dormire, la Terra di Buck era immersa nell’oscurità; una leggera nebbia era sparsa qua e là nelle conche e lungo il fiume. La casa di Crifosso era buia e silenziosa. Grassotto Bolgeri aprì cautamente la porta e scrutò le tenebre. Un sentimento di paura sempre crescente si era impadronito di lui quel giorno, ed era incapace di starsene tranquillo o di andare a letto: nell’aria irrespirabile della notte incombeva una minaccia. Mentre guardava nel buio, un’ombra nera si mosse sotto gli alberi; il cancello parve aprirsi da solo e rinchiudersi senza il più piccolo rumore. Fu colto dal panico. Indietreggiò e per un attimo rimase in piedi sull’ingresso, tremante. Quindi chiuse la porta a chiave.

La notte avanzava. Giunse il suono attutito di cavalli condotti furtivamente per il viale. Fuori del cancello si fermarono, e tre figure nere si recarono, strisciando per terra come ombre nella notte, fino alla facciata della casa. Una si fermò davanti alla porta e le altre ai due lati dell’edificio; rimasero lì, immobili come ombre di pietra, mentre passavano le ore. La casa e gli alberi silenziosi parevano aspettare trattenendo il fiato.

Le foglie si mossero lievemente e un gallo cantò in lontananza. Stava per giungere la fredda ora che precede l’alba. La figura davanti alla porta si mosse. Nell’oscurità senza luna né stelle si vide luccicare una lama, come se fosse stata sguainata una gelida luce. Risuonò un colpo, non molto forte, ma energico, e la porta rabbrividì.

«Aprite, in nome di Mordor!», disse una voce acuta e minacciosa.

Al secondo colpo la porta cedette e cadde all’indietro con i gangheri frantumati e la serratura a pezzi. Le figure nere entrarono agili e silenziose.

In quel momento dagli alberi vicini giunse il suono di un corno. Lacerò la notte come un incendio su di una collina.

Sveglia! Paura! Fuoco! Nemici! Sveglia!

Grassotto Bolgeri non aveva perso tempo. Appena vide strisciare le forme scure dal giardino verso la casa, seppe che non aveva altra scelta: correre o perire. Allora mise le ali e se la diede a gambe, uscendo da una seconda porta, attraverso il giardino e i campi. Giunto alla casa più vicina, a tre o quattro miglia, crollò sfinito sulla soglia. «No, no, no!», gridava. «No, non io, non sono io che ce l’ho!». Ci volle un po’ di tempo prima che qualcuno riuscisse a capire cosa stesse balbettando. Infine l’idea balenò loro alla mente che i nemici erano nella Terra di Buck, che gli invasori venivano dalla Vecchia Foresta. Non persero un minuto di tempo.

Paura! Fuoco! Nemici!

I Brandibuck suonavano il Richiamo del Corno della Terra di Buck; erano passati cento anni da quando vi avevano dato fiato l’ultima volta, nel Crudele Inverno, allorché erano giunti i lupi bianchi e il Brandivino era tutto ghiacciato.

Sveglia! Sveglia!

Si sentivano in lontananza rispondere altri corni. Il grido d’allarme si diffondeva.

Le figure nere fuggirono dalla casa. Una di esse lasciò cadere sul gradino, mentre correva, un mantello hobbit. Dal sentiero giunse un rumore di zoccoli, uno scalpitio che si fondeva in un veloce galoppo e rimbombava nelle tenebre. A Crifosso e nelle vicinanze era tutto un suonare di corni, un gridare di voci, un correre, un fuggire. Ma i Cavalieri Neri galopparono come il fulmine fino al cancello nord. Suoni pure, la Gente Piccola! Sauron avrebbe fatto i conti con loro più tardi. Nel frattempo essi avevano un’altra missione da compiere, ora che sapevano che la casa era vuota e che l’Anello non c’era più. Sopraffecero le guardie del cancello e scomparvero dalla Contea.

A notte fonda Frodo si svegliò all’improvviso dal suo sonno profondo, come se qualche suono o qualche presenza l’avesse disturbato. Vide Grampasso seduto guardingo sulla sua sedia: i capelli gli brillavano alla luce del fuoco che era stato riattivato e che bruciava intenso e sfavillante; ma era perfettamente immobile.

Frodo si riaddormentò velocemente, ma di nuovo il sibilo del vento e lo scalpitare di zoccoli turbarono i suoi sogni. Il vento pareva avvinghiare la casa e scuoterla, e in lontananza udiva un corno suonare a più non posso. Aprì gli occhi e sentì un gallo cantare allegro nel cortile della locanda. Grampasso aveva aperto le tende e spalancato con fragore le persiane. La prima luce grigia del giorno inondava la stanza e un’aria fredda entrava dalla finestra aperta.

Appena Grampasso li ebbe svegliati tutti, li condusse alle loro stanze. Quando le videro si congratularono con se stessi per aver ascoltato il suo consiglio: le finestre erano state forzate e sbattevano, le tende volavano; i letti erano sottosopra, i cuscini squarciati e scaraventati per terra; il tappetino marrone era a brandelli.

Grampasso si recò immediatamente dall’oste. Il povero signor Cactaceo era insonnolito e spaventato. Non aveva chiuso occhio durante tutta la notte (disse loro), ma nessun suono e nessun rumore era giunto alle sue orecchie.

«Non è mai successa una cosa del genere in tutta la mia vita!», gridò, alzando orripilato le mani al cielo. «Clienti che non possono dormire nei loro letti, bei cuscini rovinati e tutto il resto! Cos’altro ci aspetta?».

«Tempi cupi», disse Grampasso. «Ma per il momento potrai avere un po’ di pace appena ti sarai sbarazzato di noi. Partiremo in men che non si dica. Non pensiamo alla colazione: un sorso di qualche cosa e un boccone preso in piedi saranno più che sufficienti. Saremo pronti in pochi minuti».

Il signor Cactaceo corse a far sellare i pony e a preparare «un boccone». Ma dopo pochi minuti tornò costernato. I pony erano scomparsi! Le porte delle stalle erano state spalancate durante la notte e i cavalli erano scappati: non soltanto quelli di Merry, ma tutti gli altri cavalli e animali che si trovavano con loro.

La notizia lasciò Frodo annientato. Come potevano sperare di arrivare a Gran Burrone a piedi, inseguiti da nemici a cavallo? Sarebbe stato più facile andare sulla Luna. Grampasso rimase qualche minuto silenzioso, come se stesse soppesando la loro forza e il loro coraggio.

«Dei pony non ci aiuterebbero a scappare da uomini a cavallo», disse infine, come se avesse letto nella mente di Frodo. «Non penso che dovremmo avanzare molto più lentamente a piedi, perlomeno sui sentieri che ho l’intenzione di percorrere. Io sarei andato comunque a piedi. È il cibo e le provviste che mi preoccupano. Non possiamo contare di trovar altro da mangiare, da qui a Gran Burrone, oltre quello che porteremo con noi: e le scorte devono essere molto abbondanti, perché potremmo tardare, o essere costretti a fare dei lunghi giri, o a deviare. Quanto credete di riuscire a portare sulle spalle?».

«Tutto ciò ch’è necessario», disse Pipino con il cuore stretto, ma cercando di mostrarsi più forte e robusto di quanto non sembrasse (e non fosse).

«Io posso portare per due», aggiunse Sam con un’aria di sfida. «Non c’è proprio niente da fare, signor Cactaceo?», chiese Frodo. «Forse si potrebbe trovare in paese un paio di pony, o anche uno solo per il bagaglio! Non credo che li potremmo affittare, ma forse sarebbero disposti a venderli», aggiunse dubbioso, chiedendosi se aveva abbastanza denaro.

«Ne dubito», disse l’oste sconsolato. «I due o tre pony da sella di tutta Brea si trovavano nella mia stalla; quanto agli altri animali, cavalli o pony da tiro, ve ne sono pochi a Brea, e non sono in vendita. Ma farò quel che potrò. Scaravento Bob fuori dal letto e lo spedisco subito in giro».

«Sì», disse Grampasso riluttante, «è la sola cosa da farsi. Purtroppo dovremo far di tutto per trovare almeno un pony. Ma addio ogni speranza di partire presto, e di sgusciare via inosservati! Sarà come suonare un corno per annunciare la nostra partenza. Fa certamente parte del loro piano».

«C’è un’ultima briciola di consolazione», disse Merry, «e spero più di una briciola: possiamo fare colazione mentre aspettiamo… e sederci intorno a una tavola. Chiamiamo Nob!».

* * *

Alla fine il ritardo fu più di tre ore. Bob tornò con l’annunzio che né con oro né con amore avrebbe potuto procurarsi un cavallo o un pony in tutto il paese: eccetto uno. Billy Felci aveva un pony, ed era disposto a venderlo. «Una povera bestia vecchia e mezzo morta di fame», disse Bob. «Ma non ve la darà per meno del triplo del suo valore, conoscendo la vostra situazione… e conoscendo Billy Felci».

«Billy Felci?», disse Frodo. «Che ci sia sotto qualcosa? Non credi che l’animale potrebbe a un certo punto piantarci in asso e tornarsene da Billy con tutta la nostra roba, o aiutarli a pedinarci, o chissà quale altra diavoleria?».

«Potrebbe darsi», disse Grampasso. «Ma non riesco a immaginare che un animale torni di nuovo da lui, una volta che è uscito dalle sue grinfie. Penso che questo sia soltanto un ripensamento del gentile signor Felci: un modo come un altro per accrescere ulteriormente il suo utile in tutto quest’affare. Il pericolo maggiore è che la povera bestia sarà probabilmente sull’orlo della tomba. Non vedo altra scelta. Quanto ne vuole?».

Il prezzo chiesto da Billy Felci era dodici soldi d’argento, almeno tre volte il valore corrente di un pony da quelle parti. Fu accertato che l’animale era pelle e ossa, denutrito e avvilito: ma non pareva che stesse per morire. Il signor Cactaceo lo pagò personalmente, ed offrì a Merry altri diciotto soldi per compensarlo alla meglio degli animali andati persi. Era un uomo onesto e benestante, o perlomeno tale veniva considerato a Brea: tuttavia trenta soldi d’argento erano un colpo duro da ingoiare, ed esser preso in giro da Billy Felci rendeva il tutto ancora più penoso e sgradevole.

Ma a dir vero, a guadagnarci, in fin dei conti, fu proprio lui. Più tardi si accorsero che un solo cavallo era stato effettivamente rubato. Gli altri, allontanati, o scappati per il terrore, furono trovati a girovagare in vari angoli della Terra di Brea. I pony di Merry erano fuggiti e dopo un PO’ (essendo forniti di molto buonsenso) se ne erano andati verso i Tumulilande alla ricerca di Grassotto Bozzolo. Fu così che stettero qualche tempo sotto la protezione di Tom Bombadil, godendosi la bella vita. Ma quando le notizie degli avvenimenti di Brea giunsero alle orecchie di Tom, egli li spedì al signor Cactaceo, il quale si ritrovò così con cinque buone bestie pagate relativamente poco. C’era più lavoro a Brea, ma Bob li trattava bene: perciò nell’insieme si considerarono soddisfatti: avevano evitato un viaggio duro e pericoloso. Ma non giunsero mai a Gran Burrone.

Tuttavia, sul momento, il signor Cactaceo sapeva solo che, bene O male (piuttosto male che bene), i suoi trenta denari lasciavano la sua cassaforte. Ed aveva anche altri problemi. Ci fu una grande baraonda appena gli altri clienti si alzarono e seppero dell’assalto notturno alla locanda. I viaggiatori del Sud avevano perso parecchi cavalli e biasimavano scandalizzati l’oste, fin quando non si scoprì che anche uno di loro era sparito quella notte: e precisamente l’amico strabico di Billy Felci. Tutti i sospetti caddero di botto su di lui.

«Se fate amicizia coi ladri di cavalli, e poi me li portate in casa», tuonò Cactaceo furibondo, «dovreste pagare voi tutti i danni, e non prendervela con me. Andate a chiedere a Felci dov’è andato a finire quel bellimbusto del vostro amico!». Ma si appurò che non era amico di nessuno, e nessuno riusciva a ricordarsi quando si era unito a loro.

Dopo colazione gli Hobbit dovettero rifare i bagagli ed accumulare nuove provviste per il lungo viaggio che li attendeva. Erano quasi le dieci quando finalmente riuscirono a partire. L’intero villaggio rumoreggiava dall’eccitazione. Il giochetto di Frodo e la sua scomparsa, l’apparire di Cavalieri Neri, la razzia alle stalle ed infine, ultima ma non meno importante delle altre, la notizia che Grampasso il Ramingo accompagnava i misteriosi Hobbit, costituivano una storia atta a compensare la monotonia di lunghi anni. La maggior parte degli abitanti di Brea e di Staddle, e persino alcuni venuti apposta da Conca e da Arceto, affollavano la strada per assistere alla partenza dei viaggiatori. Gli altri clienti della locanda erano sulla porta o affacciati alle finestre.

Grampasso aveva cambiato idea, e decise di uscire da Brea per la strada maestra. Qualunque tentativo di dirigersi subito verso i campi avrebbe soltanto peggiorato la situazione: la metà degli abitanti li avrebbe seguiti per vedere cosa stessero combinando e per impedire loro di violare le proprietà private.

Salutarono Nob e Bob, e si congedarono dal signor Cactaceo con molti ringraziamenti. «Spero ci rincontreremo un giorno, quando le cose andranno di nuovo per il loro verso», disse Frodo. «Passare qualche tempo da lei in pace e in tranquillità mi riempirebbe di piacere».

Partirono con passo pesante, ansiosi e demoralizzati, sotto gli occhi della folla. Né tutti i visi, né tutte le parole gridate erano amichevoli. Ma Grampasso pareva godere dell’ammirazione incontestata della maggior parte della popolazione della Terra di Brea, e coloro che egli fissava col suo sguardo penetrante chiudevano la bocca e si ritiravano. Egli camminava avanti con Frodo; seguivano Merry e Pipino, e per ultimo Sam che conduceva il pony. La povera bestia aveva fatto loro tanta pena che non avevano avuto il coraggio di caricarla oltremodo; e l’animale pareva già meno depresso, come se approvasse vivamente il suo cambiamento di condizione. Sam masticava pensoso una mela. Ne aveva una tasca piena: regalo d’ addio di Nob e Bob. «Mele per camminare e una pipa per star seduto», disse. «Ma qualcosa mi dice che fra non molto ne sentirò la mancanza».

Gli Hobbit facevano finta di non notare le teste dei curiosi affacciati alle porte, infilate tra le sbarre dei cancelli, o che spuntavano dai muriccioli mentre loro avanzavano. Ma avvicinandosi al cancello, all’altra estremità del paese, Frodo vide dietro una alta siepe una casa scura e trascurata: l’ultima del villaggio. Ad una delle finestre notò una faccia olivastra ed equivoca dagli occhi strabici, che sparì di colpo.

«Ecco dove si nasconde il tipo del Sud!», si disse. «Pare proprio uno spirito maligno».

Un altro individuo li guardava da dietro la siepe con aria strafottente. Aveva sopracciglia folte e nere, e occhi neri e sprezzanti; la grande bocca era storta da un ghigno; fumava una piccola pipa nera. Quando essi si avvicinarono se la tolse di bocca e sputò.

«Giorno, Gambelunghe!», disse. «Via di buon’ora? Trovato finalmente degli amici?». Grampasso annuì col capo, ma non aprì bocca.

«Giorno, piccoli miei!», disse rivolgendosi agli altri. «Immagino sappiate con chi vi siete messi. Quello è Grampasso Attacca-a-niente, è! Ma gli ho sentito anche altri nomi meno carini. State attenti, stanotte! E tu, Sam caro, non malmenarmi il povero vecchio pony! Pah!». Sputò nuovamente.

Sam si voltò di botto. «E tu, Felci», gli disse, «togli dai piedi la tua brutta faccia, o le succederà qualcosa di spiacevole». In men che non si dica, una mela partì veloce come un razzo, colpendo Billy nel bel mezzo della faccia. Maledizioni e imprecazioni giunsero da dietro la siepe. «Una buona mela sprecata», disse Sam con rimpianto, proseguendo il cammino.

* * *

Finalmente il villaggio fu alle loro spalle. La schiera di bambini e di vagabondi che li aveva scortati si stancò di seguirli e, giunta al cancello sud, ritornò sui suoi passi. Gli Hobbit, dopo averlo attraversato, proseguirono ancora per qualche miglio sulla Via. Girava a sinistra attorno ai piedi del Colle Brea, per riprendere la direzione est, e poi continuare dritta e veloce verso una campagna boscosa. Alla loro sinistra, sulle pendici più dolci a sud-est del colle, si potevano scorgere alcune case e caverne degli Hobbit di Staddle; da un profondo vallone molto distante a nord della Via, s’innalzavano spirali di fumo che tradivano la presenza di Conca; Arceto era nascosto dietro gli alberi.

Dopo un bel po’ di strada, quando il Colle Brea alto e marrone era ormai lontano, si trovarono a uno stretto sentiero che conduceva verso nord. «Qui abbandoniamo la Via per proseguire al coperto», disse Grampasso.

«Spero non si tratti di una ” scorciatoia”», disse Pipino. «La nostra ultima scorciatoia attraverso i boschi stava per concludersi con un disastro».

«Ah, ma non c’ero io quella volta», disse ridendo Grampasso. «Le mie scorciatoie, lunghe o corte che siano, non sgarrano mai». Diede uno sguardo alla Via che continuava a perdita d’occhio; non c’era anima viva. Li condusse allora speditamente verso la valle boscosa.

Il suo piano, per quel che potevano capirne senza conoscere il paese, era di dirigersi prima verso Arceto, mantenendosi però sulla destra e oltrepassandolo a est, e di puntare quindi sul Colle Vento, attraversando in linea retta le zone selvagge e incolte che avrebbero incontrato. In tal modo, se tutto andava seconde le previsioni, avrebbero evitato un grande meandro della Via che, un poco più avanti, curvava verso sud per aggirare le Chiane Ditteri. Ma naturalmente avrebbero dovuto passare attraverso le chiane che, dalla descrizione di Grampasso, non sembravano molto invitanti e agevoli.

Intanto, camminare era piuttosto piacevole. Anzi, se non fosse stato per gli eventi preoccupanti della notte precedente, quella parte del viaggio sarebbe stata senz’alcun dubbio la più gradevole fino allora. Il sole brillava, luminoso ma non troppo caldo. I boschi nella valle, ancora pieni di foglie e di colore, parevano tranquilli e accoglienti. Grampasso li guidava con sicurezza attraverso innumerevoli sentieri che s’incrociavano e che avrebbero contribuito a disorientarli definitivamente, se essi fossero stati soli. Seguivano un tracciato impreciso, con molte giravolte e bruschi cambiamenti di direzione, per far perdere le tracce e confondere qualche inseguitore.

«Billy Felci avrà sicuramente osservato in quale punto abbandonavamo la Via», disse, «ma non credo che lui ci seguirà. Conosce la campagna da queste parti, e anche abbastanza bene, ma sa che non può competere con me in un bosco. È di ciò che riferirà a certe altre persone di nostra conoscenza che mi preoccupo. Immagino che non siano molto lontane; sarebbe una buona cosa se pensassero che ci dirigiamo verso Arceto».

Grazie all’abilità di Grampasso, o per qualche altra ragione, non videro anima viva né udirono rumori sospetti durante tutto il giorno: non incontrarono altri bipedi che gli uccelli, né altri quadrupedi che una volpe e qualche scoiattolo. L’indomani, alla ripresa del cammino verso est questa volta in linea retta tutto era silente e pacifico. Il terzo giorno uscirono dal Bosco Cet. Sin da quando avevano lasciato la Via, il terreno era andato scendendo gradualmente, ed essi si trovavano ora davanti a un’ampia distesa accidentata. Erano ormai lontani dai confini della Terra di Brea, in mezzo a un territorio selvaggio e senza sentieri, prossimo alle Chiane Ditteri. Man mano che avanzavano il terreno diventava sempre più umido, e qua e là fango, pozzanghere e piccoli stagni sbarravano la strada. Ampie zone ricoperte di rovi e di giunchi risuonavano dei trilli di piccoli uccelli nascosti. Dovevano farsi strada con molta attenzione per non bagnarsi i piedi e ad un tempo mantenere la direzione. Dapprima progredirono abbastanza rapidamente, ma via via il cammino si fece lento e periglioso. Le chiane erano intricate e traditrici, e il terreno paludoso si spostava continuamente, impedendo persino ai Raminghi di trovare le piste sicure. I moscerini cominciarono a tormentarli e l’aria era offuscata da stuoli di piccoli ditteri che S’infilavano nelle maniche, nei calzoni e nei capelli.

«Mi stanno mangiando vivo!», gridò Pipino. «Chiane Ditteri! Ci sono più zanzare qui che paludi!».

«Di che cosa si nutrono, quando non dispongono di carne hobbit?», chiese Sam, grattandosi il collo.

Passarono una giornata infelice in quella contrada solitaria e inospitale. Il loro accampamento era umido, freddo e scomodo, e gli insetti li divoravano, impedendo loro di dormire. C’erano anche esseri abominevoli che infestavano i giunchi e le erbe e che, dai suoni che emettevano, parevano diabolici parenti dei grilli. Ve n’erano a migliaia, e cigolavano, e squittivano, e stridevano, niiic-briiic, briiic-niiic, incessantemente, dappertutto, durante tutta la notte: gli Hobbit credevano di impazzire.

Il giorno seguente, il quarto, fu meno duro, ma la notte altrettanto intollerabile. I Nichibrichinichi (come li aveva battezzati Sam) erano rimasti indietro, ma gli insetti e le zanzare continuavano a perseguitarli.

A Frodo, che giaceva disteso, sfinito ma incapace di prender sonno, parve che una luce lontana brillasse nel cielo a oriente: si accendeva e si spegneva, e non poteva aver nulla a fare con l’alba, che distava ancora parecchie ore.

«Cos’è quella luce?», chiese a Grampasso che si era alzato in piedi e scrutava le tenebre.

«Non lo so», fu la risposta. «È troppo distante per poter capire. Sembrano lampi che balenano dalle cime delle colline».

Frodo tornò a coricarsi, ma per qualche tempo continuò a guardare i bagliori bianchi, contro i quali si delineava la figura scura di Grampasso, silenzioso e vigile. Infine cadde in un sonno agitato.

* * *

Il quinto giorno non avevano ancora fatto molta strada, che finalmente le ultime pozzanghere melmose e i ciuffi di rovi si diradarono e scomparvero del tutto. Il terreno riprese a salire. In lontananza, a est, si delineava una fila di colli. Il più alto era leggermente spostato a destra, e distaccato dagli altri. Aveva forma conica, leggermente appiattita in cima.

«Quello è il Colle Vento», disse Grampasso. «La Vecchia Via, che abbiamo lasciato lontano sulla destra, passa a sud della collina, sfiorandone quasi le falde. Potremmo raggiungerla domani verso mezzogiorno, se puntiamo diritto su di essa. Penso che non ci sia di meglio da fare».

«Che intendi dire?», chiese Frodo.

«Voglio dire che arrivati lì, non sappiamo quel che troveremo; il Colle è vicino alla Via».

«Ma non speravamo di incontrare lì Gandalf?».

«Sì, ma è una speranza molto vaga. Anche se dovesse venire da queste parti, è più probabile che non passi da Brea e che dunque non sappia verso dove siamo diretti. E in ogni modo, a meno che un colpo di fortuna non ci faccia giungere lì contemporaneamente, non è possibile incontrarsi: né sarebbe prudente per lui e per noi aspettare in un luogo simile. Se i cavalieri non ci trovano nelle terre aspre ed incolte, è probabile che si rechino anch’essi al Colle Vento. Di là si gode un’ampia visuale sulla campagna circostante. Molti uccelli e altri animali di queste contrade riuscirebbero, dalla cima di quella collina, a scorgerci qui dove siamo. Non c’è da fidarsi di molti uccelli, e vi sono altre spie più malvagie e diaboliche di loro».

Gli Hobbit guardarono intimoriti i colli lontani. Sam volse lo sguardo verso il pallido cielo, temendo di scorgervi aquile e falchi solcare l’aria sulle loro teste con occhi lucidi e ostili. «Mi fate sentire spaventosamente solo e angosciato, Grampasso», gli disse. «Che ci consigli di fare?», domandò Frodo.

«Penso», rispose lentamente Grampasso, come se non fosse del tutto convinto delle proprie parole, «credo che la cosa migliore sia di dirigerci verso est, puntando sulla linea delle colline, e non sul Colle Vento. Là c’è un viottolo che conosco e che ci porterà al Colle Vento da nord, passando ai piedi delle colline al coperto. Poi vedremo quel che c’è da fare».

* * *

Marciarono tutto il giorno, finché giunse la fredda sera autunnale. La terra diventava via via più arida e sterile; ma vapori e nebbia veleggiavano ormai alle loro spalle, sulle paludi. Qualche uccello malinconico pigolava e strideva: quando però il sole rosso s’immerse nelle ombre a occidente, tutto tacque. Gli Hobbit pensarono alla dolce luce del tramonto che colorava di rosa le allegre finestre di Casa Baggins, tanto lontana.

Il giorno stava per finire, quando giunsero a un ruscello che scendeva dai colli per andarsi ad affogare nelle paludi stagnanti; finché durò la luce, essi ne risalirono il corso. Faceva già buio quando finalmente si fermarono, accampandosi sotto alcuni ontani rattrappiti che crescevano sulle rive del ruscello. Nel cielo del crepuscolo si delineavano nette le moli tondeggianti e squallide dei colli. Quella notte montarono la guardia, e Grampasso rimase tutto il tempo sveglio. La luna crescente spargeva sulla campagna una pallida luce grigia e fredda.

L’indomani mattina ripresero la marcia poco dopo l’alba. Spirava una brezza gelata e il cielo era di un azzurro limpido e pallido. Gli Hobbit si sentivano rincuorati e freschi come se avessero dormito dodici ore di fila. Cominciavano ad abituarsi alle lunghe marce, ai pasti frugali; così frugali che nella Contea non avrebbero mai pensato che potessero bastare a sostenerli in piedi. Pipino dichiarò che Frodo pareva due volte più grosso di prima.

«Molto strano», disse Frodo, stringendosi la cinta, «visto che al contrario sono notevolmente diminuito di volume. Spero che il dimagrimento non continui all’infinito, o diventerò un fantasma!». «Non parlate di queste cose!», interloquì Grampasso, con una espressione stranamente seria.

Le colline si avvicinavano. Costituivano una cresta ondulata, che a volte s’innalzava fino a quasi millecinquecento piedi per poi ridiscendere fino al livello del terreno, dove gole e passi conducevano a est, nelle campagne dall’altro lato. Lungo la cresta, gli Hobbit riuscivano a scorgere delle rovine, che parevano quelle di mura ed argini ricoperti di vegetazione e, nelle fessure, i resti di antiche costruzioni in pietra. Quando giunse la notte, essi si trovavano ai piedi delle pendici occidentali, dove si accamparono. Era la notte del 5 ottobre, ed essi avevano lasciato Brea sei giorni prima.

La mattina trovarono, per la prima volta da quando erano usciti dal Bosco Cet, una pista chiaramente individuabile. Girarono a destra e la seguirono verso sud. Il percorso era stato scelto astutamente, secondo un tracciato che pareva far di tutto pur di nascondersi alla vista sia delle colline che lo dominavano, sia delle pianure che si estendevano a ovest. Si tuffava nelle conche e si mimetizzava ai piedi di pendici scoscese; e dove attraversava zone più pianeggianti e scoperte era fiancheggiato su ambedue i lati da grosse rocce e da pietre spaccate che riparavano i viaggiatori come una siepe.

«Vorrei sapere chi ha fatto questo sentiero, e per quale motivo», disse Merry, mentre percorrevano uno di questi valli ove le pareti rocciose erano particolarmente imponenti e massicce. «Questo posto non mi entusiasma: ha un aspetto, be’… da Spettri dei Tumuli. Ci sono tumuli sul Colle Vento?».

«No, non c’è nessun tumulo sul Colle Vento, e nemmeno sulle altre colline qui vicino», rispose Grampasso. «Gli Uomini dell’Ovest non vissero qui; soltanto alla fine dei loro giorni difesero per un breve periodo i colli dal Male che veniva da Angmar. Questo sentiero fu fatto per collegare le fortezze lungo le mura. Ma molto tempo prima, agli albori del Regno del Nord, costruirono in cima al Colle Vento una grande torre-vedetta, che chiamarono Amon Sul. Fu bruciata e distrutta, e non rimane altro che un anello smantellato, come un’ispida corona posata sulla testa del vecchio colle. Eppure un tempo era alta e splendida. Dicono che Elendil aspettò lì la venuta di Gil-galad dall’Occidente, ai tempi dell’Ultima Alleanza».

Gli Hobbit guardarono Grampasso stupefatti. Pareva esperto delle antiche storie e leggende, oltre che di piste attraverso zone selvagge. «Chi era Gil-galad?», chiese Merry; ma Grampasso non rispose, come immerso nei propri pensieri. Improvvisamente una voce mormorò:

Gil-galad sugli Elfi soleva regnare:

Tristi cantano ora i menestrelli

I giorni ancor liberi e belli

Del suo regno tra i Monti ed il Mare.

La sua lancia era aguzza, la sua spada tagliente,

E da lungi il suo elmo splendeva possente.

Migliaia di stelle che in cielo raggiavano

Nel suo elmo d’argento si rispecchiavano.

Ma mille anni fa egli cavalcò via,

E nessuno oggi sa dov’egli adesso sia;

E la sua stella cadde nelle tenebre profonde,

A Mordor dove la cupa ombra si diffonde.

Gli altri si voltarono sbalorditi, perché la voce era quella di Sam.

«Non fermarti!», disse Merry.

«È tutto ciò che so», balbettò Sam arrossendo. «Me lo insegnò il signor Bilbo quando ero ragazzo. Mi raccontava sempre storie come questa, sapendo che non mi stancavo mai di sentir parlate di Elfi. Fu anche il signor Bilbo a insegnarmi a leggere e scrivere. Aveva letto tanto, il caro vecchio signor Bilbo! E scriveva poesie. È stato lui a scrivere quella che ho appena detto».

«Non l’ha propriamente inventata», disse Grampasso. «Fa parte del poema intitolato La Caduta di Gil-galad, scritto in un’antica lingua. Bilbo deve averlo tradotto. Non lo sapevo».

«Continua ancora», disse Sam. «Ma parlava solo di Mordor. Mi son guardato bene dall’imparare quella storia; mi faceva venire i brividi. Non avrei pensato che un giorno anch’io sarei andato da quelle parti!».

«Andare a Mordor!», esclamò Pipino. «Spero proprio che non ci tocchi fare una cosa simile!».

«Non pronunciare quel nome così forte!», disse Grampasso.

* * *

Era già mezzogiorno quando giunsero all’estremità sud del sentiero e videro innanzi a loro, nella pallida luce del sole d’ottobre, un declivio grigio-verde che conduceva, simile a un ponte, sul pendio nord del colle. Decisero di arrampicarsi subito, mentre la luce del giorno era ancora intensa. Nascondersi non era più possibile, potevano soltanto sperare che nessun nemico e nessuna spia sorvegliassero la collina. Tutto era immobile. Se Gandalf era nei paraggi, niente ne rivelava la presenza.

Sul fianco occidentale del Colle Vento, trovarono una gola riparata, in fondo alla quale vi era una conca tappezzata d’erba. Vi lasciarono Sam e Pipino con il pony, le provviste e i fagotti. Gli altri tre proseguirono verso la cima. Dopo circa mezz’ora di scalata, Grampasso giunse sulla sommità del colle, seguito dopo poco da Frodo e da Merry, stanchi e affannati. L’ultima parte del versante si era rivelata ripida e rocciosa.

In cima trovarono, come aveva detto Grampasso, un grande anello di antichi massi mezzo sgretolati, su cui da tempo era cresciuta l’erba. Ma nel centro pietre e rocce sfaldate parevano annerite dal fuoco. Intorno, piante bruciate fino alle radici e nell’interno dell’anello una vegetazione arsa e raggrinzita, come se le fiamme avessero spazzato la cima del colle. Ma non vi era traccia di anima viva.

Stando in piedi sull’orlo della torre diroccata, la loro vista spaziava tutt’intorno su un ampio paesaggio, costituito principalmente da terre vuote e vaghe, macchiate a sud da qualche gruppetto d’alberi al di là dei quali poteva scorgersi a tratti il luccicare di acque lontane. Ai loro piedi la Vecchia Via sembrava un nastro che, venuto serpeggiando da ovest, scompariva a est dietro le alture di terra scura. Anche sulla strada tutto era immobile. Seguendone con gli occhi il tracciato verso est, videro le Montagne: le pendici più vicine erano brune e cupe, ma al di là si ergevano contorni grigi, dominati a loro volta da alti picchi bianchi scintillanti tra le nubi.

«Ebbene! Eccoci qui», disse Merry. «E lo direi un luogo sgradevole e inospitale! Non c’è acqua e non c’è riparo, e quel ch’è peggio, nessun segno di Gandalf. Ma non lo biasimo per non averci atteso qui, ammesso che vi sia venuto».

«Chissà», disse Grampasso, guardandosi intorno pensieroso. «Anche se avesse avuto un giorno o due di ritardo su noi a Brea, sarebbe arrivato qui prima. Sa galoppare molto veloce, quando è necessario». D’un tratto si curvò per osservare la pietra in cima al mucchio: era più piatta delle altre e più bianca, come se il fuoco non l’avesse nemmeno sfiorata. La prese in mano e la esaminò, girandola da tutte le parti. «Qualcuno l’ha mossa di recente», disse. «Che ne dite di questi segni?».

Sul lato piatto del sasso, Frodo vide dei graffi:

«Sembrerebbero una sbarra, un punto, ed altre tre sbarre», disse.

«La sbarra a sinistra potrebbe essere una runa, e precisamente una G con due esili rami», disse Grampasso. «Forse un segno lasciato da Gandalf, ma non ne abbiamo alcuna certezza. I graffi sono certamente recenti. Ma può darsi che significhino tutt’altra cosa, e non abbiano niente a vedere con noi. Anche i Raminghi per esempio adoperano le rune, e qualche volta vengono da queste parti».

«Cosa potrebbero voler dire, nel caso fosse stato Gandalf a farli?», chiese Merry.

«Direi», rispose Grampasso, «che significherebbero G 3, ossia che Gandalf è stato qui il tre di ottobre, tre giorni fa. Dimostrerebbero poi che egli aveva molta fretta e che il pericolo era tanto imminente da non dargli nemmeno il tempo di scrivere qualcosa di più lungo e di più chiaro. Se le cose stanno così, ci conviene essere molto prudente».

«Se solo fossimo sicuri che è stato Gandalf a fare quei segni, non m’importerebbe di saper cosa significhino», disse Frodo. «Sarebbe di gran conforto sapere ch’egli è per strada, davanti o dietro di noi».

«Forse lo è», disse Grampasso. «Per me, sono sicuro ch’egli è passato di qui e che era in grave pericolo. Si vedono tracce di un violento incendio e mi torna alla mente la luce che abbiamo visto tre notti fa lampeggiare nel cielo a oriente. Immagino che sia stato attaccato su questa collina, ma con quali risultati, lo ignoro. Egli non è più qui, e noi dovremmo essere molto cauti e andarcene a Gran Burrone come meglio possiamo».

«Quanto dista Gran Burrone?», chiese Merry, guardandosi intorno con aria stanca e scoraggiata. Il mondo era grande e selvaggio, visto da Colle Vento.

«Non so se la Via sia stata mai misurata in miglia, oltre la Locanda Abbandonata, a un giorno di viaggio a est di Brea», rispose Grampasso. «Alcuni dicono una cosa, altri un’altra. È una strada strana, e la gente è contenta di giungere alla fine del viaggio, che esso sia lungo o breve. Ma ti posso dire quanto c’impiegherei io, a piedi, col bel tempo e la sorte propizia: dodici giorni da qui al Guado del Bruinen, dove la Via attraversa il Rombirivo che sbocca da Gran Burrone. Abbiamo davanti a noi perlomeno quindici giorni di viaggio, poiché non credo che potremo servirci della Via».

«Quindici giorni!», disse Frodo. «Possono accadere molte cose, in quindici giorni!».

«Sì, molte», disse Grampasso.

Rimasero per qualche istante in piedi al margine sud della cima, in silenzio. In quel posto solitario, per la prima volta Frodo si rese pienamente conto del pericolo che lo minacciava e di quanto egli fosse derelitto. Rimpiangeva amaramente che la sua sorte non l’avesse lasciato vivere in pace nella sua beneamata Contea. Guardò ai suoi piedi l’odiata Via che conduceva indietro, a occidente, verso casa. E improvvisamente vide due macchie nere muoversi lentamente verso ovest; guardando meglio ne scorse altre tre che strisciavano verso est, andando loro incontro. Lanciò un grido e afferrò il braccio di Grampasso.

«Guarda», disse, indicando la Via.

In men che non si dica, Grampasso si gettò per terra dietro alle rocce dell’antica torre, trascinando con sé Frodo. Merry si tuffò accanto a loro.

«Cos’è?», sussurrò.

«Non so, ma temo il peggio», rispose Grampasso.

Strisciarono di nuovo lentamente fino al perimetro di pietre e guardarono attraverso una fessura tra due macigni sporgenti. La luce non era più quella di prima, perché il chiaro mattino si era offuscato e le nuvole venute da est ricoprivano il sole, che si apprestava a scendere. Riuscivano tutti a vedere le macchie nere, ma né Frodo né Merry potevano individuarne con precisione la forma; eppure qualcosa diceva loro che lì, ai loro piedi, i Cavalieri Neri si adunavano sulla Via, poco oltre le falde del colle.

«Sì», disse Grampasso, cui la vista acutissima non lasciava più alcun dubbio. «Il nemico è qui».

Strisciarono via velocemente e scivolarono giù dal pendio nord della collina per raggiungere i loro compagni.

* * *

Sam e Pipino non erano stati oziosi. Avevano esplorato la piccola conca ed i pendii circostanti. Non lontano avevano trovato una fonte d’acqua fresca e limpida che sgorgava dal fianco della collina e, vicino, orme che non risalivano a più di uno o due giorni addietro. C’erano poi tracce di un fuoco recente e altri segni di un accampamento affrettato. Dietro alcune rocce franate, nella conca più vicina al fianco del colle, Sam rinvenne una piccola scorta di legna da fuoco ben accatastata.

«Chissà se il vecchio Gandalf è passato da qui», disse a Pipino. «Chiunque abbia ammucchiato questa roba intendeva tornare».

Grampasso s’interessò molto alle scoperte. «Se almeno avessi aspettato ed esplorato personalmente il terreno da queste parti», disse, affrettandosi verso la fonte per esaminare le orme.

«È successo quel che temevo», disse tornando. «Sam e Pipino hanno camminato sulla terra morbida, e le tracce sono scomparse o confuse. Ci sono stati dei Raminghi di recente nei paraggi; sono stati loro a lasciare la legna da fuoco. Ma vi sono anche altre tracce che non appartengono ai Raminghi. Almeno una serie di orme è stata fatta, uno o due giorni fa al massime, da pesanti stivali. Almeno una. Non posso esserne sicuro, ora come ora, ma credo che ci fossero più paia di stivali». S’interruppe e rimase immobile e pensoso.

Nella mente degli Hobbit apparve vivida l’immagine dei Cavalieri con manto e stivali. Se avevano già scoperto il sito della conca, la miglior cosa da farsi era che Grampasso li portasse altrove e al più presto. Sam guardò la conca con molta ostilità, ora che sapeva che i loro nemici erano sulla Via, a poche miglia di distanza.

«Non sarebbe bene che ce la svignassimo alla chetichella, signor Grampasso?», chiese impaziente. «Si sta facendo tardi, e questo buco non mi piace affatto. Mi stringe il cuore, in un certo qual modo».

«Sì, dobbiamo prendere seduta stante una decisione», rispose Grampasso levando lo sguardo verso il cielo e soppesando l’ora e le condizioni atmosferiche. «Ebbene, Sam», disse finalmente, «neanche a me piace questo posto, ma non riesco a pensare a qualcosa di meglio da poter raggiungere prima che si faccia notte. Perlomeno momentaneamente siamo nascosti; se ci movessimo le spie non tarderebbero a scorgerci. L’unica cosa che potremmo fare sarebbe deviare completamente dal nostro itinerario, tornando indietro verso nord da questo lato della catena di colline, dove il terreno è più o meno come qui. Infatti la Via è sorvegliata, e noi dovremmo attraversarla, se cercassimo di rifugiarci nei piccoli boschi a sud. Sul lato nord della Via, al di là dei colli, la campagna è nuda e piatta per miglia e miglia».

«Ma i Cavalieri vedono?», chiese Merry. «Voglio dire che generalmente pare che adoperino il naso piuttosto che gli occhi, che fiutino per trovarci, se fiutare è il termine giusto, o perlomeno di giorno è ciò che li abbiamo visti fare. Ma tu ci hai fatto distendere per terra, quando questo pomeriggio li abbiamo scorti giù nella Via; ed ora dici che saremmo visti, se ci muovessimo».

«Sono stato troppo poco cauto sulla cima della collina», rispose Grampasso. «Ero molto ansioso di trovare qualche segno di Gandalf; ma è stato un grande sbaglio salire lassù in tre e rimanervi così a lungo. I cavalli neri vedono, ed i Cavalieri possono servirsi degli Uomini o di altri esseri come spie: e ne abbiamo avuto la prova a Brea. Essi non vedono il mondo di luce come noi, ma le nostre forme proiettano ombre nelle loro menti, che soltanto il sole di mezzogiorno può distruggere; e nell’oscurità percepiscono molti segni e molte figure che per noi sono invisibili: è allora che bisogna temerli maggiormente. E ad ogni attimo fiutano il sangue dei vivi, desiderandolo e odiandolo. E poi esistono altri sensi, oltre la vista e l’odorato. Noi sentiamo la loro presenza … : ci ha turbato il cuore, appena siamo giunti qui, e prima che li vedessimo. Loro percepiscono la nostra presenza ancora più intensamente. Infine», aggiunse, e la sua voce non fu più che un sussurro, «l’Anello li attira».

«Ma allora non c’è scampo!», esclamò Frodo, guardandosi intorno smarrito e disperato. «Se mi muovo, sarò visto ed inseguito! Se rimango, li attirerò su di me!».

Grampasso gli posò la mano sulla spalla. «Non disperare», gli disse. «Non sei solo. Prendiamo come segnale questa legna pronta per il fuoco. C’è poco riparo e poca possibilità di difesa in questo luogo, ma il fuoco servirà ad ambedue gli scopi. Sauron può adoperare il fuoco per fini malvagi, come fa con tutte le altre cose, ma questi Cavalieri non lo amano e temono coloro che lo posseggono. Il fuoco è il nostro amico nelle terre deserte e selvagge».

«Sarà», borbottò Sam. «A mio parere è un modo come un altro per dire ” eccoci qui! “, forse un po’ meno apertamente che urlandolo».

* * *

Nell’angolo più buio e riparato della conca accesero un falò e prepararono il pranzo. Già apparivano le ombre della sera e l’aria si faceva fredda. Si accorsero improvvisamente di essere affamatissimi e si ricordarono di non aver mangiato dal mattino; non osarono però consumare altro che un pasto frugale. Le contrade intorno erano deserte e abitate soltanto da qualche uccello e da strane bestie: terre ostili e abbandonate da tutti e da tutto. Alcuni Raminghi passavano di tanto in tanto al di là delle colline, ma erano in pochi e non si trattenevano. Altri tipi di viaggiatori si incontravano di rado, e si trattava per lo più di individui loschi: talvolta Troll venuti dalle vallate nord delle Montagne Nebbiose. Gli unici veri viaggiatori che percorrevano la Via erano generalmente Nani, che avevano molta premura di sbrigare gli affari loro e poco o niente aiuto da dedicare agli estranei.

«Non vedo proprio come potremo far bastare le provviste alimentari», disse Frodo. «Siamo stati più che attenti, in questi ultimi giorni, e bisogna riconoscere che questo pasto non è un banchetto; eppure abbiamo consumato più di quanto non dovessimo, se ci attendono ancora quindici giorni di marcia e forse più».

«C’è cibo nelle Terre Selvagge», disse Grampasso; «bacche, radici, erbe; ed io sono un cacciatore abbastanza abile, se necessario. Non dovete temere di morir di fame prima che arrivi l’inverno. Ma racimolare e cacciare è un lavoro lungo e stancante, e noi abbiamo molta fretta. Perciò stringete le cinture e pensate per consolarvi alle tavole imbandite a casa di Elrond!».

Il freddo aumentò con l’oscurità che avanzava. Guardando dal limite della conca non vedevano altro che la terra grigia scomparire rapidamente nelle ombre della notte. Il cielo sul loro capo era tornato limpido e vi si affollavano man mano le stelle scintillanti. Frodo ed i suoi compagni si accovacciarono vicino al fuoco, avvolti in tutti gli indumenti e le coperte che possedevano; Grampasso invece, seduto un po’ distante, fumava pensieroso la pipa, accontentandosi di un unico mantello.

Quando la notte incominciò a infittirsi e la luce del fuoco rifulse nell’oscurità, egli si mise a raccontar delle storie, per distrarre le loro menti dalla paura. Conosceva un’infinità di storie e di leggende del passato, che parlavano di Elfi e di Uomini, e degli eventi piacevoli o nefasti dei Tempi Remoti. Essi si chiedevano quanti anni avesse e dove avesse imparato tutte quelle cose misteriose.

«Parlaci di Gil-galad», disse improvvisamente Merry, quando egli ebbe terminato una storia sui Regni degli Elfi. «Conosci altre strofe di quell’antico poema del quale ci parlavi?».

«Certo che ne conosco», rispose Grampasso. «Ed anche Frodo le sa, perché lo riguardano molto da vicino». Merry e Pipino guardarono Frodo, il cui sguardo era perso nel fuoco.

«So soltanto quel poco che Gandalf mi ha detto», disse lentamente Frodo. «Gil-galad fu l’ultimo dei grandi Re Elfici della Terra di Mezzo. Gil-galad significa Luce di Stelle nella loro lingua. Con Elendil, l’Amico di Elfi, si recò nella terra di…».

«No!», interloquì Grampasso. «Non credo sia opportuno raccontare ora quell’episodio, con i servi del Nemico a portata di mano. Se riusciremo a raggiungere la casa di Elrond, ve lo racconterà lui per intero».

«E allora narrateci qualche altra leggenda dei tempi che furono», supplicò Sam: «una leggenda che parli degli Elfi dei tempi antichi. Desidererei tanto saperne di più sugli Elfi, e l’oscurità sembra stringerci tutt’intorno così minacciosamente!».

«Vi racconterò la storia di Tinùviel», disse Grampasso, «in breve, perché è molto lunga e non se ne conosce la fine. Nessuno, al giorno d’oggi, la ricorda tale quale veniva narrata anticamente. È una bella storia, benché triste, come tutte le storie della Terra di Mezzo; eppure potrebbe rincorarvi e infondere coraggio nel vostro animo». Dopo qualche minuto di silenzio, egli si mise non a parlare, bensì a cantare dolcemente:

Lunghe eran le foglie e l’erba era fresca,

E le cicute ondeggiavano fiorite e belle.

Una luce brillava nella foresta,

Era tra le ombre un luccicar di stelle.

Tinùviel ballava nella radura,

Di un flauto nascosto alla musica pura;

Una luce di stelle le inondava i capelli

E la splendida veste, oh Tinùviel!

Là giunse Beren dal monte imponente

E tra le fronde e gli alberi vagabondò disperso

E dove il fiume elfico scorre turbolento

Camminò solitario ed in pensieri immerso.

Guardando tra le verdi foglie delle foreste,

Vide con meraviglia dalle dorate

Ricoprir il manto e la lunga veste

E la capigliatura bionda come cascate.

Per incanto i piedi guariti e riposati,

Che condannati erano ad errare lontano,

Ripresero il cammino, senza paura né rimpianto,

E tra i raggi di luna ei giocava con la mano.

Tinùviel tra i boschi elfici

Fuggiva con piedi alati

Lasciandolo senza amici

Nelle foreste e sui prati.

Beren sentì un suono puro, sublime e celeste,

Come di passi e danze pari a petali leggeri;

E musica vibrava sotto le foreste,

Cullando il suo cuore triste ed i suoi pensieri.

Giunse l’inverno e cupi gli alberi e le piante

Sospiravano tristi, per il tormento

Cadevano le foglie con la luna calante,

La campagna era fredda e gelido tirava il vento.

La cercò sempre, lei ch’era bella,

Tra i rami e le foglie e le fronde delle piante,

Al lume della luna, al raggio della stella,

Sotto un cielo pallido, ghiacciato e tremante.

La sua veste fulgeva al bagliore lunare

Mentre in lontananza sul colle danzava

Ed ai suoi piedi agili si vedeva brillare

Una nebbia d’argento ch’ella emanava.

Passato l’inverno ella tornò a ballare

E col suo canto giunse la primavera,

Come una felice allodola o una rondine leggera,

Ed un fiume che scorre dolce verso il mare;

E quando ai suoi piedi spuntarono i fiori,

Ei non desiderò altro che starle accanto,

Poterla accompagnare nel ballo e nel canto

Sull’erba fresca dai mille colori.

Inseguita, di nuovo ella fuggì via.

Tinùviel! Tinùviel!

Il suo nome elfico era poesia,

Ed ella si fermò un attimo ad ascoltare

Come incantata la voce di Beren

Che svelto la raggiunse e come per magia

La vide tra le sue braccia splendere e brillare

Fanciulla elfica ed immortale.

Ma dal destino amaro furono separati,

E vagarono a lungo per monti e pendici

Tra cancelli di ferro e castelli spietati

E boschi cupi e tetri e luoghi abbandonati,

Mentre tra loro erano i Mari Nemici.

Ma un giorno luminoso si ritrovaron felici,

Ed assieme partiron, amati e infine uniti,

Attraverso boschi e campagne fioriti.

Grampasso sospirò e tenne un minuto di silenzio prima di parlare nuovamente. «Questa è una canzone», disse, «del genere chiamato ann-thennath dagli Elfi, ma è difficile da rendere nella nostra Lingua Corrente, e quel che vi ho cantato non è che una rozza eco. Parla dell’incontro di Beren, figlio di Barallir e di Lùthien Tinùviel. Beren era un mortale, ma Lùthien era la figlia di Thingol, Re degli Elfi nella Terra di Mezzo allorché il mondo era giovane; la più dolce e soave fanciulla che sia mai esistita. La sua bellezza era pari al rifulgere delle stelle oltre le nebbie delle Terre Nordiche, che parevano rispecchiarsi nel suo viso luminoso. In quei giorni il Grande Nemico, di cui Sauron di Mordor non era che un servitore, viveva nel Nord, ad Anghand, e gli Elfi dell’ovest, di ritorno nella Terra di Mezzo, gli dichiararono guerra, per riconquistare i Silmarilli che egli aveva loro rubati. Ma il Nemico fu vittorioso, e Barallir ucciso, e Beren dovette fuggire tra immensi pericoli, scavalcando le Montagne del Terrore e giungendo nel Regno di Thingol, nascosto nella Foresta di Neldoreth. Lì fu incantato dalla vista di Lùthien che cantava e danzava in una radura vicino al magico fiume Esgalduin, e la chiamò Tinùviel, che vuol dire Usignolo nella lingua arcaica.

«Molti dispiaceri e molti eventi nefasti li separarono, tenendoli a lungo lontani. Tinùviel salvò Beren dalle prigioni sotterranee di Sauron, ed assieme lottarono contro crudeli pericoli, riuscendo persino a detronizzare il Grande Nemico e a strappare dalla sua corona di ferro uno dei tre Silmarilli, le gemme più splendenti che esistano, che fu il loro pegno d’amore. Ma alla fine Beren fu ucciso dal Lupo venuto dai cancelli di Anghand, e spirò tra le braccia amorose di Tinùviel; ma ella scelse la mortalità, e di morire al mondo, per poterlo seguire. Si canta che si incontrarono nuovamente al di là dei Mari che separano i mondi, e che camminarono ancora qualche tempo vivi tra i verdi boschi e che poi assieme oltrepassarono, tanti e tanti anni fa, i confini del nostro mondo.

«È così che Lùthien Tinùviel fu l’unica della sua gente a morire veramente, a lasciare la terra, ed essi perdettero quella che più amavano. Ma tramite lei la schiatta degli antichi Signori elfici si fuse con gli Uomini. Vivono ancora coloro dei quali Lùthien fu la progenitrice e si dice che la sua linea non si estinguerà mai. Elrond di Gran Burrone appartiene a quella stirpe. Da Beren e Lùthien nacque l’erede di Thingol, che chiamarono Dior; e da questi Elwing la Bianca, che sposò Eärendil, colui che navigò con la sua imbarcazione lungi dalle nebbie del mondo, sino ai Mari del Cielo, portando in fronte il Silmaril. E da Eärendil discesero i Re di Nùmenor, ossia dell’Ovesturia».

Mentre Grampasso parlava, essi osservavano il suo strano viso dall’espressione così intensa, che le fiamme del falò illuminavano fiocamente. Gli occhi brillavano e la voce era profonda e pastosa. Sul suo capo il cielo era nero e stellato. All’improvviso un pallido bagliore apparve sulla corona del Colle Vento alle sue spalle. La luna crescente si inerpicava lenta sulla collina che li dominava e le stelle tutt’intorno alla vetta sbiadirono e impallidirono.

La storia era finita. Gli Hobbit si mossero, sgranchendosi le gambe. «Guardate!», esclamò Merry. «Sorge la Luna: deve essersi fatto tardi».

Gli altri levarono gli occhi verso l’alto, e mentre i loro sguardi si innalzavano, videro sulla cima del colle una cosa piccola e nera che si delineava contro il chiaro di luna. Era forse soltanto una grande roccia, o un masso sporgente, che risaltava nettamente nella pallida luce.

Sam e Merry si alzarono e fecero quattro passi, Frodo e Pipino rimasero seduti in silenzio. Grampasso osservava attentamente la sommità del colle al chiaro di luna. Tutto pareva tranquillo e silenzioso, ma a Frodo sembra che un terrore gelido gli inondasse il cuore, ora che Grampasso taceva. Si accoccolò ancora più vicino al fuoco. In quel momento Sam tornò correndo dal limite della conca.

«Non so perché», disse, «ma ho avuto improvvisamente paura. Non uscirei da questa conca per tutto l’oro del mondo: ho avuto l’impressione che qualcosa stesse strisciando su lentamente, lungo il versante del colle».

«Hai visto qualcosa?», chiese Frodo, saltando in piedi.

«Nossignore, non ho visto nulla. Ma non mi sono fermato a guardare».

«Io ho visto qualcosa», disse Merry, «o così mi è parso: sulla pianura a occidente, nella zona illuminata dalla Luna, al di là dell’ombra proiettata dalle vette dei colli. Ho creduto di vedere due o tre forme nere. Sembravano muoversi in questa direzione».

«State vicinissimi al fuoco, con il viso rivolto verso l’esterno!», gridò Grampasso. «E prendete in mano i bastoni più lunghi, pronti ad adoperarli!».

Passarono alcuni minuti che parvero un’eternità: seduti silenziosi con la schiena rivolta verso il fuoco, con lo sguardo perso nelle tenebre circostanti, trattenendo il respiro. Non accadde nulla. Né un suono né un movimento turbavano la notte. Frodo si mosse, sentendo che doveva assolutamente rompere tutto quel silenzio: aveva una voglia matta di mettersi a gridare.

«Ssst!», sussurrò Grampasso. «Cos’è?», balbettò Pipino allo stesso tempo.

Sull’orlo della piccola conca, dalla parte opposta del colle, sentirono, piuttosto che vederla, un’ombra che si ergeva, un’ombra o forse più di una. Scrutando le tenebre attentamente, le forme parvero ingigantirsi e presto non ebbero più alcun dubbio: tre o quattro figure alte erano in piedi lì sul pendio e li guardavano. Erano talmente nere che sembravano buchi neri nell’ombra scura che li circondava. Frodo credette di sentire una specie di sibilo, come un respiro velenoso, e un brivido gelido gli attraversò la schiena. Le forme avanzarono lentamente.

Il panico s’impadronì di Pipino e di Merry, che si gettarono per terra. Sam si avvicinò a Frodo. Questi non era meno terrorizzato dei suoi compagni: tremava come per un gran freddo; ma il suo spavento fu improvvisamente come inghiottito dalla forte tentazione d’infilarsi l’Anello. Non riusciva a pensate ad altro, tanto era violento il desiderio. Non si era dimenticato dei Tumuli né del messaggio di Gandalf, ma qualcosa sembrava istigarlo, con una potenza quasi irresistibile, a trascurare tutti gli avvertimenti. Non era la speranza della fuga né uno scopo qualsiasi, buono o malvagio, ma semplicemente il bisogno di prendere l’Anello e di metterselo al dito. Era come muto e paralizzato. Sentiva che Sam lo stava guardando, come se sapesse che il suo padrone era in grave turbamento, ma non riusciva a voltarsi verso di lui. Chiuse gli occhi e lottò qualche minuto con se stesso; ma ogni resistenza fu vana, ed egli cedette, tirando fuori lentamente la catenella e infilando l’Anello al dito indice della mano sinistra.

Immediatamente le forme diventarono chiarissime, benché tutto il resto rimanesse tenebroso e scuro. Egli riusciva a vedere al di sotto dei manti neri; delle cinque alte figure, due erano in piedi sull’orlo della conca e tre stavano avanzando. Nei loro visi bianchi fiammeggiavano occhi penetranti e spietati; sotto le cappe, portavano un abito lungo e grigio, e sui capelli grigi, un elmo d’argento; le loro mani scarne stringevano spade d’acciaio. Il loro sguardo cadeva su di lui, attraversandolo; ed essi si precipitarono mentre, disperato, egli sfoderava la propria spada che parve rossa e incandescente come un tizzone. Due delle figure s’arrestarono. La terza era più alta delle altre: i capelli lunghi luccicavano e sull’elmo era posta una corona. In una mano stringeva una lunga spada, nell’altra un coltello; sia la mano che il coltello ardevano con una pallida luce; fece un balzo avanti e si lanciò su Frodo.

In quel momento Frodo si gettò per terra e udì la propria voce gridare forte: O Elbereth! Gilthoniel!, mentre vibrava un colpo contro i piedi del nemico. Un grido acutissimo e potente squarciò la notte; e Frodo sentì un dolore atroce alla spalla, come se fosse stato trafitto da una freccia di ghiaccio avvelenato. Riuscì ancora, prima di svenire, a scorgere Grampasso che balzava fuori dall’oscurità con un tizzone fiammeggiante in ciascuna mano. Con un ultimo sforzo spossante, dopo aver lasciato cadere la spada, Frodo si tolse l’Anello dal dito e lo strinse forte nella mano destra.

CAPITOLO XII FUGA AL GUADO




Quando Frodo riprese i sensi, stava ancora stringendo freneticamente l’Anello in mano. Era disteso accanto al fuoco, al quale era stata aggiunta abbondante legna, e che brillava intensamente. I tre compagni erano curvi su lui.

«Che cos’è successo? Dov’è il pallido re?», chiese come un demente.

Erano troppo felici di sentirlo parlare per poter rispondere, e tra l’altro non capirono le sue domande. Infine apprese da Sam che essi non avevano visto altro che delle vaghe forme oscure che si avvicinavano; all’improvviso, Sam si era accorto con orrore che il suo padrone era scomparso, e in quel preciso istante una forma nera gli era passata accanto precipitosamente, facendolo cadere. Egli aveva udito la voce di Frodo, ma sembrava giungere da molto lontano, o da sotto terra, e gridare strane parole. Essi non avevano visto più niente, ma a un certo momento erano inciampati nel corpo di Frodo, disteso come morto col viso contro l’erba e la spada sotto di sé, Grampasso aveva ordinato loro di sollevarlo e di sdraiarlo vicino al fuoco, e quindi era sparito. Era ormai passato parecchio tempo.

Era chiaro che Sam stava ricominciando a nutrire seri dubbi nei confronti di Grampasso; ma mentre parlavano egli tornò, sbucando improvvisamente dalle tenebre. Essi trasalirono e Sam sfoderò la spada rizzandosi in piedi davanti a Frodo; ma Grampasso si inginocchiò rapido al suo fianco.

«Non sono un Cavaliere Nero, Sam», disse dolcemente, «né cospiro con loro. Stavo cercando solo di scoprire qualcosa sui loro movimenti, ma non ho trovato nulla. Non riesco a capire perché se ne siano andati via e non ci attacchino più. Ho l’impressione che si siano allontanati».

Quando sentì quel che Frodo aveva da raccontare, diventò molto, molto inquieto, e sospirò, scuotendo la testa. Quindi ordinò a Pipino e a Merry di scaldare quanta più acqua fosse possibile e di porre impacchi sulla ferita. «Mantenete il fuoco molto vivo, e tenete Frodo bene al caldo!», disse. Poi si alzò e allontanandosi chiamò Sam. «Credo di capire un po’ meglio come stiano le cose, adesso», disse a bassa voce. «I nemici non erano apparentemente più di cinque: perché non ci fossero tutti, non lo so; ma suppongo che si aspettassero di non trovare alcuna resistenza. Si sono allontanati, per il momento, ma non molto, purtroppo. Torneranno la notte prossima, se non riusciamo a scappare. Stanno aspettando, perché credono che la loro mèta sia ormai quasi raggiunta e che l’Anello non possa sfuggire molto lontano. Temo, Sam, che siano convinti che il tuo padrone abbia subito una ferita mortale che lo soggiogherà alla loro volontà. Lo vedremo!».

Sam era soffocato dalle lacrime. «Non disperare!», disse Grampasso. «Devi aver fiducia in me, d’ora in poi. Il tuo Frodo è fatto di una pasta più dura di quanto non credessi, benché Gandalf vi avesse a volte fatto allusione. Non è ferito a morte, e credo che resisterà al potere malefico della pugnalata più a lungo di quanto non pensino i suoi nemici. Io farò quanto è in mio potere per aiutarlo a guarire. Custoditelo bene, mentre io non ci sono!». E se ne andò, sparendo di nuovo nelle tenebre.

Frodo sonnecchiava, sebbene il dolore della ferita stesse rapidamente crescendo e un freddo mortale si diffondesse dalla spalla fino al braccio e al fianco. La notte passò lenta e penosa, e l’alba stava per nascere, riempiendo la conca di una luce grigia, quando finalmente Grampasso riapparve.

«Guardate!», esclamò, e si chinò per raccogliere un manto nero per terra, nascosto sino allora dall’oscurità. A dieci pollici dall’orlo vi era uno squarcio. «Questo è il colpo di spada di Frodo», disse. «L’unica lesione subita dal nemico, temo; infatti la spada è intatta, mentre tutte le lame che feriscono il corpo di quell’orrendo re vanno in frantumi. Più infausto per lui è stato il nome di Elbereth. E più infausto per Frodo è stato questo!». Si curvò nuovamente e raccolse un lungo coltello aguzzo. Ardeva di una luce fredda. Quando Grampasso lo tenne in mano, videro che vicino all’estremità la lama era intaccata e che la punta era rotta. Ma guardandolo meglio, alla luce dell’alba che avanzava, rimasero sbalorditi, perché la lama parve squagliare, e svanì come fumo nell’aria: in mano, Grampasso stringeva ormai solo l’elsa. «Ahimè!», esclamò. «È stato questo maledetto pugnale a provocare la ferita. Pochi sono quelli il cui potere di guarigione può combattere armi sì malefiche. Ma farò ciò che posso».

Si sedette per terra e posò l’elsa del pugnale sulle sue ginocchia, cantandole una lenta canzone in una lingua arcana. Poi la mise da parte e, voltatosi verso Frodo, gli disse in un tono di voce soave delle parole che nessuno capiva. Dalla borsa attaccata alla sua cinta trasse lunghe foglie.

«Per trovare queste foglie», disse, «ho camminato molto e lontano da qui: questa infatti non è una pianta che cresce sulle brute colline. Le ho colte nei boschetti a sud della Via, dove ho sentito la loro presenza per via del forte profumo». Egli strinse una foglia tra le dita, e ne esalò una fragranza dolce e penetrante. «È stata una gran fortuna trovarle, poiché sono di una pianta medicinale che gli Uomini dell’Ovest portarono nella Terra di Mezzo. La chiamavano athelas, e ora cresce in luoghi remoti, e solo vicino a dove essi vissero o si accamparono in antico; e non è affatto conosciuta al Nord, eccetto che da quelli che erano nelle Terre Selvagge. I suoi poteri sono grandi, ma per questa ferita non so se basteranno».

Gettò le foglie in acqua bollente e ne fece impacchi che applicò sulla spalla di Frodo. La fragranza del vapore era rinfrescante, e coloro che non erano feriti si sentirono come inondati di calma e di pace. L’erba aveva anche qualche potere sulla ferita, poiché Frodo sentì diminuire il dolore ed anche il senso di freddo glaciale, benché il braccio rimanesse inerte ed egli fosse incapace di alzare o adoperare la mano. Rimpianse amaramente di essersi comportato da sciocco e si rimproverò la propria debolezza: si rendeva conto infatti che infilando l’Anello aveva obbedito non alla propria volontà ma al desiderio dei suoi nemici. Si chiese se sarebbe rimasto mutilato per sempre e come avrebbe fatto adesso a continuare il viaggio. Si sentiva troppo debole per reggersi in piedi.

Era ciò che gli altri stavano discutendo. Decisero di lasciare al più presto Colle Vento. «Credo», disse Grampasso, «che il nemico stia osservando questo posto da parecchi giorni. Se Gandalf è già stato qui, deve essere stato costretto a fuggire, e certo non ritornerà. In ogni caso, siamo in grande pericolo qui, dopo l’attacco della notte passata, e dovunque andremo, il rischio che correremo sarà minore».

Appena la luce del giorno fu abbastanza forte, fecero una colazione affrettata e prepararono i bagagli. Era impossibile per Frodo camminare, per cui divisero tra loro gran parte dei fardelli e misero Frodo sul pony. Negli ultimi giorni la povera bestia aveva fatto meravigliosi progressi; pareva già più grassa e più forte, e cominciava a mostrare segni d’affetto per i nuovi padroni, in particolar modo per Sam. Il trattamento di Billy Felci doveva essere stato molto cattivo, se il viaggio nelle Terre Selvagge gli sembrava tanto piacevole e più gradevole della sua vita precedente.

Partirono in direzione sud, il che significava dover attraversare la Via; ma era il modo più veloce per raggiungere zone boscose. Inoltre avevano bisogno di combustibile, perché Grampasso sosteneva che era vitale per Frodo lo stare al caldo, particolarmente di notte, mentre il fuoco sarebbe servito anche come protezione. Avevano anche in programma di tagliare un’altra curva della Via: ad est, oltre Colle Vento, essa deviava e tracciava un grande gomito verso nord.

* * *

Avanzarono lentamente e con precauzione lungo le pendici sudoccidentali del colle, giungendo poco dopo al margine della Via. Non vi era segno alcuno dei Cavalieri. Ma proprio mentre stavano attraversandola rapidamente, udirono due gridi in lontananza: una fredda voce che chiamava, una fredda voce che rispondeva. Balzarono innanzi tremanti, precipitandosi nel piccolo bosco al di là della strada. Il terreno era in leggero pendio, ma incolto e senza sentieri; cespugli e alberi rattrappiti crescevano a macchie fitte, divise da grandi spazi brulli. L’erba era rada, raggrinzita e grigia, e le foglie degli alberi sbiadite e mezzo secche. Erano luoghi squallidi e lugubri, e il loro viaggio fu lento e triste. Parlavano poco e i loro piedi erano pesanti. Il cuore di Frodo piangeva nel veder avanzare i suoi compagni accanto a lui con il capo chino e la schiena curva sotto i fardelli. Persino Grampasso sembrava scoraggiato e stanco.

Non avevano ancora finito la tappa del primo giorno, che già le sofferenze di Frodo aumentarono, ma egli non ne fece parola per molto tempo. Passarono quattro giorni, senza che il terreno o il paesaggio cambiassero molto, salvo il progressivo allontanarsi alle loro spalle di Colle Vento e il graduale avvicinarsi delle montagne pur lontane. Cosa strana, dopo i due gridi nessun segno e nessun rumore avevano loro indicato che i nemici fossero sulle loro tracce, o comunque sorvegliassero la loro marcia. Temevano le ore della notte e nelle soste notturne montavano la guardia a due a due, aspettandosi ad ogni istante di vedere apparire ombre nere nella campagna, fiocamente illuminata dalla luna immersa nelle nuvole. Ma non videro nulla e non udirono altro rumore che il sospirare dell’erba e delle foglie avvizzite. Non ebbero nemmeno una volta la sensazione della presenza malefica che avevano sentito con tanta forza il giorno dell’attacco nella conca. Sarebbe stata una speranza eccessiva credere che i Cavalieri avessero nuovamente perso le loro tracce. Forse si preparavano a tender loro un’imboscata in qualche luogo meglio adatto alle insidie?

Alla fine del quinto giorno il terreno cominciò di nuovo a salire lentamente dalla vasta valle piatta ove si trovavano. Grampasso orientò nuovamente la loro marcia verso nord-est, e il sesto giorno giunsero alla sommità di un lungo declivio poco scosceso; di là potevano vedere in lontananza un gruppetto di colline boscose. Ai loro piedi la Via aggirava le falde dei colli e sulla destra un fiume grigio fluiva pigro alla pallida luce del sole. Un altro corso d’acqua distante s’intravedeva in una valle rocciosa velata dalla foschia.

«Temo che dovremo tornare sulla Via per un po’», disse Grampasso. «Siamo giunti al Fiume Bianco, che gli Elfi chiamano Mithelthel. Scorre giù dagli Erenbrulli, le colline spoglie a nord di Gran Burrone, e raggiunge il Rombirivo più a sud. Alcuni, dopo la confluenza, lo chiamano Inondagrigio. È un corso d’acqua molto ampio, quando sbocca nel mare. Per attraversarlo più a valle della sorgente sugli Erenbrulli c’è soltanto l’Ultimo Ponte, sul quale passa la Via».

«Che fiume è quell’altro che si vede laggiù in fondo?», domandò Merry.

«Quello è il Rombirivo, il fiume di Gran Burrone», rispose Grampasso. «La Via corre lungo la cresta dei colli per parecchie miglia dal Ponte sino al Guado di Bruinen. Ma non ho ancora pensato a come faremo per attraversare quel corso d’acqua. Un fiume per volta! Sarà una fortuna inaspettata se l’ultimo Ponte non è nelle mani del Nemico».

* * *

L’indomani, abbastanza presto, scesero di nuovo fino alla Via. Sam e Grampasso andarono in avanscoperta, ma non trovarono traccia di viaggiatori o di Cavalieri. Lì, all’ombra delle colline, era piovuto; Grampasso disse che doveva essere successo più o meno due giorni prima, e che la pioggia aveva cancellato tutte le impronte. Da allora nessun cavallo era passato da quelle parti, a quanto pareva.

Affrettarono il passo, e dopo un paio di miglia videro innanzi a loro l’Ultimo Ponte, in fondo a una breve e ripida scarpata. Temevano terribilmente di vedere figure nere in attesa, a cavallo; ma non ve n’era traccia. Grampasso li fece nascondere in un gruppetto alquanto fitto di alberi al lato della Via, mentre egli andava avanti in esplorazione.

Poco dopo lo videro tornare in fretta. «Non vedo segni del Nemico», disse, «e non so proprio cosa ciò significhi. In compenso, ho trovato qualcosa di molto strano».

Tese la mano aperta, sul palmo della quale videro un gioiello verde pallido. «L’ho trovato nel fango in mezzo al Ponte», disse. «È una gemma degli Elfi. Non saprei dire se è stata messa li apposta, o se è caduta per caso; ma m’infonde speranza. La considererò come un segno per dirci che possiamo attraversare il Ponte. Ma al di là del fiume non avrei il coraggio di proseguire sulla Via, a meno che non trovassimo qualche indicazione più chiara».

* * *

Si misero immediatamente in marcia. Attraversarono il Ponte senza incidenti, e l’unico suono che giunse alle loro orecchie era quello dell’acqua che si frangeva contro i tre grandi piloni. Un paio di miglia più avanti giunsero in uno stretto burrone che li condusse verso nord in mezzo a un paesaggio montuoso alla sinistra della Via. Grampasso voltò da una parte, e presto si trovarono immersi in una buia campagna piena di alberi scuri ai piedi di colline inospitali.

Gli Hobbit erano ben felici di abbandonare le lugubri zone selvagge e la malefica Via, eppure queste contrade sembravano minacciose e ostili. A mano a mano che avanzavano, i colli intorno diventavano sempre più alti e più ripidi. Qua e là, sulle alture e sulle creste, scorgevano resti di antiche mura e di torri dirupate: avevano un aspetto infausto. Frodo, che non camminava, aveva tempo e possibilità di guardare avanti a sé e di pensare. Si rammentò del racconto del viaggio di Bilbo, e delle torri minacciose sulle colline a nord della Via, nei paraggi del bosco dei Troll, dove gli era capitata la prima avventura veramente seria. Capì che essi si trovavano più O meno negli stessi luoghi e pensò che forse sarebbero passati da quel posto.

«Chi vive in queste regioni?», chiese. «E chi ha costruito queste torri? È questa per caso terra dei Troll ?»,

«No!», rispose Grampasso. «I Troll non costruiscono. In queste terre non vive nessuno. Gli Uomini vi abitarono, secoli fa; ma non ve n’è rimasto più nessuno. Diventarono un popolo malvagio, come narra la leggenda, perché caddero sotto l’ombra di Angmar. Ma furono annientati durante la guerra che segnò la fine del Regno del Nord. Ma ormai è passato tanto e tanto di quel tempo che i colli non si ricordano più di loro, benché un’ombra sovrasti ancora queste terre».

«Dove hai appreso queste storie, se come dici queste contrade sono vuote ed immemori?», chiese Peregrino. «Gli uccelli e le bestie non narrano simili leggende».

«Gli eredi di Elendil non dimenticano le storie del passato», disse Grampasso, «e Gran Burrone ricorda tante altre cose che io non saprei dire».

«Sei stato spesso a Gran Burrone?», chiese Frodo.

«Eccome!», rispose Grampasso. «Vi abitavo, un tempo, e vi ritorno ancora quando posso. Lì è il mio cuore: ma il mio destino non è di dimorare in pace, nemmeno nella bella casa di Elrond».

* * *

I colli incominciarono a stringersi intorno a loro. La Via alle loro spalle proseguiva dritta verso il Fiume Bruinen, ma ambedue erano nascosti alla vista. I viaggiatori giunsero in una lunga valle stretta, dai fianchi scoscesi e spaccati da numerose fenditure buie e silenziose. Alberi con vecchie radici storte e bitorzolute si affacciavano dai declivi, e un po’ più in alto si vedevano boschi d’abeti.

Gli Hobbit erano molto stanchi. Procedevano lentamente, facendosi strada in una campagna incolta, intralciata da alberi caduti e rocce franate. Evitarono il più possibile le salite, per non affaticare Frodo, e perché sarebbe stato pressoché impossibile trovare un pendio che li portasse con certezza fuori dalla valle. Erano ormai da due giorni in quelle terre, quando il tempo diventò umido. Il vento incominciò a soffiare con violenza da ovest e a versare sulle vette scure delle colline l’acqua di mari distanti: la pioggia era fine ma ostinata e penetrante. Sul calar della notte erano già completamente zuppi e il loro accampamento fu triste, poiché non riuscirono a trovare legna che bruciasse. L’indomani i colli davanti a loro s’innalzarono ancor più alti e minacciosi, ed essi furono Costretti a deviare verso nord. Grampasso stava incominciando a inquietarsi: erano partiti da Colle Vento da quasi dieci giorni e la scorta di provviste stava per finire. Continuava a piovere.

Quella notte si accamparono su una sporgenza rocciosa, avendo alle loro spalle una parete di pietra in cui vi era una caverna poco profonda, appena una cucchiaiata scavata nel colle. Frodo era irrequieto. Il freddo e l’umidità avevano reso la ferita più dolorosa che mai, ed il tormento, unito al senso di freddo mortale, lo privavano di ogni riposo. Sdraiato, si girava e si rigirava, ascoltando pieno di paura i furtivi rumori notturni: il vento nelle crepe delle rocce, l’acqua che gocciolava, un tonfo, lo scroscio improvviso di un masso che rotolava giù. Ebbe la sensazione che ombre nere stessero avanzando minacciosamente, pronte a soffocarlo; ma alzatosi a sedere, non vide altro che la schiena di Grampasso, che fumava la pipa e scrutava l’oscurità. Si sdraiò di nuovo, passando in un sonno agitato, nel quale sognò di camminare sull’erba del suo giardino nella Contea; ma tutto era pallido e sfocato, salvo le alte ombre nere che in piedi dal di là della siepe lo osservavano tetre.

* * *

La mattina seguente, quando si svegliò, si accorse che aveva smesso di piovere. Le nuvole erano ancora fitte, ma larghi squarci incominciavano ad apparire qua e là, lasciando intravedere pallide strisce di azzurro. Il vento stava nuovamente girando. Si misero in marcia piuttosto tardi, subito dopo una colazione fredda e sconfortante. Grampasso si allontanò da solo, dicendo agli altri di rimanere al riparo della parete rocciosa finché non fosse tornato. Avrebbe cercato di arrampicarsi su, se possibile, per dare un’occhiata nei dintorni.

Al suo ritorno, non fu molto rassicurante. «Siamo venuti troppo a nord», disse, «e dobbiamo trovare qualche maniera di riprendere la direzione sud. Se continuiamo così, arriveremo nelle Erenvalli, molto più a nord di Gran Burrone. Quello è un paese di Troll, ed io non lo conosco bene. Forse ce la faremmo ad attraversarlo e a raggiungere Gran Burrone dal Nord, ma ci vorrebbe troppo tempo, poiché non so la strada, e le nostre provviste non sarebbero sufficienti. Perciò in un modo o in un altro dobbiamo trovare il Guado del Bruinen».

Passarono il resto della giornata arrampicandosi per un terreno roccioso. Trovarono un passo tra due colli, che li condusse in una valle orientata verso sud-ovest, la direzione che essi desideravano seguire; ma sul finir del giorno, trovarono nuovamente la strada sbarrata da un crinale di colline: il suo orlo scuro contro il cielo era frastagliato, e le punte parevano quelle di una sega smussata. Non avevano altra scelta che ritornare sui loro passi, o scalare il versante.

Decisero di tentare l’ascesa, ma si dovettero rendere conto che l’impresa era ardua. Poco dopo, Frodo fu costretto a smontare e ad arrabattarsi a piedi. Ciò nonostante, disperarono a più riprese di riuscire a far salire il pony, e persino di trovare un sentiero, carichi com’erano. La luce se n’era andata quasi completamente quando su una stretta sella tra due punte più alte, ed innanzi a loro, a pochissima distanza, il terreno scendeva di nuovo, ripido e scosceso. Frodo si gettò per terra, e vi rimase disteso e tremante. Il suo braccio sinistro era privo di vita, ed il fianco e la spalla sembravano attanagliati da artigli di ghiaccio. Vedeva gli alberi e le rocce intorno a lui come annebbiati ed indistinti.

«Non possiamo andare più avanti di così», disse Merry a Grampasso. «Temo che sia stato troppo faticoso per Frodo. Sono preoccupato per lui. Che cosa dobbiamo fare? Credi che siano capaci di curarlo a Gran Burrone, ammesso che ci arriviamo?».

«Si vedrà», rispose Grampasso. «Nient’altro posso fare per lui, in queste zone selvagge, ed è principalmente a causa della sua ferita che insisto tanto per andare avanti. Ma riconosco che questa sera è impossibile proseguite».

«Che cos’ha il mio padrone?», chiese Sam a bassa voce, guardando Grampasso con aria implorante. «La ferita era piccola, e ormai è quasi rimarginata. Sulla spalla non si vede che un segno bianco e freddo».

«Frodo è stato colpito dalle armi del Nemico», disse Grampasso, «e c’è qualche veleno o qualche potenza malefica all’opera, che non ho il potere di annientare. Ma non perdere ogni speranza, Sam!».

* * *

La notte era fredda, sull’alta cresta. Accesero un piccolo fuoco nascosto tra le radici nodose di un vecchio pino che sovrastava una piccola cava poco profonda, ove pareva che un tempo avessero estratto pietra. Sedevano rannicchiati gli uni contro gli altri. Un vento gelido soffiava nel valico, ed essi udivano giù sulle pendici gemere e lamentarsi le fronde degli alberi. Frodo nel dormiveglia si sentiva come sfiorato da interminabili ali nere, sulle quali cavalcavano inseguitori che lo cercavano in tutti gli anfratti delle colline.

L’alba fu luminosa e splendente; l’aria era limpida e la luce pallida e chiara in un cielo lavato dalla pioggia. Essi si sentirono incoraggiati, pur desiderando ardentemente il sole che riscaldasse le fredde membra anchilosate. Non appena ci fu un po’ di luce, Grampasso prese con sé Merry, e andarono a osservare i dintorni da un’altura ad est del passo. Il sole si era già levato, e brillava intensamente, quando ritornarono dai compagni con informazioni più confortanti: stavano procedendo più o meno nella giusta direzione; se avessero continuato così, scendendo l’altro versante della cresta, le Montagne sarebbero state alla loro sinistra. A una certa distanza di fronte a loro, Grampasso aveva scorto di nuovo il Rombirivo; ciò confermava i suoi calcoli: la Via per il Guado, non lontana dal Fiume, era vicina, quantunque nascosta.

«Dobbiamo ancora una volta percorrere la Via», disse Grampasso; «non c’è speranza di trovare un sentiero che traversi queste colline. Il solo modo per raggiungere il Guado è la Via, qualunque sia il pericolo che ci attende».

* * *

Si misero in marcia appena ebbero mangiato un poco. Discesero lentamente il versante sud della cresta, e trovarono il percorso molto più facile di quanto non pensassero, poiché la pendenza era di molto inferiore a quella dell’altro versante: presto Frodo poté nuovamente montare a cavallo. Il povero vecchio pony di Billy Felci stava dando prova di notevole talento nella scelta del sentiero e nella delicatezza con cui risparmiava le scosse al suo cavaliere. I viaggiatori ritrovarono il loro buon umore. Persino Frodo si sentiva meglio alla luce del mattino, benché di tanto in tanto un velo di nebbia gli offuscasse la vista, ed egli si passasse una mano sugli occhi.

Pipino era un po’ più avanti degli altri. All’improvviso si voltò verso di loro chiamandoli: «C’è un sentiero qui», esclamò.

Quando furono accanto a lui, si accorsero che non si era sbagliato: da quel punto partiva un viottolo che si inerpicava con molte giravolte dai boschi sottostanti e scompariva alle loro spalle sulla cima del colle. In alcuni tratti sembrava scomparire, ricoperto dalla vegetazione o ingombro di pietre e di alberi caduti; ma si vedeva che un tempo doveva essere molto frequentato. Era un sentiero fatto da braccia possenti e da piedi pesanti; qua e là erano stati tagliati vecchi alberi, e grandi massi erano stati spaccati o spostati per fargli posto.

Seguirono il viottolo per un certo tempo, poiché era di gran lunga il modo più facile per arrivare in fondo, ma procedevano cautamente, e la loro ansietà crebbe quando s’inoltrarono nei boschi scuri, dove il sentiero divenne più ampio e piano. Poi, di punto in bianco, all’uscita da una fascia d’abeti, lo videro scendere ripidamente una scarpata e girare bruscamente a sinistra, aggirando una sporgenza rocciosa del colle. Quando giunsero alla svolta, si accorsero che il sentiero percorreva una striscia orizzontale ai piedi di una bassa rupe lussureggiante di vegetazione. Nella parete rocciosa si apriva una porta sbilenca sorretta da un solo cardine.

Giunti davanti alla porta si fermarono tutti. Essa dava accesso a una caverna, o grotta che dir si voglia, ma l’oscurità all’interno impediva di vedere qualsiasi cosa. Grampasso, Sam e Merry, spingendo con tutte le forze, riuscirono ad aprire un po’ di più lo spiraglio, e Grampasso vi penetrò assieme a Merry. Non s’inoltrarono molto, perché il pavimento era ingombro di ossa, e vicino all’ingresso non c’era altro che qualche grosso barattolo vuoto e vasi rotti.

«Certamente è una grotta di Troll, seppur ce n’è una!», esclamò Pipino. «Venite fuori, voi due, ed andiamocene via. Ora sappiamo chi ha fatto il sentiero, e noi faremmo bene ad andarcene… e in fretta!».

«Non credo sia necessario», disse Grampasso, uscendo. «È certamente una grotta di Troll, ma pare abbandonata da tempo. Non c’è da aver paura. Ma proseguiamo la nostra discesa con cautela, e vediamo che succede».

Il sentiero continuava dopo la porta e voltando a destra si tuffava in un declivio fitto di vegetazione, dopo aver attraversato la fascia di terreno orizzontale. Pipino, che non voleva far capire a Grampasso di aver ancora paura, camminava in testa assieme a Merry. Dopo di loro vi erano Sam e Grampasso, che avanzavano ai due lati del pony di Frodo, poiché il sentiero era ormai abbastanza ampio per permettere a quattro o cinque Hobbit di camminare a fianco a fianco. Ma non avevano fatto molta strada, che Pipino tornò indietro correndo, seguito da Merry. Parevano tutt’e due terrorizzati.

«I Troll ci sono!», disse affannosamente Pipino. «Un po’ più in basso, in una radura nel bosco. Li abbiamo intravisti da dietro i tronchi d’albero. Sono molto grandi!».

«Verremo a dar loro un’occhiata», disse Grampasso, raccogliendo un bastone. Frodo non disse niente, ma Sam sembrava alquanto spaventato.

Il sole era ormai alto, ed i suoi raggi penetravano tra i rami quasi denudati degli alberi, illuminando la radura con grandi chiazze di luce. Giunti sull’orlo si arrestarono e sbirciarono tra i tronchi, col fiato sospeso. In piedi davanti a loro stavano tre Troll: tre Troll grandi e grossi. Uno era curvo, e gli altri due lo guardavano.

Grampasso avanzò disinvoltamente. «Alzati, vecchia pietra!», disse, rompendo il bastone sulla schiena del Troll curvo.

Non accadde nulla. Ci fu un’esclamazione di sorpresa da parte degli Hobbit, seguita nientemeno che da una risata di Frodo. «Ebbene!», disse. «Ci stiamo dimenticando la storia di famiglia! Questi devono essere quei tre Troll sorpresi da Gandalf a litigare sul miglior modo di cucinare tredici Nani ed un Hobbit».

«Non avevo la più pallida idea che fossimo da quelle parti», esclamò Pipino. Conosceva bene la storia, che Bilbo e Frodo avevano raccontato parecchie volte; ma a dir vero non vi aveva mai prestato fede. Anche adesso adocchiava sospettosamente i Troll di pietra, temendo in cuor suo qualche magia che li riportasse improvvisamente in vita.

«Vi state non solo dimenticando della storia di famiglia, ma anche di tutto ciò che sapevate sui Troll», disse Grampasso. «In piena luce del giorno cercate di spaventarmi con una favola di Troll vivi che ci stanno aspettando in una radura! E comunque vi potevate accorgere del nido d’uccelli appollaiato sull’orecchio di uno di essi. Sarebbe un ornamento alquanto insolito per un Troll vivo e vegeto!».

Scoppiarono tutti a ridere. Frodo si sentiva rinfrancar lo spirito: il ricordo della prima avventura di Bilbo coronata da successo era riconfortante. Anche il sole si era fatto caldo e affettuoso, e la nebbia innanzi ai suoi occhi pareva diradarsi. Riposarono qualche tempo nella radura e consumarono la colazione all’ombra, nel bel mezzo delle imponenti gambe dei Troll.

«Perché qualcuno non canta qualcosa, mentre il sole ancora in cielo?», chiese Merry, quando ebbero finito. «Sono giorni che non sentiamo un racconto o una canzone!».

«L’ultima volta è stato a Colle Vento», disse Frodo. Gli altri lo guardarono. «Non vi preoccupate di me!», soggiunse. «Mi sento molto meglio, ma non credo che sarei in grado di cantate. Forse sondando la sua memoria Sam troverà qualcosa».

«Coraggio, Sam!», disse Merry. «C’è più di quel che vuoi far credere nel tuo vecchio testone!».

«Se lo dite voi», disse Sam. «Ma che ve ne pare di questo? Non è quel che io chiamo vera e propria poesia, per intenderci; soltanto un po’ di sciocchezze. Ma quei vecchi personaggi me l’hanno fatto venire in mente». E alzandosi in piedi, con le mani incrociate dietro la schiena come se fosse a scuola, incominciò a cantare modulando su una antica melodia le seguenti parole:

Sul suo sedile in pietra il Troll solo se ne stava

un vecchio osso liso e rotondo sgranocchiava e rosicchiava,

Da molti anni lo rosicava

Poiché carne non se ne trovava,

Bruca, rosica, morde!

In una grotta solitario abitava,

E di carne non se ne trovava.

Arriva Tom coi suoi stivali gialli,

Dice al Troll: «Toh! Che fai lì!

Di mio padre Tim quello lo stinco pare tanto,

Che dovrebbe invece stare al camposanto.

Caverna, grotta e cimitero!

Da anni se n’è andato il nostro Tim compianto,

Ed io credevo proprio che fosse al camposanto».

«Amico», disse il Troll, «quest’osso qui io l’ho rubato.

Ma ossa in un buco non han significato.

Tuo padre era ormai scheletro e stecchito

Quando del suo stinco mi sono impadronito!

Morto, defunto e seppellito!

Lui può dare lo stinco a un Troll

Perché non ha bisogno del suo osso rotondo».

Tom disse: «Non vedo perché

Può far quel che gli pare un tipo come te,

Con lo stinco o la gamba del mio papà,

Perciò quell’osso dammi qua.

Pirata, ladro e farabutto!

Anche s’è morto gli appartiene ancor tutto,

Perciò dai qua quell’osso, o mi faccio brutto!».

«Ho una buona idea», disse il viandante sghignazzando,

«Ora mangio anche te, ed il tuo stinco masticando

Infine un po’ di carne fresca potrò assaporare!

Anzi è meglio seduta stante incominciare!

Vedrai, morirai, pagherai!

Son stufo ossa vecchie di dover sgranocchiare,

Ho voglia la mia fame con te di saziare».

Ma credeva ormai di aver il pranzo pronto,

Che con un pugno di mosche rimase come un tonto,

In quattr’e quattr’otto Tom gli fu dietro,

E gli diede un possente calcio nel retro.

Così impari, soffri e sconti!

Tom pensò che un calcio nel posteriore

Sarebbe stata la cosa migliore.

Ma dura come pietra è la carne di un Troll,

Seduto su di un colle da anni ed anni, solo al mondo,

Dargli un calcio è come darlo ad un monte imponente,

Perché egli non lo sente minimamente.

Scalcia, scalpita, sbuffa!

Rise il Viandante sentendo di Tom il lamento,

Sapendo che per i suoi piedi il calcio era stato un tormento.

La gamba di Tom è mezza paralizzata,

Ed il suo piede ancor tutto azzoppato,

Ma il Viandante non ci fa caso, e solitario

Continua a rodere l’osso rubato al proprietario.

Pirata, ladro e farabutto!

Intanto ancor seduto sul suo sedile il Troll,

Rosica e sgranocchia l’osso suo rotondo.

«Ebbene, questo è un ammonimento per noi tutti!», disse Merry ridendo. «Meno male che hai adoperato un bastone, invece della mano, Grampasso!».

«Dove l’hai pescata questa canzone, Sam?», chiese Pipino. «Non avevo mai sentito quelle parole prima d’oggi».

Sam bofonchiò qualcosa tra i denti. «Nella sua propria testa, beninteso», disse Frodo. «Sto imparando parecchio sul conto di Sam Gamgee durante questo nostro viaggio. Prima cospiratore, poi menestrello… Finirà col diventare stregone, o guerriero!».

«Spero proprio di no», disse Sam. «Non voglio essere né l’uno né l’altro».

Nel pomeriggio proseguirono attraverso i boschi. Stavano probabilmente seguendo la medesima pista che Gandalf, Bilbo e i Nani avevano percorso molti anni addietro. Dopo qualche miglio giunsero alla sommità di un’alta scarpata che dominava la Via, la quale, lasciato lontano dietro di sé il Fiume Bianco nella sua stretta valle, in questo punto si svolgeva molto vicina ai piedi delle colline, serpeggiando verso est tra boschi e pendii coperti di erica, in direzione del Guado e delle Montagne. Grampasso indicò una pietra in mezzo all’erba, un po’ più in giù lungo la scarpata. Vi erano ancora visibili, benché corrosi dalle intemperie, delle rune di Nani e dei segni segreti rozzamente incisi.

«Ecco!», disse Merry. «Quella dev’essere la pietra che indicava il luogo ov’era nascosto l’oro dei Troll. Quanto ne è rimasto di quello toccato a Bilbo, Frodo?».

Frodo guardò la pietra, rammaricandosi che Bilbo avesse riportato dal Viaggio un tesoro così pericoloso e così difficile da alienare. «Nulla», disse. «Bilbo ha dato via tutto. Mi confessò che non riteneva fosse proprio suo, poiché era appartenuto a ladri».

* * *

La Via era silenziosa ed immersa nelle lunghe ombre del tardo Pomeriggio. Non v’era traccia di altri viandanti. Scesero giù per la scarpata, e girando a sinistra ripresero rapidamente il cammino. Presto una sporgenza dei colli si interpose tra loro ed i raggi del sole giunto quasi all’estremo Occidente. Un vento freddo soffiava dalle montagne innanzi a loro.

Pensavano già a cercare un posto a qualche distanza dalla Via, adatto per l’accampamento, quando udirono un rumore che fece risorgere improvvisamente il panico nei loro cuori: lo scalpitio di zoccoli alle loro spalle. Guardarono indietro, ma non riuscivano a vedere lontano a causa delle curve della strada. Allora si inerpicarono su per i pendii, inoltrandosi in una macchia fitta di erica e di mirto, e arrivarono in un piccolo e folto bosco di noccioli. Da lassù, sbirciando tra i cespugli, potevano vedere la Via, grigia ed indistinta nella scarsa luce, a trenta piedi più in basso. Il rumore si avvicinava rapidamente con un leggero clippety-clippety-clip. Ma poi, debole e fioco, come trasportato dalla brezza, giunse alle loro orecchie un tintinnare, come di piccoli campanelli che squillassero lievi.

«Non si direbbe il cavallo di un Cavaliere Nero!», disse Frodo, ascoltando attentamente. Gli altri Hobbit, pur acconsentendo speranzosi, rimasero molto diffidenti. Erano ormai abituati da lungo tempo a temere, e qualsiasi rumore insolito pareva malefico ed ostile. Ma ora Grampasso era curvo in avanti, chino verso terra, con una mano all’orecchio e uno sguardo raggiante sul viso.

La luce stava scomparendo, e le foglie dei cespugli frusciavano dolcemente. Adesso i campanellini trillavano squillanti e vicini, ed i piedi trotterellavano allegramente clippety-clip. D’un tratto apparve un cavallo bianco che correva veloce, risplendente nelle ombre del crepuscolo. La sua bardatura scintillava e sfavillava come tempestata di gemme brillanti simili a stelle vive. La cappa del cavaliere sventolava dietro, ed il cappuccio gli ricadeva sulle spalle; i capelli dorati ondeggiavano al vento. A Frodo pareva che una luce bianca emanasse dalla figura e dalle vesti del cavaliere.

Grampasso saltò fuori dal nascondiglio e si precipitò giù verso la Via, balzando attraverso le eriche con grida festose; ma già prima che lui si muovesse o chiamasse, il cavaliere aveva tirato le redini e si era fermato, volgendo lo sguardo verso i cespugli ove essi si trovavano. Vedendo Grampasso, smontò da cavallo per corrergli incontro gridando: Ai na vedui Dùnadan! Mae govannen! Il suo linguaggio e la voce limpida e squillante dissiparono gli ultimi dubbi: il cavaliere apparteneva alla Gente Elfica. Nessun altro nel vasto mondo aveva una voce così bella e soave all’udito. Ma nel suo richiamo sembrava vi fosse un non so che di timore o di fretta, ed essi videro che le parole che scambiava con Grampasso erano rapide ed urgenti.

Questi fece loro cenno di avvicinarsi, e gli Hobbit lasciarono i cespugli e si precipitarono sulla Via. «Questi è Glorfindel, e vive nella casa di Elrond», disse Grampasso.

«Salute, amico, finalmente benincontrato!», disse il sire elfico a Frodo. «Mi hanno mandato da Gran Burrone per cercarti. Temevamo che il pericolo ti sorprendesse per via».

«Allora Gandalf è a Gran Burrone?», esclamò con gioia Frodo. «No. Quando io partii non era ancor giunto, ma ora son passati nove giorni», rispose Glorfindel. «Elrond ha ricevuto notizie inquietanti. Alcuni della mia gente in viaggio per il vostro paese oltre il Baranduin[13] appresero che le cose non andavano per il loro verso e ci mandarono solleciti messaggi. Così abbiamo appreso che i Nove sono in movimento e che tu vagavi senza guida, poiché Gandalf non è rientrato, e col peso di un grosso fardello. Pochi sono coloro, anche a Gran Burrone, che possono cavalcare apertamente contro i Nove; e questi Elrond li ha spediti a nord, ad ovest e a sud. Pensammo che per far perdere le tracce avresti potuto deviare troppo dal tuo percorso e smarrirti così nelle Terre Selvagge.

«Il mio compito era quello di sorvegliare la Via, e giungendo al Ponte sul Mithelthel, all’incirca sette giorni fa, vi lasciai una gemma in segno. Vi erano tre servitori di Sauron sul Ponte, ma si allontanarono, mentre io li rincorrevo verso ovest. Ne incontrai anche altri due, i quali però voltarono immediatamente a sud. Da allora ho cercato ovunque le vostre tracce, e finalmente due giorni fa riuscii a trovarle. Le ho seguite al di là del Ponte e per il cammino che percorreste nel discendere nuovamente le colline. Ma andiamo! Non c’è tempo per altre notizie. Poiché siete qui, dobbiamo affrontare il pericolo della Via e proseguire il viaggio. Ce ne sono cinque dietro di noi, e quando troveranno le vostre tracce sulla Via ci inseguiranno rapidi come il vento. E non son tutti; dove si trovino gli altri quattro, lo ignoro; ma temo che troveremo il Guado già in mano al Nemico».

Mentre Glorfindel parlava, le ombre della sera si infittivano. Frodo sentì una gran stanchezza impadronirsi di lui. Al calar del sole, il velo davanti ai suoi occhi si era fatto più scuro ed ora aveva la sensazione che un’ombra si proiettasse tra di lui e i volti dei suoi amici. Il dolore lo assaliva e aveva freddo. Si sentì mancare e afferrò il braccio di Sam.

«Il mio padrone è stanco e ferito», disse irritato Sam. «Non può continuare a cavalcare nella notte. Ha bisogno di riposo».

Grampasso raccontò brevemente l’attacco subito all’accampamento di Colle Vento, e parlò all’Elfo del pugnale; ne tirò fuori l’elsa, che aveva conservato, e gliela tese. Glorfindel rabbrividì toccandola, ma la osservò attentamente.

«Vi sono scritte malvagie su quest’elsa», disse; «forse i vostri occhi non sanno vederle. Conservala, Aragorn, fino al momento in cui giungeremo alla casa di Elrond! Sii cauto, però, ed evita di toccarla. Ahimè, non è in mio potere curare le ferite di quest’arma! Tutto ciò che potrò fare lo farò; ma ora più che mai vi esorto a proseguire senza riposo né sosta».

Le sue dita cercarono la ferita sulla spalla di Frodo, e l’espressione sul suo viso si fece più grave, segno di una nuova inquietudine. Frodo, invece, sentì sciogliersi il freddo al fianco ed al braccio, e penetrare un po’ di calore dalla spalla fin giù alla mano, e le sofferenze attenuarsi. Le tenebre intorno a lui parvero diradarsi, come se una nuvola fosse stata squarciata; poté distinguere con maggior nettezza i visi del suoi compagni, e nuovo vigore e nuovo coraggio gli affluirono al cuore.

«Monterai il mio cavallo», disse Glorfindel. «Ti accorcerò le staffe fino alla sella, e tu ti terrai con tutte le tue forze. Ma non hai nulla da temere: il mio cavallo non lascia cadere un cavaliere che io gli ordino di portare. Il suo passo è soffice e leggero, e se il pericolo si dovesse far troppo vicino, ti porterà in salvo con una corsa che nemmeno i neri destrieri del Nemico possono eguagliare».

«No, non lo farò!», disse Frodo. «Io non ho intenzione di montarlo, se mi deve portare a Gran Burrone, o in qualunque altro posto, lasciando i miei amici in pericolo».

Glorfindel sorrise. «Dubito molto», disse, «che i tuoi amici sarebbero in pericolo se tu non fossi con loro! L’inseguitore correrebbe al tuo inseguimento, lasciando noi in pace. Sei tu, Frodo, e ciò che porti teco, che attirate su noi il pericolo».

Frodo non seppe che cosa rispondere e si convinse a montare il bianco cavallo di Glorfindel. Caricarono invece sul pony gran parte dei fardelli finora portati a spalla, camminando così più leggeri e spediti; ciò nonostante gli Hobbit riuscivano con fatica a tener dietro agli agili e instancabili piedi dell’Elfo. Avanti nel profondo delle tenebre, ed ancor avanti sotto il buio cielo annuvolato. Non vi erano né stelle né luna. Finché l’alba non apparve grigia, egli non permise loro di fermarsi. Pipino, Merry e Sam dormivano quasi, inciampando ad ogni passo; persino Grampasso sembrava stanco, a giudicar dalle spalle curve. Frodo sedeva sul cavallo, immerso in un oscuro sogno.

Essi si gettarono per terra nell’erica a qualche passo dalla strada, addormentandosi all’istante. Parve loro che fosse passato appena un attimo, quando Glorfindel, che aveva fatto la guardia mentre dormivano, li svegliò di nuovo. Il sole del mattino era ormai alto, e le nubi e le foschie della notte erano svanite.

«Bevete questo!», disse Glorfindel, versando ad ognuno un po’ di liquore dalla sua fiaschetta di pelle col tappo d’argento. Era un liquido limpido come acqua di primavera e del tutto insapore, e non pareva né caldo né freddo; ma mentre bevevano, sentirono forza e vigore penetrare nelle loro membra. Il pane raffermo e la frutta secca (non avevano altro, ormai) sembrarono dopo quella bevanda soddisfare il loro appetito meglio di molte abbondanti colazioni della Contea.

Si erano riposati per cinque ore scarse quando ripresero la Via. Glorfindel li esortava costantemente ad affrettarsi, e permise solo due brevi soste durante tutta la giornata di marcia. Riuscirono così a percorrere venti miglia prima del calar della notte, giungendo in un punto dove la Via curvava verso destra per scendere fino al fondo della valle, puntando dritta sul Bruinen. Finora gli Hobbit non avevano percepito né un suono né un movimento che lasciassero supporre un inseguimento; eppure a varie riprese Glorfindel si era fermato un attimo ad ascoltare, allorché essi tardavano a seguirlo, ed un velo di ansietà gli aveva adombrato il volto. Un paio di volte Grampasso e lui avevano scambiato qualche parola in lingua elfica.

Ma per quanto preoccupate fossero le loro guide, era palese che gli Hobbit non ce la facevano più ad avanzare quella notte. Andavano inciampando ubriachi di stanchezza e incapaci di pensare ad altro che ai loro piedi ed alle loro gambe. Il dolore di Frodo era raddoppiato, e durante il giorno il mondo intorno a lui si era sbiadito a tal punto da non costituire altro che un insieme di ombre di un grigio spettrale. Accolse quasi con sollievo l’arrivo della notte, perché essa faceva apparire meno pallido e vuoto ciò che lo circondava.

* * *

Gli Hobbit erano ancora stanchi quando si rimisero in marcia la mattina seguente di buon’ora. Parecchie miglia li separavano dal Guado, e si sforzavano di avanzare il più speditamente possibile.

«Poco prima del fiume, è lì che il pericolo sarà grande», disse Glorfindel; «il cuore mi avverte che gli inseguitori sono alle nostre spalle, e che altre insidie ci attendono al Guado».

La strada continuava dritta verso il fondo valle, ed ora in alcuni tratti vi era, ai margini della carreggiata, dell’erba folta sulla quale gli Hobbit camminavano di tanto in tanto per facilitare il compito ai loro stanchi piedi. Nel tardo pomeriggio arrivarono in un punto ove la Via s’inoltrava improvvisamente nella cupa ombra di pini secolari, per poi proseguire attraverso una profonda gola dalle umide pareti di pietra rossa. Correvano avanti accompagnati dall’eco, e sembrava che tanti altri piedi corressero dietro di loro. Poi ad un tratto la Via sbucò fuori dal tunnel alla grande luce. Davanti a loro, in fondo ad un ripido pendio, si estendeva una vasta radura di terra piatta, al di là della quale era il Guado di Gran Burrone. Dall’altra parte l’argine era scosceso e percorso da un sentiero serpeggiante, e dietro ad esso le alte montagne si scavalcavano, vetta su vetta, picco su picco, fino a raggiungere il pallido cielo.

Risuonava di nuovo l’eco di piedi rapidi che li inseguivano nella gola dietro di loro; era un rumore impetuoso, simile ad una bufera di vento scatenata tra le fronde dei pini. Glorfindel si voltò un attimo per ascoltare; poi fece un balzo avanti lanciando un grido.

«Fuggite!», esortò. «Fuggite! Il Nemico ci è sopra!».

Il cavallo bianco balzò avanti. Gli Hobbit discesero di corsa il pendio, mentre Glorfindel e Grampasso facevano da retroguardia. Erano giunti appena a metà dello spazio pianeggiante, quando udirono improvvisamente il galoppo di alcuni cavalli. Dalla gola tra gli alberi che avevano appena lasciata stava uscendo un Cavaliere Nero. Diede uno strappo al cavallo che si fermò, ed egli si mise ad ondeggiare sulla sella. Un altro Cavaliere lo raggiunse, e poi un altro ancora, ed infine altri due.

«Avanti! Va’ avanti!», gridò Glorfindel a Frodo.

Egli non obbedì immediatamente, colto da una strana riluttanza. Trattenendo il cavallo e mettendolo al passo, si voltò a guardare. I Cavalieri seduti sui loro imponenti destrieri parevano statue minacciose ed oscure che si ergevano solidamente sulla cima di un colle circondato da campagne e da boschi che sparivano come inghiottiti dalla nebbia. D’un tratto qualcosa in fondo al cuore gli disse che essi gli stavano silenziosamente ordinando di aspettare: allora odio e paura si risvegliarono immediatamente in lui. La sua mano lasciò la briglia ed afferrò l’impugnatura della spada, sfoderandola con un bagliore rosso.

«Cavalca! Cavalca!», gridava Glorfindel. Quindi rivolgendosi al cavallo con voce chiara e forte, disse nella lingua gnomica: Noro lim, noro lim, Asfaloth!

Il cavallo balzò avanti, volando come il vento sull’ultimo tratto di strada. Allo stesso istante i cavalli neri si precipitarono giù dalla collina lanciandosi all’inseguimento, accompagnati da un urlo orribile dei Cavaliere, un urlo che Frodo aveva udito, pieno di raccapriccio, nei boschi del lontano Decumano Est. Giunse una risposta, e Frodo ed i suoi amici costernati videro sbucare a tutta velocità dagli alberi e dalle rupi alla loro sinistra altri quattro Cavalieri. Due puntavano dritti su Frodo mentre gli altri galoppavano come pazzi verso il Guado per tagliargli la strada. Egli li vedeva correre come il vento, e gli apparivano a ogni attimo più grandi e più scuri, man mano che il loro percorso convergeva col suo.

Frodo si volte un istante a guardare: i suoi amici non li vedeva già più; i Cavalieri alle sue spalle perdevano terreno: persino i loro imponenti destrieri non riuscivano a competere col bianco cavallo elfico di Glorfindel. Ma quando guardò nuovamente innanzi a sé, la speranza svanì. Sembrava che non avesse la minima possibilità di raggiungere il Guado prima che i Cavalieri dal bosco gli tagliassero la strada. Li vedeva distintamente: avevano lasciato cadere i neri manti e i cappucci, e le loro vesti erano bianche e grigie. Le mani pallide stringevano spade sguainate, e in testa portavano un elmo. Gli occhi freddi scintillavano, mentre lo chiamavano con voce crudele.

Il panico si impadronì di Frodo. Non pensò più alla sua spada. Non emise un grido. Chiuse gli occhi e si avvinghiò al collo del cavallo. Il vento gli fischiava nelle orecchie, ed i campanelli sui finimenti suonavano striduli e come impazziti. Una folata di freddo mortale lo attraversò come una spada quando, con un ultimo balzo pari ad un baleno di fuoco bianco, il cavallo elfico passò come di volo proprio davanti alla faccia del primo Cavaliere.

Frodo udì scrosciare l’acqua. Spumeggiava ai suoi piedi. Quindi sentì sollevarsi la groppa del cavallo che usciva rapidamente dal fiume e si inerpicava per il ripido sentiero pietroso. Stava arrampicandosi sull’argine. Aveva attraversato il Guado.

Ma gli inseguitori erano alle calcagna. Giunto alla sommità dell’argine, il cavallo si fermò e, voltandosi, nitrì ferocemente. Dietro di loro, al bordo dell’acqua, vi erano Nove Cavalieri, e Frodo si sentì venir meno, vedendo la minaccia scritta sui loro volti scoperti. Niente avrebbe impedito loro di attraversare il Guado con la medesima facilità di lui, ed era inutile tentare di scappare per il lungo sentiero incerto che portava dal Guado ai margini di Gran Burrone, una volta che erano su questa sponda. In ogni caso sentì l’ordine perentorio di fermarsi. L’odio parve rinascere in lui, ma egli non aveva ormai più la forza di opporsi.

Improvvisamente il Cavaliere che si trovava più avanti speronò il proprio cavallo che, sentendo l’acqua, si arrestò impennandosi. Con grande sforzo Frodo riuscì a seder dritto ed a brandire la spada.

«Andatevene via!», gridò. «Tornate alla Terra di Mordor e non seguitemi più!». Anche alle sue orecchie la voce suonava flebile e stridula. I Cavalieri si arrestarono, ma Frodo non aveva il potere di Bombadil. I suoi nemici gli risero in faccia con un ghigno crudele e raggelante. «Torna qui! Torna qui!», chiamavano. «Ti porteremo a Mordor!».

«Andate via!», bisbigliò Frodo.

«L’Anello! L’Anello!», urlarono con voci micidiali, mentre il loro capo spingeva il cavallo nell’acqua, seguito a pochi passi da altri due.

«Per Elbereth e Lùthien la Bella», disse Frodo, rizzando la spada con un ultimo sforzo, «non avrete né l’Anello né me!».

Fu allora che il capo, già a metà strada nel Guado, si alzò minaccioso sulle staffe e levò la mano. Frodo divenne improvvisamente muto. Sentì la lingua paralizzarglisi nella bocca e il cuore battere affannosamente. La spada si frantumò e gli cadde dalla mano tremante. Il cavallo elfico si impennò e nitrì. Il primo cavallo nero aveva quasi messo piede sulla riva.

In quell’istante si udirono un rombo ed uno scroscio: il fragore di acque impetuose che travolgevano e trascinavano grosse pietre. Frodo vide vagamente il fiume ai suoi piedi sollevarsi, mentre una cavalleria di onde piumate galoppava sui flutti. Sulle creste parevano scintillare fiammelle bianche, ed egli credette quasi di vedere tra le acque bianchi cavalieri su bianchi cavalli dalle criniere spumeggianti. I tre Cavalieri che si trovavano ancora in mezzo al Guado furono travolti e scomparvero, improvvisamente sepolti da una schiuma infuriata. Quelli ancora sulla riva indietreggiarono spaventati.

Prima di perdere completamente i sensi, Frodo udì delle grida, e gli parve di vedere, al di là dei Cavalieri esitanti sulla riva, una figura sfavillante di luce bianca, dietro la quale correvano piccole ombre che agitavano fiammelle rosse nella grigia foschia che si stava diffondendo.

I cavalli neri impazzirono e, balzando avanti terrorizzati, trascinarono i cavalieri nelle acque irruenti. Le grida raccapriccianti furono soffocate dal rombo del fiume che li trasportava via. Poi Frodo si sentì cadere, e fu come se il rombo e la confusione l’inghiottissero assieme ai suoi nemici. Non udì e non vide più nulla.

LIBRO SECONDO

CAPITOLO I MOLTI INCONTRI

Svegliandosi, Frodo si trovò coricato a letto. Al primo momento pensò di aver dormito sino a tardi, dopo una notte agitata da un lungo sogno sgradevole che disturbava ancora la sua memoria. O forse era stato malato? Ma il soffitto era strano e sconosciuto: piatto, e con travi scure finemente intagliate. Rimase qualche minuto a guardare i raggi del sole sul muro, ascoltando il suono di una cascata.

«Dove mi trovo, e che ore sono?», disse ad alta voce rivolgendosi al soffitto.

«Nella Casa di Elrond, e sono le dieci del mattino», disse una voce. «Anzi per esser precisi, del mattino del 24 ottobre».

«Gandalf!», gridò Frodo sedendosi nel letto. Su una sedia accanto alla finestra aperta sedeva il vecchio stregone.

«Sì», disse, «sono qui. E sei fortunato se anche tu sei qui, dopo tutte le assurde cose che hai fatto da quando sei partito da casa».

Frodo si sdraiò di nuovo. Si sentiva troppo calmo ed a proprio agio per discutere, e poi non pensava di poter mai uscire vittorioso da una discussione. Era del tutto sveglio ora, e i ricordi del viaggio gli tornavano alla mente: la disastrosa «scorciatoia» attraverso la Vecchia Foresta; «l’incidente» al Puledro Impennato; e la follia di mettersi al dito l’anello nella conca a Colle Vento. Mentre pensava a tutte queste cose, e cercava invano di rammentarsi l’arrivo a Gran Burrone, vi fu un lungo silenzio, interrotto soltanto dagli sbuffi di fumo della pipa di Gandalf che soffiava anelli bianchi fuori della finestra.

«Dov’è Sam?», chiese infine Frodo. «E gli altri stanno tutti bene?».

«Sì, sono tutti sani e salvi», rispose Gandalf, «Sam è stato qui fino a mezz’ora fa, quando l’ho mandato a riposarsi un po’».

«Che cosa accadde al Guado?», chiese Frodo. «Tutto sembrava così vago ed indistinto; anche adesso, d’altronde».

«Naturale, incominciavi a svanire anche tu», rispose Gandalf. «La ferita stava per sopraffarti. Bastavano poche ore, e non avremmo potuto far più niente per te. Ma sei tenace, mio caro Hobbit! E l’hai dimostrato sul Tumulo. Eri proprio sul filo del rasoio; forse il momento più pericoloso di tutto il viaggio. Se soltanto fossi riuscito a resistere a Colle Vento!».

«Vedo che sai molte cose», disse Frodo. «Agli altri non ho detto niente del Tumulo. Sulle prime era troppo orribile, e poi abbiamo avuto altro a cui pensare: tu come fai a saperlo?».

«Hai parlato a lungo nel sonno, Frodo», disse dolcemente Gandalf, «e non mi è stato difficile leggere nella tua mente e nella tua memoria. Non ti preoccupare! Poco fa ti ho detto che hai commesso molte cose assurde; ma non è vero: vi siete comportati bene, tu e gli altri. Non è cosa da poco esser giunti sin qui, attraverso tante insidie, avendo ancora in tasca l’Anello».

«Non ce l’avremmo mai fatta se non avessimo avuto Grampasso», disse Frodo. «Ma anche la tua presenza era necessaria: non sapevo come fare senza di te».

«Sono stato ritardato», disse Gandalf, «e questa remora stava per esserci fatale. Eppure non ne sono del tutto certo: forse dopo tutto è stato meglio così».

«Vorrei sapere cos’è accaduto!».

«Ogni cosa a tempo giusto! Per ordine di Elrond, non parlare né muoverti, oggi».

«Ma parlando eviterei di pensare e di preoccuparmi, che è altrettanto stancante», disse Frodo. «Sono del tutto sveglio adesso, e ricordo un’infinità di cose che attendono una spiegazione. Perché sei stato ritardato? Dimmi almeno questo!».

«Presto saprai tutto ciò che vuoi», disse Gandalf. «Terremo un Consiglio, non appena ti sarai rimesso. Per il momento ti dirò soltanto che sono stato prigioniero».

«Tu!?», esclamò Frodo.

«Sì, io, Gandalf il Grigio», disse lo stregone con tono solenne. «Vi sono molte potenze al mondo, buone e malvagie; alcune sono più forti di me. Altre non le ho ancora incontrate; ma l’ora sta per giungere. Il Signore di Morgul ed i suoi Cavalieri Neri si sono fatti avanti. La guerra si sta preparando!».

«Allora conoscevi già l’esistenza dei Cavalieri, prima che io li incontrassi?».

«Sì, e veramente ne ho anche parlato, una volta: i Cavalieri Neri sono infatti gli Spettri dell’Anello, i Nove Servitori del Signore degli Anelli. Ma non sapevo che fossero di nuovo in movimento; se lo avessi saputo sarei fuggito con te immediatamente. Fu soltanto dopo il nostro commiato, in giugno, che ricevetti le notizie su di loro; ma è una storia che dovrà attendere. Per il momento Aragorn ci ha salvati dal disastro».

«Proprio così», disse Frodo, «è stato Grampasso a salvarci. Eppure sulle prime avevo paura di lui. E credo che Sam non si sia mai del tutto fidato, perlomeno non prima che incontrassimo Glorfindel».

Gandalf sorrise. «Sam mi ha raccontato tutto; adesso non ha più alcun dubbio».

«Son contento», disse Frodo. «Mi sono molto affezionato a Grampasso. Be’, forse affezionato non è la parola adatta: vorrei dire che mi è caro, pur essendo a volte strano e persino crudele. Anzi, ti dirò che mi fa spesso pensare a te. Non sapevo che tra la Gente Alta vi fossero dei tipi come lui. Credevo insomma che fossero soltanto grandi e grossi e alquanto stupidi; buoni e stupidi come Cactaceo, oppure cattivi e stupidi come Billy Felci. Ma in fondo non sappiamo molto sul conto degli Uomini, nella Contea, salvo forse sui Breatini».

«Nemmeno su di loro sai molto, se credi che il vecchio Cactaceo sia sciocco», disse Gandalf. «Nel suo campo è assai saggio; pensa meno e più lentamente di quanto non parli, eppure riesce a vedere in tempo al di là di un muro di mattoni, come dicono a Brea. Ma come Aragorn figlio di Arathorn, ne rimangono ben pochi nella Terra di Mezzo. La stirpe dei Re venuti dall’altra sponda del Mare è ormai quasi estinta. È probabile che questa Guerra dell’Anello sia la loro ultima avventura».

«Vuoi dire che Grampasso appartiene alla razza degli antichi Re?», chiese meravigliato Frodo. «Credevo che fossero scomparsi da molto tempo. Pensavo ch’egli fosse soltanto un Ramingo».

«Soltanto un Ramingo!», esclamò Gandalf. «Mio caro Frodo, è precisamente ciò che sono i Raminghi: gli ultimi superstiti a nord del grande popolo degli Uomini dell’Ovest. Mi hanno aiutato altre volte; e il loro aiuto mi sarà indispensabile nei giorni a venire: noi siamo giunti a Gran Burrone, ma l’Anello non è ancora fuori combattimento».

«Suppongo di no», disse Frodo. «Ma sinora il mio unico pensiero è stato di giungere fin qui, e spero di non dover andare oltre. È molto piacevole riposarsi un po’. È stato per me un mese di esilio e di avventura, e mi pare che possa bastare».

Tacque e chiuse gli occhi. Dopo qualche attimo parlò nuovamente. «Stavo calcolando», disse, «e non riesco a far quadrare il totale con la data del 24 ottobre. Dovrebbe essere il 21: era appena il 20 quando arrivammo al Guado».

«Hai parlato e contato troppo», disse Gandalf. «Come vanno la spalla e il fianco?».

«Non lo so», rispose Frodo. «Non li sento affatto, e ciò è un miglioramento; ma», fece uno sforzo, «riesco a muovere un po’ il braccio. Sì, sta riprendendo vita, e non è più freddo», aggiunse, palpando la mano sinistra con la destra.

«Bene!», disse Gandalf. «Sta guarendo rapidamente. Vedrai che fra poco sarai di nuovo in piedi e in forze. Fu Elrond a curarti, in questi giorni, da quando fosti portato qui».

«Giorni?», domandò Frodo.

«Quattro notti e tre giorni, per essere precisi. Gli Elfi ti portarono dal Guado la notte del 20: da quel momento hai perso il conto. Sono stati giorni di ansia, e Sam non si è mai allontanato dal tuo capezzale, notte e giorno, se non per consegnare qualche messaggio. Elrond è maestro nell’atte della guarigione, ma le armi del Nemico sono micidiali. A dire il vero, avevo poche speranze; sospettavo che ci fosse ancora qualche frammento della lama nella ferita rimarginata, e infatti riuscimmo a trovarlo ieri sera; era una scheggia che avanzava verso il cuore; ma Elrond l’ha tolta».

Frodo rabbrividì al ricordo del tetro pugnale dalla lama smussata svanito in mano a Grampasso. «Non temere!», disse Gandalf. «Ormai non esiste più. È stato fuso. E a quanto sembra, gli Hobbit sbiadiscono difficilmente. Conosco più di un forte guerriero della Gente Alta che sarebbe stato sopraffatto in poco tempo da quella scheggia che tu hai sopportato per diciassette giorni».

«Che cosa mi avrebbero fatto?», chiese Frodo. «Che cosa cercavano i Cavalieri?».

«Tentavano di far penetrare nel tuo cuore un pugnale Morgul che rimane nella ferita. Se vi fossero riusciti, saresti diventato come loro, ma più debole e sottomesso alla loro autorità. Saresti diventato uno spettro al servizio dell’Oscuro Signore, ed egli ti avrebbe torturato per aver ardito di tenere il suo Anello; ma il tormento più terribile sarebbe stata la privazione dell’Anello, ed il vederlo al suo dito».

«Ringrazio il cielo di non essermi reso conto dello spaventoso pericolo!», esclamò Frodo. «Ero già terrorizzato, beninteso; ma se avessi saputo il resto non avrei nemmeno osato muovermi. È un miracolo che sia riuscito a sfuggire!».

«Sì, la fortuna o il destino ti hanno aiutato», disse Gandalf, «per non parlare del coraggio. Se la tua spalla è stata ferita, il cuore non fu nemmeno sfiorato, ed è per questo che hai resistito sino all’ultimo momento. Ma. ce l’hai fatta per un pelo. Il più gran pericolo l’hai corso mettendoti l’Anello, perché allora anche tu entravi per metà nel mondo degli Spettri ed era molto più facile per loro colpirti: tu li vedevi, ed essi vedevano te».

«Lo so», disse Frodo. «Sono terribili a vedersi! Ma come mai vedevamo tutti i loro cavalli?».

«Perché sono cavalli veri, così come i manti neri sono veri manti, che portano per dar forma alla loro non-esistenza quando hanno a fare con i vivi».

«E allora perché i cavalli sopportano tali cavalieri? Tutti gli altri animali si terrorizzano al loro avvicinarsi, persino il cavallo elfico di Glorfindel. I cani ululano e le oche gridano».

«Perché questi sono cavalli nati e cresciuti al servizio dell’Oscuro Signore di Mordor. Non son tutti spettri i suoi schiavi e servitori! Sono anche Orchi e Troll, lupi mannari e selvaggi. Sotto la sua potestà sono stati e vi sono ancora molti Uomini, re e guerrieri, che camminano vivi alla luce del sole, eppure sono suoi schiavi. Ed il loro numero cresce giorno per giorno».

«Che cosa pensi di Gran Burrone e degli Elfi?», chiese Frodo. «Credi che Gran Burrone sia un posto sicuro?».

«Sì, per il momento sì, fin quando tutto il resto non sarà conquistato. Gli Elfi potranno temere l’Oscuro Signore, e fuggire innanzi a lui, mai più però l’ascolteranno o gli ubbidiranno. E qui a Gran Burrone vivono ancora alcuni dei suoi più acerrimi nemici: gli Elfi Saggi, signori degli Eldar al di là dei mari più lontani. Essi non temono gli Spettri dell’Anello, perché coloro che sono vissuti nel Sacro Regno esistono allo stesso tempo in ambedue i mondi, ed il loro grande potere si esercita sia sui Visibili che sugli Invisibili».

«Mi parve di vedere una figura bianca che risplendeva e non si offuscava come le altre: era dunque Glorfindel?».

«Sì, per un attimo l’hai intravisto com’è nell’altro mondo: uno dei potenti fra i Priminati. È un Signore Elfico di una casata principesca. Gran Burrone ha ancora il potere di resistere per qualche tempo alla violenza di Mordor, ed anche altrove vi sono potenze capaci di opporsi. Anche la Contea, in un certo senso, ha questo potere. Ma tutti questi posti non saranno che isole assediate se le cose continuano ad andare come stanno andando. L’Oscuro Signore sta schierando tutte le sue forze. Ciò nonostante», disse, alzandosi improvvisamente e puntando in fuori il mento, mentre la barba s’irrigidiva e si rizzava come fil di ferro, «non dobbiamo perderci d’animo. Fra poco starai bene, se non ti uccido io a furia di parlare. Sei a Gran Burrone e non devi preoccuparti di niente per il momento».

«Non ho proprio coraggio da vendere», disse Frodo, «ma, ora come ora, non sono preoccupato. Voglio soltanto notizie dei miei amici e il racconto della vicenda del Guado, che molto mi sta a cuore, e sarò soddisfatto per il momento. Dopo farò un altro pisolino, credo; ma non riuscirò a chiudere gli occhi prima che tu abbia concluso la storia».

Gandalf avvicinò la sedia al capezzale, e osservò Frodo da vicino. Il suo viso aveva ripreso colore, e gli occhi erano limpidi e del tutto svegli e coscienti; stava sorridendo, e pareva perfettamente ristabilito. Ma gli occhi dello stregone vedevano un leggero cambiamento, come fosse una lieve trasparenza in lui e soprattutto nella sua mano sinistra posata sul copriletto.

«Era da aspettarsi», disse Gandalf parlando a se stesso. «Non è nemmeno a metà strada; e come sarà alla fine neanche Elrond può prevederlo. Non penso però che diventerà malvagio; forse sarà soltanto come un bicchiere empito di una limpida luce, visibile agli occhi meritevoli».

«Hai un aspetto meraviglioso!», disse ad alta voce. «Azzarderò un breve racconto senza consultare Elrond; ma sarà molto breve, e poi guai a te se non ti metti a dormire. I Cavalieri puntarono dritti su di te non appena ti videro sfuggire. Non avevano più bisogno della guida dei loro cavalli: tu eri ormai visibile ai loro occhi, essendo già sulla soglia del loro mondo; inoltre, l’Anello li attirava. I tuoi amici furono con un balzo fuori della strada, appena in tempo per non essere travolti dai cavalli. Sapevano che meglio del cavallo bianco nessuno avrebbe potuto salvarti. La velocità dei Cavalieri rendeva vano qualsiasi tentativo di inseguimento, e il loro numero era tale da vincere un’eventuale opposizione. A piedi, persino Glorfindel ed Aragorn insieme non sarebbero riusciti a resistere ai Nove.

«Una volta passati gli Spettri dell’Anello, i tuoi amici corsero loro dietro. Vicino al Guado c’è un piccolo fossato che fiancheggia la strada, mascherato da qualche albero rattrappito. Lì accesero velocemente un fuoco: Glorfindel infatti sapeva che se i Cavalieri avessero tentato di attraversare il fiume ci sarebbe stata un’inondazione, e che essi si sarebbero dovuti occupare di quelli rimasti a riva. Al momento in cui giunse l’inondazione, Glorfindel, seguito da Grampasso e dagli altri, corse verso il fiume brandendo bastoni incandescenti. Imprigionati tra il fuoco e l’acqua, al cospetto di un Signore Elfico in tutta la sua collera, essi non seppero più che fare, e i cavalli impazzirono. Tre furono trascinati via dall’inondazione, e gli altri poco dopo, scaraventati in acqua dai loro cavalli, furono anch’essi travolti». «È questa dunque la fine dei Cavalieri Neri?», domandò Frodo. «No», rispose Gandalf. «I loro cavalli sono periti, lasciandoli così come storpi. Ma distruggere gli Spettri dell’Anello non è cosa tanto facile, benché, per il momento, non ci sia nulla da temere da parte loro. Passata l’inondazione, i tuoi amici attraversarono il fiume, e ti trovarono steso per terra alla sommità dell’argine, con la spada in frantumi sotto di te. Il cavallo in piedi vicino al tuo corpo ti faceva da guardia. Tu eri pallido e freddo, e temevano che fossi morto, o peggio ancora. La gente di Elrond li incontrò mentre ti trasportavano dolcemente verso Gran Burrone».

«Chi è stato a provocare l’inondazione?», chiese Frodo.

«Elrond l’ha comandata», rispose Gandalf. «Il fiume di questa valle è sotto il suo potere, e pronto a gonfiarsi infuriato se vi è gran bisogno di sbarrare il Guado. L’inondazione si scatenò non appena il capo degli Spettri dell’Anello s’inoltrò nei flutti. Io ho aggiunto qualche piccolo tocco, se vogliamo: forse non l’hai notato, ma fra le onde ve ne erano alcune a forma di grandi cavalli bianchi montati da risplendenti cavalieri bianchi; e poi un gran numero di macigni rotolò giù con fracasso. Per un attimo ebbi a temere di aver scatenato una collera troppo violenta, e che l’inondazione traboccasse travolgendovi tutti. Vi è un’immensa potenza nelle acque che provengono dalle nevi delle Montagne Nebbiose».

«Sì, ora mi torna tutto alla mente», disse Frodo; «il terribile rombo, e io che credevo di annegare con i miei amici e i nemici e tutto il resto. Ma ora siamo salvi!».

Gandalf gli lanciò una rapida occhiata, ma Frodo aveva chiuso gli occhi. «Sì, siete tutti salvi adesso. Presto festeggiamenti ed allegria celebreranno la vittoria del Guado del Bruinen, e voi occuperete i posti d’onore».

«Splendido!», disse Frodo. «È veramente meraviglioso che Elrond e Glorfindel e sì grandi signori, per non parlare di Grampasso, si diano tanta pena e mi colmino di gentilezze».

«Vi sono parecchi motivi per cui lo fanno», disse sorridendo Gandalf. «Io sono un ottimo motivo; l’Anello ne è un altro: tu sei il Portatore dell’Anello, e sei anche l’erede di Bilbo, lo Scopritore dell’Anello».

«Caro Bilbo!», disse Frodo insonnolito. «Vorrei sapere dov’è. Desidererei tanto che fosse qui per sentire tutta la nostra vicenda. Si divertirebbe un mondo. La mucca saltata al di là della Luna! Ed il povero vecchio vagabondo!». Poi si addormentò profondamente.

* * *

Frodo si trovava ora sano e salvo nell’Ultima Casa Accogliente ad est del Mare. Come Bilbo, tanto tempo addietro, aveva riferito, era «una casa perfetta, sia che amiate il cibo, o il riposo, o il canto, o i racconti, o che amiate solo star seduti e riflettere, o un piacevole miscuglio di tutto». Il semplice fatto di viverci era una cura per la stanchezza, la paura e la tristezza.

Nel tardo pomeriggio Frodo si svegliò, scoprendo di non sentire più alcun bisogno di sonno e di riposo, ma di desiderare cibo e bevande e canti e racconti. Saltò fuori dal letto e si accorse che il suo braccio era tornato quasi come prima. Trovò pronti indumenti puliti di un bel tessuto verde che gli stavano alla perfezione. Guardandosi allo specchio rimase stupefatto nel vedere la sua immagine molto più magra di quanto non ricordasse: rassomigliava straordinariamente al giovane nipote di Bilbo che andava girovagando con lo zio nella Contea; ma gli occhi che lo guardavano erano pensosi.

«Sì, hai visto un bel po’ di cose dall’ultima volta che guardasti fuori da uno specchio», disse alla sua immagine. «Ma ora festeggiamo un felice incontro!». Aprì le braccia fischiettando un motivo.

* * *

In quel momento si udì bussare alla porta, e Sam entrò. Corse da Frodo e gli prese la mano sinistra, timido e impacciato. La carezzò dolcemente e poi arrossendo si voltò dall’altra parte.

«Ciao, Sam!», disse Frodo.

«È calda!», disse Sam. «Intendo dire la vostra mano, signor Frodo. È stata così fredda per notti e notti. Ma ora, allegri!», gridò, voltandosi nuovamente verso di lui con occhi lucidi e danzando per la stanza. «È bello vedervi di nuovo in piedi e in buona salute, signore! Gandalf mi ha detto di venire a vedere se eravate pronto per scendere, e io credevo che stesse scherzando».

«Sono pronto», disse Frodo. «Andiamo a cercare il resto della comitiva!».

«Vi condurrò io da loro, signore», disse Sam. «Questa è una casa grande, e molto bizzarra; c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire, e non si sa mai cosa ci può essere dietro il prossimo angolo. Ed Elfi, signore! Elfi qua, ed Elfi là! Alcuni terribili e splendenti come re; altri allegri come bambini. E la musica, e i canti… Non che io abbia avuto tempo o voglia di ascoltare molto dal giorno del nostro arrivo, però. Ma pian piano sto imparando alcune abitudini del posto».

«So tutto quel che hai fatto, Sam», disse Frodo prendendolo per un braccio. «Ma questa sera devi stare allegro, e ascoltare quanto vuoi. Coraggio, guidami per questi corridoi tortuosi!».

Sam lo condusse attraverso parecchi corridoi, giù per un certo numero di gradini ed infine all’aperto in un alto giardino alla sommità dell’argine del fiume. I suoi amici erano seduti sotto un portico laterale rivolto verso est. Le ombre già si allungavano nella valle ai loro piedi, ma le vette dei monti erano ancora illuminate. L’aria era calda; il rumore dell’acqua che scorreva e scrosciava era forte, e la sera profumava dolcemente di alberi e di fiori, come se l’estate si attardasse sui giardini di Elrond.

«Evviva!», gridò Pipino, con un salto di gioia. «Ecco il nostro nobile cugino! Fate largo a Frodo, Signore dell’Anello!».

«Ssst!», disse Gandalf dall’ombra in fondo al porticato. «Le cose malvagie non entrano in questa valle, ma non è una buona ragione per nominarle. Il Signore dell’Anello non è Frodo, bensì il tiranno della Torre Oscura di Mordor, il cui potere si sta di nuovo diffondendo nel mondo! Noi siamo all’interno di una fortezza. Fuori si sta facendo buio».

«Gandalf ci ha raccontato molte cose allegre di questo genere», disse Pipino. «Pare che io abbia bisogno di più disciplina; ma è impossibile sentirsi tristi o abbattuti in un luogo come questo. Sento che canterei, se sapessi la canzone adatta all’occasione».

«Anch’io, ho voglia di cantare, figurati!», disse Frodo ridendo. «Ma per il momento ho ancor più voglia di bere e mangiare!».

«È un desiderio che sarà presto esaudito», disse Pipino. «Sei sempre il solito vecchio furbo che si alza in tempo giusto per andare a tavola!».

«Questo non sarà un semplice pasto, ma un banchetto!», gridò Merry. «I preparativi sono cominciati non appena Gandalf ci informò che ti eri rimesso». In quel momento lo squillare di campane festose li invitò a recarsi nella grande sala.

* * *

Il salone della casa di Elrond era pieno di gente, per la maggior parte Elfi, salvo qualche altro invitato di diversa stirpe. Elrond, secondo le sue abitudini, sedeva in una grande poltrona ad un’estremità della lunga tavola ed aveva da un lato Glorfindel e dall’altro Gandalf.

Lo sguardo di Frodo era pieno di meraviglia, poiché mai aveva visto Elrond, di cui tante storie parlavano; seduti alla sua destra ed alla sua sinistra, Glorfindel e Gandalf, ch’egli credeva di conoscere tanto bene, si rivelavano in tutto lo splendore della loro dignità e del loro potere.

Gandalf era più basso degli altri due, ma la lunga chioma bianca, la folta barba d’argento e le spalle possenti facevano pensare a qualche saggio re delle antiche leggende. Nel viso segnato dagli anni, gli occhi incastonati sotto le fitte sopracciglia nevose parevano carboni pronti ad accendersi.

Glorfindel era alto e dritto; i capelli d’oro luccicavano, ed il viso era bello e giovane ed impavido e pieno di gioia; gli occhi appassionati brillavano e la voce era soave come musica; in fronte portava saggezza ed in mano vigore.

Il volto di Elrond non aveva età, non era né vecchio né giovane, eppure recava vivo il ricordo di molte cose tristi e di molte felici. I capelli erano scuri come le ombre del crepuscolo, ed in testa portava un cerchietto d’argento; nei grigi occhi limpidi scintillavano miriadi di stelle. Venerabile come un re coronato da molti inverni, eppur vigoroso come un eroico guerriero nella pienezza delle sue forze: egli era il Signore di Gran Burrone, potente tanto tra gli Elfi che tra gli Uomini.

Al centro della tavola, poggiato contro gli arazzi appesi alle pareti, vi era un baldacchino sotto il quale sedeva una graziosa dama; tanto rassomigliava a Elrond che Frodo capì che doveva essere legata a lui da stretta parentela. Giovane era, eppur non tanto. La chioma corvina non era sfiorata dalla brina, le braccia bianche ed il viso limpido erano lisci e vellutati, e miriadi di stelle risplendevano negli occhi grigi come crepuscolo luminoso; ma il portamento era regale e lo sguardo rivelava riflessione e saggezza, apprese attraverso anni di esperienza. Sul suo capo era posata una cuffietta di pizzo argenteo ricamata di pietre preziose e scintillanti; ma la veste di un grigio pallido non aveva altro ornamento che una cinta di foglie intrecciate con fili d’argento.

Fu così che Frodo vide colei che pochi fra i mortali avevano ammirata: Arwen, figlia di Elrond, che si diceva reincarnasse le sembianze di Lùthien, e che fu chiamata Undómiel, poiché era la Stella del Vespro del suo popolo. Aveva trascorso molti anni nella terra della famiglia materna, a Lórien al di là dei monti, e da poco era tornata a Gran Burrone nella casa paterna. Ma i fratelli, Elladan ed Elrohir, erano in viaggio, lontani: spesso cavalcavano lungi coi Raminghi del Nord, memori sempre delle sofferenze della loro madre nei covi degli Orchi.

Mai prima d’allora Frodo aveva visto o immaginato una tale bellezza in un essere vivente; sorpreso e confuso, guardava le persone alte e splendenti in mezzo a cui era seduto al tavolo di Elrond. Benché avesse la sedia adatta, e fosse seduto su parecchi cuscini, si sentì sulle prime piccolo e alquanto fuori posto; ma non fu che una impressione passeggera. Il banchetto era allegro ed il cibo vario e abbondante come non ne aveva mai visto. Passò molto tempo prima ch’egli si guardasse intorno, o che si voltasse verso i suoi vicini.

Innanzi tutto cercò con lo sguardo i suoi amici. Sam aveva chiesto il favore di servire il suo padrone, ma gli era stato detto che in quella occasione era anch’egli ospite d’onore. Sedeva infatti con Pipino e Merry all’estremità di uno dei tavoli laterali vicini alla pedana centrale. Ma di Grampasso, Frodo non vide traccia.

Alla propria destra aveva un Nano dall’aspetto importante e riccamente vestito. La lunghissima barba biforcuta era bianca quasi quanto la candida veste. Portava una cintura d’argento, ed al collo una catena d’argento e diamanti. Frodo smise di mangiare per guardarlo meglio.

«Benvenuto, e benincontrato!», disse il Nano, girandosi verso di lui. Quindi si alzò addirittura dalla sedia e s’inchinò. «Glóin, ai tuoi ordini», disse inchinandosi ancor più profondamente.

«Frodo Baggins, ai tuoi ordini ed a quelli della tua famiglia», disse Frodo secondo le regole del galateo, alzandosi sorpreso e sparpagliando tutti i cuscini. «Sbaglio, o sei il Glóin, uno dei dodici compagni del grande Thorin Scudodiquercia?».

«È proprio così», rispose il Nano, raccogliendo i cuscini ed aiutando cortesemente Frodo a reinstallarsi sulla sedia. «Io non ti chiedo niente, poiché mi è già stato detto che sei il nipote e l’erede adottato del nostro amico Bilbo il rinomato. Permettimi di congratularmi per la tua guarigione».

«Grazie, grazie di cuore», rispose Frodo.

«Ho sentito dire che hai vissuto strane avventure», disse Glóin. «Son proprio curioso di sapere cosa spinge quattro Hobbit ad un sì lungo viaggio. Nulla di simile è accaduto da quando Bilbo partì con noi. Ma forse è meglio che non faccia domande troppo indiscrete, perché mi pare che Elrond e Gandalf non siano disposti a parlarne».

«Penso anch’io che sia opportuno non parlare di ciò, almeno non ancora», rispose Frodo educatamente. Si rendeva conto che anche in casa di Elrond l’Anello non doveva essere preso alla leggera; e in ogni modo desiderava dimenticare i propri guai per qualche tempo. «Ma sono altrettanto curioso di sapere», soggiunse, «per quale motivo un Nano così importante è giunto sin qui dalla Montagna Solitaria».

Glóin lo guardò. «Se non ti è stato detto niente, credo che non sia ancora ora di parlarne. Elrond ci convocherà tutti fra breve, ed allora sentiremo molte cose interessanti. Ma nel frattempo vi sono molti altri argomenti di cui parlare».

Chiacchierarono insieme durante tutto il resto del pasto, ma Frodo, più che parlare, ascoltava. Le notizie della Contea, a parte quelle riguardanti l’Anello, parevano piccole, remote e prive d’importanza, mentre Glóin aveva molto da raccontare a proposito degli avvenimenti nelle regioni nordiche delle Terre Selvagge. Frodo apprese che Grimbeorn il Vecchio, figlio di Beorn, era adesso il capo di molti Uomini robusti e valorosi, e che né un Orco né un lupo avrebbe osato metter piede nel suo paese tra le Montagne ed il Bosco Atro.

«Certo è», disse Glóin «che se non fosse stato per i Beorniani, il passaggio dalla Valle a Gran Burrone sarebbe da tempo impraticabile. Sono Uomini forti e coraggiosi e tengono aperto l’Alto Passo ed il Guado di Carrock. Ma il loro pedaggio è assai caro», soggiunse scuotendo la testa; «e come Beorn tanto tempo fa, essi non amano particolarmente i Nani. Comunque, ci si può fidar di loro, ed è già tanto, in giorni come questi. Ma gente amichevole ed accogliente come gli Uomini della Valle non se ne trova al mondo; sono un popolo simpatico, i Bardini. È il nipote di Bard l’Arciere che li governa, Brand figlio di Bain figlio di Bard. È un re valoroso, ed il suo regno si estende ora sino all’estremo sud-est di Esgaroth». «E la tua gente com’è?», disse Frodo.

«C’è molto da dire, in bene e in male», disse Glóin; «tuttavia il bene è prevalente: siamo stati fortunati finora, benché l’ombra di questi tempi sfiori anche noi. Se ti fa piacere che ti parli della mia gente, sarò felice di raccontarti le nostre vicende. Ma interrompimi quando sei stanco! Si dice che le lingue dei Nani non la smettono più quando si mettono a parlare del loro lavoro».

E con ciò Glóin si lanciò in una lunga relazione sui fatti del regno nanesco. Era incantato di aver trovato un ascoltatore così cortese; Frodo infatti non dava alcun segno di stanchezza e non faceva il minimo tentativo per cambiar argomento, pur avendo una gran confusione in testa con tutti quei nomi di strani posti e persone che non aveva mai sentito nominare. Gli fece comunque piacere sentire che Dàin era ancora re sotto la Montagna, ed era adesso vecchio (avendo varcato la soglia dei duecentocinquant’anni), venerabile, e favolosamente ricco. Dei dieci compagni sopravvissuti alla Battaglia dei Cinque Eserciti, sette erano ancora con lui: Dwalin, Glóin, Dori, Nori, Bifur, Bofur, Bombur. Bombur era diventato tanto grasso da non riuscire a trasferirsi da solo dal suo letto alla sedia, e aveva bisogno dell’aiuto di sei giovani Nani.

«E che cosa è successo a Balin, a Ori e a Oin?», chiese Frodo.

Un’ombra offuscò la fronte di Glóin. «Non lo sappiamo», rispose. «È soprattutto per via di Balin che sono venuto a chiedere il parere di coloro che vivono a Gran Burrone. Ma non parliamo di cose tristi stasera!».

Glóin si mise allora a raccontare a Frodo la vita e le opere del suo popolo, parlandogli dei loro grandi lavori a Valle e sotto la Montagna. «Siamo stati in gamba», disse. «Ma in tutto ciò che è ferro non possiamo rivaleggiare con i nostri padri, i cui segreti sono in gran parte smarriti. Facciamo buone corazze e spade acuminate, ma le nostre lame e le armature di maglia non reggono il confronto con quelle fabbricate prima della venuta del drago. Soltanto in materia di miniere e di costruzioni possiamo dire di superare i vecchi tempi. Dovresti vedere, Frodo, la rete fluviale di Valle, e le montagne, e i laghi! Dovresti vedere le strade pavimentate con pietre di tutti i colori! E le immense sale ed i viali sotterranei dagli archi scolpiti ed intagliati; e le torri e le terrazze sui fianchi della Montagna! Allora vedresti che non siamo stati oziosi».

«Se mi sarà possibile, verrò un giorno a vederli», disse Frodo. «Come sarebbe stato sorpreso Bilbo di vedere tali e tanti cambiamenti nella Desolazione di Smaug!».

Glóin guardò Frodo e sorrise. «Volevi molto bene a Bilbo, vero?», gli chiese.

«Sì», fu la risposta, «e preferirei incontrare lui anziché vedere tutti i palazzi e le torri del mondo».

* * *

Il banchetto giunse alla fine. Elrond ed Arwen si alzarono ed attraversarono il salone, seguiti nel debito ordine dai loro ospiti. Le porte furono spalancate, ed essi percorsero un ampio corridoio, e passarono altre porte, giungendo infine in un’altra grande sala. Là non vi erano tavoli, ed un grande fuoco bruciava in mezzo alle colonne scolpite che fiancheggiavano la stanza.

Frodo si accorse che Gandalf era al suo fianco. «Questo è il Salone del Fuoco», disse lo stregone. «Qui sentirai canti e racconti…, se riesci a rimanere sveglio. Ma, eccetto che nei giorni festivi, è generalmente un luogo silenzioso e tranquillo, dove si viene a cercare un po’ di pace, e di concentrazione. Il fuoco è sempre acceso, durante tutto l’anno, e non vi è altra luce».

Elrond fece il suo ingresso nel salone, dirigendosi verso la poltrona preparata per lui, e i menestrelli elfici si misero a suonare dolcemente. Pian piano la sala si riempì, e Frodo guardava affascinato tanti bei volti riuniti assieme, mentre le fiamme proiettavano su di essi la loro luce dorata che scintillava tra i capelli. D’un tratto notò, all’altra estremità del falò, una piccola figura scura seduta su uno sgabello con la schiena appoggiata ad una colonna. Vicino ad essa vi era una ciotola e del pane. Frodo pensò che fosse malato (ammesso che la gente fosse talvolta malata a Gran Burrone) e che perciò non avesse partecipato al banchetto. La testa era china sul petto come se stesse dormendo, e un lembo dello scuro manto gli nascondeva il volto.

Elrond fece qualche passo e si avvicinò alla figura silenziosa. «Sveglia, piccolo maestro!», disse sorridendo. Quindi, voltandosi verso Frodo, gli fece cenno di avvicinarsi. «È giunta finalmente l’ora che tanto hai desiato, Frodo», disse. «Eccoti un amico che rimpiangi da lungo tempo».

La figura scura alzò il capo e scoprì il volto.

«Bilbo!», gridò Frodo, riconoscendolo all’improvviso e correndo verso di lui.

«Come va, Frodo, ragazzo mio?», disse Bilbo. «Così sei finalmente arrivato qui anche tu. Speravo proprio che ci riuscissi! Bene bene! Perciò tutti questi festeggiamenti sono in tuo onore, a quanto pare. Spero che ti sarai divertito!».

«Perché non sei venuto anche tu?», esclamò Frodo. «E perché non mi hanno permesso di vederti prima?».

«Perché stavi dormendo. Io invece ho visto te per ore e ore; sono stato al tuo capezzale con Sam, ogni giorno. Ma quanto al banchetto, ormai questo genere di cose non mi attira più tanto. E poi avevo altro da fare».

«Cosa stavi facendo?».

«Sedevo e riflettevo, beninteso. Ormai gran parte del mio tempo lo passo in questo modo, ed il posto più adatto è proprio questo salone. E lui parla di svegliarmi!», esclamò strizzando l’occhio a Elrond, un occhio brillantissimo e per nulla addormentato. «Svegliarmi! Non stavo mica dormendo, egregio Elrond. Se volete saperlo, avete finito il vostro banchetto troppo presto, e siete venuti qui a disturbarmi… nel bel mezzo della creazione di un canto. C’erano un paio di versi che non venivano, e rincorrevo l’ispirazione per trovarli; ma figuriamoci se adesso riesco a combinare qualcosa. Dovrò chiedere al mio amico il Numenoreano di aiutarmi. Dov’è?».

Elrond rideva. «Lo troveremo», disse. «Così voi due vi metterete in un cantuccio a finire la canzone, e noi potremo ascoltarla e dare il nostro giudizio prima della fine della festa». Alcuni messi furono spediti alla ricerca dell’amico di Bilbo, che nessuno sapeva dove fosse, né perché non avesse preso parte al banchetto.

Nel frattempo Frodo si era seduto accanto a Bilbo, e Sam aveva preso prontamente posto vicino a loro. Chiacchieravano a bassa voce, dimentichi dell’allegria e della musica nel salone intorno a loro. Bilbo non aveva un gran che da raccontare sul proprio conto. Una volta partito da Hobbiville, era andato girovagando senza mèta, lungo la Via o nei campi e nei boschi; eppure, inconsciamente, sin dall’inizio si era diretto verso Gran Burrone.

«Giunsi qui senza troppe avventure», disse, «e dopo essermi riposato un po’ partii con i Nani per la Valle: fu il mio ultimo viaggio. Non vagabonderò più per il mondo. Il vecchio Balin era partito, ed io tornai qui, e qui sono rimasto. Ho fatto un po’ di questo e un po’ di quello. Ho scritto qualche altra pagina del mio libro; e, naturalmente, ho composto qualche canzone. Le cantano di tanto in tanto: solo per farmi piacere, credo; perché è chiaro che in fin dei conti non sono abbastanza belle per Gran Burrone. E poi ascolto, e rifletto. Pare che il tempo qui non passi, è solo presente. Un posto davvero eccezionale.

«Giungono notizie un po’ da tutte le parti: da oltre le Montagne, dall’estremo Sud, ma ben poche dalla Contea. Sapevo dell’Anello, beninteso, poiché Gandalf è venuto qui spesso. Non mi ha detto molto; è diventato più muto che mai in questi ultimi anni. Il Numenoreano invece mi ha raccontato di più. Chi avrebbe mai detto che quell’anello sarebbe stato causa di tanti guai? È un peccato che Gandalf abbia scoperto così tardi tutto il retroscena, perché altrimenti avrei potuto portare io stesso l’aggeggio fino a qui tanti anni fa. Ho pensato varie volte di tornare a Hobbiville per riprenderlo; ma sto diventando vecchio, e loro non me l’hanno permesso; loro, sarebbe a dire Gandalf ed Elrond. Erano convinti che il Nemico mi cercasse dappertutto e che mi avrebbe ridotto a pezzettini, se mi avesse catturato mentre passeggiavo per le Terre Selvagge.

«Gandalf disse: “L’Anello è stato tramandato, Bilbo. Non faresti alcun bene, né a te né agli altri, impicciandotene nuovamente”. Strano tipo di osservazione, tipica in ogni modo di Gandalf. Siccome poi mi assicurò che si occupava di te, lasciai cadere la cosa. Sapessi che piacere mi fa vederti sano e salvo!». S’interruppe e guardò dubbioso Frodo.

«Ce l’hai qui su di te?», chiese bisbigliando. «Non posso fare a meno di essere un po’ curioso, sai, dopo tutto quel che ho sentito dire. Mi farebbe molto piacere dargli solo un’occhiatina».

«Sì, l’ho qui con me», rispose Frodo, con una strana riluttanza. «È tale e quale com’era prima».

«Va bene, ma vorrei vederlo un attimo», disse Bilbo.

Mentre si vestiva, Frodo aveva scoperto che durante la sua degenza l’Anello gli era stato appeso al collo con una nuova catenella, leggera ma molto robusta. Lo tirò fuori lentamente. Bilbo tese la mano; immediatamente Frodo ritrasse l’Anello. Con angoscia e sommo stupore si accorse che non stava più vedendo Bilbo; un’ombra sembrava essere scesa tra di loro, ed egli scorgeva dall’altro lato un piccolo essere avvizzito dal viso avido e dalle ossute mani ingorde. Sentì il desiderio di colpirlo.

La musica e i canti intorno a loro parvero svanire, e vi fu un profondo silenzio. Bilbo lanciò un rapido sguardo a Frodo e poi si passò la mano sugli occhi. «Ora capisco», disse. «Mettilo via! Mi dispiace: mi dispiace che tocchi a te sopportare questo peso, mi dispiace tanto. Possibile che le avventure non abbiano una fine? Ma forse no. C’è sempre qualcun altro che prosegue la storia. Ebbene, non vi è altro da fare. Chissà se vale la pena cercare di terminare il mio libro… ma per il momento non pensiamoci, voglio sentire delle vere notizie! Parlami della Contea!».

Frodo nascose l’Anello, e l’ombra scomparve lasciando soltanto un vago ricordo. La luce e la musica di Gran Burrone lo circondavano nuovamente. Bilbo sorrideva e rideva felice. Ogni minima notizia della Contea che Frodo rammentasse, aiutato e corretto qua e là da Sam, era per lui di grande interesse, che si trattasse del taglio dell’ultimo albero o degli scherzi di un bambinetto di Hobbiville. Erano talmente immersi nei fatti dei Quattro Decumani che non si accorsero dell’arrivo di un uomo vestito di verde scuro. Egli rimase a lungo in piedi accanto a loro, e continuò a guardarli sorridendo.

D’un tratto Bilbo alzò lo sguardo. «Ah! Eccoti finalmente, Dùnadan!», esclamò.

«Grampasso!», disse Frodo. «Vedo che hai parecchi nomi».

«Ebbene, Grampasso è in ogni modo uno che io non conoscevo», commentò Bilbo. «Perché lo chiami così?».

«È il nome che mi danno a Brea», disse Grampasso ridendo, «ed è quello col quale gli sono stato presentato».

«E tu perché lo chiami Dùnadan?», chiese Frodo.

«Il Dùnadan», disse Bilbo. «È il nome che gli danno di solito qui. Ma credevo che conoscessi abbastanza l’elfico per capire dù-na-dan: Uomo dell’Ovest, Numenoreano. Ma non è ora di dare lezioni!». Si volse verso Grampasso. «Dove sei stato, amico mio? Perché non hai banchettato con gli altri? Dama Arwen era presente».

Grampasso guardò Bilbo con aria grave. «Lo so», disse. «Ma spesso devo rinunciare alle cose allegre. Elladan ed Elrohir sono tornati inaspettatamente dalle Terre Selvagge, ed avevano informazioni che desideravo conoscere senza indugio».

«Ebbene, mio caro amico», disse Bilbo, «ora che hai avuto le tue notizie, credi di potermi dare un po’ del tuo tempo? Ho bisogno del tuo aiuto per qualcosa di molto urgente. Elrond dice che questa mia canzone deve essere pronta prima della fine della serata, e io non riesco ad andare avanti. Mettiamoci in un angolino e diamole il tocco finale!».

Grampasso sorrise: «Coraggio!», disse. «Fammela un po’ sentire!».

* * *

Frodo rimase solo per qualche tempo, poiché Sam si era addormentato. Si sentiva solitario e quasi abbandonato, benché la gente di Gran Burrone fosse riunita tutt’intorno a lui. Ma coloro che gli stavano vicini erano silenziosi, rapiti dalla musica di voci e strumenti, e non badavano ad altro. Frodo si mise ad ascoltare.

Sulle prime la bellezza delle melodie intrecciate alle parole di lingua elfica lo avvolse come un incantesimo, benché egli non capisse molto di ciò che veniva cantato. Ciò nonostante pareva quasi che le parole prendessero corpo e gli rivelassero visioni di terre lontane e cose luminose che non aveva mai in vita sua immaginate; e il salone illuminato dal fuoco non fu più che una nebbia dorata su mari di schiuma che sospiravano ai margini del mondo. Poi il sortilegio si fece sempre più simile ad un sogno ed egli ebbe l’impressione che un fiume interminabile d’oro e d’argento si espandesse, ricoprendolo, troppo immenso per poterne discernere i contorni; diventò parte dell’aria vibrante intorno a lui, lo intrise e lo affogò. Sotto quel peso luminoso affondò nel profondo regno del sonno.

Ivi errò a lungo in un sogno di musica che si trasformava in acqua gorgogliante e poi all’improvviso in una voce. Pareva la voce di Bilbo che cantava versi. Vaghe all’inizio, le parole si fecero più chiare.

Eärendil era uomo di mare,

Eppur si attardava ad Arvernien;

Costruì una barca di legno

Per recarsi sino a Nimbrethil;

D’argento tessute le vele,

D’argento eran pur le lanterne,

E la prua in forma di cigno,

E la luce sulle bandiere.

Un’armatura dei re antichi,

In maglia di anelli intrecciati;

Sullo scudo intagliate le rune

Contro tutti i pericoli e i mali;

Un arco di corno di drago,

Le frecce di ebano duro,

D’argento splendente la cinta,

E il fodero di crisopazio;

Valorosa la spada d’acciaio,

Inflessibile l’elmo orgoglioso

Sormontato da una piuma d’aquila;

Uno smeraldo gli splendea sul petto.

Sotto la Luna e sotto le stalle

Dai nordici lidi andò vagabondando,

Per meravigliosi sentieri incantati,

Sino ad un mondo al di là dei mortali.

Dal gelido tormento dello Stretto Ghiaccio

Ove l’ombra ricopre le colline glaciali,

Dalle fiamme ed il fuoco di antri arroventati,

Egli fuggì via ed ancor vagando

Su acque cupe e su laghi fatali

Giunse infine un giorno alla Notte del Nulla,

E vi s’inoltrò e non vide mai tracce

Di rive, di spiagge, di luci o di rocce.

I venti incolleriti, furibondi lo travolsero,

E tra schiuma e schiuma fuggì ciecamente

Senza più sapere dove est ed ovest fossero

Cercando la via di casa disperatamente.

In quel momento Elwing gli apparve davanti,

E brillò una fiamma nell’oscurità;

Più fulgida e splendente di luce di diamanti

Era la favilla sulla sua fronte. Donò a lui il Silmaril,

Incoronandolo di luce e di vitalità,

Così intrepido e forte e prode Eärendil

Riprese il comando della sua nave.

Nella buia notte di questo mondo oltre il mare

Si levò d’improvviso una tempesta violenta,

Un vento di potere e potenza a Tarmenel.

Trascinò veloce la sua barca la tormenta

Per sentieri che i mortali non percorrono mai.

Attraverso mari remoti e abbandonati,

Attraverso grigi flutti incantati

Da oriente ad occidente senza tornare mai.

Condotto da onde nere e ruggenti

Per leghe infinite, su abissi profondi,

Ove prima che iniziassero i giorni vi erano terre,

Nella Notte del Nulla, nelle ombre frementi, udì su rive di perle

Ove frangono i flutti, ove muoiono i mondi,

Una musica eterna vibrare Tra l’oro e le gemme trasportate dal mare.

Silente e pensosa la Montagna si ergeva,

E nel suo grembo Valinor il vespro teneva;

Eärendil scorse al di là del mar

Splendente, lontano, remoto, Eldamar.

Sfuggito era infine alla notte,

Giunto in un limpido porto,

Nella Casa di Elfi ove tutto è verde e conforto,

Ove l’aria è fragrante ed il cielo cristallin,

Ove ai piedi del Colle di Ilmarin

Splendide e fulgenti nelle vallate

Di Tirion le alte torri illuminate

Si riflettono sul Lago Ombroso.

Li placò la stanchezza del viaggio,

Imparando melodie soavi,

Ascoltando come in miraggio,

I racconti e le storie degli avi.

Lo vestirono di elfico bianco,

Ed ei partì per contrade nascoste,

Sette luci sul suo cammino stanco,

Come se attraversasse il Calacirian.

Giunse nei luoghi ove il tempo non scorre,

Ove gli anni risplendono eterni,

Ed il Remoto Re governa perenne

Ad Ilmarin sulla Montagna solenne;

Gli svelaron segreti e misteri

Sul conto degli Elfi e degli Uomini veri.

Del mondo gli mostraron visioni

Proibite ai comuni mortali.

Poi un nuovo vascello costruirono per lui

In cristallo elfico intagliato;

Non aveva bisogno di remi,

E sull’albero d’argento sbalzato

Nessuna vela avevano issato:

Il Silmaril era allo stesso tempo

Lanterna brillante e bandiera al vento

Posta sulla nave dalla mano di Elbereth;

Ella diede ad Eärendil delle ali immortali,

E dei perenni incantesimi fatali,

Per poter giungere navigando nei cieli

Della Luna e del Sole al di là dei veli.

Dalle alte colline di Sempresera

Ove l’acqua delle fontane scorre leggera,

Le ali lo portarono, pari a luce vagante,

Oltre l’imponente Muro di Montagne.

Ma un giorno dalla Fine del Mondo andò via

Per la sua amata casa pieno di nostalgia,

E si rimise in viaggio onde ritrovarla

sfavillante come un’isola di stelle;

Giunse così in alto oltre nubi e nebbie,

Una scintilla al cospetto del Sole,

Un prodigio di fronte all’alba nascente

Ove delle Terre Nordiche scorre il grigio torrente.

Sulla Terra di Mezzo passò volando

E udì i lamenti, la tristezza ed il pianto

Di molte elfiche voci femminili

Nei Tempi Remoti, negli anni lontani.

Ma egli sapeva di esser condannato

A vagare come un astro infocato

Finché la Luna non fosse sbiadita,

Prima di potèr posare le dita

Sulle Sponde di Qui ove vivono i mortali;

Mai il messaggero si potrà riposare

E nemmeno il suo compito abbandonare

Che è di recar lungi il suo lume senza ingiuria,

Il fiammifer dell’Ovesturia.

Il canto cessò. Frodo aprì gli occhi e vide Bilbo seduto sullo sgabello e circondato da un gruppo di persone sorridenti e applaudenti.

«Vorremmo risentirla da capo», disse un Elfo.

Bilbo si alzò e fece un inchino. «Sono molto lusingato, Lindir», disse. «Ma sarebbe troppo stancante ripeterla per intero».

«Non certo troppo stancante per te», risposero gli Elfi ridendo. «Sai benissimo che non ti stanchi mai di recitare i tuoi versi. Ma non possiamo rispondere alla tua domanda, con una sola audizione!».

«Come?», esclamò Bilbo. «Non sapete dirmi quali sono i pezzi composti da me, e quali dal Numenoreano?».

«Non è facile per noi vedere la differenza tra le opere di due Mortali», disse l’Elfo.

«Sciocchezze, Lindir», ribatté Bilbo. «Se non sei capace di distinguere tra un Uomo ed un Hobbit, il tuo giudizio è peggiore di quanto non pensassi. C’è la stessa differenza che fra una mela ed un pisello».

«Può darsi. A una pecora le altre pecore appaiono senza dubbio diverse», disse Lindir ridendo. «E anche al pastore. Ma i Mortali non sono mai stati per noi oggetto di studio. Abbiamo ben altro da fare».

«Non starò a discutere con te», disse Bilbo. «Mi è venuto sonno dopo tanta musica e tanto canto. Indovinate pure, se ne avete voglia; io vi lascio».

Si alzò e si avvicinò a Frodo. «Bene, anche questa è passata», disse a bassa voce. «È riuscita meglio di quanto non pensassi. Non mi capita spesso che mi chiedano una ripetizione. Che te n’è parso?». «Non tenterò d’indovinare», rispose Frodo sorridendo.

«Non è necessario», disse Bilbo. «A dire il vero è tutta opera mia, salvo quella pietra verde che Aragorn ha insistito che fosse messa da qualche parte; aveva l’aria di considerarla una cosa molto importante, chissà perché. Per il resto era chiaro che giudicava il tutto alquanto pretenzioso da parte mia, e mi ha detto che se avevo la faccia tosta di comporre dei versi su Eärendil in casa di Elrond, erano fatti miei. Suppongo che avesse ragione».

«Non so», disse Frodo. «A me non sembrava fuori posto, tutt’altro, ma non ti so dire altro. Ero mezzo addormentato quando cominciò il canto, e mi parve il proseguimento di qualcosa che stavo sognando. Mi son reso conto che la voce era la tua soltanto verso la fine».

«Effettivamente è difficile restare svegli qui, quando non ci sei abituato», disse Bilbo. «Non credo comunque che gli Hobbit riuscirebbero mai a condividere interamente l’amore sviscerato degli Elfi per musica, favole e poesie. Sembra che ci tengano come al mangiare, ed anche di più. Ci vorrà ancora un bel po’ prima che smettano. Che ne dici di sgusciare via per far quattro chiacchiere in pace?».

«Possiamo?», chiese Frodo.

«Naturalmente. Questi sono festeggiamenti, mica riunioni d’affari. Puoi andare e venire come ti pare, purché non si faccia rumore».

Si alzarono silenziosamente dirigendosi all’ombra dei pilastri verso la porta. Sam rimase lì, profondamente addormentato e con un sorriso sulle labbra. Sebbene la compagnia di Bilbo gli procurasse un vivo piacere, Frodo sentì un lieve rimpianto nell’abbandonare il Salone del Fuoco. Mentre varcavano la soglia udì ancora un’unica voce cristallina intonare un canto.

A Elbereth Gilthoniel,

Silivren penna miriel

O menel aglar elenath!

Na-chaered plan-dt’riel

O galadbremmin ennorath,

Fanuilos, le linnathon

Nef aear, si nef aearon!

Frodo si fermò un attimo per voltarsi a guardate. Elrond seduto sulla sua poltrona aveva il viso illuminato dal fuoco come gli alberi dai raggi estivi. Accanto a lui sedeva Dama Arwen. Frodo vide con sorpresa che Aragorn era in piedi vicino a lei; la sua cappa scura era gettata indietro ed egli pareva vestito dell’armatura elfica, mentre una stella gli risplendeva sul petto. Stavano parlando assieme, quando d’un tratto Frodo ebbe l’impressione che Arwen si voltasse verso di lui, e che la luce dei suoi occhi lo investisse, penetrandogli il cuore.

Rimase immobile e silenzioso mentre le dolci sillabe del canto elfico s’innalzavano come limpide gemme fatte di musica e parole. «È un canto per Elbereth», disse Bilbo. «Canteranno questa ed altre canzoni del Sacro Regno molte volte stasera. Vieni!».

Condusse Frodo nella propria piccola stanza che dava sui giardini guardando verso sud, al di là del burrone ove scorreva il Bruinen. Rimasero a lungo seduti, ammirando dalla finestra le stelle luminose in cima ai ripidi declivi boscosi, e parlando dolcemente. Dimenticate le piccole novità e notizie della Contea, dimenticati i pericoli che li minacciavano e le ombre scure e malvagie, parlarono di tutte le cose meravigliose che avevano visto vagabondando assieme per il mondo: degli Elfi, delle stelle, degli alberi, e del tempo dolce e silenzioso in cui un anno luminoso moriva nei boschi.

* * *

Infine udirono bussare alla porta. «Chiedo scusa», disse Sam, facendo capolino, «ma volevo soltanto sapere se lorsignori avevano bisogno di qualcosa».

«Sono io che ti chiedo scusa, Sam Gamgee», rispose Bilbo. «Suppongo tu intenda dire che è ora per il tuo padrone di andare a letto».

«Signore, c’è un Consiglio domattina presto, a quanto pare, e voi oggi vi siete alzato per la prima volta».

«Giustissimo, Sam», disse ridendo Bilbo. «Puoi correre da Gandalf e dirgli che si sta coricando. Buona notte, Frodo! Sai che mi ha fatto proprio piacere rivederti? Dopo tutto, nessuno vale un Hobbit per una buona chiacchierata. Sto invecchiando, e incomincio a domandarmi se vivrò abbastanza per vedere i tuoi capitoli della nostra storia. Buona notte! Credo che farò quattro passi in giardino per guardare le stelle di Elbereth. Dormi bene!».

CAPITOLO II IL CONSIGLIO DI ELROND

La mattina seguente Frodo si svegliò presto, riposato e fresco. Passeggiò sulle terrazze che dominavano il rumoroso corso del Bruinen, osservando il pallido sole sorgere da dietro le montagne lontane e irradiare la sua luce obliqua attraverso la fine nebbiolina d’argento. La rugiada scintillava sulle foglie gialle, e i sottili fili intrecciati delle ragnatele brillavano su ogni cespuglio. Sam camminava al suo fianco, silenzioso, e guardava di tanto in tanto, con stupore negli occhi, le alte vette ad oriente. La neve era bianca sui picchi.

A una svolta incontrarono, seduti su un sedile intagliato nella pietra, Bilbo e Gandalf immersi in una conversazione. «Eh! Buon giorno!», disse Bilbo. «Ti senti pronto per il grande Consiglio?».

«Mi sento pronto a qualsiasi cosa», rispose Frodo. «Ma ciò che mi piacerebbe di più oggi sarebbe di andarmene a passeggio e di esplorare la valle. Vorrei arrivare fino a quei boschi di pini lassù». Mostrò in lontananza le pendici nord di Gran Burrone.

«Forse più tardi ne avrai l’occasione», disse Gandalf. «Ma per il momento non possiamo fare programmi; c’è molto da sentire e da decidere oggi».

* * *

Improvvisamente, mentre stavano parlando, udirono squillare una campana. «Questo è il segnale per il Consiglio di Elrond», disse Gandalf. «Allora andiamo! Tu e Bilbo dovete prendervi parte».

Frodo e Bilbo seguirono prontamente lo stregone lungo il sentiero serpeggiante fino alla casa; dietro di loro, non invitato e per il momento dimenticato, trotterellava Sam.

Gandalf li condusse al portico dove Frodo aveva trovato i suoi amici la sera precedente. La luce della limpida mattina autunnale aveva già inondato la valle. Dal letto spumeggiante del fiume giungeva il gorgogliare delle acque. Gli uccelli cantavano, e tutto era immerso nella calma e nella pace. A Frodo la propria fuga attraverso ci pericolo e le notizie circa l’oscurità dilagante nel resto del mondo parevano già soltanto i ricordi di un sogno inquieto ed agitato; ma i visi che si voltarono al loro ingresso avevano un’espressione grave.

Elrond era già seduto, circondato da molte altre persone silenziose. Frodo vide Glorfindel e Glóin; in un angolo Grampasso sedeva solitario e vestito nuovamente dei suoi vecchi e logori abiti da viaggio. Elrond fece sedere Frodo accanto a sé, e lo presentò agli altri dicendo:

«Eccovi, amici, l’Hobbit Frodo figlio di Drogo. Pochi sono quelli giunti sino a noi affrontando pericoli sì gravi e con un compito così urgente».

Quindi indice a Frodo, nominandoli, coloro ch’egli non aveva ancora incontrato. Accanto a Glóin vi era un giovane Nano, che si presentò come suo figlio Gimli. Vicino a Glorfindel erano molti altri consiglieri di Elrond, di cui il capo era Erestor; con lui era Galdor, un Elfo venuto dai Rifugi Oscuri su incarico di Cirdan, il Timoniere. Vi era anche uno strano Elfo vestito di verde e nero, di nome Legolas, inviato dal padre Thranduil, Re degli Elfi a nord del Bosco Atro. Un po’ scostato dagli altri Frodo notò un uomo alto dal volto bello e nobile, dai capelli scuri e dagli occhi grigi, dall’espressione orgogliosa e severa.

Portava mantello e stivali, come fosse reduce da un lungo viaggio a cavallo; infatti, benché gli abiti fossero sontuosi e la cappa foderata di pelliccia, le tracce della sua cavalcata erano piuttosto evidenti. Aveva una collana d’argento ornata da un’unica pietra bianca, e i capelli erano tagliati sopra le spalle. Appeso al balteo portava un grande corno dalla punta d’argento, che teneva ora posato sulle ginocchia. Guardava Frodo e Bilbo con grande meraviglia.

«Questi è Boromir», disse Elrond rivolgendosi a Gandalf, «un uomo del Sud. È giunto nella grigia mattina e chiede consiglio. L’ho pregato di essere anch’egli presente, poiché questo consesso risponderà alle sue domande».

* * *

Non è necessario riferire tutto ciò che fu detto e discusso dal Consiglio; si parlò a lungo degli avvenimenti nel resto del mondo, e in particolar modo del Sud, e delle vaste contrade a est delle Montagne. Di questi fatti Frodo aveva già sentito dir molto, ma il racconto di Glóin gli giungeva nuovo, ed egli ascoltò attentamente mentre il Nano parlava. Si capiva chiaramente che tra lo splendore delle loro opere i cuori dei Nani della Montagna Solitaria erano profondamente turbati.

«Son già passati molti anni», disse Glóin, «da quando un’ombra inquietante cadde sul nostro popolo. Sulle prime non ci rendemmo conto da dove venisse. Parole incominciarono a sussurrarsi in gran segreto: si disse che eravamo intrappolati in una terra stretta e scomoda, e che nel resto del mondo avremmo trovato maggiore splendore e ricchezza in quantità. Alcuni parlarono di Moria: le imponenti opere dei nostri padri, chiamate nella nostra lingua Khazad-dûm; essi sostennero che ormai eravamo finalmente abbastanza potenti e numerosi per ritornarvi».

Glóin sospirò. «Moria! Moria! Meraviglia del Mondo Nordico! Troppo in profondità scavarono le nostre pale, e risvegliammo la paura senza nome. Da tempo sono vuoti i vasti palazzi e le grandiose ville, abbandonati dai figli di Durin. Ma ora se ne parlava di nuovo con nostalgia, eppur con timore, perché nessun Nano ha osato varcare le porte di Khazad-dûm da molti e molti anni. L’unico fu Thròr, il quale perì. Infine, comunque, Balin preste orecchio ai sussurri e decise di partire; e benché Dàin non fosse molto entusiasta di vederli andar via, portò con sé Ori ed Oin e molti dei nostri, e si misero tutti in cammino verso sud.

«Questo avvenne all’incirca trent’anni fa. Per un certo tempo giunsero notizie che parevan buone: messaggi comunicavano che essi erano entrati a Moria, e avevano messo in opera grandi lavori. Poi vi fu il silenzio, e da allora non abbiamo più ricevuto una sola parola da Moria.

«Un giorno, circa un anno fa, giunse un messaggero, ma non da Moria, bensì da Mordor; un cavaliere notturno che chiamò Dàin al cancello. Il Signore Sauron il Grande, gli disse, desiderava la nostra amicizia, in cambio di anelli uguali a quelli che soleva dare anticamente. E chiese con insistenza notizie degli Hobbit, di che razza fossero e dove vivessero. “Perché Sauron sa”, disse il messaggero, “che un tempo voi ne conoscevate uno”.

«A sentir ciò ci preoccupammo non poco, e non rispondemmo. Il messaggero allora abbassò la voce crudele, e se avesse potuto l’avrebbe persino addolcita. “Sauron chiede questo come piccolo pegno della vostra amicizia”, disse; “trovate il ladro”, tale fu la parola che adoperò, “e prendetegli volente o nolente un piccolo anello, il minore degli anelli, che egli rubò un giorno. È un gingillo che piace a Sauron, e sarebbe un buon modo per dimostrare la vostra buona volontà. Trovatelo, e i tre anelli che i Signori dei Nani possedevano anticamente saranno nuovamente vostri, ed il Reame di Moria tornerà a voi per sempre. Trovate anche soltanto notizie del ladro, se vive ancora e dove, e sarete grandemente ricompensati dal Signore, e riceverete eterna riconoscenza. Rifiutate, e le cose non si metteranno bene. Rifiutate?”.

«Dicendo ciò, il suo alito parve il sibilo di un serpente, e tutti coloro che erano presenti rabbrividirono, ma Dàin disse: “La mia risposta non è un sì né un no. Devo riflettere sul tuo messaggio e su ciò che implica dietro le belle apparenze”.

«“Rifletti bene, ma non troppo a lungo”, disse il messaggero. “Il tempo del mio pensiero è mio, e sono libero di impiegarne quanto voglio”, rispose Dàin.

«“Per ora”, disse l’altro cavalcando via nell’oscurità.

«Pesanti sono stati i cuori dei nostri capi sin da quella notte. Non era necessaria la voce crudele del messaggero per avvertirci che nelle sue parole vi era minaccia e inganno, poiché sapevamo già che la potenza rientrata a Mordor è sempre la stessa, quella che in passato ci tradì. Due volte è tornato il messaggero, ed è ripartito senza risposta. La terza ed ultima volta è imminente, egli ha detto, prima della fine dell’anno.

«E così sono stato inviato da Dàin ad avvertire Bilbo che il Nemico lo cerca, e per sapere, se possibile, perché desidera tanto quest’anello, il minore degli anelli. Infine imploriamo un consiglio da Elrond, perché l’Ombra cresce e si avvicina. Abbiamo scoperto che altri messaggeri si sono recati da Re Brand a Valle, e che egli ha paura. Temiamo che possa arrendersi. Già la guerra sta per scoppiare alle sue frontiere orientali. Se non diamo alcuna risposta, il Nemico ordinerà ai suoi Uomini di assalire Re Brand, ed anche Dàin».

«Hai fatto bene a venire», disse Elrond. «Udrai oggi tutto ciò ch’è necessario per capire gli scopi del Nemico. Non altro potete fare che resistere; con o senza speranza. Ma non siete soli; apprenderai fra poco che i vostri problemi sono soltanto una parte dei grandi problemi di tutto il mondo dell’Occidente. L’Anello! Che fare dell’Anello, il minore degli anelli, il gingillo che piace a Sauron? Questa è la decisione che dobbiamo prendere.

«Questo è il motivo per il quale siete stati tutti chiamati qui. Chiamati, dico, pur non avendovi io chiamati a me, stranieri di remoti paesi. Siete venuti, e vi siete incontrati, in questo breve lasso di tempo, parrebbe quasi per caso. Eppur non è così. Sappiate che è stato ordinato che noi, seduti in questo luogo, noi e non altri, dobbiamo trovare una soluzione al pericolo che corre il mondo. «Ora perciò parleremo apertamente di cose che sono state tenute segrete a tutti, salvo a pochi iniziati. E innanzi tutto, affinché ognuno possa rendersi conto di quale sia il pericolo, vi sarà narrata la storia dell’Anello dall’inizio sino allora presente. Sarò io a cominciare, ma altri concluderà».

* * *

Ascoltarono tutti attentamente la voce limpida di Elrond che parlava di Sauron e degli Anelli del Potere, e di quando furono forgiati, nella Seconda Era del mondo arcaico. Parte della storia alcuni già la conoscevano, ma l’intera vicenda era ignota a tutti, e molti sguardi erano rivolti verso Elrond, pieni di timore e di meraviglia mentre egli raccontava dei Fabbri Elfi di Eregion e della loro amicizia con Moria, e del loro desiderio di sapere, che fu la loro rovina. A quell’epoca Sauron non era ancora d’aspetto malvagio, ed essi accettarono il suo aiuto e diventarono potenti nella loro arte, mentre egli apprese tutti i loro segreti e li tradì, e forgiò di nascosto nella Montagna di Fuoco l’Unico Anello per dominarli. Ma Celebrimbor se ne accorse, e nascose i Tre che aveva fabbricato; allora vi fu la guerra; e il paese fu spianato, e il cancello di Moria fu chiuso.

Quindi Elrond evocò la storia dell’Anello attraverso gli anni seguenti; ma poiché è raccontata altrove scritta da lui di proprio pugno nei suoi libri di antiche tradizioni, essa non è qui riportata. È infatti una storia lunga, irta di grandi e terribili crimini e gesta, e quantunque l’oratore parlasse rapido e concise, il sole era alto in cielo e la mattina stava per finire quando giunse alla conclusione.

Disse di Nùmenor, della sua gloria e della sua caduta, e del ritorno dei Re degli Uomini alla Terra di Mezzo fuori dagli abissi del Mare, trasportati sulle ali della tempesta. Quindi vennero i grandi regni di Elendil l’Alto e dei suoi potenti figli Isildur ed Anàrion; Arnor fu allora il Reame del Nord, e Gondor, intorno alle foci dell’Anduin, il Reame del Sud. Ma furono assaliti da Sauron di Mordor, e si unirono nell’Ultima Alleanza di Elfi e Uomini, e le schiere di Gil-galad e di Elendil si radunarono ad Arnor.

A questo punto Elrond si interruppe un attimo e sospirò. «Ricordo perfettamente lo splendore delle loro bandiere», disse. «Mi rammento la gloria dei Tempi Remoti e degli eserciti di Beleriand, dove tanti grandi principi e capitani si erano riuniti. Eppure non erano né in tal numero, né tanto splendenti come quando Thangorodrim fu distrutto, e gli Elfi credettero che il male fosse ucciso per sempre, mentre non fu così».

«Voi ricordate?», disse Frodo, esprimendo ad alta voce per lo stupore il proprio pensiero. «Ma credevo», balbettò allorché Elrond si volse verso di lui, «credevo che la caduta di Gil-galad fosse avvenuta in epoca molto lontana».

«Infatti è così», rispose gravemente Elrond. «Ma la mia memoria risale fino ai Tempi Remoti. Eärendil fu mio padre, che nacque a Gondolin prima della sua caduta; e mia madre fu Elwing, figlia di Dior, figlio di Lùthien di Doriath. Ho visto tre ere ad ovest del mondo, molte sconfitte e molte vittorie inutili.

«Fui araldo di Gil-galad e marciai con le sue schiere. Partecipai alla Battaglia di Dagorlad innanzi al Cancello Nero di Mordor, dove la vittoria fu nostra: nessuno infatti poteva resistere ad Aiglos, la Lancia di Gil-galad, e alla Spada di Elendil, Narsil. Vidi l’ultimo combattimento sulle pendici dell’Orodrúin, dove morì Gil-galad, e cadde Elendil, e Narsil si frantumò sotto di lui; Sauron in persona tuttavia fu sconfitto, ed Isildur gli tagliò l’Anello dalla mano, con l’elsa della spada di suo padre, e lo prese per sé».

A questo punto lo straniero, Boromir, interloquì. «Questo dunque accadde all’Anello!», esclamò. «Se questa storia fu mai raccontata a sud, è stata certo da tempo dimenticata. Avevo sentito parlare del Grande Anello di colui che noi non nominiamo; ma abbiamo sempre creduto che fosse scomparso dal mondo durante la rovina del primo reame. E invece Isildur se ne impadronì! Queste sì che sono notizie!».

«Ahimè sì», disse Elrond. «Isildur se ne impadronì, e non avrebbe dovuto. L’Anello doveva allora essere gettato nel vicino fuoco dell’Orodrúin dove era stato fabbricato. Ma pochi videro il gesto di Isildur: lui era solo accanto a suo padre in quel combattimento all’ultimo sangue; e a fianco di Gil-galad eravamo solo Cirdan ed io. Ma Isildur non volle ascoltare i nostri consigli.

«“Terrò questo in memoria di mio padre e di mio fratello”, disse, e lo conservò gelosamente, lo volessimo o no. Ma poco dopo esso lo tradì, provocando la sua morte, e da allora a nord lo chiamarono il flagello d’Isildur. Eppure quella fu forse la minore delle disgrazie che potevano accadergli.

«Queste notizie giunsero soltanto qui a nord, e a poche persone. Perciò non ti meravigliare di non esserne al corrente, Boromir. Dalla catastrofe di Campo Gaggiolo, ove Isildur perse la vita, tre soli uomini rientrarono a casa oltre le montagne, dopo molto vagare. Uno di essi era Othar, lo scudiero d’Isildur, che portava i frantumi della spada di Elendil; e li consegnò a Valandil, l’erede di Isildur, rimasto qui a Gran Burrone perché ancora bambino. Ma Narsil era rotta, e lo è ancora.

«Ho chiamato inutile la vittoria dell’Ultima Alleanza, ma non lo fu del tutto, pur rimanendo senza conclusione. Sauron fu indebolito, ma non distrutto. Il suo Anello fu perduto, ma non annientato. La Torre Oscura fu demolita, ma le sue fondamenta rimasero, perché furono costruite col potere dell’Anello e scompariranno soltanto con esso. Molti Elfi e molti Uomini valorosi e molti amici di entrambi perirono nella guerra. Anàrion fu ucciso, ed Isildur fu ucciso; e Gil-galad ed Elendil non erano più. Mai più vi sarà una tale lega tra Uomini ed Elfi, perché gli Uomini si moltiplicano mentre i Priminati vanno diminuendo, e le due stirpi sono ormai estranee. Da quel giorno fatale la razza di Nùmenor incominciò a decadere, e l’arco dei suoi anni è di molto diminuito.

«A nord, dopo la guerra e la catastrofe di Campo Gaggiolo, gli Uomini dell’Ovesturia erano scemati, e la città di Annùminas vicino al Lago Evendim cadde in rovina; e gli eredi di Valandil si trasferirono a Fornost sulle alte Lande del Nord, ed anche lì ora tutto è desolazione. Gli Uomini la chiamano Forra dei Morti e non hanno il coraggio di mettervi piede. Il popolo di Arnor infatti si estinse, e i suoi nemici lo divorarono, e la loro signoria scomparve, lasciando soltanto tumuli verdi sulle colline erbose.

«A sud il reame di Gondor dura a lungo; per un certo tempo il suo splendore crebbe, ricordando nella sua ascesa la potenza di Nùmenor prima della caduta. Le alte torri innalzate, e le fortezze ed i porti per le molte navi; la corona alata dei Re degli Uomini era venerata da numerosi popoli di lingue diverse. La capitale era Osgiliath, Cittadella delle Stelle, attraversata dalle acque del Fiume. E costruirono anche Minas Ithil, Torre della Luna Sorgente, ad est su di una cresta della Montagna dell’Ombra; e ad ovest, ai piedi dei Monti Bianchi edificarono Minas Anor, Torre del Sole Calante. Lì nei cortili del Re cresceva un albero bianco, nato dal seme portato da Isildur attraverso acque profonde, e quel seme proveniva da Eressòa, e prima ancora dall’Estremo Occidente, nel Giorno prima dei giorni allorché giovane era ancora il mondo.

«Ma col rapido passare degli anni la linea di Meneldil figlio di Anàrion si estinse nella Terra di Mezzo, e l’Albero si seccò, e il sangue dei Numenoreani si mescolò a quello di Uomini di minor valore. La sentinella di guardia sulle mura di Mordor dormiva, e 1 cose tetre e scure tornarono strisciando a Gorgoroth. E col passar del tempo il male avanzò, e s’impadronì di Minas Ithil, facendone la sua dimora, un luogo di terrore; da allora si chiama Minas Morgul, Torre del Maleficio. Fu così che si diede nuovamente a Minas Anor il nome di Minas Tirith, Torre di Guardia, e che le due città si dichiararono guerra perpetua; ma Osgiliath si trovava fra di loro, e fu abbandonata, mentre le ombre ne occupavano le rovine.

«E così è stato per molte e molte vite d’uomo. Ma i Signori di Minas Tirith continuano a combattere, sfidando i nostri nemici, difendendo il passaggio del Fiume da Argonath al Mare. E ora è giunta la fine di questa prima parte della mia storia. Infatti ai tempi di Isildur l’Anello del Potere fu smarrito, e i Tre liberati dalla sua egemonia. Ma oggi essi sono di nuovo in grave pericolo, poiché purtroppo l’Unico è stato ritrovato. Altri parlerà di come venne scoperto, poiché piccolo fu in quell’occasione il mio ruolo».

* * *

Si interruppe, e subito Boromir si alzò in piedi, alto ed orgoglioso. «Permettimi, Signore», disse, «di parlare prima un po’ di Gondor, poiché infatti di Gondor io sono. Ed è bene che tutti sappiano cosa vi accade. Pochi, credo, sono coloro che conoscono le nostre imprese, e si rendono conto del pericolo che correrebbero, se noi dovessimo infine cedere.

«Non crediate che nella terra di Gondor il sangue di Nùmenor sia del tutto scomparso, e la sua gloria e dignità obliate. È merito del nostro valore se la gente dell’Est non ha ancora fatto irruzione, ed il terrore di Morgul è tenuto lontano; grazie a noi la pace e la libertà perdurano nei paesi alle nostre spalle, baluardo dell’Occidente. Ma che accadrebbe se i passaggi del Fiume cadessero in mano al Nemico?

«Eppure quel momento è forse ormai vicino. Il Nemico Innominato è risorto. Il fumo s’innalza nuovamente dall’Orodrúin che noi chiamiamo Monte Fato. Il potere della Terra Nera giganteggia e noi siamo assediati. Quando il Nemico tornò, il nostro popolo fu cacciato da Ithilien, la bella contrada ad est del Fiume, ove adesso possediamo soltanto qualche roccaforte ben difesa. Ma proprio quest’anno, nel mese di giugno, la guerra improvvisa piombò su di noi da Mordor travolgendoci. Fummo sopraffatti dal numero, perché Mordor si è alleato agli Esterling e ai crudeli Haradrim, ma non soltanto dal numero: vi era un potere che mai prima d’oggi avevamo sentito.

«Alcuni dicevano che si poteva vedere come la figura di un grande cavaliere nero, un’ombra nera sotto la luna. Ogni qual volta si avvicinava, i nostri nemici cadevano in preda alla follia, ma il panico coglieva i nostri più valorosi soldati, che fuggivano via a cavallo spaventati. A casa rientrarono ben pochi degli uomini che avevano combattuto ad est, distruggendo l’ultimo ponte che ancora reggeva tra le rovine di Osgiliath.

«Io facevo parte di coloro che difendevano il ponte, finché non fu fatto crollare dietro di noi. Quattro soltanto si salvarono a nuoto: mio fratello, io e altri due. Ma noi continuiamo a combattere, presidiando tutta la riva occidentale dell’Anduin; e coloro che sono al riparo alle nostre spalle lodano il nostro nome ogni volta che lo sentono pronunciare: molti elogi e poco aiuto; soltanto da Rohan giungono ancora Uomini quando li chiamiamo.

«In quest’ora crudele sono giunto sin qui percorrendo molte pericolose leghe: centodieci giorni ho viaggiato, completamente solo. Ma non vengo a cercare alleati di guerra; la potenza di Elrond dicono sia nella saggezza e non nelle mani. Vengo a chiedere consiglio, e la spiegazione di dure parole. Alla vigilia di un assalto improvviso un sogno turbò il sonno di mio fratello, e in seguito un simile sogno tornò più volte nelle sue notti agitate, e una volta apparve anche a me.

«Vedevo allora il cielo ad oriente farsi scuro, mentre rombavano i tuoni; ma da occidente, ove ancora permaneva una fioca luce, giunse una voce, remota ma chiara, che gridava:

Cerca la Spada che tu rotta,

A Imladris la troverai;

I consigli della gente dotta

Più forti di Morgul avrai.

Là un segno verrà mostrato,

Indice che il Giudizio è vicino,

Il Flagello d’Isildur s’è svegliato,

Ed il Mezzuomo è in cammino.

«Di queste parole capivamo poco, e ne parlammo a nostro padre, Denethor, Signore di Minas Tirith, saggio nella storia di Gondor. Egli ci disse solo che Imladris era l’antico nome dato dagli Elfi a una valle all’estremo Nord, residenza di Elrond Mezzoelfo, il più grande esperto di tradizione. Mio fratello, vedendo quanto grande fosse il nostro bisogno, era desideroso di ubbidire al sogno e partire alla ricerca di Imladris; ma poiché dubbi e pericoli minacciavano la via, presi sulle mie spalle la responsabilità del viaggio. Restio fu mio padre a lasciarmi andare, e a lungo ho vagabondato per sentieri sconosciuti, in cerca della casa di Elrond, che molti avevano sentito nominare, ma pochi sapevano dove fosse».

* * *

«E qui nella Casa di Elrond riceverai altri chiarimenti», disse Aragorn alzandosi. Gettò la spada sul tavolo innanzi ad Elrond, e la lama era in due pezzi. «Ecco la Spada che fu Rotta!», disse.

«E voi chi siete, e che rapporti avete con Minas Tirith?», chiese Boromir, guardando meravigliato il magro volto del Ramingo, ed il suo manto segnato dalle intemperie.

«Egli è Aragorn figlio di Arathorn», disse Elrond; «e discende, attraverso molti padri, da Isildur, il figlio di Elendil regnante a Minas Ithil. È il Capo dei Numenoreani del Nord, che ormai sono rimasti in pochi».

«Allora appartiene a te, e non a me!», gridò Frodo piedi come se si aspettasse che l’Anello gli fosse richiesto all’istante. «Non appartiene a nessuno dei due», disse Aragorn; «ma è stato ordinato che tu lo conservi per un certo tempo».

«Mostra l’Anello, Frodo!», disse Gandalf solennemente. «E giunta l’ora. Mostralo, e Boromir capirà il resto dell’enigma».

* * *

Fu fatto silenzio, e tutti volsero gli sguardi verso Frodo. Egli tremava di vergogna e timore improvvisi, e sentiva una grande riluttanza a mostrare l’Anello, e ripugnanza nel toccarlo. Avrebbe desiderato essere lontano. L’Anello brillava e scintillava, mentre la mano tremante lo teneva alto innanzi a loro.

«Guardate il Flagello d’Isildur!», disse Elrond.

Gli occhi di Boromir brillavano guardando fisso l’oggetto d’oro. «Il Mezzuomo!», mormorò. «È giunto dunque infine il giudizio di Minas Tirith? Ma per qual motivo dovremmo allora cercare una spada rotta?».

«Le parole non erano il giudizio di Minas Tirith», disse Aragorn. «Tuttavia giudizio e grandi imprese sono imminenti, La Spada che fu Rotta è infatti la Spada di Elendil che si frantumò sotto di lui quando cadde. È stata custodita dai suoi eredi anche dopo che tutti gli altri ricordi di famiglia andarono persi; anticamente si era detto fra noi che sarebbe stata nuovamente forgiata, il giorno in cui si fosse ritrovato l’Anello, il Flagello d’Isildur. Ora che hai visto la spada tanto cercata, cosa desideri? Vuoi che la Casa di Elrond ritorni alla Terra di Gondor?».

«Non fui mandato ad implorare dei doni bensì a scoprire il significato di un enigma», rispose orgogliosamente Boromir. «Eppure le pressioni sono forti, e la Spada di Elendil sarebbe un aiuto insperato… se tale oggetto potesse effettivamente emergere dalle ombre del passato». Guardò di nuovo Aragorn, e dai suoi occhi traspariva il dubbio.

Frodo sentì accanto a sé Bilbo muoversi impaziente. Era evidentemente seccato per il suo amico. D’un tratto alzandosi proruppe:

«Non tutto quel ch’è oro brilla,

Né gli erranti sono perduti;

Il vecchio ch’è forte non s’aggrinza

E le radici profonde non gelano.

Dalle ceneri rinascerà un fuoco,

L’ombra sprigionerà una scintilla,

Nuova la lama ora rotta,

E re quei ch’è senza corona.

«Forse non è molto buona come poesia, ma rende l’idea, poiché la parola di Elrond non ti basta. Se ti è costata un viaggio di centodieci giorni faresti bene ad ascoltarla». Si sedette con un grugnito.

«Ho scritto io quei versi», sussurrò a Frodo, «per il Dùnadan, quando mi parlò di sé per la prima volta, tanto tempo fa. Desidererei quasi non aver concluso le mie avventure e poter partire con lui quando giungerà la sua ora».

Aragorn gli sorrise, quindi si rivolse di nuovo a Boromir. «Quanto a me, ti perdono i dubbi», disse. «Rassomiglio poco alle figure di Elendil ed Isildur scolpite in tutta la loro maestà nei saloni di Denethor. Io sono soltanto l’erede d’Isildur, e non Isildur in persona. Ho avuto una vita dura e lunga, e le leghe che separano Gran Burrone da Gondor rappresentano una piccola parte dei miei viaggi. Ho attraversato molte montagne e molti fiumi, e percorso molte pianure, fin nei paesi lontani di Rhûn e Harad dove le stelle sono estranee.

«Ma la mia casa è nel Nord. Qui son sempre vissuti gli Eredi di Valandil, una lunga linea ininterrotta per molte generazioni, di padre in figlio. I nostri giorni si sono fatti scuri, e siamo diminuiti; la Spada è sempre passata a un nuovo custode. E ti dirò un’altra cosa, Boromir, prima di concludere: siamo uomini solitari, Raminghi delle zone selvagge, cacciatori…, ma ostinati cacciatori dei servi del Nemico, che si trovano in molti luoghi, non soltanto a Mordor.

«Se Gondor, Boromir, si è dimostrata una torre robusta, noi abbiamo recitato un’altra parte. Vi sono molte cose malvagie che le vostre forti mura e spade splendenti non arrestano. Sapete poco dei paesi oltre i vostri confini. Pace e libertà, dici? Poco le avrebbe conosciute il Nord, se non fosse stato per noi. Sarebbero state distrutte dalla paura. Ma quando cose oscure vengono dai colli senza case, o strisciano fuori dai boschi senza sole, esse fuggono da noi. Quali strade si oserebbe percorrere, quale la sicurezza delle silenziose campagne, o delle case dei semplici uomini nella notte, se i Numenoreani dormissero, o riposassero tutti nella tomba?

«Eppure riceviamo ancora meno ringraziamenti di voi. I viaggiatori ci guardano torvi ed i contadini ci danno nomi spregiativi. “Grampasso” mi chiama un uomo grasso che vive ad un giorno di marcia dai nemici che gli raggelerebbero il cuore o distruggerebbero la sua cittadina, se non fosse incessantemente protetta. Non desideriamo tuttavia che le cose stiano altrimenti. Se la gente semplice non conosce preoccupazioni e paura, rimarrà tale, e noi per aiutarli dobbiamo restar segreti. Questo è stato il compito della mia gente, con l’accumularsi degli anni, mentre l’erba è cresciuta.

«Ma ora il mondo sta cambiando di nuovo. È giunta l’ora novella. Il Flagello d’Isildur è scoperto. La Battaglia è prossima. La Spada sarà nuovamente forgiata. Io verrò a Minas Tirith».

«Dici che il Flagello d’Isildur è scoperto», ribatté Boromir. «Ho visto splendere un anello nella mano del Mezzuomo; ma a quanto pare Isildur peri prima dell’inizio di questa era del mondo. Come possono i Saggi sapere che codesto è il suo anello? E come è giunto attraverso gli anni sino a questo strano messaggero che l’ha portato qui?».

«Ciò sarà detto», disse Elrond.

«Ma non adesso, per favore, Signore!», disse Bilbo. «Già il Sole si è arrampicato quasi sino a mezzogiorno, sento il bisogno di qualcosa che mi rinforzi».

«Non ti avevo chiamato», disse sorridendo Elrond. «Ma lo faccio adesso. Coraggio! Raccontaci la tua storia. E se non l’hai ancora messa in versi, puoi narrarla con parole normali. Più conciso sarai, più presto potrai ristorarti».

«Benissimo», disse Bilbo. «Farò come vuoi. Ma racconterò questa volta la vera storia, e se qualcuno di voi me l’ha sentita raccontare diversamente», lanciò a Glóin uno sguardo obliquo, «Io prego di dimenticare e di perdonarmi. A quei tempi desideravo soltanto rivendicare a me il possesso dell’Anello, e sbarazzarmi del nome di ladro che mi fu dato. Ora però credo di capire un po’ meglio le cose. Comunque, ecco che cosa accadde».

* * *

Per alcuni la storia di Bilbo era del tutto nuova, ed essi ascoltarono stupefatti mentre il vecchio Hobbit, in fin dei conti per nulla seccato, raccontava dettagliatamente l’avventura con Gollum. Non omise nemmeno un enigma. Avrebbe anche narrato della festa e della sua scomparsa dalla Contea, se gli fosse stato permesso; ma Elrond alzò la mano.

«Ben detto, amico mio», disse, «ma è sufficiente per ora. Basta sapere che l’Anello passò a Frodo, il tuo erede. Che sia lui adesso a parlare!».

Così Frodo, meno volentieri di Bilbo, raccontò tutto ciò che aveva fatto con l’Anello sin dal giorno in cui gli era toccato in custodia. Ogni passo del suo viaggio da Hobbiville al Guado del Bruinen fu esaminato e discusso, e qualsiasi cosa egli rammentasse sul conto dei Cavalieri Neri veniva ponderata. Finalmente si risedette.

«Non c’è male», commentò Bilbo. «Ne avresti fatto una bella storia se non ti avessero interrotto continuamente. Ho tentato di prendere qualche appunto, ma dovremo rivederli assieme un giorno, se voglio metterli in buona lingua. Ci sarà da riempire dei capitoli interi solo con ciò che hai fatto prima di arrivare qui!».

«Sì, è venuta fuori una storia alquanto lunga», rispose Frodo. «Tuttavia a me non pare ancora completa. Ci sono ancora molte cose che voglio sapere, specialmente su Gandalf».

* * *

Le sue parole furono udite da Galdor dei Rifugi Oscuri, che sedeva lì vicino. «Hai espresso anche il mio pensiero», esclamò, e poi rivolgendosi ad Elrond: «I Saggi possono giustamente pensare che l’oggetto scoperto dal Mezzuomo sia davvero il tanto discusso Grande Anello, per quanto ciò sembri improbabile a coloro che sanno di meno. Ma non potremmo udire quali sono le prove? Ho inoltre un’altra domanda. Che ne è di Saruman? Egli è dotto nella storia degli Anelli, eppur non si trova fra di noi. Qual è il suo parere, se egli conosce le cose che ci sono state riferite?».

«Le domande che poni, Galdor, sono strettamente collegate», disse Elrond. «Non le avevo tralasciate, ed esse troveranno risposta. Ma è compito di Gandalf chiarire queste cose, e io lo interpellerò per ultimo, al posto d’onore: in tutta la vicenda egli è stato il capo».

«Alcuni, Galdor», disse Gandalf, «considererebbero le notizie di Glóin e l’inseguimento di Frodo una prova sufficiente che la scoperta del Mezzuomo è oggetto di gran valore per il Nemico. Eppure è un Anello. Che cosa dedurne? I Nove sono in mano ai Nazgûl. I Sette son presi e distrutti». A questo punto Glóin si mosse ma non apri bocca. «I Tre sappiamo dove sono. Qual è dunque codesto ch’egli desidera tanto?

«Vi è effettivamente un lungo intervallo di tempo tra il Fiume e il Monte, tra lo smarrimento e la scoperta. Ma la lacuna nel sapere dei Saggi è stata finalmente colmata. Troppo lentamente però, perché il Nemico ci seguiva da vicino, da più vicino di quanto non pensassi. È stato un bene ch’egli sia venuto a conoscenza di tutta la verità soltanto quest’anno, quest’estate, a quanto pare.

«Alcuni qui presenti ricorderanno che molti anni fa osai varcare le porte del Negromante di Dol Guldur, ed esplorare di nascosto le sue vie, scoprendo che i nostri timori erano fondati: egli non era altri che Sauron, il nostro antico Nemico, che riprendeva nuovamente forma e potere. Alcuni rammenteranno anche che Saruman ci dissuase dall’agire apertamente contro di lui, ed a lungo ci limitammo ad osservarlo soltanto. Infine la sua ombra crebbe, e Saruman cedette, ed il Consiglio radunò la sua forza e cacciò il male dal Bosco Atro… Ciò avvenne esattamente lo stesso anno della scoperta di quest’Anello: uno strano caso, se fu un caso.

«Ma noi eravamo troppo in ritardo, come aveva previsto Elrond. Sauron ci aveva sorvegliati, e si preparava da tempo contro il nostro colpo, governando da lontano Mordor attraverso Minas Morgul, dove vivevano i suoi Nove servi, fino al giorno in cui tutto fu pronto. Egli allora si piegò davanti a noi, ma fu soltanto una finta ritirata, e giunto poco dopo alla Torre Oscura, si dichiarò apertamente. Per l’ultima volta il Consiglio si riunì, poiché ormai sapevamo che egli cercava più avidamente che mai l’Unico Anello. Temevamo che possedesse delle informazioni che noi non avevamo; ma Saruman disse di no, e ci ripeté quel che già aveva detto: che mai l’Unico sarebbe stato trovato nella Terra di Mezzo.

«“Nella più dannata ipotesi”, disse, “il Nemico sa che noi non l’abbiamo e che non è stato ritrovato. Ma ciò che fu perso può essere scoperto, egli pensa. Non temete! La speranza lo trae in inganno. Non ho forse studiato attentamente la questione? Cadde nel Grande Anduin, e fu trasportato giù per il Fiume fino al Mare, tanto tempo fa, mentre Sauron dormiva. Lasciatelo riposare lì sino alla Fine”».

* * *

Gandalf tacque e guardò dal portico le lontane vette orientali delle Montagne Nebbiose, ai piedi delle quali si era a lungo nascosto il pericolo del mondo. Sospirò.

«Fu allora che sbagliai», disse. «Mi lasciai cullare dalle parole di Saruman il Saggio; ma se fossi andato in cerca della verità più presto, oggi il pericolo sarebbe minore».

«Sbagliammo tutti», disse Elrond, «e se non fosse stato per la tua vigilanza, l’Oscurità sarebbe forse già su di noi. Ma continua!».

«Sin dal principio il mio animo fu colto da apprensione, apparentemente senza motivo», disse Gandalf, «e desideravo sapere come e per quanto tempo Gollum avesse posseduto l’Anello. Lo feci allora sorvegliare, supponendo che entro non molto tempo egli sarebbe uscito dall’oscurità per andare in cerca del suo tesoro. Infatti così fece, ma egli fuggì e non si riuscì a trovarlo. E poi, ahimè! rinunciai ad agire, limitandomi ad osservare ed attendere, come abbiamo troppo spesso fatto.

«Il tempo passava, pieno di preoccupazioni, finché all’improvviso i miei dubbi si risvegliarono, sotto forma di paura. Donde veniva l’Anello dell’Hobbit? Se i miei timori erano fondati, cosa se ne sarebbe dovuto fare? A queste domande dovevo rispondere. Non parlai a nessuno della mia apprensione, conoscendo il pericolo delle rivelazioni intempestive giunte a chi non dovrebbe sentirle. Durante tutte le lunghe guerre contro la Torre Oscura, il nostro più gran nemico è stato il tradimento.

«Questo avveniva diciassette anni fa. Poco dopo incominciai a rendermi conto che spie di ogni genere, persino bestie ed uccelli, circondavano la Contea, e la mia paura crebbe. Chiesi l’aiuto dei Dùnedain, ed essi raddoppiarono la sorveglianza; aprii il mio cuore ad Aragorn, l’erede d’Isildur».

«Ed io», interloquì Aragorn, «consigliai di andare a caccia di Gollum, per tardi che potesse sembrare. E poiché mi pareva giusto che l’erede d’Isildur facesse il possibile per riparare la colpa del suo avo, partii con Gandalf per la lunga ricerca senza speranza».

Gandalf raccontò allora come avessero esplorato da capo a fondo le Terre Selvagge, spingendosi a sud sino alle Montagne dell’Ombra ed alle frontiere di Mordor. «Lì avemmo sentore della sua presenza, ed ora congetturiamo ch’egli visse per lunghi anni nelle oscure colline; ma noi non lo trovammo ed infine io persi la speranza. Fu allora nella disperazione che pensai ad una prova che forse avrebbe supplito all’irreperibilità di Gollum. L’Anello stesso ci poteva dire se era l’Unico. Mi tornarono alla mente parole dette al Consiglio, parole di Saruman, alle quali allora non avevo prestato molta attenzione. Ora le udivo chiare nel mio cuore.

«“I Nove, i Sette ed i Tre”, aveva detto, “avevano ognuno una gemma. L’Unico al contrario non ne aveva: era rotondo e disadorno, come fosse uno degli anelli minori, ma l’artefice vi aveva inciso dei segni che occhi abili potrebbero forse ancora scorgere e decifrare”.

«Cosa fossero quei segni egli non l’aveva detto. Chi poteva saperlo? L’artefice. E Saruman? Ma per quanto grande fosse la sua scienza, certamente essa aveva una fonte. Quale altra mano, oltre quella di Sauron, custodì l’Anello prima che andasse smarrito? Soltanto la mano d’Isildur.

«Con quell’idea abbandonai le ricerche e mi recai prontamente a Gondor. In passato i membri del mio ordine vi avevano ricevuto buona accoglienza, ed in particolar modo Saruman, che era stato spesso e per lunghi periodi ospite dei Signori della Città. Più freddo del solito fu il benvenuto di Sire Denethor, il quale mi permise a malincuore di cercare tra le sue pergamene ammonticchiate ed i suoi libri.

«“Se veramente, come dici, ti limiti a cercare notizie dei tempi che furono e dei primordi della Città, leggi pure!”, mi disse. “Per me, ciò che fu è meno oscuro di ciò che verrà, e questa è la mia preoccupazione. Ma a meno che tu non sia ancor Più abile di Saruman, che ha studiato qui a lungo, non troverai nulla a me ignoto, poiché io sono maestro nella storia della Città”.

«Così parlò Denethor. Eppur nelle sue pergamene vi sono tante notizie che pochi ora saprebbero leggere, persino fra i più esperti, perché le scritte ed il linguaggio son diventati oscuri agli uomini di adesso. E vi è ancora a Minas Tirith, Boromir, letta da nessun altro, credo, oltre Saruman e me, una pergamena scritta di suo pugno da Isildur. Egli infatti, dopo la guerra a Mordor, non tornò immediatamente via, come è stato detto da alcuni».

«Da alcuni qui al Nord», interloquì Boromir. «Tutti a Gondor sanno che egli si recò prima a Minas Anor ove visse qualche tempo con il nipote Meneldil, istruendolo prima di affidargli il timone del Regno del Sud. A quell’epoca piantò l’ultimo giovane Albero Bianco in memoria di suo fratello».

«E scrisse anche la pergamena», disse Gandalf, «di cui a quanto pare a Gondor non ci si ricorda. Essa infatti concerne l’Anello, ed ecco quel che Isildur scrisse:

Il Grande Anello apparterrà d’ora in poi al Regno del Nord; ma a Gondor rimarranno alcuni documenti in proposito, nel caso che un giorno il ricordo di una questione si importante fosse offuscato, poiché anche qui vivono gli eredi di Elendil.

«Ed in seguito a queste parole Isildur descrisse l’Anello, come egli l’aveva trovato.

Era caldo al primo momento, caldo come ferro rovente, e la mia mano ne fu scottata a tal punto che dubito di poter liberarmi dal dolore. Eppure nel mentre io scrivo esso si sta rinfrescando, e mi è parso di vederlo restringersi, senza tuttavia perdere né forma né bellezza. Di già la scritta incisa su di esso, che sulle prime era chiara al pari di una rossa fiamma, sbiadisce ed è ormai appena leggibile. I caratteri sono quelli elfici di Eregion, poiché non vi sono a Mordor lettere idonee ad un lavoro sì minuzioso, ma la lingua è a me sconosciuta. Suppongo sia della Terra Nera, perché è rozza ed irregolare; quali malvagità essa dica, lo ignoro, tuttavia traccio qui una copia della scritta, qualora dovesse sbiadire senza lasciar indizi. Manca all’Anello forse il calore della mano di Sauron, che era nera, eppur bruciava come fuoco, tanto da distruggere Gil-galad; e forse se si riscaldasse nuovamente l’oro, la scrittura tornerebbe viva. Ma non sarò io a rischiare di danneggiare quest’oggetto: di tutte le opere di Sauron l’unica che sia bella. Mi è caro, benché lo stia acquistando con grandi sofferenze.

«Lette queste parole, le mie ricerche erano finite. La scritta incisa era infatti, come Isildur giustamente aveva indovinato, nella lingua di Mordor e dei servi della Torre; e ciò che essa diceva era conosciuto. Il giorno in cui Sauron infilò per la prima volta l’Unico, Celebrimbor, artefice dei Tre, se ne accorse e lo udì da lontano pronunciare quelle parole, scoprendo in tal modo i suoi scopi malvagi.

«Mi congedai subito da Denethor, ma mentre mi avviavo verso nord ricevetti messaggi da Lórien che mi informavano del passaggio di Aragorn, il quale aveva trovato l’essere chiamato Gollum. Andai perciò prima incontro a lui, onde udire la sua storia. Non osavo immaginare in quali pericoli mortali si fosse avventurato».

«Vi è poco da raccontare», disse Aragorn. «Se un uomo deve ad ogni costo camminare in vista del Cancello Nero, o calpestare i fiori micidiali di Valle Morgul, allora affronterà il pericolo. Anch’io infine, disperato, presi la via del ritorno. Fu allora che per un caso fortuito trovai ciò che cercava: le tracce di piedi soffici vicino ad uno stagno fangoso. Le orme erano fresche ed agili e conducevano non più verso Mordor, bensì in un’altra direzione. Le seguii percorrendo lembi delle Paludi Morte, ed infine lo vidi. Accovacciato presso un lago stagnante, sbirciava l’acqua mentre calava l’oscura sera, ed io lo presi: Gollum. Era coperto di melma verde. Temo che non mi amerà mai: mi morse, ed io non fui gentile. Non ricevetti mai altro dalla sua bocca che i segni dei suoi denti. Fu la parte peggiore di tutto il viaggio, la via del ritorno; lo sorvegliai notte e giorno, facendolo camminare avanti con una 1 cavezza al cono, imbavagliato fin quando la sete e la fame non l’ebbero addomesticato, conducendolo sempre verso il Bosco Atro. Vi giungemmo finalmente, e lo consegnai agli Elfi, come già avevamo deciso; fui felice di liberarmi di lui, perché puzzava. Per conto mio spero di non dover mai più posare il mio sguardo su quell’essere; ma Gandalf venne e sopportò una lunga conversazione con lui».

«Sì, lunga e spossante», disse Gandalf, «ma non senza profitto. Innanzi tutto la sua storia di come aveva smarrito l’Anello coincide con quella che Bilbo ci ha raccontato ora per la prima volta sinceramente; ma ciò importava poco, poiché io l’avevo già indovinata. Appresi invece che l’Anello di Gollum proveniva dal Gran Fiume in prossimità di Campo Gaggiolo, e che egli lo possedeva da molto tempo: molte vite di piccoli esseri della sua razza. Il potere del talismano aveva allungato oltremodo la durata dei suoi anni, ed è questo un potere detenuto unicamente dai Grandi Anelli.

«E se questa prova non fosse sufficiente, Galdor, vi è ancora l’esperimento di cui parlavo prima. Su questo stesso anello che hai visto innalzato davanti a te, tondo e disadorno, le lettere riportate da Isildur possono ancora essere lette, se si ha la forza di volontà di mettere l’oggetto d’oro un attimo nel fuoco. Io l’ho fatto, ed ecco cosa vi ho letto:

Ash nazg durbatulûk, ash nazg gimbatul,

ash nazg thrakatulûk agh burzum-ishi krimpatul».

Il cambiamento nella voce dello stregone era stupefacente. Di. venne improvvisamente minacciosa, potente, dura come la pietra. Un’ombra parve offuscare l’alto sole, ed il porticato si fece scuro per qualche momento. Tutti tremarono, e gli Elfi si tapparono le orecchie.

«Nessuna voce aveva mai osato pronunciare parole in quella lingua qui a Imladris, Gandalf il Grigio», disse Elrond, e l’ombra passò e tutti respirarono nuovamente.

«E speriamo che mai più nessuno ne pronuncerà», rispose Gandalf. «Ciò nonostante non ti chiedo perdono, Signore. Perché se non vogliamo che quella lingua si oda fra breve in ogni angolo dell’Occidente è necessario che tutti siano convinti che codesto oggetto è proprio ciò che i Saggi hanno dichiarato: il tesoro del Nemico, carico di tutta la sua cattiveria; ed in esso risiede gran parte della sua antica forza. Dagli Anni Neri escono le parole che i Fabbri di Eregion udirono, scoprendo di essere stati traditi:

Un Anello per domarli, Un Anello per trovarli,

Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli.

«Sappiate, amici, che appresi altre cose ancora da Gollum. Era riluttante a parlare, e il suo racconto confuse, ma senz’alcun dubbio egli era stato a Mordor, dove l’avevano costretto con la forza a dire tutto ciò che sapeva. Ora il Nemico sa che l’Unico è stato ritrovato, che fu a lungo nella Contea; e poiché i suoi servitori l’hanno inseguito quasi sino alle nostre porte, egli fra poco saprà, anzi potrebbe già sapere, adesso, mentre sto parlando, che l’Anello è qui».

Sedettero tutti in silenzio per un poco, finché Boromir infine parlò. «È un piccolo coso, dici, questo Gollum? Piccolo, ma grande nel fare del male. Che ne è di lui? A quale condanna l’hai sottoposto?».

«È in prigione, ma nulla di peggio», disse Aragorn. «Aveva sofferto parecchio. Fu senza dubbio torturato, e in fondo al cuore cova una paura nera di Sauron. Ciò nonostante sono il primo ad essere contento che i vigilanti Elfi del Bosco Atro lo tengano al sicuro. La sua malvagità è grande e gli conferisce una forza incredibile per un essere sì magro ed avvizzito. Molte malignità potrebbe ancora escogitare, se fosse libero. Sono certo che fu autorizzato a lasciare Mordor perché aveva qualche incarico malvagio da compiere».

«Ahimè! Ahimè!», gridò Legolas, e sul suo bel volto elfico vi era grande disperazione. «Le notizie che sono stato incaricato di portare devono ora essere comunicate. Non sono buone, ma soltanto qui ho appreso quanto vi sembreranno cattive. Sméagol, chiamato adesso Gollum, è fuggito».

«Fuggito?», gridò Aragorn. «Sono davvero cattive notizie. Ce ne pentiremo tutti amaramente, temo. Come mai il popolo di Thrandull ha fallito alla fiducia data?».

«Non per insufficiente sorveglianza», rispose Legolas; «ma forse per eccesso di bontà. Temiamo inoltre che il prigioniero abbia ricevuto aiuti da altri, e che le nostre azioni vengano seguite più di quanto non sia augurabile. Custodimmo la creatura notte e giorno, secondo gli ordini di Gandalf, benché fosse un compito estenuante. Ma Gandalf ci aveva dato speranze sulla sua guarigione, e non avevamo il cuore di tenerlo sempre rinchiuso nelle prigioni sotterranee, dove i suoi vecchi pensieri cupi l’avrebbero nuovamente assalito».

«Foste meno teneri con me», disse Glóin, con un lampo negli occhi, al ricordo della sua prigionia nelle profonde sale dei palazzi dei Re Elfici.

«Suvvia!», disse Gandalf. «Ti prego di non interrompere, mio buon Glóin. Quello fu un deplorevole malinteso da tempo pacificato. Se dobbiamo ascoltare adesso tutte le lagnanze che vi sono tra Elfi e Nani, sarebbe meglio abbandonare questo Consiglio».

Glóin si alzò e fece un inchino, mentre Legolas proseguiva. «Nei giorni di bel tempo conducevamo Gollum attraverso i boschi; e vi era un albero che si ergeva alto e solo, lontano dagli altri, sul quale gli piaceva arrampicarsi. Spesso gli permettevamo di salire fino ai rami più alti, per sentire il vento libero; mettevamo però una guardia ai piedi dell’albero. Un giorno egli si rifiutò di scendere, e le sentinelle non avevano intenzione di arrampicarsi per prenderlo: egli conosceva ormai il trucco di afferrarsi ai rami non solo con le mani, ma anche coi piedi; rimasero perciò seduti lì accanto all’albero sino a notte inoltrata.

«Fu proprio in quella notte d’estate, ancor senza luna né stelle, che gli Orchi ci assalirono all’improvviso. Riuscimmo a respingere l’attacco dopo un certo tempo: erano molti e feroci, ma venivano da oltre le montagne e non conoscevano i boschi. Alla fine della battaglia ci accorgemmo che Gollum era sparito, e le guardie uccise o rapite. Capimmo allora che l’attacco era stato organizzato per liberarlo, e che egli lo sapeva già da prima. Come siano riusciti a metterlo sull’avviso non possiamo dirlo, ma Gollum è astuto e le spie del Nemico sono numerose. Le cose oscure che furono cacciate via l’anno dell’uccisione del Drago sono tornate in numero maggiore di prima, ed il Bosco Atro è nuovamente un posto malvagio, eccetto lì ove il nostro reame resiste ancora.

«Non riuscimmo a catturare Gollum. Le sue orme, confuse fra quelle di molti Orchi, si inoltravano nel più profondo della foresta, dirigendosi verso sud. Dopo averle seguite per un po’ fummo costretti a rinunciare all’inseguimento; ci stavamo tra l’altro avvicinando a Dol Guldur, un posto ancora molto infausto, ove noi non andiamo».

«Ebbene, è fuggito», disse Gandalf. «Non abbiamo il tempo di metterci di nuovo a cercarlo. Farà quel che vuole. Ma avrà forse in futuro un ruolo non previsto né da lui né da Sauron.

«Ed ora risponderò alle altre domande di Galdor. Che ne è di Saruman? Quali sono i suoi consigli in questo momento di bisogno? È una storia che va raccontata per intero, perché Elrond è l’unico ad averla udita e in forma succinta; essa influenzerà tutte le nostre decisioni. Costituisce l’ultimo capitolo del Racconto dell’Anello, per adesso.

* * *

«A fine giugno mi trovavo nella Contea, ma un’ombra di ansietà nella mia mente mi spinse a cavalcare ai confini meridionali del piccolo paese; avevo il presentimento di qualche pericolo, ancora latente, che però stava avvicinandosi. Li mi giunsero dei messaggi relativi alla guerra ed alla sconfitta di Gondor, e quando sentii che si trattava dell’Ombra Nera, il freddo penetrò nel mio cuore. Ma non trovai nulla, salvo qualche fuggiasco del Sud: eppure mi pareva che in essi covasse una paura di cui non volevano parlare. Mi diressi allora verso nord-est, percorrendo il Verdecammino, e non lontano da Brea incontrai un viaggiatore seduto su una panca mentre il cavallo pascolava accanto a lui. Era Radagast il Bruno, che visse un tempo a Rhosgobel, vicino ai confini del Bosco Atro. Appartiene al mio ordine, ma io non lo vedevo da parecchi anni.

«“Gandalf!”, gridò. “Cercavo proprio te. Ma sono un estraneo da queste parti. Tutto ciò che sapevo era che forse ti trovavi in una regione selvaggia dal grottesco nome di Contea”.

«“L’informazione era giusta”, dissi, “Ma non esprimerti in quel modo se incontri qualcuno degli abitanti. Qui sei vicino alla frontiera della Contea. Che vuoi da me? Dev’essere urgente; non sei mai stato viaggiatore, salvo nei casi di estrema necessità”.

“Ho un incarico impellente”, rispose. “Le mie notizie sono cattive”. Si guardò intorno, come se i cespugli potessero avere orecchie: “Nazgûl”, bisbigliò. “I Nove sono di nuovo in movimento. Hanno attraversato di nascosto il Fiume e si stanno dirigendo verso ovest. Hanno preso le sembianze di cavalieri vestiti di nero”.

«Capii allora cos’avevo inconsciamente temuto.

«“Il Nemico dev’essere spinto da qualche grande necessità o scopo”, disse Radagast; “tuttavia non riesco ad immaginare cosa lo induca a occuparsi di queste terre lontane e desolate”. «“Che intendi dire?”, gli chiesi.

«“Mi è stato detto che ovunque essi vadano, i Cavalieri chiedono informazioni su di un paese chiamato Contea”.

«“La Contea”, dissi, ed il mio cuore tremò. Persino i Saggi avrebbero potuto temere di opporsi ai Nove, riuniti insieme sotto il loro crudele capo. Grande re e grande mago era stato in passato, ed ora la sua arma è la paura mortale. “Chi te l’ha detto, e da parte di chi vieni?”.

«“Saruman il Bianco”, rispose Radagast. “E mi ha incaricato di dirti che se ti accorgi di averne bisogno, egli ti darà il suo aiuto; ma devi chiederglielo immediatamente, o sarà troppo tardi”.

«Il messaggio mi diede speranza. Saruman il Bianco è infatti il capo del mio ordine. Radagast, beninteso, è uno stregone di grande valore, maestro nelle forme e nelle variazioni dei colori, esperto di erbe e bestie, e amico soprattutto degli uccelli. Ma Saruman ha studiato a lungo le arti del Nemico stesso, permettendoci spesso, in tal modo, di precederlo. Fu grazie agli stratagemmi di Saruman Che lo cacciammo da Dol Guldur. Egli ora aveva forse scoperto delle armi capaci di cacciare i Nove.

«“Andrò da Saruman”, dissi.

«“Allora devi partire subito”, disse Radagast; “ho perso molti giorni nel cercarti, ed il tempo sta per scadere. Mi fu detto di trovarti prima di Mezza Estate, ed ora ci siamo già. Anche partendo direttamente da qui, sarà difficile che tu raggiunga Saruman prima che i Nove trovino il paese che cercano. Io personalmente torno subito indietro”. Dicendo ciò saltò in sella e sarebbe partito immediatamente se non l’avessi fermato.

«“Un momento!”, gli dissi. “Avremo bisogno del tuo aiuto e di quello di tutte le cose disposte a darcene. Dirama messaggi a tutte le bestie ed a tutti gli uccelli tuoi amici. Di’ loro di recare a Saruman e Gandalf ogni notizia riguardante questa faccenda. Che i messaggi siano inviati ad Orthanc”.

«“Lo farò”, disse, e galoppò via come se avesse avuto i Nove alle calcagna.

«Non potevo seguirlo subito. Avevo cavalcato molto lontano quel giorno, ed ero stanco quanto il mio cavallo; inoltre dovevo riflettere. Passai la notte a Brea, e ritenni di non aver tempo per tornare nella Contea. Mai ho commesso un si grande errore!

«Comunque scrissi un messaggio per Frodo che affidai al mio amico oste con la preghiera di spedirglielo. Partii all’alba e dopo molto tempo giunsi alla dimora di Saruman. Essa si trova all’estremo sud d’Isengard, alla fine delle Montagne Nebbiose, non lontano dalla Breccia di Rohan. Boromir vi dirà che si tratta di una grande vallata aperta che si estende tra le Montagne Nebbiose e le estreme pendici nord dell’Ered Nimrais, i Monti Bianchi del suo paese. Ma Isengard è un cerchio di rocce a picco che recingono la valle come un muro, e nel centro si erge una torre di pietra chiamata Orthanc. Non fu costruita da Saruman, bensì dagli Uomini di Nùmenor tanto tempo fa; è molto alta e custodisce numerosi segreti, eppure non ha l’apparenza di un’opera d’arte. Vi si giunge unicamente attraverso il cerchio d’Isengard, nel quale vi è un solo cancello.

«Arrivai una sera tardi al cancello, un grande arco nel muro di roccia, fortemente custodito. Ma i guardiani sapevano del mio arrivo e mi dissero che Saruman mi attendeva. Cavalcai attraverso l’arco mentre il cancello si richiudeva silenziosamente alle mie spalle; d’un tratto, senz’alcun motivo, ebbi paura.

«Ciò nonostante continuai a cavalcare sino ai piedi di Orthanc, giungendo alla scala di Saruman. Egli mi venne incontro e mi condusse in alto nella sua stanza. Al dito portava un anello.

«“Così sei venuto, Gandalf”, mi disse grave, ma nei suoi occhi pareva ci fosse una luce strana, il riflesso di un gelido riso del cuore.

«“Sì, sono venuto”, risposi. “Sono venuto in cerca del tuo aiuto, Saruman il Bianco”. Quell’appellativo parve incollerirlo.

«“Veramente, Gandalf il Grigio?”, disse beffardo. “In cerca d’aiuto? È cosa alquanto insolita che Gandalf il Grigio cerchi aiuto, uno astuto e saggio come lui, che va girando in tutti i paesi, interessandosi di qualsiasi faccenda, anche di quelle che non lo riguardano”.

«Lo guardai meravigliato. “Ma se non m’inganno”, dissi, “cominciano a muoversi delle cose che richiederanno l’unione di tutte le nostre forze”.

«“Può darsi”, disse, “ma molto tempo hai impiegato per arrivare a questa conclusione. Sin da quando, vorrei sapere, hai tenuto nascosto a me, capo del Consiglio, un fatto di importanza capitale? Come mai hai lasciato ora il tuo covo nella Contea per venire qui?”.

«“I Nove sono di nuovo in movimento”, risposi. “Hanno attraversato il Fiume. Mi è stato detto da Radagast”.

«“Radagast il Bruno!”, rise Saruman, senza più celare il suo disprezzo. “Radagast il Domatore d’uccelli! Radagast il Semplice! Radagast lo Sciocco! Eppur gli è bastata quel po’ d’intelligenza per recitare la parte che gli ho affidata. Tu sei venuto, ed era quello lo scopo del mio messaggio. E qui rimarrai, Gandalf il Grigio, e ti riposerai dei lunghi viaggi. Perché io sono Saruman il Saggio, Saruman Creatore d’Anelli, Saruman Multicolore”.

«Lo guardai, e vidi che le sue vesti non erano bianche come mi era parso, bensì tessute di tutti i colori, che quando si muoveva, scintillavano e cambiavano tinta, abbagliando quasi la vista.

«“Preferivo il bianco”, dissi.

«“Bianco!”, sogghignò. “Serve come base. Il tessuto bianco può essere tinto. La pagina bianca ricoperta di scrittura, e la luce bianca decomposta”.

«“Nel qual caso non sarà più bianca”, dissi. “E colui che rompe un oggetto per scoprire cos’è, ha abbandonato il sentiero della saggezza”.

«“Non è necessario che tu mi parli come ad uno degli sciocchi che prendi per amici”, disse. “Non ti ho fatto venire affinché tu mi istruisca, bensì per proporti una scelta”.

«Si eresse, incominciando a declamare come se stesse recitando un discorso a lungo ripetuto. “I Tempi Remoti non sono più. I Giorni Intermedi stanno passando. I Giovani Giorni stanno per incominciare. Finito il tempo degli Elfi, la nostra ora è vicina: il mondo degli Uomini che dobbiamo dominare. Ma abbiamo bisogno di potere, potere per ordinare tutte le cose secondo la nostra volontà, in funzione di quel bene che soltanto i Saggi conoscono. Ascoltami, Gandalf, vecchio amico e collaboratore!», disse avvicinandosi, e raddolcendo la voce. ‘Ho detto noi, perché così sarà se ti unirai a me. Una nuova Potenza emerge. Inutili sarebbero contro di essa i vecchi alleati e l’antico modo d’agire. Non vi è più alcuna speranza per gli Elfi, o per i Numenoreani morenti. Questa è dunque la scelta che si offre a te, a noi: allearci alla Potenza. Sarebbe una cosa saggia, Gandalf, una via verso la speranza. La vittoria è ormai vicina, e grandi saranno le ricompense per coloro che hanno prestato aiuto. Con l’ingrandirsi della Potenza anche i suoi amici fidati s’ingigantiranno; ed i Saggi, come noi, potrebbero infine riuscire a dirigerne il corso, a controllarlo. Si tratterebbe soltanto di aspettare, di custodire in cuore i nostri pensieri, deplorando forse il male commesso cammin facendo, ma plaudendo all’alta mèta prefissa: Sapienza, Governo, Ordine; tutte cose che invano abbiamo finora tentato di raggiungere, ostacolati anziché aiutati dai nostri amici deboli o pigri. Non sarebbe necessario, anzi non vi sarebbe un vero cambiamento nelle nostre intenzioni; soltanto nei mezzi da adoperare”.

«“Saruman”, gli dissi, “ho udito prima d’oggi discorsi dello stesso genere, ma soltanto in bocca di emissari inviati da Mordor per ingannare gli ingenui. Non posso pensare che tu mi abbia fatto venire qui per stancare le mie orecchie”.

«Egli mi guardò di sottecchi e rimase un attimo silenzioso, riflettendo. “Ebbene, vedo che questa saggia condotta non ti si presenta in modo favorevole”, disse. “Non ancora? Nemmeno se ci si potesse valere di una via migliore”.

«Si avvicinò, posando una lunga mano sul mio braccio. “E perché no, Gandalf?”, bisbigliò. “Perché no? L’Anello Dominante? Se potessimo comandarlo, la Potenza passerebbe nelle nostre mani. Questo è il vero motivo per il quale ti ho convocato. Ho molti occhi al mio servizio, e credo tu sappia dove si trovi adesso quel talismano. Non è forse così? Altrimenti per quale ragione i nove esplorerebbero la Contea, e che altro avresti tu da fare in quel paese?”. Dicendo ciò non riuscì a nascondere la brama che gli brillò improvvisamente negli occhi.

«“Saruman”, dissi, allontanandomi da lui, “una mano sola alla volta può adoperare l’Unico, e lo sai bene; non darti dunque la pena di dire noi! Ma non te lo direi mai, no; e non ti darei nemmeno informazioni ora che conosco le tue mire. Eri capo del Consiglio ma ti sei finalmente smascherato. Ebbene, la scelta era di sottomettersi o a Sauron, o a te. Non accetto né l’una né l’altra. Hai altro da propormi?”.

«Egli era ora freddo e pericoloso. “Sì”, disse. “Non mi aspettavo saggezza da parte tua, neppure nel tuo proprio interesse; ma ti ho dato l’opportunità di aiutarmi volontariamente, risparmiando in tal modo a te stesso inquietudine e sofferenze. La terza scelta è di rimanere qui, sino alla fine”.

«“Sino a quale fine?”.

«“Fin quando non mi avrai rivelato dove si trova l’Unico; forse scoprirò qualche buon metodo per persuaderti. O fin quando l’Anello non venga ritrovato tuo malgrado, ed il Dominatore Potrà allora interessarsi di faccende meno serie: escogitare, per esempio, un’idonea ricompensa per l’insolenza di Gandalf il Grigio”.

«“Questa potrebbe non rivelarsi una delle faccende meno serie”, dissi. Lui mi rise in faccia, perché le mie parole erano vuote, e lo sapeva.

* * *

«Mi portarono sul pinnacolo di Orthanc, e mi lasciarono lì solo, nel luogo ove Saruman soleva osservare le stelle. Non vi è altra discesa che una stretta scala di parecchie migliaia di gradini, in fondo alla quale la valle sembra lontanissima. In passato era verde e bella, ma ora guardando vidi che era piena di pozzi e di fucine. Lupi ed Orchi dimoravano ad Isengard, perché Saruman stava radunando grandi forze per conto proprio, quale rivale di Sauron e non ancora quale servitore. Un fumo scuro stagnava in basso e si avvolgeva intorno ai fianchi di Orthanc. Ero solo, su un’isola in mezzo alle nuvole, senza via di scampo; ed amari erano i miei giorni. Il freddo mi trafiggeva, ed avevo poco spazio per camminare avanti e indietro, meditando sulla venuta a nord dei Cavalieri.

«Che i Nove fossero effettivamente in movimento, ne ero convinto, a parte le parole di Saruman che potevano essere menzogne. Molto prima di arrivare ad Isengard, avevo udito lungo la via notizie sul conto delle quali non c’era da sbagliarsi. Nel mio cuore covavo ancora l’apprensione per gli amici della Contea, ma nutrivo tuttavia qualche speranza. Speravo che Frodo fosse partito subito, come gli raccomandavo nella lettera, e che fosse giunto a Gran Burrone prima che i Nove si lanciassero nel micidiale inseguimento. Ma tanto le mie paure quanto le mie speranze si rivelarono infondate. Le speranze si fondavano infatti su di un grasso uomo di Brea, e le paure sull’astuzia di Sauron. Ma i grassi uomini che vendono birra devono eseguire molte ordinazioni, mentre il potere di Sauron è meno grande di quanto la paura non lo faccia sembrare. Nel cerchio d’Isengard, solo e prigioniero, non era facile immaginare che coloro innanzi ai quali tutti fuggono o periscono, potessero vacillare lontano nella Contea».

«Io ti vidi!», gridò Frodo. «Camminavi in su e in giù, e la luna brillava nei tuoi capelli».

Gandalf tacque e lo guardò stupefatto. «Si trattava solo di un sogno», disse Frodo, «ma d’un tratto mi è tornato alla mente. Me ne ero del tutto dimenticato. Accadde qualche tempo fa, dopo la partenza dalla Contea, credo».

«Allora il tuo sogno è arrivato tardi», disse Gandalf, «come vedrai. Mi trovavo in una pessima situazione, e chi mi conosce converrà che di rado mi ero trovato in circostanze così critiche, e che non sopporto facilmente simili disgrazie. Gandalf il Grigio intrappolato come una mosca da un’infida ragnatela! Eppure anche i ragni più ingegnosi possono lasciare un filo debole.

«Sulle prime temetti, come Saruman voleva senza dubbio farmi credere, che anche Radagast avesse ceduto. Eppure io, il giorno del nostro incontro, non avevo colto nella sua voce o nei suoi occhi alcun segno sospetto. Nel caso contrario non sarei mai partito per Isengard, o avrei preso maggiori precauzioni. Saruman lo immaginò, e nascose le sue intenzioni, ingannando il messaggero che m’inviava. Sarebbe stato comunque inutile cercare di condurre l’onesto Radagast al tradimento. Egli mi cercò in buona fede, e per questo mi persuase.

«Fu quella la rovina della trama ordita da Saruman. Radagast infatti non aveva alcun motivo per non fare quel che gli avevo chiesto; cavalcò via verso il Bosco Atro dove aveva molti amici di antica data. E le Aquile delle Montagne volarono in lungo ed in largo, e videro molte cose: il riunirsi dei lupi ed il radunarsi degli Orchi; ed i Nove Cavalieri andare qua e là attraverso i paesi; ed ebbero sentore della fuga di Gollum. Incaricarono allora un messaggero di portarmi queste notizie.

«Fu così che sul declinare dell’estate, in una notte di luna giunse inattesa ad Orthanc la più veloce delle Grandi Aquile, Gwaihir Re dei Venti; mi trova in piedi sul pinnacolo. Io gli parlai, ed egli mi portò via prima che Saruman se ne accorgesse. Ero già lungi da Isengard quando i lupi e gli Orchi uscirono dal cancello per inseguirmi.

«“Fin dove puoi portarmi?”, chiesi a Gwaihir.

«“A molte leghe da qui”, mi rispose, “ma non sino ai confini della terra. Sono stato mandato per portare notizie, e non fardelli”.

«“Allora ho bisogno di un destriero giù a terra”, dissi, “e di un destriero straordinariamente rapido, perché non ho mai avuto tanta fretta come oggi”.

«“Ti porterò a Edoras, dove il Signore di Rohan siede nei suoi saloni”, disse, “poiché non è molto distante”. Ne fui felice, perché nel Riddermark di Rohan vivono i Rohirrim, Signore dei Cavalli, e non vi sono destrieri pari a quelli che vengono allevati nella grande vallata tra le Montagne Nebbiose e i Monti Bianchi.

«“Credi che ci si possa ancora fidare degli Uomini di Rohan?”, chiesi a Gwaihir, giacché il tradimento di Saruman aveva scosso la mia fede.

«“Pagano un tributo in cavalli”, rispose, “e ne inviano molti ogni anno a Mordor, o perlomeno così si racconta; ma non sono ancora sotto il giogo. Ma se Saruman, come dici, è diventato malvagio, ebbene, anche la loro rovina non può tardare”.

* * *

«Prima dell’alba mi posò nel paese di Rohan; ma vedo che ho allungato la mia storia oltre i limiti; il resto dovrà essere più conciso. A Rohan trovai il male già al lavoro: le menzogne di Saruman. Il re del paese non volle ascoltare i miei avvertimenti. Mi disse di prendere un cavallo ed andarmene; io ne scelsi uno che mi piacque molto, cosa che a lui non garbò: era il miglior cavallo del paese, e mai ne ho visto uno simile».

«Allora dev’essere veramente un nobile animale», disse Aragorn; «e mi addolora più di tante notizie che parrebbero peggiori, udire che Sauron impone un tale tributo. Non era così quando mi recai in quel paese l’ultima volta».

«E non lo è nemmeno adesso, lo giuro», disse Boromir. «E una menzogna inventata dal Nemico. Conosco gli Uomini di Rohan, sinceri e valorosi, nostri alleati, che vivono ancora nelle terre che demmo loro tanto tempo fa».

«L’ombra di Mordor offusca le terre lontane», rispose Aragorn. «Saruman ha dovuto soccombere; Rohan è assediato. Chissà cosa vi troverai, se un giorno ci ritorni!».

«Quel ch’è certo», disse Boromir, «è che non compreranno le proprie vite coi cavalli. Amano i loro cavalli quasi quanto i loro congiunti; e non a torto, poiché i destrieri del Riddermark vengono dai campi del Nord, lontani dall’Ombra, e la loro razza, come quella dei padroni, discende dai liberi giorni dei tempi passati».

«Verissimo!», disse Gandalf. «E ve n’è fra loro uno che parrebbe partorito al mattino del mondo. I cavalli dei Nove non possono rivaleggiare con lui, instancabile, veloce come il vento fluente. Lo chiamarono Ombromanto. Di giorno il suo mantello scintilla come argento, e di notte ha il colore dell’ombra, e passa inosservato. Leggero il suo ambio! Nessuno l’aveva mai montato, ma io lo presi e lo addomesticai, e mi portò così rapidamente che giunsi nella Contea allorquando Frodo si trovava ancora sui Tumulilande, benché io fossi partito da Rohan mentre egli partiva da Hobbiville.

«Ma la paura cresceva in me man mano che avanzavo. Durante la mia cavalcata verso nord, udivo notizie dei Cavalieri, e pur guadagnando giorno per giorno terreno, essi eran sempre innanzi a me. Seppi che avevano diviso le loro forze: alcuni erano rimasti di guardia alle frontiere orientali, non lontani dal Verdecammino, mentre gli altri invadevano dal Sud la Contea. Arrivai a Hobbiville, e Frodo era partito; scambiai qualche parola col vecchio Gamgee. Anzi, molte parole e poche pertinenti. Aveva molto da ridire contro i nuovi proprietari di Casa Baggins.

«“Non posso sopportare i cambiamenti”, disse, “non alla mia età; e soprattutto non cambiamenti in peggio”. “Cambiamenti in peggio”, ripeté a più riprese.

«“Peggio è una cattiva parola”, gli dissi, “e spero che in vita tua non ne vedrai”. Ma dalle sue chiacchiere dedussi infine che Frodo aveva lasciato Hobbiville meno di una settimana prima, e che un cavaliere nero era giunto sino al Colle la sera stessa. Allora cavalcai via pieno di apprensione. Giunto nella Terra di Buck trovai una baraonda: pareva un formicaio in cui qualcuno avesse infilato un bastone. Giunto alla casa di Crifosso, la trovai aperta con la forza e vuota; ma sulla soglia giaceva un manto appartenuto a Frodo. La speranza mi abbandonò allora, e non mi attardai a raccogliere notizie, che mi avrebbero invece riconfortato; galoppai sulle orme dei Cavalieri. Erano difficili da seguire, poiché andavano in molte direzioni, e mi sentii molto imbarazzato. Ma mi parve che uno o due si orientassero verso Brea; presi la stessa strada, pensando a qualche parola da dire all’oste.

«“Cactaceo, lo chiamano”, dissi dentro di me. “Se questo ritardo è stato colpa sua, scioglierò tutto il grasso che c’è in lui. Arrostirò il vecchio stupido a fuoco lento”. Egli non attendeva minor punizione, ed al vedere la mia faccia cadde disteso per terra ed incominciò a sciogliersi in lacrime immediatamente».

«Che gli hai fatto?», gridò Frodo allarmato. «Fu servizievole con noi, e fece tutto quel che poteva».

Gandalf rise. «Non aver paura!», disse. «Non ho morso, ed ho abbaiato poco. Fui sopraffatto dalla gioia procuratami dune notizie che gli tolsi di bocca quando finì di tremare, a tal punto che abbracciai il vecchio amico. Come fosse avvenuto non potevo allora immaginarlo, ma seppi che avevate passato la notte precedente a Brea ed eravate partiti il mattino stesso con Grampasso.

«“Grampasso!”, esclamai, gridando di gioia.

«“Sì, signore, temo di sì, signore”, disse Cactaceo fraintendendomi. “Riuscì ad avvicinarli, nonostante tutti i miei sforzi, ed essi lo presero con sé. Si comportarono in modo molto strano durante tutta la permanenza qui: capricciosamente, direi”.

«“Asino! Sciocco! Degno e simpatico Cactaceo!”, esclamai. “Sono le migliori notizie che ricevo da mezz’estate: valgono una moneta d’oro come minimo. Che la tua birra sia posta per sette anni sotto l’incantesimo di una bontà eccelsa!”, dissi. “Ora posso prendermi una notte di riposo, la prima da non so quando”.

* * *

«Passai lì quella notte, domandandomi che ne fosse dei Cavalieri; infatti a Brea pareva che si avessero notizie soltanto di due di essi. Ma durante la notte udimmo altro. Da ovest ne vennero almeno cinque, scaraventando giù i cancelli, per poi attraversare Brea come un vento ululante; la gente del luogo sta ancora tremando ed aspetta la fine del mondo. Mi alzai prima dell’alba e partii all’inseguimento.

«Non lo so di sicuro, ma mi pare chiaro che le cose si siano Svolte nel modo seguente. Il loro Capitano rimase nascosto a sud di Brea, mentre due cavalcarono avanti attraverso il villaggio, ed altri quattro invasero la Contea. Quando questi persero le tracce, a Brea ed a Crifosso, tornarono dal Capitano per comunicargli le notizie, lasciando la Via senza altra sorveglianza che quella delle loro spie. Il Capitano ne inviò qualcuno ad est attraverso l’aperta campagna, mentre lui e gli altri galopparono furibondi lungo la Via.

«Io cavalcai a Colle Vento come un uragano, giungendovi prima del tramonto l’indomani della mia partenza da Brea… ed essi erano già lì; si allontanarono, perché sentivano avvicinarsi la mia collera, e non osavano affrontarla mentre il Sole era ancora in cielo. Ma di notte mi si chiusero intorno, assediandomi sulla cima della collina, nell’antico anello di Amon Sûl. Ma tenni duro: fiamme e bagliori simili, a Colle Vento, non se ne vedevano certo dai lontani tempi in cui si adoperavano i fuochi come segnali di guerra.

«All’alba riuscii a scappare, fuggendo poi verso nord. Non potevo sperare di fare di più. Era impossibile trovarti, Frodo, nelle zone selvagge, e tentare l’impresa con i Nove alle calcagna sarebbe stata una follia. Dovevo fidarmi di Aragorn. Mi auguravo tuttavia che qualcuno di essi vi abbandonasse per inseguire me, che cercavo di raggiungere Gran Burrone prima di voi, onde mandare aiuti. Quattro Cavalieri effettivamente mi diedero la caccia sulle prime, ma dopo qualche tempo fecero dietrofront, dirigendosi a quanto pare al Guado: fatto, questo, che si rivelò di una certa utilità, poiché erano soltanto in cinque, invece di nove, quando il vostro accampamento fu attaccato.

«Giunsi finalmente qui percorrendo un sentiero lungo e difficoltoso, che veniva dal Nord dopo aver risalito il Fiume Bianco ed attraversato gli Erenbrulli; mi ci vollero quasi quattordici giorni per arrivate da Colle Vento, perché non potevo cavalcare in mezzo alle rocce delle colline dei Troll, e avevo rimandato Ombromanto dal suo padrone; ma una grande amicizia è sorta tra noi, e se avrò bisogno di lui accorrerà al mio richiamo. Fu così che giunsi a Gran Burrone soltanto tre giorni prima dell’Anello, preceduto però da notizie circa il pericolo che esso correva, le quali si dimostrarono assai utili.

«Finisce qui, Frodo, il mio racconto. Possano Elrond e gli altri perdonarne la lunghezza; ma non era mai accaduto a Gandalf di mancare ad un appuntamento e non arrivare allora promessa. Credo fosse indispensabile dare al Portatore dell’Anello il resoconto di un evento così fuori dall’ordinario.

«Ebbene, la Storia è stata narrata, dalla prima all’ultima parola. Eccoci tutti qui, e qui con noi l’Anello. Tuttavia non ci siamo ancora per nulla avvicinati al nostro scopo: che fare di quest’Anello?». Ci fu un silenzio. Finalmente Elrond prese di nuovo la parola. «Penoso è ciò che apprendiamo sul conto di Saruman», disse; «noi avevamo fiducia in lui, ed egli conosce in profondità tutti i nostri segreti. È pericoloso studiare troppo minuziosamente le arti del Nemico, con buone o con cattive intenzioni. Ma simili crolli e tradimenti sono, ahimè, avvenuti prima d’ora. Delle storie udite oggi, quella di Frodo mi è parsa la più strana. Ho conosciuto pochi Hobbit, oltre il nostro Bilbo qui presente, e sembra ch’egli non sia dopo tutto unico e singolare come pensavo. Il mondo è cambiato molto dall’ultima volta che percorsi le vie occidentali.

«Gli Spettri dei Tumuli ‘li conosciamo sotto molti nomi, e molte sono le storie narrate sulla Vecchia Foresta: tutto ciò che oggi ne rimane costituisce soltanto le propaggini degli antichi Confini a nord. Vi fu un tempo in cui uno scoiattolo poteva, saltellando da un albero all’altro, giungere da quella che oggi è la Contea sino al Dunland ad ovest d’Isengard. Viaggiai un tempo attraverso quelle contrade, e conobbi cose strane e selvagge. Ma mi ero dimenticato di Bombadil, se egli è effettivamente lo stesso che tanti anni fa camminava per boschi e colli, ed era già allora più vecchio dei vecchi. Ma il suo nome era diverso: lo chiamavano Iarwain Ben-adar, il più anziano e senza padre. Molti e vari sono però i nomi che gli sono stati dati dopo dagli altri popoli: egli era Forn per i Nani, Orald per gli Uomini del Nord ed altro ancora. Una strana creatura, che avrei forse dovuto convocare al nostro Consiglio».

«Non sarebbe venuto», disse Gandalf.

«Potremmo inviargli però dei messaggi, ed ottenere il suo aiuto, non credi?», chiese Erestor. «Pare che il suo potere si eserciti anche sull’Anello».

«No, non è così», disse Gandalf. «Di’ piuttosto che l’Anello non ha su di lui alcun potere. Egli è il padrone di se stesso; non può tuttavia alterare l’Anello o annientarne il potere sugli altri. Bombadil adesso si è ritirato in un piccolo territorio compreso tra i confini stabiliti da lui stesso e che egli, in attesa forse che cambino i tempi, si rifiuta di oltrepassare».

«Ma sembrerebbe che nulla lo spaventi all’interno di quelle frontiere», disse Erestor. «Non Può egli prendere l’Anello e conservarlo lì, per sempre innocuo?».

«No», disse Gandalf, «non lo farebbe mai volentieri. Soltanto, forse, se tutti i popoli liberi della terra lo supplicassero; e ciò nonostante egli non ne vedrebbe il motivo. E se l’Anello gli fosse consegnato, egli lo dimenticherebbe presto, o ancor più probabilmente lo getterebbe via. Simili cose non hanno presa nella sua mente, ed egli sarebbe un custode dei più pericolosi; credo che questa sia una risposta sufficiente».

«In ogni caso», disse Glorfindel, «inviargli l’Anello ritarderebbe soltanto il giorno del male. Bombadil è lontano; non potremmo adesso riportarglielo, senza che le nostre mosse vengano previste ed individuate dalle spie. E se anche ci riuscissimo, il Signore degli Anelli verrebbe prima o poi a conoscenza del nascondiglio, rivolgendoglisi contro con tutta la sua potenza. Potrebbe Bombadil da solo sfidare un tale potere? Non credo. Credo che infine, se tutto il resto fosse soggiogato, Bombadil cadrebbe anch’egli, Ultimo così come fu il Primo; ed allora giungerà la Notte».

«Di Iarwain conosco ben poco oltre il nome», disse Galdor; «ma penso che Glorfindel abbia ragione. Non è in lui il potere capace di sfidare il Nemico, a meno che un tale potere non si trovi nella terra stessa. Noi tuttavia vediamo che Sauron può torturare ed annientare persino le colline. Il potere che sopravvive ancora si trova qui da noi a Imladris, o da Cirdan ai Rifugi Oscuri; oppure a Lórien. Ma hanno essi la forza di lottare, abbiamo noi la forza di resistere al Nemico, a Sauron che giungerà infine, quando tutto sari distrutto?».

«Io non ne ho la forza», disse Elrond, «ed essi nemmeno».

«Allora, poiché non è con la forza che potremo impedirgli per sempre di impadronirsi dell’Anello», disse Glorfindel, «dobbiamo scegliere fra i due ultimi tentativi possibili: inviarlo al di là del Mate, oppure distruggerlo».

«Ma Gandalf ci ha rivelato che nessuna delle arti che possediamo qui è atta ad annientarlo», disse Elrond. «Eppure coloro che vivono al di là del Mare non lo accetterebbero mai: per il bene o per il male esso appartiene quindi alla Terra di Mezzo; tocca a noi che abitiamo ancora in queste contrade decidere della sua sorte».

«Poiché le cose stanno così», disse Glorfindel, «lanciamolo negli abissi, trasformando in realtà le menzogne di Saruman. Ormai è chiaro che durante il Consiglio egli era già sulla via della malvagità. Sapeva che l’Anello non era perso per sempre, ma desiderava che noi credessimo il contrario, poiché lo bramava per sé. Eppur spesso nelle menzogne la verità è latente: nel Mare l’Anello sarebbe al sicuro».

«Ma non al sicuro per sempre», disse Gandalf. «Vi sono parecchie cose nelle acque profonde, ed i mari e le terre potrebbero tramutarsi. Il nostro compito oggi non è di prendere una decisione valida soltanto per una stagione, o per poche vite di Uomini, o per un’effimera era del mondo. Dovremmo cercare una conclusione definitiva a questa minaccia, anche se non speriamo di riuscirvi».

«E non la troveremo certo sulle strade che portano al Mare», disse Galdor. «Se il ritorno a Iarwain viene considerato troppo pericoloso, la fuga verso il Mare è irta delle più minacciose insidie. Il cuore mi dice che Sauron prevedrà una nostra eventuale corsa ad occidente, quando sarà al corrente dell’accaduto; e presto lo sarà. I Nove sono effettivamente privi di cavalli, ma non si tratta che di una tregua, in attesa che trovino altri destrieri ancor più rapidi. Tra lui ed una marcia trionfale lungo le coste fino al Nord, vi è ormai soltanto Gondor con la sua potenza in declino; e se egli arriva sin qui, assalendo le Torri Bianche ed i Rifugi Oscuri, è probabile che anche per gli Elfi non vi sarà scampo dalle ombre che si faranno sempre più giganti nella Terra di Mezzo».

«Tarderà ancora a lungo quella marcia», disse Boromir. «Gondor declina, dici. Ma Gondor è ancora in piedi, e persino le briciole della sua forza sono ancora molto forti».

«Eppure la sua guardia non è più in grado di opporsi ai Nove», disse Galdor; «ed egli può trovare altre vie che Gondor non sorveglia».

«Quindi», disse Erestor, «non vi sono che due direzioni da prendere, come Glorfindel ha già dichiarato: nascondere per sempre l’Anello, o distruggerlo. Eppure ambedue presentano difficoltà insormontabili per le nostre forze. Chi potrà risolvere quest’enigma?».

«Nessuno qui è in grado di farlo», disse gravemente Elrond. «O perlomeno nessuno può prevedere ciò che potrebbe succedere scegliendo una via invece dell’altra. Ma ora mi pare sia chiaro quale direzione dobbiamo prendere: la strada che porta a ovest è la più facile, ed è quindi da scartarsi. Sarà senz’altro sorvegliata. Troppo spesso ormai gli Elfi sono fuggiti per quella via. Al punto in cui siamo, è indispensabile una strada difficile, una strada imprevedibile. Lì è la nostra speranza, se speranza vi è. Camminare dritto nel pericolo… verso Mordor. Dobbiamo mandare l’Anello al Fuoco».

* * *

Si fece nuovamente silenzio. Pur al riparo, in quella splendida dimora affacciata su di una valle inondata dal sole e dal rumore di limpide acque, Frodo sentiva nel suo cuore un’oscurità di morte. Boromir si mosse, e Frodo lo guardò; stava tastando il suo grande corno, con le ciglia aggrottate. Infine parlò.

«Non capisco tutto ciò», disse. «Saruman è un traditore, ma non ebbe egli forse un barlume di saggezza? Perché parlate sempre di nascondere e distruggere? Cosa c’impedisce di pensare che il Grande Anello sia venuto nelle nostre mani per servirci proprio nell’ora del bisogno? Adoperandolo, i Liberi Signori dei Liberi potrebbero sicuramente sconfiggere il Nemico. Ed è ciò che egli teme maggiormente, credo.

«Gli Uomini di Gondor sono valorosi, e non si arrenderanno mai; ma potrebbero subire una completa disfatta. Il valore ha bisogno innanzi tutto di forza, quindi di un’arma. Che l’Anello sia la vostra arma, se ha tutti i poteri che gli attribuite. Prendetelo, e partite verso la vittoria!».

«Ahimè, no», disse Elrond. «Non possiamo adoperare l’Anello Dominante, ed ormai lo sappiamo sin troppo bene. Appartiene a Sauron, fu forgiato unicamente da lui, ed è malvagio in tutto e per tutto. La sua forza, Boromir, è troppo grande per essere liberamente adoperata da qualcuno che non sia già di per se stesso estremamente potente; ma per costoro l’Anello cela un pericolo ancor più mortale. Il semplice desiderio di possederlo corrompe la loro anima. Pensa a Saruman. Qualora uno dei Saggi dovesse grazie a quest’Anello sconfiggere il Signore di Mordor, servendosi delle proprie tecniche, egli si installerebbe allora sul trono di Sauron, segnando così l’apparizione di un altro Oscuro Signore. Ed è anche questo un motivo per cui l’Anello deve essere distrutto: fin quando è nel mondo, rappresenta un pericolo anche per i Saggi. Nulla infatti è malvagio sin da principio; neppure Sauron lo era. Non ho il coraggio di prendere l’Anello per nasconderlo. Non voglio prendere l’Anello per adoperarlo».

«Ed io neppure», disse Gandalf.

Boromir li guardò dubbioso, ma chinò il capo. «Sia dunque così», disse. «A Gondor dovremo quindi affidarci alle armi che già abbiamo. Continueremo a lottare almeno sin quando l’Anello sarà custodito dai Saggi. Forse la Spada che fu Rotta saprà ancora arginare la marea… se la mano che la regge non ne ha ereditato soltanto il possesso, bensì anche il nerbo dei Re degli Uomini».

«Chi lo sa?», disse Aragorn. «Un giorno la metteremo alla prova».

«Possa quel giorno non tardare troppo», ribatté Boromir. «Quantunque io non chieda aiuto, ne abbiamo bisogno. Sarebbe per noi un conforto sapere che altri combattono anch’essi con tutti i loro mezzi».

«Sii allora confortato», disse Elrond. «Poiché vi sono altre potenze, altri reami che voi non conoscete, che vi sono nascosti. Anduin il Grande scorre tra lunghe rive prima di giungere ad Argonath ed ai Cancelli di Gondor».

«Eppure sarebbe un bene per tutti», disse Glóin il Nano, «se tutte codeste forze si unissero e costituissero una lega. Vi potrebbero essere altri anelli, meno infidi, da adoperare in quest’ora di bisogno. I Sette sono smarriti… se Balin non ha trovato l’Anello di Thròr, che era l’ultimo; nulla sappiamo di esso dal tempo in cui Thròr perì a Moria; posso anzi adesso rivelare che fu in parte con la speranza di ritrovarlo che Balin intraprese il suo viaggio».

«Balin non troverà a Moria alcun anello», disse Gandalf. «Thròr lo diede a suo figlio Thràin, ma Thràin non lo diede a Thorin. Esso fu preso a Thràin con la tortura nelle prigioni sotterranee di Dol Guldur. Io arrivai troppo tardi».

«Ahimè!», gridò Glóin. «Quando verrà infine il giorno della nostra vendetta? Vi sono tuttavia ancora i Tre. Che ne è dei Tre Anelli degli Elfi? Pare che siano Anelli molto potenti. I Signori degli Elfi non li custodiscono forse? Eppure anch’essi furono forgiati dall’Oscuro Signore, molto tempo fa. Sono essi oggi inattivi? Vedo qui i Signori degli Elfi: perché non parlano?».

Gli Elfi non diedero risposta. «Non mi hai udito, Glóin?», disse Elrond. «I Tre non furono forgiati da Sauron, ed egli non li sfiorò nemmeno. Ma di essi non è permesso parlare. Soltanto in quest’ora di dubbio mi è lecito dire qualcosa. I Tre non sono inattivi. Essi non furono però fabbricati per servire come armi di guerra e di conquista: non è questo il loro potere. Coloro che li forgiarono non desideravano forza o dominazione, e non accumulavano tesori; cercavano di capire, fabbricare, e curare, onde mantenere ogni cosa immacolata. Gli Elfi della Terra di Mezzo vi sono in qualche modo riusciti, ed è costato loro molta sofferenza. Ma tutto ciò ch’è stato compiuto da coloro che posseggono i Tre si volgerà contro di essi per distruggerli, e rivelerà a Sauron la loro mente ed il loro cuore, qualora il Nemico riconquistasse l’Unico. Allora sarebbe meglio che i Tre Anelli non fossero mai esistiti. Questo è il suo scopo».

«Cos’accadrebbe invece se l’Anello Dominante venisse annientato, come tu consigli?», chiese Glóin.

«Non sappiamo nulla di sicuro», rispose triste Elrond. «Alcuni sperano che i Tre Anelli, che mai furono toccati da Sauron, siano infine liberati, permettendo così a chi li governa di risanare tutti i mali del mondo causati da lui. Ma può darsi che con la scomparsa dell’Unico i Tre perdano ogni potere, e molte cose belle svaniscano e cadano nell’oblio. Questo è ciò che io credo».

«Eppure tutti gli Elfi sono pronti a correre questo rischio», disse Glorfindel, «pur di frantumare il potere di Sauron ed allontanare per sempre il terrore del suo dominio».

«In tal modo torniamo nuovamente alla distruzione dell’Anello», disse Erestor, «e senza aver fatto alcun passo avanti. Quale forza abbiamo per trovare il Fuoco ove esso fu forgiato? È la via della disperazione…, della follia direi, se la profonda saggezza di Elrond non me lo impedisse».

«Disperazione, o follia?», disse Gandalf. «Non è disperazione, perché la disperazione è solo per coloro che vedono la fine senza dubbio possibile. Non è il nostro caso. È saggezza riconoscere la necessità quando tutte le altre vie sono state soppesate, benché possa sembrare follia a chi si appiglia a false speranze. Ebbene, che la follia sia il nostro manto, un velo dinanzi agli occhi del Nemico! Egli è molto saggio, e soppesa ogni cosa con estrema accuratezza sulla bilancia della sua malvagità, Ma l’unica misura che conosce è il desiderio, desiderio di potere, ed egli giudica tutti i cuori alla stessa stregua. La sua mente non accetterebbe mai il pensiero che qualcuno possa rifiutare il tanto bramato potere, o che, possedendo l’Anello, voglia distruggerlo. Questa dev’esser dunque la nostra mira, se vogliamo confondere i suoi calcoli».

«Almeno per qualche tempo», disse Elrond. «È necessario che la strada sia percorsa, ma sarà molto difficile. Né la forza né la saggezza ci condurrebbero lontano; questo è un cammino che i deboli possono intraprendere con la medesima speranza dei forti. Eppure tale è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo, che sono spesso le piccole mani ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove».

* * *

«Molto bene, molto bene, Messer Elrond!», esclamò Bilbo improvvisamente. «Non dire altro! Vedo chiaramente a cosa vuoi arrivare. Bilbo, lo stupido Hobbit, incominciò questa storia, e tocca a Bilbo finirla, o finire la propria vita. Mi sentivo molto a mio agio qui, ed il mio libro stava andando avanti. Se t’interessa, sono sul punto di scriverne la conclusione. Avevo pensato di mettere: e visse per sempre felice sino alla fine dei suoi giorni. È una buona conclusione, ed il fatto che sia già stata adoperata non ne diminuisce minimamente il valore. Ora però sarò costretto a cambiarla: ho l’impressione che non potrà avverarsi; e comunque vi dovrò aggiungere parecchi altri capitoli, se vivrò abbastanza per scriverli. È una tremenda seccatura. Quando dovrei partire?».

Boromir guardò meravigliato Bilbo, ma il sorriso svanì sulle sue labbra quando si accorse che tutti gli altri consideravano il vecchio Hobbit con grande rispetto. Glóin soltanto sorrideva, ma era un sorriso nato da antichi ricordi.

«Certamente, mio caro Bilbo», disse Gandalf, «se fossi stato veramente tu ad incominciare questa storia, si potrebbe pretendere che tu la finissi. Ma ormai sai bene che nessuno è abbastanza grande per poter rivendicare di aver incominciato, e che la parte recitata nelle imprese memorabili dagli eroi non è che molto piccola. Inutile che t’inchini! Anche se la parola è stata scelta deliberatamente; e noi non dubitiamo che, mascherata dal tono scherzoso, hai fatto una valorosa offerta. Ma essa sorpassa le tue forze. Non puoi riprendere l’Anello. È stato ormai tramandato. Se il mio parere ti può ancora esser utile, ti dirò che la tua parte è terminata, ed il compito che ti rimane è quello del narratore. Porta il tuo libro a compimento, lasciandone la conclusione inalterata. C’è ancora speranza che si avveri. Ma preparati a scrivere un seguito, quando essi ritorneranno».

Bilbo rise. «Non mi avevi mai dato un consiglio piacevole», disse. «Poiché tutti i tuoi consigli spiacevoli si sono rivelati ottimi, voglio vedere se quello che mi dai ora non è cattivo. Comunque, suppongo che non ho più forza e fortuna sufficienti per trattare con l’Anello. Esso è cresciuto, ed io no. Ma dimmi: chi hai in mente parlando di essi?».

«I messaggeri inviati con l’Anello».

«Esattamente! E chi sarebbero costoro? Mi pare che sia ciò che codesto Consiglio deve decidere, l’unica cosa che esso debba decidere. Gli Elfi potranno nutrirsi di sole parole e i Nani sopportare grande spossatezza; ma io non sono che un vecchio Hobbit, e sento la mancanza della mia colazione di mezzogiorno. Non potete pensare subito a qualche nome? Oppure rinviare tutto a dopo il pasto?».

* * *

Nessuno rispose. Suonò la campana di mezzogiorno, e nessuno aprì bocca. Frodo lanciò un’occhiata a tutti i visi che gli stavano intorno, ma nessuno era rivolto verso di lui. L’intero Consiglio sedeva con gli occhi bassi, come immerso in profonda riflessione. Una grande paura lo sopraffece, e gli parve di attendere la pronunzia di qualche condanna che prevedeva da tempo, nutrendo però la vana speranza che potesse non essere, dopo tutto, formulata. Un irresistibile desiderio di riposo e di pace accanto a Bilbo a Gran Burrone gli empì il cuore. Infine, con grande sforzo, parlò, meravigliandosi di udire le proprie parole, come se qualche altra volontà comandasse la sua piccola voce.

«Prenderò io l’Anello», disse, «ma non conosco la strada».

* * *

Elrond levò gli occhi e lo guardò, e Frodo si sentì il cuore trafitto dall’improvvisa acutezza dello sguardo. «Se intendo bene tutto quel che ho udito», disse, «credo che codesto compito sia destinato a te, Frodo; se non trovi tu la via, nessun altro la troverà. È giunta l’ora del popolo della Contea, ed esso si leva dai campi silenziosi e tranquilli per scuotere le torri ed i consigli dei grandi. Quale dei Saggi l’avrebbe mai predetto? E perché, se sono veramente saggi, avrebbero dovuto pretendere di saperlo prima che suonasse l’ora?

«Ma è un fardello assai pesante. Così pesante che nessuno potrebbe caricarne le spalle di qualcun altro. Io non lo carico sulle tue spalle. Se, tuttavia, lo prendi di tua propria scelta, dirò che la tua scelta & giusta; e fossero riuniti qui insieme tutti i potenti amici degli Eli del passato, Hador ed Hùrin, Tùrin e persino Beren, il tuo posto sarebbe fra loro».

«Ma non vorrai mandarlo via da solo, Messere!», gridò Sam, incapace di trattenersi ulteriormente, saltando su dall’angolino dove era rimasto tranquillamente seduto per terra.

«No di certo!», esclamò Elrond, volgendosi verso di lui con un sorriso. «Tu almeno lo accompagnerai. Visto che è impossibile separarti da lui, anche quando si tratta di una riunione segreta alla quale tu non sei invitato».

Sam si sedette, arrossendo e balbettando. «Ci siamo messi in un bel pasticcio, signor Frodo!», disse, scuotendo il capo.

CAPITOLO III L’ANELLO VA A SUD

Più tardi, quello stesso giorno, gli Hobbit tennero anch’essi una riunione, nella stanza di Bilbo. Merry e Pipino si sdegnarono udendo che Sam era sgattaiolato nella stanza del Consiglio e che lo avevano scelto come compagno di Frodo.

«È estremamente ingiusto», disse Pipino. «Invece di gettarlo fuori e metterlo ai ferri, Elrond vuole ricompensarlo per la sua faccia tosta!».

«Ricompensarlo!», esclamò Frodo. «Non posso immaginare una più severa punizione. Pensa a quel che dici: condannato a proseguire questo viaggio senza speranza; è una ricompensa? Ieri ho sognato che il mio compito era finito, e che potevo riposare qui a lungo, forse per sempre».

«Non mi meraviglia», disse Merry, «e vorrei tanto che tu lo potessi. Ma noi stiamo invidiando Sam, e non te. Poiché tu devi partire, sarà un castigo per noi restare indietro, anche se a Gran Burrone. Abbiamo percorso molta strada con te, e passato brutti momenti. Vogliamo andare avanti».

«È questo che intendevo dire», interloquì Pipino. «Noi Hobbit dovremmo rimanere uniti, ed è ciò che faremo. Io parto, e se non vogliono, che m’incatenino! Vi deve pur essere qualcuno provvisto d’intelligenza nella comitiva».

«Allora non verrai certo scelto, Peregrino Tuc!», disse Gandalf, il cui viso apparve alla finestra bassa vicino terra. «Ma vi state tutti preoccupando senza motivo. Nulla ancora è stato deciso».

«Nulla di deciso!», gridò Pipino. «E allora che stavate facendo? Siete rimasti chiusi per ore intere».

«Parlavamo», rispose Bilbo. «Si è parlato a lungo, ed ognuno ha avuto il proprio apritore d’occhi; persino il vecchio Gandalf. Credo che la notizia di Legolas sul conto di Gollum abbia colto anche lui di sorpresa, sebbene l’abbia fatta passare sotto silenzio».

«Ti sei sbagliato», disse Gandalf. «Eri distratto. Ne ero già stato informato da Gwaihir; se vuoi saperlo, gli unici veri apritori d’occhi come li chiami tu, foste tu e Frodo; ed io ero l’unico a non essere sorpreso».

«Bene, comunque», disse Bilbo, «niente è stato stabilito, oltre la scelta dei poveri Frodo e Sam. Sin da principio temevo che finisse così, qualora io fossi esonerato. Ma a parer mio Elrond organizzerà una spedizione numerosa, quando avrà ricevuto cronache e resoconti. Sai se sono partiti, Gandalf?».

«Sì», rispose lo stregone. «Già qualche esploratore è stato inviato, ed altri si metteranno in cammino domani. Elrond sta mandando degli Elfi che si mettano in contatto con i Raminghi, e forse anche con la gente di Thranduil nel Bosco Atro. Aragorn è partito con i figli di Elrond. Dovremo perlustrare tutto il territorio nel giro di molte leghe prima di compiere qualsiasi movimento. Perciò rallegrati, Frodo! La tua permanenza qui sarà probabilmente lunga».

«Ah!», disse cupo Sam. «Aspetteremo giusto quanto basta perché arrivi l’inverno».

«È inevitabile», disse Bilbo. «Ed è in parte colpa tua, Frodo, ragazzo mio: quell’insistere per aspettare il mio compleanno. Non posso fare a meno di pensare che sia uno strano modo di celebrarlo. Non avrei certo scelto quel giorno per aprire ai Sackville Baggins la porta di Casa Baggins. Ormai è fatta, e non puoi adesso attendere la primavera; ma non puoi partire fin quando non riceveremo le cronache ed i resoconti.

Quando incomincia a mordere l’inverno

E nella notte gelida scricchiano i sassi,

Quando gli stagni son neri, e gli alberi tutti spogli,

È nefasto per le Terre Selvagge avviare i propri passi.

«Ma temo che sarà questa la vostra sorte».

«Lo temo proprio», disse Gandalf. «Non possiamo partire fin quando non sapremo qualcosa dei Cavalieri».

«Credevo fossero stati tutti distrutti durante l’inondazione», disse Merry.

«Non è così facile distruggere gli Spettri dell’Anello», rispose Gandalf. «Il potere del loro padrone è in essi, ed è al suo fianco che si ergono o crollano. Speriamo che abbiano perso cavalli e travestimenti; sarebbero allora per un certo tempo meno pericolosi; dobbiamo però accertarcene. Nel frattempo dovresti cercare di dimenticare le tue preoccupazioni, Frodo. Non so se posso fare qualcosa per aiutarti, ma ti sussurrerò un segreto nell’orecchio. Qualcuno ha detto che ci vorrà dell’intelligenza nella comitiva. Aveva ragione. Credo che verrò con te».

Così grande fu la gioia di Frodo a questa notizia, che Gandalf scese dal davanzale sul quale era seduto e, togliendosi il cappello, fece un inchino. «Ho solo detto credo che verrò. Non contare su niente per il momento. In questa faccenda Elrond avrà molto da dire, ed anche il tuo amico Grampasso. A proposito, mi sto ricordando che devo vedere Elrond. È ora che vada».

«Quanto tempo credi che passerò qui?», chiese Frodo a Bilbo quando Gandalf se ne fu andato.

«Oh, non lo so. Non so contare i giorni a Gran Burrone», disse Bilbo. «Ma parecchio, direi. Potremo chiacchierare un bel po’. Che ne dici di aiutarmi a finire il libro, e di dare il via al seguente? Hai pensato ad una conclusione?».

«Sì, a parecchie, e son tutte spiacevoli e tetre», rispose Frodo. «Oh, ma allora non possono andare!», disse Bilbo. «I libri dovrebbero sempre finire bene. Che te ne pare di: e tutti finalmente assestati, vissero per sempre insieme felici e contenti?».

«Andrà benissimo, se mai dovesse avverarsi», disse Frodo.

«Ah!», disse Sam. «E dove vivranno? È quel che mi domando spesso».

* * *

Per un po’ gli Hobbit continuarono a parlare ed a pensare al viaggio passato ed ai pericoli che li attendevano; ma tale era la virtù della terra di Gran Burrone, che presto ogni timore ed ansietà svanirono dalle loro menti. Il futuro, buono o cattivo che fosse, non venne dimenticato, bensì perdette qualsiasi potere sul presente. Salute e speranza crebbero e si rinforzarono in loro, ed essi erano contenti di ogni bel giorno che veniva, assaporando ogni pasto, parola e canzone.

E le giornate scivolavano via, con la loro alba sempre luminosa e bella, e la sera fresca e limpida; ma l’autunno declinava rapidamente; la luce dorata sbiadì e non fu più che un pallido argento mentre cadevano le ultime foglie che indugiavano sugli alberi nudi. Un vento freddo si mise a soffiare dalle Montagne Nebbiose verso est. La Luna del Cacciatore cresceva rotonda nel cielo notturno, facendo fuggire tutte le stelle minori. Ma bassa, nel Sud, una stella brillava rossa. Ogni notte, quando la Luna riprese a decrescere, brillava più luminosa. Frodo la vedeva dalla sua finestra, profondamente immersa nei cieli, incandescente come un occhio vigile e lampeggiante al di sopra degli alberi all’estremo limite della valle.

* * *

Gli Hobbit erano ormai da quasi due mesi nella Casa di Elrond, novembre era passato, portando seco gli ultimi lembi d’autunno, e dicembre stava per finire, quando tornarono i primi esploratori. Alcuni venivano dagli Erenbrulli, a nord oltre le sorgenti del Fiume Bianco; altri da ovest, ove con l’aiuto di Aragorn e dei Raminghi avevano perlustrato le terre all’estremo sud dell’Inondagrigio, giungendo sino a Sarbad, dove l’antica Via Sud attraversava il fiume vicino a una città in rovina. Altri ancora erano andati a est e a sud; fra di loro alcuni avevano valicato le Montagne per inoltrarsi poi nel Bosco Atro, mentre altri avevano scavalcato il passo alla fonte del Fiume Gaggiolo, scendendo quindi fino alle Terre Selvagge e, dopo avere percorso Campo Gaggiolo, erano finalmente giunti alla vecchia casa di Radagast a Rhosgobel. Ma Radagast non si trovava lì, ed essi avevano intrapreso la via del ritorno valicando l’alto passo chiamato la Scala dei Rivi Tenebrosi. Gli ultimi a rientrare furono Elladan ed Elrollir, i figli di Elrond; avevano compiuto un lungo viaggio, seguendo a valle il corso dell’Argentaroggia sino ad una terra straniera; ma si rifiutarono di parlare del loro incarico ad altri che Elrond.

In nessuna regione i messaggeri avevano scoperto tracce o notizie dei Cavalieri o di altri servitori del Nemico. Persino le Aquile delle Montagne Nebbiose non seppero dir loro nulla di nuovo. Di Gollum, nessuno aveva visto o udito niente; ma i lupi selvaggi continuavano a radunarsi, e di nuovo, cacciando, risalivano di parecchio il Grande Fiume. Tre dei cavalli neri erano stati subito ritrovati annegati nel Guado invaso dalle acque. Un po’ più in giù, sulle rocce delle rapide, i perlustratori avevano scorto le carogne di altri cinque, ed accanto ad esse un lungo manto nero, lacero e stracciato. Dei Cavalieri Neri non vi era altra traccia, e la loro presenza non si sentiva in nessun posto. Parevano spariti dal Nord.

«Sappiamo quale sorte è toccata ad otto dei Nove Cavalieri», disse Gandalf. «Sarebbe avventato esserne troppo sicuri, tuttavia penso che ormai possiamo sperare che gli Spettri dell’Anello siano stati dispersi, e costretti quindi a ritornare come meglio potevano dal loro Padrone a Mordor, vuoti e senza forma.

«Se le cose stanno così, ci vorrà un bel po’ di tempo prima che essi siano in condizione di riprendere l’inseguimento. Il Nemico ha naturalmente altri servitori, i quali dovranno però percorrere tutta la strada fino ai confini di Gran Burrone, prima di poter trovare le nostre tracce. Il che, se noi prenderemo le debite precauzioni, sarà alquanto difficile. Ma non dobbiamo tardar oltre».

* * *

Elrond convocò gli Hobbit. Lo sguardo che posò su Frodo era grave. «È giunta l’ora», disse. «Se l’Anello deve partire, è necessario che vada presto. Ma coloro che lo portano seco non potranno contare, durante la missione, sull’aiuto della guerra o della forza. Essi devono inoltrarsi nel territorio del Nemico, lungi da qualsiasi aiuto. Hai tu ancora l’intenzione di mantenere la parola data, Frodo, e di essere il Portatore dell’Anello?».

«Lo sarò», disse Frodo, «e partirò con Sam».

«Non ti posso dare molto aiuto e nemmeno utili consigli», disse Elrond. «Mi è possibile prevedere ben poco del tuo cammino, e ignoro come il tuo compito possa giungere a termine. L’Ombra è giunta strisciando sino ai piedi delle Montagne, e si sta già avvicinando alle rive dell’Inondagrigio, e tutto ciò che l’Ombra nasconde è buio ai miei occhi. Incontrerai molti nemici, gli uni travestiti, gli altri manifesti, e troverai forse degli amici lungo la strada quando meno li aspetti. Io invierò tutti i messaggi che mi sarà possibile a coloro che conosco nel vasto mondo; ma son tali ormai le insidie ed i perigli lungo la via, ch’è probabile che alcuni vadano smarriti, o non giungano prima di te.

«E sceglierò per te dei compagni che ti secondino, sin dove essi lo vorranno o sin dove il fato lo permetterà. Piccolo dev’essere il numero, poiché la vostra speranza è nella rapidità e nella segretezza. Anche se disponessi ancora di una schiera di Elfi muniti di armatura come nei Tempi Remoti, essa, oltre a risvegliare la potenza di Mordor, potrebbe far ben poco.

«Nove saranno i membri della Compagnia dell’Anello, ed i Nove Viandanti si opporranno ai Nove Cavalieri che sono malvagi. Con te ed il tuo fido servo verrà anche Gandalf; questo sarà infatti il suo grande incarico, e forse la fine dei suoi travagli.

«Gli altri rappresenteranno i rimanenti Popoli Liberi della Terra: Elfi, Nani, e Uomini. Legolas per gli Elfi, e Gimli figlio di Glóin per i Nani. Essi sono pronti a spingersi almeno sino ai valichi delle Montagne, e forse anche oltre. Quanto agli Uomini, sarà Aragorn figlio di Arathorn ad accompagnarti, perché l’Anello d’Isildur lo riguarda da vicino».

«Grampasso!», gridò Frodo.

«Sì», disse questi con un sorriso. «Chiedo per la seconda volta il permesso di accompagnarti, Frodo».

«Sarei stato io a pregarti di venire», rispose Frodo, «ma pensavo che tu andassi con Boromir a Minas Tirith».

«Infatti è così», disse Aragorn. «E la Spada che fu Rotta sarà nuovamente forgiata prima ch’io m’incammini verso la guerra. Ma la tua strada e la nostra proseguono unite per molte centinaia di miglia; Boromir farà perciò anch’egli parte della Compagnia. È un uomo valoroso».

«Dobbiamo ancora cercare altri due», disse Elrond. «Vi rifletterò. Fra coloro che dimorano nella mia casa potrei forse trovare qualcuno che mi paia idoneo a partire».

«Ma in tal modo non vi sarà più posto per noi!», gridò Pipino costernato. «Non vogliamo essere lasciati addietro. Vogliamo andare anche noi con Frodo».

«Dici così perché non capisci e non riesci ad immaginare quali pericoli attendano i Nove Viandanti», disse Elrond.

«Frodo non ne sa più di lui», disse Gandalf, inatteso sostenitore di Pipino, «e nemmeno noi vediamo chiaro in tutta la faccenda. È vero che se questi Hobbit si rendessero conto del pericolo non oserebbero partire. Ciò nonostante, lo desidererebbero ancora, o perlomeno desidererebbero avere il coraggio necessario per non sentirsi vergognosi ed infelici. Credo, Elrond, che in questo caso sarebbe bene fidarsi piuttosto della loro amicizia anziché della grande saggezza di un altro. Anche se tu dovessi scegliere per noi un Signore degli Elfi come Glorfindel, egli non sarebbe in grado di prendere d’assalto la Torre Oscura, né di aprire la via del Fuoco col potere che è in lui».

«Parli seriamente», disse Elrond, «ma io sono tuttavia in dubbio. La Contea, lo presagisco, è ormai minacciata dal pericolo; avevo quindi pensato di inviarvi quali messaggeri questi due Hobbit, affinché si adoperassero per avvertire il popolo, secondo le usanze del paese, del pericolo che lo sovrasta. In ogni caso, ritengo che il più giovane dei due, Peregrino Tuc, debba restare qui. Il mio cuore si ribella alla sua partenza».

«Allora, Messer Elrond, dovrai chiudermi in prigione, o spedirmi a casa legato in un sacco», disse Pipino, «perché altrimenti seguirò la Compagnia».

«Sia dunque come vuoi tu. Andrai con loro», disse Elrond, e sospirò. «Il totale dei Nove è stato raggiunto. Fra sette giorni la Compagnia deve partire».

La Spada di Elendil fu forgiata nuova da fabbri elfici, e sulla lama fu inciso un emblema composto da sette stelle fra la Luna crescente e il Sole raggiante, e circondato da molte rune; Aragorn figlio di Arathorn partiva per combattere sulle soglie di Mordor. Splendente era la spada di nuovo intera: la luce del sole vi risplendeva rossa, e quella della luna vi brillava fredda, ed il filo vivo era duro ed acuminato. Aragorn le diede un nuovo nome, e la chiamò Andùril, Fiamma dell’Occidente.

Aragorn e Gandalf camminavano a fianco a fianco oppure sedevano insieme, parlando del cammino che li attendeva e dei pericoli che avrebbero incontrati; e ponderavano le carte ed i libri di storia illustrati e commentati che trovarono in casa di Elrond. Talvolta Frodo si accompagnava a loro; ma poiché gli bastava poter contare sulla loro guida, cercava di trascorrere con Bilbo ogni minuto libero.

Durante quegli ultimi giorni, gli Hobbit si riunivano di sera nel Salone del Fuoco, e lì, fra le molte altre storie, udirono per intero il poema di Beren e Lùthien, e della conquista del Grande Gioiello; ma di giorno, mentre Merry e Pipino andavano gironzolando, Frodo e Sam erano sempre reperibili, assieme a Bilbo, nella piccola camera di questi. Bilbo soleva leggere brani del suo libro (che sembrava ancora molto incompleto), o frammenti delle sue poesie, oppure prendeva appunti sulle avventure di Frodo.

La mattina dell’ultimo giorno Frodo era solo con Bilbo, ed il vecchio Hobbit tirò allora da sotto il letto una scatola di legno. Aprì il coperchio e frugò all’interno.

«Ecco la tua spada», disse. «Si è spezzata, come sai. Io la presi per conservarla, ma dimenticai di informarmi se i fabbri la potevano riparare. Ora non vi è più tempo. Allora ho pensato che forse ti farebbe piacere avere questa, la conosci?».

Estrasse dalla cassetta una piccola spada in un vecchio e sdrucito fodero di pelle. La sguainò, e la lama lucida ed accuratamente custodita scintillò all’improvviso, fredda e brillante. «Questa è Pungolo», disse, e la conficcò profondamente, quasi senza sforzo, in una trave di legno. «Prendila, se vuoi. Non penso che ne avrò più bisogno».

Frodo l’accettò con gratitudine.

«C’è anche un’altra cosa!», disse Bilbo, estraendo un involucro che dava l’impressione di essere molto pesante per le sue dimensioni. Dalle numerose pieghe della vecchia stoffa che l’avvolgeva tirò fuori una piccola cotta di maglia. Molti anelli ne formavano la fitta trama, ed essa era pieghevole quasi come lino, fredda come ghiaccio, e dura più dell’acciaio. Brillava come argento al chiarore di luna, e bianche gemme vi erano incastonate. Una cinta l’accompagnava, fatta di perle e di cristallo.

«È un oggetto grazioso, vero?», disse Bilbo, facendola muovere nella luce. «Ed anche utile. È la maglia dei Nani regalatami da Thorin. L’andai a riprendere a Pietraforata prima di partire, e la misi assieme al resto del mio bagaglio. Ho portato meco tutti i ricordi del mio Viaggio, eccetto l’Anello. Ma non pensavo di dover adoperare questa cotta, che ormai non mi serve più e che tiro fuori soltanto per guardarla. Una volta indossata, il peso non si sente quasi per nulla».

«Avrei l’aria di…. insomma, non credo di poterla portare con aria disinvolta», disse Frodo.

«Esattamente ciò che dissi anch’io», replicò Bilbo. «Ma non badare alle apparenze. La puoi indossare sotto i tuoi abiti. Coraggio! Devi dividere con me questo segreto. Non dir nulla a nessuno! Ma sarei più felice sapendo che tu la porti. Ho l’impressione che torcerebbe persino i pugnali dei Cavalieri Neri», soggiunse a bassa voce.

«Benissimo, l’accetto», disse Frodo. Bilbo l’aiutò ad infilare la cotta, quindi fissò Pungolo alla cintura lucente; Frodo vi indossò sopra i vecchi calzoni, camicia e giacca logorati dalle intemperie.

«Hai l’aspetto di un normalissimo Hobbit», disse Bilbo. «Ma adesso vi è in te più di quanto non appaia in superficie. Buona fortuna!». Si voltò da un’altra parte e, guardando fuori dalla finestra, tentò di canticchiare un motivo.

«Non so ringraziarti come dovrei, Bilbo, per questo e per tutte le tue gentilezze passate», disse Frodo.

«Non provarci!», esclamò il vecchio Hobbit, dandogli una manata sulla schiena. «Ahi!», gridò. «Sei diventato troppo duro per le mie mani! Il fatto è che gli Hobbit devono restar sempre uniti, ed in particolar modo i Baggins. Ciò che chiedo in cambio, è che tu prenda cura di te stesso quanto più ti sarà possibile, per tornare con tutte le notizie, vecchie canzoni e storie che potrai racimolare. Mi sforzerò di finire il libro prima del tuo ritorno. Vorrei scrivere io il secondo volume, se mi resterà ancora tempo». S’interruppe e volgendosi di nuovo verso la finestra, cantò dolcemente.

Seduto accanto al fuoco, rifletto

Su tutto quel che ho visto,

Sulle farfalle ed i fiori dei campi

In estati ormai da me distanti;

Penso a foglie gialle e a tele di ragno

In autunni che più non torneranno;

Alle nebbiose mattine, e al sole d’argento,

E ai miei capelli agitati dal vento.

Seduto accanto al fuoco, rifletto

Al mondo che sarà,

Quando l’inverno un giorno giungerà,

Ma della primavera io non vedrò l’aspetto.

Vi sono infatti tante e tante cose,

Che io purtroppo ancora non conosco:

Diversi in ogni prato ed ogni bosco

Il verde ed il profumo delle rose.

Seduto accanto al fuoco, rifletto

Ai popoli vissuti tanto tempo fa,

Ed a coloro che vedranno un mondo

Che a me per sempre ignoto resterà.

Ma mentre lì seduto rifletto

Sui tempi che fuggiron veloci,

Ascolto in ansia ed aspetto

Il ritorno di passi e di voci.

Era un giorno freddo e grigio di fine dicembre. Il Vento dell’Est spaziava tra gli spogli rami degli alberi e fremeva fra gli scuri pini sulle colline. Basse e cupe, le nuvole in brandelli sorvolavano veloci. Allorquando le tristi ombre del tardo pomeriggio incominciarono a calare, la Compagnia si preparò alla partenza. Dovevano mettersi in marcia al crepuscolo, perché Elrond aveva consigliato di viaggiare protetti dalla notte, ogni qual volta fosse loro possibile, fin quando non fossero giunti molto lontani da Gran Burrone.

«Dovete temere gli innumerevoli occhi dei servitori di Sauron», aveva detto. «Non dubito che la notizia della sconfitta dei Cavalieri sia già arrivata alle sue orecchie, ed egli sarà fremente di collera. Fra breve le sue spie terrestri e quelle alate perlustreranno i paesi del Nord. Persino del cielo sulle vostre teste dovrete diffidare lungo la via».

* * *

La Compagnia prese con sé uno scarso equipaggiamento di guerra, perché le sue speranze non si fondavano sui combattimenti, bensì sulla segretezza. Aragorn aveva Andùril e nessun’altra arma, ed affrontava il cammino con abiti di un verde e un marrone rugginosi, come un qualsiasi Ramingo delle lande selvagge. Boromir era munito di una lunga spada, di fattura simile ad Andùril, ma di minor lignaggio, oltre che di uno scudo e del suo corno di guerra.

«Forte e limpido suona nelle vallate fra le colline», disse, «ed allora fuggono via tutti i nemici di Gondor!». Portandoselo alle labbra, lo fece squillate, e l’eco balzò da roccia a roccia, e tutti coloro che udirono quella voce a Gran Burrone saltarono in piedi. «Più cauto sii la prossima volta nel suonar il tuo corno, Boromir», disse Elrond, «a meno che tu non abbia allora raggiunto le frontiere del tuo paese, e sia minacciato da un terribile periglio».

«Forse hai ragione», disse Boromir. «Ma sempre ho fatto echeggiare il mio corno all’ora della partenza, e quantunque dopo cammineremo nelle ombre, non mi piace di partire come un ladro nella notte».

Gimli il Nano era l’unico che portasse apertamente una corta cotta di maglia d’acciaio, poiché come tutti i Nani non dava troppo peso ai fardelli; alla sua cinta pendeva un’ascia dalla larga lama. Legolas aveva un arco ed una faretra, ed alla cintura portava un lungo pugnale bianco. I giovani Hobbit recavano seco le spade prese dal tumulo, mentre Frodo portò soltanto Pungolo; custodiva ben nascosta, secondo il desiderio di Bilbo, la sua cotta di maglia. Gandalf era accompagnato dal suo bastone, ma al fianco gli pendeva la spada elfica Glamdring, compagna della spada Orcrist che giaceva ora sul petto di Thorin sotto la Montagna Solitaria.

Tutti erano stati equipaggiati da Elrond di pesanti abiti caldi, ed avevano giacche e cappe foderate di pelliccia. Le vettovaglie, gli abiti e le coperte di riserva furono caricati su di un pony, che altri non era che quello proveniente da Brea.

La permanenza a Gran Burrone aveva operato in lui un cambiamento miracoloso: il suo pelo era lucente ed il suo portamento di un vigore giovanile. Era stato Sam ad insistere affinché la scelta cadesse su di lui, sostenendo che Bill (lo chiamava così) avrebbe altrimenti languito di nostalgia.

«Quell’animale sa quasi parlare», disse, «e parlerebbe se rimanesse ancora un po’ di tempo qui. Mi ha lanciato uno sguardo esplicito quanto le parole del signor Pipino: “Se non mi prendi con te, Sam, ti seguirò per conto mio”». Fu così che Bill partì quale bestia da soma, eppure di tutta la Compagnia era l’unico a non aver l’aria depressa.

* * *

Gli addii erano avvenuti nel grande salone vicino al fuoco, e tutti stavano ora aspettando solo Gandalf, il quale non era ancora uscito dal palazzo. Il bagliore del fuoco giungeva dalle porte aperte, e luci tenui ardevano a parecchie finestre. Bilbo, imbacuccato in una cappa, era in piedi sulla soglia accanto a Frodo, silenzioso. Aragorn sedeva con la testa curva sulle ginocchia; soltanto Elrond capiva esattamente che cosa rappresentasse per lui quel momento. Gli altri erano percepibili quali forme grigie nell’oscurità.

Sam, in piedi accanto al pony, si succhiava i denti guardando di malumore nelle tenebre, là dove il fiume ruggiva cavernosamente; il suo desiderio d’avventure era ridotto al minimo.

«Bill, ragazzo mio», disse, «hai fatto male a venir con noi. Saresti potuto rimanere qui a masticare il miglior fieno del mondo fin quando spunta l’erba fresca». Bill fece frusciar la coda e non disse nulla.

Sam sistemò più comodamente il fardello che portava sulle spalle, ricapitolando ansioso nella propria mente tutto quel che vi aveva stivato, per vedere se aveva dimenticato qualcosa: il suo più gran tesoro, l’attrezzatura da cucina, la scatoletta di sale che portava sempre con sé e riempiva quando era possibile; una buona scorta di erba-pipa (ma, garantisco, di gran lunga insufficiente); una pietra focaia con esca; calzettoni di lana; biancheria; vari piccoli oggetti appartenenti al suo padrone, che Frodo aveva dimenticati e che Sam avrebbe poi tirato fuori trionfalmente nell’ora del bisogno. Egli passò tutto in rassegna.

«Corda!», mormorò. «Niente corda! E proprio ieri sera ti sei detto: “Sam, che ne diresti di un po’ di corda? Ne avrai bisogno, se non ne porti”. Vuol dire che ne avrò bisogno; ma ora non la posso prendere».

In quel momento Elrond uscì di casa con Gandalf, e chiamò a sé la Compagnia. «Questa è la mia ultima parola», disse a bassa voce. «Il Portatore dell’Anello sta partendo alla Ricerca del Monte Fato. Egli è l’unico ad avere degli obblighi: non gettare l’Anello, non consegnarlo ad alcun servitore del Nemico, non darlo in mano a nessuno, salvo ai membri della Compagnia e del Consiglio, ed anche a costoro soltanto in casi estremi. Gli altri vanno con lui quali liberi compagni, per aiutarlo lungo il cammino. Potete tardare, o tornare indietro, o deviare per altri sentieri, a seconda del caso. Più avanti andrete, meno facile sarà ritirarvi; ma sappiate che nessun giuramento e nessun vincolo vi costringe a fare un passo in più di quanto non vogliate: non conoscete ancora la forza dei vostri cuori, ed è impossibile prevedere ciò che ognuno di voi potrebbe incontrare per la strada».

«Sleale è colui che si accomiata quando la via si oscura», disse Gimli.

«Può darsi», disse Elrond, «ma colui che non ha visto il calar della notte, non giuri di inoltrarsi nelle tenebre».

«Eppure il giuramento prestato può dar forza ad un cuore tremante», ribatté Gimli.

«Può anche spezzarlo», disse Elrond. «Non mirare troppo lontano! Ma ora partite, con animo sereno! Addio, e possa la benedizione degli Elfi, degli Uomini e di tutti i Popoli Liberi accompagnare il vostro cammino. Che le stelle vi illuminino il volto!».

«Buona… buona fortuna!», gridò Bilbo, balbettando dal freddo. «Non ti credo capace di tenere un diario, Frodo, ragazzo mio, ma ricordati che al tuo ritorno voglio un resoconto completo. E non tardare troppo! Addio!».

* * *

Molti di coloro che dimoravano nella casa di Elrond li guardavano partire, in piedi nelle tenebre, salutandoli dolcemente. Non si udivano risa, né canzoni, né musica. Infine si allontanarono, scomparendo silenziosamente nel crepuscolo.

Passarono il ponte e percorsero lentamente il lungo sentiero ripido e serpeggiante che conduceva fuori della profonda vallata di Gran Burrone; giunsero così all’alta brughiera ove il vento fischiava tra l’erica. Dopo aver lanciato uno sguardo d’addio all’Ultima Casa Accogliente che scintillava ai loro piedi, s’incamminarono lontano nella notte.

Al Guado del Bruinen abbandonarono la Via, e dirigendosi verso sud proseguirono lungo dei piccoli sentieri che percorrevano il terreno ondulato. La loro intenzione era di mantenere quella direzione ad ovest delle Montagne per molti giorni e molte miglia. La campagna era di gran lunga più accidentata e spoglia della verde vallata del Grande Fiume, nelle Terre Selvagge al di là della catena di monti; avrebbero progredito lentamente, ma speravano in tal modo di sfuggire all’attenzione di sguardi ostili. Sino allora le spie di Sauron si erano viste di rado in quella nuda contrada, ed i viottoli erano pressoché sconosciuti, salvo che alla gente di Gran Burrone.

Gandalf camminava in testa; al suo fianco vi era Aragorn, che conosceva quelle terre persino al buio. Gli altri seguivano in fila, e Legolas, la cui vista era molto acuta, stava alla retroguardia. La prima parte del loro viaggio fu pesante e lugubre, e Frodo, a parte il vento, rammentò ben poco. Per molti giorni senza sole un soffio gelido giunse dalle Montagne ad oriente, e nessun indumento pareva riuscisse a tener lontane le sue dita inquisitrici. Pur essendo ben coperti, raramente sentivano caldo, sia che si muovessero, sia che riposassero. Dormivano un sonno inquieto in pieno giorno in qualche depressione del terreno o nascosti sotto gli aggrovigliati cespugli spinosi che crescevano a mazzi qua e là. Nel tardo pomeriggio venivano destati dalla sentinella, e consumavano il loro pasto principale, freddo e triste in linea di massima, perché raramente potevano rischiare di accendere un fuoco. La sera riprendevano la marcia, dirigendosi verso sud quanto più lo permettevano i sentieri.

Sulle prime parve agli Hobbit, nonostante camminassero ed avanzassero inciampando fin quando non erano sfiniti, di strisciare con la velocità delle lumache e di non giungere mai in nessun posto. Ogni giorno il paesaggio era uguale a quello del giorno precedente; eppure le montagne si avvicinavano rapidamente. A sud di Gran Burrone esse andavano sempre più innalzandosi, e curvavano verso occidente; ai piedi della catena principale si estendeva sempre più ampia una zona di squallide colline franate e di profonde valli attraversate da acque turbolente. Pochi erano i sentieri, e tortuosi, e conducevano spesso solo fino all’orlo di qualche strapiombo, o giù nelle infide paludi.

* * *

Erano in cammino da quattordici giorni quando il tempo cambiò. Il vento cadde all’improvviso, quindi deviò, soffiando verso sud. Le nubi dal rapido fluire si innalzarono e, dissolvendosi, lasciarono il posto ad un sole pallido ma luminoso. Una fredda alba limpida coronò la fine di una lunga e faticosa marcia notturna. I viaggiatori giunsero ad una bassa cresta ove crescevano antichi alberi d’agrifoglio i cui tronchi grigioverdi sembravano costruiti con la pietra stessa delle colline. Le foglie erano scure e lucenti, e le bacche ardevano rosse ai raggi del sole nascente.

All’estremo sud Frodo intravedeva i vaghi contorni di alte montagne che parevano ora ergersi in mezzo al sentiero che la Compagnia stava per percorrere. Alla sinistra dell’imponente catena s’innalzavano tre vette; la più alta e vicina era come un dente aguzzo incappucciato di neve; la grande e spoglia parete nord a precipizio era ancora in gran parte immersa nell’ombra, ma là dove i raggi obliqui del sole si posavano, brillava d’un rosso acceso.

Gandalf, in piedi accanto a Frodo, scrutava l’orizzonte riparandosi dal riverbero con la mano. «Abbiamo camminato bene», disse. «Abbiamo raggiunto i confini del territorio che gli Uomini chiamano Agrifogliere; qui vissero in tempi più felici molti Elfi, ed allora il suo nome era Eregion. Quarantacinque leghe a volo di uccello abbiamo percorso, benché molto più lunghe siano le miglia calcate dai nostri piedi. Terreno e tempo saranno adesso più dolci e miti, ma forse anche molto più pericolosi».

«Pericoloso o no, un vero levar del sole è il gran benvenuto», disse Frodo, gettando indietro il cappuccio affinché la luce del mattino gli inondasse il volto.

«Ma abbiamo le montagne davanti», disse Pipino. «Vuol dire che durante la notte ci siamo diretti verso est».

«No», disse Gandalf. «Ma la luce limpida permette di veder più lontano. Oltre quelle vette la catena curva verso sud-ovest. Vi sono molte mappe nella casa di Elrond, ma penso non ti sia mai venuto in mente di guardarle».

«Sì, a volte l’ho fatto», disse Pipino, «ma non le rammento. Frodo è più tagliato per questo genere di cose».

«Non ho bisogno di mappe», disse Gimli, avvicinatosi assieme a Legolas, guardando fisso innanzi a sé con una strana luce negli occhi profondi. «Quella è la terra ove i nostri padri lavoravano anticamente, e l’immagine di quelle montagne l’abbiamo intagliata in molti lavori di pietra e di metallo, nonché descritta in molti canti e poemi. Esse spadroneggiano nei nostri sogni: Baraz, Zirak, Shathûr.

«Nella vita reale le avevo viste una volta sola, e da lontano; ma le conosco e conosco i loro nomi, perché ai loro piedi giace Khazad-dûm il Nanosterro, chiamato oggi il Pozzo Nero, o Moria nel linguaggio elfico. Laggiù si erge Barazinbar, il Cornorosso, il crudele Caradhras; al di là vi sono Argentacuspide e Vettanubi: Celebdil il Bianco, e Fanuidhol il Grigio, che noi chiamiamo Zirakzigil e Bundushathûr.

«È lì che si scindono le Montagne Nebbiose, e fra le loro braccia si estende la profonda valle ombrosa che non possiamo obliare: Azanulbizar, la Valle dei Rivi Tenebrosi, che gli Elfi chiamano Nanduhirion».

«È alla Valle dei Rivi Tenebrosi che ci stiamo recando», disse Gandalf. «Se valichiamo il passo detto Cancello Cornorosso, sul fianco remoto di Caradhras, giungeremo giù per la Scala dei Rivi Tenebrosi sin nella profonda valle dei Nani. Lì si trova il Mirolago, e lì il Fiume Argentaroggia sorge dalle sue gelide fonti».

«Cupa è l’acqua di Kheled-zâram», disse Gimli, «e gelide le fonti di Kibil-nâla. Il mio cuore trema al pensiero di poterle vedere presto».

«Possa la loro vista procurarti gioia, mio buon Nano!», disse Gandalf. «Ma qualunque cosa tu faccia, noi non possiamo fermarci in quella valle. Dobbiamo scendere il corso dell’Argentaroggia attraverso i segreti boschi sino al Grande Fiume, e poi…».

S’interruppe.

«Sì, e poi dove?», chiese Pipino.

«Alla fine del viaggio…. finalmente», rispose Gandalf. «Non possiamo guardare troppo lontano. Rallegriamoci piuttosto che la prima tappa sia felicemente compiuta. Credo che riposeremo qui, non soltanto oggi, bensì anche questa notte. È salubre l’aria dell’Agrifogliere: molta malvagità deve colpire una terra prima che essa dimentichi gli Elfi che la abitarono un tempo».

«È vero», disse Legolas. «Ma gli Elfi di questa terra erano di una razza estranea a noi, gente silvana, e gli alberi e l’erba non li rammentano. Solo odo le pietre rimpiangerli: In noi profondo scavarono, con arte ci lavorarono, in alto ci elevarono: ma più non sono qui. Non sono più qui. Da molto tempo ormai fuggirono ai Rifugi Oscuri».

* * *

Quel mattino accesero un fuoco in una profonda conca celata alla vista da grandi cespugli d’agrifoglio, e la colazione sostanziosa fu la più allegra dal giorno della partenza. Sapendo di avere tutta la notte per dormire, non si affrettarono a coricarsi dopo il pasto, tanto più che non avevano intenzione di ripartire prima dell’indomani sera. Aragorn era l’unico silenzioso ed irrequieto. Dopo qualche tempo, allontanatosi dalla Compagnia, si inerpicò fuori dalla conca; in piedi all’ombra di un albero si mise a scrutare ad ovest ed a sud, con il capo in attitudine d’ascolto. Quindi ritornò sull’orlo della conca e guardò giù ai suoi piedi gli altri che ridevano e chiacchieravano.

«Che c’è che non va, Grampasso?», vociò Merry. «Che stai cercando? Senti la mancanza del Vento dell’Est?».

«No di certo», rispose. «Ma sento la mancanza di qualcos’altro. Ho percorso l’Agrifogliere in molte stagioni diverse. Ormai nessun popolo vi abita più, tuttavia parecchie altre creature vi dimorano in qualsiasi periodo dell’anno, ed in particolar modo gli uccelli. Eppure adesso, eccetto voi, ogni cosa è muta. Ascoltate. Non vi è un rumore nel giro di miglia intorno a noi, e le nostre voci sembrano far echeggiare il terreno. Non riesco a capire».

Gandalf levò lo sguardo con interesse improvviso. «Ma quale supponi sia il motivo?», chiese. «Credi che non sia solo la sorpresa nel vedere quattro Hobbit, per non parlare di noi, in un luogo ove è raro vedere o udire gente?».

«Spero che sia così», rispose Aragorn. «Ma mi accorgo di essere vigilante, e colto da timore, e non mi era mai accaduto qui prima d’ora».

«Significa che dovremo esser più cauti», disse Gandalf. «Portando seco un Ramingo, è opportuno prestare orecchio alle sue parole, specialmente poi se il Ramingo è Aragorn. Non dobbiamo più parlare ad alta voce, bensì riposare silenziosamente e montare la guardia».

* * *

Quel dì il primo turno di guardia toccava a Sam, ma Aragorn gli tenne compagnia. Gli altri si addormentarono. Il silenzio crebbe a tal punto che persino Sam se ne accorse. Il respiro dei dormienti giungeva chiaro e distinto. Il fruscio della coda del pony, e qualche raro movimento dei suoi piedi, parevano rumori fortissimi. Sam udiva scricchiolare le proprie giunture alla minima mossa. Un silenzio di morte lo circondava, sovrastato da un cielo limpido e azzurro, mentre il sole si levava a oriente. Lontano a sud apparve una macchia scura che cresceva, dirigendosi verso nord come fumo trasportato dal vento.

«Cos’è quello, Grampasso? Non ha l’aspetto di una nuvola», disse Sam ad Aragorn in un sussurro. Questi non rispose, intento ad osservare il cielo; ma passati pochi attimi Sam poté rendersi conto da solo di quel che si stava avvicinando. Stormi di uccelli giungevano a gran velocità, volteggiando e roteando e attraversando lo spazio come in cerca di qualcosa; e si facevano sempre più vicini.

«Sdraiati a terra, e zitto!», bisbigliò Aragorn, tirando giù Sam nell’ombra di un cespuglio di agrifoglio; un intero reggimento di uccelli si era improvvisamente separato dal resto della schiera, per dirigersi con volo basso proprio verso la cresta dei monti. Sam ebbe l’impressione che fossero una razza di corvi giganti. Mentre passavano sulle loro teste, in uno stormo così fitto da far ombra sul terreno, si udì un roco gracchiare.

Finché non scomparirono in lontananza, a nord e ad ovest, lasciando il cielo di nuovo limpido, Aragorn non volle alzarsi. Quindi saltò in piedi e andò a svegliare Gandalf.

«Reggimenti di corvi neri stanno sorvolando tutto il territorio compreso tra le Montagne e l’Inondagrigio», disse, «e sono già passati sull’Agrifogliere. Non sono nativi di queste parti; provengono da Fangorn e dal Dunland, e sono di razza crebain. Non so cosa stiano facendo: è possibile che vi sia qualche pericolo giù a sud davanti al quale fuggono; io, tuttavia, credo stiano spiando la regione. Ho anche intravisto molti falchi volare alto nel cielo. Penso che dovremmo ripartire stasera: l’Agrifogliere non è più per noi un luogo salutare; è sorvegliato».

«Allora anche il Cancello Cornorosso», disse Gandalf; «non so proprio come faremo a passarlo senza esser visti; ma ci penseremo quando sarà ora. Quanto a partire appena buio, temo che tu abbia ragione».

«Per fortuna il nostro fuoco mandava poco fumo, ed era ormai quasi spento quando arrivarono i crebain», disse Aragorn. «Spegniamolo del tutto per non riaccenderlo più».

* * *

«Che razza di calamità e di seccatura!», esclamò Pipino. Appena sveglio, nel tardo pomeriggio, gli erano state comunicate le notizie: niente fuoco, e ripartire la sera stessa. «E tutto per colpa di una massa di cornacchie! Io che aspettavo con ansia un vero buon pasto stasera, qualcosa di caldo!».

«Ebbene, continua pure ad aspettare», disse Gandalf. «Può darsi che vi siano innanzi a te molti inattesi banchetti. Quanto a me, vorrei una pipa da fumare comodamente, e dei piedi più caldi. Comunque, di una cosa almeno siamo sicuri: a sud farà più caldo».

«Troppo caldo, probabilmente», borbottò Sam a Frodo. «Ma sto incominciando a pensare che sarebbe ora che avvistassimo quella Montagna Infocata, ed intravedessimo la fine della Via. Sulle prime ho pensato che questo Cornorosso qui, o come diavolo si chiama, potesse essere il monte che cerchiamo noi, e poi è arrivato Gimli col suo bel discorso. Ottima per smascellarsi dev’essere la lingua dei Nani!». Le carte geografiche non dicevano nulla a Sam, e tutte le distanze in quelle terre straniere gli parevano così immense che aveva perso completamente la nozione degli spazi.

La Compagnia rimase tutto il giorno nascosta. Gli uccelli scuri passavano di tanto in tanto sulle loro teste; ma quando il Sole diventò rosso ad occidente, scomparvero a sud. Al crepuscolo la Compagnia si mise in marcia, dirigendosi leggermente ad est, verso Caradhras, che in lontananza ardeva ancora fiocamente all’ultima luce del Sole scomparso. Una dopo l’altra le bianche stelle spuntavano nel cielo sbiadito.

Sotto la guida di Aragorn si avviarono per un buon sentiero, che a Frodo parve il residuo di un’antica strada in passato ampia e ben progettata, collegante l’Agrifogliere al passo di montagna. La Luna, ormai piena, s’innalzò sulle montagne, proiettando una pallida luce nella quale le ombre delle pietre erano nere. Molte di esse parevano scolpite a mano, benché giacessero rovesciate e spaccate su di un terreno sterile e squallido.

Era giunta l’ora fredda e gelida che precede lo svegliarsi dell’alba, e la luna era bassa. Frodo levò lo sguardo verso il cielo. D’un tratto vide o sentì un’ombra offuscare un attimo le stelle, che parvero svanire momentaneamente, per poi balenare di nuovo. Frodo rabbrividì.

«Hai visto nulla passare su di noi?», bisbigliò a Gandalf che lo precedeva.

«No, ma ne ho sentito la presenza, qualunque cosa fosse», rispose. «Potrebbe non esser niente, solo una nube leggera».

«Andava veloce, allora», mormorò Aragorn, «e controvento».

* * *

Non accadde nient’altro quella notte. La mattina seguente albeggiò ancor più luminosa. Ma l’aria era di nuovo pungente e il vento ricominciava a soffiare da est. Continuarono a marciare per altre due notti, salendo con fermezza ma con sempre maggior lentezza il sentiero che serpeggiava su per le colline, mentre le montagne torreggiavano man mano più vicine. La mattina del terzo giorno il Caradhras si rizzò innanzi a loro: una vetta imponente incappucciata di neve simile ad argento ma dai fianchi spogli e scoscesi, di un rosso smorto, come macchiati di sangue.

Vi era qualcosa di nero nel cielo ed il sole languiva. Il vento veniva ora da nord-est. Gandalf fiutò l’aria e diede un’occhiata all’orizzonte dietro di sé.

«L’inverno si fa rigido alle nostre spalle», disse a bassa voce ad Aragorn. «Le alture a nord sono più bianche di quanto non fossero nei giorni passati; la neve ricopre le falde sino in basso. Stanotte il nostro sentiero salirà molto in alto verso il Cancello Cornorosso. Potremmo essere facilmente individuati dagli osservatori su questo viottolo stretto, e cadere in qualche maligno tranello; ma il tempo si dimostrerà forse il nostro più mortale nemico. Che ne Pensi ora del tuo itinerario, Aragorn?».

Frodo udì per caso questo scambio di parole, e capì che Gandalf ed Aragorn stavano continuando una discussione che durava ormai da parecchio tempo. Ascoltò ansiosamente.

«Non c’è nulla che mi piaccia del nostro itinerario dal principio sino alla fine, come tu ben sai, Gandalf», rispose Aragorn. «I pericoli conosciuti ed incogniti aumenteranno ancora man mano che avanzeremo. Ma noi dobbiamo andare avanti; e non serve a niente ritardare il passaggio delle montagne. Più a sud non vi sono altri valichi prima della Breccia di Rohan. Non Mi fido di quel passaggio da quando ho udito le tue notizie sul conto di Saruman. Chissà quale parte servono ora i maresdal dei Signori dei Cavalli!».

«Chissà!», disse Gandalf. «Ma vi è un’altra via, che non passa dal valico di Caradhras: l’oscura via segreta della quale parlavamo».

«Ma non parliamone più! O non ancora. Ti prego, non dire nulla agli altri, prima di essere sicuri che non vi è altra scelta».

«Dobbiamo decidere prima di andar oltre», rispose Gandalf.

«Ed allora vagliamo bene la faccenda fra noi, durante il riposo ed il sonno degli altri», disse Aragorn.

* * *

Nel tardo pomeriggio, mentre gli altri stavano finendo la colazione, Gandalf ed Aragorn si appartarono e rimasero qualche istante in piedi a guardare il Caradhras. I suoi fianchi erano adesso scuri e tetri, e la vetta sommersa da grigie nubi. Frodo li osservava, domandandosi quale piega avrebbe preso la discussione. Quando ritornarono dai loro compagni Gandalf parlò, e Frodo apprese allora che era stato stabilito di affrontare il maltempo e l’alto passo. Si sentì sollevato. Non riusciva ad immaginare quale potesse essere l’altra via oscura e segreta, ma era bastato un semplice accenno ad essa per empire Aragorn di costernazione, e Frodo era lieto che il progetto fosse stato abbandonato.

«Da segni scorti di recente», disse Gandalf, «temo che il Cancello Cornorosso sia sorvegliato; ho anche apprensioni per il maltempo che sta sopraggiungendo. Potrebbe nevicare. Dobbiamo avanzare rapidamente e tuttavia occorreranno più di due tappe per arrivare in cima al passo. L’oscurità sta arrivando. Partiremo appena pronti».

«Aggiungerò una parola di consiglio, se permettete», disse Boromir. «Io sono nato all’ombra dei Monti Bianchi, e so qualcosa dei viaggi sulle alture. Incontreremo freddo intenso prima di ridiscendere giù per l’altro pendio. Non serve a nulla simulare indifferenza quando saremo ghiacciati fin nelle ossa. Prima di partire da qui, ove c’è ancora qualche albero e cespuglio, ognuno di noi dovrà raccogliere un po’ di legna, e portarne seco un fascio».

«E Bill potrebbe prenderne un po’ di più, nevvero, ragazzo mio?», disse Sam. Il pony lo guardò con aria afflitta.

«Molto bene», disse Gandalf. «Ma non dobbiamo assolutamente adoperare la legna se non nel caso che non vi sia altra scelta che il fuoco o la morte».

* * *

La Compagnia si rimise in cammino, avanzando da principio agevolmente; ma presto la via diventò ripida ed accidentata. Il sentiero tortuoso e serpeggiante era in parecchi posti pressoché scomparso ed ostruito da rocce franate. La notte si fece mortalmente buia sotto le grandi nubi. Un vento glaciale turbinava fra i sassi. A mezzanotte avevano scalato sino allo zoccolo delle grandi montagne. Il piccolo Viottolo serpeggiava ora ai piedi di una parete a dirupo che si ergeva sulla sinistra, sovrastata dai foschi fianchi del Caradhras, invisibili nelle tenebre. A destra un abisso d’oscurità indicava il punto ove il terreno cadeva improvvisamente a strapiombo in un profondo burrone.

Dopo essersi penosamente inerpicati su per un pendio scosceso, sostarono un attimo sulla cima. Frodo si sentì sfiorare dolcemente il viso. Tese la mano, e vide vaghi e bianchi fiocchi di neve posarsi sulla sua mano.

Si misero nuovamente in marcia. Ma dopo pochi minuti la neve incominciò a cadere più fitta, turbinando innanzi agli occhi di Frodo; e presto l’aria ne fu satura. Le scure sagome chine di Gandalf e Aragorn, a pochi passi di distanza, erano quasi invisibili.

«Non mi piace per nulla», disse ansimando Sam a Frodo che lo precedeva. «La neve sta bene in un mattino luminoso, ma a me piace essere a letto mentre cade. Perché tutta questa neve non se ne va a Hobbiville? Lì forse la gente la gradirebbe». Eccetto che sulle alte brughiere del Decumano Nord, avveniva di rado nella Contea che la neve cadesse fitta, e ciò era quindi considerato un piacevole evento ed una buona occasione per divertirsi. Nessun Hobbit vivente (salvo Bilbo) rammentava il Crudele inverno del 1311, quando i lupi bianchi avevano attraversato il letto ghiacciato del Brandivino ed invaso la Contea.

Gandalf si fermò. La neve era già spessa sul suo cappuccio e sulle sue spalle; gli stivali affondavano già sino alla caviglia.

«Ecco ciò che temevo», disse. «Cos’hai da dire adesso, Aragorn?».

«Che lo temevo anch’io», ribatté Aragorn, «ma meno di tante altre cose. Non ignoravo il rischio della neve, per quanto essa cada raramente a fiocchi serrati in queste terre, salvo che in alta montagna. Ma noi non siamo ancora in alto, bensì giù in basso, ove i sentieri sono di solito aperti tutto l’inverno».

«Non so se si tratta di un’ingegnosa trovata del Nemico», disse Boromir. «Nel mio paese corre voce che sia in grado di comandare le tempeste nelle Montagne dell’Ombra che si ergono ai confini di Mordor. Ha strani poteri, e molti alleati».

«Il suo braccio è diventato lungo», disse Gimli, «se riesce a trascinare giù dal Nord la neve per importunarci a trecento leghe di distanza».

«Il suo braccio è diventato lungo», disse Gandalf.

* * *

Durante la sosta il vento si calmò e i fiocchi caddero sempre più lenti, finché smise quasi di nevicare. Ripartirono con passo pesante. Ma non ebbero il tempo di fare duecento passi che la tempesta tornò all’assalto con furia rinnovata. Il vento fischiava e la tormenta era accecante. Persino Boromir avanzava penosamente. Gli Hobbit, quasi piegati in due, si inerpicavano con fatica dietro ai loro compagni più alti, ed era chiaro che se la neve continuava non sarebbero stati in grado di proseguire. I piedi di Frodo erano di piombo. Pipino si trascinava. Finanche Gimli, che pur aveva la corporatura robusta e ben piantata caratteristica dei Nani, avanzava borbottando.

La Compagnia s’arrestò all’improvviso, come di comune accordo, senza che alcuna parola fosse stata pronunciata. Udivano rumori raccapriccianti nel buio che li circondava. Forse non si trattava che di un gioco del vento tra le fessure e le crepe della parete rocciosa, tuttavia il suono era quello di stridule grida e di selvaggi scoppi di risa. Dei massi rotolarono giù dai fianchi del monte, ululando sulle loro teste, sfracellandosi sul sentiero accanto a loro. Di tanto in tanto udivano un brontolio sordo, mentre un grosso macigno precipitava da alture nascoste.

«Non possiamo andar oltre, stanotte», disse Boromir. «Chi vuole lo chiami pur vento; vi sono nell’aria voci crudeli, e codeste pietre sono dirette contro di noi».

«Io lo chiamo vento», disse Aragorn. «Il che non implica però che ciò che dici non sia vero. Vi sono molte cose malefiche ed ostili nel mondo, che nutrono poco amore per coloro che vanno su due gambe e che non sono tuttavia in lega con Sauron poiché hanno i loro propri scopi. Alcune sono sulla terra da più tempo di lui».

«Il Caradhras era chiamato il Crudele», disse Gimli, «e godeva di una cattiva nomea anni ed anni addietro, quando di Sauron nessun rumore ancora era giunto in queste contrade».

«Importa poco chi sia il nemico, se non possiamo respingerne l’attacco», disse Gandalf.

«Ma cosa possiamo fare?», gemette Pipino che tremava, appoggiandosi su Frodo e su Merry.

«O fermarci qui dove ci troviamo, o tornare indietro», disse Gandalf. «Inutile proseguire. Un po’ più in su, se la memoria non mi tradisce, il sentiero lascia la scarpata e percorre un ampio e piatto canale ai piedi di un lungo pendio scosceso. Non avremmo lì alcun riparo dalla neve, dalle pietre,… o da qualunque altra cosa».

«Ed è anche inutile tornare indietro mentre perdura la tormenta», disse Aragorn. «Durante la scalata non abbiamo passato alcun posto che offrisse un miglior riparo di questa parete a dirupo che ci sovrasta».

«Riparo!», borbottò Sam. «Se questo è un riparo, allora basta un muro senza neppure il tetto per fare una casa».

La Compagnia si raggruppò allora quanto più vicino poté alla parete rocciosa. Essa era rivolta a sud, e sporgeva leggermente sulla base, tanto che i viaggiatori sperarono potervi trovare una Protezione contro il vento del Nord e contro i massi rovinanti. Ma le raffiche vorticose turbinavano attorno a loro da tutte le parti, e la neve fioccava giù in folate sempre più dense.

Si accoccolarono con la schiena contro la roccia. Bill, il pony, era in piedi, di fronte agli Hobbit, paziente ma depresso, e li riparava un po’; ma la neve giunse presto all’altezza dei garretti, e continuava a salire. Se non avessero avuto dei compagni più alti di loro, gli Hobbit si sarebbero trovati in breve del tutto sepolti. Una gran sonnolenza s’impadronì di Frodo; si sentiva piombare man mano in un sogno caldo e nebbioso. Gli parve che un fuoco gli riscaldasse le dita dei piedi, e dalle ombre al di là del focolare gli giunse la voce di Bilbo. Il tuo diario non mi entusiasma, diceva. Tormenta di neve il 12 gennaio: non era necessario che ritornassi per riferire ciò!

Ma io volevo dormire e riposare, Bilbo, rispose Frodo non senza sforzo; fu allora che si sentì scuotere e si svegliò dolorosamente alla realtà. Boromir l’aveva preso in braccio, estraendolo da un nido di neve.

«Per i Mezzuomini questa sarà la morte, Gandalf», disse Boromir. «È inutile rimaner qui seduti ad aspettare che la neve ci copra fin sopra la testa. Dobbiamo far qualcosa per salvarci».

«Da’ loro questo», disse Gandalf, frugando nel suo fagotto ed estraendone una fiaschetta di cuoio. «Un solo grosso sorso per ognuno di noi. È estremamente prezioso; è miruvor, il cordiale di Imladris. Elrond me l’ha dato prima che ci separassimo. Fallo girare!».

Non appena Frodo ebbe inghiottito un po’ del caldo e fragrante liquore, sentì il proprio cuore empirsi di nuovo vigore e la pesante sonnolenza abbandonare le sue membra. Anche gli altri ripresero i sensi, e insieme speranza e forza. Ma la neve non rallentava. Turbinava tutt’intorno più fitta che mai, ed il vento soffiava ed ululava più forte.

«Che ne dici di un fuoco?», chiese ad un tratto Boromir. «Mi pare che ci stiamo avvicinando al momento della scelta tra il fuoco e la morte, Gandalf. Indubbiamente saremo occultati ad ogni sguardo ostile, quando la neve ci avrà ricoperti, ma non vedo come ciò possa più esserci utile».

«Puoi accendere un fuoco, se ci riesci», rispose Gandalf. «Nel caso vi siano degli osservatori capaci di sopportare una simile tempesta, allora sono anche capaci di vederci, con o senza fuoco».

Ma benché avessero portato seco legna ed esche, secondo il suggerimento di Boromir, non bastò la destrezza degli Elfi e nemmeno l’abilità dei Nani per accendere una fiamma che resistesse al turbinio del vento o incendiasse il combustibile bagnato. Finalmente Gandalf stesso diede loro, riluttante, una mano. Prese un fascio e lo tenne un momento alzato, quindi col comando naur an edralth ammen! lo colpì in centro con un’estremità del proprio bastone. Immediatamente si sprigionò una fiamma verde e blu, e la legna avvampò crepitando.

«Se c’è qualcuno che guarda, di me almeno ha potuto accertare l’identità», disse. «Ho scritto Gandalf è qui in lettere che chiunque, da Gran Burrone alle foci dell’Anduin, saprebbe leggere».

Ma alla Compagnia non importavano più gli osservatori o gli sguardi ostili. La luce del fuoco rallegrava i loro cuori. La legna ardeva allegramente; benché tutt’intorno sibilasse la neve e le pozzanghere di fanghiglia si allargassero sotto i loro piedi, essi poterono riscaldarsi felici le mani alla fiamma. Erano tutti lì in piedi, curvi, e formavano un cerchio in mezzo al quale le fiammelle danzavano. La luce rossa giocava sui loro volti stanchi ed inquieti, mentre alle loro spalle la notte pareva un muro nero.

Ma la legna bruciava veloce, e la neve continuava a fioccare.

* * *

Sul fuoco ormai morente fu gettato l’ultimo fascio di legna.

«La notte si sta facendo vecchia», disse Aragorn. «L’alba non è lontana».

«Se c’è alba che possa trapassare codeste nubi», disse Gimli.

Boromir si allontanò dal cerchio e, levando gli occhi, scrutò il buio. «La neve sta diminuendo», disse, «e il vento è più tranquillo».

Lo sguardo stanco di Frodo era perso tra i fiocchi che cadevano ancora dal buio, per svelare un attimo la loro bianchezza alla luce del fuoco morente; ma per molto tempo non gli parve che accennassero a diminuire. Poi improvvisamente, quando il sonno stava di nuovo impadronendosi di lui, si accorse che il vento era effettivamente calato e che i fiocchi diventavano più grossi e più radi. Lentissima e fioca la luce incominciò a crescere. Infine la neve cessò del tutto.

Divenuta più forte, la luce rivelò un mondo silente ed ammantato. Ai piedi della parete che aveva costituito il loro rifugio, vi erano gobbe e protuberanze e fossi bianchi e deformi sotto i quali il sentiero da loro percorso era completamente nascosto; sulle loro teste i picchi erano immersi in grosse nubi ancor pesanti e minacciose di neve.

Gimli guardò in alto e scosse il capo. «Il Caradhras non ci ha perdonati», disse. «Ha ancora neve da scaricarci addosso, se proseguiamo. Più presto torniamo indietro e scendiamo e meglio è».

Tutti erano d’accordo, ma la ritirata presentava notevoli difficoltà; forse era addirittura impossibile. A pochi passi dalle ceneri del fuoco la neve era alta più di un braccio; più della testa degli Hobbit; in alcuni punti il vento l’aveva sollevata e ammonticchiata in grossi cumuli contro la parete rocciosa.

«Se Gandalf ci precedesse con una fiamma intensa potrebbe liquefare la neve ed aprirvi un varco», disse Legolas. La tormenta l’aveva turbato poco, ed egli era l’unico della Compagnia ad avere il cuore leggero.

«Se gli Elfi sapessero volare al di là delle montagne, potrebbero andare a prendere il Sole per salvarci», rispose Gandalf. «Io ho bisogno di qualcosa su cui lavorare: non posso bruciare la neve».

«Ebbene», disse Boromir, «quando la testa è confusa tocca al corpo servire, si dice dalle parti mie. Il più forte di noi deve cercare una via. Guardate! Benché tutto sia adesso ammantato di neve, il nostro sentiero voltava, salendo, intorno a quella sporgenza rocciosa laggiù. Fu lì che la neve incominciò a pesare sulle nostre spalle. Se riuscissimo ad arrivarvi, forse al di là il cammino sarebbe più agevole. Non credo vi siano più di un paio di centinaia di passi di distanza».

«Ed allora apriamoci un varco sin lì, tu ed io!», disse Aragorn.

Aragorn era il più alto della Compagnia, ma Boromir, di poco più basso, era più corpulento e ben piantato. Egli faceva strada, seguito da Aragorn. Si misero in marcia lentamente, e poco dopo avanzavano con fatica. In alcuni punti la neve arrivava al petto, e pareva allora che Boromir stesse nuotando o scavando con le sue grandi braccia, anziché camminare.

Legolas li osservò qualche istante con un sorriso sulle labbra, quindi si rivolse agli altri. «I più forti devono cercare una via, dite voi? Ma io dico: fate arare il campo al coltivatore, ma scegliete una lontra per nuotare, e per correre veloce su erbe e foglie, o sulla neve… un Elfo».

Dicendo ciò balzò agilmente avanti; ed allora Frodo si accorse per la prima volta, benché da tempo lo sapesse, che l’Elfo non portava stivali, bensì scarpe leggere come al solito, che lasciavano poche tracce sulla neve.

«Addio!», disse a Gandalf. «Io vado a cercare il Sole !». Scattò veloce come un corridore su terreno solido, ed avendo raggiunto rapidamente gli Uomini che avanzavano a stento, li sorpassò, agitando la mano in segno di saluto, proseguì correndo lontano e scomparve dietro il gomito roccioso.

* * *

Gli altri aspettavano accovacciati gli uni accanto agli altri, osservando Boromir ed Aragorn rimpicciolire alla dimensione di minuscoli punti neri in tutto quel candore. Infine anch’essi sparirono alla vista. Il tempo avanzava lento. Le nuvole si abbassarono, ed ora qualche fiocco di neve riprese a cader giù a spirale.

Un’ora, forse, passò, quantunque paresse loro molto di più, e videro infine Legolas che ritornava. Contemporaneamente Boromir ed Aragorn riapparvero sulla curva molto lontani da lui, ed ascesero laboriosamente.

«Ebbene», gridò Legolas arrivando di corsa, «non ho portato il Sole. Esso sta camminando nei campi blu del Sud, ed una piccola spira di neve su questa collinetta del Cornorosso non lo preoccupa minimamente. Ma porto un barlume di buona speranza per coloro che sono condannati a camminare con i piedi. Appena girata la sporgenza, c’è il più grosso cumulo di neve, ed i nostri Uomini Forti furono quasi seppelliti. Li trovai disperati quando tornai a dir loro che il cumulo era poco più spesso di un muro. Dall’altra parte la neve diminuisce improvvisamente e più in giù non è che una copertina bianca per tenere al fresco le punte dei piedi di un Hobbit».

«Ah, è come dicevo io», brontolò adirato Gimli. «Non era una normale tempesta. È la volontà ostile del Caradhras. Esso non ama gli Elfi ed i Nani, e quel cumulo è stato fatto appositamente per tagliarci la via della fuga».

«Ma fortunatamente il tuo Caradhras si è dimenticato che vi sono anche degli Uomini», disse Boromir giunto in quel momento. «E degli Uomini forti e tenaci, se permettete che lo dica; benché forse sareste stati meglio serviti da uomini meno possenti ma muniti di vanghe. Comunque, abbiamo scavato un passaggio nel cumulo; di ciò dovranno esserci grati coloro che non possono correre leggeri come gli Elfi».

«Ma come faremo ad arrivare sin laggiù, anche se avete scavato un passaggio nel cumulo?», disse Pipino, esprimendo il pensiero di tutti gli altri Hobbit.

«Abbiate fiducia!», disse Boromir. «Sono stanco, ma non ho esaurito tutte le mie forze e nemmeno Aragorn. Porteremo noi la piccola gente. Gli altri riusciranno senza dubbio a camminare sul sentiero dietro di noi. Coraggio, Messer Peregrino! Sarai tu il primo».

Sollevò l’Hobbit da terra. «Tieniti forte alle mie spalle! Avrò bisogno delle braccia libere», disse mettendosi in marcia. Aragorn lo seguì con Merry. Pipino si meravigliava della sua forza, al vedere il varco che già aveva aperto con nessun altro attrezzo che le sue grandi membra. Anche adesso, carico com’era, andava allargando la pista per coloro che venivano dietro di lui, gettando di lato la neve man mano che avanzava.

Giunsero infine al grosso cumulo. Si ergeva in mezzo al viottolo di montagna come un improvviso muro verticale la c-ui sommità aguzza, alta il doppio di Boromir, pareva affilata con un coltello. Ma nel centro era stato aperto un varco, e il sentiero saliva e ridiscendeva, arcuato come un ponte. Dall’altra parte Merry e Pipino vennero posati per terra, ove attesero con Legolas che arrivasse il resto della Compagnia.

Poco dopo giunse Boromir con in braccio Sam. Seguivano, sul sentiero stretto ma ormai rassodato, Gandalf che conduceva Bill e Gimli appollaiato sul bagaglio, ed Aragorn che portava Frodo. Attraversarono il cumulo; ma non appena Frodo ebbe posato i piedi a terra, una valanga di pietre e di neve sdrucciolante rotolò giù con un rombo cavernoso. Lo spruzzo accecò quasi la Compagnia che si appiattò contro la parete rocciosa, e quando l’aria tornò limpida videro che il sentiero alle loro spalle era completamente ostruito.

«Basta! Basta!», gridò Gimli. «Partiamo quanto prima possiamo!». Ed infatti con quell’ultimo tiro malvagio la cattiveria della montagna parve estinguersi, come se il Caradhras fosse ormai convinto che gli invasori erano sconfitti e non avrebbero osato tornare. La minaccia di neve si allontanò; le nuvole incominciarono a stracciarsi e la luce si diffuse ovunque.

Come aveva riferito Legolas, videro che la neve si faceva sempre più bassa man mano che scendevano, tanto da permettere agli Hobbit di camminare, anche se con fatica. Presto furono tutti nuovamente sulla piatta sporgenza in cima al pendio scosceso, dove la sera precedente avevano sentito cadere i primi fiocchi di neve.

La mattina era già molto inoltrata. Dall’alto punto in cui si trovavano, volsero indietro lo sguardo sulle terre più basse ad occidente. In lontananza, fra le terre franate ai piedi della montagna, scorgevano la conca dalla quale erano partiti alla scalata del valico.

Le gambe di Frodo dolevano. Era gelato sin nelle ossa e affamato; la testa gli girava al pensiero della lunga e penosa discesa. Macchie nere gli ondeggiarono innanzi agli occhi. Li strofinò, ma le macchie nere rimasero. In basso, lontano, ma pur sempre ad una certa altezza dalle ultime propaggini dei colli, dei punti neri roteavano nell’aria.

«Di nuovo gli uccelli!», disse Aragorn, puntando il dito.

«Non possiamo far nulla», disse Gandalf. «Che siano buoni o malvagi, o che non si occupino di noi, dobbiamo scendere immediatamente. Non attenderemo il calar della notte nemmeno sulle ginocchia del Caradhras!».

Un vento freddo soffiò dietro di loro, allorquando voltarono le spalle al Cancello Cornorosso e discesero inciampando stancamente lungo il pendio. Il Caradhras li aveva sconfitti.

CAPITOLO IV UN VIAGGIO NELL’OSCURITÀ

Era sera, e la luce grigia stava di nuovo attenuandosi rapidamente, allorché si fermarono per la notte. Erano molto stanchi. Le montagne erano velate dal crepuscolo che incupiva, ed il vento soffiava freddo. Gandalf diede a ciascuno un sorso del miruvor di Gran Burrone. Quando ebbero mangiato qualcosa, li convocò a consiglio.

«Non possiamo, naturalmente, ripartire questa notte», disse. «L’attacco al Cancello Cornorosso ci ha sfiniti ed è indispensabile che riposiamo qui per un po’».

«E poi dove andremo?», chiese Frodo.

«Abbiamo ancora il nostro viaggio e la nostra missione innanzi a noi», rispose Gandalf. «Non abbiamo altra scelta che proseguire, oppure ritornare a Gran Burrone».

Il viso di Pipino si illuminò visibilmente al solo udir parlare di ritorno a Gran Burrone; Sam e Merry levarono uno sguardo speranzoso. Ma Aragorn e Boromir rimasero impassibili. Frodo aveva l’aria inquieta.

«Desidererei tanto esser già di ritorno», disse. «Ma come posso, senza onta, far marcia indietro…. a meno che effettivamente non vi sia altra via possibile, e che ci abbiano già sconfitti».

«Hai ragione, Frodo», disse Gandalf; «tornare significa ammettere la sconfitta e affrontarne una ancor maggiore in futuro. Se adesso torniamo, l’Anello dovrà rimanere a Gran Burrone: non saremo più in grado di ripartire. Ed allora prima o poi Gran Burrone sarà assediato, e dopo un breve e amaro periodo verrà distrutto. Gli Spettri dell’Anello sono nemici mortali, eppur non sono ancora che un’ombra del potere e del terrore di cui disporrebbero se l’Anello Dominante tornasse al dito del loro padrone».

«Quindi dobbiamo andare avanti, se c’è una via possibile», disse Frodo con un sospiro. Sam ricadde nella tristezza.

«Ci sarebbe una via da poter tentare», disse Gandalf. «Sin da principio, quando incominciai a riflettere su questo viaggio, pensai che avremmo dovuto tentarla. Ma non è una via piacevole, e non ne ho mai fatto cenno alla Compagnia. Aragorn vi si opponeva, almeno fin quando non avessimo fatto un tentativo di attraversare le montagne».

«Se è una via peggiore di quella del Cancello Cornorosso, allora dev’essere veramente terribile», disse Merry. «Ma faresti bene a dirci tutto e a prepararci subito al peggio».

«La via della quale vi parlo conduce alle Miniere di Moria», disse Gandalf. Gimli solo alzò il capo; un fuoco covava nei suoi occhi. Tutti gli altri, all’udir quel nome, furono invasi dal terrore. Persino agli Hobbit rievocava leggende di oscura paura.

«La via può condurre a Moria, ma come possiamo sperare che conduca al di là di Moria?», disse cupo Aragorn.

«È un nome di cattivo presagio», disse Boromir. «Inoltre non vedo il motivo di andarvi. Se non è possibile attraversare le montagne, rechiamoci a sud, e giunti alla Breccia di Rohan, dove gli uomini sono amici del mio popolo, prendiamo la strada che percorsi io venendo qui. Oppure potremmo proseguire ed attraversare l’Isen, giungendo a Rivalunga ed a Lebennin, ed arrivando a Gondor dalle terre lungo il mare».

«Le cose sono cambiate da quando sei venuto a nord, Boromir», rispose Gandalf. «Non hai udito quel che ti ho detto di Saruman? Con lui avrò forse da sbrigare qualche faccenda personale prima che sia tutto finito. Ma l’Anello non deve avvicinarsi ad Isengard, e bisogna a qualunque costo impedirlo. La Breccia di Rohan è chiusa per noi, sin quando saremo col Portatore.

«Quanto alla strada più lunga, non possiamo disporre di tanto tempo. Impiegheremmo forse un anno per un tale viaggio, attraversando molte terre deserte e senza riparo; eppure esse non ci offrirebbero alcuna sicurezza. Gli occhi vigili sia di Saruman che del Nemico le sorvegliano. Quando venisti a nord, Boromir, non eri altro, per il Nemico, che un casuale viaggiatore del Sud ed un soggetto di poco interesse: il suo cervello era intento ad inseguire l’Anello. Ma tu torni ora quale membro della Compagnia dell’Anello, e sei in pericolo finché rimani con noi. Le insidie aumenteranno ad ogni lega del nostro cammino a cielo scoperto verso il Sud.

«La nostra situazione è diventata più disperata, temo, da quando abbiamo apertamente tentato di valicare la montagna. Non troveremo scampo, se non scompariamo presto alla vista per qualche tempo, coprendo in tal modo le nostre tracce. Il mio consiglio non è di valicare le montagne, né di aggirarle, bensì di passarci sotto. È in ogni caso la strada che il Nemico meno sospetterebbe».

«Non sappiamo quel che sospetta», disse Boromir. «Può darsi che sorvegli tutte le vie, probabili e improbabili. Nel qual caso entrare a Moria significherebbe infilarsi dritti in una trappola, poco meno che bussare alle stesse porte della Torre Oscura. Il nome di Moria è nero».

«Parli di ciò che non conosci, quando paragoni Moria alla roccaforte di Sauron», rispose Gandalf. «Fra di voi, sono io l’unico che sia stato nelle prigioni dell’Oscuro Signore, e soltanto in quelle della sua vecchia e più piccola residenza a Dol Guldur. Coloro che varcano i cancelli di Barad-dûr non tornano indietro. Ma non vi condurrei a Moria se non vi fosse speranza di uscirne. Se vi sono degli Orchi, la loro presenza potrebbe effettivamente esserci nefasta; ma la maggior parte degli Orchi delle Montagne Nebbiose fu dispersa o distrutta durante la Battaglia dei Cinque Eserciti. Le Aquile riferiscono che gli Orchi si stanno nuovamente radunando; ma vi è qualche speranza che Moria sia ancora libera.

«È persino possibile che vi abitino ancora i Nani, e che in qualche profonda dimora dei suoi padri si trovi Balin figlio di Fundin. Comunque sia, bisogna percorrere il sentiero scelto dalla necessità!».

«Io lo percorrerò con te, Gandalf!», disse Gimli. «Andrò a mirare le dimore di Durin, noncurante di ciò che ivi potrebbe attenderci…. se tu sei in grado di trovare le porte che son chiuse».

«Bene, Gimli!», disse Gandalf. «Mi incoraggi. Cercheremo insieme le porte nascoste. E le varcheremo. Fra le rovine dei Nani, la testa di un Nano sarà meno stupefacente che non la presenza di Elfi, Uomini o Hobbit. Eppure non sarà la prima volta che metto piede a Moria. Vi cercai a lungo Thràin figlio di Thròr, dopo che si perse. Attraversai quel luogo, ed uscii dall’altro lato ancor vivo!».

«Anch’io varcai una volta il Cancello dei Rivi Tenebrosi», disse a bassa voce Aragorn; «ma pur essendone anch’io uscito vivo, il ricordo è nefando. Non desidero entrare a Moria una seconda volta».

«Ed io non desidero entrarvi nemmeno una volta», disse Pipino.

«Neanch’io», mormorò Sam.

«Ma certamente!», disse Gandalf. «Chi potrebbe desiderarlo? Ma la domanda è: chi mi seguirà, se vi conduco lì?».

«Io», disse Gimli con ardente desiderio.

«Io», disse penosamente Aragorn. «Tu hai seguito me attraverso la neve quasi sino al disastro, senza una parola di biasimo. Ora sarò io a seguirti…, se quest’ultimo avvertimento non muterà le tue intenzioni. Non penso all’Anello adesso, e nemmeno a noialtri, ma penso a te, Gandalf. E ti dico: se varchi le porte di Moria, attento!».

«Io non andrò», disse Boromir; «a meno che il voto collettivo sia contro di me. Che ne pensano Legolas e la piccola gente? Bisognerà pur udire la voce del Portatore dell’Anello!».

«Non desidero andare a Moria», disse Legolas.

Gli Hobbit non dissero nulla. Sam guardò Frodo. Infine questi parlò. «Io non desidero andarvi», disse; «ma nemmeno desidero rifiutare il consiglio di Gandalf. Prego che non abbia luogo alcuna votazione se prima non vi avremo dormito sopra. Sarà più facile per Gandalf avere dei voti alla luce del mattino, anziché in queste fredde tenebre. Come ulula il vento!».

Alle sue parole, tutti s’immersero in pensosa riflessione. Udivano il vento sibilare tra le rocce e gli alberi, e intorno a loro, negli spazi vuoti della notte, ululati e lamenti.

* * *

Improvvisamente Aragorn balzò in piedi. «Come ulula il vento!», esclamò. «Ulula con voci di lupo. I lupi selvatici sono venuti ad ovest delle Montagne!».

«È dunque necessario attendere il mattino?», chiese Gandalf. «Come vi ho detto, la caccia è incominciata. Anche se viviamo per vedere l’alba, chi ormai vorrà più viaggiare di notte verso sud con i lupi selvaggi alle calcagna?».

«A che distanza si trova Moria?», chiese Boromir.

«Vi era una porta a sud-ovest del Caradhras, circa quindici miglia a volo d’uccello, e forse venti a passo di lupo», rispose cupo Gandalf.

«Ed allora partiamo non appena fa giorno domattina, se possibile», disse Boromir. «Il lupo che si ode è peggiore dell’Orco che si teme».

«Giusto!», disse Aragorn, allentando la sua spada nel fodero. «Ma dove ulula il lupo, anche l’Orco striscia cupo».

«Se solo avessi ascoltato il consiglio di Elrond!», mormorò Pipino a Sam. «Non ce la faccio, malgrado tutto. Non vi è in me abbastanza della razza di Brandobras il Ruggibrante: questi ululati mi ghiacciano il sangue. Non mi sono mai sentito così miserando».

«Il cuore mi è sceso fino ai calcagni, signor Pipino», disse Sam. «Ma non siamo ancora nello stomaco di quelle bestie, e qui con noi c’è gente robusta. Qualunque sorpresa il futuro riservi al vecchio Gandalf, scommetto che non sarà il ventre di un lupo!».

* * *

Per difendersi durante la notte, la Compagnia salì in cima al piccolo colle ai piedi del quale si erano riparati. Esso era incoronato da un gruppetto di vecchi alberi contorti, circondati a loro volta da un cerchio interrotto di rocce erratiche. Nel mezzo accesero un falò, poiché non vi era speranza che buio e silenzio impedissero alle bande di lupi cacciatori di scoprire le loro tracce.

Si sedettero intorno al fuoco, e coloro che non montavano la guardia sonnecchiavano inquieti. Il povero pony Bill tremava e sudava. L’ululato dei lupi era adesso tutt’intorno a loro, a volte più vicino ed a volte più lontano. Nel profondo della notte si videro molti occhi lucidi ardere sulla sommità della collina. Alcuni avanzarono quasi sino al cerchio di pietre. Tra due macigni, immobile, si poteva scorgere la grossa forma scura di un lupo che li osservava. Un urlo raccapricciante proruppe dalle sue fauci, come quello di un capitano che lanciasse le sue truppe all’assalto.

Gandalf si alzò, avanzando a grandi passi col bastone in alto. «Ascolta, Segugio di Sauron!», gridò. «C’è Gandalf qui. Fuggi, se tieni alla tua pelle immonda! Ti incenerirò dal muso alla coda se metterai piede in questo cerchio».

Il lupo ringhiò e si lanciò verso di loro con un gran balzo. In quel momento si udì un sibilo acuto. Legolas aveva scoccato una freccia. Con un orribile grido la forma si accasciò per terra; la freccia elfica gli aveva trafitto la gola. Gli occhi scrutatori si estinsero all’istante. Gandalf ed Aragorn fecero qualche passo avanti, ma il colle era deserto; le schiere di lupi cacciatori erano fuggite. L’oscurità intorno a loro si fece silenziosa, e con i sospiri del vento non giunse più alcun suono lamentoso.

* * *

Vecchia era la notte, e ad ovest la luna calante stava ormai tramontando, e sprazzi di raggi traversavano le nubi squarciate. D’un tratto Frodo trasalì nel sonno. Una tempesta di ululi proruppe all’improvviso, feroce e selvaggia, tutt’intorno all’accampamento. Una fitta schiera di lupi selvatici si era radunata silenziosamente, ed ora li attaccava contemporaneamente da tutti i lati.

«Gettate combustibile sul fuoco!», gridò Gandalf agli Hobbit. «Sguainate le vostre lame, e mettetevi schiena contro schiena!».

Nel bagliore di luce della nuova legna che avvampava, Frodo scorse molte figure grigie saltare entro il cerchio di pietre. Altre seguirono, ed altre ancora. D’un colpo, la spada di Aragorn trafisse la gola di un enorme capo-banda; accanto a lui, Boromir spazzò via la testa di un altro. Lì vicino Gimli roteava la sua ascia di Nano, ben saldo sulle robuste gambe divaricate. Le frecce di Legolas fischiavano.

Nella luce vacillante del fuoco, Gandalf parve improvvisamente ingigantirsi: si eresse, una grande figura minacciosa pari al monumento di qualche antico re di pietra innalzato in cima ad un colle. Chinandosi come una nube, colse un ramo incandescente e andò incontro ai lupi. Essi retrocedettero innanzi a lui. Allora Gandalf lanciò in aria il tizzone fiammeggiante; una vampa si levò da esso, improvvisa e bianca come un lampo; la sua voce rombò come tuono.

«Naur an edralth ammen! Naur dan i ngaurboth!», gridò.

Con un mugghio ed un crepitio, dall’albero sulla sua testa fiorirono e verdeggiarono fiamme accecanti. Il fuoco volò da una chioma all’altra; l’intera collina fu incoronata da una luce abbagliante. Spade e pugnali dei difensori scintillavano e vibravano. L’ultima freccia di Legolas prese fuoco in volo, e si tuffò incandescente nel cuore di un grosso capo-tribù. Tutti gli altri fuggirono.

Lentamente il fuoco morì, e non rimase altro che qualche favilla e qualche fiocco di cenere; un fumo aspro saliva a spirale dai ceppi arsi, per poi allontanarsi scuro dalla collina, quando la prima luce dell’alba apparve vaga in cielo. I nemici erano sbaragliati e non tornarono più.

«Che vi avevo detto, signor Pipino?», disse Sam, riponendo la spada nella guaina. «I lupi non lo prenderanno mai. Quello sì che era un apritore d’occhi! Un altro po’, e quel tuono mi strappava i capelli dalla testa!».

* * *

Giunta la piena luce del mattino, nessuna traccia dei lupi fu trovata, e invano cercarono i corpi dei morti. Non vi era altro segno del combattimento che gli alberi inceneriti e le frecce di Legolas qua e là sulla cima del colle. Erano tutte intatte, salvo una di cui esisteva la sola punta.

«È come temevo», disse Gandalf. «Questi non erano comuni lupi in caccia di prede nelle zone selvagge. Facciamo presto colazione e partiamo subito!».

Quel giorno il tempo cambiò nuovamente, quasi fosse agli ordini di qualche potere che più non aveva bisogno di neve, poiché essi si erano ritirati dal valico; un potere che adesso desiderava una limpida luce nella quale ogni cosa moventesi nei luoghi selvaggi fosse visibile da molto lontano. Il vento, che di notte aveva girato a nord e poi a nord-ovest, ora era caduto. Le nubi scomparvero verso sud, ed il cielo si aprì, blu e profondo. Mentre in piedi sul fianco della collina si preparavano a partire, un fioco chiarore di sole irradiò le vette dei monti.

«Dobbiamo raggiungere le porte prima del calar del sole», disse Gandalf, «o temo che non le raggiungeremo mai. Non sono lontane, ma il nostro sentiero potrebbe essere tortuoso, perché qui Aragorn non può farci da guida. Egli ha percorso di rado queste terre, ed io mi sono recato ai piedi delle mura occidentali di Moria una volta sola, e molto tempo fa.

«Vedete, si trova lì», disse, puntando il dito a sud-ovest ove i fianchi delle montagne piombavano a dirupo nelle ombre ai loro piedi. In lontananza si poteva vagamente scorgere una linea di spoglie rupi, al centro della quale si ergeva, più alta, una grande parete grigia. «Quando lasciammo il valico, vi condussi verso sud e non al nostro punto di partenza, come alcuni di voi avranno forse notato. Ed è stato un bene, perché adesso abbiamo parecchie miglia in meno da percorrere, e bisogna far presto. Andiamo!».

«Non so che cosa sia meglio sperare», disse cupo Boromir: «che Gandalf trovi quel che cerca, o che giunti alla parete di rupi scopra che i cancelli sono scomparsi per sempre. Ambedue le scelte paiono nefaste, e l’essere intrappolati tra i lupi e le rupi sembra la cosa più probabile. Guidateci!».

* * *

Gimli adesso camminava in testa a fianco dello stregone, tanto era impaziente di giungere a Moria. Assieme, condussero la Compagnia nuovamente verso le montagne. L’unica via per Moria da occidente seguiva anticamente il corso di un fiume, il Sirannon, che sbucava dalle radici delle rupi vicino a quello ch’era stato il sito dei Cancelli. Ma o Gandalf era fuori strada, o altrimenti la terra si era trasformata negli ultimi anni; egli infatti non trovò il fiume ove lo cercava, poche miglia più a sud del loro punto di partenza.

La mattina volgeva verso il mezzogiorno, e ancora la Compagnia vagava e si affaticava in una spoglia zona di pietre rosse. In nessun posto vi era scintillio di acque o rumore di flutti. Tutto era arido e squallido. Si sentirono stringere il cuore. Non un essere vivente, non un uccello in cielo; ma quel che la notte avrebbe recato seco cogliendoli in quelle contrade sperdute, nessuno di loro desiderava immaginarlo.

D’un tratto Gimli, che era andato avanti, si voltò a chiamarli. In piedi su di un poggio, indicava verso destra. Essi si affrettarono a raggiungerlo, e videro ai loro piedi un canale stretto e profondo. Era vuoto e silente, ed appena un filo d’acqua scorreva tra i sassi marroni o color rosso dell’antico letto; ma sulla sponda ove essi si trovavano, un sentiero alquanto accidentato e ruinato serpeggiava tra le mura in rovina e le pietre del selciato di un’antica strada maestra.

«Ah! Eccolo infine!», disse Gandalf. «È qui che scorreva il fiume: Sirannon, il Rivo del Cancello solevano chiamarlo. Ma che ne sia dell’acqua solitamente rapida e rumorosa, non riesco ad immaginarlo. Venite! Dobbiamo affrettarci. Siamo in ritardo!».

* * *

La Compagnia era stanca, ed i piedi dolevano; ciò nonostante proseguirono faticosamente lungo l’aspro e tortuoso viottolo per parecchie miglia. Il sole incominciò a volgere da mezzogiorno verso occidente. Dopo una breve sosta ed una rapida colazione si rimisero in marcia. Innanzi a loro le montagne erano aggrondate, ma il sentiero percorreva un’angusta valle dalla quale non potevano scorgere che le falde superiori e le lontane vette orientali.

Infine giunsero a una curva a gomito. Lì la strada, che sino allora aveva puntato verso sud, stretta fra l’orlo del canale ed uno strapiombo sulla sinistra, voltava per dirigersi di nuovo ad est. Superato il gomito, videro una bassa rupe di non più di dieci braccia, dalla cima spezzata e frastagliata. Da essa gocciolava lenta dell’acqua, attraverso una larga fessura che pareva scavata da una cascata un tempo abbondante ed impetuosa.

«Le cose sono proprio trasformate!», disse Gandalf. «Ma non vi è da sbagliarsi, il posto è questo. Ecco tutto ciò che rimane delle Scalinacascate! Se ricordo bene, vi era una rampa di scale tagliata nel fianco della roccia, mentre la strada maestra proseguiva a sinistra. arrampicandosi con molti meandri sino al terreno pianeggiante lì in cima. Al di là delle cascate una vallata pianeggiante si estendeva sino alle Mura di Moria, attraversata dal Sirannon e dalla strada che lo fiancheggiava. Andiamo a vedere come stanno adesso le cose!».

Trovarono senza difficoltà le scale di pietra, e Gimli saltò su rapidamente, seguito da Gandalf e da Frodo. Quando giunsero in cima si resero conto di non poter andar oltre, e la causa del prosciugamento del Rivo del Cancello fu loro svelata. Alle loro spalle il Sole morente inondava il fresco cielo d’occidente d’un oro scintillante. Innanzi si estendeva un oscuro lago immobile. Né il cielo né il tramonto si riflettevano sulla cupa superficie. Il Sirannon era stato arginato ed empiva tutta la valle. Al di là delle acque minacciose si ergevano rupi imponenti dalle severe facciate pallide nella luce che sbiadiva: estreme ed impenetrabili. Nessuna traccia di cancelli o ingressi, nessuna fessura, nessuna crepa poté vedere Frodo nella pietra accigliata.

«Ivi sono le Mura di Moria», disse Gandalf, indicando al di là dell’acqua. «E ivi si apriva il Cancello, un tempo, la Porta Elfica in fondo alla via dell’Agrifogliere che noi abbiamo percorso. Ma qui il passaggio è bloccato. Nessuno della Compagnia, immagino, vorrà nuotare attraverso quest’acqua cupa sul finir del giorno. Ha un aspetto malsano».

«Dobbiamo trovare un sentiero che ci porti sulla riva nord», disse Gimli. «La prima cosa da fare è arrampicarsi su per il sentiero principale e vedere dove conduce. Anche se non vi fosse il lago, non riusciremmo a far salire queste scale al nostro pony portabagagli».

«In ogni caso non possiamo portare la povera bestia nelle Miniere», disse Gandalf. «La via attraverso le montagne è una via buia, e vi sono dei punti stretti e ripidi che il pony non potrebbe oltrepassare, anche se noi lo possiamo».

«Povero vecchio Bill!», disse Frodo. «Non avevo pensato a questo. Il povero Sam! Ne sarà disperato».

«Mi dispiace», disse Gandalf. «Il povero Bill è stato un compagno utile, e mi stringe il cuore doverlo mandare adesso al suo destino. Avrei viaggiato con minor peso e senza animali, anche senza questo al quale Sam vuole bene, se mi avessero lasciato fare quel che volevo. Sin dal primo momento ho temuto che saremmo stati costretti a prendere questa strada».

* * *

Il giorno si avvicinava alla fine, e fredde stelle rilucevano alte in cielo al di sopra del tramonto, quando la Compagnia, dopo essersi arrampicata con la massima rapidità possibile lungo i pendii, giunse sul lato del lago. Dove la sua larghezza era massima, non pareva misurare più di cinque o seicento passi. Quanto si estendesse a sud, non potevano discernerlo alla luce morente, ma l’estremità nord non distava più di mezzo miglio dal posto in cui essi si trovavano; inoltre, tra la parete rocciosa e l’orlo dell’acqua, vi era un bordo di terra asciutta. Affrettarono il passo, poiché avevano ancora un paio di miglia da percorrere prima di raggiungere sulla riva opposta il punto verso il quale Gandalf si dirigeva; dopo di che egli avrebbe ancora dovuto trovare le porte.


Giunti all’angolo più settentrionale del lago, trovarono una piccola cala che sbarrava la strada. Era verde e stagnante, un braccio viscido e melmoso teso verso le colline che lo rinchiudevano. Gimli avanzò imperterrito, scoprendo che l’acqua era poco profonda e non arrivava oltre la caviglia, sul bordo. Camminarono in fila indiana dietro di lui, studiando accuratamente ogni passo, perché in fondo agli stagni melmosi vi erano sassi viscidi e sdrucciolevoli, appoggi infidi e traditori. Frodo rabbrividì con disgusto al contatto della buia acqua repellente contro i suoi piedi.

Allorché Sam, l’ultimo della Compagnia, condusse Bill sul terreno asciutto dell’altra riva, alle loro orecchie giunse un lieve suono: un sibilo e un leggero tonfo, come se un pesce avesse turbato la superficie dell’acqua. Voltatisi rapidamente, videro delle piccole onde, orlate d’ombra nella luce morente: dei grandi anelli, partiti da un punto lontano nel lago, andavano ingrandendosi man mano che si avvicinavano alle rive. Si udì un gorgoglio, poi tutto fu silenzio. Il crepuscolo si oscurava, e gli ultimi bagliori del sole calante erano velati dalle nubi.

Gandalf avanzava ora con passo estremamente veloce, e gli altri lo seguivano come potevano. Raggiunsero la striscia di terreno asciutto tra il lago e le rupi: era stretta, in parecchi punti non misurava più di dieci passi, e rocce e pietre franate la ingombravano; ma trovarono una via, contro la parete rocciosa, e più lontano possibile dalle acque scure. Un miglio più a sud, incontrarono sulla riva degli agrifogli. Tronconi e rami morti marcivano nelle basse acque, e parevano i resti di un’antica boscaglia, o di una siepe che in passato poteva aver fiancheggiato la strada attraverso la vallata sommersa. Ma ai piedi delle rupi s’innalzavano, ancor vivi e forti, due alti alberi, più grandi di qualsiasi albero d’agrifoglio che Frodo avesse mai visto o immaginato. Le loro enormi radici si diramavano dal muro sin nell’acqua. Visti in lontananza dalla cima delle Scalinacascate, erano parsi semplici cespugli, sotto le rupi giganteggianti; ma ora si ergevano inflessibili, scuri e silenziosi, proiettando profonde ombre notturne intorno ai loro piedi, pari alle colonne di guardia alla fine delle strade.

«Ebbene, eccoci finalmente arrivati!», disse Gandalf. «Qui terminava la Via Elfica proveniente dall’Agrifogliere. L’agrifoglio era il simbolo del popolo di quella contrada, ed essi lo piantarono qui per indicare la fine del loro territorio; la Porta Occidentale fu infatti costruita soprattutto per permetter loro di commerciare con i Signori di Moria. Quelli erano giorni più felici, quando a volte tra gente di razza diversa vi era un’intima amicizia, persino fra i Nani e gli Elfi».

«Non fu colpa dei Nani se l’amicizia svanì», disse Gimli. «Mai ho sentito che fosse colpa degli Elfi», disse Legolas. «Io ho sentito l’una e l’altra cosa», disse Gandalf; «ed ora non voglio dare un giudizio. Ma prego almeno voi due, Legolas e Gimli, di essere amici e aiutarmi; ho bisogno dell’uno quanto dell’altro. Le porte sono chiuse e nascoste, e più presto le troviamo tanto meglio sarà. La notte è vicina!».

Rivolgendosi agli altri disse: «Mentre io cerco, sarebbe bene che ognuno si preparasse ad entrare nelle Miniere. Temo infatti che qui dobbiamo dire addio alla nostra brava bestia da soma. Lasciate gran parte degli indumenti portati per proteggerci dal freddo: non ve ne sarà bisogno lì all’interno, e nemmeno, spero, una volta usciti dell’altra parte, durante il viaggio verso sud. Ognuno di noi deve invece portare una parte di ciò che si trova sulla groppa del pony, soprattutto i viveri e gli otri con l’acqua».

«Ma non potete abbandonare il povero vecchio Bill in questo posto deserto, signor Gandalf!», gridò Sam, incollerito e costernato. «Non posso nemmeno pensarci. Dopo che ha fatto tanta strada e sopportato un’infinità di guai!».

«Mi dispiace, Sam», disse lo stregone. «Ma quando la Porta si aprirà, non penso che sarai capace di trascinarvi dentro il tuo Bill, nella lunga oscurità di Moria. Dovrai scegliere tra Bill e il tuo padrone».

«Seguirebbe il signor Frodo sin nel covo di un drago, se ve lo conducessi», protestò Sam. «Sarebbe poco meno di un assassinio abbandonarlo con tutti questi lupi in giro».

«Non sarà un assassinio, spero», disse Gandalf. Posò una mano sulla testa del pony e gli parlò a bassa voce. «Vai, e che parole di guardia e di guida ti accompagnino», disse. «Sei una bestia saggia, e hai appreso molto a Gran Burrone. Prendi vie che ti conducano in luoghi ove cresce l’erba, onde poter giunger in tempo alla casa di Elrond, o in qualunque altro posto tu desideri andare.

«Ecco, Sam! Ha le stesse probabilità nostre di sfuggire ai lupi e ritornare a casa».

Sam, cupo e rabbuiato, rimase in piedi accanto al pony senza aprir bocca. Bill, che parve capire a perfezione di cosa si trattasse, gli strofinò il muso contro l’orecchio. Sam scoppiò in lacrime, e si mise ad allentare, impacciato e nervoso, le cinghie, scaricando i fagotti dal pony e gettandoli per terra. Gli altri sceveravano gli oggetti, ammucchiando quelli che potevano lasciare, e dividendo gli altri in parti uguali.

Quando ebbero finito, si voltarono ad osservare Gandalf. Pareva che non avesse fatto nulla. In piedi tra i due alberi, fissava la nuda parete di rupi, come se il suo sguardo le potesse traforare. Gimli girovagava, dando qua e là con la sua ascia dei colpetti sulla pietra. Legolas teneva l’orecchio premuto contro la roccia, come se stesse in ascolto.

«Ebbene, eccoci qui tutti pronti», disse Merry; «ma dove sono le Porte? Non ne vedo traccia».

«Le Porte dei Nani non sono fatte per esser viste quando sono chiuse», disse Gimli. «Sono invisibili, ed i loro padroni stessi non possono trovarle o aprirle se il segreto che le governa è stato obliato».

«Ma questa Porta non fu costruita per essere un segreto conosciuto esclusivamente dai Nani», disse Gandalf, scuotendosi improvvisamente e voltandosi verso di loro. «A meno che le cose non siano del tutto cambiate, occhi che sanno cosa cercare dovrebbero poter scoprire i segni».

Egli avanzò verso la parete. Nello spazio tra le due ombre degli alberi, vi era un posto liscio ove egli fece scorrere le proprie mani avanti e indietro, mormorando sottovoce alcune parole. Quindi indietreggiò d’un passo.

«Guardate!», disse. «Vedete qualcosa adesso?».

La Luna brillava ora sulla grigia faccia della rupe; ma essi non scorsero nulla per un certo tempo. Poi, lentamente, sulla superficie sfiorata dalle mani dello stregone, apparvero pallide linee, simili ad esili vene d’argento nella pietra. Da principio non erano più grosse dei fili di una ragnatela, tanto che luccicavano incerte là ove la Luna le sorprendeva; ma diventarono man mano più grandi e più precise, fin quando se ne poté indovinare il disegno.

In cima, nel punto più alto che Gandalf potesse raggiungere, vi era un arco sul quale erano incise in un carattere elfico lettere intrecciate. Sotto si poteva scorgere, benché i fili fossero in alcuni posti confusi o interrotti, il contorno di un’incudine e di un martello sormontati da una corona con sette stelle. Più in basso vi erano due alberi, dai rami dei quali pendevano delle lune crescenti. Ma ciò che irradiava la luce più brillante, era un’unica stella a molte punte, nel centro della porta.

«Sono gli emblemi di Durin!», esclamò Gimli.

«È l’Albero degli Alti Elfi!», disse Legolas.

«È la Stella della Casa di Foanor», disse Gandalf. «Sono intarsi d’ithildin, che riflette solo i raggi di luna e di stelle, e dorme sin quando non sente il tocco di chi pronunzia parole ormai da tempo obliate nella Terra di Mezzo. Io le udii molti anni addietro, e dovetti riflettere profondamente prima di riuscire a rammentarle».

«Cosa dice l’iscrizione?», chiese Frodo, che stava cercando di decifrare la scritta sull’arco. «Credevo di conoscere i caratteri elfici, ma questi non li so leggere».

«Le parole sono nella lingua elfica in uso nei Tempi Remoti nell’Ovest della Terra di Mezzo», rispose Gandalf. «Ma non dicono nulla di importante per noi. Dicono soltanto: Le Porte di Durin, Signore di Moria. Dite, amici, ed entrate. E sotto vi è scritto, in caratteri piccoli e pallidi: Io, Narvi, le led. Celebrimbor dell’Agrifogliere tracciò questi segni».

«Cosa significa: Dite, amici, ed entrate?», chiese Merry.

«È abbastanza semplice», disse Gimli. «Se siete amici, dite il lasciapassare, e le porte si apriranno, permettendovi di entrare».

«Sì», disse Gandalf, «queste porte sono probabilmente governate da parole. Alcuni cancelli dei Nani si aprono solo in determinati momenti, o per date persone; altri hanno serrature e chiavi necessarie dopo aver rispettato tempo e parole. Queste porte non hanno chiave. Ai tempi di Durin non erano segrete. Solevano restar aperte, custodite da guardie qui sedute. Ma nel caso fossero chiuse, chiunque conoscesse la parola magica poteva pronunziarla ed entrare. Perlomeno così è riferito dai testi, non è vero, Gimli?».

«È vero», rispose il Nano. «Ma quale fosse la parola, più non si ricorda. Narvi e la sua arte e tutta la sua gente sono scomparsi dalla terra».

«Ma non conosci tu la parola, Gandalf?», chiese Boromir stupefatto.

«No!», disse lo stregone.



Gli altri ne furono costernati; soltanto Aragorn, che conosceva bene Gandalf, rimase silenzioso ed impassibile.

«A che pro ci hai dunque condotti in questo posto maledetto?», gridò Boromir, guardandosi dietro e rabbrividendo alla vista delle cupe acque. «Ci hai detto che attraversasti una volta le Miniere. Come hai fatto, se non sapevi come entrare?».

«La risposta alla tua prima domanda, Boromir», disse lo stregone, «è che non conosco la parola…,. non ancora. Ma presto vedremo. Inoltre», soggiunse con un bagliore negli occhi, sotto le irte sopracciglia, «potrai chiedere ragione delle mie azioni dopo che esse siano risultate inutili. Quanto alla tua seconda domanda: dubiti forse della mia storia? O non hai più cervello? Non entrai da questa parte: venivo dall’Est.

«Se ti può interessare, ti dirò che queste porte si aprono verso l’esterno. Da dentro le puoi spalancare con le tue mani. Da fuori nulla le sposterà, se non il magico comando. È impossibile forzarle verso l’interno».

«Che hai dunque intenzione di fare?», chiese Pipino, per niente scoraggiato dalle sopracciglia rizzate dello stregone.

«Colpire le porte con la tua testa, Peregrino Tuc», disse Gandalf. «Ma se ciò non le frantuma, e mi sarà concesso un poco di pace dalle domande sciocche, cercherò le parole segrete.

«Un tempo conoscevo qualsiasi incantesimo, in tutte le lingue degli Elfi, degli Uomini, o degli Orchi, che fosse mai stato adoperato per un tale scopo. Ne ricordo ancora un paio di centinaia senza dover frugare nella mente. Ma basteranno, credo, pochi tentativi; e non avrò bisogno di fare appello a Gimli per conoscere vocaboli del segreto linguaggio dei Nani, che essi non insegnano a nessuno. Le parole erano elfiche, come la scritta sull’arco: su ciò mi pare non vi sia dubbio».

Si avvicinò nuovamente alla rupe, e toccando leggermente col bastone la stella d’argento che brillava in centro sotto il segno dell’incudine, disse con tono di comando:

Annon edbellen, edro hi ammen!

Fermas nogothrim, lasto beth lammen!

Le linee d’argento svanirono, ma la nuda e grigia roccia non si mosse.

Ripeté molte volte le medesime parole in ordine differente, o variandone qualcuna. Quindi tentò con altri incantesimi, uno dopo l’altro, con voce ora più forte e rapida, ora bassa e lenta. Infine pronunziò molti vocaboli isolati in lingua elfica. Nulla accadde. La rupe giganteggiava nella notte, le innumerevoli stelle ardevano già, il vento soffiava freddo, e le porte rimanevano serrate,

Di nuovo Gandalf si accostò alla parete, ed alzando le braccia parlò con toni di comando e collera crescente. Edro, edro! gridò, colpendo la roccia col suo bastone. Apriti, apriti! urlò, ripetendo poi lo stesso ordine in tutte le lingue che fossero mai state parlate nell’Ovest della Terra di Mezzo. Alla fine lanciò per terra il suo bastone e si sedette in silenzio.

* * *

In quell’istante il vento portò da lontano alle loro orecchie attente l’ululo dei lupi. Bill il pony s’impennò dalla paura, e Sam con un balzo gli fu accanto, sussurrandogli dolcemente.

«Non farlo scappare!», disse Boromir. «Pare che avremo ancora bisogno di lui, se i lupi non ci trovano prima. Come odio questo immondo stagno!». Si chinò, e raccolse un grosso sasso che lanciò lungi nelle scure acque.

Il sasso scomparve con un debole schiocco; ma contemporaneamente, si udirono un sibilo ed un gorgoglio. Grandi anelli di onde si formarono in superficie nel punto ove la pietra era caduta, e si avvicinarono lentamente ai piedi delle rupi.

«Perché l’hai fatto, Boromir?», disse Frodo. «Odio anch’io questo posto, ed ho paura. Paura di che cosa, non lo so: non dei lupi, non del buio oltre le porte, bensì di qualcos’altro. Ho paura dello stagno. Non disturbarlo!».

«Se soltanto potessimo andarcene!», disse Merry.

«Perché Gandalf non si affretta a fare qualcosa?», disse Pipino.

Gandalf non si curava di loro. Era seduto con la testa china, per la disperazione o per la profonda riflessione. Il lugubre ululato dei lupi risuonò per la seconda volta. Le increspature dell’acqua crescevano e si avvicinavano; alcune lambivano già la riva.

Con una subitaneità che fece trasalire tutta la Compagnia, lo stregone balzò in piedi. Stava ridendo! «Ci sono!», gridò. «Certo! Certo! Assurdamente semplice, come tutti gli enigmi, una volta scopertane la soluzione».

Raccolse il bastone e si rizzò davanti alla rupe, dicendo con voce limpida: Mellon!

La stella brillò un attimo, quindi scomparve nuovamente. Silenziosamente apparvero i contorni di una grande porta, di cui prima non era visibile alcuna fessura né alcuna commessura. Si divise lentamente nel mezzo, e sempre lentamente si aprì verso l’esterno, finché i due battenti poggiarono contro la rupe. Dall’apertura si poteva intravedere una scala buia arrampicarsi ripida; ma oltre i primi gradini l’oscurità era più profonda della notte. La Compagnia guardava allibita.

«Avevo torto, dopo tutto», disse Gandalf, «ed anche Gimli. Merry era l’unico sulla giusta via. La parola chiave era innanzi a noi, scritta sull’arco! La traduzione avrebbe dovuto essere: Dite «Amici», ed entrate. Era sufficiente che pronunziassi la parola elfica che significa amici, perché le porte si aprissero. Estremamente semplice. Troppo semplice per un esperto maestro delle tradizioni in giorni di diffidenza come questi. Allora i tempi erano più felici. E adesso in marcia!».

* * *

Egli incedette, e posò il piede sul gradino più basso. Ma in quel momento accaddero parecchie cose. Frodo si sentì afferrare una caviglia, e cadde con un grido. Bill il pony nitrì selvaggiamente di terrore e, fatta una giravolta, fuggì a rotta di collo lungo la riva del lago per scomparire nell’oscurità. Sam si lanciò all’inseguimento, ma udendo l’urlo di Frodo, tornò correndo sui propri passi, profondendosi in pianti ed imprecazioni. Gli altri, voltatisi d’un tratto, videro ribollire le acque del lago come se una marea di serpenti giungesse nuotando dall’estremità sud.

Dallo stagno era strisciato fuori un lungo e sinuoso tentacolo; era verde pallido, luminoso e bagnato. La sua punta ramificata teneva stretto il piede di Frodo, e lo trascinava nell’acqua. Sam inginocchiato lì accanto lo stava ora pugnalando.

Il braccio lasciò la presa, e Sam tirò via Frodo, chiamando aiuto. Venti altri tentacoli emersero dalle onde. Le scure acque bollirono ed emanarono un fetido tanfo.

«Nel cancello! Su per le scale! Presto!», gridò Gandalf, e con un balzo tornò indietro. Destandoli dall’orrore che sembrava aver paralizzato tutti eccetto Sam nel punto ove si trovavano, li spinse avanti.

Fecero appena in tempo. Sam e Frodo erano saliti solo di un paio di gradini, e Gandalf stava incominciando ad arrampicarsi, quando i tentacoli brancolanti attraversarono contorcendosi la stretta riva, per tastare la parete rocciosa ed i battenti della porta. Uno di essi si dimenò sulla soglia, lucido al chiarore lunare. Gandalf si voltò, fermandosi un attimo. Se stava riflettendo sulla parola da adoperare per richiudere il cancello dall’interno, ciò che faceva era superfluo. Un’infinità di braccia avvinghianti afferrò la porta da ambedue i lati, e con orribile forza la richiuse. I battenti sbatacchiati echeggiarono con fracasso, e tutto scomparve alla vista. Il rumore sordo di qualcosa lacerato e frantumato giunse filtrato dal poderoso macigno.

Sam, avviticchiato al braccio di Frodo, crollò su di un gradino nella vuota oscurità. «Povero vecchio Bill! Lupi e serpenti! Ma i serpenti furono veramente troppo per lui. Ho dovuto scegliere, signor Frodo. Dovevo venire con voi».

Udirono Gandalf ridiscendere le scale e lanciare il suo bastone contro la porta. Vi fu un fremito nella pietra, e le scale tremarono, ma le porte non si aprirono.

* * *

«Bene, bene!», disse lo stregone. «Il passaggio alle nostre spalle è bloccato adesso, e vi è un’unica via d’uscita… dall’altro lato delle montagne. A giudicar dai rumori penso che innanzi al cancello siano stati accumulati dei macigni, e gli alberi sradicati. Mi rincresce, perché gli alberi erano belli, e da molto tempo ornavano la porta».

«Sentii che qualcosa di orribile era vicino, sin dal momento in cui i miei piedi toccarono per la prima volta l’acqua», disse Frodo. «Che essere era quello? O erano più di uno?».

«Lo ignoro», rispose Gandalf; «ma le braccia erano tutte guidate da un unico scopo. Qualcosa è strisciato o è stato spinto fuori dalle cupe acque sotto le montagne. Vi sono cose più antiche e più immonde degli Orchi nei luoghi profondi della terra». Egli non espresse però a voce alta il pensiero che qualunque fosse la creatura vivente nel lago, essa, di tutta la Compagnia, aveva afferrato per primo Frodo.

Boromir mormorò sottovoce, ma la pietra echeggiante amplificò il suono che divenne un rauco sussurro percepibile da tutti: «Nei luoghi profondi della terra! Ed ivi stiamo andando contro il mio desiderio. Chi ci condurrà ora in questa oscurità mortale?».

«Vi condurrò io», disse Gandalf, «e Gimli camminerà al mio fianco. Seguite il mio bastone!».

* * *

Lo stregone salì i grandi scalini, giungendo in capo alla fila; la punta del suo bastone alzato irradiava un pallido bagliore.

L’ampia scalinata era solida e intatta. Contarono duecento gradini, bassi e larghi, in cima ai quali trovarono un’entrata ad arco con pavimento pianeggiante che conduceva nel buio.

«Sediamoci a riposare, e mangiamo qualcosa qui sul pianerottolo, poiché non siamo riusciti a trovare una sala da pranzo!», disse Frodo. Stava incominciando a scrollarsi di dosso il terrore del braccio brancolante, e si sentì d’un tratto estremamente affamato.

La proposta fu accolta da tutti con entusiasmo; si sedettero quindi sugli ultimi gradini, figure indistinte nelle tenebre. Quando ebbero mangiato, Gandalf diede ad ognuno di essi un terzo sorso del miruvor di Gran Burrone.

«Non durerà più tanto, purtroppo», disse; «ma credo che ne abbiamo bisogno dopo lo spavento alla porta. E a meno che la fortuna non ci sia straordinariamente propizia, avremo bisogno di ciò che rimane prima di giungere al cospetto dell’uscita! Siate anche cauti con l’acqua! Vi sono molti ruscelli e molti pozzi nelle miniere, ma è bene non toccarli. Potremmo non aver modo di riempire otri e bottiglie, prima di arrivare giù nella Valle dei Rivi Tenebrosi».

«Quanto tempo sarà necessario per giungervi?», chiese Frodo. «Non ti so dire», rispose Gandalf. «Dipende da molti fattori. Ma proseguendo dritto senza incidenti e senza smarrirci, ci vorranno due o tre tappe, suppongo. Non possono essere meno di quaranta miglia dalla Porta Occidentale al Cancello Est in linea retta, e probabilmente la strada serpeggerà parecchio».

* * *

Si rimisero in marcia dopo un brevissimo riposo. Erano tutti desiosi di terminare al più presto il viaggio nell’oscurità, e disposti, stanchi com’erano, a continuare ad avanzare per molte altre ore. Gandalf camminava in testa come prima; nella mano sinistra teneva levato il suo bastone luminoso, che illuminava il terreno innanzi ai suoi piedi; nella destra teneva la spada Glamdring. Lo seguiva Gimli, i cui occhi brillavano nella penombra quando volgeva il capo da una parte e dall’altra. Dietro il Nano camminava Frodo, con la corta spada, Pungolo, sguainata. Non vi era alcun bagliore sulle lame di Pungolo e di Glamdring fatto riconfortante, poiché essendo opera di fabbri elfici dei Tempi Remoti, le spade scintillavano d’una gelida luce quando degli Orchi erano nelle vicinanze. Frodo era seguito da Sam, e questi a sua volta da Legolas, dai giovani Hobbit e da Boromir. Nel buio, alla retroguardia, Aragorn camminava fosco e silenzioso.

Il tunnel, dopo un paio di svolte, cominciò a scendere. Proseguì a lungo verso il basso prima di riprendere il percorso pianeggiante. L’aria si fece calda e soffocante, ma non malsana, e di tanto in tanto sentivano in viso correnti più fresche uscire da aperture seminascoste nelle pareti. Di queste ve ne erano parecchie. Al pallido raggio del bastone di Gandalf, Frodo intravide scale ed archi, ed altri corridoi e tunnel, che salivano verso l’alto, o piombavano giù ripidi, o si aprivano nel buio e nel vuoto ai due lati del loro sentiero. Confondevano le idee al punto da paralizzare qualsiasi ricordo.

Gimli aiutava Gandalf ben poco, salvo che col suo robusto coraggio. Egli almeno non era, come tutti gli altri, terrorizzato dall’oscurità in se stessa. Spesso lo stregone lo consultava nei punti ove la scelta della via era dubbiosa; ma era sempre Gandalf ad avere la parola finale. Le Miniere di Moria erano vaste ed intricate più di quanto Gimli non potasse immaginare, pur essendo figlio di Glóin e Nano della stirpe delle Montagne. A Gandalf, i ricordi lontani di un viaggio fatto molto tempo addietro erano adesso di poco aiuto, ma persino nelle tenebre, e malgrado le curve del sentiero, egli sapeva dove desiderava andare, e non esitava un attimo, finché vi era una strada che conducesse verso la sua mèta.

* * *

«Non temete!», disse Aragorn. Questa volta la pausa fu più lunga del solito, e Gandalf e Gimli stavano bisbigliando; gli altri, affollatisi nel corridoio dietro di loro, attendevano ansiosi. «Non temete! Ho fatto insieme con lui parecchi viaggi, pur se mai nessuno così al buio; e si narrano a Gran Burrone sue imprese ancor più grandi di tutte quelle ch’io vidi. Egli non si smarrirà…. se la via che cerca esiste. Ci ha condotti qui dentro nonostante le nostre paure, e ci condurrà nuovamente fuori, qualsiasi cosa ciò debba costargli. È più sicuro nel ritrovare la via di casa in una notte cieca, che non i gatti della Regina Berùthiel».

Fu un bene per la Compagnia avere una tale guida. Non possedevano combustibili, né mezzi per fabbricare torce; nel disperato parapiglia alla porta, erano state lasciate indietro molte cose. Senza alcuna luce sarebbero stati presto vittime di qualche disavventura. Non solo vi era da scegliere fra numerose strade, ma in più posti si trovavano buche e pozzi cupi e trappole lungo il sentiero che risuonava dei loro passi. Vi erano crepe nel terreno e baratri nei muri, e qua e là uno spacco si apriva a volte proprio avanti ai loro piedi. Il più largo misurava più di due braccia e Pipino impiegò un bel po’ di tempo prima di radunare il coraggio necessario per saltare lo spaventoso abisso. Un rumore di acque spumeggianti giungeva da molto lontano, come se una grande ruota di mulino stesse girando nelle profondità.

«Corda!», mormorò Sam. «Sapevo che ne avrei avuto bisogno, se non l’avessi portata!».

* * *

Col moltiplicarsi delle insidie la marcia si fece più lenta. Pareva già che i loro pesanti passi fossero andati avanti, avanti, senza fine, sin nelle radici delle montagne. Erano più che sfiniti, eppure non offriva alcun sollievo il pensiero di una sosta in qualche parte. Frodo aveva ripreso animo dopo lo scampato pericolo grazie al cibo ed al sorso di liquore; ma ora una struggente ansietà s’impadronì nuovamente di lui, e crebbe man mano diventando terrore. Quantunque a Gran Burrone fosse stato guarito dalla ferita di pugnale, essa non era stata senza conseguenze. I suoi sensi erano adesso più acuti, ed egli più conscio delle cose non visibili. Un segno che lo avvertì presto del cambiamento in lui, era il fatto che vedeva nel buio più dei suoi compagni, eccetto forse Gandalf. Era in ogni caso il Portatore dell’Anello; appeso alla catenella contro il suo petto, a volte pareva un pesante fardello. Sentiva la certezza del male presente e del male futuro; ma non disse nulla. Strinse più forte l’elsa della spada e marciò avanti ostinatamente.

La Compagnia dietro di lui parlava poco, ed erano soltanto affrettati sussurri. Non vi era altro rumore che quello dei loro piedi; il passo sordo degli stivali da Nano di Gimli; il pesante incedere di Boromir; il leggero fruscio di Legolas; i soffici e quasi impercettibili passetti rapidi degli Hobbit; il lento e sordo avanzare a gran passi di Aragorn in fondo alla fila. Quando sostavano per un attimo, non udivano assolutamente nulla, salvo di tanto in tanto un debole gorgoglio e un gocciolare di acque invisibili. Eppure Frodo incominciò a udire, o a immaginare di udire, qualche altra cosa: come il vago fruscio di soffici piedi scalzi. Non era mai abbastanza forte, O sufficientemente vicino, perché egli potesse essere certo di udirlo; ma quando incominciava, non s’interrompeva più fintanto che la Compagnia continuava a muoversi. Ma non si trattava di un’eco; quando si arrestavano, il rumore proseguiva solo per qualche altro passettino, quindi taceva anch’esso.

Si erano inoltrati nelle Miniere a notte già calata. Stavano camminando da parecchie ore, interrotti soltanto da brevi soste, quando Gandalf ebbe il primo serio scacco. Innanzi a lui un ampio arco buio dava su tre corridoi che conducevano tutti nella stessa direzione, verso est; ma il corridoio sulla sinistra si tuffava in basso, mentre quello a destra si arrampicava su, e quello centrale pareva continuare dritto, liscio e pianeggiante ma estremamente stretto.

«Non ho alcun ricordo di questo posto!», disse Gandalf, esitando incerto sotto l’arco. Alzò il proprio bastone nella speranza di trovare qualche segno o qualche iscrizione che potesse aiutarle nella scelta; ma nulla del genere apparve. «Sono stanco di decidere», disse, scuotendo il capo. «E suppongo che siate tutti stanchi come me, o più stanchi ancora. È bene che sostiamo qui durante il resto della notte. Sapete cosa intendo dire! Qui dentro fa sempre buio; ma fuori la tarda Luna sta cavalcando verso occidente, e la mezzanotte è già passata».

«Povero vecchio Bill!», disse Sam. «Vorrei sapere dov’è. Spero che quei lupi non l’abbiano ancora preso».

A sinistra del grande arco trovarono una porta di pietra: era socchiusa, e bastò una leggera spinta per aprirla del tutto. Al di là pareva estendersi un’ampia stanza scavata nella roccia.

«Fermi! Fermi!», gridò Gandalf a Merry e Pipino che si spingevano avanti, lieti di trovare un luogo ove riposare con la sensazione di essere almeno più al riparo che non in mezzo al corridoio. «Fermi! Non sapete ancora cosa vi sia all’interno. Entrerò io per primo».

Avanzò cautamente, e gli altri lo seguirono in fila. «Ecco!», disse, indicando col bastone il centro del pavimento. Innanzi ai suoi piedi videro un grande foro circolare, simile alla bocca di un pozzo. Delle catene rotte ed arrugginite giacevano sull’orlo e pendevano giù nel nero. Accanto vi erano frammenti di pietra.

«Uno di voi avrebbe potuto cadervi, e ora potrebbe ancora domandarsi fra quanto tempo arriverebbe in fondo», disse Aragorn a Merry. «Lasciate andare per prima la guida, quando ne avete una».

«Si direbbe che questa fosse una sala delle guardie, per la sorveglianza dei tre corridoi», disse Gimli. «Quel foro era chiaramente un pozzo adoperato dalle guardie, chiuso da un coperchio di pietra. Ma il coperchio è rotto, e noi dobbiamo essere più che cauti nell’oscurità».

Pipino si sentiva stranamente attirato dal pozzo. Mentre gli altri srotolavano le coperte e preparavano dei letti contro le pareti della stanza, il più lontano possibile dal foro centrale, egli strisciò sino all’orlo e guardò giù. Un’aria gelida parve soffiargli in faccia, giungendo da abissi invisibili. Spinto da un impulso improvviso, cercò tastoni un sasso e lo lasciò cadere nel pozzo. Udì il proprio cuore battere parecchie volte prima che risuonasse alcun rumore. Poi da luoghi molto profondi, come se il sasso fosse piombato nelle acque abissali di qualche posto cavernoso, giunse un plunk, estremamente distante, ma amplificato e ripetuto nella vuota gola.

«Cos’è?», gridò Gandalf. Fu sollevato quando Pipino confessò quel che aveva fatto; ma era molto in collera, e l’Hobbit vedeva i suoi occhi fiammeggiare. «Idiota di un Tuc!», ruggì. «Questo è un viaggio serio, e non una passeggiata hobbit. Gettati tu dentro la prossima volta, così in futuro non ci seccherai più. Ed ora stai fermo e zitto!».

Non si udì più nulla per alcuni minuti, ma poi sorsero dalle profondità dei deboli colpi: tom-tap, tap-tom. Cessarono, ed allorché gli echi si furono spenti, ripresero nuovamente: tap-tom, tom-tap, tap-tap, tom. Parevano inquietanti come fossero segnali di qualche genere; ma dopo un po’ i colpi morirono in lontananza e non furono più uditi.

«Se quello non era il rumore di un martello, io non ho mai udito martellare», disse Gimli.

«Sì», disse Gandalf, «e non mi piace. Potrebbe non aver alcun nesso con la sciocca pietra di Peregrino; ma è probabile che abbiamo disturbato qualcosa che sarebbe stato meglio lasciare in pace. Vi prego, non fate più nulla del genere! Speriamo di poter riposare senza ulteriori incidenti. Tu, Pipino, puoi fare il primo turno di guardia, come ricompensa», ruggì, avvolgendosi in una coperta.

Pipino si sedette triste accanto alla porta nel buio pesto; ma si voltava continuamente, colto dal terrore che qualche incognita cosa potesse strisciare fuori dal pozzo. Avrebbe tanto desiderato coprire il foro, anche soltanto con una coperta, ma non osava muoversi, quantunque Gandalf paresse addormentato.

Invece Gandalf era sveglio, benché coricato immobile e silenzioso. Era profondamente immerso nei suoi pensieri e cercava di rammentare ogni momento del suo precedente viaggio nelle Miniere; rifletteva inoltre ansiosamente per trovare la via da scegliere: una semplice svolta sbagliata poteva ora avere conseguenze disastrose. Dopo un’ora si alzò, avvicinandosi a Pipino.

«Mettiti in un angolo, e fatti un sonno, ragazzo mio», disse con tono amichevole. «Senti il bisogno di dormire, suppongo. Io non riesco a chiudere occhio, quindi tanto vale che monti la guardia.

«So cosa vi è in me che non va», mormorò, sedendosi vicino alla porta. «Ho bisogno di fumare! Non gusto il sapore del fumo da questa mattina prima della tormenta di neve».

L’ultima cosa che Pipino vide, prima che il sonno lo cogliesse, fu l’immagine scura del vecchio stregone rannicchiato per terra, che con le sue mani nodose proteggeva una scheggia ardente tra le ginocchia. Una fiammella vacillante mostrò per un attimo il suo naso affilato, e lo sbuffo di fumo.

* * *

Fu Gandalf a destarli tutti dal sonno. Era rimasto seduto solo e vigile per circa sei ore, lasciando gli altri riposare. «E facendo la sentinella ho preso una decisione», disse. «Non mi piace l’atmosfera della strada centrale; e non amo l’odore della strada sinistra: vi è un’aria malsana lì dentro, o io non sono una guida. Prenderò il sentiero sulla destra; è ora di ricominciare a salire».

Per otto buie ore, escluse due brevi soste, continuarono la marcia. Non incontrarono pericoli, non udirono nulla, e non videro altro che il pallido bagliore della luce dello stregone che scintillava innanzi a loro come un fuoco fatuo. Il corridoio che avevano scelto serpeggiava deciso verso l’alto. Da quel che vedevano, parve loro che proseguisse con grandi curve in salita e nell’elevarsi diventasse man mano più ampio ed alto. Non vi erano più ai due lati aperture su altri tunnel o gallerie, ed il terreno era piatto e solido, senza pozzi né fessure. Stavano evidentemente percorrendo quella che in passato era stata una via importante; ed essi avanzavano più velocemente che non durante la prima tappa.

Avanzarono in tal modo di circa quindici miglia in linea retta verso est; ma a piedi dovevano aver fatto almeno venti miglia, o anche più. Col salire della strada, Frodo riprese leggermente animo, pur sentendosi sempre oppresso, e udiva ancora a volte, o credeva di udire, lontano dietro la Compagnia e oltre il fruscio e l’affrettarsi dei loro piedi, un passo che li seguiva e non era un’eco.

* * *

Avevano camminato tanto che gli Hobbit non potevano più proseguire senza un breve riposo, e stavano tutti pensando ad un posto adatto per dormire, quando improvvisamente le pareti sulla destra e sulla sinistra scomparvero. Vi era una forte corrente di aria Più calda alle loro spalle, e davanti l’oscurità era fredda sul viso. Si fermarono, radunandosi preoccupati.

Gandalf pareva contento. «Ho scelto la giusta via», disse. «Stiamo giungendo nelle zone abitabili, e ritengo che non siamo più lontani adesso dal fianco orientale della montagna. Ma ci troviamo molto in alto, un bel po’ più in alto del Cancello dei Rivi Tenebrosi, se non erro. A giudicare dall’aria, si direbbe che siamo in un vasto salone. Ora mi arrischierò a fare un poco di vera luce».

Alzò il suo bastone, e per un breve istante vi fu una vampata simile ad un lampo. Delle grandi ombre spiccarono il volo, e Per un secondo essi scorsero un ampio soffitto sulle loro teste, sostenuto da molte possenti colonne di pietra. Avanti a loro e da ambedue le parti, si estendeva un immenso salone vuoto; le pareti nere, lucide e lisce come vetro, scintillarono e lampeggiarono. Videro tre altri ingressi, cupi archi neri: uno dritto innanzi a loro ad oriente, gli altri sulle pareti laterali. Poi la luce si spense.

«Non oserò più di tanto, per il momento», disse Gandalf. «In passato vi erano grandi finestre nel fianco della montagna, e dei pozzi che conducevano fuori alla luce negli strati superiori delle Miniere. Credo che adesso li abbiamo raggiunti, ma poiché all’esterno fa di nuovo notte, sapremo qualcosa con certezza soltanto domani mattina. Se ciò che dico corrisponde alla realtà, potremmo persino vedere l’alba fare capolino. Ma nel frattempo è meglio non proseguire. Riposiamo, se possibile. Le cose sono andate bene sinora, e la maggior parte della via oscura giace alle nostre spalle. Ma non siamo ancora all’uscita, e vi è ancora molta strada prima di giungere ai Cancelli che si affacciano sul mondo».

* * *

La Compagnia passò la notte nel grande salone cavernoso, accoccolata in un angolo per sfuggire alla corrente: pareva che un flusso continuo di aria gelida giungesse dall’arco rivolto a oriente. Tutt’intorno a loro, sdraiati lì per terra, pesava l’oscurità, vuota ed immensa, ed essi si sentivano oppressi dalla solitudine e dall’ampiezza delle caverne scavate nella roccia, delle scale e dei corridoi diramati senza fine. Finanche le immagini più selvagge suggerite agli Hobbit dagli oscuri rumori che correvano, non erano che un lontano riflesso del terrore e dello sbigottimento realmente provati a Moria.

«Ci dev’essere stata una gran folla di Nani qui, un tempo», disse Sam; «ed ognuno più laborioso di un tasso durante cinquecento anni, per poter scavare tutto questo, e la maggior parte in roccia dura persino! Perché l’hanno fatto? Non mi direte che vivevano in questi tenebrosi buchi?».

«Questi non sono buchi», disse Gimli. «Qui è il grande reame e la città del Nanosterro. In antico non era tenebroso, bensì inondato di luce e di splendore, come ancora ricordano le nostre canzoni».

Si alzò, ed in piedi, nell’oscurità, si mise a cantare con voce profonda, mentre gli echi volavano via nel soffitto.

Giovane era il mondo, e le montagne verdi,

Ancora sulla Luna macchia non era da vedervi,

Nessuna parola su fiume o rupe eretta in aria,

Quando Durin destatosi camminò in terra solitaria.

Diede nome ad anonimi colli e vallate,

Bevette da sorgive ancor mai assaggiate;

Egli si chinò per guardar nel Mirolago,

E di una corona di stelle vide il contorno vago;

Parean gemme incastonate in argento,

Sulle ombre del suo bel capo intento.

Bello era il mondo, ed alti i monti ignoti,

Prima della caduta, nei Tempi Remoti,

Dei potenti re che son fuggiti via

Da Nargothrond o Gondolin che sia

Dei Mari Occidentali sull’altra sponda:

Ai Tempi di Durin la terra era gioconda.

Era re su di un trono intarsiato

Fra saloni dal gran colonnato;

Sul suo capo i soffitti d’argento,

Su porte le rune del potere, e d’oro il pavimento.

Di sole, luna e stelle il bagliore infocato

Nei lampadari lucidi di cristallo molato,

Che sempre splendidi e imponenti brillavano

E che mai nubi ed ombre di notte offuscavano.

Ivi colpiva l’incudine il martello,

Ivi l’incisor scrivea, ed oprava lo scalpello;

Ivi forgiata la lama ed all’elsa unita,

Ivi minator scavava e murator costruiva con fatica.

Ivi gemme, perle ed opale iridescente,

E metallo lavorato come maglie di rete incandescente.

Ivi scudi e corazze, asce, spade e pugnali,

E fiammanti speroni come non se ne fabbricano d’uguali.

Il popolo di Durin mai non si stancava;

Sotto le montagne la musica suonava:

Fremevano le arpe, cantavano i menestrelli,

E le trombe squillavano ai cancelli.

Il mondo è grigio, e le montagne anziane,

Nelle fucine, le fredde ceneri sono del fuoco un ricordo lontano.

Nessun’arpa vibrante, nessun ritmo di martelli.

Regna l’oscurità su miniere e castelli;

Sulla tomba di Durin incombe fosca l’ombra,

A Moria, a Khazad-dûm.

Ma ancora appaiono le stelle morenti

Nel Mirolago oscuro e senza venti.

Lì giace in abissi d’acque di Durin la corona,

Lì si risveglierà, quando sarà giunta l’ora.

«Mi piace questa canzone!», disse Sam. «Vorrei impararla. A Moria, a Khazad-dûm! Ma fa pesare ancor di più l’oscurità, il pensare a tutti quei lumi. Vi sono ancora in giro mucchi d’oro e di gioielli da queste parti?».

Gimli era silenzioso. Dopo aver cantato la sua canzone non volle dir altro.

«Mucchi di gioielli?», disse Gandalf. «No. Gli Orchi hanno più volte saccheggiato Moria; non vi è più nulla nei saloni superiori. E da quando i Nani fuggirono, nessuno ha mai osato esplorare i pozzi o cercare i tesori latenti nei luoghi profondi: sono invasi dalle acque, o da un’ombra di terrore».

«E allora perché i Nani desiderano tanto ritornarvi?», chiese Sam.

«Per via del mithril», rispose Gandalf. «La ricchezza di Moria non era nell’oro o nei gioielli, gingilli dei Nani; non era nel ferro, loro schiavo. Tali cose, è vero, abbondano qui; e specialmente il ferro. Ma non era necessario che essi scavassero per procurarseli: tutto ciò che desideravano potevano ottenerlo con il commercio. Codesto è infatti l’unico posto al mondo ove si trovi l’argento di Moria o, come l’hanno chiamato alcuni, il vero-argento: mithril è il nome elfico, mentre il nome dato dai Nani non viene divulgato. Il suo valore era dieci volte superiore a quello dell’oro, ed ora è inestimabile: ve ne rimane infatti poco qui in superficie, ed in profondità nemmeno gli Orchi hanno il coraggio di scavare. I filoni conducono verso il Caradhras a nord, e verso il basso, nell’oscurità. I Nani non narrano alcuna storia; ma così come fu il fondamento della loro ricchezza, mithril fu anche la causa della loro distruzione: scavarono troppo avidamente e troppo in profondità, disturbando ciò da cui fuggivano, il Flagello di Durin. Quasi tutto ciò che essi avevano estratto, gli Orchi lo raccolsero per darlo in tributo a Sauron, che lo brama ardentemente.

«Mithril! Tutti i popoli lo desideravano. Poteva lavorarsi come rame, e lucidarsi come vetro; ed i Nani sapevano trasformarlo in un metallo leggero ma più duro dell’acciaio temperato. Aveva la bellezza del comune argento, ma non si offuscava, né si oscurava mai. Gli Elfi l’amavano teneramente, e fra i molti altri usi che ne facevano, vi era la fabbricazione d’ithildin, stellaluna, che vedeste brillare sulla porta d’ingresso. Bilbo aveva una cotta di maglia di mithril datagli da Thorin. Chissà cosa ne è! Suppongo stia ancora accumulando polvere nel Museo di Pietraforata».

«Cosa?», esclamò Gimli, che la sorpresa destò dal silenzio in cui era immerso. «Una cotta d’argento di Moria? Un dono degno di un re!».

«Sì», disse Gandalf. «Non glielo dissi mai, ma essa valeva più dell’intera Contea e di tutto ciò che vi si trova».

Frodo non aprì bocca, ma si passò la mano sotto la camicia, toccando gli anelli della sua cotta di maglia. Si sentiva vacillare al pensiero di essere andato in giro col valore dell’intera Contea sotto la giacca. Ma Bilbo lo sapeva? Egli era certo che Bilbo lo sapesse perfettamente. Si trattava proprio di un dono regale! Ma ora i suoi pensieri volarono via dalle fosche Miniere, tornando a Gran Burrone, a Bilbo, a Casa Baggins quando Bilbo vi abitava ancora.

Rimpiangeva con tutto il cuore di non essere più in quei luoghi, ed in quei lontani tempi, quando falciava l’erba, o vagabondava tra i fiori, e non aveva mai udito parlare di Moria, né di mithril…, né dell’Anello.

* * *

Cadde un profondo silenzio. Uno dopo l’altro si addormentarono. Frodo montava la guardia. Come un respiro trapelato da porte invisibili e da luoghi profondi, la paura penetrò in lui. Aveva le mani fredde e la fronte umida. Ascoltava. Tutto il suo essere fu per due lunghe ore assorbito dall’ascolto e da null’altro; ma non si udirono rumori, nemmeno l’eco immaginaria di un passo.

Il suo turno di guardia stava quasi per finire, quando gli parve di vedere in lontananza, nel punto ove supponeva fosse l’arco occidentale, due pallide macchie di luce, come occhi luminosi. Trasalì. Il suo capo si era inclinato: «Devo essermi quasi addormentato mentre ero di guardia», pensò. «Ero sull’orlo di un sogno». Si alzò strofinandosi gli occhi, e rimase in piedi a scrutare le tenebre, finché Legolas non venne a sostituirlo.

Dopo essersi coricato, si addormentò rapidamente, ma ebbe l’impressione che il sogno continuasse: udiva bisbigliare, e vide due pallidi punti di luce avvicinarsi lentamente. Si svegliò, e si accorse che gli altri accanto a lui stavano parlando a bassa voce, e che una fioca luce gli illuminava il volto. Da un pozzo nel soffitto giungeva, alto sopra l’arco orientale, un lungo raggio pallido; ed anche dall’arco nord, una vacillante luce lontana penetrava nel salone.

Frodo si mise a sedere. «Buon giorno!», disse Gandalf. «È finalmente di nuovo giorno. Avevo ragione, vedi. Ci troviamo in un punto elevato nella parte orientale di Moria. Entro oggi dovremmo trovare i Grandi Cancelli, e vedere le acque del Mirolago innanzi a noi, nella Valle dei Rivi Tenebrosi».

«Ne sarò felice», disse Gimli. «Il mio sguardo si è posato su Moria; è immensa, ma è divenuta oscura e spaventosa, e non vi è traccia della mia gente. Dubito adesso che Balin vi abbia mai messo piede».

Dopo essersi rifocillati, Gandalf decise di rimettersi immediatamente in marcia. «Siamo stanchi, ma riposeremo meglio quando saremo fuori», disse. «Penso che nessuno di noi desideri passare un’altra notte a Moria».

«No di certo!», esclamò Boromir. «Quale strada prendiamo? L’arco orientale laggiù?».

«Forse» disse Gandalf. «Ma non so ancora esattamente dove siamo. A meno ch’io non m’inganni del tutto, dovremmo trovarci sopra e a nord dei Grandi Cancelli; e potrebbe non esser facile trovare la via giusta per scendere sino ad essi. L’arco orientale sarà probabilmente la giusta via da percorrere; ma prima di prendere qualsiasi decisione, è bene che ci guardiamo intorno. Andiamo verso quella luce nella porta nord. Se potessimo trovare una finestra, sarebbe molto utile, ma temo che la luce provenga da pozzi profondi».

Seguendo la sua guida, la Compagnia varcò l’arco nord. Si trovarono in un ampio corridoio. Man mano che avanzavano, la luce si faceva più intensa, ed essi videro che giungeva da una porta sulla destra. Era un’apertura alta e squadrata, il cui unico battente socchiuso posava ancora sui cardini. Si apriva su una larga stanza equilatera, fiocamente illuminata, ma che ai loro occhi, dopo un così lungo periodo trascorso nell’oscurità, parve fulgidissima ed abbacinante, tanto che entrando ne furono accecati.

I loro piedi disturbarono un profondo strato di polvere sul pavimento, e inciamparono su alcuni oggetti giacenti sulla soglia, la cui configurazione essi non riuscirono da principio a percepire. La stanza era illuminata da un grande pozzo che si apriva all’altra estremità, nella parte superiore della parete orientale. La bocca del pozzo era inclinata verso l’alto, ed essi potevano scorgere, lontano lassù, un piccolo quadrato di cielo azzurro. La luce cadeva dritta su di un tavolo al centro della stanza: un unico blocco oblungo, alto circa mezzo metro, su cui posava una grande lastra di pietra bianca. «Sembrerebbe una tomba», mormorò Frodo, chinandosi in avanti con uno strano presentimento, per osservarla più da vicino. Gandalf si avvicinò veloce. Sulla lastra erano profondamente incise delle rune:



«Queste sono le Rune di Daeron, anticamente in uso a Moria», disse Gandalf. «C’è scritto nei linguaggi degli Uomini e dei Nani:


BALIN FIGLIO DI FUNDIN

SIGNORE DI MORIA.


«È dunque morto», disse Frodo. «Lo temevo». Gimli si coprì il volto col suo cappuccio.

CAPITOLO V IL PONTE DI KHAZAD-DÛM

La Compagnia dell’Anello rimase silenziosa in piedi accanto alla tomba di Balin. Frodo pensava a Bilbo ed alla sua lunga amicizia col Nano, ed alla venuta di questi nella Contea tanto tempo addietro. In quella polverosa stanza nelle montagne, quei ricordi parevano all’altra estremità del mondo, e lontani mille anni.

Infine si mossero, e levarono lo sguardo, in cerca di qualcosa che potesse ragguagliarli sulla sorte toccata a Balin, o indicare quel che era accaduto al suo popolo. Dall’altra parte della stanza, sotto il buco da cui veniva l’aria, vi era una piccola porta. Riuscirono ora a vedere che vicino ad ambedue le soglie giacevano molte ossa, miste con spade rotte, pezzi d’asce, scudi spaccati ed elmi. Alcune delle spade erano curve e ritorte: le scimitarre degli Orchi dalle lame annerite.

Vi erano molte nicchie scavate nella roccia delle pareti, ed in esse grosse casse di legno orlate di ferro. Tutte erano rotte e saccheggiate; ma vicino al coperchio frantumato di uno dei forzieri giacevano i resti di un libro. Era stato strappato e tagliato da pugnali ed in parte bruciato, ed era macchiato di nero e di altri segni scuri che parevano sangue vecchio, a tal punto da renderne pressoché impossibile la lettura. Gandalf lo sollevò con cura; tuttavia i fogli crepitarono sbriciolandosi quando lo posò sulla lastra. Rimase a lungo a studiarci sopra, senza dir nulla. Frodo e Gimli in piedi al suo fianco videro, mentre egli voltava cautamente le pagine, che erano scritte da molte calligrafie diverse, in rune sia di Moria che della Valle, e talvolta in caratteri elfici.

Finalmente Gandalf levò lo sguardo. «Parrebbe essere l’epopea del popolo di Balin», disse. «Suppongo incominciasse con il loro arrivo nella Valle dei Rivi Tenebrosi circa trent’anni fa: i numeri sulle pagine sembrerebbero riferirsi al numero di anni dopo la loro venuta. Poiché la pagina di sopra porta la cifra uno-tre, significa che ne mancano almeno due dal principio. Ascoltate questo!

«Cacciammo gli Orchi dal grande cancello e dalla sala - credo; la parola è confusa e bruciata - delle guardie; ne uccidemmo parecchi nel luminoso - credo - sole della vallata. Floi fu trafitto a morte da una freccia. Egli uccise i grandi. Dopo vi è una macchia, seguita da Floi sotto l’erba vicino al Mirolago. Quindi un paio di righe che non riesco a leggere, e poi: Abbiamo scelto di vivere nella ventunesima sala dell’estremità Nord. Vi è non so capire cosa. Parlano di un pozzo. Quindi Balin ha instaurato la sua dimora nella Camera di Mazarbul».

«La Camera degli Scritti», disse Gimli. «Suppongo sia la stanza ove ci troviamo».

«Ebbene, vi è un lungo brano ove non riesco a leggere nulla», disse Gandalf, «eccetto la parola oro, e Ascia di Durin, ed elmo qualcosa. Quindi Balin è ora signore di Moria. Sembra che con ciò termini un capitolo. Dopo qualche stella, è un’altra mano a riprendere la narrazione, e vedo trovammo argentovero, e più avanti la parola benforgiato, e poi qualcos’altro. Ho trovato! mithril; e le ultime due righe Oin alla ricerca delle armerie superiori del Terzo Abisso, qualcosa andare ad ovest, una macchia, al cancello dell’Agrifogliere».

* * *

Gandalf s’interruppe e voltò qualche foglio. «Vi sono parecchie pagine dello stesso genere, scritte alquanto frettolosamente e molto rovinate», disse. «Riesco a capire ben poco con codesta luce. Indi vi dovrebbe essere un certo numero di fogli mancanti, poiché si incomincia col numero cinque, il quinto anno della colonia, suppongo. Lasciate che guardi meglio! No, sono troppo lacere e macchiate; non riesco a leggerle. Potrebbe darsi che con la luce del sole otterremmo un miglior risultato. Aspettate! Qui vi è una cosa interessante: una scrittura grande e sicura, in caratteri elfici».

«Dovrebbe essere la scrittura di Ori», disse Gimli, guardando oltre il braccio dello stregone. «Scriveva bene e veloce, ed adoperava spesso caratteri elfici».

«Temo avesse cattive notizie da riferire con la sua bella scrittura», disse Gandalf. «La prima parola chiara è sventura, ma il resto della riga è del tutto perso, a meno che non finisca con ieri. Sì, dev’essere ieri seguito da essendo il dieci di novembre Balin signore di Moria cadde nella Valle dei Rivi Tenebrosi. Andò solo a guardar nel Mirolago, un Orco lo trafisse da dietro una roccia, noi uccidemmo l’Orco, ma molti altri… su da est lungo l’Argentaroggia. Il resto della pagina è così confuso che riesco a mala pena a discernere qualcosa; mi par di vedere abbiamo sbarrato i cancelli, e poi possiamo resistere a lungo se, ed infine forse orribile e soffrire. Povero Balin! Sembrerebbe che abbia conservato il titolo che porta per meno di cinque anni. Chissà cosa accadde in seguito; ma non vi è tempo per elucubrare sulle ultime poche pagine. Eccovi l’ultima di tutte». S’interruppe e sospirò.

«È spaventoso a leggersi», disse. «Temo che la loro fine sia stata crudele. Ascoltate! Non possiamo uscire. Non possiamo uscire. Hanno preso il Ponte ed il secondo salone. Fràr e Lòni e Noli caddero ivi. Poi vi sono quattro righe sbiadite e riesco soltanto a leggere andarono cinque giorni fa. Le ultime righe dicono: l’acqua dello stagno sale al muro del Cancello Ovest. L’Osservatore nell’acqua ha preso Oin. Non possiamo più uscire. Giunge la fine, infine tamburi, tamburi negli abissi. Chissà cosa significa. L’ultimo tratto di lettere elfiche scarabocchiate è: stanno arrivando. Quindi più nulla». Gandalf s’interruppe e rimase immerso silenzioso nei suoi pensieri.

Una paura ed un orrore improvvisi di quella stanza s’impadronirono della Compagnia. «Non possiamo più uscire», mormorò Gimli. «È stato un bene per noi che lo stagno sia sceso leggermente, e che l’Osservatore stesse dormendo all’estremità sud».

Gandalf alzò il capo guardandosi intorno. «Par che abbiano opposto l’ultima resistenza dietro ambedue le porte», disse; «ma non ve ne rimanevano più molti a quell’epoca. In tal modo si concluse il tentativo di riconquistare Moria! Fu valoroso, ma sciocco. L’ora non è ancora giunta. Adesso, purtroppo, dobbiamo dir addio a Balin figlio di Fundin. Qui egli giace nelle dimore dei suoi padri. Prenderemo il suo libro, il Libro di Mazarbul, e più tardi lo osserveremo con maggior attenzione. È meglio che lo tenga tu, Gimli, onde riportarlo a Dàin, se ne avrai l’occasione. L’interesserà, pur addolorandolo profondamente. Coraggio, andiamo! Il mattino sta avanzando».

«Da che parte andiamo?», chiese Boromir.

«Di nuovo nel salone», rispose Gandalf. «Ma non è stato vano venire in questa stanza. Adesso so dove siamo. Dovremmo trovarci, come dice Gimli, nella Stanza di Mazarbul; e il salone dev’essere il ventunesimo dell’estremità nord. Dovremmo perciò inoltrarci nell’arco orientale della sala, e puntare verso il basso procedendo sempre a destra e verso sud. La Sala Ventuno dovrebbe essere al Settimo Livello, ossia sei piani sopra il livello dei Cancelli. Venite! Torniamo al salone!».

Gandalf aveva appena finito di pronunciare queste parole, quando si udì un grande rumore: un bum rombante che pareva giungesse dalle profondità sotto di essi, tremando nella roccia ai loro piedi. Balzarono tutti allarmati verso la porta. Dum, dum, continuava a tuonare, come se immense mani avessero trasformato le caverne stesse di Moria in un gigantesco tamburo. D’un tratto echeggiò uno squillo: un grande corno suonava nel salone, mentre in lontananza si udivano rispondere altri corni, e strilli acuti. Infine il rumore frettoloso di molti piedi.

«Stanno venendo!», gridò Legolas.

«Non possiamo uscire», disse Gimli.

«Intrappolati!», esclamò Gandalf. «Perché ho indugiato? Eccoci qui prigionieri, esattamente come loro, tempo addietro. Ma io non ero qui, allora. Vedremo cosa…».

Dum, dum rintronò il tamburo, e le pareti tremarono.

«Chiudete le porte e bloccatele con delle pietre!», urlò Aragorn. «Tenete saldi i vostri fagotti; forse avremo ancora modo di aprirci una via di scampo».

«No!», disse Gandalf. «Non dobbiamo chiuderci dentro. Tenete socchiusa la porta orientale! Fuggiremo da lì, se ne abbiamo l’occasione».

Risuonò un altro squillante richiamo di corno, insieme a delle grida stridule. Dei piedi percorsero correndo il corridoio. La Compagnia sguainò le spade che tintinnarono e rumoreggiarono. Glamdring emanava un pallido bagliore, e Pungolo irradiava luce dalla lama. Boromir poggiò la spalla contro la porta ad ovest.

«Aspetta un momento! Non chiuderla ancora!», disse Gandalf. Con un balzo fu al fianco di Boromir, e si eresse in tutta la sua altezza.

«Chi viene in questi luoghi a disturbare il riposo di Balin Signore di Moria?», gridò con voce tonante.

Ci fu uno scoppio di roche risa, come il precipitare di viscidi sassi in un pozzo; in mezzo al clamore una voce profonda si levò autoritaria. Dum, dum, dum continuavano i tamburi negli abissi.

Con un rapido movimento Gandalf saltò fino alla stretta apertura della porta, puntando innanzi a sé il bastone. Una luce abbagliante illuminò la stanza ed il corridoio. Lo stregone lanciò velocemente un’occhiata fuori della stanza. Le frecce fischiarono e sibilarono lungo il corridoio mentre egli balzava indietro.

«Sono Orchi, e sono una moltitudine», disse. «Alcuni grossi e malvagi; i neri Uruk di Mordor. Per il momento stanno ancora indugiando, ma vi è qualcos’altro fra loro. Un grosso Troll delle caverne, credo, o più di uno. Non vi è scampo da quella parte».

«E non vi sarà alcuno scampo, se ci attaccheranno anche dall’altra porta», disse Boromir.

«Non si ode ancor nulla dietro di essa», disse Aragorn in ascolto alla porta orientale. «Da questa parte il corridoio si tuffa immediatamente giù per una scala, è chiaro che non conduce nuovamente al salone. Ma non serve a nulla fuggire ciecamente in questa direzione, con gli inseguitori alle calcagna. Non possiamo bloccare la porta; non vi è chiave, la serratura è rotta, e si apre verso l’interno della stanza. Dobbiamo prima far qualcosa per contenere il nemico. Faremo loro temere la Camera di Marzabul!», disse cupo, toccando la lama della sua spada Andùril.

* * *

Dei passi pesanti si udirono nel corridoio. Boromir si gettò contro la porta e la chiuse spingendola con forza; quindi la bloccò, adoperando come biette delle lame di spada rotte e delle schegge di legno. La Compagnia indietreggiò sino all’altra parte della stanza. Ma non avevano più possibilità di fuggire. Un colpo vibrato contro la porta la fece tremare, ed essa incominciò a socchiudersi lentamente, sospingendo i cunei. Un enorme braccio seguito da una spalla, ricoperto di una scura pelle con squame verdognole, apparve nella fessura che si allargava sempre di più. Un immenso e piatto piede senza dita penetrò di forza strisciando per terra. Fuori cadde un silenzio di morte.

Boromir balzò avanti e vibrò con tutte le sue forze un colpo all’immondo braccio; ma la spada trillò e slittò, cadendo dalla sua mano tremante. La lama si era scalfita.

D’un tratto, e con grande sua sorpresa, Frodo sentì una collera infocata avvampare nel proprio cuore. «La Contea!», tuonò, e con un salto fu accanto a Boromir, pugnalando con Pungolo l’immondo piede. Si udì un mugghio, ed il piede si trasse indietro spasmodicamente, strappando quasi Pungolo dalla mano di Frodo. Delle gocce nere gocciolavano dalla lama, sprigionando fumo nel toccare terra. Boromir si scaraventò nuovamente contro la porta, chiudendola con violenza.

«Un punto per la Contea!», tuonò Aragorn. «Il morso dell’Hobbit è profondo! Hai una buona lama, Frodo figlio di Drogo!».

Un colpo risuonò con fracasso contro la porta, seguito da un altro e da altri ancora. Arieti e martelli battevano con forza sempre maggiore. Il battente scricchiolò vacillando, e la fessura si aprì improvvisamente. Delle frecce entrarono sibilando, ma urtando contro la parete caddero in terra inoffensive. Con uno squillo di tromba e dei passi affrettati, uno dopo l’altro gli Orchi piombarono nella stanza.

La Compagnia non riuscì a contare quanti fossero. La rissa era tumultuosa, ma gli Orchi furono sbigottiti dalla violenza della difesa. Legolas ne trafisse due alla gola. Gimli troncò le gambe di un assalitore saltato sulla tomba di Balin. Boromir ed Aragorn ne uccisero molti. Quando ne furono caduti tredici, gli altri fuggirono strillando, e lasciando la Compagnia illesa, salvo Sam che aveva un graffio lungo il cranio. Si era salvato con un rapido tuffo, ed aveva ucciso il suo Orco con un vigoroso colpo della lama dei Tumuli. Un fuoco covava nei suoi occhi, ed avrebbe fatto indietreggiare Ted Sabbioso, se l’avesse veduto.

«Adesso è ora!», gridò Gandalf. «Fuggiamo, prima che ritorni il Troll!».

Ma già mentre retrocedevano, e prima che Merry e Pipino avessero raggiunto la scala al di là della porta, un enorme capo-Orco, di dimensioni quasi umane, ricoperto dalla testa ai piedi di una armatura di maglia nera, saltò nella stanza; alle sue spalle, gli assalitori affollavano il vano della porta. Fosca era la sua larga faccia piatta, e gli occhi come tizzoni, e la sua lingua rossa; brandiva una grande lancia. Bastò che parasse il colpo col suo immenso scudo di cuoio, per torcere la spada di Boromir e respingerlo, gettandolo in terra. Sfuggendo alla lama di Aragorn con la rapidità di un serpente che morde, investì la Compagnia, puntando dritto su Frodo la sua lancia. La punta colpì Frodo nel fianco destro, scaraventandolo contro il muro. Con un urlo, Sam frantumò l’asta della lancia. Già l’Orco aveva gettato via il troncone e sfoderato la scimitarra, quando Andùril piombò sul suo elmo. Una fiamma balenò, e l’elmo fu squarciato. L’Orco cadde con la testa spaccata. Il seguito fuggì ululando, Boromir ed Aragorn si lanciarono all’inseguimento.

Dum, dum echeggiavano i tamburi nelle profondità. La voce possente tuonò di nuovo.

«Adesso!», urlò Gandalf. «È l’ultima occasione! Fuggite!».

Aragorn raccolse Frodo che giaceva accanto al muro e si precipitò verso la scala, sospingendo Merry e Pipino. Gli altri seguirono; ma Gimli dovette essere trascinato via da Legolas: malgrado il pericolo egli si attardava ancora accanto alla tomba di Balin con il capo chino. Boromir si chiuse dietro con forza la porta orientale che cigolò sui cardini: aveva grossi anelli di ferro su ambedue i lati, ma non vi era modo di sprangarla.

«Sto bene», balbettò Frodo. «Posso camminare. Posami a terra!».

Aragorn, dalla sorpresa, lo lasciò quasi cadere. «Credevo fossi morto!», gridò.

«Non ancora!», disse Gandalf. «Ma non abbiamo tempo per meravigliarci. Coraggio! Tutti voi giù per le scale! Aspettatemi un attimo in fondo, se non dovessi arrivare subito, proseguite! Fate presto, e scegliete sentieri che conducano a destra e verso il basso».

«Non possiamo lasciarti difendere la porta da solo!», esclamò Aragorn.

«Fate come vi dico!», tuonò Gandalf. «Le spade non servono più adesso. Andate!».

* * *

Nessun foro illuminava il corridoio che era completamente buio. Discesero a tastoni una lunga rampa di scale, e poi si voltarono indietro; ma non riuscivano a scorgere nulla, solo il fioco bagliore del bastone dello stregone in alto sulle loro teste. Sembrava che facesse ancora la guardia alla porta chiusa. Frodo respirava affannosamente, appoggiato a Sam che lo sorreggeva col braccio intorno alla vita. Rimasero lì a scrutare su per le scale nell’oscurità. Frodo credette di udire la voce di Gandalf mormorare lassù parole che scivolavano lungo il soffitto in pendenza con un’eco sospirante. Non riusciva a percepire ciò che aveva detto. Le pareti sembravano tremare. Di tanto in tanto i colpi di tamburo rombavano e rullavano: dum, dum.

Improvvisamente in cima alla scala vi fu uno squarcio di luce bianca. Si udì un sordo tuono ed un pesante tonfo. Il rullo del tamburo proruppe selvaggio, dum-bum, dum-bum, poi d’un tratto s’interruppe. Gandalf volò giù dalle scale e cadde per terra in mezzo alla Compagnia.

«Bene, bene! Questa è fatta!», disse lo stregone, alzandosi faticosamente. «Ho fatto tutto il possibile. Ma ho trovato un degno rivale, che mi ha quasi distrutto. Ma non restate fermi qui! Muovetevi! Bisognerà fare a meno della luce per qualche tempo: sono alquanto scosso. Andate! Andate! Dove sei, Gimli? Vieni avanti con me! Tenetevi a breve distanza dietro di noi, voialtri!».

* * *

Lo seguirono inciampando, e domandandosi cosa fosse accaduto. Dum, dum ricominciarono a rullare i tamburi: il rombo giungeva soffocato e lontano, ma stava avvicinandosi. Non vi era altro rumore d’inseguimento, né di passi affrettati, né di voci. Gandalf proseguì senza mai voltare a destra o a sinistra, poiché il corridoio sembrava seguire la direzione da lui scelta. Di tanto in tanto una rampa di scale di cinquanta o più gradini portava al livello inferiore. Per il momento era quello il pericolo maggiore: essi non potevano infatti vedere al buio lo strapiombo prima di giungervi, e di posare un piede nel vuoto. Gandalf tastava la terra col bastone come un cieco.

Dopo un’ora avevano percorso un miglio, o forse più, e disceso molte scalinate. Continuavano a non udire alcun rumore d’inseguimento, tanto che incominciarono quasi a sperare di poter fuggire. In fondo alla settima rampa Gandalf si fermò.

«L’aria si sta facendo calda!», disse boccheggiante. «Dovremmo almeno essere al livello dei Cancelli, ormai. Fra poco penso sarà bene cercare una diramazione sulla sinistra che ci porti verso est. Spero non sia lontana. Sono sfinito. Devo assolutamente riposare qui un attimo, anche se abbiamo alle calcagna tutti gli Orchi che mai furono generati!».

Gimli lo prese per il braccio, aiutandolo a sedersi su di un gradino. «Cos’accadde lassù in cima alle scale?», chiese. «Hai incontrato il battitore di tamburo?».

«Non so», rispose Gandalf. «Ma mi trovai improvvisamente di fronte a qualcosa che non avevo mai incontrato. Non sapevo che altro fare, se non lanciare sulla porta un incantesimo che la chiudesse. Ne conosco parecchi; ma per fare questo genere di cose in piena regola ci vuole tempo, ed ancorché riesca, chiunque potrebbe sfondarla con la forza.

«Lì ove mi trovavo, udivo le voci di Orchi dall’altra parte: pareva che stessero per fracassare il battente da un momento all’altro. Non riuscivo a sentire quel che dicevano, credo stessero parlando nella loro orribile lingua; l’unica parola che distinguessi era gliâsh, cioè “fuoco”. Ad un tratto, qualcosa entrò nella stanza…. Io sentii attraverso la porta; gli Orchi stessi si spaventarono e tacquero. Afferrò l’anello di ferro, ed in quel momento percepì la mia presenza e quella del mio incantesimo.

«Che cosa fosse, non riesco ad immaginare, ma mai ho sopportato una tale sfida. Il contro-incantesimo era terribile; fui quasi sopraffatto. Per un attimo persi il controllo della porta che cominciò ad aprirsi! Dovetti proferire una parola di comando, ma la tensione fu troppo forte. La porta volò in pezzi. Qualcosa di scuro come una nuvola bloccava tutta la luce nell’interno della camera ed io fui scaraventato all’indietro giù per le scale. Tutta la parete cedette, ed anche il soffitto della stanza, credo.

«Temo che Balin sia profondamente sepolto, e forse qualcos’altro è seppellito lì con lui. Non ne sono certo. Ma comunque, almeno il passaggio alle nostre spalle fu completamente bloccato. Ah! Mai mi ero sentito così sfinito, ma ora sta passando. Come stai tu, piuttosto, Frodo? Non ho avuto il tempo di dirtelo, ma in vita mia mai sono stato tanto felice come quando ti ho udito parlare. Temevo che Aragorn avesse in braccio un Hobbit coraggioso ma morto».

«Come sto?», disse Frodo. «Sono vivo, e credo anche intero, Pieno di lividi e dolorante, ma non sto troppo male».

«Ebbene», disse Aragorn, «posso soltanto dire che gli Hobbit sono fatti di una sostanza resistente come mai ne avevo vista. Se l’avessi saputo, sarei stato meno brusco nella locanda di Brea. Quel colpo di lancia avrebbe trafitto un cinghiale selvaggio!».

«Ebbene, non ha trafitto me, e sono felice di poterlo dire!», disse Frodo; «mi sento tuttavia come se fossi stato incastrato tra un’incudine e un martello». Non disse altro. Respirare gli era doloroso.

«Prendi da Bilbo», disse Gandalf. «Vi è in te più di quanto non colpisca la vista; ed è ciò che dissi di lui tanto tempo addietro». Frodo si chiese se l’osservazione sottintendeva qualcosa che non era stato detto.

* * *

Si rimisero in marcia. Poco dopo Gimli parlò. Egli aveva occhi penetranti nell’oscurità. «Credo», disse, «che innanzi a noi vi sia una luce. Ma non è la luce del giorno. È rossa: cosa potrebbe essere?».

«Ghâsh!», mormorò Gandalf. «Forse è questo che intendevano dire: che i livelli inferiori sono incendiati? Comunque, non possiamo che proseguire».

Presto la luce fu inconfondibile, e tutti potevano vederla. Ardeva e tremolava sui muri del corridoio avanti a loro. Essi potevano in tal modo scorgere la via da percorrere: la strada discendeva un rapido pendio, e a una certa distanza attraversava un basso arco, dal quale giungeva sempre più intensa la luce. L’aria divenne molto calda.

Quando ebbero raggiunto l’arco, Gandalf lo varcò, facendo loro segno di aspettare. Non appena giunse al di là dell’apertura, videro il suo volto illuminato di un rosso incandescente. Egli fece un rapido passo indietro.

«Codesta è qualche nuova diavoleria», disse, «senza dubbio escogitata per darci il benvenuto. Ma ora so dove siamo; ci troviamo al Primo Abisso, il livello immediatamente sotto i Cancelli. Questa è la Seconda Sala dell’Antica Moria, ed i Cancelli sono vicini: oltre l’estremità orientale, sulla sinistra, a non più di un quarto di miglio. Attraverso il Ponte, su per un’ampia scalinata, lungo una larga strada, attraverso la Prima Sala, e poi fuori! Ma venite a vedere!».

Guardarono oltre l’arco. Innanzi a loro si estendeva un altro salone cavernoso. Era più alto e molto più lungo di quello ove avevano dormito. Si trovavano ora vicino alla parete orientale. Nel mezzo si ergeva una doppia fila di imponenti colonne. Erano scolpite come tronchi di alberi maestosi i cui rami sostenevano il soffitto con la loro ramificata rete di pietra. I fusti erano lisci e neri, ma un bagliore rosso si rispecchiava oscuramente nei loro fianchi. Da una parte all’altra del pavimento, vicino ai piedi di due immensi pilastri, si apriva una grande voragine. Irradiava una violenta luce rossa, e di tanto in tanto delle fiamme lambivano il bordo, attorcigliandosi intorno alla base delle colonne. Spirali di fumo scuro vibravano nell’aria calda.

«Se fossimo scesi dalle sale superiori seguendo la via principale, saremmo stati intrappolati qui», disse Gandalf. «Speriamo che ora il fuoco arda tra noi ed i nostri inseguitori. Venite! Non vi è tempo da perdere».

Non aveva ancora finito di parlare, che udirono nuovamente il rullo dei tamburi che li inseguivano: Dum, dum, dum. Da oltre le ombre dell’estremità occidentale del salone giungevano grida e squilli di corno. Dum, dum: le colonne parvero tremare e le fiamme vacillare.

«Ed ora l’ultima corsa!», disse Gandalf. «Se fuori il sole sta ancora brillando, forse riusciremo a salvarci. Seguitemi!».

Voltò a sinistra, correndo veloce sul pavimento liscio del salone. La distanza era maggiore di quanto non avessero creduto. Nella fuga, udirono lo scalpitio e l’eco di molti piedi frettolosi alle loro spalle. Un urlo stridulo si levò: erano stati visti. L’acciaio squillò e vibrò. Una freccia passò sibilando sulla testa di Frodo.

Boromir rise. «Non se l’aspettavano», disse. «Il fuoco li ha tagliati fuori. Noi siamo dal lato sbagliato!».

«Guardate avanti!», gridò Gandalf. «Il Ponte è vicino. È stretto e pericoloso».

Improvvisamente Frodo vide innanzi a sé un baratro nero. In fondo al salone il pavimento scompariva e piombava in una ignota profondità. La porta esterna poteva raggiungersi solo tramite un esiguo ponticello in pietra, senza parapetto né inferriata, che superava il baratro con un unico balzo di una quindicina di passi. Era un’antica difesa dei Nani contro qualsiasi nemico conquistasse la Prima Sala ed i corridoi esterni. Potevano varcarlo soltanto in fila indiana. Sull’orlo Gandalf si arrestò, e gli altri si stiparono dietro di lui.

«Fa’ tu strada, Gimli!», disse. «Seguano Pipino e Merry. Dritto in avanti, e poi su per la scalinata oltre la porta!».

Delle frecce caddero in mezzo a loro. Una di esse colpì Frodo e rimbalzò. Un’altra penetrò nel cappello di Gandalf, rimanendovi conficcata come una piuma nera. Frodo si voltò a guardare. Al di là del fuoco scorse uno sciame di figure nere: pareva vi fossero centinaia di Orchi. Brandivano lance e scimitarre che scintillavano rosse come sangue alla luce del fuoco. Dum, dum rullavano i colpi di tamburo, che si facevano sempre più forti, dum, dum.

Legolas si voltò, poggiando una freccia contro la corda, benché il tiro fosse lungo per il suo piccolo arco. Ma mentre stava per scoccare il colpo, la sua mano cadde, e la freccia scivolò per terra. Lanciò un grido di sbigottimento e di terrore. Due grandi figure apparvero: trasportavano grosse lastre di pietra, che scaraventarono sulla voragine onde adoperarle come passerelle sul fuoco. Non erano però esse a colmare l’Elfo di spavento. I ranghi degli Orchi si erano aperti, ed avevano ceduto il passo raggruppandosi lontano, come se anche loro fossero impauriti. Qualcosa giungeva alle loro spalle. Non si riusciva a distinguere cosa fosse: era come una grande ombra, nel mezzo della quale si trovava una forma scura di dimensioni umane, o anche più grossa; potere e terrore parevano sprigionarsi da essa e precederla.

Giunse all’orlo della voragine di fuoco, e la luce s’offuscò, come se una nube vi si fosse posata sopra. Poi d’impeto varcò il baratro. Con un ruggito le fiamme s’innalzarono in segno di saluto, intrecciandosi intorno a lui; un fumo nero turbinò nell’aria. La criniera svolazzante dell’oscura forma prese fuoco, avvampando. Nella mano destra teneva una lama pari a un’acuminata lingua di fuoco, e nella sinistra una frusta dalle molte code.

«Ahi! Ahi!», gemette Legolas. «Un Balrog! È venuto un Balrog!».

Gimli guardava fisso con occhi sbarrati. «Il Flagello di Durin!», gridò, lasciando cadere la sua ascia e coprendosi il viso.

«Un Balrog», mormorò Gandalf. «Adesso capisco». Vacillò, e si sostenne faticosamente col bastone. «Che sorte malefica! Ed io sono già stanco».

* * *

La scura figura fiammeggiante si scagliò su di loro. Gli Orchi urlanti si precipitarono a frotte sulle passerelle di pietra. Allora Boromir alzò il suo corno e soffiò. La tuonante sfida risonò come l’urlo di molte gole sotto il soffitto cavernoso. Per un attimo gli Orchi indietreggiarono e l’ombra infocata si arrestò. Poi gli echi morirono, come una fiamma improvvisamente spenta da un violento e fosco vento, ed il nemico riprese ad avanzare.

«Attraversate il ponte!», gridò Gandalf, radunando le proprie forze. «Fuggite! Questo è un nemico troppo forte per chiunque di voi. Devo difendere io lo stretto passaggio. Fuggite!». Aragorn e Boromir non ubbidirono all’ordine, bensì mantennero le loro posizioni, a fianco a fianco, dietro Gandalf in fondo al ponte. Gli altri si fermarono nel vano della porta all’estremità del salone, e si voltarono, incapaci di lasciare il loro capo ad affrontare da solo il nemico.

Il Balrog giunse al ponte. Gandalf era in piedi al centro della sala e con la mano sinistra si appoggiava al bastone, mentre nella destra Glamdring scintillava, fredda e bianca. Il nemico si arrestò nuovamente, fronteggiandolo, ed intorno ad esso l’ombra allungò due grandi ali. Il Balrog schioccò la frusta, e le code scricchiarono e fischiarono. Del fuoco si sprigionava dalle sue narici: ma Gandalf rimase fermo ed immobile.

«Non puoi passare», disse. Gli Orchi tacquero, e si fece un silenzio di morte. «Sono un servitore del Fuoco Segreto, e reggo la fiamma di Anor. Non puoi passare. A nulla ti servirà il fuoco oscuro, fiamma di Udûn. Torna nell’Ombra! Non puoi passare».

Il Balrog non rispose. Il fuoco in lui parve estinguersi, ma il buio crebbe. Avanzò lentamente sul ponte, e d’un tratto si eresse ad una immensa altezza, estendendo le ali da una parete all’altra; ma Gandalf si scorgeva ancora, un bagliore nelle tenebre; pareva piccolo, e del tutto solo: grigio e curvo come un albero avvizzito prima dell’assalto di una tempesta.

Dall’ombra, una spada rossa si rizzò fiammeggiante.

Glamdring rispose col suo bagliore bianco.

Vi fu un fragore squillante ed un lampo di fuoco bianco. Il Balrog cadde indietro e la sua spada volò in mille frammenti liquefatti. Lo stregone oscillò sul ponte, fece un passo indietro, quindi rimase immobile come prima.

«Non puoi passare!», disse.

D’impeto, il Balrog balzò in pieno sul ponte. La frusta turbinava sibilando.

«Non può rimaner solo!», gridò Aragorn improvvisamente, tornando di corsa sui suoi passi. «Elendil!» tuonò. «Sono con te, Gandalf!».

«Gondor!», gridò Boromir, e d’un balzo gli fu accanto.

In quel momento Gandalf rizzò il bastone, e gridando con voce possente, colpì il ponte innanzi a sé. Il bastone si frantumò e gli cadde di mano. Un’abbacinante parete di fiamme bianche avvampò. Il ponte scricchiolò. Si ruppe immediatamente sotto i piedi del Balrog, e la pietra sulla quale egli si ergeva piombò nell’abisso con fragore, mentre il resto rimase in equilibrio, e fremette come una lingua di roccia nel vuoto.

Con un urlo terribile il Balrog precipitò in avanti, e la sua ombra piombò giù scomparendo. Ma mentre cadeva, diede con la frusta una sferzata, e le code si avvolsero intorno alle ginocchia dello stregone, trascinandolo sino all’orlo della voragine. Gandalf vacillò e cadde, e cercando invano di afferrare la roccia, scivolò nell’abisso. «Fuggite, sciocchi!», gridò, e scomparve.

* * *

I fuochi si estinsero, e tutto fu immerso in una vuota oscurità. La Compagnia, paralizzata dall’orrore, guardava fisso nel baratro. Mentre Aragorn e Boromir tornavano fulminei il resto del ponte scricchiolò e cadde. Con un grido Aragorn li destò.

«Venite! Vi condurrò io, adesso!», vociò. «Dobbiamo obbedire al suo ultimo comando. Seguitemi!».

Salirono a precipizio la grande scalinata oltre la porta. Aragorn in testa, Boromir alla retroguardia. In cima vi era un ampio corridoio echeggiante. Lo percorsero in fuga. Frodo udì Sam piangere al suo fianco, e si accorse di stare anch’egli piangendo mentre correva. Dum, dum, i colpi di tamburo rullavano alle loro spalle, ora lugubri e lenti.

Essi continuavano a correre. La luce aumentava innanzi a loro; dei grossi fori punteggiavano il soffitto. Affrettarono l’andatura. Entrarono in un salone, illuminato a giorno dalla luce del sole che penetrava attraverso le alte finestre ad oriente. Lo percorsero in una volata. Varcarono veloci le immense porte rotte, ed improvvisamente videro aprirsi innanzi a loro un arco di luce incandescente, i Grandi Cancelli.

Vi era una guardia d’Orchi accovacciata nelle ombre dietro i grandi pilastri del portale che torreggiavano da ambedue le parti, ma i cancelli erano fracassati e giacevano in terra. Aragorn atterrò d’un colpo il capitano che gli sbarrava la via, e gli altri fuggirono terrificati dalla sua collera. La Compagnia li oltrepassò d’impeto senza prestar loro attenzione. Oltre i cancelli fuggirono, saltando giù per gli enormi gradini consunti dal tempo, oltre la soglia di Moria.

Così giunsero infine insperatamente sotto il cielo libero, e sentirono il vento sfiorar loro il viso.

Sostarono soltanto quando furono fuori portata di freccia dalle mura di Moria. La Valle dei Rivi Tenebrosi si estendeva ai loro piedi. L’ombra delle Montagne Nebbiose la sovrastava, ma ad est vi era sulla campagna una luce dorata. Era passata solo un’ora da mezzogiorno. Il sole brillava; le nubi erano bianche ed alte.

Si voltarono. Oscuro, l’arco ed il vano dei Cancelli sotto l’ombra della montagna; debole e lontano negli abissi della terra il lento rullare dei tamburi: dum. Un filo di fumo nero si sprigionava dalle ombre. Non vi era altro da vedere: tutt’intorno la valle era vuota. Dum. Fu allora che sopraffatti dal dolore piansero a lungo: gli uni in piedi e silenziosi, gli altri prostrati. Dum dum. Il rullo dei tamburi svanì.

CAPITOLO VI LOTHLÒRIEN

«Ahimè! Temo che non possiamo più trattenerci qui», disse Aragorn. Volse lo sguardo verso le montagne e levò in alto la spada. «Addio, Gandalf!», gridò. «Non ti avevo forse detto: Se varchi le porte di Moria, attento? Ahimè, come avevo ragione! Quale speranza abbiamo ormai senza te?».

Si rivolse alla Compagnia. «Dovremo fare a meno della speranza», disse. «Può darsi che un giorno almeno saremo vendicati. Facciamoci coraggio, e freniamo il pianto! Venite! Ci attendono una lunga strada e molte cose da fare».

Si alzarono guardandosi intorno. A nord la valle s’immergeva in una conca tra due grandi braccia delle montagne, dominata da tre bianche vette scintillanti: Celebdil, Fanuidhol, Caradhras, le Montagne di Moria. All’estremità della conca un torrente scorreva come merletto bianco giù per un’interminabile scalinata di piccole cascate, e una nebbia di spuma impregnava l’aria ai piedi delle montagne.

«Laggiù è la Scala dei Rivi Tenebrosi», disse Aragorn, indicando le cascate. «È da quel sentiero profondamente incavato nella roccia a fianco del torrente che saremmo scesi, se il fato fosse stato più benevolo».

«O il Caradhras meno crudele», disse Gimli. «Guardatelo lì sorridere al sole!». Mostrò i pugni al più lontano dei picchi incappucciati di neve e si volse dall’altra parte.

A est, il braccio delle montagne proiettato in avanti si dirupava bruscamente, e delle terre lontane si estendevano al di là, ampie ed imprecise. Verso sud le Montagne Nebbiose si allungavano interminabili a perdita d’occhio. A meno di un miglio di distanza, e leggermente più in basso, poiché essi si trovavano in un punto elevato del fianco orientale della vallata, scorsero un lago; era lungo e ovale, e pareva la punta di una lancia conficcata profondamente nella conca a nord; ma la parte meridionale delle acque era fuori delle ombre, immersa nella luce del sole. Eppure era anch’essa scura, dell’azzurro profondo di un limpido cielo notturno visto da una stanza illuminata. La superficie era calma e per nulla increspata. Tutt’intorno alla nuda sponda i pendii scoscesi erano ricoperti di soffice erba.

«È il Mirolago, il profondo Kheled-zâram!», disse Gimli triste. «Ricordo quel che egli disse: ” Possa la sua vista procurarti gioia! Ma non potremo attardarci”. A lungo viaggerò prima di poter nuovamente gioire; ora son io che devo affrettare il passo, mentre egli deve rimanere qui».

* * *

La Compagnia percorse la strada che scendeva dai Cancelli. Era in dissesto ed accidentata, e presto non fu che un viottolo serpeggiante tra l’erica e gli sterpi spuntati tra le pietre spaccate. Tuttavia si poteva ancor vedere che un tempo, dalle basse terre del Regno dei Nani, serpeggiava verso l’alto un’ampia via lastricata. In alcuni punti vi erano, lungo il viottolo, rovine di opere in pietra, e montagnole verdi ove crescevano esili betulle, o abeti sospiranti al vento. Il sentiero voltò ad est, conducendoli vicino al prato del Mirolago, ove si ergeva, non lontano dal viottolo, un’unica colonna dall’estremità tronca.

«Quella è la pietra di Durin!», esclamò Gimli. «Non posso proseguire senza deviare un attimo per vedere la meraviglia della valle!».

«Sii veloce, allora!», disse Aragorn, volgendo lo sguardo verso i Cancelli. «Il Sole tramonta presto. Gli Orchi non usciranno, forse, prima dell’imbrunire, ma noi dobbiamo esser già molto lontani al calar della notte. È quasi novilunio, e la notte sarà buia».

«Vieni con me, Frodo!», gridò il Nano, correndo fuori della strada. «Non voglio che tu vada via senza prima vedere Kheled-zâram». Discese veloce il lungo pendio verdeggiante. Frodo lo seguì lentamente, attratto, malgrado il dolore e la stanchezza, dalle calme acque blu; Sam gli andò dietro.

Giunto vicino alla colonna, Gimli si arrestò levando lo sguardo. La pietra era sbrecciata e logora, e le pallide rune incise tutt’intorno illeggibili. «Questo pilastro indica il punto ove per la prima volta Durin guardò nel Mirolago», disse il Nano. «Guardiamo anche noi prima di proseguire il nostro cammino!».

Si chinarono sulle scure acque. Da principio non videro nulla. Poi lentamente ai loro occhi apparvero le forme delle montagne d’intorno specchiate in un azzurro cupo, e i picchi erano come piume di bianche fiamme su di esse; più in alto ancora si estendeva il cielo. Pari a gioielli incastonati negli abissi, le stelle brillanti scintillavano; eppure il cielo sulle loro teste era illuminato dal sole. Non vi era ombra delle loro figure chine.

«O Kheled-zârarn splendido e meraviglioso!», disse Gimli. «Ivi giace la Corona di Durin, sino al giorno in cui egli si risveglierà. Addio!». S’inchinò, e volgendo le spalle al lago risalì veloce la verde zona erbosa sino alla strada.

«Cos’hai veduto?», domandò Pipino a Sam; ma Sam era troppo immerso nei suoi pensieri per rispondergli.

* * *

La strada ora voltava verso sud, scendendo piuttosto ripida dalle due propaggini che abbracciavano la conca. Un poco più in basso del lago incontrarono un profondo pozzo di acqua limpida come cristallo, dal quale sorgeva un rivo che, dopo esser fluito su un labbro di pietra, scorreva scintillando e gorgogliando giù per una ripida scanalatura rocciosa.

«Questa è la fonte ove sorge l’Argentaroggia», disse Gimli. «Non bevete. L’acqua è fredda come ghiaccio».

«Diviene presto un rapido fiume, ed accoglie i flutti di molti altri torrenti dei monti», disse Aragorn. «La nostra strada lo costeggia per parecchie miglia. Vi condurrò infatti per la via scelta da Gandalf, e spero di giunger prima ai boschi ove l’Argentaroggia imbocca il Grande Fiume… laggiù!». Seguirono con lo sguardo il suo dito, e videro innanzi a loro il corso d’acqua che scrosciava giù sino al fondovalle, per poi fluire lontano nelle terre pianeggianti e perdersi in una foschia dorata.

«Laggiù si trovano i boschi di Lothlórien!», disse Legolas. «È la più bella fra tutte le dimore della mia gente. Non vi sono alberi pari agli alberi di quella terra; in autunno le loro foglie non cadono, bensì diventano d’oro; per cadere attendono la primavera, che porta il nuovo verde, e ricopre i rami di fiori gialli. Allora il suolo del bosco è d’oro, e d’oro anche il soffitto, e le colonne d’argento, poiché la corteccia degli alberi è liscia e grigia. Così narrano ancora i nostri canti nel Bosco Atro. Sarebbe felice il mio cuore, se fossi tra le fronde di quel bosco, e sorridesse la primavera!».

«Il mio cuore sarà felice, anche se siamo in inverno», disse Aragorn. «Ma molte miglia ci separano. Affrettiamoci!».

Per un certo tempo Frodo e Sam riuscirono a mantenere il passo; ma Aragorn avanzava spedito, e presto rimasero indietro. Non avevano mangiato nulla dalla prima mattina. La ferita di Sam bruciava come fuoco, ed egli si sentiva la testa vuota e leggera. Benché brillasse il sole, il vento pareva freddo dopo la tiepida oscurità di Moria. Sam rabbrividì. Frodo trovava ogni passo più doloroso, e boccheggiava.

Infine Legolas si voltò, e vedendoli indietro e lontani, disse qualcosa ad Aragorn. Gli altri si fermarono ed Aragorn tornò correndo sui propri passi, chiamando Boromir affinché lo seguisse.

«Mi dispiace, Frodo!», gridò pieno d’inquietudine. «Sono accadute oggi tante cose, ed abbiamo una tale fretta, da farmi dimenticare che eravate feriti, tu e Sam. Avreste dovuto parlare. Non è stato fatto nulla per alleviare il vostro dolore, ma ora dobbiamo far qualcosa, anche se tutti gli Orchi di Moria ci stanno inseguendo. Coraggio! Un poco più avanti c’è un luogo ove potremo riposare un momento. Là faremo per voi tutto ciò che ci sarà possibile. Vieni, Boromir! Portiamoli in braccio».

Incontrarono presto un altro torrente che scendeva dai pendii occidentali, per confondere le sue acque gorgoglianti con quelle turbinose dell’Argentaroggia. Si tuffavano insieme da uno strapiombo di pietra color verde e spumeggiavano giù in una conca circondata d’abeti, bassi e curvi, e dai fianchi scoscesi coperti di ravizzone e di cespugli di mirtilli. Sul fondo vi era una zona pianeggiante attraversata dal letto di lucidi ciottoli nel quale il torrente scorreva rumoroso. Si fermarono a riposare. Erano ormai quasi le tre del pomeriggio, ed avevano percorso poche miglia dai Cancelli. Già il sole volgeva ad occidente.

Mentre Gimli e i due giovani Hobbit accendevano un fuoco con legna d’abete e di cespugli ed attingevano acqua, Aragorn curava Sam e Frodo. La ferita di Sam non era profonda, ma aveva un brutto aspetto, ed Aragorn la esaminava con un’espressione grave sul volto. Dopo un minuto levò lo sguardo rasserenato.

«Fortunato, Sam!», disse. «Molti hanno ricevuto una peggiore ricompensa per l’uccisione del loro primo Orco. Il taglio non è avvelenato, com’è purtroppo il caso per gran parte delle ferite inflitte dalle lame degli Orchi. Guarirà bene quando l’avrò medicato. Fa’ degli impacchi con l’acqua che Gimli sta riscaldando».

Aprì la sua bisaccia e ne trasse delle foglie avvizzite. «Sono secche, ed hanno perso parte delle loro virtù», disse, «ma ho ancora qui con me alcune delle foglie di athelas che raccolsi vicino a Colle Vento. Spremine una nell’acqua, e lava la ferita finché non sia perfettamente pulita ed io possa fasciarla. Ed ora tocca a te, Frodo».

«Sto bene», disse Frodo, riluttante a far toccare le sue vesti. «Ho solo bisogno di qualcosa da mangiare e di un po’ di riposo».

«No!», disse Aragorn. «Dobbiamo dare un’occhiata per vedere cosa ti hanno fatto il martello e l’incudine. Io mi meraviglio ancora di vederti in vita». Sfilò delicatamente la vecchia casacca di Frodo e la sua camicia logora, e mandò un’esclamazione di stupore. Poi si mise a ridere. La cotta d’argento scintillava innanzi ai suoi occhi come luce su di un mare increspato. La tolse con precauzione e la tenne alta, e le gemme in essa sfavillarono come stelle, ed il tintinnio degli anelli era come il gocciolare di pioggia in uno stagno.

«Guardate, amici!», chiamò. «Ecco una graziosa pelle hobbit per avvolgere un principino elfico! Se si spargesse la voce che gli Hobbit hanno simili pelli, tutti i cacciatori della Terra di Mezzo galopperebbero verso la Contea».

«E tutte le frecce di tutti i cacciatori del mondo sarebbero vane», disse Gimli, con lo sguardo pieno di meraviglia fisso sulla cotta di maglia. «È un’armatura di mithril. Mithril. Mai avevo visto o udito ricordarne una così bella! È codesta la cotta di cui parlava Gandalf? L’aveva sottovalutata. Ma fu un dono ben fatto!».

«Mi sono chiesto spesso cosa stavate facendo, tu e Bilbo, chiusi nel segreto della sua piccola camera», disse Merry. «Benedetto sia il vecchio Hobbit! Gli voglio più bene che mai. Spero che avremo modo di raccontargli l’accaduto!».

Vi era uno scuro livido annerito sul fianco destro di Frodo e sul petto. Sotto la cotta vi era una giubba di soffice pelle, ma in un punto gli anelli l’avevano attraversata, penetrando nelle carni. Anche sul fianco sinistre vi erano lividi e scalfitture, là ove egli era stato scagliato contro il muro. Mentre gli altri preparavano il pasto, Aragorn fece impacchi sulle ferite con l’acqua in cui erano infuse le foglie di athelas. L’acre fragranza empì la conca, e tutti coloro che inalavano il vapore si sentivano rinfrescati e rinvigoriti. Tosto il dolore abbandonò Frodo, il cui respiro si fece più leggero; per parecchi giorni, tuttavia, rimase intorpidito e dolorante. Aragorn gli fasciò il fianco medicandolo con soffici tamponi di stoffa.

«La maglia è meravigliosamente leggera», disse. «Se non ti dà fastidio, infilala. Il mio cuore è felice sapendoti protetto dalla cotta. Non la riporre mai, neanche durante il sonno, a meno che la fortuna non ti conduca in un luogo ove tu sia al sicuro per un certo tempo; e ciò avverrà di rado, finché dura la tua missione».

* * *

Dopo il pasto la Compagnia si preparò alla marcia. Spensero il fuoco, cancellandone ogni traccia. Quindi, arrampicatisi fuori della conca, ripresero la strada. Non avevano fatto molto cammino quando il sole tramontò dietro le alture occidentali e grandi ombre strisciarono lungo i fianchi dei monti. Il crepuscolo velava i loro piedi e una nebbia leggera planava nelle depressioni. Lontano, a oriente, la sera illuminava col suo pallido bagliore le vaghe terre, le pianure e foreste distanti. Sam e Frodo, alleviati e molto riconfortati, riuscivano a procedere con passo spedito, ed Aragorn condusse la Compagnia per altre tre ore facendo una sola breve sosta.

Era buio. La notte fonda regnava. Vi erano parecchie stelle, ma la luna calante sarebbe apparsa molto più tardi. Gimli e Frodo erano gli ultimi della fila, e camminavano senza far rumore e senza parlare, attenti ad ogni rumore sulla strada alle loro spalle. Infine Gimli ruppe il silenzio.

«Nessun suono oltre il vento», disse. «Non vi sono spiriti maligni da queste parti, a meno che le mie orecchie non siano di legno. È da sperare che gli Orchi si accontentino di averci scacciati da Moria. Forse era quello il loro unico scopo, e non avevano altro motivo per inseguirci… o inseguire l’Anello. Tuttavia gli Orchi continuano spesso la caccia al nemico, per parecchie leghe nella pianura, se vi è un capitano caduto da vendicare».

Frodo non rispose. Guardò Pungolo, e la lama era opaca. Eppure aveva udito qualcosa, o così gli era parso. Non appena le ombre li avevano avvolti, oscurando la strada alle loro spalle, aveva di nuovo udito i veloci passetti. Li udiva anche adesso. Si voltò rapido. Due minuscoli punti luminosi brillavano poco distanti, o comunque credette di vederli per un attimo, prima che sgusciassero via scomparendo.

«Che succede?», chiese il Nano.

«Non so», rispose Frodo. «Mi è parso di udire dei passi, e mi è parso anche di vedere una luce… come due occhi. Non è la prima volta, da quando mettemmo piede a Moria».

Gimli si arrestò, curvandosi verso terra. «Non odo altro che il dialogo notturno di piante e pietre», disse. «Vieni! Affrettiamoci! Abbiamo perso di vista gli altri».

Il vento della notte li accolse soffiando freddo su per la vallata. Innanzi a loro giganteggiava un’ampia ombra grigia, ed essi udirono un interminabile fruscio di foglie come pioppi nella brezza.

«Lothlórien!», gridò Legolas. «Lothlórien! Siamo giunti ai margini del Bosco d’Oro. Purtroppo è inverno!».

Nella notte gli alberi si ergevano imponenti, inarcati sulla strada e sul fiume che s’inoltravano improvvisi sotto i loro rami frondosi. I tronchi erano grigi al pallido lume delle stelle, e le foglie fremevano con un tocco di giallo maggese.

«Lothlórien!», disse Aragorn. «Quale gioia udire di nuovo il vento negli alberi! Siamo ancora a poco più di cinque leghe dai Cancelli, ma non possiamo andar oltre. Speriamo che qui la virtù degli Elfi ci protegga dal pericolo che c’insegue».

«Posto che gli Elfi vivano ancora qui, in questo mondo che si oscura», disse Gimli.

«È trascorso molto tempo da quando alcuni dei miei tornarono a veder la terra abbandonata da noi secoli fa», disse Legolas, «ma sappiamo che Lórien ancora non è deserto e che una forza segreta respinge il male lungi da questa contrada. Ciò nonostante i suoi abitanti si mostrano di rado, e forse adesso vivono nel profondo dei boschi e lontani dai confini settentrionali».

«Vivono, come dici, nel profondo dei boschi», disse Aragorn, e sospirò, come se in lui qualche ricordo fosse stato svegliato. «Dobbiamo bastate a noi stessi, per questa notte. Percorreremo ancora un breve tratto di strada, finché gli alberi non saranno fitti intorno a noi, quindi lasceremo il sentiero per cercare un luogo ove riposare».

Fece un passo avanti; ma Boromir irresoluto non lo seguì. «Non c’è altra strada?», domandò.

«Quale migliore strada desidereresti?», disse Aragorn.

«Un semplice sentiero, anche se fiancheggiato da una siepe di spade», disse Boromir. «Per strane vie è stata condotta la nostra Compagnia, e tutte sinora con esito infausto. Contro la mia volontà passammo sotto le ombre di Moria, verso la nostra perdizione. Ed ora dobbiamo inoltrarci nel Bosco d’Oro, a quel che dici. Ma di quella perigliosa contrada abbiamo udito parlare a Gondor, e si dice che pochi di coloro che vi mettono piede ne escano, e che di questi pochi nessuno sia uscito illeso».

«Non dire illeso, bensì immutato, ed allora le tue parole saranno veritiere», ribatté Aragorn. «La sapienza è certo diminuita a Gondor, Boromir, se nella città di coloro che un tempo erano saggi ora si parla male di Lothlórien. Puoi non credermi, ma non vi è per noi altra via…. a meno che tu non voglia tornare al cancello di Moria, o scalare le montagne invalicabili, o nuotare da solo lungo il Grande Fiume».

«Ed allora guidaci!», disse Boromir. «Ma è pericoloso».

«Assai pericoloso», disse Aragorn, «bello e pericoloso; ma soltanto il male qui ha da temere, o colui che porta seco il male. Seguitemi!».

* * *

Avevano percorso poco più di un miglio nella foresta quando incontrarono un altro corso d’acqua, che fluiva rapido dai declivi alberati inerpicantisi ad ovest verso le montagne. Lo udivano scrosciare in una cascata a qualche distanza fra le ombre alla loto destra. Le scure acque veloci attraversavano il sentiero innanzi a loro, unendosi all’Argentaroggia in un turbine di stagni occultati dalle radici degli alberi.

«Questo è il Nimrodel!», disse Legolas. «Su questo fiume gli Elfi Silvani composero molte canzoni tanto tempo fa, e noi del Nord le cantiamo tuttora, memori dell’arcobaleno sulle cascate, e dei fiori d’oro galleggianti sulla sua schiuma. Tutto è oscuro ormai, e il Ponte sul Nimrodel è crollato. Immergerò i miei piedi nelle acque, che pare guariscano dalla fatica». Avanzò, e dopo aver disceso il ripido argine fece un passo nel torrente.

«Seguitemi!», gridò. «L’acqua non è profonda. Proviamo a guadarla! Sull’altra sponda potremo riposare, ed il rumore dell’acqua che cade ci porterà forse il sonno, e l’oblio dei dispiaceri».

Uno dopo l’altro discesero l’argine e seguirono Legolas. Frodo rimase un istante fermo sul bordo, lasciando che l’acqua gli lambisse i piedi stanchi. Era fredda, ma pulita al tatto, e man mano che egli avanzava, sentiva che ogni macchia del viaggio ed ogni ombra di fatica svaniva dalle sue membra, lavate dalle acque che gli arrivavano al ginocchio.

* * *

Quando furono tutti sull’altra riva, si sedettero e riposarono e si rifocillarono; Legolas narrò loro le storie di Lothlórien che gli Elfi del Bosco Atro custodiscono ancora nel loro cuore: storie di sole e di stelle sui prati lungo il Grande Fiume prima che il mondo divenisse grigio.

Infine cadde il silenzio, ed essi udirono la musica della cascata che scorreva dolcemente nelle ombre. A Frodo parve quasi di percepire un canto confuso con il suono dell’acqua.

«Udite la voce di Nimrodel?», domandò Legolas. «Vi canterò la storia di madamigella Nimrodel, che si chiamava come il fiume accanto al quale viveva tanto tempo fa. È un grazioso canto nella nostra lingua silvestre; ma io ve lo farò ascoltare nel Linguaggio dell’Ovest (Ovestron), come alcuni lo cantano ancora a Gran Burrone». Con una voce dolce e così fioca che quasi scompariva nel fruscio delle foglie sulle loro teste, intonò:

Elfica fanciulla d’un tempo passato,

Stella che brilla al vento,

Bianco il suo mantello e d’oro bordato

E le scarpe grigio argento.

Una stella sulla sua fronte,

Una luce sui suoi capelli,

Il sole brilla tra le fronde

A Lórien dei giorni belli.

Lunghi i capelli, bianca la pelle, chiara la voce

Della libera fanciulla volante

Nell’aria e nel vento come luce veloce,

Come sul tiglio foglia vibrante.

Nel Nimrodel fra le cascate

Dalle acque chiare e spumeggianti

La sua voce come gocce argentate

Squillava tra i flutti scintillanti.

Nessuno sa per quali alti valichi

Se all’ombra o al sole ella errando vada,

Perché Nimrodel smarrita in tempi antichi

E persa fu nei monti e nella rugiada.

Nei rifugi oscuri la elfica nave,

Sotto il riparo del monte,

Da giorni e giorni l’aspettava

Nelle ruggenti acque profonde.

Un vento al Nord si levò di notte,

Ululava e gemea,

E trascinò via dai porti le navi a frotte

Nella potente marea.

Pallida venne l’alba e le terre fuggivano.

Grigio svaniva il monte

Oltre le grandi onde che violente muggivano

E spumeggiavano sino all’orizzonte.

Amroth le spiagge ed i lidi mirava

Oltre l’onda sollevata,

Odiando la nave infida che l’allontanava

Da Nimrodel la sua adorata.

Egli Re Elfico anticamente era,

Signore d’albero e di radura,

Quando d’oro brillavano i rami in primavera

A Lothlórien la pura.

Lo videro balzare dal timone nel mare

Come la freccia dalla corda tesa,

E nelle acque profonde nuotare

Come il gabbiano sull’onda protesa.

Il vento impetuoso nel fluente capello,

La schiuma lo avvolgeva tutto,

Lungi lo videro possente e bello

Attraversare il flutto.

Ma da ovest non è giunto messaggio

E sul Vicino Lido incantato

Gli Elfi nulla sanno del viaggio

Di Amroth loro re adorato.

La voce di Legolas tremò e la canzone finì. «Non posso continuare», disse. «Ciò che vi ho cantato non è che una parte, ed il resto più non lo ricordo. Lunga e triste è la storia, che narra come la sventura si abbatté su Lothlórien, Lórien dei Bocciuoli, quando i Nani destarono il male nelle montagne».

«Ma i Nani non crearono il male», ribatté Gimli.

«Non li ho incolpati di ciò; eppure il male venne», rispose accorato Legolas. «Ed allora molti Elfi della stirpe di Nimrodel abbandonarono le loro dimore e partirono, e Nimrodel si smarrì lontano, a sud, nei valichi dei Monti Bianchi; e non giunse alla nave ove Amroth, l’ amato, l’attendeva. Ma durante la primavera, quando il vento fruscia fra le foglie novelle, si ode ancora l’eco della sua voce presso le cascate che portano il suo nome. E quando il vento tira al Sud, la voce di Amroth giunge dal mare; il Nimrodel si getta nell’Argentaroggia, che gli Elfi chiamano Celebrant, e il Celebrant a sua volta nel Grande Anduin, il quale sbocca nella Baia di Belfalas donde gli Elfi di Lórien salparono. Ma Nimrodel ed Amroth non tornarono mai più a Lórien.

«Si narra che ella si facesse costruire una dimora fra i rami di un albero che cresceva nei pressi delle cascate; tale era infatti la consuetudine degli Elfi di Lórien, e forse ancora adesso essi vivono sugli alberi. Per codesta ragione venivano chiamati i Galadhrim, la Gente degli Alberi. Nel profondo della loto foresta gli alberi sono molto grandi. I popoli silvani non scavavano la terra come i Nani, e non costruivano baluardi prima che venisse l’Ombra».

«Anche in questi tempi abitare sugli alberi potrebbe essere considerato più sicuro che non sedere in terra», disse Gimli. Guardò al di là del torrente la strada che conduceva alla Valle dei Rivi Tenebrosi, quindi levò gli occhi alla coltre di scuri rami sul suo capo.

«Le tue parole sono un saggio consiglio, Gimli», disse Aragorn. «Non possiamo costruire una casa, ma per questa notte faremo come i Galadhrim, e cercheremo rifugio tra le chiome degli alberi, se vi riusciremo. Siamo rimasti qui seduti lungo la strada più di quanto il buonsenso non ce lo permettesse».

* * *

La Compagnia lasciò il sentiero e s’inoltrò tra le ombre del bosco più fitto, dirigendosi verso ovest lungo il ruscello di montagna e lontano dall’Argentaroggia. Non lungi dalle cascate del Nimrodel trovarono un gruppetto d’alberi, alcuni dei quali s’inarcavano sul torrente. I loro grossi tronchi grigi avevano possenti circonferenze, ma era impossibile valutarne l’altezza.

«Mi arrampicherò», disse Legolas. «Sono di casa tra gli alberi, radice o ramo che sia, benché codesti siano di una specie a me ignota, il cui nome ho solo udito nelle canzoni. Mellyrn vengono chiamati, e sono essi che producono i fiori gialli, ma io non mi ci sono mai arrampicato su. Vedrò ora qual è la loro forma, ed il loro modo di crescere».

«Comunque siano», disse Pipino, «questi alberi saranno veramente meravigliosi se offrono un possibile riposo notturno ad altri che agli uccelli. Io non so dormire appollaiato su una gruccia!».

«Scava allora un fosso nel terreno», disse Legolas, «se ciò si confà maggiormente alle abitudini della tua razza. Ma devi scavare veloce ed in profondità, se desideri nasconderti dagli Orchi». Con un rapido balzo da terra afferrò un ramo che cresceva dal tronco al di sopra della sua testa. Dondolò sospeso per un attimo, ma improvvisamente una voce parlò dalle ombre degli alberi su di lui.

«Daro!», disse con tono autoritario, e Legolas ricadde a terra stupefatto e spaventato. Si acquattò contro il tronco.

«State fermi!», disse sussurrando agli altri. «Non muovetevi e non parlate!».

Si udì nelle fronde un riso sommesso, ed un’altra limpida voce parlò in una lingua elfica. Frodo capiva poco di quel che veniva detto; il popolo Silvano ad est delle montagne parlava un linguaggio dissimile da quello degli Elfi dell’Ovest. Legolas levò lo sguardo rispondendo nello stesso idioma.’

«Chi sono, e cosa dicono?», domandò Merry.

«Sono Elfi», rispose Sam. «Non udite le loro voci?».

«Sì», disse Legolas, «sono Elfi, e dicono che respirate così forte che potrebbero con una freccia trafiggervi al buio». Sam si mise immediatamente una mano sulla bocca. «Ma dicono anche che non dovete temere. Da tempo si sono accorti della nostra presenza. Udirono la mia voce al di là del Nimrodel, e capirono che appartenevo alla loro stirpe nordica[14]. e quindi non ci ostacolarono nell’attraversamento del fiume; infine udirono anche la mia canzone. Ora mi pregano di salire insieme con Frodo; pare che abbiano ricevuto notizie su lui e sul nostro viaggio. Chiedono agli altri di pazientare un attimo, facendo la guardia ai piedi dell’albero, in attesa che essi abbiano deciso sul da farsi».

* * *

Dalle ombre fu calata una scala: era di una corda grigio-argento che scintillava nell’oscurità, e malgrado l’aspetto fragile, si dimostrò sufficientemente robusta per sopportare il peso di parecchie persone. Legolas salì veloce, e Frodo lo seguì più lentamente; Sam andò su anch’egli, cercando di non respirare rumorosamente. I rami dell’albero crescevano quasi perpendicolari al tronco, per poi slanciarsi verso l’altro; ma verso la cima, il fusto si divideva in una corona di diramazioni fra le quali era stata costruita una piattaforma in legno, che a quei tempi veniva chiamata flet: il nome elfico era però talan. Vi si giungeva tramite un foro circolare aperto nel centro, attraverso il quale passava la scala,

Quando Frodo mise infine piede sul flet, trovò Legolas seduto con altri tre Elfi. I loro abiti erano grigio-argento, e salvo quando si muovevano improvvisamente, era impossibile distinguerli dai tronchi. Si alzarono in piedi, ed uno di essi scoperse un piccolo lume che sprigionava un esile raggio argenteo. Lo tenne alto, guardando alla sua luce il volto di Frodo, quindi quello di Sam. Nascose nuovamente la fiamma, pronunziando parole di benvenuto nella sua lingua elfica. Frodo rispose esitante.

«Benvenuto!», ripeté l’Elfo, parlando lentamente nella Lingua Corrente. «È raro per noi adoperare altro linguaggio che il nostro; adesso viviamo nel cuore della foresta, e non trattiamo volentieri con altre genti. Persino i nostri stessi parenti del Nord sono divisi da noi. Ma alcuni dei nostri vanno ancora nelle terre straniere per raccogliere notizie e sorvegliare i nemici, e parlano quindi le lingue di altri paesi. Io sono uno di essi; Haldir è il mio nome. I miei fratelli, Rùmil ed Orophin, parlano poco il vostro idioma.

«Ma avevamo udito della vostra venuta, perché i messaggeri di Elrond passarono da Lórien tornando a casa su per la Scala dei Rivi Tenebrosi. Da molti lunghi anni non sapevamo più nulla degli Hobbit, dei Mezzuomini, e non pensavamo ve ne fossero ancora nella Terra di Mezzo. Non sembrate malvagi! E poiché venite con un Elfo della nostra stirpe, è con piacere che vi aiuteremo, come Elrond ci chiese di fare, benché non sia nelle nostre abitudini condurre degli stranieri attraverso la nostra terra. Ma dovrete passare qui la notte. Quanti siete?».

«Otto», disse Legolas. «Io, quattro Hobbit, e due Uomini, uno dei quali, Aragorn, è un Amico degli Elfi e fa parte della gente dell’Ovesturia».

«Il nome di Aragorn figlio di Arathorn è conosciuto a Lórien», disse Haldir, «ed egli gode della benevolenza della Dama. Va dunque tutto bene. Ma ne hai sinora nominati soltanto sette». «L’ottavo è un Nano», disse Legolas.

«Un Nano!», esclamò Haldir. «Ciò non va bene. Non trattiamo con i Nani sin dai Giorni Oscuri. Essi non sono ammessi nel nostro paese. Non posso permettergli di passare».

«Ma egli è della Montagna Solitaria, una delle persone fidate di Dàin, ed in rapporto d’amicizia con Elrond», disse Frodo. «È stato Elrond stesso a sceglierlo per nostro compagne, ed egli si è dimostrato coraggioso e fedele».

Gli Elfi parlarono tra loro a voce sommessa, interrogando Legolas nel loro linguaggio. «Molto bene», disse infine Haldir. «Questo è ciò che faremo, pur non essendo di nostro gradimento: se Aragorn e Legolas lo sorvegliano e rispondono di lui, egli potrà passare; ma gli permetteremo di attraversare Lothlórien soltanto con gli occhi bendati. «Non dobbiamo però perdere altro tempo in discussioni. I vostri compagni non devono rimanere a terra. Stiamo sorvegliando i fiumi da quando vedemmo una frotta di Orchi dirigersi a nord verso Moria, lungo le falde delle montagne, molti giorni or sono. I lupi ululano ai margini del bosco. Se venite effettivamente da Moria, il pericolo non può essere rimasto molto indietro. Domattina presto dovete proseguire.

«I quattro Hobbit saliranno qui e passeranno la notte con noi, non li temiamo! Vi è un altro talan sull’albero vicino. Servirà da rifugio per gli altri compagni e Tu, Legolas, risponderai di loro innanzi a noi. Chiamaci, se qualcosa non va! E tieni d’occhio quel Nano!».

* * *

Legolas discese immediatamente la scala a portare il messaggio di Haldir; tosto Merry e Pipino sgattaiolarono sull’alto flet. Ansimavano e parevano alquanto spauriti.

«Ecco!», disse Merry parlando affannosamente. «Abbiamo trascinato su le tue coperte insieme alle nostre. Grampasso ha nascosto profondamente il resto del bagaglio in un mucchio di foglie».

«Non erano necessari i vostri fardelli», disse Haldir. «Fa freddo in inverno sulle cime degli alberi, anche quando, come oggi, il vento soffia dal Sud; ma abbiamo cibo e bevande che scacceranno il gelo della notte, e pelli e manti in abbondanza».

Gli Hobbit accettarono questo secondo (e di gran lunga migliore) pasto serale con molta gioia. Dopo di che si avvolsero al caldo non solo dei manti di pelliccia degli Elfi, ma anche delle loro coperte, e tentarono di addormentarsi. Ma stanchi come erano, l’unico a prender facilmente sonno fu Sam. Gli Hobbit non amano le alture, e non dormono mai al primo piano, anche quando posseggono un primo piano. Il flet non era per nulla di loro gradimento quale camera da letto; non vi erano muri, e nemmeno una ringhiera; solo da un lato, un leggero schermo pieghettato poteva essere spostato e fissato in posti diversi a seconda del vento.

Pipino continuò a parlare per qualche minuto. «Spero, ammesso che riesca ad addormentarmi in questo letto-solaio, di non rotolare giù», disse.

«Una volta addormentato», disse Sam, «che io rotoli giù O meno non interromperò il mio sonno. E meno si parla, prima potrò dormire, non so se mi spiego».

* * *

Frodo rimase a lungo sveglio, guardando coricato le stelle che scintillavano attraverso il pallido tetto di foglie frementi. Sam accanto a lui russava già da molto tempo, quando egli finalmente chiuse gli occhi. Distingueva vaghe le forme di due Elfi seduti immobili con le braccia intorno alle ginocchia, che sussurravano fra loro. L’altro era sceso a fare il suo turno di guardia su uno dei rami inferiori. Infine, cullato dal vento ondeggiante tra le fronde e dal dolce mormorio delle cascate del Nimrodel sotto di lui, Frodo si assopì ed il canto di Legolas risuonava nella sua mente.

A notte fonda si destò. Gli altri Hobbit dormivano. Degli Elfi, nessun segno. La falce di luna ardeva pallida tra le foglie. Il vento si era calmato. Ad una piccola distanza udì un roco riso, ed il rumore di parecchi passi sul terreno sotto di lui. Vi fu un suono metallico. Poi il brusio andò scemando, e parve dirigersi a sud, verso il profondo del bosco.

Una testa comparve improvvisamente nel foro del flet. Frodo saltò a sedere allarmato, e riconobbe il cappuccio grigio di un Elfo. Il suo sguardo era posato sugli Hobbit.

«Cos’è?», disse Frodo.

«Yrch!», disse l’Elfo con un sussurro sibilante, e posò sul flet la scala di fune arrotolata.

«Orchi!», disse Frodo. «Cosa stanno facendo?». Ma l’Elfo era scomparso.

Non si udirono altri rumori. Persino le foglie erano silenziose, e le cascate stesse parevano chetate. Frodo, seduto, rabbrividiva sotto le coperte. Ringraziava il cielo che non erano stati sorpresi in terra ai piedi degli alberi; tuttavia sentiva che le fronde offrivano ben poca protezione oltre il nascondiglio. Si diceva che gli Orchi avessero il fiuto più fine di un cane da caccia, e sapevano anche arrampicarsi. Frodo sguainò Pungolo: la lama mandò scintille e faville come fiamme azzurre, poi lentamente si offuscò e fu di nuovo opaca. Malgrado l’oscurarsi della sua spada, la sensazione di un pericolo imminente non abbandonò Frodo; diventò anzi più forte. Si alzò e, strisciando sino all’apertura, scrutò le ombre sotto di sé. Era quasi certo di udire movimenti furtivi ai piedi dell’albero.

Non erano Elfi; la gente silvestre era assolutamente silenziosa in ogni movimento. In quel momento udì un debole rumore simile ad un fiuto, e gli parve che qualcosa stesse affannosamente tastando la corteccia dell’albero. Il suo sguardo cercò di penetrare l’oscurità, mentre egli tratteneva il respiro.

Qualcosa adesso si arrampicava lentamente, ed il suo fiatare giungeva come un lieve sibilo a denti stretti. Allora Frodo vide salire lungo il tronco due pallidi occhi. Si arrestarono, guardando fisso in alto, senza batter ciglia. D’un tratto si allontanarono, ed una figura ombrosa scivolò giù dal fusto e svanì.

Subito dopo Haldir apparve tra i rami arrampicandosi agile e veloce. «Vi era su quest’albero qualcosa che non avevo mai visto prima di oggi», disse. «Non era un Orco. Fuggì non appena io toccai il tronco dell’albero. Pareva guardingo, ed abile nel destreggiarsi sugli alberi, altrimenti avrei pensato che fosse uno di voi Hobbit. Non ho scoccato frecce, perché temevo di provocare grida, e non possiamo correre il rischio di una battaglia. Una forte compagnia di Orchi è passata or ora. Hanno attraversato il Nimrodel… - maledetti i loro immondi piedi nelle sue limpide acque!… - per poi proseguire lungo l’antica strada accanto al fiume. Pareva stessero fiutando qualcosa, e per un certo tempo esaminarono il terreno vicino al punto in cui vi eravate fermati. Noi eravamo tre e non potevamo sfidarne cento, per cui andammo avanti, e parlando con voci simulate li conducemmo verso l’interno del bosco.

«Orophin è ora tornato in fretta nelle nostre dimore per avvertire il popolo. Di quegli Orchi nemmeno uno uscirà vivo da Lórien. E vi saranno molti Elfi nascosti al confine settentrionale prima del calar della prossima notte. Ma voi dovrete incamminarvi verso sud non appena farà giorno».

* * *

La mattina giunse pallida da oriente. La luce, crescendo, filtrava attraverso le gialle foglie, e agli Hobbit sembrava veder brillare il mattiniero sole di una fresca alba estiva. Azzurro pallido, il cielo faceva capolino tra i rami frementi. Guardando da un’apertura nel lato sud del flet, Frodo vide la valle dell’Argentaroggia stendersi in un mare di giallo maggese ondeggiante dolcemente nella brezza. La mattina era ancora giovane e fredda quando la Compagnia si rimise in marcia, guidata ora da Haldir e da suo fratello Rùmil. «Addio, dolce Nimrodel!», gridò Legolas. Frodo voltandosi scorse un bagliore di bianca spuma fra i fusti degli alberi. «Addio», disse. Gli parve che mai più avrebbe udito fluire acque così belle, dall’eterno fondersi di innumerevoli note in una musica sempre cangiante.

Ripresero il sentiero che procedeva ancora lungo la riva occidentale dell’Argentaroggia, percorrendolo per un breve tratto verso sud. Vi erano impronte di Orchi sul terreno. Ma tosto Haldir lo abbandonò per inoltrarsi tra gli alberi e sostare poi alla loro ombra sull’argine del fiume.

«C’è uno della mia gente laggiù al di là dei flutti», disse, «benché voi forse non lo vediate». Il suo richiamo fu come il sommesso trillo di un uccello, e da un gruppetto di giovani alberi uscì un Elfo vestito di grigio; ma il suo cappuccio gli ricadeva sulle spalle, lasciando la capigliatura scintillare come oro al sole del mattino. Haldir lanciò con destrezza un rotolo di corda grigia al di là del fiume, e quegli l’afferrò, fissandone l’estremità intorno ad un albero vicino alla sponda.

«Il Celebrant. è già un vigoroso corso d’acqua, come vedete», disse Haldir, «e fluisce al tempo stesso rapido e profondo, e le sue acque sono molto fredde. Noi, così a nord, non vi poniamo mai piede, se non è assolutamente indispensabile. Ma in questi giorni circospetti non costruiamo ponti. È così che traversiamo! Seguitemi!». Fissò la sua estremità della fune ad un altro albero, e poi rapido e leggero corse sull’altra riva del fiume e tornò, come se fosse su una strada.

«I miei piedi sanno percorrere codesto sentiero», disse Legolas; «gli altri non hanno però la nostra agilità. Debbono andare a nuoto?».

«No!», disse Haldir. «Abbiamo altre due corde. Le legheremo al di sopra di questa, una all’altezza della spalla e l’altra della vita, e reggendosi ad esse con precauzione, gli stranieri dovrebbero riuscire a traversare».

Quando lo snello ponte fu allestito, la Compagnia s’incamminò; gli uni cauti e lenti, gli altri con maggior disinvoltura. Degli Hobbit il migliore fu Pipino, il cui passo sicuro lo portò rapidamente sulla riva opposta, pur tenendosi con una mano sola; procedeva guardando fisso innanzi a sé, e non abbassò mai lo sguardo. Sam avanzava strascicandosi, avvinghiato alle corde, e con gli occhi nelle pallide acque vorticose come fossero un baratro nelle montagne.

Respirò con sollievo quando fu sano e salvo sulla riva opposta. «Vivi ed impara! soleva dire il mio Gaffiere. Egli però pensava al giardinaggio, e non all’appollaiarsi degli uccelli, o al tentar di camminare come i ragni. Nemmeno mio zio Andy fece mai un giochetto del genere!».

Quando la Compagnia al completo fu riunita infine sulla sponda orientale dell’Argentaroggia, gli Elfi slegarono le corde e ne arrotolarono due. Rùmil, che era rimasto dall’altra parte del fiume, tirò a sé la terza, se la mise in spalla, e con un cenno di saluto tornò indietro a montar la guardia presso il Nimrodel.

«Adesso, amici», disse Haldir, «avete messo piede nel Nalth di Lórien, che voi chiamereste la Punta, poiché è la terra a forma di testa di lancia al confluire tra l’Argentaroggia ed il Grande Anduin. Non permettiamo ad alcun straniero di spiare i segreti del Nalth; ben pochi sono coloro ai quali è permesso entrarvi.

«D’ora in poi, com’eravamo d’accordo, Gimli il Nano procederà ad occhi bendati. Gli altri possono ancora camminare liberi, sin quando giungeremo nelle vicinanze delle nostre dimore giù ad Egladil, nell’Angolo tra le acque».

La decisione presa non garbava per nulla a Gimli. «L’accordo fu raggiunto senza il mio consenso», disse. «Io non camminerò con gli occhi bendati, come un mendicante o un prigioniero. E non sono una spia. Il mio popolo non ha mai avuto rapporti con alcuno dei servitori del Nemico. Mai abbiamo fatto del male agli Elfi. È altrettanto probabile che vi tradisca Legolas, o un altro qualsiasi dei miei compagni».

«Non metto in dubbio le tue parole», disse Haldir. «Ma questa è la nostra legge. Io non sono padrone della legge, e non ho il diritto di trasgredirla. Già molto è stato fatto permettendoti di metter piede oltre il Celebrant».

Gimli si ostinava. Divaricò le gambe e, ben saldo sui piedi, disse, posando la mano sul manico della sua ascia: «Andrò avanti libero, o tornerò indietro alla ricerca della mia terra, ove è risaputo che le mie parole sono veritiere, anche a costo di perire da solo nelle zone selvagge».

«Non puoi tornare indietro», disse Haldir severamente. «Ora che sei giunto sin qui, devi apparire al cospetto del Signore e della Dama. Essi giudicheranno se tenerti o congedarti, secondo il loro desiderio. Non puoi attraversare di nuovo il fiume, e alle tue spalle ci sono adesso sentinelle segrete che non ti lasceranno passare. Saresti ucciso prima di scorgerle».

Gimli trasse la sua ascia dalla cintura. Haldir ed il suo compagno tesero i loro archi. «Dannati siano i Nani e la loro caparbietà!», disse Legolas.

«Suvvia!», disse Aragorn. «Se è ancor mio il compito di condurre codesta Compagnia, fate quel che vi dico. È duro per un Nano che siano fatte simili distinzioni. Andremo tutti con gli occhi bendati, anche Legolas. È la migliore soluzione, anche se renderà il viaggio lento e monotono».

Gimli rise improvvisamente. «Avremo l’aria di un’allegra comitiva di buffoni! Haldir ci condurrà dunque al guinzaglio, come molti mendicanti ciechi con un solo cane? Mi basterà che la benda ricopra gli occhi di Legolas».

«Sono un Elfo, e un loro congiunto», disse Legolas, a sua volta incollerito.

«Ora è il caso di gridare: “Dannati gli Elfi e la loro caparbietà!”», disse Aragorn. «Ma la Compagnia viaggerà tutta allo stesso modo. Coraggio, bendaci gli occhi, Haldir!».

«Reclamerò debite ammende per ogni caduta ed ogni inciampo, se non ci condurrai bene», disse Gimli mentre gli venivano bendati gli occhi con una fascia.

«Non vi saranno reclami», disse Haldir. «Io vi condurrò bene, ed i sentieri sono piani e dritti».

«Ahimè, qual follia codesti tempi!», esclamò Legolas. «Qui tutti sono nemici di quell’unico Nemico, eppure devo camminare cieco mentre il sole felice penetra nei luoghi boscosi tra foglie d’oro!».

«Può sembrare follia», disse Haldir. «Non vi è infatti segno più evidente della potenza dell’Oscuro Signore: l’inimicizia che separa coloro che ancora lo combattono. Eppure così poca fede troviamo nel mondo oltre i confini di Lothlórien, salvo forse a Gran Burrone, che non osiamo con la nostra fiducia mettere in pericolo il nostro proprio paese. Viviamo ormai su un’isola in mezzo alle insidie, e le nostre mani si posano più sovente sulla corda dell’arco, che non su quelle dell’arpa.

«I fiumi ci hanno a lungo difesi, ma non son più una protezione sicura; l’Ombra si è estesa a nord tutt’intorno a noi. Alcuni accennano a partire, ma sembra che per partire sia già troppo tardi. Le montagne ad ovest stanno diventando malvagie; a est le terre sono desolate ed invase dalle creature di Sauron; infine corre voce che non vi sia ormai più alcuna sicurezza sulla via che porta a sud attraverso Rohan, e che le foci del Grande Fiume siano sorvegliate dal Nemico. Anche se riuscissimo a raggiungere le sponde del Mare, non vi troveremmo alcun riparo. Dicono che esistano ancora dei porti degli Alti Elfi, lontano a nord-ovest, oltre il paese dei Mezzuomini. Ma dove si trovino, il Signore e la Dama lo sanno forse, io lo ignoro».

«Dovresti almeno supporlo, poiché hai conosciuto noi», disse Merry. «Vi sono porti elfici ad ovest del mio paese, la Contea, ove vivono gli Hobbit».

«Felice il popolo hobbit che abita vicino alle sponde del Mare!», disse Haldir. «Sono passati lunghi anni dall’ultima volta che la mia gente mirò le sue acque, eppure le ricordiamo ancora nei nostri canti. Parlami di quei porti mentre camminiamo».

«Non mi è possibile», disse Merry. «Non li ho mai visti. Non avevo mai messo piede fuori del mio paese, e se avessi saputo com’è il resto del mondo, non credo che avrei avuto il coraggio di partire».

«Neanche per vedere la dolce Lothlórien?», disse Haldir. «Il mondo è davvero pieno di pericoli, e vi sono molti posti oscuri; ma si trovano ancora delle cose belle, e nonostante che l’amore sia ovunque mescolato al dolore, esso cresce forse più forte.

«Dei nostri, alcuni cantano che l’Ombra un dì arretrerà, e la pace regnerà nuovamente. Eppure io non credo che il mondo intorno a noi tornerà mai com’era in passato, e che la luce del Sole brillerà come prima. Per gli Elfi, temo, potrebbe al massimo essere una tregua, ed essi ne approfitterebbero per raggiungere il Mare liberamente, e abbandonare per sempre la Terra di Mezzo. Ahimè, la mia beneamata Lothlórien! Qual vita infelice in una terra ove non crescono i nostri alberi d’oro! Se ve ne sono al di là del Grande Mare, nessuno tuttavia ce lo ha mai riferito».

Parlando in cotal maniera, la Compagnia procedeva lentamente lungo i sentieri del bosco, condotta da Haldir e protetta alle spalle dall’altro Elfo. Il terreno sotto i loro piedi era soffice e pianeggiante, ed essi camminarono presto più disinvolti, senza temere cadute e ferite. Privo della vista, Frodo si accorse che l’udito e gli altri sensi si erano fatti più acuti: fiutava gli alberi e l’erba calpestata, udiva molte note diverse nel fruscio delle foglie sulla sua testa, nel mormorio del fiume leggermente a destra, e nelle chiare ed esigue voci d’uccelli in cielo; sentiva il sole sul viso e sulle mani ogni qual volta attraversavano un’aperta radura.

Dal momento in cui aveva attraversato l’Argentaroggia, si era sentito penetrare da una strana sensazione che si faceva più intensa man mano che egli si inoltrava nel Nalth; gli sembrava di essere passato su un ponte del tempo e di essere giunto in un angolo dei Tempi Remoti, e di star ora camminando in un mondo che non era più. A Gran Burrone vi era il ricordo di cose passate; a Lórien le cose del passato vivevano ancora. Il male vi era stato visto ed udito, e il dolore più volte provato; gli Elfi temevano e diffidavano del resto del mondo: i lupi ululavano ai margini del bosco: ma sulla terra di Lórien non vi era alcuna ombra.

* * *

La Compagnia continuò a marciare tutto il giorno, sin quando non giunse la fresca sera e il sussurrare tra le molte foglie del primo vento della notte. Allora riposarono, dormendo senza timore sulla terra, poiché le guide non permisero che si scoprissero gli occhi ed essi non potevano quindi arrampicarsi sugli alberi. Al mattino si rimisero in marcia, avanzando senza fretta. Si fermarono al meriggio, e Frodo si accorse improvvisamente che erano usciti al sole. D’un tratto udì intorno a sé il suono di molte voci.

Una schiera di Elfi in marcia si era avvicinata silenziosamente: erano diretti verso le frontiere nord, per difendere Lórien contro un eventuale attacco da Moria, e portavano notizie che Haldir in parte tradusse. Gli Orchi predoni, ai quali era stato teso un agguato, erano quasi annientati; i superstiti, fuggiti ad ovest verso le montagne, venivano inseguiti. Avevano anche avvistato uno strano essere, che correva con la schiena curva e le mani vicino terra, come una bestia, pur non avendo la forma di una bestia. Era riuscito ad eludere la cattura, ed essi non l’avevano ucciso, non sapendo se fosse malvagio o meno; era poi scomparso a sud lungo l’Argentaroggia.

«Inoltre», disse Haldir, «mi portano un messaggio del Signore e della Dama dei Galadhrim. D’ora in poi camminerete tutti liberamente, anche il Nano Gimli. Sembra che la Dama conosca l’identità e l’indole di ognuno di voi. Nuovi messaggi sono forse giunti da Gran Burrone».

Cominciò col togliere la benda dagli occhi di Gimli. «Perdona!», disse con un profondo inchino. «Guardaci con occhi amichevoli, adesso! Guarda e sii felice, perché tu sei il primo Nano che veda gli alberi del Nalth di Lórien dai Tempi di Durin!».

Quando gli occhi di Frodo furono a loro volta scoperti, egli levò lo sguardo e rimase senza fiato. Si trovavano in una radura. Alla loro sinistra una grossa montagnola era ricoperta di un manto d’erba verde come la Primavera dei Tempi Remoti; in cima, in una doppia corona, crescevano due cerchi di alberi: quelli all’esterno avevano una corteccia candida come neve, ed erano privi di foglie, ma splendidi nella loro armoniosa nudità; quelli interni si ergevano in tutta la loro altezza, ancora vestiti di pallido oro. Al centro giganteggiava un albero, fra gli alti rami del quale splendeva un bianco flet. L’erba ai piedi dei tronchi e sui verdi fianchi della collina era cosparsa di piccoli fiori d’oro a forma di stella. Fra questi, altri fiori ondeggiavano su esili steli, bianchi o d’un verde pallidissimo: scintillavano come nebbiolina sull’intenso colore dell’erba. Il cielo in alto era blu, ed il sole del pomeriggio ardeva sulla collina proiettando lunghe ombre verdi sotto gli alberi.

«Mirate! Siete giunti al Cerin Amroth», disse Haldir. «Questo è il cuore dell’antico reame di tanto tempo fa, e qui si trova la collina di Amroth, ove in giorni più felici s’innalzava la sua casa. Qui fioriscono perenni i fiori autunnali nel verde mai sbiadito dell’erba: il giallo elanor, la pallida niphredil. Fermiamoci qui qualche tempo; giungeremo al crepuscolo nella città dei Galadhrim».

* * *

Mentre gli altri si sdraiavano sull’erba fragrante, Frodo rimase in piedi perso in ammirazione. Gli sembrava di essere volato giù da un’alta finestra aperta su un mondo svanito. La luce in cui era immerso non aveva nome nella sua lingua. Tutto ciò che vedeva era armonioso, ma i contorni parevano al tempo stesso precisi, come se concepiti e disegnati al momento in cui gli venivano scoperti gli occhi, ed antichi, come se fossero esistiti da sempre. Non vedeva colori ignoti al suo sguardo, ma qui l’oro ed il bianco, il blu ed il verde erano freschi ed acuti, e gli pareva di percepirli per la prima volta e di creare per essi nomi nuovi e meravigliosi. Nessun cuore avrebbe mai potuto qui d’inverno rimpiangere l’estate o la primavera. Né difetto, né malattia, né deformità su tutto ciò che cresceva sulla terra. A Lórien non vi era alcuna macchia.

Si voltò e vide che ora Sam era in piedi accanto a lui, e si guardava intorno con aria perplessa, strofinandosi gli occhi come se non fosse certo di esser desto. «Il sole brilla davvero, e siamo in pieno giorno», disse. «Credevo che gli Elfi amassero soltanto luce di luna e stelle: eppure questo posto è il più elfico che abbia mai visto o udito descrivere. Ho la sensazione di trovarmi all’interno di un canto, se riesco a farmi intendere».

Haldir li guardò, e Sam doveva essersi effettivamente spiegato bene, poiché sorrise e disse: «Sentite il potere della Dama dei Galadhrim. Avreste piacere di salire con me sul Cerin Amroth?».

Seguirono i suoi leggeri passi sui pendii ricoperti d’erba. Pur camminando e respirando in mezzo a foglie e fiori vivi agitati dallo stesso fresco vento che gli accarezzava il volto, Frodo si sentiva in una terra senza tempo, che non cambiava, non sbiadiva, non cadeva nell’oblio. Una volta partito e ritornato nel mondo esterno, Frodo il viaggiatore della Contea avrebbe tuttavia continuato a camminare su quell’erba, tra elanor e niphredil, nella dolce Lothlórien.

Entrarono nel cerchio di alberi bianchi, ed in quel momento il Vento del Sud incominciò a soffiare sul Cerin Amroth, sospirando fra i rami. Frodo rimase immobile ad ascoltare remoti mari lambire grandi spiagge cancellate ormai da molti e molti anni, ed il grido di uccelli marini la cui razza si era estinta sulla terra.

Haldir aveva proseguito ed ora si stava arrampicando sull’alto flet. Frodo, preparandosi a seguirlo, posò la mano sull’albero accanto alla scala: mai come allora aveva percepito così all’improvviso e con tale intensità il contatto e la consistenza” della corteccia di un albero e della vita che vi scorreva. Il legno in se stesso, ed il suo contatto, gli procuravano una gioia diversa da quella del falegname o della guardia forestale: era la gioia vissuta dall’albero che penetrava in lui.

Quando infine poggiò piede sulla piattaforma aerea, Haldir gli prese una mano e gli indicò il Sud. «Guarda prima in questa direzione!», gli disse.

Frodo guardò e vide, ad una certa distanza, un colle con molti alberi imponenti, o una città di verdi torri: non distingueva quale dei due fosse. Sembrava che da lì s’irradiassero tutto il potere e tutta la luce che regnavano su quella terra. Desiderò improvvisamente di poter volare come un uccello per posarsi su quella verde città. Poi il suo sguardo si fermò ad est sulla terra di Lórien che si stendeva sino al pallido bagliore dell’Anduin, il Grande Fiume; ma levando gli occhi oltre il fiume, vide spegnersi ogni luce, ed apparire il mondo che egli conosceva. Al di là del corso d’acqua, la terra era piatta e vuota, vaga ed imprecisa, e più lontano ancora s’innalzava di nuovo come un muro, oscura e desolata. Il sole che illuminava Lothlórien non aveva il potere di penetrare le ombre di quelle lontane alture.

«Ivi è la fortezza del Bosco Atro Meridionale», disse Haldir. «È circondata da una foresta di scuri abeti, ove gli alberi lottano gli uni contro gli altri, ed i loro rami marciscono ed avvizziscono. Nel mezzo, su una roccia imponente, si erge Dol Guldur, ove a lungo dimorò il Nemico nascosto. Temiamo che oggi sia nuovamente abitato, e da un potere sette volte più forte. Spesso un’ombra nera lo sovrasta, in questi ultimi tempi. Da questa altura ove ci troviamo, sono visibili le due potenze che si contrappongono; esse lottano ora incessantemente col pensiero, ma mentre la luce penetra nel cuore stesso dell’oscurità, il suo segreto ancor non è scoperto. Non ancora». Haldir si voltò e tornò rapidamente giù lungo i pendii del colle, seguito da Frodo e da Sam.

Ai piedi della collina trovarono Aragorn seduto immobile e silenzioso come un albero; teneva in mano un piccolo dorato fiore di elanor e nei suoi occhi brillava una luce. Era immerso in qualche dolce ricordo: guardandolo, Frodo capì che stava rammentando le cose quali erano un tempo nel medesimo luogo. I foschi anni erano scomparsi dal volto di Aragorn, ed egli pareva vestito di bianco, un giovane sire alto e splendente; delle parole in lingua elfica volavano dalle sue labbra a qualcuno che Frodo non vedeva: Arwen vanimelda, namarië! disse, traendo un sospiro; poi, tornando dai sogni alla realtà, guardò Frodo e sorrise.

«Qui è il cuore del Reame Elfico in terra», disse, «e qui dimorerà per sempre il mio cuore, a meno che non vi sia una luce oltre le oscure strade che ancora dobbiam percorrere, tu ed io. Vieni meco!». Prese Frodo per mano e si allontanò dal colle di Cerin Amroth, e non vi tornò mai più con umane sembianze.

CAPITOLO VII LO SPECCHIO DI GALADRIEL

Il sole stava tramontando dietro le montagne, e le ombre si oscuravano nei boschi, quando essi si rimisero in cammino. Il loro sentiero s’inoltrava tra gruppi d’alberi ove già era penetrato il crepuscolo. La notte discese sotto le fronde mentre avanzavano, e gli Elfi accesero le loro lampade d’argento.

D’un tratto furono di nuovo all’aperto, sotto un pallido cielo notturno punteggiato da qualche stella precoce. Si stendeva innanzi a loro un ampio spazio senza alberi, di forma ovale e dalle estremità ricurve. Al di là vi era un profondo fossato, immerso in tenue ombra, ma l’erba sull’orlo era verde, memore dell’ardore del sole scomparso. Ancor oltre, si ergeva alto un verde muro che circondava un verde colle ove si affollavano gli alberi d’oro più imponenti che avessero visto in tutto il paese. Impossibile precisare la loro altezza: giganteggiavano nel vespero come torri viventi. Tra i loro rami frondosi e le loro foglie sempre vibranti, brillavano innumerevoli luci, verdi, oro ed argento. Haldir si rivolse alla Compagnia.

«Benvenuti a Caras Galadhon!», disse. «Questa è la città dei Galadhrim ove dimorano il Sire Celeborn e Galadriel, la Dama di Lórien. Ma da qui non possiamo entrare, poiché i cancelli non sono rivolti a nord; dobbiamo giungere sino al lato sud, e la via non è breve, perché la città è grande».

* * *

Vi era una strada lastricata con pietre bianche, che costeggiava l’orlo del fossato. Essi la percorsero verso ovest, con la città che s’innalzava all’infinito come una verde nube sulla loro sinistra; man mano che la notte si faceva più fonda, le luci si moltiplicavano e la collina parve incendiata di stelle. Giunsero infine ad un bianco ponte, al di là del quale si aprivano le porte della città, rivolte a sud-ovest, e poste tra due bracci delle mura che in quel punto si prolungavano affiancandosi, in modo che tra essi si formava un corridoio; erano alte e forti, e molte lanterne le illuminavano.

Haldir bussò e disse qualcosa: il cancello si aprì silenziosamente, ma di guardie Frodo non vide traccia. I viaggiatori entrarono, e le porte si chiusero alle loro spalle. Percorsero un viale incassato fra i bracci delle mura, ed entrarono nella Città degli Alberi. Non si vedeva nessuno, e non si udivano passi sui sentieri; ma nell’aria vibravano molte voci, tutt’intorno e sulle loro teste. Dall’alto del colle giungeva un canto, come limpida pioggia gocciolante sulle foglie.

Percorsero molti sentieri e salirono molte scalinate, e infine arrivarono nei luoghi eccelsi, e videro innanzi a loro, in mezzo ad un ampio prato, scintillare una fontana. La illuminavano lampade d’argento sospese ai rami degli alberi, e l’acqua scrosciava in una vasca d’argento dalla quale scorreva un candido ruscello. Sul lato sud del prato s’innalzava il più maestoso degli alberi; l’imponente fusto era liscio ed irradiava il bagliore cangiante della seta grigia; si rizzava verso il cielo, accompagnato, da una certa altezza in poi, dai primi rami che aprivano le loro immense membra sotto un’ombrosa nube di fogliame. Contro il tronco poggiava una grande scala bianca ai piedi della quale sedevano tre Elfi. Saltarono in piedi all’avvicinarsi dei viaggiatori, e Frodo vide che erano alti e portavano una grigia cotta di maglia e una lunga cappa bianca.

«Qui dimorano Celeborn e Galadriel», disse Haldir. «È loro desiderio che saliate a conversare con loro».

Uno degli Elfi custodi trasse allora da un piccolo corno un limpido squillo, al quale risposero tre note dall’alto delle fronde. «Vi precederò», disse Haldir. «Che Frodo mi segua insieme a Legolas. Gli altri possono salire nell’ordine che preferiscono. È un lungo percorso per chi non è abituato a simili scale, ma potrete riposare durante la salita».

* * *

Mentre si arrampicava lentamente, Frodo passò molti flet: alcuni da un lato, altri dal lato opposto, altri ancora costruiti intorno al tronco, sì che la scala li attraversava. A grande altezza da terra giunse infine su un ampio talan, pari al ponte di una nave. Ivi si ergeva una casa di tali dimensioni da poter quasi fungere da dimora per gli Uomini abitanti sulla terra. Egli vi entrò al seguito di Haldir, e si trovò in una stanza ovale al centro della quale cresceva il fusto del grande albero, che si affusolava avvicinandosi alla sommità, ed era pur sempre un pilastro dall’ampia circonferenza.

La camera era immersa in una tenue luce; le pareti erano verdi ed argento e il soffitto dorato. Molti Elfi erano lì seduti. Vicino al tronco, su due sedie sormontate da un baldacchino di rami viventi, sedevano a fianco a fianco Celeborn e Galadriel. Si alzarono ad accogliere gli ospiti, secondo l’usanza degli Elfi, ed anche di coloro che fra loro venivano considerati come potenti re. Erano molto alti, e la statura della Dama pari a quella del Signore; i loro volti erano gravi e belli. Le vesti erano bianche, e i capelli della Dama di un oro intenso, e quelli del Sire Celeborn d’argento, lunghi e lucenti; nessuna traccia d’età, salvo forse la profondità dei loro occhi, penetranti come lance, eppur impenetrabili, abissi di arcaici ricordi.

Haldir condusse Frodo al loro cospetto, ed il Signore gli diede il benvenuto nella propria lingua. Dama Galadriel non pronunciò parola, ma mirò a lungo il suo viso.

«Siedi ora accanto a me, Frodo della Contea!», disse Celeborn. «Quando saranno giunti tutti parleremo insieme».

Egli salutò cortesemente ognuno dei compagni, chiamandoli per nome man mano che entravano. «Benvenuto, Aragorn figlio di Arathorn!», disse. «Sono passati trenta e otto anni del mondo esterno da quando venisti in questa nostra terra; e sono anni che pesano sulle tue spalle. Ma la fine è vicina, bene o male che sia. Riponi qui per qualche tempo il tuo fardello!».

«Benvenuto, figlio di Thranduil! Troppo rare son le visite che riceviamo dai nostri parenti nordici».

«Benvenuto, Gimli figlio di Glóin! È passato molto tempo da quando vedemmo per l’ultima volta a Caras Galadhon i discendenti di Durin. Ma oggi abbiamo rotto la nostra lunga legge. Possa ciò essere un presagio che, malgrado l’odierna oscurità del mondo, giorni migliori ci attendano e che l’amicizia sia rinnovata tra i nostri popoli». Gimli s’inchinò profondamente.

* * *

Quando tutti gli ospiti furono seduti innanzi a lui, il Signore li osservò nuovamente. «Qui ve ne sono otto», disse. «Nove dovevano partire, secondo quanto riferivano i messaggi. Forse vi è stato qualche cambiamento nelle decisioni, di cui non siamo stati avvertiti. Elrond è lontano, ci divide una profonda oscurità e durante tutto l’anno le ombre si sono fatte sempre più lunghe».

«No, non vi furono cambiamenti nelle decisioni», disse Dama Galadriel, parlando per la prima volta. La sua voce era chiara ed armoniosa ma più profonda del tono solito di una donna. «Gandalf il Grigio partì con la Compagnia, ma egli non ha varcato i confini di questa terra. Diteci dov’egli si trova; grande è il mio desiderio di parlare nuovamente con lui. Non posso io vederlo da lontano, a meno ch’egli non passi i cancelli di Lothlórien: è avvolto da grigia foschia, ed il cammino dei suoi piedi e del suo pensiero sono a me nascosti».

«Ahimè!», disse Aragorn. «Gandalf il Grigio cadde nell’ombra. Egli rimase a Moria ove soccombette».

A tali parole tutti gli Elfi della sala gridarono dal dolore e dallo stupore. «Queste sono notizie assai funeste», disse Celeborn, «le più funeste che siano giunte qui in lunghi anni pieni di sofferenze». Si rivolse a Haldir. «Perché nulla di tutto ciò mi è stato detto?», chiese in lingua elfica.

«Non abbiamo parlato a Haldir delle nostre imprese e dei nostri scopi», disse Legolas. «Da principio eravamo stanchi, ed IL pericolo incombeva troppo vicino; poi dimenticammo quasi il nostro dolore, mentre camminavamo nella gioia dei dolci sentieri di Lórien».

«Grande è pure il nostro dolore, e la perdita insostituibile», disse Frodo. «Gandalf era la nostra guida, e ci condusse attraverso Moria; ed allorquando pareva non vi fosse più speranza di scampo, egli ci salvò, sacrificandosi».

«Narrateci dunque la vicenda per intero!», disse Celeborn.

Aragorn raccontò allora tutto ciò ch’era avvenuto sul valico del Caradhras e durante i giorni seguenti; parlò di Balin e del suo libro, e della lotta nella Camera di Mazarbul, e del fuoco, e dello stretto ponte, e della venuta del Terrore. «Pareva il male del Mondo Antico, e mai avevo veduto nulla di simile», disse Aragorn. «Era al tempo stesso ombra e fiamma, forte e terribile».

«Era un Balrog di Morgoth», disse Legolas; «il più mortale flagello per gli Elfi dopo quello seduto nella Torre Oscura».

«Vidi davvero su quel ponte ciò che ossessiona i nostri sogni più oscuri, vidi il flagello di Durin», disse Gimli a bassa voce, e nei suoi occhi vi era spavento.

«Ahimè!», disse Celeborn. «Abbiamo a lungo temuto che sotto il Caradhras covasse il terrore. Ma se avessi saputo che i Nani avevano risvegliato il male a Moria, non avrei permesso che tu e coloro che sono con te passaste i confini settentrionali. Si direbbe quasi, se fosse possibile, che alla fine Gandalf sia caduto dalla saggezza nella follia, inoltrandosi inutilmente nella rete di Moria».

«Sarebbe davvero avventato colui che dicesse una simile cosa», interloquì gravemente Galadriel. «Mai un atto di Gandalf fu inutile in vita sua. Coloro che lo seguivano non leggevano nel suo pensiero, e non possono quindi riferire per intero il suo scopo. E fosse anche la guida colpevole, chi lo seguì è innocente. Non pentirti di aver accolto il Nano. Se il nostro popolo avesse conosciuto un lungo esilio lontano da Lothlórien, quale dei Galadhrim passerebbe nelle vicinanze senza il desiderio di rivedere l’antica dimora, fosse anche divenuta un covo di draghi? Nemmeno Celeborn il Saggio vi riuscirebbe.

«Oscura è l’acqua del Kheled-zâram, e gelide le sorgive di Kibil-nâla, ma splendidi erano i saloni dalle mille colonne, a Khazad-dûm nei Tempi Remoti prima della caduta dei potenti re della roccia profonda». Il suo sguardo si posò su Gimli, che sedeva accigliato e triste, ed ella sorrise. Ed il Nano, udendo pronunciare i nomi nella propria antica lingua, levò gli occhi incontrando i suoi; e gli parve di penetrare nel cuore di un nemico all’improvviso, e di trovarvi amore e comprensione. Meraviglia comparve sul suo volto, ed egli rispose con un sorriso.

Si alzò goffamente, ed inchinandosi alla maniera dei Nani disse: «Ma ancor più splendida è la viva terra di Lórien, e Dama Galadriel più preziosa di tutti i gioielli nascosti nei luoghi profondi!».

* * *

Vi fu un silenzio. Infine Celeborn riprese la parola. «Non sapevo che fosse così cattiva la vostra situazione», disse. «Che Gimli oblii le mie dure parole; era il mio cuore turbato che non poteva trattenersi. Farò quanto mi sarà possibile per aiutare ognuno di voi secondo il suo desiderio ed il suo bisogno, ma soprattutto colui della piccola gente che porta il fardello».

«Conosciamo la vostra missione», disse Galadriel, ed il suo sguardo si posò su Frodo. «Ma non ne parleremo qui apertamente. Eppure forse non si dimostrerà vana la vostra venuta in questa terra in cerca di aiuto, seguendo il chiaro intento di Gandalf. Il Signore dei Galadhrim è considerato il più saggio degli Elfi della Terra di Mezzo, ed egli dona dei regali più ricchi che un re. Egli ha vissuto all’Ovest sin dai giorni dell’alba, ed io gli sono accanto da innumerevoli anni; prima della caduta di Nargothrond e Gondolin valicai le montagne, ed insieme attraverso le ere del mondo abbiamo lottato contro la lunga sconfitta.

«Fui io a convocare per la prima volta il Bianco Consiglio. Se i miei progetti non fossero stati frustrati, a capo di esso avrei posto Gandalf il Grigio, ed allora forse le cose sarebbero andate altrimenti. Ma vi è tuttora qualche speranza. Non vi darò consigli, dicendo fate questo o quello. Non è col fare qualcosa, o col contribuire, o con lo scegliere tra l’una o l’altra via che vi potrò essere utile; solo la mia conoscenza di ciò che fu ed è, ed anche in parte di ciò che sarà, vi può esser d’aiuto. Questo è ciò che vi dico: la vostra Missione è sulla lama di un coltello. Una piccola deviazione, ed essa fallirà trascinando tutti in rovina. Ma vi è ancora speranza fin quando la Compagnia sarà tutta fedele».

E dicendo così il suo sguardo li fissò, esplorandoli ad uno ad uno in silenzio. Nessuno eccetto Legolas ed Aragorn seppe resistere a lungo. Sam arrossì tosto e chinò il capo.

Infine Dama Galadriel li liberò dai suoi occhi e sorrise. «Che i vostri cuori non si turbino», disse. «Questa notte dormirete in pace». Ed essi sospirarono allora, sentendosi improvvisamente sfiniti, come chi è stato interrogato a lungo e dettagliatamente, pur non avendo pronunziato alcuna parola.

«Andate adesso!», disse Celeborn. «Siete logori dal dolore e dalla molta fatica. Anche se la vostra Missione non ci toccasse da vicino, trovereste rifugio in questa città, onde poter guarire e ristorarvi. È adesso ora che riposiate, e per qualche tempo non parleremo del cammino che vi attende».

* * *

Quella notte la Compagnia dormì a terra, con grande soddisfazione degli Hobbit. Gli Elfi prepararono loro un padiglione fra gli alberi accanto alla fontana ove disposero dei soffici giacigli; quindi si accomiatarono con parole di pace sussurrate dalle loro dolci voci elfiche. I viaggiatori parlarono per un po’ della notte precedente trascorsa sulle cime degli alberi, e di quella giornata di marcia, e del Signore e della Dama: non avevano il coraggio di guardare più indietro.

«Perché sei arrossito, Sam?», disse Pipino. «Hai ceduto subito. Chiunque avrebbe pensato che la tua coscienza era sporca. Spero che non fosse nulla di peggio che un cattivo complotto per rubarmi una delle coperte».

«Mai ho pensato una cosa simile», rispose Sam, per nulla d’umore scherzoso. «Se volete saperlo, mi sentivo come se non avessi niente addosso, e certo non era piacevole; sembrava che ella stesse guardando dentro di me, domandandomi cos’avrei fatto se ella mi avesse dato l’opportunità di volarmene a casa nella Contea in un bel piccolo buco con… con un pezzo di giardino Tutto mio».

«Strano», disse Merry. «Quasi esattamente la stessa impressione che ebbi io; soltanto che, soltanto… non credo che dirò altro», e la sua frase rimase tronca.

Si erano trovati tutti apparentemente nella stessa situazione: ognuno aveva sentito che gli veniva offerta una scelta fra un’ombra piena di terrore che l’attendeva, e qualcosa che desiderava intensamente: vedeva chiaro innanzi agli occhi quel suo desiderio, e perché si avverasse bastava ch’egli lasciasse la via ed abbandonasse la Missione e la guerra contro Sauron in altre mani.

«E mi parve anche», disse Gimli, «che la mia scelta dovesse rimaner segreta ed ignota a tutti».

«A me parve tutto estremamente bizzarro», disse Boromir. «Forse non era che una prova, ed ella volle leggere i nostri pensieri per un suo recondito fine; avrei quasi detto che ci stesse tentando, offrendo qualcosa ch’ella fingeva di poterci dare. Inutile dire ch’io rifiutai di ascoltare. Gli Uomini di Minas Tirith sono fedeli alla parola data». Ma quel che gli era parso che la Dama gli offrisse, Boromir non lo rivelò.

Quanto a Frodo, si rifiutò di parlare, benché Boromir lo assillasse di domande. «La Dama ti tenne a lungo sotto il suo sguardo, Portatore dell’Anello», gli disse.

«Sì», disse Frodo; «ma qualunque cosa mi sia allora venuta in mente, non la rivelerò».

«Ebbene, sii cauto!», disse Boromir. «Non ho molta fiducia in codesta Dama Elfica e nei suoi fini».

«Guardati dal parlar male di Dama Galadriel!», disse Aragorn severo. «Non sai quel che dici. Non vi è in lei e in questa terra alcun male, salvo che un uomo non ve lo porti lui stesso. Ed allora guai a lui! Ma il mio sonno questa notte sarà il primo senza timore dopo la nostra partenza da Gran Burrone. E ch’esso sia lungo e profondo, e addormenti anche il mio dolore! Sono stanco di corpo e di spirito». Si sdraiò sul suo giaciglio e cadde in un pacifico sonno.

Gli altri lo seguirono presto, ed il loro riposo non fu turbato da sogni o da rumori. Quando si svegliarono videro che la luce del giorno splendeva intensa sull’erba innanzi al padiglione, e che la fontana zampillava e scrosciava scintillante al sole.

Trascorsero a Lothlórien qualche giorno, o tale fu perlomeno la loro impressione o il loro ricordo. Ogni attimo passato in quella terra fu illuminato da un limpido sole, salvo qualche momento quando una fine pioggerella passava, lasciando ogni cosa fresca e pulita. L’aria era dolce e mite, come fosse tenera primavera, eppure essi sentivano intorno la profonda e pensierosa quiete dell’inverno. Parve loro di non fare molto, oltre mangiare e bere, riposare e passeggiare fra gli alberi.

Non avevano più rivisto il Signore e la Dama, né scambiato molte parole con il popolo elfico; rari erano infatti fra questi coloro che parlavano altro idioma che il proprio silvano linguaggio. Haldir, dopo aver loro augurato buon viaggio, era tornato ai confini settentrionali, ch’erano ora sorvegliati e custoditi intensamente, dopo le notizie di Moria portate dalla Compagnia. Legolas trascorse molto tempo con i Galadhrim, e dormì con i suoi compagni soltanto la prima notte, benché tornasse per chiacchierare e desinare con essi. Spesso portava seco Gimli, quando percorreva la campagna, e gli altri si meravigliarono di questo cambiamento.

Adesso, ogni qual volta sedevano o camminavano insieme, i compagni parlavano di Gandalf, e nella loro mente compariva tutto ciò che essi avevano veduto o conosciuto di lui. Man mano che la stanchezza e la sofferenza corporea andavano scomparendo, il dolore della perdita subita si faceva più intenso. Spesso udirono nelle vicinanze cantare voci elfiche, e sapevano che erano canti di compianto per la sua assenza poiché coglievano il suo nome fra le dolci e tristi parole che non comprendevano.

Mithrandir, Mithrandir, cantavano gli Elfi, Oh, Grigio Pellegrino! Così infatti amavano chiamarlo. Ma se Legolas era con i compagni, si rifiutava di tradurre le canzoni, dicendo di non essere in grado di farlo, e di sentire troppo vicino ed intenso il dolore per l’accaduto, che gli procurava lacrime e non gli ispirava canzoni.

Frodo fu il primo a trasporre parte del suo dolore in parole durature. Di rado si sentiva spinto a comporre canti o rime; persino a Gran Burrone egli aveva sempre ascoltato, senza tuttavia mai cantare, benché la sua memoria custodisse infiniti versi creati da altri prima di lui. Eppure, seduto accanto alla fontana di Lórien, circondato da voci di Elfi, nella sua mente prese forma un canto che a lui parve bello; ma quando volle ripeterlo a Sam, ricordava solo pochi brani, sbiaditi come una manciata di foglie appassite.

Grigia era la sera nella Contea,

Il suo passo si udì sulla Collina;

Ma prima che brillasse l’alba argentea,

Già era partito per la sua via.

Dalle Terre Selvagge agli occidentali lidi,

Dai deserti del Nord ai colli verdeggianti,

Nel covo del drago e nei nascosti nidi

Egli camminò a lungo nei boschi ombreggianti.

Con Hobbit e con Elfi, con Uomini e con Nani,

Con coloro che non muoiono e con i mortali,

Con la bestia nel covo e l’uccello sui rami,

Egli sapea parlare le lingue locali.

Voce squillante, mano che guarisce,

Una schiena curva sotto il greve peso,

Bastone che guida, spada che ferisce,

Un pellegrino stanco sul sentiero scosceso.

In sapienza ed in saggezza egli era signore,

Un vecchio dal cappello antico e corroso,

Alla collera ed al riso pronto a tutt’ore,

Appoggiato sul suo fedele bastone nodoso.

Solo si ergeva sul ponte,

Sfidando sia il Fuoco che l’Ombra;

Rotto il bastone nel monte,

Khazad-dûm fu la sua tomba.

«Fra poco darete filo da torcere al signor Bilbo!», esclamò Sam. «No, purtroppo temo di no», disse Frodo. «Ma è quanto di meglio io possa fare per ora».

«Ebbene, signor Frodo, se farete un altro tentativo, vorrei tanto che diceste qualcosa dei suoi fuochi d’artificio», disse Sam. «Qualcosa del genere:

I razzi ed i fuochi più belli del mondo,

Le stelle dal verde e dal blu più giocondo,

Il rombo d’un tuono e le scintille infocate

Cadono come pioggia di gocce dorate.

Benché ciò sia lungi dal rendere l’idea».

«No, incaricherò te di farlo, Sam. O forse Bilbo. Ma… ebbene, non posso più parlarne. Il pensiero di dovergli portare io la notizia mi tormenta».

Una sera Frodo e Sam camminavano insieme nel fresco crepuscolo. Ambedue si sentivano di nuovo Irrequieti. Su Frodo era caduta all’improvviso l’ombra della partenza: sapeva in qualche modo che molto vicina era l’ora in cui egli avrebbe dovuto lasciare Lothlórien.

«Cosa pensi ora degli Elfi, Sam?», chiese. «Ti feci già una volta la medesima domanda… sembrerebbe molto tempo fa; ma adesso hai avuto modo di conoscerli meglio».

«L’ho avuto davvero!», disse Sam. «E penso vi sia una gran differenza tra Elfi ed Elfi. Sono sì tutti elfici, ma non tutti uguali. Questa gente qui non viaggia e non è senza casa; i loro gusti sembrano più vicini ai nostri: essi appartengono alla loro terra, ancor più che gli Hobbit alla Contea. È difficile dire se siano stati loro a creare la terra, o viceversa; non so se rendo l’idea. Tutto qui è meravigliosamente tranquillo. Pare che nulla accada e che nessuno desideri che avvenga qualcosa. Se vi è della magia, si trova giù in profondità, là ove non si può toccare con le mani, diciamo così».

«Si può vedere e sentire ovunque», disse Frodo.

«Ma non si vede nessuno che la adoperi», disse Sam. «Niente fuochi d’artificio come quelli del povero vecchio Gandalf. Vorrei sapere come mai non abbiamo più visto il Signore e la Dama in questi giorni. Sono certo che lei potrebbe fare delle cose meravigliose, se lo desiderasse. Vorrei tanto vedere un po’ di magia elfica, signor Frodo!».

«Io no», disse Frodo. «Io sono soddisfatto così. E non mi mancano i fuochi d’artificio di Gandalf, bensì le sue sopracciglia cespugliose ed il suo temperamento esplosivo, e la sua voce».

«Avete ragione», disse Sam. «E non crediate ch’io non sia d’accordo con voi. Ho spesso desiderato vedere un po’ di magia come quella descritta nelle antiche leggende, ma non ho mai udito d’una terra più bella di questa. Parrebbe di essere a casa ed al tempo stesso in vacanza, se capite quel che intendo dire. Non voglio partire. Ciò nonostante incomincio a pensare che se dobbiamo proseguire, allora è meglio farlo subito e toglierci il pensiero.

«“È il lavoro mai incominciato che impieghi più tempo a finire” soleva dire il mio vecchio Gaffiere. E non penso che questa gente possa fare molto di più per aiutarci, con o senza magia. Quando lasceremo questo paese, allora sentiremo maggiormente la mancanza di Gandalf, credo».

«Purtroppo ciò che dici è sin troppo vero, Sam», disse Frodo. «Eppure spero ardentemente che rivedremo prima di partire la Dama degli Elfi».

E mentre parlava videro, come se giungesse in risposta alle loro parole, avvicinarsi Dama Galadriel. Alta e bianca e splendente avanzava fra gli alberi. Non disse parola, ma li chiamò a sé con un cenno.

Li condusse lontano, verso le pendici sud del colle di Caras Galadhon, ove attraversando una verde siepe entrarono in un giardino. Non vi crescevano alberi, ed esso si apriva al libero cielo. La stella della sera era sorta e brillava con bianco fuoco sui boschi ad occidente. Scese una lunga scalinata Dama Galadriel, e mise piede in una profonda conca verde, attraversata dal mormorante ruscello d’argento che sgorgava dalla fontana sulla collina. Sul fondo, una vasca d’argento bassa e poco profonda poggiava su un piccolo piedistallo scolpito come un albero frondoso; accanto vi era una brocca d’argento.

Con l’acqua del ruscello Galadriel riempì la vasca sino all’orlo, e vi soffiò, e quando l’acqua fu nuovamente calma, disse: «Questo è lo Specchio di Galadriel. Vi ho portati qui affinché possiate guardarvi, se lo desiderate».

L’aria era molto tranquilla, e la conca molto oscura e la Dama Elfica accanto a lui era alta e pallida. «Che cosa dobbiamo cercare, e che cosa vedremo?», domandò Frodo pieno di meraviglia. «Molte cose comando allo Specchio di rivelare», rispose ella, «e ad alcuni posso mostrare ciò che desiderano vedere. Ma lo Specchio può anche spontaneamente mostrare delle immagini, che sono spesso più strane e utili di quelle che noi stessi desideriamo vedere. Non vi so dire quel che potrete mirare, lasciando lo Specchio libero di creare. Esso infatti mostra cose che furono, e cose che sono, e cose che ancor devono essere. Ma quali fra queste egli stia vedendo, nemmeno il più saggio può sapere. Desideri guardare?».

Frodo non rispose.

«E tu?», disse rivolgendosi a Sam. «Questo è ciò che la tua gente chiamerebbe magia, suppongo; non comprendo tuttavia ciò che intendono dire, poiché sembra che adoperino la stessa parola anche per gli inganni del Nemico. Comunque sia, codesta è, se vuoi, la magia di Galadriel. Non dicesti forse che desideravi vedere un po’ di magia elfica?».

«L’ho detto», rispose Sam, tremando sia per il timore che per la curiosità. «Darò un’occhiata, Dama, se non vi dispiace».

«E non mi dispiacerebbe intravedere quel che accade a casa», disse in disparte a Frodo. «Mi sembra di essere lontano da un tempo infinito. Ma tanto, probabilmente vedrò solo le stelle, o qualcosa che non capirò».

«Probabilmente», disse ridendo dolcemente la Dama. «Ma coraggio, guarda e vedrai quel che apparirà. Non toccare l’acqua!»,

Sam salì sulla base del piedistallo e si chinò sulla vasca. L’acqua aveva un aspetto duro e cupo. Delle stelle vi si rispecchiavano.

«Soltanto stelle, come pensavo», disse. Ma poi trattenne il fiato, perché le stelle si spensero; come se fosse stato levato un oscuro velo, lo Specchio diventò grigio, ed infine limpido e chiaro. Apparve un sole splendente, e dei rami d’albero che ondeggiavano agitandosi al vento. Ma prima che Sam riuscisse a discernere ciò che vedeva, la luce scomparve; gli sembrò allora di vedere Frodo, pallido in viso, dormire profondamente sdraiato ai piedi di un’immensa ed oscura rupe a picco. Quindi credette di vedere se stesso attraversare un buio corridoio, e salire una scala che si avvolgeva a spirale sino all’infinito. Ebbe l’impressione di stare cercando urgentemente qualcosa, ma non sapeva cosa fosse. Come in un sogno la visione si spostò indietreggiando, ed egli vide nuovamente gli alberi. Ma questa volta erano meno vicini, e si riusciva a discernere quel che stava accadendo: essi non ondeggiavano al vento, ma crollavano con fracasso in terra.

«Ehi!», gridò Sam con voce offesa. «Quello lì è Ted Sabbioso, e sta buttando giù alberi che non dovrebbe toccare. Non devono essere tagliati! È quel viale oltre il Mulino che ombreggia la strada per Lungacque. Se solo potessi avere Ted fra le mani, sarei io ad abbattere lui!».

Ma ora Sam si accorse che il Vecchio Mulino era scomparso, e che un grande edificio veniva costruito nel punto ove esso si trovava. Una quantità di gente lavorava con alacrità. Accanto s’innalzava un’imponente ciminiera rossa. Del fumo nero pareva offuscare la superficie dello Specchio.

«C’è qualche diavoleria al lavoro nella Contea», disse. «Elrond sapeva quel che faceva quando disse al signor Merry di tornarsene a casa». Poi improvvisamente Sam lanciò un grido e saltò via. «Non posso rimanere qui», disse con rabbia. «Devo tornare a casa. Hanno messo sottosopra via Saccoforino, ed il povero vecchio Gaffiere se ne sta scendendo la Collina con la sua roba su una carriola. Devo tornare a casa!».

«Non puoi tornare da solo», disse la Dama. «Non desideravi tornare a casa senza il tuo padrone, prima di guardare nello Specchio; eppur sapevi che forse nella Contea stavano accadendo cose funeste. Ricorda che lo Specchio mostra molte cose, e che non tutte si sono già verificate. Alcune non avverranno mai; accadranno solo se coloro che le vedono abbandonano la loro strada per impedirle. Lo Specchio è una pericolosa guida delle nostre azioni».

Sam sedette in terra con la testa fra le mani. «Desidererei non essere mai venuto qui, e non voglio più vedere magie», disse e rimase silenzioso. Dopo qualche minuto disse con voce alterata come se stesse lottando contro le lacrime: «No, tornerò a casa col signor Frodo per la via più lunga, o non vi tornerò per nulla. Ma spero tanto di rivedere un giorno la mia terra! Se quel che ho visto sta accadendo sul serio, qualcuno la pagherà!».

* * *

«Desideri guardare tu adesso, Frodo?», disse Dama Galadriel. «Non volevi vedere magia elfica e dicevi di essere soddisfatto così com’eri».

«Mi consigli tu di guardare?», domandò Frodo.

«No», rispose lei. «Io non ti consiglio né l’una né l’altra cosa. Non sono un consigliere. Potresti apprendere qualcosa, e le immagini, siano belle o funeste, potrebbero esserti utili, ma anche nefaste. Vedere è al tempo stesso un bene e un pericolo. Eppure io credo, Frodo, che tu abbia coraggio e saggezza sufficienti per rischiare; altrimenti non ti avrei condotto sin qui. Ma fai come vuoi!».

«Guarderò», disse Frodo, e salì sul piedistallo, curvandosi sull’acqua oscura. Lo Specchio si rischiarò, ed egli vide una terra al lume di stelle. Delle montagne giganteggiavano cupe in lontananza contro un pallido cielo. Una lunga strada grigia serpeggiava a perdita d’occhio. Una figura distante percorreva lenta la strada; da principio era piccola ed imprecisa, e man mano che avanzava diveniva sempre più grande. D’un tratto Frodo si accorse che rassomigliava a Gandalf.

Stava per gridare ad alta voce il nome dello stregone, quando vide che la figura non era vestita di grigio ma di bianco, d’un bianco che brillava lievemente nel vespero; in mano teneva un bastone bianco. La testa era troppo curva perché egli potesse vedere il volto; infine la figura seguì una svolta del sentiero e scomparve dalla visuale dello Specchio. Il dubbio colse Frodo: era quella un’immagine di Gandalf durante uno dei suoi numerosi viaggi del passato, oppure una visione di Saruman?

Poi la visione cambiò. Egli intravide, piccola ma assai vivida, una immagine di Bilbo che camminava irrequieto su e giù nella sua stanza. Il tavolo era cosparso di carte in disordine; la pioggia batteva sui vetri delle finestre.

Vi fu quindi una pausa, seguita da molte rapide scene che Frodo sapeva appartenere, in un modo o in un altro, alla grande storia nella quale egli si trovava coinvolto. La nebbia si diradò, e innanzi ai suoi occhi apparve qualcosa ch’egli non aveva mai visto, ma che riconobbe immediatamente: il Mare. Tutto fu sommerso dall’oscurità. Il mare si gonfiò infuriato, e si levò una grande tempesta. Egli vide allora spiccare contro il Sole, che tramontava rosso come sangue in una selva di nubi, il nero contorno di un’imponente nave dalle vele lacerate che fuggiva all’Ovest. Poi un ampio fiume attraverso una popolosa città; poi una bianca fortezza con sette torri; quindi di nuovo una nave dalle nere vele; ma ora era tornato il mattino, e sull’increspatura delle onde il sole scintillava, e una bandiera con l’emblema di un albero bianco brillava alla luce. Si levò come un fumo di fuoco e di battaglia, ed il sole tornò a tuffarsi in un rosso incandescente che sbiadì lasciando dietro di sé una grigia nebbia; ed attraverso la nebbia passò una piccola nave, sfavillante di luci, e scomparve. Frodo sospirò apprestandosi a scendere dal piedistallo.

Ma lo Specchio divenne all’improvviso completamente buio, come se un abisso si fosse aperto sotto la sua superficie e lui guardasse nel vuoto. Nel nero baratro apparve un Occhio, uno solo, che crebbe lentamente, invadendo quasi tutto lo Specchio. Tale era il terrore che da esso sprigionava, che Frodo ne fu paralizzato, incapace di gridare o di distogliere lo sguardo. I contorni dell’Occhio erano di fuoco, mentre nel globo vitreo della cornea gialla e felina, vigile e penetrante, si apriva, nel buio di un abisso, la fessura nera della pupilla come una finestra sul nulla.

Poi l’Occhio incominciò a vagare, frugando qua e là; e Frodo sapeva con orrore e certezza che fra le molte cose che esso cercava vi era anche lui. Sapeva però che l’Occhio non poteva vederlo, non ancora, a meno ch’egli stesso non lo volesse. L’Anello appeso alla catenella intorno al collo divenne pesante, più pesante di un grosso sasso, e trascinava la sua testa verso il basso. Lo Specchio parve farsi scottante, e un vapore si sprigionava a spirale dall’acqua. Frodo si sentì scivolare in avanti.

«Non toccare l’acqua!», disse a bassa voce Dama Galadriel. La visione scomparve, e Frodo si accorse di mirare le fresche stelle scintillanti nella vasca d’argento. Scese tremante il gradino e levò lo sguardo verso la Dama.

«So cos’hai veduto per ultimo», ella disse; «quell’immagine è sempre nella mia mente. Non temere! Ma non credere che siano sufficienti i canti fra gli alberi, o le svelte frecce degli archi elfici, per custodire e difendere dal Nemico la terra di Lothlórien. Sappi, Frodo, che anche mentre parlo con te, io scorgo l’Oscuro Signore, e conosco le sue intenzioni, tutte le sue intenzioni verso gli Elfi. Ed egli non fa che scrutare, per leggere in me e nel mio pensiero; ma la porta è ancora chiusa!».

Ella levò al cielo le bianche braccia, e le sue mani si rivolsero ad est con un gesto di rifiuto e di diniego. Eärendil, la stella del Vespro, la più amata dagli Elfi, brillava chiara sul suo capo. Tanto era luminosa che la figura della elfica Dama proiettava una pallida ombra sulla terra ai suoi piedi. I raggi della Stella si rifrangevano su un anello che brillava al dito di Galadriel, come oro lucido placcato di luce argentata; una pietra bianca sfavillava, e pareva che la Stella del Vespro si fosse posata sulla sua mano. Frodo guardava stupefatto l’anello: improvvisamente credette di capire.

«Sì», disse la Dama, leggendo nel suo pensiero, «non è permesso parlarne, ed Elrond non aveva il diritto di dirtelo. Ma codesto segreto non può esser nascosto al Portatore dell’Anello, a uno di coloro che hanno veduto l’Occhio. In verità, nella terra di Lórien, al dito di Galadriel, si trova uno dei Tre. Questo è Nenya, l’Anello di Adamant, e io ne sono la custode.

«Il Nemico sospetta, ma non sa, non sa ancora. Vedi ora perché la tua venuta è per noi come un passo del Destino? Se tu fallisci, noi rimarremo inermi innanzi al Nemico. Eppure, se la tua Missione riesce, il nostro potere diminuirà, e Lothlórien dovrà svanire, spazzata via dalle onde del Tempo. Noi partiremo verso l’Ovest, altrimenti ci ridurremo ad essere un rustico popolo di valle e caverna, che lentamente oblia, e lentamente viene obliato».

Frodo chinò il capo. «E quale delle due cose desideri che avvenga?», disse infine.

«Che avvenga ciò che deve avvenire», rispose ella. «L’amore degli Elfi per la loro terra e le loro opere è più profondo degli abissi del Mare, e il loro rimpianto perenne non potrà mai esser del tutto lenito. Tuttavia essi preferiscono rinunciare a tutto anziché sottomettersi a Sauron: essi lo conoscono ormai. Tu non sei responsabile del destino di Lothlórien, ma solo del compimento della tua missione. Eppure desidererei, se non fosse vana la mia speranza, che l’Unico Anello non fosse mai stato forgiato, o si fosse per sempre smarrito».

«Sei saggia, ed intrepida, e bella, Dama Galadriel», disse Frodo. «Io ti darò l’Unico Anello, se me lo domandi. È una faccenda di gran lunga troppo importante per essere affidata a me».

Galadriel rise, d’un riso improvviso e limpido. «Saggia è forse Dama Galadriel», disse, «ma qui ha trovato un suo pari in fatto di cortesia. Ti vendichi gentilmente di quando misi alla prova il tuo cuore, il giorno del nostro primo incontro. Incominci a vedere con occhio penetrante. Non nego che il mio cuore ha a lungo desiderato chiederti quel che ora mi offri. Per molti e molti anni ho ponderato ciò che avrei fatto se il Grande Anello fosse venuto nelle mie mani, e meraviglia! esso si trova ora a portata di mano. Il male creato tanto tempo addietro avanza in mille modi, sia che Sauron resista, sia ch’egli crolli. Non sarebbe forse stata una nobile impresa da accreditare a codesto Anello, se l’avessi tolto al mio ospite con la forza o col timore?

«Ed ora infine giunge a me. Tu mi daresti l’Anello di tua iniziativa! Al posto dell’Oscuro Signore vuoi mettere una Regina. Ed io non sarò oscura, ma bella e terribile come la Mattina e la Notte! Splendida come il Mare ed il Sole e la Neve sulla Montagne! Temuta come i Fulmini e la Tempesta! Più forte delle fondamenta della terra. Tutti mi ameranno, disperandosi!».

Levò in alto una mano, e l’anello che portava irradiò una gran luce che illuminava solo lei, lasciando tutto il resto al buio. In piedi innanzi a Frodo pareva adesso immensamente alta, e il fascino della sua bellezza era insostenibile. Ma poi lasciò ricadere il braccio, e la luce scomparve, e improvvisamente rise, e si rimpicciolì: tornò ad essere un’esile donna elfica, vestita di semplice bianco, dalla dolce voce morbida e triste.

«Ho superato la prova», disse. «Perderò i miei poteri, e me ne andrò all’Ovest, e rimarrò Galadriel».

* * *

Rimasero a lungo in silenzio. Infine la Dama parlò nuovamente. «Torniamo!», disse. «Domattina dovrete partire, perché ormai la scelta è stata fatta, ed il fiume del destino scorre senza mai fermarsi».

«Vorrei chiederti una cosa prima di partire», disse Frodo, «una cosa che più volte desiderai domandare a Gandalf a Gran Burrone. Io ho il permesso di portare l’Unico Anello: perché dunque non posso vedere gli altri Anelli, e conoscere il pensiero di coloro che li portano?».

«Non hai tentato», rispose lei. «Solo tre volte hai infilato al dito l’Anello da quando hai saputo quel che possedevi. Non tentare! Ne saresti distrutto. Gandalf non ti ha forse detto che gli Anelli attribuiscono un potere proporzionato a ciascun possessore? Prima di poter usufruire di quel potere, dovresti diventare molto più forte, ed allenare la tua volontà al comando e alla dominazione. Tuttavia anche così, poiché sei il Portatore dell’Anello e l’hai infilato al dito, vedendo ciò ch’è nascosto, la tua vista è divenuta più acuta. Hai inteso il mio pensiero più chiaramente di molti che vengono considerati saggi. Hai veduto l’Occhio di colui che possiede i Sette e i Nove. Ed infine non hai tu forse scorto e riconosciuto l’anello al mio dito? Tu hai visto il mio anello?», domandò, rivolgendosi a Sam.

«No, Dama», rispose Sam. «A dir la verità, non capivo di che cosa parlaste. Ho visto una stella brillare attraverso il vostro dito. Perdonate se oso esprimere il mio parere, ma credo che il mio padrone avesse ragione. Vorrei tanto che prendeste voi l’Anello. Mettereste le cose al loro posto. Impedireste che il Gaffiere venga cacciato di casa. A tutta quella gente che pesca nel torbido dareste quel che si merita».

«Lo farei», disse la Dama. «Ma quello sarebbe soltanto il principio; le cose non si fermerebbero, purtroppo! Ma basta parlarne. Torniamo!».

CAPITOLO VIII ADDIO A LÒRIEN

Quella sera la Compagnia fu di nuovo convocata nella stanza di Celeborn, ove il Signore e la Dama li accolsero con affettuose parole. Infine Celeborn parlò della loro partenza.

«È ora», disse, «che coloro che desiderano portare a termine la Missione si facciano coraggio e si apprestino a lasciare questa terra. Chi più non desidera andare avanti può rimanere qui ancora qualche tempo. Ma non vi è certezza di pace né per colui che resta, né per colui che parte. Il destino sta per compiersi. Qui coloro che lo desiderano possono attendere l’ora in cui le vie del mondo si apriranno di nuovo, o l’ora in cui Lórien avrà bisogno del loro estremo aiuto. In quel momento potrebbe darsi che tornino alle proprie case, come potrebbe anche darsi che percorrano la lunga strada dei caduti in battaglia».

Vi fu un silenzio. «Sono tutti risoluti ad andare avanti», disse Galadriel guardando ciascuno negli occhi.

«Quanto a me», disse Boromir, «la mia casa si trova innanzi, e non alle mie spalle».

«È vero», disse Celeborn; «la Compagnia viene dunque con te a Minas Tirith?».

«Non abbiamo ancora stabilito il nostro percorso», disse Aragorn. «Non so che intendesse fare Gandalf, dopo essere giunto a Lothlórien. Credo anzi che non avesse ancora disegni precisi».

«Forse no», disse Celeborn; «tuttavia, partendo da qui, non è più possibile dimenticare la presenza del Grande Fiume. Come alcuni di voi ben sanno, tra Lórien e Gondor non vi è altro modo di attraversarlo, se si hanno bagagli, che con delle imbarcazioni. E non sono forse crollati tutti i ponti di Osgiliath, e in mano al Nemico tutti i punti di sbarco?

«Quale riva percorrerete? La via per Minas Tirith è da questa parte, sul lato occidentale; ma la dritta via della vostra missione si trova ad est del Fiume, sulla sponda più oscura. Quale riva sceglierete dunque?».

«Se il mio parere conta in qualche modo, percorreremo la sponda occidentale, e la via per Minas Tirith», rispose Boromir. «Ma non sono io il capo della Compagnia». Gli altri non dissero nulla, ed Aragorn parve dubbioso ed inquieto.

«Vedo che ancora non sapete quel che farete», disse Celeborn. «Non tocca a me scegliere, ma vi aiuterò come posso. Alcuni di voi sanno maneggiare le barche: Legolas, appartenente ad una stirpe che conosce il rapido Fiume della Foresta; Boromir di Gondor; ed Aragorn il viaggiatore».

«Ed anche un Hobbit!», disse Merry. «Non tutti guardiamo le barche come fossero cavalli selvaggi. La mia gente vive sulle sponde del Brandivino».

«Bene», disse Celeborn. «Fornirò alla Compagnia delle barche. Saranno piccole e leggere, perché se andrete lontano sulle acque, vi saranno dei posti ove sarete costretti a trasportarle. Giungerete alle rapide di Sarn Gebir, e forse infine alle grandi cascate di Rauros, ove il Fiume scroscia dal Nen Hithcel; e vi sono altri pericoli ancora. Le barche renderanno forse temporaneamente il vostro viaggio meno faticoso; ma non in esse troverete consiglio: sarete voi a doverle infine lasciare, e con esse il Fiume, per voltare ad ovest… oppure ad est».

Aragorn ringraziò Celeborn ripetutamente. Le barche che avrebbero ricevuto in dono erano per lui un grande conforto, soprattutto perché rinviavano di qualche giorno la scelta del percorso. Anche gli altri sentirono ravvivarsi la speranza. Qualunque insidia li attendesse, il pensiero di incontrarla galleggiando sugli ampi flutti dell’Anduin, anziché avanzando faticosamente a schiena curva, era loro gradito. Sam era l’unico ad essere alquanto incerto: lui faceva parte di coloro che consideravano le barche infide come cavalli selvaggi, o peggio ancora, ed i pericoli scampati non contribuivano a migliorare la sua opinione.

«Sarà tutto pronto ad attendervi al porto domani prima del meriggio», disse Celeborn. «Vi manderò la mia gente di mattina, per aiutarvi nei preparativi di viaggio. Ed ora auguriamo a tutti voi una buona notte ed un sonno tranquillo».

«Buona notte, amici miei!», disse Galadriel. «Dormite in pace! Che il pensiero della strada da percorrere non turbi eccessivamente i vostri cuori stanotte. Forse la via di ciascuno è già predestinata, anche se egli non se ne rende conto. Buona notte!».

La Compagnia si accomiatò, tornando quindi al padiglione. Legolas andò con gli altri, poiché quella era la loro ultima notte a Lothlórien, e malgrado le parole di Galadriel essi desideravano consultarsi a vicenda.

A lungo discussero sul da farsi, e sul miglior modo per tentare di compiere la Missione; ma non giunsero ad alcuna decisione. Era chiaro che i più desideravano recarsi prima a Minas Tirith e sfuggire almeno per un breve tempo il terrore del Nemico. Sarebbero stati tuttavia pronti a seguire un capo che li conducesse al di là del Fiume e nell’ombra di Mordor; ma Frodo non aprì bocca, ed Aragorn non riusciva ad accordare i pensieri che lottavano in lui.

Il suo intento, quando Gandalf era ancora con loro, era stato di accompagnare Boromir, per aiutare con la propria spada a difendere Gondor. Pensava infatti che il messaggio dei sogni fosse un richiamo, e che fosse infine giunta l’ora in cui l’erede di Elendil si sarebbe dovuto fare avanti per contendere a Sauron l’autorità.

Ma a Moria il fardello di Gandalf era stato posto sulle sue spalle; e sapeva di non poter tradire l’Anello, se Frodo alla fine si fosse rifiutato di seguire Boromir. Eppure quale aiuto avrebbe egli, O qualunque altro membro della Compagnia, potuto dare a Frodo, oltre che accompagnarlo ciecamente nell’oscurità?

«Io andrò a Minas Tirith, da solo, se necessario, ma vi andrò, perché è mio dovere», disse Boromir; detto ciò rimase silenzioso, seduto con lo sguardo fisso su Frodo, come se cercasse di leggere i pensieri del Mezzuomo. Infine parlò di nuovo, a bassa voce, e sembrava che stesse lottando con se stesso. «Se desiderate soltanto distruggere l’Anello», disse, «le armi e la guerra vi servono ben poco, e gli uomini di Minas Tirith non possono esservi d’aiuto. Ma se desiderate annientare la potenza armata dell’Oscuro Signore, è una follia sprecare…». S’interruppe d’un tratto, come se si fosse accorto solo in quel momento che stava formulando ad alta voce i suoi pensieri. «Una follia sprecare tante vite, voglio dire». E concluse dicendo: «Dobbiamo scegliere se difendere una fortezza, o camminare apertamente verso le braccia della morte».

Frodo colse qualcosa di nuovo e di strano nello sguardo di Boromir, e lo osservò attentamente. Il pensiero di Boromir era palesemente diverso dalle sue parole finali. Sarebbe follia sprecare: che cosa? L’Anello del Potere? Egli aveva detto qualcosa del genere al Consiglio, ma si era ricreduto, dopo la correzione di Elrond. Frodo guardò Aragorn, il quale però, immerso nei propri pensieri, non dava segno di aver fatto caso alle parole di Boromir. La discussione terminò così. Merry e Pipino dormivano già, e Sam sonnecchiava. La notte stava diventando vecchia.

* * *

L’indomani mattina, quando stavano incominciando ad imballare i loro esigui beni, apparvero degli Elfi che conoscevano la loro lingua, carichi di provviste e di abiti in dono per il viaggio. Gran parte del cibo consisteva in dolci estremamente sottili, di farina infornata, bruni all’esterno, ed all’interno d’un bianco cremoso. Gimli ne prese uno, guardandolo con aria sospettosa.

«Gallette», disse sottovoce, rompendo un angolino croccante e rosicchiandolo. La sua espressione cambiò tosto, ed egli divorò avidamente il resto del dolce.

«Basta, basta!», esclamarono gli Elfi ridendo; «quel che hai mangiato è sufficiente per un lungo giorno di marcia».

«Credevo fosse solo un tipo di gallette, come quelle che preparano gli Uomini della Valle per i viaggi nelle zone selvagge».

«Infatti lo sono», risposero. «Ma noi le chiamiamo lembas o pan di via, e sono più nutrienti di qualsiasi cibo fatto dagli Uomini, e senza dubbio di gran lunga più gradevoli delle gallette».

«Eccome!», esclamò Gimli. «Sono persino migliori dei pasticcini al miele dei Beorniani, e vi faccio un gran complimento, perché i Beorniani sono i dolcieri più bravi ch’io conosco; ma di questi tempi non sono molto larghi nel distribuire i loro pasticcini. Voi siete davvero dei padroni di casa generosi!».

«Comunque, vi consigliamo di risparmiare il cibo», dissero gli Elfi. «Consumatene poco alla volta, e solo se ne avete veramente bisogno. Queste cose debbono servirvi quando non avete più nulla delle altre provviste. I dolci rimarranno fragranti per parecchi giorni, se sono intatti ed avvolti nei loro involucri di foglie, come ve li consegniamo noi. Uno solo di essi basta a sostentare un viaggiatore per un’intera giornata di faticoso cammino, fosse anche esso uno degli alti Uomini di Minas Tirith».

Gli Elfi disfecero i pacchi contenenti il vestiario, e diedero a ciascun membro della Compagnia ciò che gli era stato destinato. Vi era per ognuno un manto con cappuccio, fatti su misura, di una stoffa di seta leggera ma calda, tessuta da Galadriel. Sarebbe stato difficile precisarne il colore: grigia, sembrava, del colore del vespero tra gli alberi; eppure muovendola, o cambiando luce, era verde come foglie ombreggiate, o marrone come di notte un campo a maggese, o argento brunito come acqua al lume di stelle. Ogni cappa veniva chiusa al collo da una spilla simile ad una verde foglia venata d’argento.

«Sono questi dei mantelli magici?», domandò Pipino, guardandoli meravigliato.

«Non so che cosa tu intenda dire», rispose il capo degli Elfi. «Sono abiti belli, e di ottima stoffa, poiché tessuti in questo paese. Sono beninteso vesti elfiche, se è questo che volevi sapere. Foglia e ramo, acqua e pietra; hanno il colore e lo splendore di tutto ciò che ci circonda, immerso nel crepuscolo della nostra Lórien adorata. In ogni cosa che facciamo, noi infondiamo le immagini di tutto quel che amiamo. Tuttavia essi sono abiti, e non corazze, e non possono deviare frecce e lame. Ma dovrebbero esservi molto utili: sono leggeri su chi li indossa, e sufficientemente caldi o freschi a seconda della necessità. Li troverete inoltre di grande aiuto per difendervi dagli sguardi ostili, sia fra gli alberi che fra i sassi. La Dama ha davvero per voi un particolare affetto! Lei stessa infatti, aiutata dalle sue damigelle, ha tessuto codesta stoffa; e mai prima d’oggi avevamo vestito degli stranieri con abiti uguali ai nostri».

* * *

Dopo la colazione la Compagnia disse addio al verde prato intorno alla fontana. Tutti avevano il cuore stretto; quello era un posto splendido, divenuto per loro quasi un focolare, malgrado non riuscissero a contare quanti giorni e quante notti vi avevamo trascorso. Mentre davano un’ultima occhiata alle bianche acque sotto i raggi del sole, Haldir venne loro incontro attraverso la verde erba della radura. Frodo lo accolse pieno di gioia.

«Sono tornato dalle Frontiere Nordiche», disse l’Elfo, «ed ora sono incaricato di farvi nuovamente da guida. La Valle dei Rivi Tenebrosi è piena di vapori e di nubi di fumo, e le montagne sono offuscate. Si odono rumori negli abissi della terra. Se tra di voi alcuni avessero pensato di ritornare a nord verso le loro case, non sarebbero potuti passare dalla Valle. Venite! La vostra strada ormai porta a sud».

Le verdi vie erano vuote, mentre attraversavano Caras Galadhon, ma negli alberi sulle loro teste molte voci mormoravano e cantavano. Essi erano silenziosi. Infine Haldir li condusse ai piedi dei pendii meridionali del colle, ove ritrovarono il grande cancello illuminato da mille lanterne e il bianco ponte; allora uscirono, abbandonando la città degli Elfi. Poco dopo lasciarono la via lastricata per un sentiero che s’inoltrava in un fitto gruppo d’alberi d’oro, e che poi proseguiva, serpeggiando attraverso luoghi boscosi ed ondulati immersi in un’ombra argentea, conducendoli sempre più in giù, verso sud-est, verso le sponde del Fiume.

Avevano percorso circa dieci miglia, ed il meriggio era vicino, quando giunsero ad un alto muro verde. Dopo averlo attraversato giovandosi di un’apertura, sbucarono all’improvviso fuori dagli alberi. Innanzi a loro si stendeva un lungo prato di erba luccicante, cosparsa di dorati elanor che brillavano al sole. Il prato finiva ricoprendo una stretta lingua di terra dai margini luminosi: sulla destra e ad ovest scorreva scintillante l’Argentaroggia; sulla sinistra e ad est il Grande Fiume gonfiava le sue ampie acque, profonde e oscure. Sulla riva opposta, le terre boscose proseguivano a sud a perdita d’occhio, ma gli argini erano tutti spogli e squallidi. Nessun albero sporgeva i suoi rami gravidi d’oro al di là della Terra di Lórien.

Sulla riva dell’Argentaroggia, a qualche distanza dalla confluenza dei due fiumi, vi era una banchina in pietra e in legno bianchi, ove erano ormeggiate molte barche e molte chiatte. Alcune dipinte a colori vivaci, altre brillavano di argento, oro o verde, ma la maggior parte era grigia oppure bianca. Tre piccole barche grigie erano state approntate per i viaggiatori, ed in queste gli Elfi deposero il bagaglio. Aggiunsero anche dei rotoli di corda, tre per imbarcazione; avevano un aspetto slanciato ma robusto; toccandole parevano seta, ed erano del colore grigio delle cappe elfiche.

«Cosa sono queste?», domandò Sam, maneggiandone una che si trovava sulla zolla erbosa.

«Delle corde, beninteso!», rispose un Elfo da una delle barche. «Non fate mai lunghi viaggi senza avere una corda! E che sia una corda lunga e resistente e leggera, come queste; possono servire in molte occasioni».

«È inutile dirmelo!», esclamò Sam. «Io sono partito senza averne, e da allora sono stato preoccupatissimo. Ma vorrei sapere di cosa sono fatte queste corde qui, siccome me ne intendo un po’ della fabbricazione di funi; è una tradizione di famiglia, se vogliamo».

«Sono fatte d’hithlain», disse l’Elfo, «ma non vi è tempo sufficiente adesso per illustrarti l’arte della loro fabbricazione. Se avessimo saputo che questa forma d’artigianato ti piace tanto, avremmo potuto insegnarti molte cose. Ma ormai, purtroppo, a meno che tu non ritorni un giorno, ti devi accontentare del nostro dono. Che possa servirti bene!».

«Venite!», disse Haldir. «Tutto è pronto. Salite sulle barche! Ma da principio fate molta attenzione!».

«Tenetelo presente!», dissero gli altri Elfi. «Queste imbarcazioni sono leggere ed astute, diverse da quelle degli altri popoli. Non affondano, qualunque sia il carico; ma se vengono trattate male, sono capricciose. Sarebbe saggio che vi abituaste a salirvi e a scenderne, qui ove si trova l’imbarcadero, prima di discendere il corso inferiore del fiume».

* * *

La Compagnia si sistemò nelle barche in questo modo: Aragorn, Frodo e Sam occuparono la prima; Boromir, Merry e Pipino la seconda; e nell’ultima, dove fu caricata anche la maggior parte dei bagagli, presero posto Legolas e Gimli, divenuti ormai grandi amici. Le imbarcazioni venivano spostate ed orientate per mezzo di remi dal breve manico e dalla pala a forma di foglia. Quando tutto fu pronto, Aragorn fece loro risalire per prova un breve tratto dell’Argentaroggia. La corrente era rapida ed essi avanzavano lentamente. Sam, seduto a poppa ed aggrappato ai bordi, guardava con nostalgia la riva allontanarsi. Il sole scintillava sull’acqua e l’abbagliava. Oltrepassato il verde prato sulla lingua di terra, gli alberi crescevano numerosi fin sulla sponda; qua e là una foglia d’oro volteggiava e galleggiava sui flutti increspati. L’aria era molto luminosa e tranquilla, e un profondo silenzio regnava, interrotto soltanto dall’aereo e lontano canto delle allodole.

Voltarono un gomito del fiume, ed un cigno maestoso apparve, scivolando sulle acque verso di loro. Alla base del suo collo arcuato ed ai lati del bianco petto le onde erano increspate. Il becco riluceva come oro brunito, e gli occhi sfavillavano come luminose pietre gialle; le ali ampie ed immense erano leggermente sollevate. Si avvicinava, e una musica giunse lungo il fiume alle loro orecchie; d’un tratto si accorsero che era una barca, costruita e scolpita con le sembianze di un cigno dall’abilità degli Elfi. Due di questi, vestiti di bianco, la governavano con pagaie nere. Al centro del vascello sedeva Celeborn, dietro al quale, alta e bianca, era in piedi Galadriel; portava in testa un cerchio di fiori d’oro, e in mano un’arpa, e cantava. Dolce ed accorato il suono della sua voce nell’aria fresca e limpida:

Cantavo di foglie, di foglie dorate, e sulle foglie l’oro brillava,

Cantavo del vento, ed il vento incantato tra le fronde e le foglie giocava.

Al lume del Sole, al raggio di Luna, sul Mare brillava la schiuma.

Un albero d’oro, ad Ilmarin ermo, su lidi e su spiagge profuma.

Al lume di stelle di Sempre-vespro esso si vedea brillar

Ai piedi delle mura di Elven Tirion, rifulgeva ad Eldamar.

Ivi da anni ed anni crescon le foglie d’oro,

Qui sui Mari Nemici gli Elfi piangono in coro.

Oh Lórien! Giunge l’Inverno, l’Ora nuda e spoglia,

Il Fiume fugge via, e trascina con sé la foglia.

Oh Lórien! Sulla Riva Citeriore troppo tempo ho passato,

Sbiadita è la mia corona d’elanor dorato.

Ma se adesso di navi dovessi cantare, qual nave vedrei arrivare,

Qual nave potrebbe ormai portare Galadriel al di là del mare?

Aragorn arrestò la sua barca quando il Cigno-vascello si fu accostato. La Dama concluse il canto e rivolse loro un saluto. «Veniamo a darvi il nostro ultimo addio», disse, «e ad allietare la vostra partenza con doni e benedizioni di questa terra».

«Siete stati nostri ospiti», disse Celeborn, «eppure non avete ancora desinato insieme a noi; vogliate quindi prender parte ad un banchetto di commiato, qui fra le acque e i flutti che vi porteranno lungi da Lórien».

Il Cigno avanzò lentamente accostandosi all’imbarcadero, ed essi, voltate le loro barche, lo seguirono. Ivi, all’estrema punta d’Egladil, sulla verde zolla erbosa, si svolse il banchetto d’addio; Frodo toccò poco cibo e poche bevande, rapito dalla bellezza e dalla voce della Dama. Ella non sembrava più minacciosa e terribile, e colma di nascosta potenza. Le sue parvenze erano già simili a quelle degli Elfi che gli uomini dei tempi nostri a volte intravedono: presenti eppur remoti, immagine vivente di ciò che l’impetuoso corso del Tempo ha abbandonato lungi dietro di sé.

* * *

Quando ebbero mangiato e bevuto, seduti sull’erba, Celeborn parlò nuovamente del viaggio che essi stavano per intraprendere, puntando la mano alzata sui boschi a sud oltre la Lingua.

«Man mano che andrete avanti sulle acque», disse, «vedrete gli alberi scomparire, e la campagna divenire sterile. Il Fiume scorre attraverso valli pietrose in mezzo ad alte brughiere, per giungere infine all’imponente isola di Roccarebbio, che noi chiamiamo Tol Brandir. L’Anduin ne abbraccia le coste a dirupo, e precipita poi dalle cascate di Rauros nel Nindalf, il cui nome nella vostra lingua è Agrororido. Si tratta di una vasta zona di terreno acquitrinoso ove il corso d’acqua diventa tortuoso e diramato. Ivi si trova la confluenza con l’Entalluvio, che giunto dalla Foresta di Fangorn ad occidente, immette le proprie acque attraverso numerose bocche. Lungo codeste rive, sulla sponda citeriore del Grande Fiume, vi è Rohan, mentre dall’altra parte si possono scorgere le spoglie colline dell’Emyn Muil. In quel punto il vento soffia ad est perché i colli sono rivolti verso l’esterno, e guardano, oltre le Paludi Morte e le Terre di Nessuno, in direzione di Cirith Gorgor e dei neri cancelli di Mordor.

«Boromir, e chiunque lo accompagni alla ricerca di Minas Tirith, farà bene a lasciare il Grande Fiume prima di Rauros, e ad attraversare l’Entalluvio quando ancora non si è inoltrato nelle paludi. Essi non dovranno tuttavia risalirne troppo il corso, onde evitare di perdersi nella Foresta di Fangorn. È infatti una contrada misteriosa, e ben poco conosciuta. Ma Boromir ed Aragorn non hanno senza dubbio bisogno di questo mio avvertimento».

«Corrono effettivamente strane voci su Fangorn da noi a Minas Tirith», disse Boromir. «Ma a me sembrano piuttosto favole della nonna, come quelle che narriamo ai nostri bambini. Tutto ciò che si trova a nord di Rohan è ormai così lontano dalla terra ove noi viviamo, che la fantasia vi può vagare liberamente. Anticamente Fangorn era ai confini del nostro reame; ma ormai da molte vite d’uomo nessuno vi si è più recato, per confermare o smentire le leggende tramandate attraverso lunghi e numerosi anni.

«Personalmente sono stato qualche volta a Rohan, ma non l’ho mai percorso sino all’estremo Nord. Quando fui inviato quale messaggero, attraversai la Breccia di Rohan alle pendici dei Monti Bianchi, passando quindi l’Isen e l’Inondagrigio, e giungendo così nelle Terre Settentrionali. Un viaggio lungo e spossante. Secondo i miei calcoli, percorsi quattrocento leghe, impiegando molti mesi; perdetti infatti il cavallo a Sarbad, nel guadare l’Inondagrigio. Dopo un viaggio come quello, e la strada fatta insieme a codesta Compagnia, credo che non mi sarà difficile trovare una via per attraversare Rohan, o anche Fangorn, se fosse necessario».

«Allora non ho nulla da aggiungere», disse Celeborn. «Ma non disprezzare i racconti tramandati per lunghi anni; potrebbe darsi che le nonne rammentino alcune cose che in passato i saggi era bene conoscessero».

Galadriel si alzò in piedi, e prendendo una coppa tesale da una delle due damigelle, la riempì di bianco idromele e la diede a Celeborn.

«È giunta ormai l’ora di bere la coppa d’addio», disse. «Bevi, Signore dei Galadhrim! E che il tuo cuore non sia triste, anche se la notte deve seguire il meriggio, anche se il nostro crepuscolo è già vicino».

Quindi porse la coppa a ciascun membro della Compagnia, pregandolo di bere, e pronunziando parole d’addio. Ma quando ebbero bevuto, ordinò loro di sedere nuovamente sull’erba, mentre per sé e per Celeborn fece portare delle sedie. Le sue damigelle erano in piedi intorno a lei, immobili e silenziose. Galadriel guardò a lungo i suoi ospiti, ed infine rivolse loro di nuovo la parola.

«Abbiamo bevuto la coppa d’addio», disse, «e le ombre calano tra di noi. Ma prima che partiate, vi sono nella mia barca dei doni che il Signore e la Dama dei Galadhrim vi offrono in memoria di Lothlórien». Li chiamò allora uno per uno.

«Questo è il dono di Celeborn e di Galadriel al capo della Compagnia», disse ad Aragorn, dandogli un fodero creato apposta per la sua spada. Una ghirlanda di fiori e foglie d’oro e d’argento lo ornava, e delle gemme erano incastonate in modo da formare il nome Andùril e il lignaggio della spada in rune elfiche.

«La lama tratta da codesto fodero non verrà macchiata né spezzata neanche nella sconfitta», disse la Dama. «Dimmi però se vi è qualcos’altro che desideri da me all’ora della separazione! Ahimè, l’oscurità sempre più cupa sarà d’ora in poi fra di noi, e forse mai più c’incontreremo, prima del giorno in cui percorreremo una strada molto lontana e senza ritorno».

Aragorn rispose: «Dama, tu conosci il mio unico desiderio, ed hai custodito a lungo il solo tesoro ch’io cerchi. Eppur anche volendolo, tu non potresti darmelo; sono io che lo raggiungerò al di là delle tenebre».

«Tuttavia ho qui qualcosa che forse porterà conforto al tuo cuore», disse Galadriel; «mi fu consegnata affinché te la dessi, qualora tu fossi passato dalle nostre terre». Tolse dal grembo una grande pietra verde e limpida, incastonata in una spilla d’argento a forma d’aquila con le ali distese; la tenne alla luce, e la gemma sfavillava come il sole tra le foglie della primavera. «Questa gemma io diedi a Celebrian, mia figlia, ed ella a sua volta la donò alla sua; giunge ora nelle tue mani in segno di speranza. In questo momento prendi il nome a te predestinato, Elessar, gemma elfica della casa di Elendil!».

Aragorn prese la spilla e se l’appuntò al petto, e coloro che lo guardavano furono colti da meraviglia; mai infatti avevano notato il suo portamento eretto e regale, e parve loro che le spalle del capo della Compagnia si fossero alleggerite di molti anni logoranti. «Per i doni che mi hai offerto ti ringrazio», disse, «o Dama di Lórien che generasti Celebrian ed Arwen Stella del Vespro. Non è forse codesta la lode più bella ch’io ti possa porgere?».

La Dama inclinò leggermente il capo, e si rivolse poi a Boromir, al quale diede una cinta d’oro; a Merry ed a Pipino donò piccole cinture d’argento, dalla borchia a forma di fiore d’oro. A Legolas offrì un arco come quello dei Galadhrim, più lungo e più robusto degli archi del Bosco Atro, la cui corda era fatta di capelli elfici. Era accompagnato da una faretra di frecce.

«Per te, piccolo giardiniere ed amante degli alberi», disse rivolgendosi a Sam, «non ho che un piccolo dono». Gli mise in mano una scatoletta di semplice legno grigio, del tutto disadorna, con un’unica runa d’argento sul coperchio. «Codesta è la G di Galadriel», disse la Dama; «ma può anche essere l’iniziale di giardino nella tua lingua. La scatola contiene terra del mio frutteto, ed ogni benedizione che Galadriel ha ancora il potere d’impartire. Non ti aiuterà a percorrere con costanza la giusta via, né ti difenderà contro le insidie; ma se tu la conservi, ed un giorno ritorni infine alla tua casa, allora forse sarai ricompensato. Anche se trovassi tutto spoglio e abbandonato, quando avrai sparso in terra il contenuto della scatola, pochi giardini fioriranno come il tuo nella Terra di Mezzo. Quel giorno forse ricorderai Galadriel, ed ai tuoi occhi apparirà una lontana visione di Lórien, che tu hai veduto solo nel nostro inverno. Per noi primavera ed estate sono passate, e su questa terra rivivranno soltanto nel ricordo».

Sam arrossì fino alla punta delle orecchie e mormorò qualcosa d’incomprensibile, stringendo forte la scatoletta e cercando di sfoggiare il suo più bell’inchino.

«E quale dono un Nano gradirebbe ricevere dagli Elfi?», domandò Galadriel rivolgendosi a Gimli.

«Nessuno, mia Dama», rispose Gimli. «È per me un regalo sufficiente l’aver veduto la Dama dei Galadhrim, e udito le sue dolci parole».

«Ascoltate tutti, voi Elfi!», gridò Galadriel a coloro che le stavano intorno. «Che nessuno osi mai più dire che i Nani sono cupidi e sgarbati! Eppur sono certa, Gimli figlio di Glóin, che tu desideri qualcosa ch’io sono in grado di darti. Esprimi codesto desiderio, ti prego! Non voglio che tu sia l’unico ospite senza un mio dono».

«Non vi è nulla ch’io desideri, Dama Galadriel», disse Gimli con un profondo inchino e balbettando. «Nulla, eccetto forse… eccetto, se mi è permesso chiedere, anzi, esprimere il desiderio, un capello della tua chioma, che eclissa l’oro della terra, come le stelle eclissano le gemme delle miniere. Io non chiedo un tale dono, ma tu mi hai ordinato di esprimere il mio desiderio».

Tra gli Elfi stupefatti si levò un mormorio concitato, e Celeborn fissò meravigliato il Nano, ma la Dama sorrise, «Si dice che l’abilità dei Nani risiede nelle loro mani e non nella lingua», ella disse; «non è certo il caso di Gimli. Nessuno mai mi ha rivolto una preghiera così ardita eppur così cortese. Come potrei rifiutare, dopo avergli ordinato di parlare? Ma dimmi, cosa faresti di un tale dono?».

«Lo custodirei come un tesoro, mia Dama», egli rispose, «in memoria delle parole che mi rivolgesti il giorno del nostro primo incontro. E se mai dovessi tornare nelle fucine della mia terra, lo farei incastonare in cristallo inalterabile, ed esso sarebbe al tempo stesso prezioso ricordo di famiglia, e pegno di benevolenza fra la Montagna e la Foresta sino alla fine dei tempi».

La Dama disfece allora una delle sue lunghe trecce, e tagliò tre capelli d’oro che pose nella mano di Gimli. «Il dono sarà accompagnato da queste mie parole», disse. «Non predico il futuro, perché ogni profezia è vana: da un lato vi è l’oscurità, e dall’altro solo speranza. Ma se la speranza dovesse non morire, io dico a te, Gimli figlio di Glóin, che nelle tue mani l’oro scorrerà a flutti, eppur non avrà mai su di te alcun dominio.

«A te, infine, Portatore dell’Anello», disse Galadriel rivolgendosi a Frodo, «giungo per ultimo, a te che ultimo non sei nei miei pensieri. Ecco quel che ho preparato per te». Mostrò una piccola fiala di cristallo, che scintillava mentre ella la muoveva, e sprigionava raggi di luce bianca. «In questa fiala», disse, «è prigioniera la luce della stella di Eärendil, impregnata delle acque della mia fontana. Splenderà ancor più luminosa, quando sarai immerso nella notte. Possano i suoi raggi guidarti nei luoghi oscuri, ove tutte le altre luci si spegnessero. Ricorda Galadriel ed il suo Specchio!».

Frodo prese la fiala, e per un attimo, brillando tra loro, i raggi gli mostrarono di nuovo l’immagine di una regina, grande e bella, ma non più terribile. Egli fece un inchino, e non seppe trovare parole per ringraziarla.

La Dama allora si alzò in piedi, e Celeborn li condusse al pontile. Un giallo meriggio inondava la verde terra della Lingua, e l’acqua scintillava d’argento. Infine tutto fu pronto, e la Compagnia riprese i posti di prima. Gridando parole d’addio,. gli Elfi di Lórien li spinsero con lunghi pali al centro della corrente, e le acque increspate li trascinarono via dolcemente. I viaggiatori sedevano immobili e silenziosi. Sulla verde riva alla punta estrema della Lingua, Dama Galadriel era in piedi, sola e muta. Dopo esserle passati davanti, si voltarono, guardandola allontanarsi lentamente sui flutti. Avevano infatti l’impressione che Lórien stesse scivolando via, simile ad una luminosa nave dagli alberi incantati, che navigasse verso lidi obliati, mentre essi guardavano inerti e seduti sulle rive di un mondo grigio e spoglio.

Erano ancora voltati, quando l’Argentaroggia mescolò le sue acque alle correnti del Grande Fiume; le barche girarono puntando verso sud, e presero maggiore abbrivo. La bianca figura della Dama divenne presto piccola e distante. Brillava come una finestra di vetro su una lontana collina al sole del tramonto, o come un remoto lago visto dall’alto di una montagna: un cristallo caduto nel grembo della terra. Ad un tratto Frodo credette di vederla alzare un braccio in segno di saluto, mentre da lontano giungeva limpido e penetrante sulle ali del vento che li inseguiva, il canto della sua voce. Ma era una canzone nell’antica lingua degli Elfi al di là del Mare, e Frodo non comprendeva le parole: bella era la melodia, ma non riuscì a riconfortarlo.

Eppure, come tutte le parole elfiche, anche quelle gli rimasero impresse nella mente; e molto tempo dopo egli le tradusse, nel migliore modo possibile: il linguaggio era quello dei canti elfici, e narrava di cose poco conosciute nella Terra di Mezzo.

Ai! laurië lantar lassi sdrinen,

Yéni ùnétimë ve ràmar aldaron!

Yéni ve lintë yuldar avànier

mi oromandi lisse-miruvòreva

Andùnë pella, Vardo tellumar

nu luini yassen tintilar i eleni

òmaryo airetàri-lirinen.

Si man i yulma nin enquantuva?

An si Tintallë Varda Oiolossëo

ve fanyar màryat Elentàri ortanë

ar ilyë tier undulàvë lumbulë;

ar sindanòriello calto mornië

i falmalinnar imbë met, ar hisië

untùpa Calaciryo miri oialë.

Si, vanwa nà, Ròmeho vanwa, Valimar!

Namàrië! Nai hiruvalyë Valimar.

Nai elyë hiruva. Namàrië!

«Ah! Simili ad oro cadono le foglie al vento, lunghi innumerevoli anni come le ali degli alberi! I lunghi anni sono fuggiti, come rapidi sorsi del dolce idromele, in aerei saloni oltre l’Occidente, sotto le azzurre volte di Varda ove le stelle tremolano al canto della sua voce, una voce sacra di regina. Chi riempirà ormai per me la coppa? Ahimè! la Vampa, Varda, Regina delle Stelle, ha innalzato le sue mani dal Monte Semprebianco come nuvole che ascendono al cielo, ed ogni sentiero è immerso nella più cupa oscurità; fuori dalla grigia campagna, il buio sovrasta le onde spumeggianti che ci separano, e la nebbia ricopre per sempre i gioielli di Calicirya. Perso! Perso è ormai Valimar per coloro che vivono ad oriente. Addio! Forse un dì tu troverai Valimar. E forse anche tu lo troverai un dì. Addio!». Varda è il nome di quella Dama che gli Elfi in queste terre d’esilio chiamano Elbereth.

* * *

Incontrarono improvvisamente un gomito del Fiume, ove da ambedue i lati le rive s’innalzavano, nascondendo la luce di Lórien. Frodo non rivide mai più quella dolce terra.

I viaggiatori volsero allora lo sguardo in direzione della via che li attendeva: il sole li abbagliò, perché tutti avevano gli occhi pieni di lacrime. Gimli singhiozzava.

«Ho mirato per ultimo ciò che di più bello vi era», egli disse al suo compagno Legolas. «D’ora in poi nulla sarà bello per me, solo il dono che ella mi ha fatto». Si portò la mano sul petto.

«Dimmi, Legolas, perché intrapresi questa Missione? Lungi ero dall’immaginare quale fosse il pericolo maggiore! Quanto veraci le parole di Elrond, quando ci disse che non potevamo immaginare quel che avremmo forse incontrato sulla nostra via. La tortura dell’oscurità era ciò ch’io maggiormente temevo, e tuttavia partii vincendo la mia paura. Ma se avessi conosciuto il pericolo della luce e della gioia, non sarei mai venuto. Più non riceverò ferita profonda come quella causatami da questa separazione, dovessi oggi stesso recarmi dall’Oscuro Signore. Ahimè, misero Gimli figlio di Glóin!».

«No!», disse Legolas. «Miseri tutti noi! E tutti coloro che percorreranno il mondo nei giorni a venire. Esso è fatto in tal modo che ciò che trovi lo perdi subito, e ti par di essere in una barca trascinata dalla corrente. Ma te, Gimli figlio di Glóin, io considero benedetto dal fato: tu soffri della perdita e del distacco di tua propria spontanea volontà! avresti potuto far diversamente. Ma non hai tradito i tuoi compagni, e di ciò sarai ricompensato. Il minor premio che riceverai, sarà di conservare in cuore il ricordo di Lothlórien per sempre limpido ed immacolato, intenso ed inalterabile».

«Può darsi», disse Gimli, «e ti sono grato di queste parole. Parole anche veraci, senza dubbio; ma simili esortazioni confortano poco. La memoria non può appagare i desideri del cuore. Essa è solo uno specchio, anche se limpido come Kheled-zâram. Questo perlomeno è ciò che dice il cuore di Gimli il Nano. Forse gli Elfi vedono le cose diversamente. Anzi, ho udito dire che rammentare è per loro più simile alla vita reale che ai sogni. Ma non è così per i Nani.

«Ora non parliamone più. Stiamo attenti alla barca! Il peso di tutto questo bagaglio la fa pescare troppo, ed il Gran Fiume è assai rapido. Non desidero annegare il mio dolore nell’acqua fredda». Prese un remo e diresse la barca verso la riva occidentale, seguendo l’imbarcazione di Aragorn che era capofila, ed aveva già abbandonato il centro della corrente.

* * *

La Compagnia percorreva così la sua lunga strada, portata sempre più a sud dalle ampie acque impetuose. Boschi spogli fiancheggiavano ambedue le sponde, impedendo loro di scorgere le terre che si stendevano al di là. La brezza si quietò ed il Fiume continuò a scorrere senza un rumore. Nessun canto d’uccello che rompesse il silenzio. Man mano che il giorno finiva, il sole si offuscava, ed infine, nel pallido cielo, non fu più che una bianca perla dal lontano barlume. Presto scomparve a occidente, ed il crepuscolo giunse veloce, seguito da una notte grigia e senza stelle. Continuarono a navigare, nelle silenti ore buie, guidando le barche sotto le ombre che proiettavano i boschi occidentali. Grandi alberi passavano come fantasmi, e le loro radici nodose ed assetate squarciavano la nebbia per tuffarsi nelle acque. Erano fredde e cupe. Frodo ascoltava seduto il fievole gorgoglio della corrente contro le radici degli alberi e i detriti di legno lungo le sponde. Infine la sua testa ciondolò, e cadde in un sonno inquieto.

CAPITOLO IX IL GRANDE FIUME

Frodo fu svegliato da Sam. Si accorse di essere coricato ed avvolto in calde coperte, ai piedi di imponenti alberi dalla corteccia grigia, in un silenzioso angolo dei boschi sulla riva occidentale del Grande Fiume Anduin. Aveva dormito tutta la notte, e la grigia mattina s’intravedeva già, pallida tra i rami nudi. Gimli era molto indaffarato con un piccolo fuoco nelle vicinanze.

Si rimisero in viaggio prima che fosse pieno giorno. Ciò non voleva dire che la Compagnia fosse ansiosa di giungere rapidamente a sud; erano contenti che la decisione, che dovevano prendere al più tardi una volta giunti a Rauros e all’isola di Roccarebbio, potesse attendere ancora qualche giorno; lasciavano quindi che il Fiume li portasse, con la sua lenta corrente, senza alcun desiderio di correre incontro ai pericoli che li attendevano, qualunque via avessero infine scelto. Aragorn permise che si facessero trascinare dalla corrente come desideravano, risparmiando in tal modo le forze per le future fatiche. L’unico punto sul quale fu irremovibile, era la partenza di prima mattina ed il proseguimento del viaggio sino a notte inoltrata; sentiva in cuor suo che il tempo premeva, e pensava con inquietudine che l’Oscuro Signore non era rimasto ozioso mentre essi si attardavano a Lórien.

Ciò nonostante non scorsero alcuna traccia di nemici durante tutta la giornata, e il giorno dopo nemmeno. Le monotone ore grigie passavano senza che nulla accadesse. Ma il terzo giorno le campagne incominciarono lentamente a cambiare aspetto: gli alberi diminuirono e poi scomparvero del tutto. Sulla riva est alla loro sinistra, lunghi pendii deformi si stendevano innalzandosi verso il cielo; parevano bruni ed avvizziti, come se un incendio li avesse spazzati, senza risparmiare un solo filo di verde: un deserto ostile, ove né un albero tronco, né un ardito macigno interrompessero la monotonia del vuoto. Erano arrivati alle Terre Brune, un territorio vasto e desolato compreso tra il Bosco Atro Meridionale ed i colli dell’Emyn Muil. Quale pestilenza, guerra, o altra infame azione del Nemico avesse arso a tal punto l’intera regione, persino Aragorn non avrebbe saputo dire.

Anche a ovest, sulla loro destra, il paesaggio era privo di alberi, ma era piatto, e ampie pianure erbose lo macchiavano in parecchi punti di verde. Su questa sponda del Fiume oltrepassarono foreste d’immense canne, così alte che ostruivano completamente la vista ad occidente, quando le piccole imbarcazioni avanzavano strusciando contro le ultime propaggini dei canneti oscillanti al vento. Le scure piume avvizzite si curvavano e si scrollavano nella fresca brezza, sibilando dolcemente con tristezza. Da taluni varchi nella selva, Frodo scorse improvvise immagini di pascoli ondulati, oltre i quali dei colli brillavano nel tramonto, e lontano sulla linea dell’orizzonte come una fascia oscura, le ultime creste meridionali delle Montagne Nebbiose.

Non vi era traccia di cose vive che si muovessero, salvo gli uccelli. Di questi ve ne erano molti: giovani uccellini pigolanti tra le canne, che si vedevano di rado. Un paio di volte i viaggiatori udirono il fruscio ed il sibilo delle ali di cigni, e levando lo sguardo scorsero una grossa falange che navigava in cielo.

«Cigni!», disse Sam. «E belli grandi!».

«sì», disse Aragorn, «e sono cigni neri».

«Com’è ampia e vuota e desolata tutta questa contrada!», esclamò Frodo. «Ho sempre creduto che viaggiando verso sud ogni cosa divenisse man mano più calda e più allegra, e che infine l’inverno scomparisse per sempre».

«Ma noi ancora non siamo molto a sud», rispose Aragorn. «Fa ancora inverno, e ci troviamo lontani dal mare. Qui il mondo rimane freddo in attesa dell’improvviso arrivo della primavera, ed è possibile che la neve ci colga una seconda volta. All’estremo sud, nella lontana Baia di Belfalas, ove sfocia l’Anduin, ogni cosa forse è calda e felice, o perlomeno lo sarebbe se non vi fosse il Nemico. Ma nel punto in cui ci troviamo, siamo ad occhio e croce appena sessanta leghe più a sud del Decumano Sud, nella vostra lontana Contea, distante centinaia di lunghe miglia. State guardando a sud-ovest, oltre le pianure nord del Riddermark, Rohan, la terra dei Signori dei Cavalli. Fra poco giungeremo alla confluenza con il Liniterso, che scorre giù da Fangorn per unire le sue acque a quelle del Grande Fiume. Esso costituisce la frontiera settentrionale di Rohan, ed anticamente tutto ciò che giace tra il Liniterso e i Monti Bianchi apparteneva ai Rohirrim. È una contrada ricca e piacevole, e la sua erba non ha paragone; ma di questi tempi malvagi la gente non vive lungo il Fiume, ed evita di recarsi spesso sino alle sue sponde. L’Anduin è ampio, e tuttavia gli Orchi tirano le loro frecce a una grande distanza oltre la riva opposta; inoltre pare che di recente abbiano osato attraversarne i flutti, e fare razzie tra le greggi e gli allevamenti di cavalli di Rohan».

Sam lanciò qualche sguardo inquieto da una parte e dall’altra del fiume. Gli alberi gli erano parsi ostili, come covi di occhi nascosti e di pericoli insidiosi; adesso li rimpiangeva. Sentiva che la Compagnia era troppo nuda, galleggiante su piccole barche scoperte, in mezzo a terre senza riparo, e su un fiume che costituiva il fronte della guerra.

Durante i due giorni che seguirono, mentre avanzavano trasportati rapidamente verso sud, tutti i viaggiatori furono presi dalla medesima sensazione di insicurezza. Per un giorno intero adoperarono i remi affrettando la navigazione. Le rive scivolavano via. Presto il Fiume divenne più ampio e meno profondo; ad est si allungavano spiagge ghiaiose, e nell’acqua vi erano banchi di sassi che rendevano indispensabile la presenza di un cauto timoniere. Le Terre Brune diventarono spoglie lande spazzate dal gelido vento dell’Est. Sulla riva opposta, dei pascoli ondulati non rimaneva altro che qualche tumulo d’erba avvizzita in mezzo a un terreno acquitrinoso ove cresceva qualche ciuffo di vegetazione. Frodo rabbrividì, pensando ai prati ed alle fontane, al limpido sole ed alle dolci pioggerelle di Lothlórien. Nelle barche si parlava poco, e non si udiva alcun riso. Ogni membro della Compagnia era immerso nei propri pensieri.

Il cuore di Legolas correva sotto le stelle di una notte d’estate, in qualche radura in mezzo ai boschi di faggi del Nord; Gimli immaginava tra sé di lavorare l’oro, chiedendosi se fosse adatto per ornare la custodia del dono di Galadriel. Merry e Pipino erano a disagio nel mezzo della barca, perché Boromir non faceva che mormorare sottovoce, a volte mordendosi le unghie, come roso dal dubbio o dall’irrequietezza, a volte afferrando un remo ed avvicinando la barca a quella di Aragorn. D’un tratto Pipino, che sedeva a prua voltato all’indietro, colse uno strano bagliore nei suoi occhi, mentre egli curvo in avanti scrutava Frodo. Sam aveva da tempo decretato dentro di sé che, pur non essendo forse pericolose come gli avevano insegnato da bambino, le barche erano di gran lunga più scomode di quanto non immaginasse. Si sentiva aggranchito e infelice, non avendo altro da fare che guardare le campagne d’inverno scorrere via, e le grigie acque intorno a sé. Anche quando le pagaie venivano adoperate, a Sam non ne affidavano mai nessuna.

Il crepuscolo stava calando sul quarto giorno, ed egli guardava indietro, oltre le teste curve di Frodo e di Aragorn, oltre la fila di barche; era sonnolento, e pensava con nostalgia all’accampamento ed alla presenza della terra ferma sotto i piedi. D’un tratto qualcosa attirò il suo sguardo: da principio Sam guardò distrattamente, poi si sedette diritto strofinandosi gli occhi; ma quando guardò di nuovo con maggior attenzione, non vide più nulla.

* * *

Quella notte si accamparono su un piccolo isolotto vicino alla sponda occidentale. Sam si avvolse ben bene nelle coperte, e si coricò accanto a Frodo. «Ho fatto un sogno bizzarro una o due ore prima che ci fermassimo, signor Frodo», disse. «O forse non era un sogno. Bizzarro in ogni caso lo era».

«Ebbene, raccontamelo», disse Frodo, sapendo che Sam non avrebbe trovato requie, se egli non avesse ascoltato l’intera storia. «Da quando siamo partiti da Lothlórien non ho visto né pensato nulla che mi facesse sorridere».

«Non intendevo bizzarro in questo senso, signor Frodo. Era stranissimo, e molto inquietante se non era un sogno. È bene che vi racconti tutto. Il fatto è che ho visto galleggiare un ceppo con due occhi!».

«Va bene per il ceppo», disse Frodo. «Ve ne sono parecchi sul Fiume. Ma lascia stare gli occhi!».

«No!», disse Sam. «Furono proprio gli occhi a farmi saltare su, come si suol dire. Vidi qualcosa che presi per un ceppo galleggiare nella penombra dietro la barca di Gimli; non vi prestai molta attenzione. Poi mi accorsi che il ceppo ci stava lentamente raggiungendo; ciò che, bisogna riconoscere, era alquanto strano, poiché galleggiavamo tutti sulla medesima corrente. In quel momento vidi gli occhi: come due punti pallidi, con alcunché di vitreo, in una gobba del ceppo all’estremità più vicina a noi. Non solo, ma non poteva essere un ceppo, poiché era munito di piedi a forma di palma, molto simili a quelli di un cigno, ma apparentemente più grandi, che affondavano ed emergevano dalle acque senza sosta.

«Fu allora che saltai su strofinandomi gli occhi, pronto a lanciare un grido se la visione non scompariva dopo che avessi cacciato dalla mia testa ogni ombra di sonnolenza. Quella cosa acquistava infatti velocità, ed era ormai molto vicina alla prua dell’imbarcazione di Gimli. Non so se i due lumi mi videro muovere e guardare, o se fui io a riprendere i sensi, ma il fatto sta che quando guardai per la seconda volta, non vidi nulla. Eppure mi pare di aver scorto con la coda dell’occhio, come usa dirsi, qualcosa di scuro proiettarsi nelle ombre della riva; ma occhi non ve ne erano più.

«Dissi a me stesso: “Stai di nuovo sognando, Sam Gamgee”, così dissi; e per un po’ non dissi più nulla. Ma adesso che ho riflettuto non ne sono più tanto sicuro. Che ve ne pare, a voi, signor Frodo?».

«Mi parrebbe soltanto un ceppo nel crepuscolo, e del sonno nei tuoi occhi, Sam», disse Frodo, «se quegli occhi fossero apparsi oggi per la prima volta. Ma non è così; io li vidi su a nord prima che giungessimo a Lórien, e vidi uno strano essere con due occhi arrampicarsi sul flet quella notte. E anche Haldir lo avvistò. E poi ti ricordi ciò che riferirono gli Elfi tornati dall’inseguimento della banda di Orchi?».

«Ah», disse Sam, «ricordo; e ricordo anche altre cose. Ciò che mi viene in mente non è molto piacevole; ma pensando a questo e a quello, alle storie del signor Bilbo ed a tutto il resto, credo di poterne dedurre un nome da dare a quella creatura. Un nome malvagio. Che ne direste di Gollum?».

«Sì, è ciò che temevo da tempo», disse Frodo. «Sin da quella notte sul flet. Suppongo egli stesse a Moria in agguato, e da quel momento abbia seguito le nostre tracce; speravo che la permanenza a Lórien lo gettasse fuori pista. Invece quell’essere immondo si era evidentemente nascosto nei boschi lungo l’Argentaroggia, in attesa della nostra partenza!».

«Dev’essere proprio così», disse Sam. «Faremmo bene ad essere anche noi un po’ più vigili, d’ora in poi, o una notte di queste sentiremo delle dita malvagie stringerci il collo, ammesso che saremo ancor vivi per sentirle. Era a questo che volevo arrivare: inutile disturbare Grampasso e gli altri per questa notte. Monterò io la guardia; potrò recuperare il sonno domani, poiché in barca faccio parte dei bagagli, e sono, come si suol dire, un peso morto».

«Puoi dirlo», replicò Frodo, «ed aggiungere “un peso morto con gli occhi”. Monta pure la guardia, ma promettimi di svegliarmi a metà strada tra ora e l’alba, se non dovesse accadere nulla prima».

A notte fonda Frodo uscì da un profondo sonno buio e si accorse che Sam lo stava scuotendo. «È un peccato svegliarvi», sussurrò Sam, «ma me l’avete chiesto voi. Non c’è nulla da dire, o ben poco. Mi parve di udire poc’anzi uno spruzzo ed un rumore come di fiuto; ma si odono tanti strani suoni del genere di notte lungo un fiume».

Egli si coricò, e Frodo, imbacuccato nelle coperte, si mise seduto lottando contro il sonno. Minuti od ore intere passarono lentamente, senza che accadesse nulla. Frodo stava per cedere alla tentazione di coricarsi di nuovo, quando una forma scura, appena visibile, galleggiò vicino ad una delle barche attraccate. Una lunga mano bianchiccia s’intravide, mentre afferrava veloce il parapetto; due pallidi occhi che emanavano il freddo barlume di una lampada scrutarono l’interno dell’imbarcazione, poi si levarono, fissando Frodo seduto sull’isolotto. Erano distanti meno di un paio di braccia, e Frodo udì il fioco sibilo di un respiro trattenuto. Egli si alzò in piedi, sguainando Pungolo, ritto innanzi a quegli occhi. Immediatamente la loro luce si spense. Si udì un altro sibilo, seguito da uno spruzzo, e la scura forma a ceppo scomparve giù per il fiume nella notte. Aragorn si mosse nel sonno, si girò, ed infine si mise a sedere.

«Che succede?», bisbigliò, saltando in piedi ed avvicinandosi a Frodo. «Qualcosa ha turbato il mio sonno. Perché hai sfoderato la spada?».

«Gollum», rispose Frodo. «O perlomeno immagino sia lui». «Ah!», esclamò Aragorn. «Vedo che sai del nostro malandrino! Ci ha seguiti attraverso Moria e fino al Nimrodel. Da quando abbiamo preso le barche, si è sistemato su di un ceppo, remando con le mani ed i piedi. Ho cercato un paio di volte di catturarlo, di notte, ma è più astuto di una volpe, e più viscido di un pesce. Speravo che il viaggio sul fiume lo sfinisse, ma è un rematore eccezionalmente bravo.

«Domani dobbiamo assolutamente cercare di progredire più rapidamente. Tu sdraiati adesso, ed io monterò la guardia per il resto della notte. Se solo riuscissi a mettere le mani addosso a quello sciagurato! Potrebbe persino esserci utile. Ma se non ce la faccio, dovremo ad ogni costo tentare di fargli perdere le nostre tracce. Gollum è troppo pericoloso. Non solo pronto ad assassinare di notte per conto proprio, ma disposto a lanciare al nostro inseguimento qualunque nemico si trovi nelle vicinanze».

* * *

La notte passò senza che Gollum desse il minimo segno di vita. Dopo l’accaduto, la Compagnia fu costantemente all’erta, ma non scorse traccia di Gollum durante il resto della navigazione. Se li stava ancora seguendo, lo faceva in modo cauto ed astuto. Incitati da Aragorn, essi remavano ora per lunghi tratti, e gli argini scorrevano via rapidi. Videro poco il paesaggio, perché viaggiavano soprattutto di notte e nel crepuscolo, riposandosi di giorno, sdraiati negli angoli più nascosti che le rive offrissero. Il tempo trascorse in questo modo sino al settimo giorno senza che nulla accadesse.

Il cielo era ancora grigio e coperto, il vento soffiava da est, ma col calar della notte si schiarì ad occidente, e degli stagni di fioca luce gialla e verde pallida apparvero sotto le grigie sponde di nubi. La crosta della nuova Luna biancheggiava nei laghi remoti. Sam la guardò aggrottando la fronte.

L’indomani la campagna da ambedue i lati cominciò a trasformarsi rapidamente. Gli argini si fecero alti e pietrosi. Presto si trovarono ad attraversare una contrada di colline rocciose, e sulle due sponde terminavano ripidi pendii sepolti sotto profonde macchie di cespugli spinosi e di prugnole, aggrovigliati con rovi e rampicanti. Al di là si scorgevano bassi colli sgretolati, e fumaioli di grigia pietra corrosa che l’edera faceva sembrare quasi nera; nello sfondo si ergevano alte creste coronate da abeti contorti dal vento. La Compagnia si stava avvicinando alle grigie terre collinose dell’Emyn Muil, il confine sud delle Terre Selvagge.

Vi erano molti uccelli intorno alle creste e ai fumaioli di pietra, e grandi stormi avevano solcato l’aria lontana, contorni neri contro il pallido cielo. Mentre riposavano nell’accampamento, Aragorn pensava, osservando dubbioso i voli d’uccelli, se Gollum avesse escogitato qualche nuova malvagità e se nelle zone selvagge si fosse ormai sparsa la voce del loro viaggio fluviale. Più tardi, sul calar del sole, allorquando la Compagnia si apprestava a ripartire, una immensa macchia nera si proiettò in terra nella luce che sbiadiva: un grande uccello alto e lontano roteava e planava dirigendosi lentamente verso sud.

«Cos’è quello, Legolas?», domandò Aragorn mostrando il cielo settentrionale. «È forse, come credo, un’aquila?».

«Sì», disse Legolas; «è un’aquila, un’aquila cacciatrice. Vorrei sapere qual presagio è per noi. Vola lontana dalle montagne».

«Non partiremo prima che sia del tutto buio», disse Aragorn.

* * *

Giunse così l’ottava notte del loro viaggio. Una notte silenziosa e senza vento; il soffio grigio che veniva da oriente si era calmato. La esile falce crescente della Luna era apparsa presto nel pallido tramonto, ma il cielo sulle loro teste era limpido, e benché nel lontano Sud grosse nuvole ammassate brillassero ancora fiocamente, all’Ovest le stelle sfavillavano e splendevano. «Venite!», disse Aragorn. «Ci arrischieremo in un’ultima tappa notturna. Ci stiamo avvicinando a zone del Fiume che io non conosco bene, perché mai prima d’oggi avevo percorso con una barca queste contrade, da qui alle rapide di Sarn Gebir. Ma se i miei calcoli non sono errati, le cascate distano ancora parecchie miglia. Vi sono inoltre molti punti pericolosi prima di giungervi: rocce e isolotti sassosi in mezzo alla corrente. Dobbiamo avanzare con cautela, senza cercare di remare rapidamente».

A Sam, seduto nella barca di testa, fu assegnato il compito di sentinella. Proteso in avanti, scrutava le tenebre. La notte si fece fitta, ma le stelle lassù erano stranamente luminose, e sulla superficie del Fiume vi era come un luccichio. Mancava poco alla mezzanotte, e da qualche tempo si erano abbandonati alla corrente, senza quasi adoperare le pagaie, quando all’improvviso Sam lanciò un grido. A pochi metri di distanza delle forme cupe si ergevano nelle acque, e alle sue orecchie giungeva il fragore di flutti vorticosi. Una corrente rapida trascinava a sinistra, verso la riva orientale ove il letto era sgombro. Mentre le loro barche venivano portate dai flutti in quella direzione, i viaggiatori videro, a brevissima distanza, la pallida schiuma del Fiume lambire delle rocce aguzze che giganteggiavano in mezzo al corso d’acqua come una fila di denti. Le barche erano ammucchiate una contro l’altra.

«Ehi, Aragorn!», urlò Boromir, mentre la sua imbarcazione urtava la capofila. «È una follia! Non possiamo avventurarci nelle Rapide di notte! Nessun vascello resiste a Sarn Gebir, che sia notte oppure giorno».

«Indietro! Indietro!», vociò Aragorn. «Voltate! Voltate se vi riesce!». Immerse il suo remo nei flutti, tentando di arrestare la barca e di farla girare su se stessa.

«I miei calcoli erano tutti sbagliati», disse a Frodo. «Non avevo idea che fossimo giunti così lontano: l’Anduin scorre più veloce di quanto non credessi. Sarn Gebir dev’essere ormai vicino».

* * *

Con grandi sforzi riuscirono a trattenere le barche e a voltare lentamente; ma da principio potevano opporre ben poca resistenza alla corrente, e venivano trascinati sempre più vicino alla sponda orientale, che si ergeva nera ed ostile nella notte.

«Remiamo tutti insieme!», tuonò Boromir. «Remiamo! Altrimenti finiremo sulle secche». Egli stava ancora parlando, quando Frodo sentì la chiglia della sua barca raschiare la roccia.

In quell’istante si udirono vibrare le corde di parecchi archi: le frecce sibilarono sulle loro teste, ed alcune caddero fra loro. Una colpì Frodo tra le spalle, ed egli cadde in avanti con un grido, abbandonando il remo: ma la freccia fu respinta dalla sua cotta di maglia. Un’altra trapassò il cappuccio di Aragorn; una terza s’infisse nella fiancata della seconda barca, accanto alla mano di Merry. A Sam parve di scorgere figure nere correre avanti e indietro sui lunghi argini ghiaiosi ai piedi della sponda orientale. Sembravano molto vicine.

«Yrch!», disse Legolas, inconsciamente parlando nella sua lingua nativa.

«Orchi!», gridò Gimli.

«Tutto merito di Gollum, scommetto», disse Sam a Frodo. «Ed ha scelto anche un bel posticino. Il Fiume pare fermamente deciso a lanciarci fra le loro braccia!».

Si curvarono tutti in avanti, lavorando di remi con sforzi sovrumani: persino Sam diede una mano. Ad ogni minuto si aspettavano di sentirsi trafiggere da frecce dalle nere piume. Molte passavano fischiando sul loro capo, o si tuffavano nei flutti intorno alle barche, ma nessuno più fu colpito. Era buio, ma non abbastanza buio per gli occhi notturni degli Orchi, ed al lume di stelle la Compagnia offriva evidentemente all’astuto nemico un qualche punto di riferimento; o forse erano piuttosto i grigi manti di Lórien, ed il grigio legname delle navi di costruzione elfica, che vincevano la malvagità degli arcieri di Mordor.

Arrancarono faticosamente, un remo dopo l’altro. Nell’oscurità era difficile rendersi conto se stessero avanzando; ma pian piano il turbinio delle acque diminuì, e l’ombra dell’argine orientale scomparve nella notte. Infine parve loro, da quel che potevano vedere, di essere nuovamente al centro del fiume, e di aver condotto le imbarcazioni ad una certa distanza a monte delle rupi. Allora, dopo aver compiuto un mezzo giro, si diressero con tutta la forza che ancora rimaneva loro verso la riva occidentale. All’ombra di cespugli ricurvi sulle acque si arrestarono e trassero un lungo respiro.

Legolas posò il suo remo e prese in mano l’arco regalatogli a Lórien; con un balzo fu sulla sponda e fece qualche passo su per il pendio. Tese la corda dell’arco e vi appoggiò la freccia, voltandosi a scrutare al di là nell’oscurità. Dall’altra parte delle acque giungevano grida stridule, ma non si vedeva nulla.

Frodo levò lo sguardo sull’Elfo che lo sovrastava, alto, con gli occhi fissi nel buio, alla ricerca di un bersaglio da colpire. Scura era la sua testa, e cinta da una corona di stelle bianche ed aguzze che luccicavano nei neri stagni del cielo dietro di lui. Ma ora da sud le grandi nubi incominciarono ad avanzare, proiettando le loro ombre scure nelle pianure stellate, navigando sempre più su nel cielo. La Compagnia fu colta da un improvviso terrore.

«Elbereth Gilthoniel!», esclamò sospirando Legolas e guardando verso l’alto. In quel momento una forma oscura, come una nube eppure non una nube, poiché navigava molto rapidamente, apparve dal nero del Sud, dirigendosi con velocità verso la Compagnia, oscurando ogni luce man mano che si avvicinava. Videro presto che si trattava di un essere dalle ampie ali, più nero degli abissi della notte. Voci selvagge e feroci si levarono dall’altra sponda in segno di saluto. Frodo sentì un brivido glaciale attraversargli la schiena, come il ricordo della vecchia ferita, alla spalla, e stringergli il cuore in una morsa. Si accoccolò come per nascondersi.

D’un tratto il maestoso arco di Legolas si tese e fischiò. Un suono stridulo accompagnò la partenza della freccia scoccata dalla corda elfica. Frodo levò lo sguardo al cielo. La forma alata volteggiava quasi sul suo capo; si udì un roco gracchiare, ed essa precipitò dal cielo, piombando nelle tenebre della riva orientale. Il cielo si fece nuovamente limpido. Si sentì un tumulto di voci lontane che imprecavano e si lamentavano nell’oscurità, poi più nulla. Da est quella notte non giunse più alcun grido, né alcuna freccia.

* * *

Dopo qualche tempo Aragorn risalì di nuovo con le barche il corso del fiume; percorso un breve tratto trovarono a tastoni una piccola baia dal fondale poco profondo. Vi cresceva sulla riva qualche piccolo albero, e dietro si ergeva una ripida parete rocciosa. Decisero di fermarsi lì ad aspettare l’alba: era inutile tentare di andar oltre nella notte. Non fecero accampamento, né accesero fuoco, e rimasero coricati, imbacuccati nelle coperte, nelle barche attraccate tutte insieme.

«Lodati siano l’arco di Galadriel, e la mano e la vista di Legolas!», disse Gimli, rosicchiando un biscotto di lembas. «Che meraviglioso tiro nel buio, amico mio!».

«Ma chissà quale fu il bersaglio!», disse Legolas.

«Io non lo so», disse Gimli. «Ma sono felice che l’ombra non si sia avvicinata ancor di più. Non mi piaceva per nulla. Troppo mi ricordava l’ombra di Moria…, l’ombra del Balrog», soggiunse bisbigliando.

«Non era un Balrog»,, disse Frodo, rabbrividendo ancora per la gelida corrente che era penetrata in lui. «Era qualcosa di più freddo. Credo si trattasse di…». S’interruppe e rimase silenzioso. «Cosa credi?», chiese Boromir ansioso, chinandosi fuori dalla sua barca, come per dare un’occhiata al volto di Frodo.

«Credo… No, non ho intenzione di dirlo», rispose Frodo. «Qualunque cosa fosse, il suo crollo ha sconvolto i nemici».

«Parrebbe così», disse Aragorn. «Eppure ignoriamo ove si trovano, ed il loro numero. Stanotte non vi sarà sonno per nessuno di noi! L’oscurità ci ricopre ormai. Ma chi può dire cosa mostrerà il giorno? Tenete le armi a portata di mano!».

* * *

Sam sedeva e pareva stesse contando qualcosa sulle dita poggiate sull’elsa della spada, mentre il suo sguardo era levato al cielo. «È molto strano», mormorò. «La Luna è la stessa che brilla nella Contea e nelle Terre Selvagge, o perlomeno dovrebbe essere così. In tal caso il suo corso è sregolato, oppure sono i miei calcoli ad essere completamente erronei. Vi ricordate, signor Frodo, che la Luna era calante quella notte che dormimmo sul flet fra i rami di quell’albero: era passata, suppongo, una settimana dal plenilunio. Ieri notte ha fatto una settimana dalla nostra partenza da Lórien, ed improvvisamente spunta una Luna Nuova sottile come un’unghia, come se non avessimo trascorso nemmeno un minuto nella terra degli Elfi.

«Ebbene, io rammento di certo almeno tre notti passate lì, e mi par di ricordarne vagamente molte altre, ma potrei giurare che non fu mai un mese intero. Sembrerebbe che il tempo non conti in quella terra!».

«E forse così è», disse Frodo. «In quella terra, chissà, eravamo in un tempo che altrove è ormai molto lontano. Credo che fu solo al momento in cui l’Argentaroggia ci riportò sull’Anduin, che ritornammo nel tempo che scorre attraverso le terre dei mortali sino al Grande Mare. E non rammento Luna, né nuova né antica, a Caras Galadhon: solo le stelle di notte e il Sole di giorno».

Legolas si mosse nella sua barca. «No, il tempo non indugia mai», disse; «ma crescite e trasformazioni non sono uguali ovunque. Per gli Elfi il mondo gira, e gira al tempo stesso molto rapido e molto lento. Rapido, perché essi cambiano poco, mentre tutto il resto fugge via: e ciò è per loro un grande dolore. Lento, perché essi non contano gli anni che passano. o perlomeno non li contano per sé. Le stagioni fuggenti non sono che onde sempre di ritorno nel lungo corso del tempo. Eppure sotto il Sole ogni cosa purtroppo è destinata a logorarsi e scomparire».

«Lenta è però Lórien a logorarsi», disse Frodo. «È custodita dal potere della Dama. Ricche e intense sono le ore a Caras Galadhon, quantunque sembrino brevi, perché ivi Galadriel ha nelle sue mani l’Anello Elfico».

«Sono parole che non dovevano essere pronunciate fuori da Lórien, neanche rivolte a me», disse Aragorn. «Non parlatene più! Vedi, Sam, in quella terra tu hai perso il conto delle ore. Ivi il tempo scorreva rapido per noi come per gli Elfi. La luna vecchia passò, e quella nuova crebbe e calò nel mondo esterno, mentre noi ci trattenevamo a Lórien. E ieri sera apparve un’altra luna nuova. L’inverno è quasi passato. Il tempo fugge verso una primavera avara di speranza».

* * *

La notte trascorse silente. Né voci né richiami giunsero dall’altra parte delle acque. I viaggiatori accoccolati nelle barche sentivano che il tempo stava per cambiare. L’aria si fece calda e molto tranquilla sotto le grandi nubi umide, giunte navigando dal Sud e dai mari lontani. Il fragore del Fiume contro le rocce delle rapide parve più forte e più vicino. I rami degli alberi sulle loro teste incominciarono a gocciolare.

Quando si fece giorno, il mondo intorno era avvolto in una dolce aureola di tristezza. Lenta, l’alba crebbe in cielo, irradiando una luce pallida e senza ombre. Una leggera foschia era sospesa sul Fiume, ed una nebbia bianca avvolgeva le sponde; la riva opposta era invisibile.

«Non sopporto la nebbia», disse Sam; «ma questa sembrerebbe propizia. Forse adesso potremo partire senza che quei dannati folletti ci vedano».

«Forse», disse Aragorn. «Ma sarà difficile trovare il sentiero, se la nebbia non si dirada un po’, più tardi. E noi dobbiamo assolutamente trovarlo, se vogliamo passare Sarn Gebir e raggiungere l’Emyn Muil».

«Non vedo per quale motivo dovremmo passare le Rapide, o seguire ancora il corso del Fiume», disse Boromir. «Se l’Emyn Muil si trova innanzi a noi, allora possiamo abbandonare questi gusci di noci e dirigerci a sud-ovest, giungendo in tal modo all’Entalluvio, oltre il quale si trova il mio paese».

«Possiamo farlo, se abbiamo l’intenzione di recarci a Minas Tirith», disse Aragorn, «ma ciò non è ancora stabilito. Ed inoltre questo itinerario potrebbe essere più pericoloso di quanto non sembri. La valle dell’Entalluvio è piatta ed acquitrinosa, e la nebbia è la nemica mortale di chi cammina a piedi e carico. Io non abbandonerei le barche finché non vi saremo costretti; il Fiume è almeno un sentiero che non si può smarrire».

«Ma il Nemico è padrone della riva orientale», obiettò Boromir. «Ammettiamo pure che riusciate a passare i Cancelli di Argonath, giungendo sani e salvi al Roccarebbio: cosa fareste dopo? Un balzo dalle Cascate nelle paludi?».

«No!», rispose Aragorn. «Di’ piuttosto che porteremmo a braccia le barche per l’antica strada sino ai piedi di Rauros, ove riprenderemmo la navigazione. Non conosci, Boromir, o preferisci dimenticare la Scala Nord, e l’alto trono ad Amon Hen, costruiti ai tempi dei grandi re? Io comunque ho intenzione di tornare in quel luogo elevato, e sino allora non prenderò alcuna decisione. Ivi, forse, vi sarà qualche segno che ci guidi».

Boromir lottò a lungo contro quella presa di posizione; ma quando si accorse palesemente che Frodo avrebbe seguito Aragorn ovunque, si diede per vinto. «Non è abitudine degli Uomini di Minas Tirith abbandonare gli amici nel bisogno», disse, «ed avrete bisogno della mia forza, se volete raggiungere il Roccarebbio. Sino all’alta rupe io vi accompagnerò, ma non oltre. Ivi dirigerò i miei passi verso casa, da solo, se il mio aiuto non merita la ricompensa di un po’ di compagnia».

* * *

Il giorno avanzava, e la nebbia si era leggermente diradata. Fu stabilito che Aragorn e Legolas andassero immediatamente in avanscoperta lungo la riva, mentre gli altri li avrebbero aspettati nelle imbarcazioni. Aragorn sperava di trovare qualche sentiero che permettesse loro di portare sia le barche che i bagagli nelle acque più calme ai piedi delle Rapide.

«I vascelli degli Elfi forse non affonderebbero», egli disse, «ma ciò non vuol dire che noi giungeremmo al di là di Sarn Gebir ancora vivi. Nessuno finora vi è mai riuscito. In questa regione gli Uomini di Gondor non tracciarono strade, perché anche nei giorni di splendore il loro regno non oltrepassava l’Emyn Muil a monte dell’Anduin; ma vi è, in un punto della sponda occidentale, una via che veniva adoperata per il trasporto delle merci, e spero di trovarla. Non è possibile che sia già del tutto distrutta, poiché le imbarcazioni leggere solevano navigare dalle Terre Selvagge sino ad Osgiliath anche pochi anni addietro, quando gli Orchi incominciarono a moltiplicarsi a Mordor».

«Di rado in vita mia ho veduto giungere delle barche dal Nord, e gli Orchi pullulano sulla riva orientale», disse Boromir. «Man mano che avanzerete il pericolo crescerà ad ogni miglio, anche avendo trovato un sentiero».

«Il pericolo giace in agguato su tutte le vie che portano a sud», rispose Aragorn. «Attendeteci un giorno. Se non saremo tornati, vorrà dire che il male ci ha infine colpiti. Allora dovrete scegliere un nuovo capo e seguirlo come potrete».

Frodo guardò col cuore pesante Aragorn e Legolas arrampicarsi sulla ripida sponda e scomparire nella nebbia; ma i suoi timori erano infondati. Trascorsero appena una o due ore e, giunto da poco il meriggio, egli vide di nuovo apparire le figure indistinte degli esploratori.

«Tutto a posto», disse Aragorn, scendendo l’argine scosceso. «C’è un sentiero che conduce a un ottimo approdo ancora utilizzabile. La distanza non è molta: le prime cateratte sono a non più di mezzo miglio da qui, e lunghe il doppio. Quasi immediatamente dopo, l’acqua è di nuovo chiara e piatta, pur essendo rapida. Il lavoro più duro sarà di portare le imbarcazioni da qui sino all’antica strada. L’abbiamo rintracciata, ma è lontana dalla riva, ed è fiancheggiata da una parete rocciosa a ridosso, che dista dal fiume almeno duecento passi. Non siamo invece riusciti a trovare l’approdo a nord; probabilmente, se esiste ancora, l’abbiamo passato la notte scorsa. Risalendo faticosamente la corrente rischieremmo di fare molta strada inutile e di non vederlo nella nebbia. Penso che la miglior cosa sia di lasciare il Fiume adesso, e cercare di raggiungere la pista alla meno peggio dal punto in cui ci troviamo».

«Non sarebbe facile anche se fossimo tutti Uomini», ribatté Boromir.

«Noncuranti di ciò che siamo, noi tenteremo l’impresa», disse Aragorn.

«La tenteremo», disse Gimli. «Le strade impervie fiaccano le gambe degli Uomini, mentre quelle dei Nani avanzano senza indugio, anche con un fardello due volte più pesante di loro, Messer Boromir!».

* * *

L’impresa fu assai ardua, ma portata a compimento. I bagagli vennero tolti dalle barche e posati in cima all’argine, su uno spazio piano. Quindi le imbarcazioni furono tirate fuori dall’acqua. Erano molto meno pesanti di quanto non pensassero. Persino Legolas ignorava da quale albero dei boschi elfici fossero state ricavate: il legno era robusto eppure stranamente leggero. In pianura, Merry e Pipino riuscivano a trasportare la loro barca senza alcuna difficoltà. Ciò nonostante ci volle la forza dei due Uomini per sollevarle ed issarle sul terreno che la Compagnia avrebbe percorso. Esso saliva in pendio dal Fiume, desolata zona di grigi macigni calcarei e sgretolati, piena di fossi nascosti e ricoperti di erbacce e cespugli; fitte macchie di rovi, e burroni a strapiombo, e qua e là stagni melmosi alimentati dalle acque che gocciolavano da terrazze e rupi più all’interno del paese.

Una dopo l’altra, tutte le imbarcazioni furono trasportate da Boromir ed Aragorn, mentre gli altri li seguivano arrancando faticosamente con i bagagli. Infine tutto fu pronto sul ciglio dell’antica strada. Da allora avanzarono tutti insieme senza ulteriori inconvenienti, eccetto l’intralcio dei rovi e delle numerose pietre franate. Veli di nebbia sovrastavano ancora la parete di roccia corrosa, e alla loro sinistra la foschia copriva il Fiume; lo udivano scrosciare e spumeggiare contro gli scogli taglienti e le rocce a forma di canini del Sarn Gebir, ma non riuscivano a vederlo. Furono necessari due viaggi per portare ogni cosa intatta all’approdo meridionale.

Ivi l’antica strada, ritornando sulla riva del Fiume scendeva dolcemente sino al bordo di un basso laghetto. Pareva che l’incavo non fosse artificiale, bensì scavato dalle acque che precipitavano vorticose da Sarn Gebir contro un basso spuntone di roccia che si ergeva in mezzo alla corrente. Al di là della pozza, la riva s’innalzava grigia a strapiombo, e non vi erano altri passaggi per i viandanti.

Il breve pomeriggio era già passato, ed un vago crepuscolo nuvoloso stava sopraggiungendo. Si sedettero sul bordo dell’acqua, ascoltando il confuso scorrere e ruggire dei flutti nelle Rapide nascoste dalla nebbia; erano stanchi e assonnati, e d’umore cupo come il giorno morente.

«Ebbene, eccoci qui, e qui dove siamo dovremo trascorrere un’altra notte», disse Boromir. «Abbiamo bisogno di dormire, e benché Aragorn avesse in mente di passare i Cancelli di Argonath questa notte stessa, noi non ce la faremo, perché siamo tutti sfiniti… tutti, eccetto naturalmente il nostro robusto Nano».

Gimli non rispose: la testa gli ciondolava dal sonno.

«Riposiamo ora il più a lungo possibile», rispose Aragorn. «Domani dovremo di nuovo viaggiare di giorno. A meno che il tempo non cambi e ci tradisca, abbiamo buone possibilità di sgusciare via senza che gli occhi vigili sulla sponda orientale ci scorgano. Ma questa notte dovremo montare la guardia due alla volta: tre ore di riposo e una di veglia».

Ma quella notte non accadde nulla di più grave di una leggera pioggerella un’ora prima dell’alba. Appena fu giorno si rimisero in viaggio. La nebbia incominciava già a diradarsi. Si mantenevano strettamente a ridosso della costa occidentale, mentre le indistinte forme delle basse rupi s’innalzavano sempre più verso il cielo, come mura d’ombra lambite dalle acque vorticose. Verso la metà della mattina le nubi si fecero basse e pesanti, e prese a cadere una pioggia torrenziale. Essi tesero sulle barche le coperte di pelle, per evitare che venissero allagate, e si lasciarono trasportare dalla corrente; innanzi a loro e tutt’intorno, le grigie tende nascondevano ogni cosa.

La pioggia non durò molto. Il cielo sulle loro teste parve alleggerirsi, improvvisamente le nubi si squarciarono, e i lembi scomparvero trascinati via, a nord su per il Fiume. Nebbie e foschie Svanirono. Innanzi ai viaggiatori il corso d’acqua scorreva in un ampio burrone dalle imponenti pareti rocciose, alle quali s’avvinghiavano, sulle sporgenze e nelle fessure, pochi alberi spogli. Il canale si fece più stretto e la corrente più rapida; avanzavano ora senza speranza di potersi fermare o girare, ove avessero incontrato qualche ostacolo. Sulle loro teste vi era un sentiero di cielo azzurro pallido, tutt’intorno scorreva l’oscuro Fiume, e innanzi si ergevano neri, ostruendo la luce del sole, i colli dell’Emyn Muil nei quali non si vedeva alcuna apertura.

Frodo intravide, scrutando il Fiume, due grandi scogli distanti che si avvicinavano: parevano immensi pinnacoli o pilastri. Alti, perpendicolari, minacciosi, montavano la guardia ai due lati del letto. Tra di essi vi era una stretta breccia, ove la corrente sospinse le barche.

«Mirate gli Argonath, le Colonne dei Re!», gridò Aragorn. «Fra poco vi passeremo in mezzo. Tenete in fila le imbarcazioni, e lontane le une dalle altre! Non abbandonate mai il centro del Fiume!».

Le grandi colonne parvero ergersi come torri incontro a Frodo, trascinato verso di esse dalla corrente. Egli ebbe l’impressione di vedere dei giganti, grandi, grigi e massicci, muti e minacciosi. Ma poi si accorse che le rocce erano effettivamente scolpite e modellate: l’arte e la forza antiche le avevano lavorate, ed esse conservavano ancora, attraverso le intemperie di lunghi anni obliati, le possenti sembianze che erano loro state date. Su grandi piedistalli immersi nelle acque due grandi re si ergevano: immobili, con gli occhi sgretolati e le sopracciglia piene di crepe, fissavano corrucciati il Nord. La loro mano sinistra era alzata, con il palmo rivolto verso l’esterno, in segno d’ammonimento; nella mano destra reggevano un’ascia; in testa portavano un elmo e una corona corrosi dal tempo. Erano rivestiti ancora di una grande potenza e maestà, silenziosi guardiani di un regno scomparso da epoche immemorabili. Ammirazione e timore s’impadronirono di Frodo, ed egli si prostrò, chiudendo gli occhi, e non osando levar lo sguardo quando le barche furono vicine. Persino Boromir chinò il capo mentre le barche correvano, trascinate dalla corrente, fragili e veloci come foglie volteggianti, nella perenne ombra delle sentinelle di Nùmenor. Entrarono così nell’oscura gola dei Cancelli.

Da ambedue i lati le rupi spaventose piombavano da altezze invisibili. Lungi il cielo era pallido. Le acque nere muggivano e scrosciavano, e il vento stridulo urlava sulle loro teste. Frodo, raggomitolato nella barca, udì innanzi a sé Sam mormorare e lamentarsi: «Che posto! Che orribile posto! Lasciate che esca da questa barca, e non toccherò mai più una pozzanghera con la punta del piede, figuriamoci poi un fiume!».

«Non temete!», disse alle sue spalle una voce sconosciuta. Frodo si voltò, e vide Grampasso; eppure non era Grampasso, perché il Ramingo logorato dal tempo era scomparso. Al timone sedeva Aragorn figlio di Arathorn, orgoglioso ed eretto, e con mano sicura conduceva la barca; il cappuccio gli ricadeva sulle spalle; il vento gli moveva i neri capelli e una luce brillava nei suoi occhi: un re tornava nel suo paese dopo un lungo esilio.

«Non temete!», disse. «Da tempo desideravo mirare le sembianze d’Isildur e d’Anàrion, antichi re della mia terra. Nella loro ombra Elessar, la Gemma Elfica, il figlio di Arathorn della Casa di Valandil, figlio d’Isildur, erede di Elendil, nulla ha da temere!».

La luce degli occhi si spense, ed egli mormorò sottovoce: «Se Gandalf fosse qui! Qual nostalgia ha il mio cuore di Minas Anor e delle mura della mia città! Ma ora dove mi porteranno i miei passi?».

La gola era lunga e buia, piena del rumore del vento, delle acque vorticose, delle rocce echeggianti. Essa curvava leggermente verso ovest, e da principio innanzi a loro vi era l’oscurità più completa; ma presto Frodo scorse, alta dinanzi ai suoi occhi, una lama di luce crescente. All’improvviso fu vicina, e le imbarcazioni la varcarono veloci, sbucando nell’ampio giorno limpido.

Il sole, che da tempo aveva passato lo zenith, splendeva in un cielo ventoso. Le acque imprigionate si estendevano in un lungo lago ovale, il pallido Nen Hithcel, circondato da grigie colline dai fianchi scoscesi e ricoperti di alberi; ma le vette erano spoglie, e il loro bagliore era freddo alla luce del sole. All’estremità sud si ergevano tre alti picchi. Quello di centro, leggermente più vicino, era separato dagli altri due, come un’isola abbracciata dalle pallide e scintillanti acque del Fiume. Distante ma cavernoso giungeva, portato dal vento, un rombo simile a un tuono udito in lontananza.

«Mirate Tol Brandir!», tuonò Aragorn, mostrando a sud l’alta vetta. «Alla sua sinistra è Amon Lhaw, e alla sua destra Amon Hen, i Colli dell’Udito e della Vista. Ai tempi dei grandi re, su di essi, erano stati posti alti seggi, custoditi notte e giorno da sentinelle. Ma si dice che mai piede umano o animale si sia posato su Tol Brandir. Prima che cadano le ombre della notte, noi li avremo raggiunti. Odo la voce di Rauros, ed il suo interminabile richiamo».

La Compagnia si riposò per qualche tempo, lasciandosi portare verso sud dalla corrente che attraversava il centro del lago. Poi, dopo aver mangiato qualcosa, ripresero i remi per affrettare la navigazione. I fianchi dei colli occidentali furono sommersi dalle ombre, e il sole divenne tondo e rosso. Qua e là apparve una stella caliginosa. I tre picchi, oscurati dal crepuscolo, giganteggiavano innanzi ai viaggiatori. Si udiva Rauros ruggire con voce potente. Già la notte era calata sui flutti, quando la Compagnia giunse finalmente all’ombra dei colli.

Il loro decimo giorno di viaggio volgeva alla fine. Le Terre Selvagge giacevano alle loro spalle. Ormai per proseguire dovevano scegliere tra oriente ed occidente. L’ultima parte della Missione li attendeva.

CAPITOLO X LA COMPAGNIA SI SCIOGLIE

Aragorn li condusse al braccio destro del Fiume. Sulla riva occidentale, un verde prato si stendeva, all’ombra di Tol Brandir, dai piedi di Amon Hen sino al bordo dell’acqua. Al di là, le prime pendici del colle erano coperte d’alberi, e altri alberi fiancheggiavano verso ovest le curve sponde del lago. Una piccola sorgiva zampillava e nutriva l’erba.

«Riposeremo qui questa notte», disse Aragorn. «Ecco il prato di Parth Galen: un bel posto nei giorni estivi dei tempi che furono. Speriamo che il male non vi sia ancora giunto».

Tirarono a secco le barche sulle verdi rive, e si accamparono nelle vicinanze. Decisero di montare la guardia, pur non essendoci il minimo rumore o segno di nemici. Se Gollum era riuscito a seguirli, si teneva nascosto e silenzioso. Eppure, coll’avanzare della notte Aragorn divenne irrequieto; si girava e rigirava nel sonno, svegliandosi. Infine nel mezzo della notte si alzò, avvicinandosi a Frodo che era di guardia.

«Perché ti svegli?», domandò Frodo. «Non è il tuo turno di guardia».

«Non lo so perché», rispose Aragorn; «ma un’ombra minacciosa cresceva nel mio sonno. È bene sfoderare la spada».

«Perché?», disse Frodo. «Vi sono forse dei nemici nelle vicinanze?».

«Vediamo che cosa risponde Pungolo», disse Aragorn.

Frodo sguainò la lama elfica. Con costernazione vide tutt’intorno ai bordi un barlume nella notte. «Orchi!», disse. «Non molto vicini, tuttavia non abbastanza lontani per essere innocui, a quanto pare».

«Lo temevo», disse Aragorn. «Ma forse non sono da questo lato del Fiume. La luce di Pungolo è fioca, e può anche darsi che mostri solo le spie di Mordor vaganti sulle falde di Amon Lhaw. Mai ho avuto sentore di Orchi su Amon Hen. Ma tutto ormai è possibile in questi giorni malvagi, ora che Minas Tirith non custodisce più il passaggio del Grande Fiume. Domani dovremo avanzare con cautela».

* * *

Il giorno giunse come fuoco e fumo. All’Est, basse pareti di nuvole nere sembravano sprigionarsi da qualche grande incendio. Il sole nascente le illuminava dal basso con fiamme di un rosso tenebroso; presto però, scavalcandole, s’innalzò nel cielo limpido. La sommità di Tol Brandir era incappucciata d’oro. Frodo volse lo sguardo a oriente, fissando l’alta isola. I suoi fianchi scoscesi emergevano perpendicolari alle acque. Sopra le rupi, alcuni alberi si arrampicavano, su dei ripidi pendii, ove le chiome degli uni sfioravano il ceppo degli altri; più in alto, grigie facciate di rupi impervie erano coronate da una grande vetta acuminata. Molti uccelli vi roteavano intorno, ma non vi si scorgeva altra traccia di esseri viventi.

Quando ebbero fatto colazione, Aragorn convocò la Compagnia. «È infine giunta l’ora», disse, «l’ora della scelta che abbiamo continuamente rinviata. Che ne sarà adesso della nostra Compagnia che ha viaggiato sinora in buon accordo? Volteremo tutti ad ovest insieme con Boromir, incontro alle guerre di Gondor? Oppure volteremo ad est, verso la Paura e l’Ombra? Oppure la Compagnia si scinderà, e ognuno farà quel che preferisce, gli uni scegliendo una via, e gli altri la via opposta? Qualunque sia la decisione, dev’essere presa in fretta; non possiamo sostare a lungo qui. Il nemico è sulla sponda orientale, come tutti sappiamo, ma temo che vi siano Orchi anche da questo lato del fiume».

Seguì un lungo silenzio durante il quale nessuno si mosse né aprì bocca.

«Ebbene, Frodo», disse infine Aragorn. «Purtroppo il fardello pesa sulle tue spalle. Sei tu il Portatore designato dal Consiglio. Tu solo puoi scegliere la tua strada. Io non ti posso dare suggerimenti. Non sono Gandalf, e benché abbia tentato di fare le sue veci, ignoro quali fossero i suoi progetti o le sue speranze a questo proposito, seppure ne aveva. Credo del resto che anche se fosse qui adesso, la scelta toccherebbe sempre a te. È il tuo destino».

Frodo non rispose immediatamente. Poi le parole uscirono lente dalle sue labbra. «So che il tempo stringe, eppure non posso decidere. È un peso assai gravoso. Dammi un’ora di tempo e ti dirò la mia scelta. Ho bisogno di essere solo».

Aragorn lo guardò con affettuosa compassione. «Molto bene, Frodo figlio di Drogo», disse. «Avrai un’ora di tempo, e sarai lasciato solo. Noi restiamo qui ad attenderti. Ma rimani sempre a portata di voce».

Frodo rimase un momento seduto con il capo chino. Sam, che da tempo osservava con inquietudine il padrone, scosse la testa mormorando: «La scelta è chiara come il giorno, ma è inutile che Sam Gamgee dica la sua, per adesso».

Infine Frodo si alzò e si allontanò; Sam vide che, mentre tutti gli altri seppero trattenersi dal guardarlo, gli occhi di Boromir seguirono attentamente Frodo, che scomparve alla vista tra gli alberi ai piedi di Amon Hen.

* * *

Girovagando senza meta nel bosco, Frodo si accorse ad un tratto che i piedi lo conducevano verso le pendici del colle. Incontrò un sentiero, le rovine cadenti di un’antica via. Nei punti più impervi erano state intagliate scale nella roccia, ma ormai erano logore e crepate, e spaccate dalle radici degli alberi. Continuò a salire, noncurante della via che percorreva, e giunse così in una radura erbosa. Tutt’intorno crescevano alberi, e al centro spiccava una grande pietra piatta. Il piccolo prato di montagna era aperto dal lato orientale, e inondato dalla luce del primo mattino. Frodo si fermò, guardando oltre il Fiume, che scorreva lontano ai suoi piedi, posando lo sguardo su Tol Brandir e sugli uccelli roteanti nel grande golfo d’aria che lo separava dall’isola inviolata. La voce di Rauros giungeva alle sue orecchie come un possente ruggito frammisto ad un cupo rimbombo.

Frodo si sedette sulla pietra piatta, e posò il mento sulle mani, guardando fisso ad oriente, ma vedendo ben poco con gli occhi. Tutto ciò che era accaduto dopo la partenza di Bilbo dalla Contea gli tornava ora alla mente, ed egli ricordava e soppesava ogni parola di Gandalf che riuscisse a rammentare. Il tempo passava e nulla ancora aveva deciso.

Improvvisamente qualcosa lo destò dai suoi pensieri; la strana sensazione di una presenza dietro di sé, come se due occhi ostili lo stessero fissando. Balzò in piedi, voltandosi, ma con grande sorpresa vide solo Boromir, il cui volto sorrideva affettuosamente.

«Ero in apprensione per te, Frodo», disse avvicinandosi. «Se, come dice Aragorn, gli Orchi sono nelle vicinanze, nessuno di noi dovrebbe girovagare da solo, e tu meno di tutti: pensa a tutte le cose che dipendono da te! Anche il mio cuore è pesante. Permetti che rimanga qui a parlare qualche minuto, ora che ti ho trovato? Sarebbe per me un gran conforto. Quando si è in molti, ogni dialogo diventa un’interminabile discussione. Ma in due si raggiunge a volte la saggezza».

«Sei gentile», disse Frodo. «Ma non vi è dialogo che possa aiutarmi. So quel che dovrei fare, ma ho paura, Boromir, paura».

Boromir rimase un attimo silenzioso. Rauros ruggiva ininterrottamente. Il vento mormorava fra i rami degli alberi. Frodo rabbrividì.

Improvvisamente Boromir andò a sedersi accanto a lui. «Sei certo di non soffrire inutilmente?», disse. «Desidero aiutarti. Hai bisogno di consigli nella tua ardua scelta. Non gradisci il mio?».

«Credo di conoscere già il consiglio che mi daresti, Boromir», disse Frodo. «Sembrerebbe saggio, se il cuore non mi mettesse in guardia».

«In guardia? In guardia contro che cosa?», domandò brusco Boromir.

«Contro i ritardi. Contro la via che pare più agevole. Contro lo scrollarmi di dosso il peso che grava sulle mie spalle. Contro… ebbene, poiché vuoi che te lo dica, contro la fiducia nella forza e nella sincerità degli Uomini».

«Eppure quella forza ti ha a lungo protetto nel tuo piccolo paese lontano, quantunque ne fossi ignaro».

«Non metto in dubbio il valore della tua gente. Ma il mondo sta cambiando. Le mura di Minas Tirith sono forse robuste, ma non abbastanza. Se dovessero cedere, cos’accadrebbe?».

«Troveremmo sul campo una morte intrepida. Ma vi è ancora speranza che le mura non cedano».

«La speranza non esiste, finché esiste l’Anello», disse Frodo.

«Ah! L’Anello!», ripeté Boromir, e lo sguardo gli si illuminò. «Non è forse uno strano destino, dover soffrire tanta paura e tante incertezze per un oggetto così minuto? Un oggetto così minuto! E io l’ho appena intravisto un attimo nella Casa di Elrond. Permetti che gli dia un altro sguardo?».

Frodo levò gli occhi su Boromir. Il suo cuore divenne improvvisamente gelido. Scorse una strana luce negli occhi del compagno di viaggio, il cui volto era però gentile e amichevole. «È meglio che rimanga nascosto», rispose.

«Come preferisci. Io non ci tengo», disse Boromir. «Permetti che almeno te ne parli? Sembra infatti che tu pensi soltanto al potere che l’Anello conferirebbe al Nemico, se egli se ne impadronisse: soltanto cioè al cattivo impiego di esso, e non ai suoi lati positivi. Il mondo sta cambiando dici. Minas Tirith cadrà, se l’Anello non verrà annientato. Ma perché? Indubbiamente è ciò che accadrebbe, se fosse in mano al Nemico. Ma perché dovrebbe accadere se l’Anello fosse nelle nostre mani?».

«Non hai udito ciò che fu detto al Consiglio?», disse Frodo. «Perché noi non possiamo adoperarlo, e tutto ciò che viene fatto con esso diventa malvagio».

Boromir si alzò, camminando avanti e indietro con impazienza. «E così tu vai avanti», gridò. «Gandalf, Elrond… tutta questa gente ti ha insegnato a pensare in quel modo. Forse ciò che dicono è valido per loro; forse questi Elfi e Mezzielfi e Stregoni combinerebbero qualche guaio. Eppure a volte mi chiedo se siano effettivamente saggi e non semplicemente timidi. Comunque, a ognuno la propria razza. Gli Uomini dal cuore sincero non si lascerebbero mai corrompere. Noi di Minas Tirith siamo rimasti fedeli attraverso anni e anni di sofferenze. Non bramiamo il potere dei Re di Angmar, ma solo la forza necessaria per difenderci, per difendere una giusta causa. E meraviglia! nell’ora del bisogno il fato mette alla luce l’Anello del Potere. È un dono, ne sono convinto: un dono ai nemici di Mordor. È pura follia non adoperarlo, non adoperare il potere del Nemico per lottare contro di lui. I temerari, gli spietati, sono costoro gli unici che potranno vincere. Che cosa non farebbe un guerriero in un’ora come questa, un grande capo? Che cosa non sarebbe capace di fare Aragorn? Oppure, se egli rifiuta, perché non Boromir? L’Anello mi conferirebbe il potere del Comando. Come caccerei via i nemici da Mordor! Ed allora tutti gli uomini si raggrupperebbero intorno alla mia bandiera».

Boromir camminava in lungo ed in largo, parlando sempre più concitato. Pareva quasi aver dimenticato Frodo, nell’esaltare muraglie ed armi e il radunarsi degli uomini; faceva progetti per grandi alleanze e gloriose vittorie future; e dopo aver distrutto Mordor, diveniva egli stesso un potente re, saggio e benevolo. D’un tratto si arrestò agitando le braccia.

«E ci ordinano di gettare via l’Anello!», gridò. «Non dico distruggerlo, che sarebbe probabilmente un bene, se la ragione ci consentisse di sperarvi. Ma lungi da ciò, l’unico piano che ci viene proposto, è di mandare un Mezzuomo inerme dritto a Mordor, offrendo al Nemico la migliore opportunità d’impadronirsi da sé dell’Anello. Follia!

«Certo te ne rendi conto, amico mio?», disse, voltandosi di scatto nuovamente verso Frodo. «Dici di avere paura. Se così è, anche il più ardito ti comprenderebbe. Ma non credi che sia il tuo buonsenso che si ribella?».

«No, ho paura», disse Frodo. «Semplicemente paura. Ma sono felice che tu mi abbia parlato apertamente. Ogni cosa è più chiara adesso nella mia mente».

«Allora verrai a Minas Tirith?», gridò Boromir. I suoi occhi brillavano nel viso impaziente.

«Mi fraintendi», disse Frodo.

«Ma almeno per un breve periodo verrai?», insistette Boromir. «La mia città è ormai vicina; e dista da Mordor poco più di Tol Brandir. Abbiamo trascorso molto tempo in zone selvagge, e prima di poter fare qualunque mossa, è indispensabile che tu sia al corrente delle posizioni del Nemico. Vieni con me, Frodo», disse. «Hai bisogno di riposare, prima dell’impresa, se essa è davvero inevitabile». Posò una mano sulle spalle dell’Hobbit con un gesto affettuoso; ma Frodo sentì che la mano tremava d’eccitazione repressa. Fece un rapido passo indietro, guardando allarmato l’Uomo, alto quasi il doppio di lui, ed infinitamente più forte.

«Perché sei così ostile?», disse Boromir. «Io sono un animo sincero, e non un ladro, né un predone. Ho bisogno del tuo Anello: ormai lo sai; ma ti do la mia parola che non desidero tenerlo per sempre. Perché non lasci che metta almeno alla prova il mio piano? Prestami l’Anello!».

«No! No!», gridò Frodo. «Il Consiglio ha dato a me l’incarico di portarlo».

«È per colpa della tua follia che il Nemico ci sconfiggerà», urlò Boromir. «Che rabbia mi fai! Idiota! Idiota e testardo! Corri caparbiamente a buttarti nelle braccia della morte, e rovini la nostra causa. Se dei mortali hanno diritti da rivendicare sull’Anello, sono gli Uomini di Nùmenor, e non i Mezzuomini. È tuo solo per un malaugurato caso. Avrebbe potuto essere mio. Doveva essere mio. Dammelo!».

Frodo non rispose, ma si allontanò tanto da mettere fra sé e Boromir la grande pietra piatta. «Suvvia, suvvia, amico!», disse con tono più dolce l’Uomo di Minas Tirith. «Perché non sbarazzartene? Perché non liberarti dal dubbio e dalla paura? Puoi far ricadere la colpa sulle mie spalle, se vuoi; dire, per esempio, che essendo molto più forte me ne sono impadronito con la violenza. Sappi che sono molto più forte di te, Mezzuomo», urlò; e d’un tratto si lanciò su Frodo, balzando al di là della pietra. Il suo bel viso amichevole era deformato dalla rabbia; un fuoco infuriava nei suoi occhi.

Frodo si spostò, mettendo di nuovo il sasso fra loro. Vi era una sola cosa ch’egli potesse fare: tremando, tirò fuori l’Anello appeso alla catenella e se l’infilò velocemente al dito, proprio al momento in cui Boromir si lanciava nuovamente su di lui. L’Uomo rimase come boccheggiante, con lo sguardo per un momento fisso, e poi si mise a correre come un folle, cercando ovunque fra gli alberi e le rocce.

«Sciagurato imbroglione!», urlò. «Lascia che ti metta le mani addosso! Ora capisco le tue intenzioni. Vuoi portare l’Anello a Sauron, e vendere tutti noi. Aspettavi solo il momento giusto per piantarci in asso. Che tu e tutti i Mezzuomini siate dannati alla morte ed all’oscurità!». Inciampò in un sasso, e cadde bocconi disteso per terra. Per qualche tempo rimase immobile, come fulminato dalla propria maledizione; poi scoppiò improvvisamente in lacrime.

Alzandosi si passò una mano sugli occhi, asciugandosi le lacrime. «Che ho detto?», gridò. «Cosa ho fatto? Frodo, Frodo!», chiamò ripetutamente. «Torna! Sono stato colto da una crisi di follia, ma ora è passata. Torna!».

* * *

Non si udì alcuna risposta. Le sue grida non erano nemmeno giunte alle orecchie di Frodo, che era già lontano, e correva ciecamente su per il sentiero, portando con sé il ricordo del viso folle e selvaggio di Boromir, e dei suoi occhi infocati.

Presto si trovò in piedi, solo, sulla vetta di Amon Hen, e rimase un attimo fermo, respirando affannosamente. Vide come in una nebbia un’ampia piattaforma circolare selciata con grosse pietre, e circondata da un parapetto merlato; al centro, su quattro colonne scolpite, si ergeva un alto seggio a cui si accedeva tramite una scala dai molti gradini. Frodo salì sedette sull’antica sedia, e si sentì come un bimbo smarrito arrampicatosi sul trono dei re delle montagne.

Da principio riuscì a distinguere ben poco. Gli pareva di essere in un mondo di nebbia, popolato da ombre; aveva al dito l’Anello. Poi in alcuni posti la foschia si diradò, e vide molte immagini: erano piccole e nette, come se le scene si fossero svolte su un tavolo sotto i suoi occhi, eppure sembravano remote. Non percepiva suoni, ma solo luminose immagini animate. Il mondo pareva rimpicciolito e muto. Egli sedeva sul Seggio della Vista, ad Amon Hen, il Colle dell’Occhio degli Uomini di Nùmenor. A est lo sguardo spaziava su vaste terre inviolate, su pianure senza nome e foreste inesplorate. Guardò a nord, e vide il Grande Fiume serpeggiare ai suoi piedi come un nastro, e le Montagne Nebbiose piccole e dure parevano denti rotti. Guardò a ovest, e vide gli immensi pascoli di Rohan; ed anche Orthanc, il pinnacolo d’Isengard, simile ad una spina nera. Guardò a sud, e sotto di lui il Grande Fiume si gonfiava come un’onda che sta per infrangersi, e piombava giù dalle cascate di Rauros in un pozzo spumeggiante; un arcobaleno scintillava sulle acque vaporizzate. Vide anche Ethir Anduin, l’imponente delta del Grande Fiume, e miriadi di gabbiani volteggiare al sole come candidi granelli di polvere, e sotto di essi un mare verde e argento, increspato all’infinito.

Ma ovunque guardasse, vedeva i segni della guerra. Le Montagne Nebbiose parevano formicai; gli Orchi pullulavano da migliaia di buchi. Sotto le fronde del Bosco Atro infieriva il conflitto tra Elfi e Uomini e bestie feroci. La terra dei Beorniani era in fiamme; una nube sovrastava Moria; nubi di fumo s’innalzavano ai confini di Lórien.

Uomini a cavallo galoppavano sull’erba di Rohan; lupi uscivano a frotte da Isengard. Dai porti dello Harad salpavano navi da guerra; da est, infine, gli Uomini si spostavano incessantemente: spadaccini, lancieri, arcieri montati, i cocchi dei capi militari, i carri carichi di merci. L’Oscuro Signore spiegava tutte le sue schiere. Il suo sguardo si rivolse di nuovo a sud, ed egli contemplò Minas Tirith. Pareva molto remota, e splendida: con le bianche mura, le innumerevoli torri, troneggiava in cima alla montagna, bella e superba; le cinte scintillavano d’acciaio, sui torrioni splendevano mille bandiere. Il cuore di Frodo vibrò di speranza. Ma di fronte a Minas Tirith si ergeva un’altra fortezza, più imponente e più forte. Lo sguardo dell’Hobbit fu irresistibilmente attratto verso oriente. Passò oltre i ponti in rovina di Osgiliath, oltre i cancelli spalancati di Minas Morgul, oltre le Montagne spettrali; spaziò su Gorgoroth, la valle del terrore nel Paese di Mordor, ove sotto i raggi del Sole tutto era immerso nell’oscurità. Un fuoco ardeva fra nebbie e fumo. Dal Monte Fato incandescente esalavano vapori. Infine il suo sguardo si arrestò: muraglie e muraglie, cinte e bastioni, nera, incommensurabilmente forte, montagna di ferro, cancello d’acciaio, torre d’adamante, egli la vide: Barad-dûr, la Fortezza di Sauron. Ogni speranza morì in lui.

E improvvisamente percepì l’Occhio. Vi era nella Torre Oscura un occhio che non dormiva, che si era accorto dello sguardo di Frodo; e questi lo sentiva covare un cupido e selvaggio desiderio, e lanciarsi all’inseguimento, come un dito che frugava ovunque. Tosto l’avrebbe inchiodato, lì, nel punto preciso ove egli si trovava. Lo sguardo di Mordor sfiorò Amon Lhaw, toccò Tol Brandir… Frodo si buttò giù dal seggio, raggomitolandosi, coprendosi il capo col cappuccio grigio.

Udì la propria voce gridare: Mai, mai! O era invece: Vengo, vengo davvero! Non riuscì a distinguere. Poi, come un lampo proveniente da qualche altra potenza in gioco, alla sua mente balenò una frase: Toglilo! Toglilo! Idiota, toglilo! Togliti l’Anello!

I due poteri lottarono in lui. Per un attimo, in bilico tra le loro punte acuminate, egli si contorse torturato. Improvvisamente fu di nuovo conscio di sé. Era Frodo, non più la Voce, né l’Occhio: libero di scegliere, nell’ultimo istante di cui disponesse. Si sfilò dal dito l’Anello. Era inginocchiato nella limpida luce del sole ai piedi del seggio. Un’ombra nera parve passare come un braccio sopra di lui; non sfiorò neanche Amon Hen, e brancolò verso occidente, scomparendo. Il cielo fu allora ovunque chiaro ed azzurro, e gli uccelli cantarono su ogni albero.

Frodo si alzò in piedi. Si sentiva sfinito, ma la sua volontà era tenace ed il suo cuore più leggero. Parlò ad alta voce con se stesso. «Ora farò il mio dovere», disse. «Una cosa perlomeno è palese: la malvagità dell’Anello sta incominciando ad intaccare persino l’integrità della Compagnia; è indispensabile che l’Anello si allontani da loro, prima che la situazione peggiori. Partirò da solo. Di alcuni non mi posso fidare, e agli altri voglio troppo bene: il povero vecchio Sam, Merry e Pipino. Anche Grampasso: il suo cuore ha nostalgia di Minas Tirith, ove avranno bisogno di lui, ora che Boromir è stato corrotto dal male. Partirò da solo, immediatamente».

* * *

Discese velocemente il sentiero e giunse alla radura ove Boromir l’aveva trovato. Si fermò un attimo ad ascoltare. Gli parve di udire grida e richiami nei boschi lungo la riva ai suoi piedi.

«Mi staranno cercando», disse. «Chissà quanto tempo sono stato lontano. Ore intere, probabilmente». Era incerto. «Che fare?», mormorò. «Devo partire subito o non me ne andrò mai più; un’occasione simile non si ripresenterà. Mi costa terribilmente lasciarli in questo modo, senza alcuna spiegazione. Ma sono certo che capiranno. Almeno Sam. E che altro potrei fare?».

Tirò fuori lentamente l’Anello, e se lo infilò di nuovo al dito. Svanì, e corse giù per il colle come un fruscio del vento.

* * *

Gli altri rimasero a lungo sulla riva del fiume. Da principio silenziosi, agitandosi irrequieti, ma poi si sedettero in cerchio a parlare. Di tanto in tanto si sforzavano di cambiare argomento, e di chiacchierare del lungo viaggio e delle numerose avventure; interrogando Aragorn sul reame di Gondor, e sulla sua storia passata, chiedendogli informazioni sui resti delle grandi opere ancora visibili in quella strana terra di confine chiamata Emyn Muil: i re di pietra, i seggi di Lhaw e di Hen, la grande Scalinata accanto alle cascate di Rauros. Ma immancabilmente i loro pensieri e le loro parole tornavano a Frodo ed all’Anello. Quale sarebbe stata la scelta di Frodo? Perché esitava tanto?

«Credo si stia domandando quale delle due vie è più disperata», disse Aragorn. «Domanda più che giustificata. A est pare non vi sia scampo, ora che Gollum ci ha pedinati, svelando probabilmente il segreto del nostro viaggio. Ma recarsi a Minas Tirith non significa avvicinarsi al Fuoco, ed alla distruzione del Fardello.

«Potremmo trascorrere lì un breve periodo, resistendo coraggiosamente; ma Sire Denethor e tutti i suoi uomini non possono sperare di riuscire là ove persino il potere di Elrond fallirebbe: sia tenere nascosto l’Anello, sia sconfiggere l’intera potenza del Nemico, diretta ad impadronirsene. Che cosa sceglierebbe ciascuno di noi, al posto di Frodo? Io non lo so. È in quest’ora che sentiamo maggiormente l’assenza di Gandalf».

«Grave è stata la perdita», disse Legolas. «Tuttavia dobbiamo assolutamente prendere una” decisione senza il suo aiuto. Che ne direste se scegliessimo noi? Potrebbe essere utile a Frodo. Chiamiamolo, e poi procediamo alle votazioni! Io opterei per Minas Tirith».

«Anch’io», disse Gimli. «Noi, naturalmente, siamo stati soltanto inviati per aiutare il Portatore lungo la strada, liberi di fermarci quando lo desideriamo; né ordini né giuramenti ci costringono a recarci sino al Monte Fato. Dolorosa fu la mia partenza da Lothlórien. Tuttavia sono giunto a questo punto, e vi dico: all’ora dell’ultima scelta, vedo chiaramente che non posso abbandonare Frodo. Per conto mio sceglierei Minas Tirith, ma se egli stabilisce diversamente, io lo seguirò».

«Anch’io andrò con lui», disse Legolas. «Sarebbe sleale dirgli addio adesso».

«Sarebbe davvero un tradimento, se l’abbandonassimo tutti», disse Aragorn. «Ma qualora decidesse di andare a est, non è necessario che tutti l’accompagnino: credo anzi che non sarebbe molto opportuno. Quella è un’impresa disperata, tanto per uno solo come per otto, tre o due. Se metteste la scelta nelle mie mani, designerei tre compagni: Sam, che altrimenti non vivrebbe più, Gimli, ed io. Boromir ritornerà nella sua città, ove suo padre e la sua gente hanno bisogno di lui; gli altri lo accompagnerebbero, o almeno Meriadoc e Peregrino, se Legolas non desidera lasciarci».

«È una cosa che non può andare!», gridò Merry. «Non lasceremo mai Frodo! Pipino ed io abbiamo sin da principio seguito Frodo, e non intendiamo rinunciarvi adesso. Prima però non ci rendevamo conto del pericolo; tutto pareva diverso, lontano, nella Contea o a Gran Burrone. Sarebbe follia e crudeltà permettere che Frodo vada a Mordor. Perché non glielo impediamo?».

«Dobbiamo impedirglielo!», esclamò Pipino. «E sono certo che è ciò che lo preoccupa maggiormente: sa che non gli permetteremo di andarsene a est, e non vuole chiedere a nessuno di accompagnarlo, povero amico. Immaginate: partirsene solo per Mordor!». Pipino rabbrividì. «Ma quel vecchio scemo d’un Hobbit dovrebbe sapere ormai che non ha bisogno di domandare. Dovrebbe sapere che se non riusciamo a dissuaderlo, non lo lasceremo andar solo».

«Vi chiedo scusa», disse Sam. «Credo che non avete per nulla capito il mio padrone. Non sta esitando sulla via da scegliere, beninteso! A che pro, Minas Tirith, in ogni caso? È inutile, almeno per lui, vi chiedo scusa, Messer Boromir», soggiunse voltandosi. Fu in quel momento che si accorsero che Boromir, il quale da principio sedeva silenzioso fuori dal cerchio, era scomparso.

«Dove è andato a cacciarsi?», esclamò Sam inquieto. «A mio avviso si sta comportando in modo un po’ strano, in questi ultimi tempi. Comunque, questa faccenda non lo riguarda. Lui se ne torna a casa, come ha sempre detto, nessuno gliene fa un rimprovero. Ma il signor Frodo sa di dover trovare la Voragine del Fato, se vi riesce. E ha paura. Adesso che è giunta l’ora, è terrorizzato. Tutto qui il suo problema. Naturalmente gli sono giovate le lezioni, chiamiamole così, apprese durante il viaggio…, come sono giovate a tutti noi: altrimenti tale sarebbe il suo terrore, che lancerebbe l’Anello nel Fiume, dandosela a gambe. Malgrado ciò, non ha ancora il coraggio di partire. E non è preoccupato di sapere se l’accompagniamo o no. Sa benissimo che non intendiamo lasciarlo. E questo è un altro punto che l’inquieta: se racimola il coraggio necessario per partire, vorrà andarsene da solo. Ascoltate bene quel che vi dico! Ci saranno lotte terribili quando il signor Frodo tornerà. Potete star certi che il coraggio da racimolare lo trova prima o poi, o il suo nome non è più Baggins».

«Credo che le tue parole siano più sagge delle nostre, Sam», disse Aragorn. «E che faremo, se le cose andranno come dici tu?». «Impedirgli di partire! Non lasciarlo andar via!», gridò Pipino. «Chissà?», disse Aragorn. «Egli è il Portatore, e il destino del Fardello pesa sulle sue spalle. Non credo tocchi a noi influenzarlo in un modo o nell’altro. E comunque non credo che vi riusciremmo, se tentassimo. Vi sono altre potenze che agiscono, molto più forti di noi».

«Ebbene, vorrei tanto che Frodo “racimolasse il coraggio” e ritornasse, per farla finita con questa faccenda», disse Pipino. «È orribile aspettare in questo modo! Il tempo ormai dovrebbe essere scaduto!».

«Sì», disse Aragorn. «L’ora è passata da tempo. Il mattino è sul finire. Dobbiamo chiamarlo».

* * *

In quel momento riapparve Boromir. Uscì dagli alberi e si diresse verso di loro senza parlare. Il suo volto era cupo e triste. Si fermò come per contare i presenti, e poi si sedette in disparte con lo sguardo fisso in terra.

«Dove sei stato, Boromir?», domandò Aragorn. «Hai veduto Frodo?».

Boromir esitò un attimo. «Sì e no», rispose lentamente. «Sì: lo incontrai sulle pendici del colle e gli rivolsi la parola. Lo esortai a venire a Minas Tirith, e a non recarsi ad oriente. Mi arrabbiai, ed egli se ne andò. Scomparve, svanì. Non mi era mai capitata una cosa simile, benché le favole ne parlino. Deve aver infilato l’Anello. Non sono riuscito a trovarlo, e pensavo fosse tornato qui da voi». «È tutto quel che hai da dire?», domandò Aragorn, fissando Boromir con poca benevolenza.

«Sì», rispose questi. «Non dirò altro per il momento».

«Queste sono pessime notizie!», gridò Sam saltando in piedi. «Vorrei proprio sapere cos’ha combinato quest’Uomo! Per quale motivo il signor Frodo si sarebbe infilato l’Anello? Non doveva assolutamente farlo; ma se così è, soltanto il cielo sa quel che può essergli accaduto!».

«Comunque se lo sarebbe tolto», disse Merry, «non appena lontano dall’indesiderato visitatore, come soleva fare Bilbo».

«Ma dov’è andato? Dov’è?», gridò Pipino. «È passato troppo tempo da quando ci ha lasciati».

«Quando hai veduto Frodo l’ultima volta, Boromir?», domandò Aragorn.

«Mezz’ora, forse, o forse anche un’ora fa», rispose Boromir. «Ho vagabondato, poi. Non lo so! Non lo so!». Si prese la testa fra le mani, e rimase seduto, come curvo sotto il peso di un grande dolore. «Un’ora da quando è scomparso!», gridò Sam. «Dobbiamo trovarlo subito. Venite!».

«Aspettate un momento!», vociò Aragorn. «Dobbiamo dividerci a due a due, ed organizzare… ehi, venite qui! Aspettate!».

Tutto fu vano; nessuno gli diede retta. Sam era partito per primo correndo a rompicollo; Merry e Pipino l’avevano seguito immediatamente, e stavano già scomparendo fra gli alberi lungo la riva, urlando: Frodo! Frodo! con le loro chiare ed acute voci hobbit. Legolas e Gimli correvano a più non posso. All’improvviso, il panico o la follia parevano essersi impadroniti della Compagnia.

«Ci confonderemo e ci perderemo», gemette Aragorn. «Boromir! Non so quale sia stata la tua parte in questo guaio, ma adesso aiutaci! Rincorri quei due giovani Hobbit, e custodiscili almeno, anche se non riesci a trovare Frodo. Ritorna qui, se lo rintracci, o se scorgi qualche orma. Io tornerò fra poco».

* * *

Con un rapido balzo in avanti Aragorn si lanciò all’inseguimento di Sam. Lo raggiunse ai margini della piccola radura fra gli alberi, e lo vide arrancare penosamente, ed ansimare gridando: Frodo!

«Vieni con me, Sam!», disse. «Nessuno di noi dovrebbe rimanere solo. C’è sotto qualcosa di losco. Lo sento. Io vado in cima, al Seggio di Amon Hen, a vedere quel che vi è da vedere. Guarda! Il mio cuore aveva ragione, Frodo è passato di qui. Seguimi, e tieni gli occhi ben aperti!». Volò su per il sentiero.

Sam, malgrado tutti i suoi sforzi, non riuscì a tenere l’andatura di Grampasso il Ramingo, e rimase indietro. Poco dopo, Aragorn era già scomparso alla vista. Sam si fermò sbuffando. D’un tratto si diede in fronte un colpo con la mano.

«Ehi, Sam Gamgee», disse ad alta voce. «Visto che le tue gambe sono troppo corte, adopera il cervello! Vediamo! Boromir non sta mentendo, non è nelle sue abitudini; ma non ci ha detto tutto. Qualcosa ha spaventato il signor Frodo alquanto seriamente. Egli allora ha racimolato tutto il suo coraggio, e si è deciso a partire, finalmente. Ma per andare dove? All’Est. Come? Senza Sam? Sì, persino senza il suo Sam. È stato cattivo, cattivo e crudele».

Sam si passò una mano sugli occhi, scacciando le lacrime. «Coraggio, Gamgee!», disse. «Rifletti, se ne sei capace! Il signor Frodo non può sorvolare i fiumi, né saltare le cascate. Non ha il suo equipaggiamento. Quindi deve tornare alle barche. Alle barche! Coraggio, Sam, alle barche come un fulmine!».

Si voltò, scendendo a spron battuto il sentiero. Cadde e si ferì le ginocchia. Si rialzò, continuando a correre. Giunse all’orlo del prato di Parth Galen lungo la riva, ove le barche erano state tirate a secco. Non c’era nessuno. Gli parve di udire delle grida nei boschi dietro di sé, ma non vi fece caso. Rimase un attimo immobile, come paralizzato, guardando a bocca aperta una barca scivolare da sola giù dalla sponda. Lanciando un urlo Sam si precipitò dall’altro lato del prato. La barca s’immerse nelle acque.

«Arrivo, signor Frodo! Arrivo!», urlò Sam, tuffandosi dall’argine e cercando di afferrare la sponda dell’imbarcazione che si allontanava: la mancò per un braccio. Con un grido ed un tonfo cadde a testa in giù nei rapidi flutti profondi. Affondò gorgogliando, ed il Fiume si richiuse sulla sua testa ricciuta.

Un’esclamazione costernata si levò dalla barca vuota. Un remo volteggiò e l’imbarcazione virò di bordo. Frodo riuscì appena in tempo ad afferrare Sam per i capelli quando questi tornò in superficie, gorgogliando e dimenandosi. La paura era dipinta sui suoi tondi occhi marrone.

«Forza, ragazzo mio!», disse Frodo. «Afferrati alla mia mano». «Salvatemi, signor Frodo!», disse Sam boccheggiante. «Affogo. Non vedo la vostra mano».

«Eccola. Non pizzicarmi, ragazzo! Stai tranquillo che non ti mollo. Attento, non fare movimenti bruschi, o rovescerai la barca. Ecco, adesso tieniti alla sponda, mentre io manovro di remi!».

Con pochi colpi di pagaia Frodo riaccostò l’imbarcazione alla riva, e Sam emerse, bagnato come un pulcino. Frodo si tolse l’Anello, e mise nuovamente piede a terra.

«Di tutte le maledette seccature, la peggiore sei tu, Sam!», disse. «Oh, signor Frodo, siete cattivo!», disse Sam rabbrividendo. «Siete cattivo, a cercare di andarvene senza di me, e tutto il resto. Se non avessi indovinato, ora dove sareste?».

«In viaggio, sano e salvo».

«Sano e salvo!», esclamò Sam. «Solo e senza il mio aiuto? Non avrei sopportato il colpo. Sarebbe stata la mia morte».

«Venire con me sarebbe la tua morte, Sam», disse Frodo, «ed io non potrei sopportarlo».

«Una morte meno certa, però», rispose Sam.

«Ma io sto andando a Mordor».

«Lo so bene, signor Frodo. È naturale che vi andiate. Ed io vi accompagno».

«Ora, Sam», disse Frodo, «non ostacolarmi! Gli altri saranno di ritorno da un momento all’altro. Se mi trovano qui, dovrò discutere e spiegare, e non avrò mai più il coraggio o l’occasione di partire. Devo andar via subito; è l’unico modo».

«Naturalmente», disse Sam. «Ma non da solo. Vengo anch’io, o non partirete neppure voi. Farò dei buchi in tutte le barche».

Frodo rise. Un calore ed una felicità improvvisi gli penetrarono in cuore. «Lasciane almeno una intatta!», disse. «Ne avremo bisogno. Ma non puoi venire così, senza cibo, né bagagli».

«Aspettate un attimo solo e prendo la mia roba!», esclamò Sam impaziente. «È già tutta pronta. Immaginavo che saremmo partiti oggi». Si precipitò nell’accampamento, estrasse il suo fagotto dalla pila che Frodo aveva fatto nello svuotate la barca di ciò che apparteneva ai suoi compagni, afferrò una coperta di scorta e un paio di involti di vettovaglie, e tornò correndo alla barca.

«Così hai rovinato tutto il mio bel piano!», disse Frodo. «È inutile cercare di sfuggirti. Ma ne sono felice, Sam. Non sai quanto. Andiamo! È chiaro che il destino vuole che viaggiamo insieme! Noi partiremo, e possano gli altri trovare una via verso la salvezza! Grampasso si occuperà di loro. Penso che non li vedremo mai più».

«Chissà, signor Frodo, può darsi di sì. Tutto è possibile», disse Sam.

E così Frodo e Sam partirono insieme per l’ultima tappa della Missione. Frodo si allontanò remando dalla riva, e il Fiume li condusse via rapidamente lungo il braccio occidentale, oltre le minacciose rupi di Tol Brandir. Il ruggito delle grandi cascate si fece più vicino. Malgrado tutto l’aiuto che Sam poté dare, fu un compito arduo attraversare la corrente all’estremità sud dell’isola, e dirigere la barca verso la riva orientale.

Infine toccarono nuovamente terra sulle pendici meridionali di Amon Lhaw. Trovarono una sponda che s’immergeva dolcemente nelle acque; tirarono in secco la barca, e la nascosero come poterono dietro un grosso macigno. Dopo essersi caricati sulle spalle i bagagli, si misero in marcia, alla ricerca di un sentiero che valicasse i grigi colli dell’Emyn Muil e li conducesse, infine, giù nella Terra d’Ombra.

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