PARTE SECONDA LE DUE TORRI

LIBRO TERZO

CAPITOLO I L’ADDIO DI BOROMIR

Aragorn correva veloce su per la collina, sostando di tanto in tanto solo per chinarsi a guardar per terra. Le impronte degli Hobbit sono leggere e difficili a rintracciarsi anche per un Ramingo, ma non lontano dalla cima una sorgiva attraversava il sentiero, e nella terra bagnata vide ciò che cercava.

«Non mi sono sbagliato», si disse. «Frodo è corso in cima alla collina. Chissà che cosa avrà visto! Ma poi è ridisceso per lo stesso sentiero».

Aragorn esitò. Desiderava anch’egli recarsi sino all’alto seggio, nella speranza di scoprirvi qualcosa che lo guidasse nell’incertezza, ma il tempo incalzava. Improvvisamente si mise a correre verso la cima; attraversò le grandi lastre del selciato e si arrampicò su per i gradini. Seduto sull’alto seggio, girò lo sguardo tutt’intorno. Ma il sole pareva oscurato e il mondo vago e remoto. A perdita d’occhio non si vedeva altro che i colli lontani, e di nuovo, all’orizzonte, un grande uccello simile a un’aquila, che roteava alto nel cielo, scendendo lentamente verso terra.

Mentre era intento a osservare, il suo udito sensibilissimo percepì rumori che salivano dal bosco ai suoi piedi, sulla riva occidentale del Fiume. S’irrigidì: erano grida, e con orrore distinse fra esse le aspre voci degli Orchi. D’un tratto risuonò il richiamo roco e profondo di un corno; le sue note s’infransero sulle colline, echeggiando nelle caverne, dominando come un urlo il ruggito delle cascate.

«Il corno di Boromir!», gridò Aragorn. «Chiede aiuto!». E si precipitò giù per i gradini e lungo il sentiero. «Ahimè! Oggi un destino crudele mi perseguita e rovina tutto ciò che faccio. Dov’è Sam?».

Mentre correva, le grida si fecero più forti, e poi nuovamente fioche. Il corno suonava disperatamente. Le urla degli Orchi giungevano stridule e feroci, poi improvvisamente i richiami del corno cessarono. Veloce come il vento, Aragorn percorse l’ultimo pendio, ma quando fu ai piedi del colle non udì che deboli suoni in lontananza; si volse a sinistra per rincorrerli, ma i suoni si fecero ancora più deboli e poi svanirono del tutto. Sguainando la spada splendente, si precipitò tra gli alberi gridando: Elendil! Elendil!

* * *

A circa un miglio da Parth Galen, in una piccola radura non lontana dal lago, trovò Boromir. Seduto con la schiena appoggiata a un grande albero, pareva dormire. Ma Aragorn vide che era trafitto da molte frecce dalle piume nere; stringeva ancora in mano la spada, rotta presso l’impugnatura; l’elmo, spaccato in due, giaceva al suo fianco. Tutt’intorno a lui, e ai suoi piedi, erano ammucchiati i corpi di molti Orchi.

Aragorn gli si inginocchiò accanto. Boromir aprì gli occhi, sforzandosi di parlare. Infine, lente, gli uscirono di bocca queste parole: «Ho cercato di togliere a Frodo l’Anello. Chiedo perdono. Ho pagato». Il suo sguardo si posò sui nemici caduti: ve n’erano almeno venti. «Non ci sono più, i Mezzuomini: gli Orchi li hanno portati via. Credo che non siano morti. Gli Orchi li hanno legati». S’interruppe, e gli occhi, già spenti, si chiusero. Dopo qualche attimo parlò nuovamente:

«Addio, Aragorn! Va’ tu a Minas Tirith e salva la mia gente! Io ho fallito».

«No!», disse Aragorn, prendendogli la mano e posando un bacio sulla sua fronte. «Hai vinto. Pochi hanno conosciuto un simile trionfo. Rasserenati! Minas Tirith non soccomberà!».

Boromir sorrise.

«In quale direzione sono andati? Frodo era con loro?», domandò Aragorn.

Ma Boromir non parlò più.

«Ahimè!», disse Aragorn. «È scomparso l’erede di Denethor, Sire della Torre di Guardia! È una fine amara. La Compagnia è ormai distrutta, e la colpa grava sulle mie spalle. Vana è stata la fiducia che Gandalf ebbe in me. Ed ora che cosa devo fare?… Boromir mi ha affidato il compito di recarmi a Minas Tirith, e il mio cuore lo desidera; ma dove si trovano l’Anello e il Portatore? Come potrò trovarli, e salvare la Missione dal disastro?».

Rimase a lungo inginocchiato, sopraffatto dalle lacrime, con la mano di Boromir stretta nella sua. Fu così che lo trovarono Legolas e Gimli. Tornavano dalle pendici occidentale del colle, strisciando silenziosamente fra gli alberi come cani in agguato. Gimli stringeva l’ascia, e Legolas, che aveva esaurito tutte le frecce, il lungo pugnale. Giunti nella radura si arrestarono stupefatti; poi chinarono il capo in segno di dolore, poiché avevano capito subito che cosa era accaduto.

«Ahimè!», esclamò Legolas avvicinandosi ad Aragorn. «Abbiamo inseguito e ucciso molti Orchi nel bosco, ma saremmo stati più utili qui. Siamo accorsi appena udito il corno…, ma ormai era troppo tardi, a quanto pare. Temo che tu sia ferito mortalmente».

«Boromir è morto», disse Aragorn. «Io sono illeso, perché non ero qui con lui. È caduto difendendo gli Hobbit, mentre io ero in cima alla collina».

«Gli Hobbit!», gridò Gimli. «Dove sono? E dov’è Frodo?». «Non lo so», rispose faticosamente Aragorn. «Prima di morire Boromir mi ha detto che gli Orchi li hanno legati; non pensava che fossero morti. Io lo avevo mandato alla ricerca di Merry e di Pipino, e quando gli chiesi se Frodo o Sam fossero con lui, ormai era troppo tardi. Tutto ciò che ho fatto oggi è finito male. Che cosa fare adesso?».

«Innanzi tutto dobbiamo pensare al caduto», disse Legolas. «Non possiamo abbandonarlo come una carogna in mezzo a questi immondi Orchi».

«Ma dobbiamo agire con rapidità», disse Gimli. «A lui non piacerebbe che perdessimo tempo. Dobbiamo seguire gli Orchi, se vogliamo sperare ancora che qualcuno dei nostri compagni prigionieri sia ancora vivo».

«Ma non sappiamo se il Portatore dell’Anello sia con loro», replicò Aragorn. «Possiamo abbandonarlo? Il nostro primo compito non è forse di cercarlo? Dobbiamo fare una scelta difficile!».

«Allora cominciamo col fare ciò ch’è indispensabile», disse Legolas. «Non abbiamo né il tempo né gli utensili necessari per seppellire profondamente il nostro compagno o per ricoprirlo con un tumulo. Potremmo erigere un monticello di pietre».

«Sarebbe un lavoro lungo e pesante: i sassi si trovano soltanto sulla riva», ribatté Gimli.

«Allora corichiamolo in una barca con le armi, le sue e quelle dei nemici sconfitti», disse Aragorn. «Lo spingeremo verso le Cascate di Rauros, e lo affideremo all’Anduin. Il Fiume di Gondor avrà cura che nessuna creatura malvagia disonori le sue spoglie».

Frugarono velocemente i corpi degli Orchi, ammucchiandone le spade, gli elmi e gli scudi spaccati.

«Guardate!», esclamò Aragorn. «Ecco qualcosa di molto eloquente!». Estrasse dalla pila di tetre armi due pugnali dalla lama a forma di foglia, damascati di rosso e oro; cercando più minuziosamente rinvenne anche le guaine nere, incastonate di piccole gemme rosse. «Questi non appartenevano certo agli Orchi!» disse. «Li portavano gli Hobbit. Indubbiamente gli Orchi li hanno spogliati, ma non hanno avuto il coraggio di tenere i pugnali, conoscendone la provenienza: vengono dall’Ovesturia e sono carichi di incantesimi esiziali per Mordor. Dunque, se i nostri amici sono ancora vivi, sappiamo che sono disarmati. Porterò con me questi oggetti, con l’ultima illusoria speranza di poterli un giorno restituire».

«Io», disse Legolas, «raccoglierò tutte le frecce che riuscirò a trovare, poiché la mia faretra è vuota». Frugando fra le armi e sul terreno circostante trovò non pochi dardi ancora intatti, più lunghi di quelli solitamente adoperati dagli Orchi. Li osservò attentamente.

Aragorn, guardando i corpi dei caduti, disse: «Molti di costoro non provengono da Mordor. Alcuni sono del Nord, delle Montagne Nebbiose; chiunque conosca gli Orchi e la loro razza se ne può rendere conto. Altri mi sono del tutto ignoti. Dalla maniera in cui vestono non parrebbero neppure Orchi!».

Quattro soldati erano più alti, di carnagione bruna, con occhi obliqui, mani grandi e gambe massicce. Invece delle comuni scimitarre ricurve degli Orchi avevano spade corte e larghe e archi di legno di tasso, uguali a quelli degli Uomini. Sui loro scudi era inciso uno strano disegno: una piccola mano bianca su fondo nero; al centro degli elmi di ferro portavano incastonata una S runica in metallo bianco.

«Non avevo mai visto questi simboli prima d’oggi», disse Aragorn. «Che cosa significano?».

«Facile da interpretarsi: S sta per Sauron», disse Gimli.

«No!», ribatté Legolas. «Sauron non usa le rune elfiche». «E non usa nemmeno il suo vero nome, e non permette che esso venga scandito o pronunziato», disse Aragorn. «Inoltre non usa il bianco. Gli Orchi al servizio di Barad-dûr hanno per simbolo l’Occhio Rosso». Rimase un attimo pensieroso. «Suppongo che S sia l’iniziale di Saruman», disse infine. «Le forze del male si sono destate a Isengard, e l’Occidente ormai non è più sicuro. Quel che Gandalf temeva si è avverato: in qualche modo Saruman il traditore ha saputo del nostro viaggio. È persino probabile che sappia della scomparsa di Gandalf. Alcuni degli inseguitori di Moria potrebbero aver eluso la vigilanza di Lórien, o raggiunto Isengard senza attraversare la terra dei Galadhrim: gli Orchi si spostano con rapidità. Ma Saruman ha mille modi per apprendere le notizie. Ricordate gli uccelli?».

«Comunque sia, non abbiamo tempo per risolvere enigmi», interloquì Gimli. «Portiamo via Boromir!».

«Ma, dopo, gli enigmi dovremo risolverli, se vogliamo scegliere la via giusta», ribatté Aragorn.

«Forse non vi è scelta giusta», disse Gimli.

* * *

Il Nano prese la sua ascia e tagliò alcuni rami. Li legarono insieme con le corde degli archi; poi vi stesero i loro mantelli. Su questa rozza barella trasportarono sino alla riva le spoglie del loro compagno con i trofei della sua ultima battaglia. Il percorso era breve, eppure non fu facile, perché Boromir era alto e robusto.

Aragorn rimase in piedi sulla sponda dell’acqua, di guardia alla barella, mentre Legolas e Gimli tornarono velocemente a Parth Galen. Vi era un miglio o più di strada e passò un certo tempo prima che riapparissero con due barche remando alacremente lungo l’argine del fiume.

«È accaduto un fatto assai strano!», disse Legolas. «C’erano soltanto due imbarcazioni sulla riva, e non siamo riusciti a trovare tracce dell’altra».

«Gli Orchi sono arrivati anche laggiù?», domandò Aragorn. «Non se ne scorgono tracce», rispose Gimli. «Comunque, avrebbero preso o distrutto tutte e tre le barche e anche i bagagli».

«Esaminerò il terreno quando ci torneremo», concluse Aragorn.

Deposero Boromir al centro dell’imbarcazione che l’avrebbe trasportato via. Piegarono e sistemarono sotto il suo capo il grigio mantello elfico con cappuccio; pettinarono i suoi lunghi capelli neri lisciandoli sulle spalle. Intorno alla sua vita scintillava la cinta d’oro di Lórien. Posarono accanto a lui l’elmo, e sul suo grembo il corno spaccato, insieme con l’elsa in frantumi della spada; sotto i suoi piedi misero le spade dei suoi nemici. Quindi, dopo aver fissato la prua alla poppa dell’altra imbarcazione, la trainarono nell’acqua. Remando tristi lungo la riva del canale dai flutti impetuosi passarono davanti al verde prato di Parth Galen. Le rupi a picco di Tol Brandir parevano incandescenti in quel tardo pomeriggio. Man mano che scendevano a sud, il vapore di Rauros s’innalzava sfavillante innanzi a loro come una nebbia d’oro. L’impeto e il rombo delle cascate faceva tremare l’aria senza vento.

Slegarono l’imbarcazione funebre nella quale giaceva Boromir, calmo, sereno. Egli scivolò via in seno ai flutti. La corrente lo trascinò con sé, mentre i suoi compagni trattenevano la loro barca con i remi. Passò galleggiando accanto ad essi e si allontanò, finché non si vide più che una macchia scura contro la luce dorata: poi d’un tratto scomparve. Rauros continuò a ruggire impassibile. Il Fiume si era preso Boromir, figlio di Denethor, e non lo rividero mai più a Minas Tirith, in piedi sulla Torre Bianca come soleva fare ogni mattino. Ma a Gondor, nei giorni che vennero, per lungo tempo si narrò che la barca elfica, oltrepassate le cascate e le acque spumeggianti, l’aveva portato attraverso Osgiliath, e al di là della foce dell’Anduin nel Grande Mare, di notte, al lume di stelle.

* * *

I tre compagni rimasero a lungo in silenzio, con lo sguardo perduto là dov’era scomparsa l’imbarcazione. Infine Aragorn parlò. «Lo cercheranno dalla Torre Bianca», disse, «ma egli non farà ritorno né dai monti né dal mare». Poi a bassa voce intonò un canto:

Su Rohan, su campi e stagni, tra l’erba verde e alta,

Soffia il Vento dell’Ovest, e il muro e il vallo assalta.

«Che nuove stanotte per me, o vento dall’Ovest vagante?

Boromir l’Alto vedesti, al chiaro di luna o al sole avvampante?».

«Sette torrenti passò cavalcando, grigi e ruggenti;

L’ho visto in terre deserte, solo, inseguire i venti

E l’ombra del Nord, per sempre. Ha udito il Vento del Nord,

Forse, suonare il corno del figlio di Denethor».

«O Boromir!, dalle mura guardo a ovest, cercandoti invano,

Ma tu mai più sei tornato dal buio deserto lontano».

Poi cantò Legolas:

Soffia il Vento del Sud, da dune e scogliere, dal Mare,

Con voce tremante, e porta fin qui del gabbiano il gridare.

«Che nuove dal Sud per me, o vento che spiri tremendo?

Dov’è Boromir il Bello? Tarda, e ansioso lo attendo».

«Non chiedermi dove egli sia… Le ossa son molte

Sui neri scogli e sulla bianca rena, nelle cupe notti sconvolte;

Tanti, in cerca del Mare, dell’Anduin solcan la via.

Chiedi al Vento del Nord che ne è di quelli che m’invia!».

«O Boromir! Là dove geme il Vento, la via porta a sud verso il Mare,

Ma tu non giungi al grido dei gabbiani, dalle grigie sponde del Mare».

Ed Aragorn cantò nuovamente:

Dalla Porta dei Re soffia il Vento del Nord, sopra rapide e forre;

Freddo e limpido il suo richiamo scroscia e tuona intorno alla torre.

«Che notizie dal Nord, o vento possente, rechi oggi per me?

Che ne fu di Boromir l’intrepido, che da tempo qui più non è?».

«Sotto Amon Hen gridava, oppresso da molti nemici.

L’elmo rotto, la spada in frantumi, alle acque l’affidaron gli amici.

Il capo fiero e il bel volto alla morte han consegnato.

E Rauros, le rapide d’oro, lontano con sé l’ha portato».

«Boromir! La Torre di Guardia sempre a nord rivolta sarà,

Verso Rauros, le rapide d’oro, sino all’ultimo dì che verrà».

Così ebbe fine il canto. Voltarono la barca e la guidarono nuovamente verso Parth Galen, remando contro corrente con la maggior fretta possibile.

«Avete lasciato a me il Vento dell’Est», disse Gimli, «ma io non ne parlerò».

«Ed è bene che sia così», rispose Aragorn. «A Minas Tirith sopportano il Vento dell’Est, ma non gli fanno alcuna domanda. Ma ora che Boromir è partito per la sua via, dobbiamo affrettarci a scegliere la nostra».

Esaminò il verde prato con rapidità ma accuratamente, curvandosi a più riprese verso terra. «Nessun Orco ha calpestato il terreno», disse. «Ma a parte ciò, non si riesce a capire nient’altro di preciso. Vi sono tutte le nostre orme che si sovrappongono. È impossibile rendersi conto se qualcuno degli Hobbit sia tornato qui da quando siamo partiti alla ricerca di Frodo». Ritornò sull’argine, vicino al punto ove il rivoletto si gettava nel Fiume. «Qui vi sono impronte molto nette», disse. «Un Hobbit è sceso in acqua ed è poi risalito; ma non saprei dire quanto tempo fa».

«Come interpreti dunque questo enigma?», domandò Gimli.

Aragorn non rispose immediatamente, ma si recò di nuovo al campo per osservare i bagagli. «Mancano due fagotti», disse, «e uno è indubbiamente quello di Sam: era molto grande e pesante. Ebbene, ecco la risposta: Frodo è partito in barca, e il suo servitore l’ha accompagnato. Frodo dev’essere tornato quando eravamo tutti lontani. Incontrai Sam mentre risalivo la collina e gli dissi di seguirmi, ma evidentemente non l’ha fatto. Indovinò quel che il suo padrone aveva in mente, e ritornò qui prima che Frodo fosse partito. Non era una cosa facile lasciare indietro Sam!».

«Ma perché ha lasciato indietro noi, e senza una spiegazione?», disse Gimli. «È un comportamento assai strano!».

«Un comportamento coraggioso», ribatté Aragorn. «Credo che Sam avesse ragione: Frodo non ha voluto condurre con sé a Mordor i suoi amici, incontro alla morte. Ma sapeva di doverci andare: dopo averci lasciati, ha incontrato qualcosa che ha vinto ogni suo timore e dubbio».

«Forse gli Orchi lo assalirono ed egli fuggì», disse Legolas. «Fuggì certamente», disse Aragorn, «ma non credo dagli Orchi». Aragorn non disse quella che secondo lui era la causa dell’improvvisa decisione e fuga di Frodo. Tenne a lungo segrete le ultime parole di Boromir.

«Ebbene, una cosa almeno è chiara», disse Legolas. «Frodo non è più su questo lato del Fiume: soltanto lui ha potuto prendere la barca. E Sam l’ha accompagnato: solo lui avrebbe preso il suo fagotto».

«Ci resta dunque da scegliere», disse Gimli, «tra seguire Frodo con l’ultima barca, o seguire gli Orchi a piedi. Ambedue le vie offrono poca speranza. Abbiamo già perduto ore preziose».

«Fatemi pensare!», disse Aragorn. «E speriamo che la mia scelta sia giusta e muti il destino crudele di questo giorno infelice!». Rimase un attimo in silenzio. «Seguirò gli Orchi», disse infine. «Avrei condotto Frodo a Mordor, e sarei rimasto accanto a lui sino alla fine; ma andando adesso a cercarlo nelle zone selvagge, dovrei abbandonare i prigionieri alla tortura e alla morte. Il mio cuore parla infine chiaramente: il destino del Portatore non è più nelle mie mani. La Compagnia ha recitato la sua parte. Ma noi che siamo rimasti non possiamo abbandonare i nostri compagni finché avremo ancora un po’ di forza. Coraggio! È tempo di partire. Lasciate qui tutto ciò che non è indispensabile! Marceremo di giorno e di notte!».

* * *

Trascinarono l’ultima imbarcazione in secco sino agli alberi. Vi nascosero sotto le cose superflue e troppo pesanti da portare. Infine lasciarono Parth Galen. Il pomeriggio si stava facendo grigio quando giunsero nuovamente nella radura ove Boromir era caduto. Lì trovarono le tracce degli Orchi, cosa che non era difficile.

«Nessuno calpesta e distrugge come loro», disse Legolas. «Sembra che provino gioia nel falciare e abbattere ogni cosa che ostacoli loro la via».

«Ma ciò permette loro di procedere con grande rapidità», disse Aragorn, «e non si stancano. Più tardi dovremo forse cercarne le tracce su terreni spogli e duri».

«Ebbene, all’inseguimento!», disse Gimli. «Anche i Nani sanno essere veloci, e non si stancano prima degli Orchi. Ma la caccia sarà lunga: hanno molto vantaggio su di noi».

«Sì», disse Aragorn, «avremo tutti bisogno della resistenza dei Nani. Venite! Possiamo sperare o disperare, ma seguiremo le orme dei nostri nemici. Guai a loro se sapremo essere più veloci! Il nostro inseguimento sarà narrato come un’impresa stupefacente dalle Tre Stirpi: Elfi, Nani e Uomini. Avanti i Tre Cacciatori!».

Scattò come un daino, saettando tra gli alberi. Li condusse lontano, sempre più avanti, instancabile e rapido, poiché infine la sua decisione era presa. Lasciarono indietro i boschi intorno al lago. Scalarono lunghi e cupi pendii, i cui contorni si staccavano netti contro il cielo rosso del tramonto. E venne il crepuscolo. Andavano veloci, come ombre grigie per contrade rocciose.

CAPITOLO II I CAVALIERI DI ROHAN

Il vespero si oscurò. Alle loro spalle la nebbia circondava i piedi degli alberi e covava sulle pallide rive dell’Anduin, ma il cielo era limpido. Spuntarono le stelle. La luna crescente saliva nella parte occidentale del cielo e le ombre delle rocce erano nere. Giunti alle falde di colli pietrosi, incominciarono a procedere più lentamente, perché le tracce non erano più facili da scoprire. Ivi le alture dell’Emyn Muil si ergevano in direzione nord-sud, in due creste lunghe e scoscese, i cui fianchi occidentali erano ripidi e faticosi da scalare; ma le pendici orientali erano più dolci, intagliate da molti burroni e stretti dirupi. Tutta la notte i tre compagni si inerpicarono su per quelle terre accidentate, raggiungendo la cima della prima e più alta delle creste per poi ridiscendere dall’altra parte nel buio di una profonda valle sinuosa.

Lì, nell’ora fresca e tranquilla che precede l’alba, si concessero un breve riposo. La luna si era addormentata molto prima di loro, le stelle brillavano in cielo; la prima luce del giorno non aveva ancora valicato le buie colline alle loro spalle. Aragorn non sapeva che cosa fare: le tracce degli Orchi portavano in fondo alla valle e poi svanivano.

«Quale direzione pensi che abbiano preso?», domandò Legolas «A nord, per giungere più direttamente a Isengard o a Fangorn, se quella, come supponi tu, è la loro meta? Oppure a sud, per incrociare l’Entalluvio?».

«Non punteranno certo verso il fiume, qualunque sia la loro meta», disse Aragorn. «E a meno che Rohan non sia cambiato molto, e il potere di Sauron non si sia enormemente ingigantito, avranno senza dubbio preso la strada più breve che attraversi i campi dei Rohirrim. Cerchiamo a nord!».

La valle correva tra le creste dei colli, simile a un ghiaione, e un esile ruscello mormorava in fondo tra le grosse pietre. Una rupe si ergeva minacciosa alla loro destra, mentre a sinistra s’innalzavano grigi pendii, vaghi e indistinti nelle ombre della notte tarda. Proseguirono per più di un miglio verso nord. Aragorn cercava attentamente, curvo verso terra, tra le falde e i burroni che conducevano alla cresta occidentale. Legolas li precedeva; d’un tratto l’Elfo mandò un grido e gli altri lo raggiunsero correndo.

«Abbiamo già sorpassato un gruppetto di quelli che stavamo inseguendo», disse. «Guardate!». Indicò un punto, ed essi si accorsero che ciò che a prima vista avevano scambiato per massi ai piedi del pendio, erano corpi ammonticchiati. Cinque Orchi morti giacevano lì. Erano stati atterrati da molti colpi crudeli, e due di essi erano decapitati. Il terreno era intriso del loro sangue scuro.

«Ed ecco un altro enigma!», disse Gimli. «Ma è necessaria la luce del giorno per risolverlo, e noi non possiamo aspettare».

«Eppure, qualunque sia la soluzione, non sembrerebbe sconfortante», disse Legolas. «È probabile che i nemici degli Orchi siano nostri amici. Vi è dunque gente che vive su queste colline?».

«No», rispose Aragorn. «I Rohirrim vengono di rado da queste parti, e siamo lontani da Minas Tirith. Può darsi che un gruppetto di Uomini stesse cacciando qui per qualche ignoto motivo. Eppure non credo a questa eventualità».

«Che cosa credi?», domandò Gimli.

«Credo che il nemico abbia portato con sé il proprio nemico», rispose Aragorn. «Questi sono Orchi settentrionali che giungono da molto lontano. Tra gli uccisi non vi è alcuno dei grandi Orchi con gli strani stemmi. Ci dev’essere stata una disputa, credo: è cosa frequente tra questa gente infida. Forse si sono azzuffati per la scelta della strada».

«O a proposito dei prigionieri», disse Gimli. «Speriamo che non abbiano anch’essi trovato qui la loro fine».

* * *

Aragorn esaminò il terreno circostante, ma non trovò altre tracce di combattimenti. Ripresero il cammino. Il cielo a oriente cominciava già a impallidire; le stelle sbiadivano, illuminate da una grigia luce crescente. Un po’ più a nord giunsero a una piega del terreno ove un minuscolo ruscello aveva intagliato nella pietra un sentiero che conduceva sin giù nella valle. Vi crescevano cespugli, e ai margini si allargavano alcune chiazze d’erba.

«Finalmente!», esclamò Aragorn. «Ecco le orme che cercavamo! Risalgono questo rivo: è qui che sono venuti gli Orchi dopo il litigio».

Gli inseguitori presero veloci il nuovo sentiero. Saltavano di pietra in pietra come se si fossero appena destati da un sonno lungo e ristoratore. Giunsero infine in cima al colle grigio, e una brezza improvvisa soffiò tra i loro capelli agitando i loro manti: il frizzante vento dell’alba.

Si voltarono, e al di là del Fiume le colline lontane parevano rimpicciolite. Il giorno inondò il cielo. L’orlo rosso del sole s’innalzò sui contrafforti della buia campagna. Innanzi a loro, a occidente, il mondo si stendeva calmo, grigio e senza forme; ma mentre guardavano, le ombre della notte sbiadirono, cedendo il posto ai colori della terra ormai desta: il verde inondò gli ampi pascoli di Rohan; la nebbiolina bianca scintillò nelle irrigue vallate, e all’estrema sinistra, a più di trenta miglia, si ersero blu e viola i Monti Bianchi, giogaie dai picchi incappucciati di nevi sfavillanti, leggermente rossi nel mattino.

«Gondor! Gondor!», esclamò Aragorn. «Ch’io possa rimirarti in giorni più felici! Il mio sentiero ancora non porta verso sud, verso i tuoi fiumi splendenti.

Gondor! Gondor! Terra fra i Monti e il Mare!

Dove soffiava il Vento d’Ovest, e sull’Albero d’Argento la luce pare

Brillante pioggia nei parchi dei Re che più fra noi non sono.

Oh prodi mura! O torri bianche! Corona alata e dorato trono!

Oh Gondor, Gondor! Vedran più gli Uomini l’Albero d’Argento,

E tra i Monti e il Mare soffierà più il Vento?

Ed ora in marcia!», disse, distogliendo lo sguardo dal Sud e volgendolo a nord-ovest in direzione della via che stava per seguire.

* * *

La cresta sulla quale si trovavano i compagni scendeva scoscesa innanzi ai loro piedi. Trenta metri più in basso si stendeva un ampio ripiano scabroso terminato bruscamente dall’orlo di un precipizio: il Muro Orientale di Rohan. Era quella la fine dell’Emyn Muil, e le verdi pianure dei Rohirrim si prolungavano a perdita d’occhio.

«Guardate!», gridò Legolas, mostrando il pallido cielo sulle loro teste. «Di nuovo l’aquila! È molto in alto. Adesso sembra che stia volando via da queste contrade per ritornare al Nord. Va velocissima. Guardate!».

«No, nemmeno i miei occhi riescono a scorgerla, mio buon Legolas», disse Aragorn. «Dev’essere davvero alta. Chissà qual è la sua missione e se questo è il medesimo uccello che vidi io. Ma guardate! Scorgo qualcosa di molto più vicino e immediato; qualcosa che si muove nella pianura!».

«Molte cose», disse Legolas. «È una folta comitiva a piedi; ma non potrei dirvi altro, né distinguere la loro razza. Distano molte leghe: dodici, direi. Ma è difficile valutare le distanze su quei campi».

«Credo comunque che non abbiamo più bisogno di orme che ci indichino la via», disse Gimli. «Troviamo il sentiero più veloce che porti al piano».

«Non credo che tu possa trovare un sentiero più veloce di quello scelto dagli Orchi», disse Aragorn.

Inseguivano ora i nemici alla limpida luce del giorno. Sembrava che gli Orchi avanzassero con la massima velocità possibile. Di tanto in tanto gli inseguitori trovavano oggetti smarriti o abbandonati: sacchetti di viveri, croste di pane grigio e duro, un mantello nero lacerato, un pesante scarpone chiodato rotto sui sassi. Le tracce li condussero a nord seguendo l’orlo della scarpata, e infine giunsero a un profondo burrone intagliato nella viva roccia da un ruscello che scendeva rumoroso. Un rozzo sentiero simile a una ripida scalinata portava alla pianura.

Giunti in fondo, toccarono improvvisamente l’erba di Rohan: cresceva rigogliosa come un verde mare sin sui piedi dell’Emyn Muil. Il torrente scomparve in una lussureggiante vegetazione di crescioni e piante acquatiche, ed essi lo udivano gorgogliare attraverso verdi gallerie e lunghi pendii pianeggianti che lo conducevano lontano sino alla valle dell’Entalluvio. Sembrava che avessero abbandonato l’inverno avvinghiato alle colline dietro di loro. Qui l’aria era più dolce e calda, e leggermente profumata, come se la primavera stesse già covando, e la linfa fosse tornata a scorrere nell’erba e nelle foglie. Legolas respirò profondamente, come chi beve d’un fiato dopo una lunga sete in luoghi desertici.

«Ah! Il profumo del verde!», esclamò. «È meglio di un lungo sonno. Corriamo!».

«Qui i piedi leggeri possono correre veloci», disse Aragorn. «Forse più veloci degli Orchi dalle scarpe chiodate. Ecco la buona occasione per ridurre il loro vantaggio!».

* * *

Avanzarono in fila indiana, correndo come cani sulla pista di un odore penetrante, con una luce impaziente negli occhi. Come una retta tracciata verso occidente era l’ampio solco d’erba calpestata dagli Orchi; il tenero verde di Rohan era stato annerito e schiacciato dal loro passaggio. D’un tratto Aragorn mandò un grido e deviò. «Fermi!», disse. «Non mi seguite ancora!». Corse rapido verso destra, allontanandosi dal sentiero principale: aveva visto delle orme che andavano in quella direzione, separandosi dalle altre: orme di piccoli piedi scalzi. Ma dopo non molto erano calpestate da impronte di Orchi che a loro volta deviavano dal solco principale, e quindi con una brusca svolta ritornavano indietro per poi perdersi fra le altre. Al punto estremo della curva Aragorn si chinò per raccogliere qualcosa nell’erba, e quindi correndo raggiunse gli amici. «Sì», disse, «sono abbastanza chiare: impronte d’un Hobbit. Di Pipino, credo, poiché è più piccolo dell’altro. E guardate quest’oggetto!». Mostrò qualcosa che scintillava alla luce del sole. Pareva una giovane foglia di faggio appena aperta, bella e strana in quella pianura senza un albero.

«La spilla di un manto elfico!», esclamarono insieme Legolas e Gimli.

«Non cadono inutilmente le foglie di Lórien», disse Aragorn. «E questa non è scivolata per caso: fu gettata come indicazione per chiunque passasse in questi luoghi. Credo che Pipino si sia allontanato dagli altri con questo preciso intento».

«Dunque lui almeno era vivo», disse Gimli. «E possedeva ancora l’uso della ragione, e anche delle gambe. È confortante. Non li stiamo inseguendo invano».

«Speriamo che non abbia pagato troppo cara la sua temerarietà», disse Legolas. «Venite! Proseguiamo! Il pensiero di quegli allegri ragazzi condotti come bestiame mi stringe il cuore».

* * *

Il sole s’innalzò al meriggio e ridiscese quindi lentamente nel cielo. Le nuvole leggere giunte dal mare nel lontano Sud furono trascinate via dalla brezza. Il sole tramontò. Crebbero le ombre, allungando le loro grandi braccia da oriente. Gli inseguitori marciavano ancora. Era passato un giorno dalla scomparsa di Boromir, e gli Orchi avevano sempre molto vantaggio. L’occhio non riusciva più a scorgerli nella piatta campagna.

Quando le ombre della notte cominciarono a chiudersi intorno, Aragorn si fermò. In tutta la giornata di marcia si erano concessi solo due brevi soste, e dodici leghe li separavano ormai dalla cresta orientale sulla quale si trovavano all’alba.

«È giunto il momento di una penosa scelta», disse il Ramingo. «Riposare durante la notte, o proseguire finché forza e volontà reggono ancora?».

«Se ci fermiamo a dormire, i nostri nemici ci lasceranno molto indietro, a meno che non riposino anch’essi», disse Legolas.

«Certo, anche gli Orchi avranno bisogno di sostare durante una lunga marcia!», esclamò Gimli.

«È raro che gli Orchi viaggino di giorno allo scoperto, eppure questi l’hanno fatto») disse Legolas. «Non riposeranno certo di notte».

«Ma camminando al buio non potremo seguire le loro tracce», ribatté Gimli.

«Il loro percorso è dritto, e sin dove giunge la mia vista non gira né a destra né a sinistra», disse Legolas.

«Forse riuscirei a condurvi al buio e a indovinare il giusto sentiero», disse Aragorn; «ma se per caso ci perdessimo, o loro deviassero, impiegheremmo molto tempo a ritrovar la pista quando farà giorno».

«Inoltre», interloquì Gimli, «se alcune delle impronte dovessero allontanarsi dalle altre, solo alla luce potremmo vederle. Se uno dei prigionieri fuggisse o fosse portato via verso est, per esempio verso il Grande Fiume, e in direzione di Mordor, passeremmo oltre senza nemmeno accorgercene».

«È vero», rispose Aragorn. «Ma se interpreto bene gli indizi trovati prima, gli Orchi della Bianca Mano hanno avuto la meglio e tutta la comitiva è ormai diretta a Isengard. Il loro attuale percorso sembra darmi ragione».

«Eppure è difficile esser certi delle loro intenzioni», disse Gimli. «E in caso di fuga? Al buio, avremmo oltrepassato le tracce che ci hanno condotti alla spilla».

«Da quel momento gli Orchi avranno raddoppiato la sorveglianza, e i prigionieri saranno ancor più sfiniti», ribatté Legolas. «Non vi saranno altre fughe, a meno che non le provochiamo noi. In che modo riuscirvi è ancora un problema; dobbiamo innanzi tutto raggiungerli».

«Ma persino io, Nano che ho molto viaggiato, e che sono fra la mia gente uno dei più resistenti, non potrò mai percorrere senza riposare tutta la strada sino a Isengard», disse Gimli. «Anche il mio cuore brucia, e sarei partito più presto; ma ora ho bisogno di un po’ di respiro per poter poi correre meglio. E se decidiamo di riposare, la notte cieca è l’ora migliore».

«Avevo detto che la scelta sarebbe stata penosa», disse Aragorn «Come superare le nostre indecisioni?».

«Tu sei la nostra guida», rispose Gimli, «e tu l’esperto d’inseguimenti. Tocca a te scegliere».

«Il mio cuore mi ordina di andare avanti», disse Legolas. «Ma dobbiamo rimanere uniti. Seguirò il tuo consiglio».

«Affidate la scelta a un cattivo giudice», rispose Aragorn. «Da quando passammo gli Argonath, ogni mia decisione ha avuto cattivo esito». Rimase a lungo silenzioso, con lo sguardo perduto verso nord-ovest nella notte che s’infittiva.

«Non cammineremo al buio», disse infine. «Il pericolo di smarrire le tracce o altri segni di andate e venute mi sembra il più grave. Se la Luna irradiasse più luce, potremmo giovarcene; ma ahimè! si corica presto ed è ancor giovane e pallida».

«E oggi, poi, è coperta», mormorò Gimli. «Se solo la Dama ci avesse dato una luce, un dono simile a quello di Frodo!».

«Sarà più necessario a colui che l’ha ricevuto», disse Aragorn. «La sua è la vera Missione. Il nostro non è che un caso di poca importanza in mezzo ai grandi eventi di questi tempi. Un inseguimento vano sin dall’inizio, forse, e sul quale le mie decisioni non possono influire in alcun modo. Ebbene, la scelta è fatta. Adoperiamo quindi il tempo nel migliore dei modi».

* * *

Si gettò a terra e cadde subito in un sonno profondo, poiché dalla notte passata all’ombra di Tol Brandir non aveva più dormito. Prima che l’alba apparisse in cielo si destò e si alzò. Gimli era ancora assopito, ma Legolas era in piedi ed osservava l’oscurità a nord, pensieroso e silente come un giovane albero in una notte senza vento.

«Sono molto molto lontani», disse tristemente rivolgendosi ad Aragorn. «Il cuore mi dice che non si sono concessi alcun riposo questa notte. Solo un’aquila ormai potrebbe raggiungerli».

«Noi ad ogni modo faremo del nostro meglio per seguirli», disse Aragorn. Si chinò per svegliare il Nano. «Coraggio! Dobbiamo andare», disse. «Le tracce stanno per scomparire».

«Ma fa ancora buio», ribatté Gimli. «Nemmeno Legolas dall’alto di un colle potrebbe scorgerli prima del levar del sole».

«Temo che da colle o pianura, sotto la luna o il sole, la mia vista ormai più non li raggiunga», disse Legolas.

«Là dove fallisce la vista, la terra forse coi suoi rumori ci può aiutare», disse Aragorn. «Dovremmo udire i gemiti della campagna sotto i loro passi aborriti». Si stese in terra con un orecchio premuto sull’erba. Rimase immobile in quella posizione tanto a lungo da far pensare a Gimli che fosse svenuto o ricaduto nel sonno. Giunse l’alba con la sua luce fioca e grigia che cresceva lentamente intorno a loro. Infine Aragorn si levò in piedi, e i suoi amici poterono guardarlo in faccia: il suo viso era pallido e teso, e il suo sguardo inquieto.

«Il rumore della terra è vago e confuso», disse. «Nessuno vi cammina nel giro di molte miglia. Deboli e distanti i passi dei nostri nemici; forte invece è lo scalpitar di cavalli. Ed ora mi viene in mente che lo udivo anche quando sdraiato in terra dormivo, e i miei sogni ne erano turbati: rumore di cavalli al galoppo che passano a ovest. Ma adesso cavalcano verso nord, e si allontanano sempre più da noi. Che cosa sta accadendo in questo paese?».

«Andiamo!», disse Legolas.

* * *

Incominciò così il terzo giorno dell’inseguimento. Avanzarono quasi senza sosta nelle lunghe ore nuvolose interrotte qua e là da un raggio di sole, ora camminando a grandi passi, ora correndo, come se la stanchezza fosse annullata dal fuoco che li divorava. Parlavano di rado. Attraversavano la vasta solitudine, e i loro manti elfici si stemperavano nello sfondo delle pianure grigio-verdi; finanche nella chiara luce del meriggio pochi occhi oltre quelli d’un Elfo sarebbero riusciti a scorgerli a meno di qualche metro di distanza. Più volte i loro cuori si rivolsero con gratitudine alla Dama di Lórien, per il dono del lembas, che permetteva loro di mangiare senza interrompere la marcia e acquistando nuovo vigore.

Durante tutto il giorno la pista dei nemici condusse dritta in avanti, puntando verso nord-ovest senza interruzioni né curve. Il giorno era già sul finire, quando toccarono lunghi pendii senza alberi che conducevano a una linea di bassi colli tondeggianti. Le tracce, dirigendosi a nord verso i colli, si fecero più indistinte, poiché il terreno era duro e l’erba meno alta.

Lontano, alla loro sinistra, serpeggiava il fiume Entalluvio, pari a un filo d’argento steso su un verde pavimento. Nulla si muoveva. Aragorn si domandò a più riprese come mai non fossero visibili segni di uomini o animali. Le abitazioni dei Rohirrim erano per la maggior parte molte leghe più a sud, sotto i boschi frondosi dei Monti Bianchi, ora nascosti dalla nebbia e dalle nuvole; tuttavia i Signori dei Cavalli solevano anticamente tenere numerosi branchi ed allevamenti nell’Esternnet, ed in quella regione orientale del loro reame s’incontravano molti mandriani, che vivevano all’aperto e sotto tende persino d’inverno. Ora tutta la regione era vuota, ma il silenzio che vi regnava non pareva la quiete della pace.

* * *

Al crepuscolo sostarono ancora. Ormai avevano percorso due volte dodici miglia sulle pianure di Rohan, e le creste dell’Emyn Muil si perdevano nelle ombre dell’Est. La nuova luna irradiava la sua debole luce in un cielo nebbioso, e le stelle erano velate.

«Più a malincuore che mai accetterei adesso un momento di riposo o una qualsiasi sosta durante l’inseguimento», disse Legolas. «Gli Orchi sono avanzati correndo come se fossero minacciati dalla frusta di Sauron in persona. Temo che abbiano già raggiunto la foresta e le buie colline, e che si stiano inoltrando adesso sotto le ombre degli alberi».

Gimli strinse i denti. «È una fine amara per le nostre speranze e le nostre fatiche!», disse.

«Forse è la fine delle speranze, ma non delle fatiche», disse Aragorn. «Ancora non è giunto il momento di tornare indietro. Eppure sono sfinito». Il suo sguardo ripercorse la strada compiuta e si perse nella notte che saliva dall’Oriente. «Vi è all’opera qualcosa di strano in questo paese. Non mi fido del silenzio. Non mi fido nemmeno della pallida Luna. Le stelle sono fioche, e io sono stanco come non mai, d’una stanchezza inspiegabile per un Ramingo che segua una pista sicura. C’è un’oscura potenza che dà rapidità ai nostri nemici e innalza un’invisibile barriera avanti a noi: una profonda stanchezza del cuore, più che delle membra».

«È vero!», disse Legolas. «L’ho sentita non appena giunti ai piedi dell’Emyn Muil, poiché la potenza non è alle nostre spalle, ma innanzi a noi». Indicò, oltre la terra di Rohan, l’Occidente, che si oscurava sotto una falce di luna.

«Saruman!», mormorò Aragorn. «Ma non riuscirà a farci tornare indietro! Dobbiamo fermarci nuovamente: guardate! persino la Luna sta per essere sommersa dalle nuvole. Ma la nostra via verso il Nord tra poggi e paludi, attende che si levi il giorno».

* * *

Come l’altra volta, Legolas fu il primo ad alzarsi, e forse non aveva dormito affatto. «Svegli! Svegli!», gridò. «L’alba è già rossa. Alle propaggini del bosco strane cose ci attendono, non so se buone o malvagie; ma siamo chiamati. Sveglia!».

Gli altri saltarono in piedi e si rimisero in marcia quasi subito. I poggi si avvicinavano lentamente. Quando li raggiunsero mancava ancora un’ora al meriggio: i verdi pendii salivano sino a una nuda cresta che si ergeva come una retta tesa verso il Nord. Alle falde il terreno era asciutto e l’erba bassa, ma una lunga fascia di terra pantanosa, larga una decina di miglia, li separava dal fiume che scorreva immerso in una folta vegetazione di giunchi e di canne. Leggermente a ovest del pendio più meridionale vi era una grande zona circolare ove l’erba era stata strappata e schiacciata da molti Piedi pesanti. Quindi le tracce degli Orchi proseguivano, dirigendosi a nord lungo le falde asciutte dei colli. Aragorn si fermò per osservare le impronte da vicino.

«Hanno riposato qui per un po’», disse, «ma anche le orme che conducono via sono già vecchie. Temo che il tuo cuore non si sia sbagliato, Legolas: credo siano passate tre volte dodici ore da quando gli Orchi si trovavano ove noi ora siamo. Se hanno mantenuto l’andatura, dovrebbero aver raggiunto i confini di Fangorn ieri al calar del sole».

«Non vedo nulla in lontananza a nord o a ovest, se non l’erba che scompare nella nebbia», disse Gimli. «Riusciremmo a vedere la foresta se salissimo in cima ai colli?».

«È ancora molto lontana», disse Aragorn. «Se ricordo bene, questa campagna ondulata si stende per più di otto leghe verso il Nord, e poi a nord-ovest dallo sbocco dell’Entalluvio vi è ancora un ampio territorio di circa quindici leghe».

«Ebbene, proseguiamo», disse Gimli. «Le mie gambe devono dimenticare le miglia; e lo farebbero più volentieri se il mio cuore fosse meno pesante».

Il sole era al tramonto quando giunsero al limite della zona collinosa. Camminavano da molte ore senza riposo. Procedevano lentamente, ormai, e le spalle di Gimli erano curve. I Nani sono resistenti come pietra alle fatiche del lavoro e dei viaggi, ma ora che nel suo cuore ogni speranza era morta, cominciava a manifestarsi in lui il logorio di quell’interminabile inseguimento. Aragorn veniva dietro, impassibile e silenzioso, chinandosi di tanto in tanto per esaminare qualche impronta o segno sul terreno. Solo i passi di Legolas erano leggeri come sempre, e pareva che i suoi piedi sfiorassero appena l’erba, poiché non lasciavano traccia del loro passaggio; ma nel pan di via degli Elfi trovava tutto il necessario per sopravvivere, e il suo sonno, se sonno può essere chiamato dagli Uomini, consisteva nel far riposare la mente lungo gli strani sentieri dei sogni elfici, pur continuando a camminare ad occhi aperti nella luce di questo mondo.

«Saliamo su quel verde colle!», disse. Lo seguirono faticosamente, arrampicandosi per il lungo pendio sino alla cima. Era una collina tondeggiante, liscia e spoglia, isolata e situata a settentrione rispetto agli altri colli. Il sole tramontò e le ombre della sera calarono come sipari. Erano soli in un grigio mondo informe senza termini né misure. Soltanto all’estremo nord-ovest si notava nella luce morente una zona di oscurità più profonda: le Montagne Nebbiose e la foresta ai loro piedi.

«Non vi è nulla qui che ci possa guidare», disse Gimli. «Ebbene, siamo costretti a fermarci di nuovo per trascorrere la notte. Comincia a far freddo!».

«Il vento viene dal Nord, dalle nevi», rispose Aragorn.

«E prima dell’alba girerà a est», disse Legolas. «Ma riposate, se ne avete bisogno, e non abbandonate ogni speranza. Il domani è ignoto. Spesso il levar del sole porta consiglio».

«Tre soli già si sono levati sul nostro inseguimento, e non hanno portato alcun consiglio», disse Gimli.

* * *

La notte divenne sempre più fredda. Aragorn e Gimli dormirono d’un sonno inquieto e irregolare, ed ogni qualvolta si svegliavano vedevano Legolas in piedi accanto a loro camminare avanti e indietro, canticchiando sommessamente nella sua lingua natia; e mentre cantava, le bianche stelle sbocciarono nella cupa volta nera sopra le loro teste. E la notte passò. Insieme guardarono l’alba crescere lentamente in un cielo ora puro e senza nubi, e finalmente sorgere il sole. L’aria era pallida e chiara. Il vento soffiava da est e la nebbia si era dileguata; intorno a loro si stendevano ampie terre squallide sotto la gelida luce.

Davanti a sé e a oriente videro gli altipiani ventosi della Landa di Rohan che avevano già scorto molti giorni prima dal Grande Fiume. A nord-ovest, maestosa, la buia foresta di Fangorn; le sue propaggini ombrose distavano ancora una decina di leghe, ed i pendii più lontani svanivano nell’azzurro. In fondo, la bianca cima del Methedras, l’ultimo picco delle Montagne Nebbiose, pareva galleggiare su di una nube grigia, ed irradiava una tremula luce. Dalla foresta sbucava l’Entalluvio, ed il suo corso ora rapido e stretto veniva loro incontro, tra due rive profondamente incassate nel terreno. La pista degli Orchi deviava dalle colline e si dirigeva al fiume. Seguendo col suo sguardo penetrante le tracce sino al fiume, e poi il suo corso sino alla foresta, Aragorn vide un’ombra sul verde in lontananza, una macchia scura che si muoveva veloce. Si gettò a terra ed ascoltò di nuovo attentamente. Ma Legolas in piedi accanto a lui, riparandosi i luminosi occhi elfici con la lunga esile mano, non vide ombre né macchie, bensì delle piccole figure di cavalieri, di molti cavalieri, e il bagliore del mattino sulle punte delle loro lance sembrava lo sfavillio di minuscole stelle ai confini della vista d’un mortale. Lontano, dietro a loro, un fumo scuro si alzava in esili spirali.

Il silenzio regnava nelle pianure vuote, e Gimli udiva il frusciar dell’aria fra l’erba.

«Cavalieri!», esclamò Aragorn, balzando in piedi. «Molti cavalieri su rapidi destrieri si dirigono verso di noi!».

«Sì», disse Legolas, «sono centocinque. Hanno capelli biondi e reggono lance scintillanti. Il loro capo è molto alto». Aragorn sorrise. «Penetranti sono gli occhi degli Elfi», disse. «No! I cavalieri distano poco più di cinque leghe», rispose Legolas.

«Che siano cinque o una», aggiunse. Gimli, «non possiamo sfuggirli in questa spoglia campagna. Li aspettiamo qui o proseguiamo per la nostra strada?».

«Aspettiamoli», disse Aragorn. «Sono stanco e la nostra caccia è fallita. O perlomeno, altri ci hanno preceduti; questi cavalieri infatti stanno percorrendo in senso inverso la strada degli Orchi. Ci potrebbero dare delle notizie».

«O dei colpi di lancia», soggiunse Gimli.

«Vi sono tre selle vuote, ma non vedo alcun Hobbit», disse Legolas.

«Non ho detto che avremmo udito buone notizie», ribatté Aragorn. «Ma, buone o cattive che siano, le aspetteremo qui».

I tre compagni si allontanarono dalla sommità del colle, dove, stagliandosi contro il pallido cielo, potevano costituire un facile bersaglio, e discesero lentamente il pendio settentrionale dell’altura. Poco prima di giungere alle falde, si fermarono, ed avvolgendosi bene nei loro manti, si accovacciarono l’uno accanto all’altro sull’erba sbiadita. Il tempo passava lento e greve. Il vento era pungente e penetrante. Gimli si sentiva a disagio.

«Che cosa sai di quei cavalieri, Aragorn?», disse. «Qui seduti aspettiamo forse una morte improvvisa?».

«Sono stato fra loro», rispose Aragorn. «Sono orgogliosi e volitivi, ma il loro cuore è sincero, e i loro atti e pensieri sono generosi; sono temerari ma non crudeli; saggi ma non dotti; non scrivono libri ma cantano molte canzoni, come facevano prima degli Anni Oscuri i bambini degli Uomini. Ma ignoro che cosa sia accaduto qui di recente, e quale sia adesso la posizione dei Rohirrim tra il traditore Saruman e la minaccia di Sauron. Sono stati a lungo gli amici della gente di Gondor, pur non avendo con essa alcun legame di parentela. Nei lontani anni, ormai caduti nell’oblio, Eorl il Giovane li portò seco dal Nord, ed essi sono in qualche modo imparentati con i Bardini della Valle, e con i Beorniani del Bosco, fra i quali ancor oggi si trovano parecchi uomini alti e biondi come i Cavalieri di Rohan. Quel ch’è certo è che non amano gli Orchi».

«Ma Gandalf disse che correva voce che pagassero un tributo a Mordor», disse Gimli.

«Anch’io, come Boromir, non lo credo», rispose Aragorn.

«Apprenderai presto la verità», disse Legolas. «Si stanno avvicinando».

* * *

Infine il lontano rumore di zoccoli galoppanti giunse anche alle orecchie di Gimli. I cavalieri, seguendo la pista, avevano abbandonato il fiume per dirigersi verso le colline. Cavalcavano veloci come il vento.

Le grida di possenti e limpide voci si udirono squillare per i campi. Improvvisamente si arrestarono con un rapido movimento e un rumore di tuono, e il primo cavaliere deviò, passando ai piedi del colle e conducendo la schiera in direzione sud lungo le falde occidentali dei colli. Dietro di lui in una lunga fila galoppavano Uomini abbigliati di cotte di maglia, veloci, brillante, al tempo stesso belli e crudeli nell’aspetto.

I loro cavalli erano imponenti, forti e dall’andatura decisa; i manti grigi scintillanti, le lunghe code svolazzanti al vento, le criniere sciolte sui colli orgogliosi, si accordavano perfettamente con gli Uomini che li montavano, alti e dalle lunghe membra. I loro capelli color di lino, coperti da elmi leggeri, spiovevano in lunghe ciocche sulle spalle: i volti erano severi e gli sguardi penetranti. Stringevano lance di frassino e portavano legati alle spalle degli scudi dipinti; grandi spade pendevano dalle loro cinte e cotte di maglia brunite li coprivano sino alle ginocchia.

Galoppavano appaiati, e sebbene di tanto in tanto uno di essi si rizzasse sulle staffe per guardarsi intorno, essi non parvero notare i tre stranieri seduti in silenzio ad osservarli. La schiera era quasi tutta sfilata quando improvvisamente Aragorn si alzò, gridando con voce possente:

«Che notizie portate dal Nord, Cavalieri di Rohan?».

Con una rapidità e una destrezza stupefacenti arrestarono i destrieri, e girando su se stessi tornarono indietro a gran carriera. Tosto i tre compagni si trovarono circondati da un anello di cavalieri che galoppavano in cerchio, risalendo il pendio alle loro spalle e ridiscendendolo per serrarli sempre più da vicino. Aragorn era silenzioso e i due compagni sedevano immobili, domandandosi quale piega avrebbero preso gli eventi.

Senza una parola né un grido, d’un tratto, i Cavalieri si arrestarono. Una selva di lance fu puntata contro gli stranieri; alcuni di essi stringevano degli archi, con le frecce già pronte per scoccare. Uno dei Cavalieri si fece avanti, un uomo alto più degli altri; dal suo elmo spioveva a guisa di criniera una bianca coda di cavallo. Quando la punta della sua lancia fu a un piede dal petto di Aragorn, si fermò. Aragorn non si mosse.

«Chi sei, e che fai in questa terra?», disse il Cavaliere nella Lingua Corrente dell’Ovest, idioma dai termini e accento uguali a quelli del linguaggio di Boromir, Uomo di Gondor.

«Il mio nome è Grampasso», rispose Aragorn. «Vengo dal Nord. Sto inseguendo gli Orchi».

Il Cavaliere balzò giù dal suo destriero. Dopo aver affidato la lancia ad uno dei suoi che s’era avvicinato al suo fianco, sguainò la spada e si piantò innanzi ad Aragorn, osservandolo attentamente e non senza meraviglia. Infine parlò nuovamente.

«Sulle prime avevo creduto che voi stessi foste degli Orchi», disse; «ma ora mi accorgo dell’errore. Anzi, dovete sapere ben poco sul conto degli Orchi, se li inseguite in codesto modo. Erano veloci, bene armati e numerosi. Vi sareste trasformati da cacciatori in prede se mai foste riusciti a raggiungerli. Ma vi è in te qualcosa di strano, Grampasso». I suoi luminosi occhi chiari si posarono di nuovo sul Ramingo. «Il tuo nome non è quello di un Uomo. Strano è anche il tuo abbigliamento. Siete forse emersi dall’erba? Come Siete potuti sfuggire ai nostri sguardi? Appartenete alla stirpe elfica?».

«No», rispose Aragorn. «Vi è un solo Elfo fra noi, Legolas del Reame Boscoso nel lontano Bosco Atro. Siamo però passati da Lothlórien, e i doni e la benevolenza della Dama ci accompagnano».

Il Cavaliere li guardò con crescente meraviglia, ma il suo sguardo si fece duro. «Esiste dunque veramente una Dama nel Bosco d’Oro, come narrano le antiche storie!», esclamò. «Dicono che pochi riescono a sfuggire dalle sue reti. Che tempi strani sono questi! Ma se godete della sua benevolenza, potreste essere anche voi tessitori di reti e maghi». Lanciò a Legolas e a Gimli un improvviso sguardo gelido. «Perché tacete, voi silenziosi?», domandò con tono imperioso.

Gimli si levò piantandosi sulle gambe divaricate: con la mano stringeva la sua ascia ed i suoi occhi scuri lanciavano fiamme. «Dimmi il tuo nome, o Signore di Cavalli, ed io ti dirò il mio, e altre cose ancora», disse.

«Quanto a ciò», ribatté il Cavaliere abbassando sul Nano uno sguardo corrucciato, «tocca allo straniero presentarsi per primo. Comunque il mio nome è Éomer, figlio di Éomund, e vengo chiamato Terzo Maresciallo del Riddermark».

«Ed allora, Éomer, figlio di Éomund, Terzo Maresciallo del Riddermark, lascia che Gimli, figlio del Nano Glóin, ti metta in guardia contro le tue sciocche parole. Parli con malvagità di ciò ch’è bello più di quanto tu non possa immaginare, e la tua unica scusa è la poca intelligenza».

Gli occhi di Éomer fiammeggiarono, e gli Uomini di Rohan mormorarono incolleriti restringendo il cerchio e puntando le loro lance. «Ti taglierei la testa con la barba e tutto il resto, Messere Nano, se solo fosse un po’ più alta da terra», disse Éomer.

«Egli non è solo», interloquì Legolas, tendendo il suo arco e sistemando una freccia con movimenti così veloci che lo sguardo quasi non riusciva a seguirli. «Moriresti prima di vibrare il colpo».

Éomer brandì la spada, e le cose si sarebbero messe male se Aragorn non si fosse piantato fra loro levando una mano. «Perdona, Éomer!», esclamò. «Quando saprai di più capirai perché i miei compagni si sono incolleriti. Non nutriamo intenti malvagi verso Rohan o i suoi abitanti, siano essi Uomini o cavalli. Non vuoi sentire la nostra storia prima di colpire?».

«Starò a sentire», rispose Éomer abbassando la lama. «Ma coloro che attraversano il Riddermark si dimostrerebbero saggi, se fossero meno altezzosi, in questi giorni di dubbio. Dimmi innanzi tutto il tuo vero nome».

«Dimmi prima chi servi», rispose Aragorn. «Sei tu nemico o amico di Sauron, l’Oscuro Signore di Mordor?».

«Io servo solo il Signore del Mark, Re Théoden figlio di Thengel», replicò Éomer. «Non serviamo la Potenza della lontana Terra Nera, ma non vi è nemmeno fra noi guerra aperta; e se tu stai fuggendo da essa faresti meglio ad abbandonare questo paese. Ormai vi sono battaglie lungo tutte le nostre frontiere, e siamo minacciati; ma noi desideriamo soltanto essere liberi e continuare a vivere come sempre, conservando ciò ch’è nostro senza dover obbedire a signori stranieri, buoni o cattivi che siano. In tempi migliori solevamo accogliere gli ospiti più calorosamente, ma ormai lo straniero che giunge inatteso ci trova risoluti e duri. Suvvia! Chi siete? E chi servite, voi? Agli ordini di chi inseguite gli Orchi nel nostro paese?».

«Non servo nessuno», rispose Aragorn; «ma inseguo i servi di Sauron ovunque essi vadano. Pochi Uomini Mortali conoscono meglio di me gli Orchi; e se do loro la caccia, è per necessità. Gli Orchi che inseguiamo hanno fatto prigionieri due miei amici. In situazioni così urgenti un Uomo senza cavallo va a piedi e non chiede il permesso di seguire la pista. E conterà le teste dei suoi nemici soltanto con la propria spada. Io non sono inerme».

Aragorn aprì il manto. La guaina elfica scintillò nelle sue mani e la brillante lama di Andùril lanciò il bagliore d’una fiamma improvvisa quando egli la sfoderò. «Elendil!», gridò. «Io sono Aragorn figlio di Arathorn, e son chiamato anche Elessar, la Gemma Elfica, Dùnadan, erede di Isildur, figlio di Elendil di Gondor. Ecco la Spada che fu Rotta e che fu di nuovo forgiata! Hai tu intenzione di aiutarmi o di opporti? Scegli immediatamente!».

Gimli e Legolas guardarono il loro compagno stupefatti, poiché mai lo avevano veduto in quel modo. Pareva esser cresciuto, mentre Éomer era diventato più piccolo; sul suo volto animato lampeggiò l’immagine della potenza e della maestà dei re di pietra. Per un attimo gli occhi di Legolas credettero di veder scintillare una fiamma bianca come una corona brillante sulla fronte di Aragorn.

Éomer indietreggiò e sul suo viso vi era timore e venerazione. Abbassò gli occhi orgogliosi. «Questi sono davvero giorni strani», mormorò. «Sogni e leggende divengono realtà e sorgono dall’erba dei prati.

«Dimmi, sire», domandò, «qual è il motivo che ti ha portato in questi luoghi? E qual era il significato delle tue oscure parole? Da lungo tempo ormai Boromir figlio di Denethor è partito in cerca di risposta, e il cavallo che gli prestammo è tornato senza cavaliere. Che destino porti teco dal Nord?».

«Il vostro destino ormai è di scegliere», disse Aragorn. «Ed a Théoden figlio di Thengel dovrai dire ciò: una guerra aperta lo attende, con Sauron o contro di lui. Nessuno può continuare a vivere come in passato, e pochi conserveranno ciò che appartiene loro. Ma di questi importanti problemi parleremo più tardi. Se il fato vorrà, mi recherò di persona dal re. Ma adesso ho bisogno di aiuto, o almeno di notizie. Hai udito che stiamo inseguendo una schiera di Orchi impadronitasi dei nostri amici. Che cosa puoi dirci in proposito?».

«Che non è più necessario il vostro inseguimento», rispose Eomer. «Gli Orchi sono stati distrutti». «Ed i nostri amici?».

«Non vi era nessuno oltre gli Orchi».

«Ma ciò è assai strano», ribatté Aragorn. «Avete osservato attentamente i caduti? Non avete trovato corpi diversi da quelli degli Orchi? Corpi molto più minuti che si potevano scambiare per bambini, scalzi ma vestiti di grigio?».

«Non vi erano Nani, né bambini», disse Éomer. «Contammo tutti i caduti e li spogliammo, e dopo aver ammonticchiato i cadaveri li bruciammo secondo le nostre abitudini. Le ceneri fumano ancora».

«Noi non parliamo di Nani, né di bambini», disse Gimli. «I nostri amici erano Hobbit».

«Hobbit?», ripeté Éomer. «E che razza di gente sarebbe? Hanno uno strano nome».

«Un nome strano per della gente strana», rispose Gimli. «Ma questi ci erano molto cari. Pare che abbiate avuto notizia, qui a Rohan, delle parole che turbarono Minas Tirith: nominavano i Mezzuomini. Questi Hobbit sono Mezzuomini».

«Mezzuomini!», esclamò ridendo il Cavaliere al fianco di Éomer. «Mezzuomini! Ma è soltanto un popolo di piccoli esseri di cui parlavano vecchie canzoni e leggende del Nord. Stiamo camminando in un mondo di favole, O su verdi praterie alla luce del sole?».

«È possibile fare ambedue le cose», disse Aragorn. «Poiché non siamo noi, bensì coloro che verranno dopo, a creare le leggende sui nostri tempi. Parli delle verdi praterie? È uno splendido argomento per una favola, anche se le calpesti alla luce del sole!».

«Il tempo preme», disse il Cavaliere senza far caso alle parole di Aragorn. «Dobbiamo affrettare il nostro viaggio a sud, sire. Lasciamo perdere codesta gente selvaggia e le sue fantasie. O leghiamoli per portarli al re».

«Pace, Éothain!», disse Éomer nel proprio idioma. «Lasciami solo. Va’ a dire alla éored di radunarsi sul sentiero e prepararsi a raggiungere l’Entalluvio».

* * *

Éothain si ritirò borbottando e parlò al resto degli uomini. Tosto si allontanarono lasciando Éomer solo con i tre compagni.

«Tutto ciò che dici è strano, Aragorn», disse. «Eppure è tutto vero, lo sento: gli Uomini del Mark non mentono, e non è facile perciò ingannarli. Ma non hai detto tutto. Perché non parlarmi ora più chiaramente della tua missione, affinché possa decidere il da farsi?».

«Partii da Imladris, chiamato così nei poemi, molte settimane fa», rispose Aragorn. «Venne con me anche Boromir di Minas Tirith. Il mio compito era di recarmi in quella città col figlio di Denethor per aiutare il suo popolo a lottare contro Sauron. Ma la Compagnia con la quale viaggiavamo aveva un’altra missione, di cui ora non ti posso parlare. Il nostro capo era Gandalf il Grigio».

«Gandalf!», esclamò Éomer. «Gandalf Grigiomanto è conosciuto nel Mark; ma il suo nome, ti avverto, non è più la parola adatta per chi voglia conquistarsi la simpatia del re. Gli Uomini rammentano che è stato ospite di questo paese molte volte, libero di venire quando volesse, dopo una stagione o dopo parecchi anni. Egli è sempre messaggero di strani eventi: porta il male con sé, dicono adesso alcuni.

«Effettivamente, dalla sua ultima venuta l’estate scorsa, ogni cosa è andata male. Allora incominciarono gli screzi con Saruman. Sino a quell’epoca lo consideravamo un amico, ma Gandalf venne un giorno ad avvertirci che ad Isengard si preparava una guerra improvvisa. Disse di essere stato prigioniero ad Orthanc, da dove a malapena era riuscito a scappare, e chiedeva aiuto. Ma Théoden non volle ascoltarlo ed egli se ne andò. Non pronunciare il nome di Gandalf ad alta voce innanzi a Théoden! Il re è molto incollerito. Gandalf infatti prese con sé il cavallo chiamato Ombromanto, il più prezioso di tutti i destrieri del re, il capo dei Mearas, che soltanto il Signore del Mark ha diritto di cavalcare. Il capostipite di quella razza fu infatti il grande cavallo di Eorl che conosceva il linguaggio degli Uomini. Sette notti addietro Ombromanto è ritornato, ma la collera del re non è diminuita, perché il cavallo adesso è selvaggio e non si lascia montare da nessuno».

«Allora Ombromanto ha trovato da solo la via del ritorno dal lontano Nord», disse Aragorn, «perché fu lì che Gandalf e lui si lasciarono. Ma, ahimè! Gandalf non cavalcherà più. Egli cadde nel buio delle Miniere di Moria e più non tornerà fra noi».

«Queste sono notizie penose», disse Éomer. «Almeno per me e per molti altri, ma non per tutti; e te ne accorgerai se vieni dal re con noi».

«Nessuno in questo paese può capire quanto grave e dolorosa sia la notizia, eppure fra non molto essi potrebbero risentirne duramente il colpo», disse Aragorn. «Ma quando cadono i grandi, tocca ai piccoli guidare. E il mio compito è stato di condurre la nostra Compagnia lungo il cammino dalla lontana Moria. Attraversammo Lórien di cui sarebbe bene tu apprendessi la verità prima di riparlarne e proseguimmo lungo il Grande Fiume sino alle cascate di Rauros. Ivi Boromir fu ucciso dai medesimi Orchi che voi ora avete distrutti».

«Le tue notizie sono tutte infauste!», esclamò costernato Éomer. «Questa morte è per Minas Tirith e per tutti noi una grande sventura. Boromir era un valoroso! Tutti cantavano le sue lodi. Veniva di rado nel Mark, perché era sempre ad est a combattere lungo le frontiere; ma io l’ho conosciuto. Era più simile ai rapidi figli di Eorl che non ai gravi Uomini di Gondor, o tale mi parve, e probabilmente sarebbe divenuto un ottimo capo per il suo popolo quando fosse giunta la sua ora. Ma da Gondor non ci era arrivata nuova di un così grave lutto. Quando è accaduto il fatale evento?».

«Sono passati oggi tre giorni dalla sua morte», rispose Aragorn; «noi ci mettemmo in marcia la sera stessa, partendo dall’ombroso Tol Brandir».

«A piedi?», esclamò Éomer.

«Sì, come puoi vedere tu stesso».

Un’enorme stupefazione si dipinse negli occhi di Éomer. «Grampasso è un nome troppo modesto, figlio di Arathorn», disse. «Piedealato ti chiamerò io. Questa impresa dei tre amici dovrebbe esser decantata in molte e molte dimore. Quarantacinque leghe avete percorso prima della fine del quarto giorno! Robusta è la stirpe di Elendil!

«Ma ora, sire, che cosa posso fare per voi? Devo tornare in fretta da Théoden. Ho parlato cautamente innanzi ai miei uomini: è vero che ancora non è stata dichiarata apertamente la guerra con la Terra Nera, e alcuni, all’orecchio del re, sussurrano consigli codardi; ma la guerra sta per giungere. Non tradiremo la nostra alleanza antica con Gondor, e li aiuteremo sino a quando combatteranno: queste sono le parole mie e di coloro che combattono con me. Il Mark orientale mi è stato affidato, ed io ho allontanato tutte le nostre bestie ed i mandriani, facendoli ritirare oltre l’Entalluvio ed installando qui soltanto sentinelle e veloci esploratori».

«Non pagate dunque un tributo a Sauron?», domandò Gimli. «Non lo paghiamo e non l’abbiamo mai fatto», rispose Éomer, ed i suoi occhi lampeggiarono; «ma una simile menzogna è giunta sino alle mie orecchie. Alcuni anni fa il Signore della Terra Nera ci offrì un prezzo molto alto per i nostri cavalli, ma noi rifiutammo perché egli adopera gli animali per scopi malvagi. Fu così che mandò gli Orchi a saccheggiare il paese, e questi presero quanto poterono, scegliendo sempre cavalli neri: infatti ne sono rimasti ben pochi. Per questo motivo tra noi e gli Orchi vige una faida spietata.

«Ma per il momento la nostra maggiore preoccupazione è Saruman. Pretende di dominare tutto questo territorio, e da parecchi mesi ormai tra noi infierisce la guerra. Ha preso al suo servizio Orchi e Montatori di Lupi e Uomini malvagi, ed ha chiuso la Breccia con i suoi eserciti: è probabile che saremo assediati da ovest e da est.

«È arduo lottare contro un tale nemico: è uno stregone al tempo stesso astuto ed abile, esperto nel mutare sembianze. Sembra che passeggi qua e là travestito da vecchio con manto e cappuccio, molto simile a Gandalf, dicono alcuni. Le sue spie riescono ad attraversare le reti dalle maglie più fitte, e i suoi uccelli del malaugurio esplorano i cieli. Non so come finirà tutto ciò, e il mio cuore teme il peggio; mi pare infatti che non tutti i suoi amici vivano a Isengard. Ma se vieni alla reggia te ne renderai conto personalmente. Perché non ci accompagni dal re? È vana la mia speranza che tu sia stato inviato in mio aiuto in quest’ora di dubbio e di bisogno?».

«Verrò quando mi sarà possibile», rispose Aragorn.

«Vieni subito!», lo pregò Éomer. «L’Erede di Elendil sarebbe una vera forza per i Figli di Eorl in questa tragica situazione. Ora nell’Ovesternnet infierisce la guerra, e temo che la battaglia termini male per noi.

«A dire il vero sono partito per questa spedizione a nord senza il permesso del re, poiché in mia assenza la sua dimora rimane poco custodita. Ma alcuni esploratori mi avvertirono tre notti fa dell’arrivo di una schiera di Orchi che venivano dal Muro Orientale, e mi riferirono che fra loro ve ne erano alcuni con i distintivi bianchi di Saruman. Sospettando così ciò che temo maggiormente, un’alleanza tra Orthanc e la Torre Oscura, partii velocemente con la mia éored, il reparto di cui ho il comando diretto, e due giorni fa sul calar della notte raggiungemmo gli Orchi ai margini dell’Entobosco. Li circondammo, e li assalimmo ieri all’alba. Ho perso quindici uomini e dodici cavalli, ahimè!, perché gli Orchi erano più numerosi di quanto pensassimo. Furono raggiunti da altri che venivano dall’Est attraverso il Grande Fiume: le loro tracce si scorgono chiaramente un po’ più a nord di qui. Altri ancora giunsero dalla foresta. Grandi Orchi che portavano anch’essi come distintivo la Bianca Mano d’Isengard: sono costoro i più robusti e crudeli.

«Riuscimmo tuttavia ad annientarli. Ma siamo stati lontani da casa per troppo tempo. C’è bisogno di noi a sud e a ovest. Perché non venite con noi? Come vedete, abbiamo qualche cavallo in più. Un bel po’ di lavoro attende la Spada, e troveremmo facilmente come adoperare l’ascia di Gimli e l’arco di Legolas, se essi perdoneranno le mie avventate parole sul conto della Dama della Foresta: le mie parole erano quelle di un abitante qualsiasi di questa terra, e sarei felice di saperne di più».

«Ti ringrazio per le tue gentili parole», disse Aragorn, «e il mio cuore desidera accompagnarti; ma non posso abbandonare i miei amici finché rimane ancora qualche speranza».

«Non rimane alcuna speranza», ribatté Éomer. «Non troverete i vostri amici alle frontiere settentrionali».

«Eppure sappiamo di sicuro che non sono dietro di noi. Abbiamo trovato un segno, non lontano dal Muro Orientale, che dimostra chiaramente che almeno uno di loro era ancor vivo. Ma tra il muro e i colli non abbiamo scorto altre tracce, e non ho veduto alcun’orma deviare, a meno che io non sia più capace di cercare».

«E allora che cosa potrebbe essere accaduto, secondo te?».

«Lo ignoro. Potrebbero essere stati uccisi, e bruciati insieme con gli Orchi; ma tu dici che ciò non è possibile, e ti credo. L’unica spiegazione diversa che io riesca a immaginare è che li abbiano trascinati nella foresta prima della battaglia, forse persino prima che accerchiaste i nemici. Giureresti che nessuno è fuggito in quel momento?».

«Giurerei che nessun Orco è fuggito, dopo che noi li abbiamo avvistati», rispose Éomer. «Raggiungemmo i margini del bosco prima di loro, e un essere umano che fosse riuscito a eludere la nostra sorveglianza non poteva essere un Orco, e doveva possedere qualche virtù elfica».

«I nostri amici erano abbigliati come noi», disse Aragorn, «e voi siete passati senza scorgerci in piena luce del giorno».

«Me ne ero dimenticato», disse Éomer. «È difficile esser certi di qualcosa fra tante meraviglie. È divenuto così strano il mondo! Elfi e Nani camminano insieme sulle nostre praterie, in pieno giorno; c’è gente che parla con la Dama della Foresta, eppur rimane in vita; e ritorna a combattere finanche la Spada che fu Rotta nei tempi remoti, prima che i padri dei nostri padri giungessero nel Mark! Come può un uomo in tempi come questi decidere quel che deve fare?».

«Come ha sempre fatto», disse Aragorn. «Il bene e il male sono rimasti immutati da sempre, e il loro significato è il medesimo per gli Elfi, per i Nani e per gli Uomini. Tocca ad ognuno di noi discernerli, tanto nel Bosco d’Oro quanto nella propria dimora».

«È vero ciò che dici», rispose Éomer. «Ma i miei dubbi non riguardano te, né ciò che il mio cuore farebbe. Tuttavia non sono libero di fare ogni cosa secondo i miei desideri. Sarebbe una violazione della nostra legge, permettere che degli stranieri girino liberamente per il paese, prima che il re in persona ne abbia dato loro il permesso; ed in questi giorni pericolosi bisogna attenersi più che mai agli ordini che ci vengono impartiti. Ti ho pregato di accompagnarci spontaneamente, e hai rifiutato. Ma al mio cuore ripugna una battaglia di cento contro tre».

«Non credo che le tue leggi siano state create per occasioni come questa», disse Aragorn; «inoltre non si può dire che io sia uno straniero, poiché son venuto più volte in questa terra e ho cavalcato nelle schiere dei Rohirrim, anche se il mio nome e le mie sembianze erano allora diverse. Tu sei giovane, ed io non ti avevo mai veduto, ma conosco Éomund tuo padre e Théoden figlio di Thengel. Nei tempi che furono, un grande signore di codesta terra non avrebbe mai costretto un uomo ad abbandonare una missione come la mia. Non v’è dubbio alcuno sul mio dovere: andare avanti. Suvvia, figlio di Éomund, è ora di decidere. Aiutaci, o nel peggiore dei casi lasciaci liberi. Oppure tenta, se vuoi, di obbedire alle leggi: qualora tu lo facessi un minor numero di uomini tornerebbe alla guerra o presso il tuo re».

Éomer rimase un attimo silenzioso, e infine parlò. «Ambedue abbiamo molta fretta», disse. «La mia schiera è impaziente di andar via ed ogni ora che passa diminuisce la tua speranza. Ecco perciò la mia decisione. Vi permetto di andare; inoltre, vi presterò i cavalli. In cambio vi chiedo solo una cosa: quando la tua missione sarà compiuta, o avrai perso ogni speranza, ritorna coi cavalli al di là dell’Entalluvio sino a Meduseld, il grande palazzo ove dimora adesso Théoden a Edoras. Gli dimostrerai così che la mia decisione non è stata erronea. E nel far ciò sappi ch’io pongo la mia sorte e fors’anche la mia vita nelle tue mani: esse dipendono ormai dalla tua fedeltà alla parola data. Non la tradire».

«Non lo farò», rispose Aragorn.

* * *

Grande fu la meraviglia degli uomini di Éomer, e molti gli sguardi cupi e dubbiosi, quando egli ordinò che i cavalli disponibili fossero dati agli stranieri; ma Éothain fu l’unico che osasse parlare apertamente.

«Capisco ancora che tu li dia a questo sire che dice di appartenere alla stirpe di Gondor», obiettò, «ma si è mai sentito dire di un cavallo del Mark affidato a un Nano?».

«No, mai», disse Gimli. «E non preoccuparti: nessuno mai lo sentirà dire. Meglio camminare che star seduto in groppa a una bestia così grande, concessa spontaneamente o a malincuore».

«Ma adesso se non monti ci intralcerai», disse Aragorn.

«Suvvia, siederai dietro di me, amico Gimli», disse Legolas. «Così tutto è a posto; non prenderai in prestito un destriero e non sarai turbato».

Un grande cavallo grigio scuro fu portato ad Aragorn che gli montò in groppa. «Il suo nome è Hasufel», disse Éomer. «Che ti possa condurre bene, e verso una sorte migliore di quella di Gàricif, il suo antico padrone!».

Un cavallo più piccolo e leggero, ma focoso e recalcitrante, fu consegnato a Legolas. Si chiamava Arod. Legolas chiese che fossero tolte sella e redini. «Non ne ho bisogno», disse, e con un agile balzo fu in groppa: con somma meraviglia di tutti, Arod si mostrò mansueto e condiscendente con il nuovo padrone, obbedendo alla minima parola di comando: tale era infatti la maniera elfica di trattare tutti i bravi animali. Sollevarono Gimli e lo deposero dietro al suo amico, al quale si afferrò pressappoco con la medesima disinvoltura mostrata da Sam Gamgee in una barca.

«Addio! e che vi sia concesso di trovare ciò che cercate!», gridò Éomer. «Ritornate al più presto possibile, affinché le nostre spade possano poi brillare insieme!».

«Tornerò», disse Aragorn.

«Tornerò anch’io», disse Gimli. «Non abbiamo concluso il discorso su Dama Galadriel. Devo ancora insegnarti a parlare con gentilezza».

«Vedremo», disse Éomer. «Sono accadute tante e così strane cose, che apprendere a lodare una graziosa dama sotto gli amorevoli colpi dell’ascia di un Nano non sarà più per me motivo di stupore. Addio!».

* * *

Con ciò si separarono. Velocissimi erano i cavalli di Rohan; quando poco dopo Gimli si voltò a guardare, Éomer e la sua gente erano già piccoli e lontani. Aragorn non si voltò; osservava la pista che seguivano al galoppo, chinando il capo sul collo di Hasufel. In poco tempo giunsero nelle vicinanze dell’Entalluvio, ove incontrarono le altre impronte di cui aveva parlato Éomer, provenienti dalle Lande Orientali.

Aragorn smontò per osservare il terreno; poi, risalì in sella e cavalcò per un breve tratto verso est, mantenendosi parallelo alla pista per non calpestare le impronte. Smontò nuovamente e scrutò la terra, camminando avanti e indietro.

«C’è poco da scoprire», disse tornando dai compagni. «La pista principale è stata quasi cancellata dai Cavalieri di ritorno dalla spedizione, mentre all’andata avevano probabilmente percorso un sentiero più vicino al fiume. Ma queste tracce che provengono da est sono più recenti e più distinte. Non vi sono impronte che si dirigano nell’altra direzione, e che ritornino verso l’Anduin. D’ora in poi dovremo cavalcare più lentamente, e assicurarci che né tracce né orme si allontanino dalle altre. Gli Orchi si devono essere resi conto a questo punto che erano inseguiti; potrebbero aver compiuto qualche tentativo per allontanare i prigionieri prima di essere raggiunti».

* * *

A mano a mano che avanzavano, il tempo si faceva cupo e minaccioso. Nuvole basse e grigie coprirono le Lande. Il sole fu offuscato da una leggera nebbia. Le boscose pendici di Fangorn divenivano sempre più imponenti e vicine, e buie con l’allontanarsi del sole verso occidente. Non scorsero tracce a destra o sinistra della pista principale, ma di tanto in tanto incontravano il corpo di qualche Orco; erano caduti mentre correvano, uccisi da frecce piumate di grigio che avevano confitte nella schiena o nel collo.

Infine, prima che terminasse il pomeriggio, giunsero ai margini del bosco, ove in una grande radura in mezzo ai primi alberi, trovarono i resti dell’immenso falò: le ceneri erano ancora calde e fumanti. Accanto, un mucchio di elmi e di cotte di maglia, di scudi spaccati e di spade in frantumi, di archi e di frecce e di altri strumenti bellici. Su un’asta nel mezzo era infissa la grossa testa di un Orco; si poteva ancora distinguere sull’elmo sconquassato lo stemma bianco. Un po’ più lontano, nei pressi del fiume che emergeva dal verde della foresta, vi era un tumulo. Era stato eretto da poco: la terra fresca era ricoperta di zolle erbose recentemente tagliate, e tutt’intorno erano piantate quindici lance.

Aragorn e i suoi compagni esplorarono tutto il campo di battaglia, ma la luce sbiadiva rapidamente e subito scese la sera, nebbiosa e caliginosa. La notte sopraggiunse ed essi non avevano trovato tracce di Merry e Pipino.

«Non possiamo fare più nulla», disse Gimli tristemente. «Ci siamo trovati innanzi a molti enigmi da quando arrivammo a Tol Brandir, ma questo è il più arduo da risolvere. Suppongo che le ceneri degli Hobbit siano ormai confuse con quelle degli Orchi. Sarà una notizia assai penosa per Frodo, se un giorno ne verrà a conoscenza; assai penosa anche per il vecchio Hobbit che aspetta a Gran Burrone. Elrond non voleva che i due giovani ci accompagnassero». «Ma Gandalf non era della medesima opinione», disse Legolas. «Gandalf decise di venire, e fu il primo a mancare», ribatté Gimli. «Non seppe prevedere le sventure».

«I consigli di Gandalf non prevedevano la sicurezza futura degli altri e di lui stesso», replicò Aragorn. «Certe cose, è meglio intraprenderle che rifiutarle, anche se il loro esito è oscuro. Ma non voglio ancora lasciare questo posto. In ogni caso dobbiamo attendere qui la luce del mattino».

* * *

A poca distanza dalla radura installarono il loro campo ai piedi d’un albero imponente: pareva un castagno, eppure portava ancora molte grandi foglie brune dell’anno precedente, come mani aride dalle lunghe dita tese; fremevano tristemente nella brezza notturna.

Gimli tremava dal freddo. Avevano una sola coperta a testa. «Accendiamo un fuoco», disse. «Non temo più il pericolo. Che gli Orchi si avvicinino pure, numerosi come moscerini intorno a una candela!».

«E poi, se quei disgraziati Hobbit si sono smarriti nei boschi, un fuoco potrebbe attirarli sin qui», soggiunse Legolas.

«E potrebbe attirare anche altre cose, oltre gli Orchi e gli Hobbit», disse Aragorn. «Siamo vicini ai confini montagnosi del territorio di Saruman il traditore. Siamo anche ai margini di Fangorn, e dicono che sia pericoloso toccare gli alberi di questa foresta».

«Ma i Rohirrim ieri hanno acceso un grande falò, a quanto vedo dagli alberi tagliati», ribatté Gimli. «Eppure passarono qui la notte senza inconvenienti».

«Erano in molti», disse Aragorn, «e inoltre non temono la collera di Fangorn, poiché vengono raramente da queste parti, e non si avventurano fra gli alberi. Ma è molto probabile che il nostro sentiero ci conduca nel bel mezzo del bosco, per cui state attenti! Prendete solo la legna secca».

«Ne abbiamo in abbondanza», rispose Gimli. «I Cavalieri hanno lasciato trucioli e ramoscelli, e c’è gran quantità di legna morta qui per terra». Andò a raccogliere combustibile, e incominciò i preparativi per accendere il fuoco. Ma Aragorn sedeva silenzioso, appoggiato al grande albero, profondamente immerso nei pensieri; Legolas, solo in piedi allo scoperto, guardava la profonda oscurità del bosco, teso in avanti come in ascolto di voci provenienti da lontano.

Quando il Nano riuscì ad accendere una piccola fiamma luminosa, i tre compagne si sedettero stretti tutt’intorno, nascondendo la luce con le loro figure incappucciate. Legolas levò lo sguardo verso i rami dell’albero tesi sul loro capo.

«Guardate!», esclamò. «L’albero è felice del fuoco!».

Erano forse le ombre danzanti che ingannavano i loro occhi, eppure ognuno fu certo di vedere le fronde curvarsi da un lato e dall’altro, ed i rami superiori chinarsi verso terra per avvicinarsi alle fiamme. Le foglie rossicce erano adesso tese, e parevano strofinarsi fra loro come fredde mani screpolate avide di tepore.

D’un tratto vi fu un silenzio, perché l’oscura e ignota foresta, così vicina, si fece improvvisamente sentire come una presenza grande e avviluppante, piena di misteriosi intenti. Dopo qualche tempo Legolas parlò di nuovo.

«Celeborn ci raccomandò di non inoltrarci molto nella foresta di Fangorn», disse. «Perché, Aragorn? Quali sono le leggende che Boromir aveva udito?».

«Io ho sentito narrare molte storie a Gondor e altrove», rispose Aragorn, «ma se non fosse per le parole di Celeborn, le considererei soltanto favole create dagli Uomini quando i veri ricordi erano ormai sbiaditi. Avevo intenzione di chiedere a te la verità: ma se un Elfo del Bosco non la conosce, come può un Uomo saperla?».

«Hai viaggiato più di me», rispose Legolas. «Nel mio paese nulla avevo udito di tutto ciò; vi sono soltanto alcune canzoni che narrano come gli Onodrim, che gli Uomini chiamano Ent, vivevano in queste contrade tanto tempo addietro. Fangorn infatti è assai vecchio, persino per gli Elfi».

«Sì, è vecchio», disse Aragorn, «antico come la foresta vicina ai Tumulilande, e molto più grande. Elrond dice che i due boschi sono affini; sarebbero le ultime fortezze rimaste dai Tempi Remoti, quando i Priminati vagavano per il mondo e gli Uomini dormivano ancora. Eppure Fangorn ha qualche suo segreto particolare, che io però ignoro».

«E che io non desidero conoscere», interloquì Gimli. «Che nulla di ciò che vive a Fangorn si preoccupi di me!».

Tirarono a sorte i turni di guardia, ed il primo toccò a Gimli. Gli altri si coricarono. Il sonno li colse quasi immediatamente. «Gimli!», disse Aragorn nel dormiveglia. «Ricorda, è pericoloso tagliare rami e fronde agli alberi vivi di Fangorn. Ma non ti allontanare troppo in cerca di legna. Lascia piuttosto che il fuoco si spenga! E chiamami se hai bisogno di qualcosa!».

Mentre diceva questo si addormentò. Legolas giaceva immobile, con le belle mani incrociate sul petto e gli occhi aperti, fondendo la realtà della notte con i sogni profondi, come sogliono fare gli Elfi. Gimli si rannicchiò accanto al fuoco, toccando pensieroso col pollice la lama della sua ascia. L’albero frusciava. Non si udivano altri rumori.

D’un tratto Gimli levò lo sguardo, e vide al margine della zona di luce un vecchio curvo appoggiato a un bastone, avvolto in un ampio mantello; un cappello dalle larghe falde gli copriva gli occhi. Gimli balzò in piedi, ancora troppo stupefatto per gridare, nonostante gli fosse subito balenata alla mente l’idea che Saruman li avesse scoperti. Aragorn e Legolas, ambedue destati dal suo brusco movimento, si misero a sedere, rimanendo di sasso dallo stupore. Il vecchio non pronunziò parole e non fece alcun segno.

«Ebbene, padre, cosa possiamo fare per te?», domandò Aragorn saltando in piedi. «Avvicinati e riscaldati, se hai freddo!». Fece un passo avanti, ma il vecchio era svanito. Non trovarono alcuna traccia della sua presenza nei paraggi, e non ebbero il coraggio di spingersi lontano. La luna si era coricata e la notte era buia.

Improvvisamente Legolas lanciò un grido. «I cavalli! I cavalli!».

I cavalli erano scomparsi. Erano fuggiti trascinando seco i paletti ai quali li avevano legati. I tre compagni rimasero a lungo immobili e silenziosi, profondamente turbati da questo nuovo colpo di sfortuna. Si trovavano sotto le prime fronde di Fangorn, ed innumerevoli leghe li separavano dagli Uomini di Rohan, gli unici amici che avessero in un territorio vasto e pericoloso. Credettero di udire, lontano nella notte, il suono di cavalli che nitrivano. Poi regnò di nuovo il silenzio completo, interrotto solo dal freddo fruscio del vento.

* * *

«Ebbene, sono scomparsi», disse finalmente Aragorn. «Non riusciremo mai a trovarli o a raggiungerli; perciò, a meno che non ritornino di loro spontanea iniziativa, dobbiamo farne senza. Siamo partiti a piedi, e i piedi perlomeno non sono ancora scomparsi».

«Piedi!», esclamò Gimli. «Ma non possiamo mangiarli, oltre ad usarli per camminare». Gettò un po’ di legna sul fuoco e vi si accasciò vicino.

«Poche ore fa ti rifiutavi persino di sederti in groppa a un cavallo di Rohan», disse ridendo Legolas. «Diventerai proprio un bel cavaliere!».

«Ci son poche probabilità che ciò si avveri», ribatté Gimli.

«Se vuoi sapere che cosa penso», soggiunse dopo qualche minuto, «credo che l’artefice di tutto sia Saruman. Chi altro avrebbe potuto? Rammenta le parole di Éomer: Passeggia qua e là travestito da vecchio con manto e cappuccio. Così ci aveva detto. E Saruman se ne è andato portandosi via i cavalli, o facendoli scappare dalla paura; ed eccoci qui. Ma badate bene a ciò che vi dico: non sono finite le nostre sventure!».

«Ci bado», disse Aragorn. «Ma avevo anche badato al copricapo del vecchio, che era un cappello, e non un cappuccio. Tuttavia non dubito che le tue supposizioni siano fondate, e che corriamo seri pericoli qui, di notte o di giorno. Eppure l’unica cosa che ci resti da fare, è riposare finché ci è ancora possibile. Monterò io la guardia per un po’, Gimli. Ho più bisogno di riflettere che di dormire».

La notte trascorse lenta. Legolas vegliò dopo Aragorn, e Gimli dopo Legolas, ed i loro turni di guardia si esaurirono. Ma non accadde nulla. Il vecchio non ricomparve, e i cavalli non tornarono.

CAPITOLO III GLI URUK-HAI

Pipino era immerso in un sogno buio e irrequieto: gli pareva di udire la propria esile voce echeggiare in oscure gallerie e chiamare Frodo! Frodo! Ma invece di Frodo, centinaia di abominevoli facce di Orchi sghignazzavano nell’ombra, centinaia di abominevoli braccia lo afferravano dappertutto. Dov’era Merry?

Si svegliò. Aria fredda gli soffiava sul viso. Era supino; la sera si stava avvicinando e il cielo sopra di lui si oscurava. Si voltò e scoprì che il sogno era poco più straziante della realtà. Aveva i polsi, le gambe e le caviglie legati con corde. Accanto a lui giaceva Merry, pallidissimo, con uno straccio sporco legato intorno alla fronte. Intorno a loro un gran numero di Orchi seduti O in piedi.

Lentamente, nella testa dolorante di Pipino i ricordi si ricollegarono, separandosi dall’ombra degli incubi. Sicuro! Lui e Merry erano scappati nei boschi. Chi li aveva presi? Perché correre via in quel modo, senza dar retta al vecchio Grampasso? Avevano fatto molta strada gridando ma non sapeva quanta; e poi a un tratto erano piombati dritti in mezzo a un gruppo di Orchi. Costoro erano immobili e in ascolto, e non parvero accorgersi di Merry e Pipino fin quando non furono quasi fra le loro braccia. Allora si erano messi a urlare, e decine di altri Orchi eran comparsi fra gli alberi. Lui e Merry avevano sguainato la spada, ma i nemici non avevano voglia di combattere, e cercavano soltanto di afferrarli, anche dopo che Merry aveva amputato numerose braccia e mani. Bravo Merry!

Poi era arrivato correndo Boromir. Li aveva costretti a combattere. Ne aveva uccisi molti, e i superstiti si erano dati alla fuga. Ma sulla via del ritorno erano stati nuovamente assaliti da un centinaio di Orchi, fra i quali alcuni molto grandi, che scoccavano una pioggia di frecce: sempre contro Boromir. Questi aveva suonato il suo corno tanto forte da fare echeggiare l’intero bosco, e da principio gli Orchi, atterriti, erano indietreggiati; ma vedendo che oltre l’eco non giungeva altra risposta, gli si erano avventati contro più feroci che mai. Pipino non ricordava altro. L’ultima immagine che portava incisa nella memoria era Boromir appoggiato a un albero che estraeva una freccia dal suo petto. Poi tutto era piombato nell’oscurità.

«Qualcuno deve avermi colpito alla testa», si disse Pipino. «Chissà se le ferite di Merry sono gravi. Che cos’è accaduto a Boromir? Perché gli Orchi non ci hanno uccisi? Dove siamo, e dove stiamo andando?».

Non trovò risposta alle proprie domande. Aveva freddo e si sentiva male. «Non avesse mai Gandalf persuaso Elrond a lasciarci partire!», pensò. «A che cosa sono servito? Sono stato semplicemente un peso inutile: un passeggero, un carico. Ed ora mi hanno rapito e sono solo un bagaglio per gli Orchi. Spero che Grampasso o qualcun altro venga a reclamarci! Ma ho il diritto di sperarlo? Non scombinerei tutti i programmi? Ah! se potessi liberarmi!».

* * *

Si dimenò, ma tutto fu vano. Uno degli Orchi, seduto vicino, si mise a ridere, e disse qualcosa a un compagno nel suo abominevole linguaggio. «Riposa, ora che puoi, piccolo stupido!», disse poi rivolgendosi a Pipino nella Lingua Corrente, che riusciva a rendere quasi orribile quanto il proprio idioma. «Riposa, ora che puoi! Troveremo presto come impiegare utilmente le tue gambe. Rimpiangerai persino di possederne, prima di arrivare a destinazione».

«Se fossi libero di fare a mio modo, ti rincrescerebbe non essere morto», disse l’altro. «Ti farei squittire, miserabile topo». Si chinò su Pipino, accostando al viso dell’Hobbit le sue fauci gialle. Stringeva un pugnale nero dalla lunga lama dentellata. «Guai a te se ti muovi! Sentirai il solletico del mio coltello!», sibilò. «Bada di non attirare su di te l’attenzione, o potrei anche scordare gli ordini ricevuti. Maledetti Isengardiani! Uglúk u bagronk sha pushdug Saruman-glob bùbbosh skai», vociferò a lungo e concitatamente nella propria lingua, per concludere borbottando e ringhiando.

Terrificato, Pipino giacque immobile, benché il dolore ai polsi e alle caviglie si facesse più forte, e le pietre sotto di lui incominciassero a conficcarglisi nella schiena. Per evitare di pensare a se stesso, si mise ad ascoltare attentamente tutto ciò che udiva. Molte voci risuonavano tutt’intorno, e anche se il linguaggio degli Orchi aveva sempre un tono odioso e furibondo, gli parve chiaro che era scoppiata una specie di litigio e che gli animi si stavano scaldando.

Con grande sorpresa Pipino si accorse che gran parte dei discorsi era intelligibile; molti Orchi adoperavano il linguaggio comune. Evidentemente erano presenti membri di due o tre tribù alquanto diverse, che fra loro non si capivano. Si stava svolgendo una violenta discussione su ciò che avrebbero dovuto fare adesso: quale direzione prendere e che cosa fare dei prigionieri.

«Non c’è tempo per un assassinio in piena regola», disse uno di loro. «Niente giochi, in questa spedizione».

«È inevitabile», disse un altro. «Ma perché non ucciderli presto, o subito? Sono una maledetta seccatura, e noi abbiamo molta fretta. La sera sta per arrivare, e dovremmo rimetterci in marcia».

«Ordini», disse borbottando irosamente una terza voce. «Uccidete tutti ma NON i Mezzuomini; devono essere riportati VIVI al più presto. Questi sono gli ordini».

«A che cosa servono?», domandarono molte voci. «Perché li vogliono vivi? Forse sono divertenti?».

«No! Ho sentito dire che uno di loro possiede qualcosa, qualcosa ch’è necessario per la Guerra, qualche gingillo elfico o roba del genere. Comunque saranno interrogati separatamente».

«È tutto quel che sai? Perché non frugarli, e scoprire la verità? Potremmo trovare qualcosa di utile per noi».

«Questo è un commento molto interessante», sogghignò una voce meno rude delle altre ma più malvagia. «Potrei riferire ciò ch’è stato detto. I prigionieri NON devono essere frugati né derubati: sono questi i miei ordini».

«E anche i miei», soggiunse la voce bassa ed irosa. «Vivi, e nello stato in cui sono stati catturati: guai a torcer loro un capello. Ecco i miei ordini».

«Ma non i nostri!», disse una delle prime voci. «Siamo venuti sin qui dalle Miniere per ammazzare, e per vendicare il nostro popolo. Voglio uccidere e poi tornare al Nord».

«E allora continua pure a volere», grugnì la voce irosa. «Io sono Uglúk. Io comando. Io torno a Isengard per la via più breve».

«Credi forse che Saruman sia il capo o il Grande Occhio?», disse la voce malvagia. «Noi dobbiamo tornare immediatamente a Lugbùrz».

«Se potessimo attraversare il Grande Fiume, sarebbe alquanto facile», disse un’altra voce. «Ma non siamo in numero sufficiente per avventurarci giù sino ai ponti».

«Io vengo dall’altra riva», disse la voce malvagia. «Un Nazgûl alato ci aspetta un po’ più a nord, sulla sponda orientale».

«Può darsi! Così fuggireste con i nostri prigionieri, e ricevereste voi tutte le lodi e le ricompense a Lugbùrz, mentre noi dovremmo attraversare a piedi il paese dei Cavalli. No, dobbiamo restare uniti. Queste contrade sono pericolose: piene di infidi ribelli e di briganti».

«Sì, dobbiamo restare uniti», grugnì Uglúk. «Non mi fido di voi piccoli porci. Non sapete come comportarvi fuori dal vostro porcile. Se non ci fossimo stati noi sareste tutti fuggiti. Siamo noi gli Uruk-hai lottatori! Siamo stati noi ad uccidere il grande guerriero, noi a prendere i prigionieri. Noi siamo i servitori di Saruman il Saggio, la Bianca Mano: la Mano che ci dà carne umana da mangiare. Siamo venuti da Isengard e vi abbiamo guidati sin qui, e saremo noi a scegliere la via del ritorno che più ci piace. Io sono Uglúk. Ho parlato».

«Hai parlato più del necessario, Uglúk», sogghignò la voce malvagia. «Vorrei sapere che cosa ne penserebbero a Lugbùrz. Direbbero forse che è necessario liberare Uglúk dal peso di una testa gonfia. Domanderebbero forse da dove vengono le sue strane idee. Da Saruman vengono, che ne dici? Chi crede di essere lui, per potersi rendere indipendente e ostentare i suoi luridi distintivi bianchi? Potrebbero essere d’accordo con me, Grishnâkh, il loro fedele messo; ed io, Grishnâkh, dico questo: Saruman è un pazzo, uno sporco pazzo traditore. Ma il Grande Occhio lo sorveglia.

«Porci, hai detto? Che impressione vi fa, amici, esser chiamati porci dai raccatta-letame di un piccolo e sporco stregone? È carne di Orchi che mangiano, ci giurerei».

Gli risposero molte grida inferocite, ed il fragore di armi sguainate. Cautamente Pipino si voltò ruzzolando, nella speranza di assistere alla scena. Anche le guardie che lo sorvegliavano si erano lanciate nella mischia. Alla luce del crepuscolo vide un grosso Orco nero, probabilmente Uglúk, ergersi di fronte a Grishnâkh, un essere tozzo dalle gambe arcuate e dalle lunghe braccia che sfioravano quasi terra. Erano circondati da molti Orchi più piccoli. Pipino presumeva che fossero quelli venuti dal Nord. Avevano sguainato spade e pugnali, ma esitavano ad attaccare Uglúk.

Uglúk lanciò un urlo, che fece accorrere al suo fianco una quantità di Orchi quasi delle sue stesse dimensioni. Quindi improvvisamente, senza preavviso, Uglúk fece un balzo avanti e con due rapidi colpi staccò la testa di due avversari. Grishnâkh si scansò e scomparve nelle tenebre. Gli altri indietreggiarono, e uno di essi inciampò nel corpo giacente di Merry, bestemmiando. Tuttavia fu proprio questa caduta a salvargli la vita, poiché i seguaci di Uglúk lo saltarono, ammazzarono un altro suo compagno con le loro spade dalle lame larghe. Era la guardia dalle fauci gialle. Il suo corpo piombò addosso a Pipino, stringendo ancora in mano il pugnale dentellato.

«Gettate le armi!», urlò Uglúk. «E niente più sciocchezze! Da qui andiamo dritti verso ovest e scendiamo la scala. Poi da lì subito alle colline e lungo il fiume sino alla foresta. E si marcia giorno e notte. È chiaro?».

«Ecco», pensò Pipino, «se quell’essere immondo impiega un po’ di tempo per riprendere il controllo della sua truppa, questa è la volta buona». Aveva un barlume di speranza. L’orlo del pugnale nero gli aveva graffiato il braccio, ed era quindi scivolato sino al polso. Sentiva il sangue gocciolare sulla mano, ma sentiva anche il freddo tocco dell’acciaio contro la pelle.

Gli Orchi si preparavano a rimettersi in marcia, ma alcuni tra quelli del Nord si mostravano ancora restii e gli Isengardiani dovettero ucciderne altri due per convincere tutti ad obbedire. C’era molta confusione e volavano imprecazioni spaventose. Per il momento nessuno osservava Pipino. Le sue gambe erano immobilizzate, mentre le braccia erano soltanto legate ai polsi e non dietro la schiena. Sebbene i nodi fossero atrocemente stretti, riusciva a muovere le due mani insieme. Spinse da una parte il cadavere dell’Orco e, quasi non osando respirare, strofinò avanti e indietro lungo la lama del pugnale la corda che gli legava i polsi. La lama era tagliente e la mano morta la stringeva spasmodicamente. La corda si ruppe! Pipino in un baleno la prese fra le dita e l’annodò nuovamente, facendone un lento bracciale a due giri che infilò. Quindi rimase immobile.

* * *

«Raccogliete quei prigionieri!», vociò Uglàk. «E niente scherzi! Se non sono vivi quando arriviamo, qualcun altro morrà!».

Un Orco afferrò Pipino come un sacco, infilò la propria testa fra le sue mani legate e poi gli tirò giù con violenza le braccia, fin quando la faccia dell’Hobbit non fu completamente schiacciata contro la sua nuca; infine si mise in marcia col suo fardello. Un altro Orco trattò Merry nel medesimo modo. Le grinfie stringevano le braccia di Pipino in una morsa d’acciaio, le unghie gli trafiggevano le carni. Chiuse gli occhi e si trovò nuovamente immerso in sogni abominevoli.

D’un tratto sentì che lo gettavano un’altra volta sul terreno pietroso. La notte era giunta da poco, ma già l’esile luna calava verso occidente. Si trovavano sull’orlo di una parete rocciosa che pareva dominasse un mare di nebbia biancastra. Nelle vicinanze si udiva scrosciare un corso d’acqua.

«Le vedette finalmente sono tornate», disse un Orco vicino a Pipino.

«Ebbene, che cosa avete scoperto?», grugnì Uglúk.

«Null’altro che un cavaliere solitario che galoppava verso ovest. Ora tutto è deserto».

«Ora, forse. Ma per quanto tempo ancora? Idioti! Avreste dovuto ucciderlo. Darà sicuramente l’allarme. Quei maledetti allevatori di cavalli sapranno della nostra presenza prima di domattina. Ora dovremo raddoppiare l’andatura».

Un’ombra si curvò su Pipino. Era Uglúk. «Siediti!», vociò l’Orco. «I miei ragazzi sono stanchi di trascinarvi e di portarvi. Adesso dobbiamo scendere da questa cresta, e vi toccherà adoperare le gambe. Niente resistenze. Niente grida, né tentativi di fuga. Abbiamo dei metodi per rintuzzare i vostri scherzi che certo non vi piacerebbero, e che tuttavia non diminuirebbero affatto la vostra utilità per il Padrone».

Tagliò i lacci che stringevano gambe e caviglie di Pipino ed afferrandolo per i capelli lo mise in piedi. Pipino ricadde e Uglúk lo sollevò di nuovo prendendolo per la testa. Parecchi Orchi scoppiarono a ridere. Uglúk gli mise fra i denti una borraccia e gli versò un liquido bruciante in gola: Pipino sentì un flusso caldo e feroce attraversargli il corpo. Il dolore alle gambe ed alle caviglie scomparve, e riuscì a tenersi in piedi.

«Ed ora tocca all’altro!», tuonò Uglúk. Pipino lo vide avvicinarsi a Merry, che giaceva lì vicino, e dargli un calcio. Merry gemette. Uglúk, afferrandolo rudemente, lo mise a sedere e gli strappò la benda dal capo. Quindi spalmò sulla ferita della roba scura che teneva in una piccola scatola di legno. Merry lanciò un urlo e si dimenò selvaggiamente.

Gli Orchi applaudirono e risero. «Non è capace di prendere la sua medicina», sghignazzarono. «Non capisce nemmeno quando una cosa gli fa bene. Eh! Ci divertiremo davvero, più tardi».

Ma per il momento Uglúk non pensava allo svago. Aveva fretta e doveva incoraggiare e incitare coloro che non avevano voglia di seguirlo. Stava curando Merry secondo i metodi degli Orchi, e il suo trattamento ebbe dei rapidi effetti. Quando a viva forza un sorso di liquido fu fatto penetrare nella gola dell’Hobbit, e questi fu liberato dai lacci alle gambe e trascinato in piedi, Merry rimase diritto, pallido ma feroce e provocante, e pieno di vita. Lo squarcio in fronte non gli diede più alcun fastidio, ma gli lasciò una cicatrice scura sino alla fine dei suoi giorni.

«Ciao, Pipino!», disse. «Vedo che fai parte anche tu di questa piccola spedizione. Dove sono il letto e la prima colazione?».

«Ehi, voi!», disse Uglúk. «Niente scherzi! Cucitevi la bocca e non parlate fra di voi. Ogni fastidio che darete verrà riferito al Capo, e Lui saprà come ricompensarvi. Avrete letti e colazioni in abbondanza: più di quanti non possiate sopportare».

* * *

La banda di Orchi si mise a discendere uno stretto burrone che conduceva alla pianura caliginosa sottostante. Merry e Pipino, separati da una buona dozzina di Orchi, scesero giù con loro. Giunti al fondo, i loro piedi si posarono su dell’erba, e gli Hobbit si sentirono un po’ rincuorati.

«Ed ora dritto in avanti!», gridò Uglúk. «In direzione ovest, anzi leggermente nord-ovest. Seguite Lugdush».

«Ma che cosa faremo all’alba?», domandarono alcuni Nordiani. «Continueremo a correre», rispose Uglúk. «Che cosa credete? di poter sedere sull’erba ad aspettare che i Pellebianchi vengano a partecipare alla scampagnata, magari portando la colazione al sacco?».

«Ma non possiamo correre alla luce del sole».

«Correrete con me alle calcagna», disse Uglúk. «Correrete! O altrimenti non vedrete mai più le vostre adorate caverne. Per la Bianca Mano! A che serve mandare in giro dei vermiciattoli di montagna addestrati a metà! Correte, maledetti! Correte finché fa notte!».

Allora l’intera compagnia si mise a correre con i passi lunghi e saltellanti caratteristici degli Orchi. Non procedevano in ordine, ma si spingevano, si urtavano e imprecavano; eppure avanzavano molto rapidamente. Ogni Hobbit era sorvegliato da tre guardie. Pipino era in fondo alla fila. Si chiese per quanto tempo sarebbe riuscito a mantenere quell’andatura: era dal mattino che non gli davano da mangiare. Una delle sue guardie aveva una frusta. Comunque, per il momento, il liquore datogli dall’Orco gli ardeva ancora in corpo. Anche la sua mente era del tutto sveglia.

A tratti, la sua immaginazione gli presentava un’inattesa visione del volto di Grampasso e del suo capo curvo, intento a seguire delle tracce scure, correndo affannosamente dietro a loro. Ma che cos’altro avrebbe potuto scorgere, persino un Ramingo, oltre le confuse impronte degli Orchi? Le piccole orme di Pipino e di Merry erano distrutte dalle scarpe chiodate che le calpestavano ovunque.

Avevano percorso circa un miglio dalla cresta, quando la campagna scese con lieve pendio sino a un’ampia e bassa depressione, ove il terreno era soffice e bagnato. Ogni cosa era immersa nella nebbia che scintillava con pallido bagliore agli ultimi raggi della luna calante. Le scure sagome degli Orchi innanzi a Pipino diventarono confuse, e quindi scomparvero del tutto ingoiate dal buio.

«Ehi voi! State attenti adesso!», vociò Uglúk dal fondo della fila.

Un’idea improvvisa balenò nella mente di Pipino, il quale la realizzò immediatamente. Con un brusco scarto a destra si svincolò dalla guardia, tuffandosi dritto nella nebbia; si ritrovò lungo disteso per terra.

«Alt!», urlò Uglúk.

Seguì un attimo di baraonda e di confusione. Pipino con un balzo fu in piedi e si mise a correre. Ma gli Orchi lo inseguivano. Alcuni gli si pararono davanti all’improvviso.

«Nessuna speranza di fuga!», si disse Pipino. «L’unica speranza è che mi sia riuscito di lasciare delle tracce visibili e intatte sul terreno bagnato». Si frugò intorno al collo con le mani legate, e aprì la spilla appuntata al suo manto. Le lunghe mani e i crudeli artigli lo stavano già afferrando quando egli la lasciò cadere. «Suppongo che rimarrò qui in eterno», pensò. «Non so proprio perché l’ho fatto. Se gli altri sono riusciti a sfuggire agli Orchi, avranno probabilmente raggiunto Frodo».

La cinghia d’uno scudiscio gli si avvolse intorno alle gambe, ed egli represse a malapena un grido.

«Basta così!», vociò Uglúk, avvicinandosi a passo di corsa. «Ha ancora un bel po’ di strada da fare. Che corrano ambedue! Adoperate la frusta soltanto per rinfrescar loro la memoria.

«Ma non te la caverai con così poco», ringhiò rivolgendosi a Pipino. «Io non dimentico. Il saldo del conto è soltanto rinviato. Su, in marcia!».

Né Pipino né Merry ricordarono molto della successiva parte del viaggio. Sogni angosciosi e veglie ancor più angosciose si fondevano in un unico sentimento di sofferenza, da cui la speranza svaniva sempre più. Correvano, correvano, sforzandosi di mantenere il passo degli Orchi, incitati di quando in quando da una frusta crudele e maneggiata con destrezza. Se si fermavano o inciampavano, venivano afferrati e trascinati avanti per un po’.

Il calore della pozione dell’Orco era scomparso. Pipino aveva di nuovo freddo e si sentiva male. Improvvisamente cadde bocconi sull’erba. Mani crudeli dalle unghie laceranti lo afferrarono per sollevarlo. Si sentì prendere come un sacco e trasportare via mentre intorno a lui l’oscurità si faceva più fitta: non avrebbe però saputo dire se fosse l’oscurità di un’altra notte, o un’improvvisa cecità dei propri occhi.

Divenne vagamente conscio di un clamore di voci: apparentemente molti Orchi esigevano una sosta. Uglúk urlava. Pipino si sentì scaraventare per terra, e rimase nella posizione in cui era caduto, affondando nuovamente in cupi e tetri sogni. Ma non fu che una breve liberazione dal dolore; tosto la stretta d’acciaio di mani spietate lo riafferrò. Per un lungo tempo subì scosse e strattoni, ma poi l’oscurità incominciò pian piano a diradarsi ed egli si ritrovò nel mondo reale e vide ch’era mattina. Udì ordini gridati intorno a lui e venne gettato rudemente sull’erba.

Vi rimase a lungo sdraiato, lottando contro la disperazione che lo assaliva. La testa gli girava, ma dal calore che aveva in corpo comprese che gli avevano dato di nuovo la pozione. Un Orco si chinò su di lui e gli lanciò un tozzo di pane e una fetta di carne cruda e secca. Mangiò il pane rancido e grigio, ma non toccò il resto. Aveva certo fame, ma non una fame tale da mangiare la carne datagli da un Orco: la carne di chissà quale creatura…

Si sedette guardandosi intorno. Merry non era lontano. Si trovavano lungo la riva di un fiume rapido e stretto. Innanzi a loro giganteggiavano i monti: un alto picco attirava i primi raggi di sole. Una scura chiazza boscosa si stendeva sulle pendici alle falde delle montagne.

Gli Orchi gridavano e discutevano animatamente; pareva che stesse per scoppiare un’altra lite tra quelli del Nord e gli Isengardiani. Alcuni facevano cenni verso sud, alle loro spalle, altri verso oriente.

«Benissimo!», disse Uglúk. «Lasciateli a me, allora! Vietato ucciderli, come vi ho già detto; ma se proprio volete gettare via quel che siamo venuti a cercare sin qui, gettatelo pure! Me ne occuperò io. Lasciate che i bellicosi Uruk-hai facciano tutto il lavoro, come al solito. Se avete paura dei Pellebianchi, scappate, correte! Lì è la foresta», gridò, puntando il dito innanzi a sé. «Rifugiatevi lì! È la vostra unica speranza. Fuggite! Ma fate presto, prima ch’io tagli qualche altra testa per mettere un po’ più di senno nelle altre».

Si udirono grida e imprecazioni, poi la maggior parte dei Nordiani si diede alla fuga: più di cento si misero a correre come impazziti lungo il fiume in direzione dei monti. Gli Hobbit rimasero con gli Isengardiani: una banda scura e tetra, un’ottantina almeno di grossi Orchi dalla carnagione nera e con occhi obliqui, muniti di grandi archi e di corte spade con lama larga. Qualcuno dei Nordiani più robusti e sfrontati rimase con loro.

«E ora faremo i conti con Grishnâkh», disse Uglúk; ma anche fra i suoi soldati ve ne erano alcuni che volgevano a sud sguardi inquieti.

«Lo so», grugnì Uglúk. «Quei maledetti allevatori di cavalli sanno che siamo qui. Ma è stata tutta colpa tua, Snaga. Tu e le altre vedette meritereste che vi tagliassimo le orecchie. Ma siamo noi i combattenti. Vedrete che pasteggeremo con carne di cavallo, o con qualcosa di meglio ancora».

Fu allora che Pipino capì perché alcuni Orchi avevano fatto cenni verso oriente. Proprio da quella direzione giunsero in quel momento delle grida roche, e riapparve Grishnâkh seguito da una quarantina di Orchi della sua stessa razza, dalle lunghe braccia e le gambe storte. Un occhio rosso era dipinto sui loro scudi. Uglúk andò loro incontro.

«Così, siete tornati?», disse. «Ci avete pensato su, eh?».

«Sono tornato per accertarmi che gli Ordini vengano eseguiti ed i prigionieri non siano molestati», rispose Grishnâkh.

«Davvero!», esclamò Uglúk. «Fatica sprecata. Sarò io ad occuparmi di far eseguire gli ordini. E per quale altro motivo siete tornati? Forse nella fretta della partenza avete lasciato qui qualcosa?».

«Ho lasciato un idiota», ringhiò Grishnâkh. «Ma con lui ci sono dei ragazzi in gamba ch’è un peccato perdere. Sapevo che li avresti messi nei guai. Sono tornato ad aiutarli».

«Benissimo!», rise Uglúk. «Ma hai preso la strada sbagliata, a meno che tu non abbia un po’ di fegato per combattere. Lugbùrz era la tua direzione. I Pellebianchi stanno arrivando. Cos’è accaduto al tuo prezioso Nazgûl? Gli hanno ammazzato un altro cavallo? Ecco, se l’avessi portato con te avresti fatto forse una cosa utile, ammesso che questi Nazgûl siano effettivamente ciò che pretendono di essere».

«Nazgûl, Nazgûl!», disse Grishnâkh tremando e passandosi la lingua sulle labbra, come se la parola avesse un orribile gusto, sgradevolissimo da assaporare. «Parli di qualcosa molto al di sopra dei tuoi sogni fangosi, Uglúk», disse. «Nazgûl! Ah! Ciò che pretendono di essere! Un giorno ti rincrescerà di aver detto una cosa simile. Imbecille!», ruggì ferocemente. «Dovresti sapere che sono la pupilla del Grande Occhio. Quanto ai Nazgûl alati, non è ancora giunta l’ora; egli non vuole che si mostrino su questa sponda del Grande Fiume, per adesso, non ancora. Essi servono alla Guerra… e ad altri scopi».

«Sai molte cose, a quanto pare», disse Uglúk. «Troppe, credo. Forse laggiù a Lugbùrz si domanderanno come mai, e perché. Ma nel frattempo gli Uruk-hai di Isengard sbrigheranno come al solito le faccende più pesanti. Non star lì impalato con la bava alla bocca! Riunisci la tua canaglia! Gli altri porci se la son data a gambe verso la foresta. È quel che vi consiglio di fare. Non tornereste vivi al Grande Fiume. Coraggio! Si parte immediatamente! Io vi starò alle calcagna».

* * *

Gli Isengardiani afferrarono Merry e Pipino e se li rimisero in spalla. Poi la truppa ripartì. Corsero per ore e ore, sostando di tanto in tanto solo per trasferire gli Hobbit da un portatore a un altro. Forse gli Isengardiani erano più veloci e robusti, o forse Grishnâkh aveva qualche suo piano, ma il fatto sta che Uglúk ed i suoi sorpassarono gradualmente la schiera di Mordor, lasciando gli Orchi di Grishnâkh alla retroguardia. Presto incominciarono a guadagnare terreno persino sui Nordiani che li precedevano. La foresta era ormai vicina.

Pipino era pieno di lividi e di ferite, la sua testa dolorante strisciava contro la sudicia guancia e l’orecchio peloso dell’Orco che lo portava. Avanti a sé vedeva spalle curve e tozze gambe che si alternavano incessantemente, senza riposo, come se fossero fatte di fil di ferro e corno, gambe che scandivano i seconde in un incubo senza fine.

Nel pomeriggio la truppa di Uglúk raggiunse i Nordiani. Stavano rallentando sotto i raggi del sole luminoso, un sole invernale che pur brillava in un pallido cielo fresco; avanzavano col capo chino e con la lingua ciondoloni.

«Vermi!», sghignazzarono gli Isengardiani deridendoli. «Siete bell’e cotti. I Pellebianchi vi acciufferanno e vi divoreranno. Eccoli che arrivano!».

Un grido di Grishnâkh fece loro capire che non si trattava di un semplice scherzo. Cavalieri che avanzavano molto velocemente erano stati davvero avvistati: erano ancora lontani, ma guadagnavano terreno sugli Orchi, e parevano una marea che inondasse pianure ove la gente si smarriva nei banchi di sabbie mobili.

Gli Isengardiani si misero a correre raddoppiando la velocità, il che strabiliò Pipino, al quale parve uno sforzo terribile ed eccessivo a conclusione di una lunghissima corsa. Vide allora che il sole stava per tramontare, nascondendosi dietro le Montagne Nebbiose; le ombre si allungavano sulla campagna. I soldati di Mordor levarono il capo e accelerarono anch’essi l’andatura. La foresta era scura e vicina. Avevano già superato i primi alberi solitari. Il terreno incominciava a salire, con un’inclinazione man mano più ripida: ma gli Orchi non si fermarono. Uglúk e Grishnâkh gridavano, incitandoli a compiere un ultimo sforzo.

* * *

«Ce la faranno. Riusciranno a scappare», pensò Pipino. Trovò modo di torcere il collo, per guardarsi rapidamente alle spalle, se pur con un occhio solo. Vide che ad oriente i cavalieri erano già all’altezza degli Orchi, e galoppavano attraverso la pianura. Il tramonto indorava le lance e gli elmi, e giocava tra i loro pallidi capelli al vento. Formavano una barriera che impediva agli Orchi di disperdersi e li costringeva a seguire il corso del fiume.

Pipino era molto curioso di sapere che razza di gente fosse. Rimpianse di non aver appreso più cose a Gran Burrone, osservando piante e documenti; ma allora il programma di viaggio sembrava in mani più competenti, e mai avrebbe immaginato di essere un giorno separato da Gandalf, da Grampasso e persino da Frodo. Tutto ciò che rammentava di Rohan era che il cavallo di Gandalf, Ombromanto, era originario di quel paese: era poca cosa, ma il ricordo pareva incoraggiante.

«Però, come faranno a sapere che non siamo Orchi?», si disse. «Non penso che abbiano mai sentito parlate di Hobbit da queste parti. Suppongo che dovrei esser contento di vedere questi immondi Orchi probabilmente annientati, ma sarei anche contento di potermi salvare». Era molto probabile che i due Hobbit venissero uccisi insieme con i loro rapitori, ancor prima che gli Uomini di Rohan si accorgessero della loro presenza.

Fra i cavalieri vi dovevano essere degli arcieri abili nello scoccare frecce da un cavallo al galoppo. Venivano velocemente a portata di tiro, miravano agli Orchi rimasti indietro e lontani dai compagni, e ne abbattevano non pochi; quindi i Cavalieri si allontanavano rapidi dalla portata delle frecce, tirate alla meno peggio dai nemici che non osavano fermarsi. Ciò si ripeté più volte, e in un’occasione le frecce caddero sugli Isengardiani. Uno di essi, proprio davanti a Pipino, crollò e non si rialzò più.

* * *

La notte giunse prima che i Cavalieri accerchiassero gli Orchi preparandosi alla battaglia. Molti dei fuggiaschi erano morti, ma ne rimanevano più di duecento. Mentre calavano le prime tenebre, gli Orchi giunsero a un piccolo colle. I margini della foresta erano ormai molto vicini, probabilmente non distavano più di mezzo miglio, ma i Cavalieri li avevano circondati ed essi non potevano più andare avanti. Un gruppetto disobbedì agli ordini di Uglúk e proseguì la corsa verso il bosco: tre soli tornarono.

«Ebbene, eccoci qui», sogghignò Grishnâkh. «Ottima guida! Spero che il grande Uglúk ci riconduca fuori».

«Mettete giù quei Mezzuomini!», ordinò Uglúk, senza badare a Grishnâkh. «Tu, Lugdush, ed altri due, sorvegliateli bene! Non devono essere uccisi, a meno che i luridi Pellebianchi non penetrino sin qui. Capito? Finché sono vivo, li voglio vivi. Ma non fateli gridare, e badate che nessuno venga a salvarli. Legategli le gambe!».

L’ultima parte dell’ordine fu eseguita spietatamente. Ma Pipino scoprì di essere per la prima volta accanto a Merry. Gli Orchi facevano un gran baccano, con le loro grida e con il fragore tintinnante delle armi, e ciò permise agli Hobbit di bisbigliare qualcosa.

«Non mi aspetto gran che da quel che accade», disse Merry. «Mi sento distrutto. Non credo che riuscirei a fare molta strada, anche se fossi libero».

«Lembas!», sussurrò Pipino. «Lembas: io ne ho un poco. E tu? Credo che non ci abbiano tolto altro che le spade».

«Sì, ne avevo un po’ in tasca», rispose Merry, «ma sarà ormai un mucchio di briciole. In ogni caso non posso infilarmi in tasca la bocca!».

«Non è necessario. Io…»; ma in quel momento un calcio selvaggio avvertì Pipino che il fracasso era finito, e le sentinelle li sorvegliavano.

* * *

La notte era fredda e silenziosa. Tutt’intorno alla collinetta ove erano radunati gli Orchi si accesero dei piccoli falò, formando come un cerchio rosso-oro nell’oscurità. Distavano un lungo tiro di freccia, ma i cavalieri non si mostravano alla luce, e gli Orchi sprecarono molti colpi tirando sui fuochi, prima che Uglúk li fermasse. Gli Uomini di Rohan non facevano alcun rumore. A notte più inoltrata, quando la luna emerse dalla nebbia, ogni tanto si poté scorgere qualche figura di scolta illuminata dalla bianca luce.

«Aspettano il sole, maledetti!», ruggì una delle guardie. «Perché non radunarci e cercare di aprirci un varco? Vorrei proprio sapere che cosa pensa di fare, il vecchio Uglúk!».

«Immagino che ti piacerebbe», ringhiò Uglúk apparendo dietro le sue spalle. «Intendi dire che non penso a nulla, vero? Maledetto! Sei fatto della stessa pasta degli altri: vermiciattoli e imbecilli di Lugbùrz. Inutile contare su di loro per aprirci un varco. Incomincerebbero a squittire e se la darebbero a gambe, e questi luridi allevatori di cavalli sono in numero sufficiente per acciuffarci tutti, se torniamo in pianura.

«Una sola cosa sanno fare questi vermi: hanno uno sguardo che penetra nel buio come un succhiello. Ma i Pellebianchi pare possiedano una vista notturna migliore di quella degli altri Uomini; e non dimenticare i loro cavalli! Quelli vedono anche la brezza di notte, o così ho sentito dire. Ma c’è una cosa che i nostri furbi amici non sanno: Mauhùr e i suoi sono nella foresta, e dovrebbero spuntare da un minuto all’altro».

Le parole di Uglúk bastarono, apparentemente, a soddisfare gli Isengardiani; ma gli altri Orchi erano al tempo stesso scoraggiati e ribelli. Erano state collocate le sentinelle, ma i più si riposavano coricati nella piacevole oscurità. E la notte divenne davvero molto buia; la luna scomparve a ovest fra fitte nubi, e Pipino non riusciva a distinguere nulla a pochi passi di distanza. La luce dei falò non giungeva sino alla collina. I cavalieri comunque non si contentavano di aspettare l’alba lasciando il nemico riposare. Grida improvvise provenienti dalla parte orientale del colle diedero l’allarme. Si accorsero che alcuni Uomini si erano avvicinati al colle e, smontando, avevano strisciato sino all’orlo del campo e ucciso parecchi Orchi; erano quindi scomparsi silenziosamente. Uglúk dovette precipitarsi per impedire una fuga disordinata.

Pipino e Merry si misero a sedere. Le loro guardie, degli Isengardiani, avevano seguito Uglúk. Ma se una speranza di fuga era balenata nel cuore degli Hobbit, venne immediatamente distrutta. Due lunghe braccia pelose li afferrarono per il collo avvicinandoli uno all’altro. Distinsero vagamente la grossa testa e l’orribile faccia di Grishnâkh che li sfiorava; il suo alito immondo era sulle loro guance. Incominciò a tastarli e toccarli. Pipino rabbrividì sentendo le dita fredde e dure scendere giù per la schiena.

«Ebbene, cari piccoli!», bisbigliò Grishnâkh. «Vi fa piacere un po’ di riposo? O non è così? Forse la posizione è scomoda: spade e fruste da un lato e lance crudeli dall’altro! I piccoli non dovrebbero mai immischiarsi in affari troppo grandi per loro». Le sue dita continuavano a tastare. Negli occhi aveva la luce incandescente di un fuoco pallido ma scottante.

Alla mente di Pipino balenò improvvisa un’idea, come se captata direttamente dal pensiero dell’Orco: «Grishnâkh sa dell’Anello! Lo sta cercando mentre Uglúk è occupato altrove: probabilmente lo vuole per sé». Il terrore agghiacciava il cuore di Pipino, e tuttavia egli cercava un modo per sfruttare il desiderio di Grishnâkh.

«Non credo che lo troverai in questo modo», sussurrò. «Non è facile da trovare».

«Trovare?», ripeté Grishnâkh: le sue dita smisero di frugare e afferrarono Pipino alle spalle. «Trovare che cosa? Di che stai parlando, piccolo?».

Pipino rimase un momento silenzioso. Poi d’un tratto nel buio emise un suono con la gola: gollum, gollum. «Niente, tesoro mio», soggiunse.

Gli Hobbit sentirono le dita di Grishnâkh contrarsi. «Oh oh!», sibilò l’Orco. «È questo che intendi dire, perciò! Molto, mooolto pericoloso, cari piccoli».

«Forse», ribatté Merry all’erta, accortosi del gioco di Pipino. «Forse; e non solo per noi. Comunque gli affari tuoi li saprai meglio di noi. Forse lo vuoi; o non è così? E che cosa daresti in cambio?».

«Se lo voglio? Se lo voglio?», ripeté Grishnâkh con aria perplessa; ma le sue braccia fremevano. «Che cosa darei in cambio? Che intendete dire?».

«Intendiamo dire», rispose Pipino scegliendo con cura le proprie parole, «che non serve a nulla brancolare nel buio. Potremmo risparmiarti tempo e fatica. Ma ci devi prima slegare le gambe, altrimenti non diciamo nulla e non facciamo nulla».

«Miei cari teneri piccoli sciocchi», sibilò Grishnâkh, «ogni cosa che avete e che sapete sarà tirata fuori a tempo debito: ogni cosa! Rimpiangerete di non avere ancor di più da raccontare all’Inquisitore, e come lo rimpiangerete! E fra non molto. Non anticiperemo l’interrogatorio. No, cari miei! Perché credete che vi teniamo vivi? Miei cari piccoli amici, non è un atto di gentilezza: non fa parte nemmeno dei numerosi vizi di Uglúk, la gentilezza».

«Lo capisco perfettamente», disse Merry. «Ma non è ancora arrivata a casa la vostra preda. E comunque si svolgano le cose, sembra proprio che non vi arriverà mai. Se ci recheremo a Isengard, il grande Grishnâkh non verrà certo ricompensato: Saruman prenderà per sé tutto quel che potrà trovare. Se vuoi qualcosa, è adesso il momento di agire».

Grishnâkh incominciava ad irritarsi. Specialmente il nome di Saruman pareva farlo imbestialire. Il tempo passava e la confusione era pressoché finita. Uglúk o gli Isengardiani potevano tornare da un momento all’altro. «L’avete voi? E chi dei due?», ringhiò.

«Gollum! gollum!», disse Pipino.

«Slegaci le gambe!», disse Merry.

Sentirono le braccia dell’Orco fremere violentemente. «Maledetto lurido piccolo verme!», sibilò. «Slegarti le gambe? Slegherò il più piccolo filo che avete in corpo! Credete ch’io non sia capace di frugarvi sino nelle ossa? Frugarvi! Vi taglierò tutt’e due a piccoli pezzettini tremolanti. Non ho bisogno dell’aiuto delle vostre gambe per portarvi via… e avervi interamente per me!».

Li afferrò improvvisamente. La forza delle sue lunghe braccia e delle sue spalle era impressionante. Se li infilò sotto le ascelle, schiacciandoli ferocemente contro i propri fianchi; una grossa mano soffocante tappò loro la bocca. Quindi si mise in marcia, curvandosi il più possibile verso terra. Procedette veloce e silenzioso sino all’orlo del piccolo colle, e scegliendo una breccia fra le sentinelle, s’immerse nelle tenebre come un’ombra maligna, scendendo il pendio e dirigendosi a ovest verso il fiume che sbucava dalla foresta. In quel punto vi era un’ampia radura ove ardeva un solo falò.

Si fermò dopo una decina di metri, per scrutare la notte e tendere l’orecchio. Non udì e non scorse nulla. Continuò a strisciare piegato quasi in due, ma bruscamente si acquattò di nuovo. Quindi si rizzò in piedi come per tentare una rapida corsa. In quel preciso istante la scura forma di un cavaliere gli si parò davanti. Un cavallo sbuffò indietreggiando. Una voce chiamò.

Grishnâkh si buttò per terra, trascinando gli Hobbit sotto di sé; poi sguainò la spada. Intendeva senza dubbio ammazzare i prigionieri, piuttosto che lasciarli scappare o permettere che venissero salvati; ma il suo gesto si rivolse contro di lui. La spada emise un leggero suono metallico e scintillò alla luce del fuoco che ardeva sulla sua sinistra. Una freccia giunse sibilando dalle tenebre: era stata scoccata con destrezza, o guidata dal fato, e gli trafisse la mano destra. Lasciò cadere la spada con un grido. Si udì un rapido accorrere di zoccoli, e mentre Grishnâkh balzava in piedi per darsi alla fuga, fu messo sotto da un cavallo e trapassato da una lancia. Lanciò un orribile urlo roco e giacque immobile.

Gli Hobbit rimasero appiattiti per terra come Grishnâkh li aveva lasciati. Un altro cavaliere sopraggiunse galoppando veloce in aiuto al proprio compagno. Il cavallo, come se guidato da una vista particolarmente acuta o da un sesto senso, saltò agilmente i due piccoli corpi, senza che il suo padrone li scorgesse, lunghi distesi nei loro manti elfici, ancora troppo storditi e troppo terrorizzati per muoversi.

* * *

Infine Merry si mosse e disse con un bisbiglio: «Finora tutto bene; ma come faremo per non farci infilzare?».

La risposta giunse quasi immediata. Le grida di Grishnâkh avevano destato gli Orchi. Dalle urla e dagli strilli provenienti dal colle gli Hobbit compresero che la loro scomparsa era stata scoperta: Uglúk stava probabilmente decapitando un altro paio di Orchi. Poi d’un tratto le voci di nuovi nemici giunsero da destra, da oltre il cerchio di falò, in direzione della foresta e dei monti. Mauhùr era arrivato e stava attaccando gli assedianti. Si udivano cavalli partire al galoppo. Mentre i Cavalieri restringevano il cerchio intorno al colle, per impedire ogni fuga a costo di essere raggiunti dalle frecce degli Orchi, un gruppo si allontanò a cavallo per occuparsi dei nuovi arrivati. Improvvisamente Merry e Pipino si resero conto di trovarsi ora all’esterno del cerchio: nulla più li separava dalla fuga.

«Ed ora», disse Merry, «se le nostre braccia e gambe non fossero legate, potremmo forse riuscire a scappare. Ma non arrivo a toccare i nodi e non so morderli».

«Inutile tentare», disse Pipino. «Stavo per dirtelo: sono riuscito a liberarmi le mani. Questi lacci sono qui per bella figura. Innanzi tutto è opportuno mangiare un po’ di lembas».

Si tolse la corda dai polsi ed estrasse un involto. Le gallette erano rotte ma ancora buone, poiché conservate negli involucri di foglie. Gli Hobbit ne mangiarono due O tre ciascuno, ed il sapore fece rivivere nella loro memoria splendidi volti, suoni di risa e cibi prelibati di giorni felici ormai lontani. Mangiarono pensierosi, seduti al buio, noncuranti delle grida e del rumore di battaglia. Pipino tornò per primo alla realtà presente.

«Dobbiamo andarcene», disse. «Un attimo soltanto!». La spada di Grishnâkh giaceva lì vicino, ma era troppo pesante e ingombrante per lui; strisciò in avanti verso il corpo dell’Orco ed estrasse dal fodero un lungo pugnale aguzzo, con cui tagliò le corde che li legavano.

«Ed ora, partenza!», disse. «Quando ci saremo scaldati un po’, forse riusciremo di nuovo a stare in piedi e a camminare. Ma, in ogni caso, è meglio che incominciamo ad avanzare carponi».

E così fecero. L’erba era alta e soffice e li aiutava, ma il lavoro pareva lungo e lento. Girarono alla larga dei falò, e strisciando come vermi giunsero alla sponda del fiume, che gorgogliava immerso nelle nere ombre dei suoi argini profondi. Allora si voltarono a guardare.

Non si udivano più rumori. Evidentemente Mauhùr ed i «suoi» erano stati uccisi o messi in fuga. I Cavalieri avevano ripreso la loro silente e minacciosa veglia: non sarebbe però durata ancora a lungo. La notte si stava già facendo vecchia. Ad oriente il cielo che le nubi avevano lasciato limpido incominciava a impallidire.

«Dobbiamo metterci al coperto», disse Pipino, «o finiranno col vederci. Non sarà per noi un gran conforto se, dopo averci uccisi, i Cavalieri scoprono che non siamo Orchi». Si alzò e pestò i piedi. «Quelle corde tagliavano come filo d’acciaio, ma i miei piedi si stanno riscaldando. Adesso ce la farei ad avanzare barcollando. E tu come te la passi, Merry?».

Merry si alzò. «Sì», rispose, «ce la faccio anch’io. Bisogna riconoscere che il lembas rincuora davvero! Tra l’altro è una sensazione più benefica del calore di quella pozione degli Orchi. Chissà di che cosa era fatta. Meglio non indagare, credo. Beviamo un sorso d’acqua per lavarne il ricordo!».

«Non qui; gli argini sono troppo alti e ripidi», disse Pipino. «Avanti, andiamo!».

Si misero a camminare a fianco a fianco lungo il corso del fiume. Alle loro spalle la luce cresceva ad oriente. Avanzando, confrontavano le loro impressioni sul viaggio, parlando come sogliono fare gli Hobbit, senza dar peso a tutto ciò ch’era accaduto dal momento della cattura. Nessuno, dalle loro parole, avrebbe potuto immaginare quanto crudelmente avessero sofferto, in quali pericoli si fossero trovati, avanzando senza speranza verso la tortura e la morte; persino adesso avevano poche probabilità di trovare amici e sicurezza, e ne erano pienamente consci.

«Pare che tu abbia fatto un buon lavoro, Messer Tuc», disse Merry. «Ti sarà consacrato un intero capitolo nel libro del vecchio Bilbo, se mai avrò l’opportunità di riferirgli l’accaduto. Ottimo lavoro: bello specialmente l’aver indovinato il gioco di quel peloso mascalzone, mettendolo nel sacco. Ma chissà se qualcuno scoprirà le tue impronte e la spilla. Mi dispiacerebbe moltissimo perdere la mia, ma temo che la tua sia partita per sempre. Avrò molto da fare per collocarmi alla tua altezza. Ma a questo punto il cugino Brandibuck prenderà le redini: è qui che entra in scena. Immagino che tu non abbia che una vaga nozione di dove ci troviamo, mentre io impiegai il mio tempo a Gran Burrone in modo più utile. Ci stiamo dirigendo a occidente, lungo l’Entalluvio. Abbiamo di fronte un’estremità delle Montagne Nebbiose e la Foresta di Fangorn».

Mentre parlava, gli scuri contorni del bosco giganteggiarono dritto innanzi a loro. Pareva che la notte si fosse rifugiata sotto i suoi imponenti alberi, per sfuggire all’alba che avanzava.

«Conduci in avanti, Messer Brandibuck!», disse Pipino. «O conduci indietro! Ci hanno messo in guardia contro Fangorn. Ma un sapiente come te non l’avrà certo dimenticato».

«Infatti non l’ho dimenticato», rispose Merry; «ma nonostante tutto mi par meglio inoltrarci nella foresta, anziché tornare nel bel mezzo di una battaglia».

* * *

Condusse il suo compagno sotto gli immensi rami degli alberi. Parevano inconcepibilmente vecchi. Da essi pendevano lunghe barbe strascicanti di licheni, che dondolavano al soffio della brezza. Gli Hobbit sbirciarono giù per il pendio dalle tenebre in cui erano immersi: piccole figure furtive che nella fioca luce sembravano elfici bambini di tempi immemorabili intenti a osservare dal Bosco Selvaggio, pieni di stupore, la loro prima Alba.

Da lungi, al di là del Grande Fiume e delle Terre Brune, da migliaia e migliaia di leghe di distanza, giunse l’Alba rossa come fiamma. Squillarono possenti i corni degli assedianti per accoglierla. I Cavalieri di Rohan si animarono improvvisamente. I corni si chiamavano e si rispondevano.

Merry e Pipino udirono, nitido nell’aria fredda, il nitrito di cavalli da guerra mentre si levava il canto di molti Uomini. Il Sole innalzò il proprio braccio, come un arco di fuoco sui confini del mondo. Quindi, con un immenso urlo, i Cavalieri caricarono da est; la luce rossa sfavillava sulle loro lance e sulle cotte di maglia. Gli Orchi strillarono, scoccando le ultime frecce rimaste. Gli Hobbit videro parecchi Uomini cadere dai cavalli; ma la schiera si mantenne in perfetta formazione, galoppando sino alla vetta del colle, scendendo dal lato opposto, voltando su se stessa e ripartendo all’assalto. Allora la maggior parte degli Orchi ancora vivi cedette, e fuggirono sparpagliandosi qua e là, inseguiti uno per uno sino alla morte. Ma un gruppetto, mantenendosi unito a forma di cuneo, si spinse risolutamente avanti in direzione della foresta. Gli osservatori li videro precipitarsi su per il pendio, dritti verso di loro. Si avvicinavano rapidamente, e ormai sembrava che sarebbero certamente riusciti a fuggire: avevano già falciato tre cavalieri che sbarravano loro la strada.

«Abbiamo perso troppo tempo a guardare», disse Merry. «Quello è Uglúk! Non voglio incontrarlo di nuovo». Gli Hobbit si voltarono, scappando nel profondo del bosco.

Fu così che non assistettero all’ultimo atto, durante il quale Uglúk venne raggiunto e accerchiato proprio ai margini di Fangorn. Ivi fu infine ucciso da Éomer, Terzo Maresciallo di Rohan, che smontò da cavallo e si batté con lui, spada contro spada. E dovunque, sulle ampie praterie, i Cavalieri dallo sguardo penetrante inseguirono i pochi Orchi scampati che ancora avevano la forza di correre.

Poi, dopo aver eretto un tumulo sui corpi dei compagni caduti e cantato le loro lodi, i Cavalieri fecero un grande fuoco e sparpagliarono al vento le ceneri dei nemici. Tale fu la fine della scorreria, e mai nessuna notizia di essa giunse a Mordor o ad Isengard; ma il fumo s’innalzò nel cielo e fu visto da molti occhi vigili.

CAPITOLO IV BARBALBERO

Nel frattempo gli Hobbit avanzavano con tutta la velocità che l’oscura foresta ingarbugliata concedeva, seguendo il corso d’acqua che fluiva da ovest, risalendo le pendici dei monti, sempre più profondamente immerse nel bosco. Pian piano il loro terrore degli Orchi diminuì e rallentarono il passo. Uno strano senso di soffocamento s’era impadronito di loro, come se l’aria fosse troppo fine o scarsa per poter respirare.

Infine Merry si fermò. «Non possiamo andare avanti così», disse ansimando. «Ho bisogno d’aria».

«In ogni caso, beviamo un sorso d’acqua», disse Pipino. «Ho la gola riarsa». Si inerpicò su una grossa radice che serpeggiava sin giù nei flutti, e prese dell’acqua nel cavo delle mani. Era limpida e fredda, ed egli ne bevve molti sorsi. Merry lo seguì. L’acqua li ristorava e pareva rallegrare il loro cuore; rimasero un pezzo seduti sulla riva del fiume, sguazzando con i piedi e le gambe doloranti e osservando tutt’intorno gli alberi silenziosi che, uno dopo l’altro, svanivano e si confondevano in un grigio crepuscolo che li circondava da ogni lato.

«Mi pare che grazie a te ci siamo già smarriti, vero?», disse Pipino appoggiandosi contro un grosso tronco. «Comunque possiamo seguire il corso di questo fiume, l’Entalluvio o come diavolo si chiama, e tornare fuori da dove siamo entrati».

«Potremmo, se le nostre gambe ce lo permettessero», rispose Merry; «e se riuscissimo a respirare come si deve».

«Sì, è tutto molto buio e soffocante qui», disse Pipino. «Mi ricorda in qualche modo la vecchia stanza nella Grande Dimora dei Tuc, laggiù negli Smial di Tuchoro: una casa immensa, ove il mobilio non è mai stato spostato né cambiato per intere generazioni. Dicono che il Vecchio Tuc sia vissuto anni ed anni in quella stanza, diventando trasandato e vecchio insieme con essa; e da quando morì, un secolo fa, nessuno l’ha toccata. E pensa che il Vecchio Gerontius era mio bis-bis-nonno, e che risaliamo quindi alquanto indietro. Ma non è nulla in confronto all’aspetto antico di questo legno. Guarda tutte quelle barbe e quei baffi di licheni, spioventi e dondolanti! E la maggior parte degli alberi pare ricoperta di foglie secche e avvizzite che non sono mai cadute. Molto disordinato. Non riesco a immaginare l’aspetto della primavera in questo posto, ammesso che vi giunga mai; e, meno ancora, di una pulizia generale».

«Ma il sole in ogni caso vi darà un’occhiata di tanto in tanto», disse Merry. «Ciò che sentiamo e vediamo in questa foresta non corrisponde affatto alla descrizione fattaci da Bilbo del Bosco Atro. Quello era completamente scuro e nero, e abitato da cose scure e nere. Questa è semplicemente un po’ buia, e terribilmente “vegetale”. Impossibile immaginare che degli animali vivano qui, o vi trascorrano molto tempo».

«No, e nemmeno degli Hobbit», disse Pipino. «E l’idea di tentare d’attraversarla non mi entusiasma molto. Nulla da mangiare per cento miglia, suppongo. A che punto sono le nostre scorte?».

«Scarse», rispose Merry. «Fuggendo abbiamo preso soltanto un paio di pacchetti di lembas, e tutto il resto è rimasto là». Guardarono i residui delle gallette elfiche: dei frammenti sbriciolati sufficienti per cinque giorni scarsi e nient’altro. «Nessun mantello né coperte», soggiunse Merry. «Avremo freddo questa notte, ovunque si vada».

«Ebbene, sarebbe ora di decidere dove andare», disse Pipino. «Il mattino sta avanzando».

In quel momento si accorsero di una luce gialla apparsa un po’ più all’interno del bosco: sembrava che dei raggi di sole avessero improvvisamente attraversato il tetto della foresta.

«Guarda!», esclamò Merry. «Il sole dev’essere stato nascosto da una nube mentre c’inoltravamo fra gli alberi, e ora è spuntato di nuovo; oppure si è innalzato tanto da potersi affacciare da qualche apertura. Non è lontano: andiamo a investigare!».

* * *

Scoprirono che era più lontano di quanto non pensassero. Il terreno continuava a salire ripido, e stava diventando sempre più pietroso. La luce, man mano che avanzavano, si faceva più forte, e presto videro che innanzi a loro si ergeva una parete rocciosa: il fianco di un colle o l’estremità di qualche lungo braccio proteso dalle lontane montagne. Non vi crescevano alberi, ed il sole cadeva in pieno sulla superficie rocciosa. I rami degli alberi ai suoi piedi eran tesi e immobili, come intenti a cogliere il calore. Là dove tutto era parso grigio e squallido, ora il bosco splendeva di colori bruni e caldi e di lisce cortecce grigio-nere simili a lucida pelle. I tronchi brillavano di un verde fresco come erba tenera: intorno agli Hobbit era giunta in anticipo la primavera, o una passeggera visione di essa.

Intagliata nella parete rocciosa vi era qualcosa di simile a una scala: probabilmente naturale, causata dal corrodersi e dal fendersi della pietra, essendo rozza e disuguale. In alto, quasi al livello delle cime degli alberi, un ripiano sovrastato da una rupe a picco. Non vi cresceva altro che un po’ d’erba e di gramigna sui bordi, e un vecchio ceppo d’albero con due solitari rami contorti: sembrava quasi l’immagine di un vecchietto nodoso abbagliato dalla luce del mattino.

«Saliamo!», disse Merry pieno d’entusiasmo. «Finalmente una boccata d’aria, e uno sguardo al paesaggio!».

S’inerpicarono su per la parete rocciosa. Se la scala era stata intagliata da qualcuno, questi aveva certamente piedi più grandi e gambe più lunghe di loro. Erano troppo impazienti per meravigliarsi della straordinaria rapidità con cui le piaghe e le ferite della prigionia erano guarite, e il loro vigore era rinato. Giunsero infine all’orlo del ripiano, quasi ai piedi del vecchio ceppo; allora, con un salto, furono su, e sedendosi con le spalle rivolte alla collina, ancora affannati, guardarono verso oriente. Videro che non si erano inoltrati più di tre o quattro miglia nella foresta: le cime degli alberi si allontanavano giù per i pendii sino alla pianura. Ivi, presso i margini del bosco, alte spirali di fumo nero s’innalzavano tremule, e galleggiavano verso di loro.

«Il vento sta cambiando», disse Merry. «Va di nuovo ad est. E qui su fa freddo».

«Sì», rispose Pipino; «temo che questo non sia che un raggio passeggero, e che tutto ridiventerà grigio. Che peccato! Questa vecchia foresta squallida aveva tutt’altro aspetto alla luce del sole. Ho quasi avuto l’impressione che mi piacesse».

* * *

«Hai quasi avuto l’impressione che la Foresta ti piacesse! Molto bene! È un modo gentile di parlarne», disse una voce estranea. «Voltatevi, affinché veda i vostri visi. Ho quasi l’impressione che non mi piacciano, ma non voglio essere frettoloso. Voltatevi!». Due grosse mani dalle giunture nodose si posarono sulle loro spalle e li costrinsero dolcemente ma irresistibilmente a girarsi; poi, due lunghe braccia li sollevarono.

I due Hobbit si trovarono a faccia a faccia con l’essere più straordinario che avessero mai visto. Aveva il fisico di un Uomo, quasi di un Troll, alto però più del doppio, molto robusto, con una lunga testa, e quasi senza collo. Sarebbe stato difficile dire se ciò che lo ricopriva fosse una specie di corteccia verde e grigia, o la sua stessa pelle. Comunque, le braccia, a breve distanza dal tronco non erano avvizzite, ma lisce e brune. I grandi piedi avevano sette dita l’uno. La parte inferiore del lungo viso era nascosta da una vigorosa barba grigia, folta, dalle radici grosse quasi come ramoscelli e le punte fini e muscose. Ma sulle prime gli Hobbit notarono soltanto gli occhi. Occhi profondi che li osservavano, lenti e solenni, ma molto penetranti. Erano marrone, picchiettati di luci verdi. In seguito Pipino tentò più volte di descrivere la sua prima impressione.

«Sembrava vi fosse dietro le pupille un enorme pozzo, pieno di secoli di ricordi e di lunghe, lente e costanti meditazioni; ma in superficie sfavillava il presente, come sole scintillante sulle foglie esterne di un immenso albero, o sulle creste delle onde di un immenso lago. Non so, ma era come se qualcosa che cresceva nella terra quasi in letargo, o consapevole soltanto della propria presenza tra la punta delle radici e quella delle foglie, tra la profonda terra ed il cielo, si fosse improvvisamente destato e ci stesse considerando con la stessa lenta attenzione che aveva prestato ai propri problemi interiori per anni e anni».

«Hrum, Huum», mormorò la voce, una voce bassa e profonda come il suono di un violoncello. «Davvero molto strani! Niente fretta, è questo il mio motto. Ma se vi avessi veduti prima di udire la vostra voce, non avrei esitato a calpestarvi, scambiandovi per piccoli Orchi, e mi sarei accorto soltanto dopo del mio errore. Siete davvero molto strani. Radici e ramoscelli, molto strani!».

Pipino, pur rimanendo strabiliato, non aveva più alcun timore. Quegli occhi gli incutevano una strana ansietà, ma nessuna paura. «Ti prego», domandò, «dicci chi sei, e che cosa sei!».

Scorsero allora negli occhi una strana espressione, una specie di infinita stanchezza; il pozzo profondo ne era ricoperto. «Hrum, beh!», rispose la voce; «ebbene, io sono un Ent, o perlomeno è così che mi chiamano. Sì, Ent è la parola esatta. Sono io, l’Ent, direste voi, nel vostro modo di parlate. Fangorn è il nome che mi danno alcuni, ed altri Barbalbero. Barbalbero può andare».

«Un Ent?», disse Merry. «Che cos’è? Ma tu, come dici di chiamarti, qual è il tuo vero nome?».

«Uhh beh!», rispose Barbalbero. «Uhh! Sarebbe assai lungo! Niente fretta. E sono io a fare le domande. Voi siete nel mio territorio. E, mi domando, che cosa siete, voi due? Non riesco a classificarvi. Non mi sembra che siate elencati nelle antiche liste che appresi quando ero giovane. Ma ormai è passato tanto tanto tempo, e forse hanno fatto delle liste nuove. Vediamo! Com’era quella strofa?

Impara ora la storia degli Esseri Viventi,

Ricorda che son quattro le libere genti.

Elfi vengono quelli più antichi chiamati,

Nani gli scavatori dalle buie dimore,

Ent i vecchi come monti e dalla terra nati,

Uomo infine il mortale, dei cavalli il signore.

Hm, hm, hm.

Castoro il costruttore, daino il saltatore,

Orso il cacciator d’api, cinghiale il lottatore,

Cane affamato, coniglio spaventato…

Hm, hm.

Aquila rapace, bue nei campi,

Cervo di corna incoronato, falco veloce ed alato;

Cigno il più bianco, serpente il più freddo…

Huum, hm; huum hm, com’era il seguito? Rum tum, rum tum, rumti tum tum. Era una lunga lista. Ma comunque mi sembra che voi non figuriate in nessun posto!».

«Sembra che ci abbiano sempre dimenticati nelle vecchie liste e nelle vecchie storie», disse Merry. «Eppure è da un bel po’ di tempo che siamo in giro. Siamo Hobbit».

«Perché non comporre un nuovo verso?», propose Pipino.


«Hobbit i mezzo-cresciuti, quelli che vivon nei buchi.


Inseriscici fra i quattro, vicino all’Uomo (la Gente Alta), e tutto sarà a posto».

«Hm! Non c’è male, non c’è male», disse Barbalbero. «Così potrebbe andare. Perciò vivete nei buchi, eh? Mi par molto giusto ed appropriato. Ma chi vi chiama Hobbit? Non sembrerebbe un termine elfico. E sono stati gli Elfi a creare tutte le antiche parole: sono stati loro a incominciare».

«Nessun altro ci chiama Hobbit; noi stessi ci chiamiamo così», rispose Pipino.

«Huum, hm! Suvvia! Niente fretta! Voi stessi vi chiamate Hobbit? Ma non dovreste raccontarlo a chiunque. Fra poco, se non fate attenzione, svelerete anche i vostri nomi e cognomi».

«Ma noi non abbiamo alcun ritegno», disse Merry. «Anzi, io sono un Brandibuck, Meriadoc Brandibuck, benché la maggior parte della gente mi chiami semplicemente Merry».

«E io sono un Tuc, Peregrino Tuc, e di solito mi chiamano Pipino, o persino Pip».

«Hh, ma vedo che siete davvero gente frettolosa», disse Barbalbero. «Sono lusingato dalla vostra fiducia; ma non dovreste dimostrarvi così aperti fin da principio. Sapete, ci sono Ent ed Ent; o meglio ci sono gli Ent e delle cose che parrebbero degli Ent, ma che non lo sono effettivamente. Vi chiamerò Merry e Pipino, se non vi dispiace, sono nomi simpatici. Io però non vi dirò il mio nome, perlomeno non ancora». Uno strano sguardo, mezzo complice e mezzo sornione, apparve come una scintilla verde nei suoi occhi. «Innanzi tutto ci vorrebbe troppo tempo: il mio nome cresce costantemente, e io ho vissuto molto, molto a lungo, perciò il mio nome è come una storia. I nomi propri narrano le vicende delle cose a cui appartengono, nella mia lingua, che voi chiamereste Vecchio Entese. È una lingua stupenda, ma per dire una cosa qualsiasi s’impiega un’infinità di tempo, perché noi preferiamo non dire una cosa, se non vale la pena di perdere molto molto tempo per dirla ed ascoltarla.

«Ma ora», e gli occhi divennero molto vivaci e «presenti», e parvero più piccoli e quasi aguzzi, «che cosa sta succedendo? Qual è la vostra parte in tutto ciò? Riesco a vedere e udire (e annusare e palpare) gran parte di questo, di questo, di questo a-lalla-lalla-rumba-kamanda-lindor-burùmë. Scusatemi: è parte del nome che gli do io; ignoro la parola nelle lingue straniere: sapete, la cosa sulla quale ci troviamo, dove io sto in piedi nelle belle mattinate a pensare al sole, e all’erba oltre il bosco, e ai cavalli, e alle nubi, e allo svolgersi del mondo. Che cosa sta succedendo? Che sta combinando Gandalf? E questi… buràrum», emise un rombo cavernoso, come una stonatura su di un grande organo…, «questi Orchi, ed il giovane Saruman giù a Isengard? Mi piacciono le notizie. Ma per favore, non troppo in fretta».

«Stanno succedendo parecchie cose», disse Merry; «e anche se tentassimo di fare in fretta ci vorrebbe molto tempo per narrarle. Ma tu ci raccomandi di non essere frettolosi. Non è ancora troppo presto per raccontarti qualcosa? Ci troveresti maleducati se ti chiedessimo che cos’hai intenzione di fare di noi, e da che parte stai? E se conoscevi Gandalf?».

«Sì, lo conosco: l’unico stregone che ami veramente gli alberi», rispose Barbalbero. «E voi lo conoscete?»

«Sì», disse Pipino tristemente, «lo conoscevamo. Era un nostro grande amico, ed era la nostra guida».

«Allora posso rispondere alle vostre domande», disse Barbalbero. «Non intendo far nulla di voi, se ciò significa “fare qualcosa a voi”, senza il vostro permesso. Potremmo fare qualcosa insieme. E di parti non so niente. Io vado per la mia strada; ma la vostra potrebbe fiancheggiare la mia per un certo tempo. Ma parlate di Messere Gandalf come se appartenesse a una storia ormai conclusa».

«Sì, è così», disse mesto Pipino. «Pare che la storia continui, ma purtroppo Gandalf ha finito la sua parte».

«Huu, suvvia!», disse Barbalbero. «Huum, hm, ah, beh». Tacque, e guardò a lungo in silenzio gli Hobbit. «Huum, ah, beh, non so che dire. Suvvia!».

«Se ti fa piacere ascoltare», disse Merry, «ti racconteremo altre cose. Ma ci vorrà un bel po’ di tempo. Non potresti posarci a terra? Una buona idea sarebbe di sederci tutti insieme qui, finché c’è ancora sole. Ormai sarai stanco di tenerci sollevati».

«Hm, stanco? No, non sono stanco. Non mi stanco facilmente. E non mi siedo mai. Non sono molto, hm, flessibile. Ma guardate, il sole se ne sta proprio andando. Lasciamo questo… come hai detto che lo chiamate?».

«Colle?», suggerì Pipino.

«Ripiano? Gradini?», suggerì Merry.

Barbalbero ripeté assorto le parole. «Colle. Sì, era questo. Ma è un nome troppo rapido per qualcosa che si trova qui da quando fu creata questa parte del mondo. Ma pazienza. Lasciamolo e andiamo».

«Dove andiamo?», domandò Merry.

«A casa mia, o piuttosto in una delle mie case», rispose Barbalbero.

«È lontana?». «Non so. Forse voi direste che è lontana. Ma che importa?». «Beh, vedi, abbiamo perso ogni nostro avere», disse Merry. «Non ci resta che poco cibo».

«Oh! Hm! Non preoccupatevi di questo», disse Barbalbero. «Vi darò io una bevanda che vi terrà verdi e vegeti per molto molto tempo. E quando decidessimo di separarci, vi potrei depositare fuori dal mio territorio in qualunque punto desideriate. Andiamo!».

* * *

Tenendo gli Hobbit delicatamente ma con fermezza sotto le proprie ascelle, Barbalbero sollevò prima uno poi l’altro grande piede, e li spostò sino all’orlo del ripiano. Le dita simili a radici si aggrappavano alla roccia. Quindi discese un gradino dopo l’altro, con attenzione e solennità, e giunse al livello della Foresta.

S’inoltrò immediatamente fra gli alberi con lunghi passi decisi, avanzando sempre più nel profondo del bosco, senza mai allontanarsi dal fiume, arrampicandosi man mano sulle pendici dei monti. Molti alberi parevano addormentati, o noncuranti di lui come di qualunque altra creatura di passaggio; ma altri tremavano, e alcuni innalzavano i loro rami sul suo capo quand’egli si avvicinava. Durante tutto il cammino Barbalbero parlò con se stesso, un lungo fiume scorrevole di suoni armoniosi.

Gli Hobbit rimasero un pezzo in silenzio. Si sentivano, strano a dirsi, a proprio agio e al sicuro, e avevano parecchie cose su cui riflettere e stupirsi. Infine Pipino osò riprendere la parola.

«Per favore, Barbalbero», disse, «potrei farti una demanda? Mi sai dire perché Celeborn ci mise in guardia contro la tua foresta? Ci raccomandò di non impegolarci qui dentro».

«Hmm, ve lo raccomandò?», brontolò Barbalbero. «Anch’io avrei potuto dire una cosa assai simile, se foste passati di qui qualche tempo fa: non impegolatevi in uno dei boschi di Laurelindórenan. È così che gli Elfi lo chiamavano prima, ma ora hanno accorciato di parecchio il nome: lo chiamano Lothlórien. Forse hanno ragione: forse sta sbiadendo e non crescendo. Terra della Valle d’Oro Cantante: era codesto il suo nome nei tempi che furono. Ed ora è soltanto Fiordisogno. Purtroppo! Ma è uno strano posto, e non tutti possono avventurarvisi. Mi sorprende che ne siate usciti, ma ancor di più mi sorprende che siate riusciti a entrarvi: da molti anni ciò non veniva più concesso agli estranei. È una strana terra.

«E anche questa lo è. Alcuni qui hanno passato molti guai. Proprio così, molti guai. Laurelindórenan lindelorendor malinornélion ornemalin», canticchiò a bassa voce. «Suppongo che lì siano rimasti parecchio indietro in confronto al resto del mondo», disse. «Né in questo mio territorio, né altrove fuori dal Bosco d’Oro, le cose sono più quelle che erano al tempo in cui Celeborn era giovane. Eppure:


Taurelilòmëa-tumbalemorna Tumbaletaurëa Lòmëanor[15],


questo era ciò che solevano dire. I tempi sono cambiati, ma a volte è ancora vero».

«Che significa?», disse Pipino. «Che cosa è vero?».

«Gli alberi e gli Ent», rispose Barbalbero. «Io stesso non comprendo tutto quel che accade, per cui non ve lo posso spiegare. Alcuni di noi sono ancora veri Ent, ed abbastanza vivaci a modo nostro; ma parecchi si stanno addormentando; voi direste che incominciano a vegetare. La maggior parte degli alberi non sono che alberi, naturalmente; ma molti sono semi-svegli. Alcuni sono svegli del tutto e qualcuno sta diventando entesco. E ciò avviene costantemente.

«Quando succede a un albero, ci si accorge che alcuni hanno un cuore cattivo. Nulla a vedere con il legno: non intendo parlare di esso. Anzi! Conoscevo dei cari vecchi salici lungo l’Entalluvio, scomparsi tanto tempo fa, ahimè! Erano completamente vuoti, stavano addirittura cadendo a pezzi, ma erano tranquilli e miti come giovani germogli. Esistono invece alberi nelle valli ai piedi delle montagne, sani e solidi come colonne, e cattivi da cima a fondo. Sembrerebbe una cosa contagiosa. Vi erano in questo paese alcuni posti molto pericolosi. Vi sono tuttora dei punti assai neri».

«Vuoi dire come la Vecchia Foresta su al Nord?», domandò Merry.

«Sì, sì, qualcosa del genere, ma molto peggio. Non dubito che vi sia ancora qualche ombra della Grande Oscurità, lì a nord, e che i ricordi malvagi vengano tramandati. Ma in alcune conche di queste contrade l’Oscurità è fitta e pesante come nel passato, e gli alberi sono più vecchi di me. Tuttavia noi facciamo del nostro meglio: teniamo lontani temerari ed estranei, insegniamo, alleniamo, camminiamo, ed estirpiamo le erbacce.

«Siamo i pastori degli alberi, noi vecchi Ent. Ma ormai siamo rimasti in pochi. Le pecore diventano simili ai pastori, e i pastori alle pecore, dicono; ma è un processo lento, e né le une né gli altri sono al mondo da molto tempo. Invece per gli alberi e gli Ent accade molto più rapidamente, ed essi attraversano i secoli insieme. Gli Ent somigliano piuttosto agli Elfi: meno interessati a loro stessi degli Uomini, essi riescono molto meglio a mettersi nei panni degli altri esseri. Ma hanno molto degli Uomini, essendo più mutevoli degli Elfi, più veloci nel cambiare aspetto esterno, direste voi. E forse sono migliori sia degli uni che degli altri, poiché sono assai costanti nei loro pensieri e intenti.

«Alcuni dei miei parenti sembrano proprio alberi, adesso, e ci vorrebbe qualcosa di grande che li destasse: ormai parlano solo con bisbigli. E molti dei miei alberi hanno rami flessuosi, e riescono a comunicare con me. Sono stati gli Elfi, beninteso, a incominciare: sono stati loro a svegliare gli alberi, a insegnar loro a parlare e ad apprenderne per primi il linguaggio. Hanno sempre desiderato conversare con ogni cosa, i vecchi Elfi. Ma poi giunse la Grande Oscurità, ed essi scomparvero al di là del Mare, o fuggirono in erme vallate per nascondersi e comporre canti inneggianti a giorni che mai più sarebbero tornati. Mai più. Eh sì, c’era una volta un solo grande bosco da qui sino ai Monti Luhun, e questa non ne era che l’Estremità Orientale.

«Quelli erano giorni in cui ogni cosa era più ampia e spaziosa! Vi fu un tempo in cui camminavo e cantavo tutto il giorno, e non udivo altro che il suono della mia voce echeggiare nelle caverne dei colli. I boschi erano come quelli di Lothlórien, ma più fitti, più giovani e forti. E il profumo dell’aria! Impiegavo una settimana soltanto per respirare».

Barbalbero tacque, ma continuò a incedere con i suoi grandi piedi che pur si posavano quasi senza far rumore. Poi riprese a canticchiare in un dolce mormorio. Pian piano gli Hobbit si accorsero che si rivolgeva a loro.

Fra salici e prati a Tasarinan passeggiavo in Primavera.

Ah! la vista e il profumo di Primavera a Nan-tasarion! Dicevo: «È bello!».

Nei boschi di olmi d’Ossiriand erravo d’Estate.

Ah! le luci ed i suoni d’Estate fra i Sette Fiumi di Ossir!

Pensavo ch’era ancor meglio.

Ai raggi di Neldoreth giungevo infine in Autunno.

Ah! il rosso e l’oro ed il fremer di foglie d’Autunno a Taur-na-neldor!

Colmava ogni mio desiderio.

Sino ai pini degli altipiani di Dorthonion salivo d’Inverno.

Ah! il vento e il bianco e il nero dei rami d’Inverno a Orod-na-Thòn!

S’innalzava il mio canto nei cieli.

Ed ora sommerse dall’onda son quelle terre.

E io cammino attraverso Ambarona, Tauremorna, Aldalòmë,

Attraverso il mio territorio, il paese di Fangorn,

Ove lunghe son le radici,

E più fitti che foglie gl’innumerevoli anni

A Tauremornalòmë.

Il canto finì, ed egli continuò ad avanzare silenziosamente, mentre il bosco intero tutt’intorno taceva.

* * *

Il giorno declinò, e le ombre del crepuscolo si avvolsero intorno ai tronchi d’albero. Gli Hobbit videro infine ergersi innanzi a loro i vaghi contorni di una ripida terra scura: erano giunti ai piedi delle montagne, e si trovavano nei pressi delle verdi radici dell’imponente Methedras. Il giovane Entalluvio veniva loro incontro, saltellante e rumoroso, dalle alte sorgenti donde sgorgava. Sulla sponda destra del torrente vi era un lungo pendio ricoperto d’erba che il vespero dipingeva di grigio. Non vi crescevano alberi, ed esso si apriva al cielo, ove già le stelle scintillavano in mezzo ai laghi profondi tra rive di nubi.

Barbalbero salì per il pendio rallentando appena il passo. D’un tratto gli Hobbit videro un’ampia apertura, fiancheggiata da due alberi come da due pilastri viventi; ma i loro rami intrecciati costituivano l’unico cancello. All’avvicinarsi del vecchio Ent, gli alberi levarono al cielo i rami, mentre tutte le foglie fremevano e frusciavano. Erano infatti piante sempreverdi, dal fogliame scuro e lucente che brillava nel crepuscolo. Al di là si poteva scorgere un ampio spazio piano, come il pavimento di un grande salone scavato nel fianco del colle. Man mano che si avanzava, le pareti ai due lati divenivano più alte, sino a raggiungere quasi venti metri; ai loro piedi vi erano due navate di alberi, anch’essi di statura crescente.

La parete di fondo scendeva a strapiombo, ma nella parte inferiore era stata ricavata una cavità dal soffitto arcuato: l’unico soffitto vero e proprio del salone, poiché il resto era protetto soltanto dai rami degli alberi, che in fondo alla stanza coprivano quasi tutto il pavimento, lasciando a cielo aperto solo un sentiero nel mezzo. Un ruscelletto sfuggito dalle sorgive in cima alle pareti e separatosi dal corso principale, scorreva lungo la ripida roccia e le sue gocce d’argento formavano una sottile tenda avanti alla cavità arcuata. L’acqua veniva riunita in una bacinella scavata nella pietra del pavimento fra gli alberi, e da lì proseguiva gorgogliante lungo il sentiero scoperto sino all’Entalluvio che raggiungeva nel suo viaggio attraverso la foresta.

* * *

«Hm, eccoci qui!», disse Barbalbero interrompendo il suo lungo silenzio. «Vi ho portati per circa settantamila ent-passi, ma a che cosa corrisponda nelle vostre unità di misura, lo ignoro. Comunque, ci troviamo quasi ai piedi dell’Ultima Montagna. Parte del nome di questo posto potrebbe essere Salimpozzo, tradotto nella vostra lingua. Mi piace. Passeremo qui la notte». Posò gli Hobbit sull’erba tra le due navate di alberi, ed essi lo seguirono sino al grande arco. Notarono che incedeva quasi senza piegare le ginocchia, ma divaricando molto le gambe. Piantava nel terreno, prima di ogni altra parte del piede, le grosse dita (ed erano davvero grosse e assai larghe).

Per un attimo, Barbalbero si fermò sotto gli spruzzi del ruscelletto, respirando profondamente; poi, ridendo, passò all’interno. Ivi si trovava un grande tavolo di pietra, ma non vi erano sedie. In fondo alla cavità faceva già buio. Barbalbero prese due grandi vasi e li mise sulla tavola. Sembravano pieni d’acqua, ma egli posò su di essi le mani, e dai recipienti s’irradiarono una luce d’oro e un bagliore verde intenso; il fondersi dei due illuminò la cavità come se il sole d’estate avesse incominciato a brillare attraverso un soffitto di giovani foglie. Gli Hobbit si voltarono indietro, e videro che anche gli alberi delle navate emettevano una luce, da principio fioca, ma che divenne sempre più intensa, tanto che ogni foglia fu circondata da un’aureola verde, oro, o rossa come rame, e ogni tronco parve una colonna scolpita in pietra fosforescente.

«Bene, bene, ora possiamo riprendere la conversazione», disse Barbalbero. «Suppongo che abbiate sete. Forse siete anche stanchi. Vi darò io qualcosa da bere!». Si diresse in fondo alla stanza, ed essi scorsero allora parecchie grosse anfore dai pesante coperchi. Barbalbero ne aprì una e vi immense un capace ramaiolo col quale riempì tre tazze: una molto grande e le altre due più piccole.

«Questa è una ent-casa», disse, «e non vi sono sedie, purtroppo. Ma potete accomodarvi sul tavolo». Sollevò gli Hobbit e li mise sulla grande lastra di pietra a sei piedi da terra, ove essi si sedettero con le gambe ciondoloni, sorseggiando la bevanda.

Sembrava acqua, anzi acqua dal sapore molto simile a quello dei flutti dell’Entalluvio, che avevano ristorato la loro sete vicino ai margini del bosco; eppure in questa vi era qualche ineffabile fragranza o sapore, che ricordava loro il profumo di una foresta lontana trasportato da lungi sulle ali di una fresca brezza notturna. L’effetto dell’elisir incominciò a manifestarsi nelle punte dei piedi, quindi invase man mano ogni parte del corpo, portando seco nell’ascesa freschezza e vigore sino alla cima dei capelli. Gli Hobbit sentirono anzi sulle loro teste i capelli rizzarsi effettivamente, ondeggiare, risplendere e crescere. Barbalbero immerse prima i piedi nella bacinella fuori dall’arco, quindi vuotò la sua tazza con un solo, lungo, interminabile sorso, tanto che i due amici credettero che non avrebbe mai smesso di bere.

Infine posò la ciotola. «Ah… ah!», trasse un profondo respiro. «Hm, huum, ora possiamo parlare più facilmente. Voi sederete per terra, mentre io mi sdraierò per impedire all’elisir di raggiungere il mio capo e farmi addormentare».

* * *

A destra nella caverna c’era un grande letto basso, non più alto di un paio di piedi, ricoperto da una profonda coltre di erba secca e felci. Barbalbero vi si sdraiò lentamente, quasi senza piegarsi, e rimase lì coricato, con le braccia dietro la nuca, a guardare il soffitto ove le luci tremolavano come foglie vibranti ai raggi di sole. Merry e Pipino si sedettero accanto a lui su cuscini d’erba.

«Ora raccontatemi la vostra storia, ma niente fretta!», disse Barbalbero.

Gli Hobbit si misero a narrare le loro avventure sin dalla partenza da Hobbiville. Non seguivano un ordine preciso, poiché s’interrompevano a vicenda continuamente, e Barbalbero interloquiva sovente per tornare indietro o saltare avanti, interrogandoli su fatti successivi. Non dissero nulla dell’Anello, ed evitarono di spiegargli perché erano partiti e quale fosse la loro meta; ed egli non chiese spiegazioni.

Barbalbero s’interessava in sommo grado di ogni cosa: dei Cavalieri Neri, di Elrond, di Gran Burrone, della Vecchia Foresta, di Tom Bombadil, delle Miniere di Moria, di Lothlórien, di Galadriel. Fece loro descrivere più e più volte la Contea e i suoi paesaggi. Ad un certo punto disse una cosa strana. «Non avete mai visto da quelle parti degli… hm, degli Ent, nevvero?», domandò. «Anzi, non degli Ent, per essere preciso dovrei dire delle Entesse».

«Entesse?», ripeté Pipino. «Ti rassomigliano in qualche modo?».

«Sì, hm, beh, no: non saprei esattamente», rispose Barbalbero pensieroso. «Ma a loro piacerebbe il vostro paese, perciò ve lo domandavo».

Ma l’Ent era soprattutto interessato a tutto ciò che riguardava Gandalf; e più ancora a ciò che faceva Saruman. Gli Hobbit rimpiansero molto di essere così poco al corrente dell’attività di costui: ricordavano solo il racconto assai impreciso, fatto da Sam, di quel che Gandalf aveva detto al Consiglio. Comunque erano certi che Uglùk e la sua schiera venivano da Isengard, e chiamavano Saruman il loro padrone.

«Hm, huum!», disse Barbalbero, quando serpeggiando e divagando la loro storia era infine giunta alla battaglia fra gli Orchi ed i Cavalieri di Rohan. «Bene, bene! Questo sì che è un mucchio di notizie! Non mi avete detto tutto, no davvero, no di gran lunga. Ma non dubito che stiate facendo ciò che Gandalf desidererebbe. Sta accadendo qualcosa di molto importante, me ne accorgo, e forse saprò che cos’è, un bel giorno, o un brutto giorno. Ma per ramo e radice, è davvero una strana faccenda! Salta fuori della piccola gente che non è nemmeno elencata nelle vecchie liste, e meraviglia! i Nove Cavalieri obliati ricompaiono per cacciarla, e Gandalf la guida in un lungo viaggio, e Galadriel la ospita a Caras Galadhon, e gli Orchi la inseguono attraverso tutte le Terre Selvagge: sembra che questo piccolo popolo sia travolto da una grande tempesta. Speriamo che riesca a sopportarla!».

«E di te che ne sarà?», domandò Merry.

«Huum, hm, non mi sono mai preoccupato delle Grandi Guerre», rispose Barbalbero; «riguardano soprattutto Elfi e Uomini. Preoccuparsene è compito degli Stregoni, che sono sempre molto inquieti per il futuro. A me non piace essere tormentato dal futuro. Io non sono dalla parte di nessuno, perché nessuno è del tutto dalla mia parte; non so se mi spiego: nessuno più è affezionato ai boschi quanto me, neppure gli Elfi. Essi tuttavia mi sono più simpatici degli altri: furono loro a curare il nostro mutismo tanto tempo fa, e questo dono che ci hanno fatto mai potrà essere obliato, anche se da allora non camminiamo più a fianco a fianco. Ci sono però, beninteso, casi in cui io sono del tutto dalla parte opposta; cose che io avverso: questi… buràrum» (emise di nuovo un profondo rombo di disgusto) «… questi Orchi, ed i loro padroni.

«Ero solitamente inquieto quando l’ombra sovrastava il Bosco Atro, ma poi si spostò a Mordor, ed io non me ne occupai più: Mordor è molto lontano. Ma pare che il vento stia per girare ad est, e forse si avvicina il momento in cui tutti i boschi avvizziranno. Non vi è nulla che un vecchio Ent possa fare per tener lontana una tale tempesta: deve sopportarla o schiantarsi.

«Ma ora c’è Saruman! Saruman, che è un nostro vicino: non posso trascurare ciò che fa. Suppongo che dovrò agire. Mi sono spesso domandato, di recente, che cosa sarebbe opportuno fare in proposito».

«Chi è Saruman?», domandò Pipino. «Sai qualcosa di lui?». «Saruman è uno Stregone», rispose Barbalbero. «Più di questo non saprei dirvi. Non conosco la storia degli Stregoni. Apparvero per la prima volta dopo l’arrivo delle Grandi Navi provenienti dall’altro lato del Mare; ma non sono mai riuscito a sapere se siano venuti proprio con le Grandi Navi. Saruman era considerato uno dei maggiori, credo. Smise di vagabondare e di immischiarsi negli affari di Uomini ed Elfi, qualche tempo fa… voi direste molto tempo fa; si installò ad Angrenost, che gli Uomini di Rohan chiamano Isengard. Da principio era molto quieto e silenzioso, ma poi la sua fama cominciò a crescere. Dicono che fu eletto capo del Bianco Consiglio; ma le conseguenze dimostrarono che non era stata una scelta felice. Mi domando adesso se già da allora Saruman non fosse sulla cattiva strada. Ma, comunque, non dava fastidio ai vicini. A volte gli parlavo. Per un certo periodo lo incontravo sempre a passeggio nei miei boschi. Era cortese allora, e mi domandava il permesso di passeggiare (almeno quando m’incontrava); e poi era sempre avido di notizie. Gli raccontai molte cose che da sé non sarebbe mai riuscito a scoprire; ma lui non ha mai ricambiato un mio favore. Non ricordo che mi abbia mai rivelato nulla. E divenne sempre più chiuso; il suo viso, a quanto ricordo è parecchio tempo ormai che non lo vedo sembrava una finestra in un muro di pietra: una finestra con le serrande all’interno.

«Credo di capire adesso che cosa stia combinando. Sta progettando di diventare una Potenza. Ha un cervello fatto di metallo e d’ingranaggi: nulla gl’importa di ciò che cresce, se non gli serve in un’occasione immediata. Ed ora vedo chiaramente ch’egli è un traditore nero. Complotta con gente immonda, con gli Orchi. Brm, huum! Peggio ancora: sta facendo loro qualcosa, qualcosa di pericoloso. Questi Isengardiani sembrano piuttosto Uomini malvagi. Una caratteristica degli esseri cattivi che accompagnavano la Grande Oscurità era che non tolleravano il Sole; ma gli Orchi di Saruman lo sopportano benissimo, pur odiandolo. Chissà che cos’ha fatto! Sono essi Uomini ch’egli ha distrutto, o il risultato di un incrocio tra Orchi e Uomini? Sarebbe un’atroce malvagità!».

Barbalbero borbottò qualcosa, come se pronunciasse una profonda, sotterranea maledizione entesca. «Tempo fa cominciai a domandarmi come mai gli Orchi osassero attraversare così liberamente i miei boschi», proseguì. «Ma solo recentemente ho capito che la colpa era da attribuirsi a Saruman, il quale in passato aveva osservato tutti i sentieri e scoperto i miei segreti. Lui e i suoi miserabili servi stanno devastando tutto. Giù ai confini tagliano alberi, alberi buoni. Alcuni li abbandonano lì a marcire, per pura cattiveria; ma la maggior parte viene fatta a pezzi e serve ad alimentare i fuochi di Orthanc. Si vede sempre del fumo innalzarsi da Isengard, di questi tempi.

«Sia maledetto, ramo e radice! Molti di quegli alberi erano amici miei, creature che conoscevo da quando erano noci o ghiande; molti di loro avevano la propria voce, che ormai è muta per sempre. Vi sono deserti pieni di ceppi e di rovi, là ove un tempo si udiva il bosco cantare. Io sono rimasto inattivo. Ho permesso che continuassero. Ma ora deve finire!».

Barbalbero si alzò dal letto d’un tratto, si eresse in tutta la sua statura e batté con violenza le mani sul tavolo. I vasi luminosi tremarono e sprigionarono due getti di fiamme. Negli occhi dell’Ent fremeva un fuoco verde, e la sua barba era tesa e rigida come una scopa.

«Io lo farò smettere!», tuonò. «E voi verrete con me. Potreste aiutarmi. Ed in tal modo aiutereste anche i vostri amici; perché se non si annienta Saruman, Rohan e Gondor avranno non solo un nemico di fronte, ma anche uno alle spalle. I nostri sentieri hanno la stessa meta: Isengard!».

«Verremo con te», disse Merry. «Faremo del nostro meglio». «Sì!», soggiunse Pipino. «Vorrei tanto vedere la Bianca Mano sconfitta! Vorrei essere presente, anche se non potrò essere molto utile: non dimenticherò mai Uglùk e la marcia attraverso Rohan».

«Bene! Bene!», esclamò Barbalbero. «Ma ho parlato affrettatamente. Non dobbiamo aver fretta. Mi sono infocato troppo. Devo calmarmi e riflettere; è assai più facile gridare “fermi!” che raggiungere lo scopo».

Si avvicinò all’arco e rimase per qualche tempo sotto gli spruzzi del ruscello. Poi rise, e si scrollò l’acqua di dosso, e le gocce brillanti toccando terra sfavillavano come verdi e rosse scintille. Tornò allora a coricarsi sul letto, e rimase in silenzio.

* * *

Dopo qualche minuto, gli Hobbit lo udirono di nuovo mormorare. Parve loro che stesse contando qualcosa sulle dita. «Fangorn, Finglas, Fladrif, ahi, ahi», sospirò. «Il guaio è che siamo rimasti in pochi», disse rivolgendosi agli Hobbit. «Dei primi Ent giunti nei boschi prima dell’Oscurità ne restano solo tre: io Fangorn, Finglas e Fladrif, per chiamarli coi loro nomi elfici; Ciuffofoglio e Scorzapelle, se preferite. E di noi tre, Ciuffofoglio e Scorzapelle sono quasi inutilizzabili in questa faccenda. Ciuffofoglio è quasi caduto in letargo (voi direste che ha incominciato a vegetare): ha preso l’abitudine di starsene solo e mezzo addormentato, immobile in un prato per tutta l’estate, con l’erba che gli cresce fino alle ginocchia. È ricoperto di capelli simili a foglie. Un tempo si svegliava con l’arrivo dell’inverno; ma ormai è troppo sonnolento per muoversi anche in questa stagione. Scorzapelle viveva sulle pendici dei monti ad ovest d’Isengard. È lì che abbiamo avuto i guai più grossi. Lui fu ferito dagli Orchi, e molti membri della sua famiglia e parecchi alberi del suo gregge sono stati assassinati e distrutti. Lui è salito nelle zone più alte, fra le betulle, che sono le sue piante preferite, e si rifiuta di scendere. Tuttavia penso che potrei radunar un bel gruppo di giovani…. se riesco a spiegar loro la situazione d’emergenza, e riesco a scuoterli: non siamo gente frettolosa. Che peccato, essere così in pochi!».

«Come mai siete rimasti in pochi, pur vivendo in questo paese da tanto tempo?», domandò Pipino. «Molti di voi sono morti?».

«Oh no!», rispose Barbalbero. «Nessuno è morto interiormente, come intendete voi. Alcuni, beninteso, sono stati travolti da eventi infausti nel corso dei lunghi anni, ed altri sono diventati vegetali. Ma non siamo mai stati molti, e il nostro numero non si è per nulla accresciuto. Non abbiamo mai avuto Entini (quelli che voi chiamate bambini), solo qualcuno in tempi immemorabili. Come vi ho detto, perdemmo le Entesse».

«Che triste storia!», disse Pipino. «Come mai morirono tutte?».

«Non morirono!», disse Barbalbero. «Non ho mai detto che morirono. Ho detto che le perdemmo. Le perdemmo e non riusciamo più a trovarle». Sospirò. «Credevo che la maggior parte della gente lo sapesse, ormai. Un tempo gli Elfi e gli uomini dal Bosco Atro a Gondor cantavano le gesta degli Ent partiti in cerca delle Entesse. Quei canti non possono esser stati del tutto obliati».

«Purtroppo temo che non siano giunti ad ovest delle Montagne, sin nella Contea», disse Merry. «Perché non ce ne parli tu, e non ci canti qualcosa che narri di loro?».

«Sì, lo farò senz’altro», disse Barbalbero, apparentemente felice della richiesta. «Ma non posso farvi un racconto dettagliato, vi dirò qualcosa in breve; e poi sarà ora di concludere: domani dobbiamo radunarci e fare molti altri lavori, e forse intraprendere un viaggio».

* * *

«È una vicenda alquanto strana e triste», proseguì dopo una breve pausa. «Quando il mondo era giovane, ed i boschi vasti e selvaggi, gli Ent e le Entesse (e vi erano anche delle Entelle, le ragazze, in quei tempi: oh! la bellezza di Fimbrethil, di Pievagava dal passo leggero, nei giorni della nostra giovinezza!) camminavano e vivevano insieme. Ma i nostri cuori non svilupparono i medesimi sentimenti: gli Ent amarono cose incontrate in giro per il mondo, e le Entesse rivolsero i loro pensieri altrove, poiché gli Ent ormai si erano affezionati ai grandi alberi ed ai boschi selvaggi, e alle pendici degli alti colli, e solevano bere nei ruscelli di montagna, e mangiare solo i frutti che gli alberi deponevano sul loro sentiero; ed essi conobbero gli Elfi, e parlarono con gli Alberi. Ma le Entesse si occuparono delle piante più piccole, dei prati illuminati dal sole fuori dai margini delle foreste; videro le prugnole sugli alberi, i meli selvatici ed i ciliegi fiorire in primavera, l’erba verde crescete d’estate nelle terre irrigue, ed i semi germogliare nei campi in autunno. Esse non desideravano parlare con queste cose, ma volevano essere ascoltate e obbedite. Le Entesse ordinarono loro di crescere secondo i propri desideri, e di produrre frutti e portare foglie a volontà; le Entesse infatti volevano ordine, abbondanza e pace, e ciò per loro significava che ogni cosa doveva restare al posto che esse avevano stabilito. E crearono giardini, per abitarli. Poi, quando l’oscurità giunse al Nord, le Entesse attraversarono il Grande Fiume e piantarono nuovi giardini, e coltivarono nuovi campi, e noi le vedemmo ancor più raramente. Quando l’Oscurità fu sconfitta, il paese delle Entesse fiorì e prosperò, e i loro campi si riempirono di grano. Molti Uomini appresero l’arte delle Entesse e furono estremamente riconoscenti; ma noi per loro non eravamo che una leggenda, un mistero sepolto nel cuore della foresta. Eppure eccoci ancora qui, mentre tutti i giardini delle Entesse sono deserti: gli Uomini li chiamano adesso le Terre Brune.

«Rammento che molto tempo addietro, all’epoca della guerra tra Sauron e gli Uomini del Mare, mi prese il desiderio di rivedere Fimbrethil. Era ancora splendida l’ultima volta che l’avevo rivista, anche se molto diversa dall’Entella della lontana gioventù. Le Entesse infatti divennero curve e scure per via del loro lavoro: avevano i capelli riarsi dal sole e del colore di grano maturo, e le guance rosse come mele. Eppure gli occhi erano ancora come i nostri. Noi traversammo l’Anduin e giungemmo nel loro paese: ma era tutto un deserto, ogni cosa bruciata e sradicata dalla guerra devastatrice. Ma le Entesse non erano più lì. Chiamammo a lungo, e cercammo ovunque, chiedendo a tutti quei che incontravamo da che parte fossero andate le Entesse. Alcuni dissero di non averle mai vedute, alcuni di averle viste dirigersi verso occidente, altri verso oriente, ed altri ancora verso sud. Cercammo dappertutto, senza trovarne traccia. Il nostro dolore fu grande. E poiché il bosco selvaggio ci chiamava, noi vi tornammo. Per molti e molti anni partimmo ogni tanto alla ricerca delle Entesse, camminando in lungo ed in largo, chiamandole con i loro bei nomi. Ma col passar del tempo le nostre partenze si fecero meno frequenti, ed i viaggi meno lunghi. Ormai le Entesse non sono per noi altro che un ricordo, ora che le nostre barbe sono lunghe e grigie. Gli Elfi composero molti canti inneggianti alla Ricerca degli Ent, alcuni dei quali furono tramandati nelle lingue degli Uomini. Noi invece non creammo alcuna canzone, poiché ci bastava cantare i bei nomi delle Entesse quando pensavamo a loro. Forse un giorno c’incontreremo nuovamente, e può darsi che troveremo un paese ove vivere insieme ed essere tutti soddisfatti. Ma è stato predetto che tutto ciò avverrà soltanto quando sia gli Ent che le Entesse avranno perduto ogni cosa che possedevano. E forse quel momento si sta infine avvicinando, perché così come in passato Sauron distrusse i giardini, oggi il Nemico pare stia per devastare i boschi.

«Rammento un canto elfico che ne parla, o perlomeno io l’ho sempre interpretato in questo modo. Solevano cantarlo mentre risalivano o scendevano il corso del Grande Fiume. Non fu mai, badate bene, un canto entesco: sarebbe stato molto molto lungo nella nostra lingua! Ma noi lo sappiamo a memoria, e lo cantiamo di tanto in tanto. Nel vostro idioma suonerebbe così:

ENT: Quando Primavera apre le foglie di faggio, e la linfa scorre nei rami;

Quando luce scintilla sul rapido torrente, e vento soffia sui colli lontani;

Quando è lungo il passo e profondo il respiro e pura l’aria di montagna,

Ritorna a me! Ritorna a me, e di’ ch’è bella la mia campagna!

ENTESSA: Quando Primavera è nei campi e giardini, e sullo stelo il grano;

Quando candidi fiori come neve splendente coprono il frutteto nel piano;

Quando sole e nembo empion di fragranza terra e aria,

Io resto qui, non torno a te, perché amo la mia campagna varia.

ENT: Quando l’Estate avvolge la terra in un meriggio d’oro;

Quando sotto fronde di foglie dormienti gli alberi sognano e sussurrano in coro;

Quando nei boschi son verdi e fresche le radure, e vento soffia da occidente,

Ritorna a me! Ritorna a me, di’ che la mia terra è più attraente!

ENTESSA: Quando Estate riscalda la bacca matura e il dolce frutto ormai pronto;

Quando d’oro è la Paglia e bianca la spiga, ed assaporiamo il raccolto;

Quando trabocca il miele e si gonfia la mela, pur se vento soffia da occidente,

Io resto qui, non torno a te, perché la mia terra è più attraente!

ENT: Quando verrà l’Inverno, dilaniando colline e boschi;

Quando cadranno gli alberi e giorni e notti saran foschi;

Quando soffiar da est il vento micidiale sentirò,

Nella bufera ti cercherò, nella bufera t’invocherò, e da te di nuovo tornerò!

ENTESSA: Quando verrà l’Inverno e finiranno i canti, e dovunque regnerà l’oscurità;

Quando il ramo nudo vedrò rotto, ed ogni opra distrutta sarà;

Ti cercherò, ti attenderò, e un di certo ci ritroveremo:

Insieme allora nella bufera a fianco a fianco cammineremo.

INSIEME: Insieme allora nella bufera a fianco a fianco ad ovest ce ne andremo,

Ed una terra ove ambedue i nostri cuori riposar potranno troveremo».

Così finiva la canzone di Barbalbero. «Ecco fatto», disse. «È elfica, beninteso: allegra, svelta, presto conclusa. Probabilmente è abbastanza bella. Ma gli Ent avrebbero altro da dire da parte loro, se ci fosse tempo sufficiente! Ma adesso mi alzerò per dormire. Voi dove preferite stare in piedi?».

«Generalmente noi dormiamo coricati», disse Merry. «Qui dove ci troviamo va benissimo».

«Dormite coricati!», esclamò Barbalbero. «Già? è vero! Hm, huum. Me ne ero dimenticato: quel canto mi ha riportato indietro nei tempi; credevo quasi di parlare con degli Entini. Bene, allora potete sdraiarvi sul letto. Io starò in piedi sotto la pioggia. Buona notte!».

Merry e Pipino salirono sul letto e si raggomitolarono sull’erba e le morbide felci. Era un giaciglio profumato e caldo. Le luci si spensero, ed il bagliore irradiato dagli alberi scomparve; fuori, sotto l’arco, il vecchio Barbalbero si teneva immobile con le braccia levate verso il cielo. Le fulgide stelle si affacciavano in cielo, illuminando il rivo d’acqua che zampillava sulle sue dita e sul suo capo, e gli gocciolava incessantemente sui piedi sotto forma di migliaia di perle argentate. Gli Hobbit si addormentarono ascoltando il tintinnio delle gocce.

Destandosi, videro un sole pallido brillare nel grande salone e sul pavimento della caverna. Brandelli di nubi correvano in alto nei cieli, trascinati da un rigido vento orientale. Barbalbero non era nei paraggi; ma mentre erano immersi nell’acqua del bacile presso l’arco, Merry e Pipino lo udirono cantare e fischiettare, avanzando tra le due navate d’alberi.

«Hu, ho! Buon giorno, Merry e Pipino!», vociò quando li scorse. «Dormite parecchio. Ho già percorso molte centinaia di passi, oggi. Adesso berremo un sorso, e poi ci recheremo all’Entaconsulta».

Riempì loro due ciotole del liquido preso da una delle giare, diversa da quella della volta precedente. Il gusto infatti non era lo stesso: più ricco e sostanzioso, più nutriente e, come dire, più alimentativo. Mentre gli Hobbit bevevano, seduti sul bordo del letto, e rosicchiavano pezzettini di lembas (non tanto perché avessero fame, quanto perché ritenevano che mangiare fosse una parte essenziale della colazione), Barbalbero guardava il cielo, canticchiando in Entese o in Elfico, o in qualche ignoto linguaggio. «Dov’è Entaconsulta?», si arrischiò a domandare Pipino.

«Huu, eh? Entaconsulta?», disse Barbalbero voltandosi. «Non è un luogo, è una riunione di Ent… il che oggigiorno avviene di rado. Ma sono riuscito a far promettere a molti di loro che sarebbero venuti. Ci raduneremo nel posto ove ci siamo sempre riuniti: gli Uomini lo chiamano Tondovallo. Da qui si raggiunge verso sud; dobbiamo trovarci lì prima di mezzogiorno».

Poco dopo si misero in marcia. Come il giorno prima, Barbalbero prese gli Hobbit in braccio. All’entrata del cortile voltò a sinistra, attraversò il corso d’acqua e proseguì verso sud ai piedi di grandi pendii dirupati e quasi spogli di alberi. Più in alto si potevano scorgere macchie di betulle, ed ancor più sopra scure e ripide pinete. Presto Barbalbero si allontanò dalle colline, per inoltrarsi in profondi boschetti i cui alberi erano i più grandi, alti e fitti che gli Hobbit avessero mai veduti. Da principio sentirono quel vago senso di soffocamento che avevano notato appena entrati a Fangorn, ma presto la spiacevole sensazione svanì. Barbalbero non parlava. Canticchiava a voce bassa, profonda e pensierosa; ma ciò che Merry e Pipino riuscivano a cogliere non erano vere e proprie parole, bensì qualcosa come buum, buum, rumbuum, buurar, bum bum, dabrar bum bum, dabrar buum, accompagnato da un costante cambiamento di note e di ritmo. Di quando in quando parve loro di udire una risposta, un ronzio o un suono vibrante che sembrava uscir fuori dalla terra, o dai rami sui loro capi, o forse dai tronchi d’albero; ma Barbalbero non si fermava e non volgeva la testa né da una parte né dall’altra.

* * *

Avevano già fatto molta strada - Pipino aveva tentato invano di tenere il conto degli «ent-passi», ma giunto a circa tremila si era confuso - quando Barbalbero cominciò a rallentare l’andatura. D’un tratto si arrestò, e dopo aver posato in terra gli Hobbit formò con le mani concave una specie di tubo innanzi alla propria bocca; quindi soffiò, o lanciò dei richiami. Si udì risuonare nei boschi un possente huum, hom, come un corno le cui note basse sembravano echi emessi dagli alberi. In lontananza e da parecchie direzioni giunsero simili huum, hom, huum, che non erano echi bensì risposte.

Barbalbero installò Merry e Pipino sulle proprie spalle e riprese il cammino, lanciando di tanto in tanto un richiamo seguito da risposte sempre più forti e vicine. In questo modo giunsero finalmente ad un muro di alberi scuri e sempreverdi dall’aspetto impenetrabile; piante di una specie ignota agli Hobbit. I rami partivano dalle radici, ed erano ricoperti da fitte foglie scure e lucide come agrifoglio senza spine; su steli rigidi e tesi brillavano molti boccioli color oliva.

Girando a sinistra e rasentando l’imponente siepe, Barbalbero raggiunse dopo pochi passi una stretta apertura. Vi passava un viottolo impervio che piombava improvvisamente in un ripido pendio. Gli Hobbit videro che stavano scendendo in un ampio vallo largo e profondo, il cui orlo circolare quasi come quello di una ciotola era contornato dall’alta siepe sempreverde. L’interno era piano ed erboso, e gli unici alberi erano tre altissime e stupende betulle argentate che si ergevano in fondo alla conca. Altri due sentieri provenienti da est e da ovest conducevano all’interno del vallo.

Parecchi Ent erano già arrivati; alcuni arrivavano dagli altri viottoli e alcuni già seguivano Barbalbero. Gli Hobbit avvicinandosi li osservavano attentamente. Si aspettavano di vedere un certo numero di creature altrettanto simili a Barbalbero quanto un Hobbit ad un altro Hobbit (perlomeno agli occhi di uno straniero), e rimasero molto stupiti di vedere che non era affatto così. Gli Ent erano fra loro diversi come alberi: per alcuni la differenza era quella che passa fra due alberi della stessa specie, cresciuti però in modo e in epoca alquanto dissimili; altri parevano addirittura di razza diversa come una betulla e un faggio, una quercia e un abete. Vi erano un paio di Ent più anziani, barbuti e nodosi, simili ad alberi robusti ma antichi; nessuno però era vecchio come Barbalbero. Vi erano anche degli Ent alti e robusti con lunghe membra e la pelle liscia, che parevano alberi in fiore; ma non vi erano giovani Ent, non vi erano germogli. In tutto circa due dozzine di Ent si trovavano già nell’ampio spazio erboso della conca, ed altrettanti stavano giungendo.

Sulle prime, Merry e Pipino furono colpiti soprattutto dalla varietà che si presentava loro: diversità di forme, colori, circonferenze, altezze, dimensioni di braccia e gambe; e dal numero di dita sia delle mani che dei piedi, che oscillava tra nove e tre. Alcuni sembravano più o meno imparentati con Barbalbero, e ricordavano i faggi o le querce, ma altri pareva appartenessero a stirpi del tutto estranee: Ent simili a castagni, bruni di pelle, dalle grandi mani con dita larghe e piatte e dalle piccole gambe tozze; Ent simili a frassini, alti, grigi ed eretti, con molte dita e lunghe gambe; Ent simili ad abeti, i più alti; Ent simili a betulle, ad aceri, a tigli. Ma quando gli Ent, radunati tutt’intorno a Barbalbero, col capo leggermente chino, mormorando con le loro lente voci armoniose, guardarono a lungo e intensamente gli stranieri, gli Hobbit videro che appartenevano tutti alla stessa stirpe, ed avevano tutti i medesimi occhi: non sempre antichi e profondi come quelli di Barbalbero, ma caratterizzati dalla stessa espressione lenta, fissa e pensierosa, ed illuminati da quel bagliore verde.

Non appena tutti furono riuniti in piedi in un ampio cerchio intorno a Barbalbero, si accese una strana, incomprensibile conversazione. Gli Ent si misero a mormorare a bassa voce: uno attaccò per primo, e gli altri si unirono a lui a poco a poco, fin quando non si udì che un’unica lenta salmodia, ora più forte da una parte del cerchio, ora attenuata, mentre ampiezza e volume crescevano dal lato opposto. Benché non riuscisse a cogliere né a comprendere alcuna delle parole pensò che doveva essere linguaggio entese Pipino fu sulle prime entusiasta del suono che udiva; ma gradualmente la sua attenzione scemò. Dopo molto tempo (e il canto non accennava a diminuire), incominciò a domandarsi se, essendo l’Entese una lingua così «poco frettolosa», stessero ancora dicendosi Buon giorno, e, qualora Barbalbero dovesse fare l’appello, quanto avrebbe impiegato per chiamarli tutti per nome. «Chissà come si dice e no in Entese», pensò, e fu colto da un lungo sbadiglio.

Barbalbero se ne accorse immediatamente. «Hm, ha, hey, Pipino caro!», disse, e tutti gli altri Ent interruppero la salmodia. «Stavo per dimenticare che siete gente frettolosa: e in ogni caso è stancante ascoltare un discorso che non si comprende. Ormai potete scendere dalle mie spalle. Ho comunicato all’Entaconsulta i vostri nomi, vi abbiamo esaminati e siamo d’accordo nel riconoscere che non siete Orchi, e nell’aggiungere un nuovo verso alle antiche liste. Non abbiamo detto altro, ma tutto ciò rappresenta per un’Entaconsulta un lavoro molto veloce. Tu e Merry potete passeggiare nella conca, se vi fa piacere. Troverete un pozzo di acqua potabile sul pendio nord, se avete bisogno di ristoro. Noi dobbiamo scambiare ancora qualche parola preliminare prima di aprire la vera e propria Consulta. Verrò io a riferirvi come stanno le cose».

Posò in terra gli Hobbit, i quali prima di allontanarsi s’inchinarono profondamente. Questa prodezza parve divertire molto gli Ent, a giudicare dal tono del loro mormorio e dal bagliore in fondo agli occhi; ma tosto si rimisero al lavoro. Merry e Pipino salirono il sentiero proveniente da ovest, e si affacciarono all’apertura nella grande siepe. Lunghi pendii ricoperti d’alberi s’innalzavano dall’orlo del vallo; al di là di essi si ergeva bianca ed acuminata sopra gli abeti la cima di un’alta montagna. Verso sud, alla loro sinistra, videro che la foresta scompariva giù nella grigia distanza, ove un pallido scorcio di verde annunziava la presenza, indovinata da Merry, delle pianure di Rohan.

* * *

«Chissà dove si trova Isengard?», disse Pipino.

«Non so esattamente dove siamo», rispose Merry; «però quella vetta è probabilmente il Methedras, e mi par di ricordare che il cerchio d’Isengard si trovi in una biforcazione o in un profondo burrone all’estremità dei monti. È probabile che sia dietro quella imponente cresta: parrebbe di vedere del fumo o della foschia lì a sinistra del picco, nevvero?».

«Com’è Isengard?», disse Pipino. «Vorrei sapere, comunque, che cosa possono fare di utile gli Ent».

«Anch’io», rispose Merry. «Isengard è una specie di cerchio di rocce o di colline, credo, intorno a un ampio spazio pianeggiante al centro del quale si trova un macigno o una colonna di roccia chiamata Orthanc. In cima vi è una torre che appartiene a Saruman. Nella muraglia circolare c’è un cancello, o forse più di uno, e, credo, anche un corso d’acqua che viene dalle montagne e l’attraversa per recarsi verso la Breccia di Rohan. Non sembrerebbe il posto adatto per degli Ent. Eppure questi Ent mi danno una strana sensazione: come se non fossero dopo tutto calmi e… buffi come paiono. Hanno l’aria di essere lenti, strani, pazienti, e quasi tristi; eppure credo che sia possibile destarli, e se avvenisse una cosa simile non vorrei essere al posto del nemico».

«Sì», disse Pipino. «So che cosa vuoi dire. La stessa differenza che passa fra una vecchia mucca sdraiata che rumina pensierosa e un toro alla carica: e la trasformazione potrebbe essere improvvisa. Chissà se Barbalbero riuscirà a destarli. Son certo che è animato dalle migliori intenzioni. Ma sono loro che non amano essere destati. Ieri sera, per esempio, i sentimenti di Barbalbero erano ben desti, ma lui provvide subito a reprimerli».

Gli Hobbit tornarono indietro. Le voci degli Ent continuavano ad elevarsi e abbassarsi nel conclave. Il sole era ormai sufficientemente alto per far capolino in cima all’alta siepe: brillava sul fogliame delle betulle e illuminava con una fresca luce gialla il lato della conca rivolto a nord. Ivi scorsero una sfavillante fontanella. Seguirono l’orlo della grossa ciotola ai piedi dei sempreverdi che piacere il contatto dei piedi sull’erba fresca, e il non aver fretta! quindi scesero giù sino all’acqua sgorgante. Bevvero un sorso d’acqua limpida, fredda, pungente, e si sedettero su di una pietra muscosa, guardando le macchie di sole sull’erba e le ombre di nuvole fuggenti che passavano veloci sul pavimento della conca. Il mormorio degli Ent perdurava. Ebbero l’impressione di trovarsi in un luogo molto strano e remoto, fuori del loro mondo, diverso da ogni loro precedente avventura. Furono allora punti da una grande nostalgia delle voci e dei volti amici, specialmente di Frodo, di Sam e di Grampasso.

Infine vi fu una pausa nella salmodia della Consulta, e gli Hobbit levando il capo videro Barbalbero avvicinarsi accompagnato da un altro Ent.

«Hm, huum, eccomi di nuovo qui», disse Barbalbero. «Incominciate a stancarvi o a spazientirvi, hmm, eh? Ebbene, temo che sia ancora troppo presto per spazientirsi. Abbiamo concluso la prima fase, ma rimangono ancora certe cose da spiegare nuovamente a coloro che vivono lontani da qui, distanti da Isengard, e a coloro che non sono riuscito a convincere prima della Consulta; dopo di che si dovrà decidere il da farsi. Comunque, non è tanto la decisione di per sé che richiede tempo, quanto il ricapitolare tutti i fatti e gli eventi che sono all’origine della deliberazione. Inutile negare però che ci tratterremo qui ancora un bel po’ di tempo: un paio di giorni probabilmente. Vi ho quindi portato un compagno. Ha una ent-casa nelle vicinanze; il suo nome elfico è Bregalad. Dice che ha già preso una decisione e che non è dunque più necessaria la sua partecipazione alla Consulta. Hm, hm, egli è ciò che più rassomiglia fra noi ad un Ent frettoloso. Vi dovreste trovare bene insieme. Addio!». Barbalbero si voltò e se ne andò.

Bregalad rimase qualche minuto immobile a osservare solennemente gli Hobbit, mentre essi guardavano lui, domandandosi quando avrebbe infine manifestato la propria «fretta». Era alto, e sembrava uno dei più giovani; la pelle delle sue braccia e gambe era liscia e lucida, le sue labbra vermiglie ed i capelli grigio-verde. Riusciva a curvarsi e a ondeggiare come un esile albero al vento. Infine parlò, e la sua voce, pur risonante, era più limpida e acuta di quella di Barbalbero.

«Ha, hmm, amici, facciamo una passeggiata!», disse. «Io sono Bregalad, che nella vostra lingua significa Sveltolampo. Ma non è che un soprannome, beninteso. Me lo hanno attribuito un giorno che risposi “sì” a un Ent più anziano prima che avesse finito la domanda. Inoltre bevo velocemente, e sono già fuori casa quando gli altri si stanno ancora bagnando la barba. Venite con me!».

Tese loro due braccia ben proporzionate e due mani dalle lunghe dita. Passeggiarono tutto il giorno con lui nei boschi, cantando e ridendo; Sveltolampo rideva spesso. Se il sole faceva capolino da dietro una nuvola, lui rideva; se incontravano una sorgente o un ruscello, lui rideva e chinandosi si bagnava la testa ed i piedi; a volte rideva per via di qualche suono o bisbiglio fra gli alberi. E quando vedeva una pianta di sorbo si arrestava un attimo a braccia aperte e cantava ondeggiando.

Sul calar della notte li condusse alla sua ent-casa: nulla di più di una pietra muscosa sita ai piedi di una verde collinetta, in un prato circondato da sorbi. Come in tutte le dimore degli Ent, vi gorgogliava l’acqua: una fonte sgorgata dal verde pendio. Parlarono a lungo mentre l’oscurità ammantava la foresta. Non lontano si udivano ancora le voci della Consulta; ma ora sembravano più profonde e meno pacate, e di tanto in tanto se ne levava una più alta e incalzante, mentre tutte le altre scemavano. Ma accanto agli Hobbit Bregalad parlava con voce dolce nella loro lingua, ed era quasi un sussurro; essi appresero che era imparentato con Scorzapelle, e che la terra ove vivevano era stata devastata. Ciò parve agli Hobbit una spiegazione sufficiente della sua «fretta», almeno in materia di Orchi.

«Crescevano tanti sorbi nella mia terra», disse Bregalad con voce dolce e triste, «sorbi attecchiti quando io non ero che un Entino, molti e molti anni addietro, e vivevo nella quiete del mondo. I più vecchi erano stati piantati dagli Ent per far piacere alle Entesse, ma queste li osservarono, e sorridendo dissero di sapere dove crescevano frutti più abbondanti e fiori ancor più candidi. Eppure non esistono, a mio avviso, in tutta la specie, la famiglia delle Rosacee, alberi belli come questi. Essi crebbero e prosperarono, e l’ombra di ognuno pareva un verde salone, e le rosse bacche d’autunno un pesante fardello di splendore e meraviglia. Gli uccelli vi si riunivano a stormi. Io amo gli uccelli, anche quando schiamazzano, e nei sorbi ve ne sono in abbondanza. Ma d’un tratto i volatili divennero ostili e voraci; stracciavano le foglie, gettando in terra i frutti senza mangiarli. Poi arrivarono gli Orchi con le loro asce e abbatterono i miei alberi. Ed io accanto ad essi invocavo i loro lunghi nomi, ma né un fremito né un sussurro mi rispondeva, perché non udivano: giacevano morti.

Oh Orofarnë, Lassemista, Carnimirië!

Oh dolce sorbo, come splendeva bianco sul tuo capo il fiore!

Oh sorbo mio, in un giorno d’estate io scorsi il tuo bagliore!

Corteccia lucente, voce limpida e dolce, fogliame fresco e leggero;

Era rosso-oro la grande corona che in capo portavi altero!

Oh sorbo, addio! La tua chioma morta grigia e secca è ormai;

La corona è caduta, la tua voce è perduta e per noi più non canterai.

Oh Orofarnë, Lassemista, Carnimirië!».

Gli Hobbit si addormentarono al dolce canto di Bregalad, che pareva un rimpianto in molte lingue degli alberi che l’Ent aveva tanto amati.

* * *

Passarono anche il giorno seguente in sua compagnia, ma senza allontanarsi molto dalla «casa». Rimasero per molto tempo seduti e silenziosi ai piedi della collinetta che li riparava da un vento ancor più freddo e da nubi più grigie e vicine; rari furono i raggi di sole, mentre da lontano giungevano le voci degli Ent della Consulta, voci che s’innalzavano e scemavano, prima forti e possenti, poi fioche e tristi, a volte incalzanti a volte lente e solenni come un memento. Venne la seconda notte, ed il conclave di Ent era ancora riunito, sotto nubi fuggenti e stelle che apparivano e sparivano.

Giunse il terzo giorno, gelido e ventoso. All’alba le voci degli Ent si levarono in un immenso clamore e poi si spensero lentamente. Man mano che il mattino avanzava, il vento diminuì e l’aria si fece greve di tensione e di attesa. Gli Hobbit si accorsero che Bregalad ascoltava adesso attentamente i rumori che venivano dalla Consulta e che per le loro orecchie erano molto fiochi.

Venne il pomeriggio, e il sole, dirigendosi verso le montagne d’occidente, proiettò dei lunghi raggi gialli tra le fessure delle nubi squarciate. D’un tratto, intorno a loro ogni cosa tacque; l’intera foresta attendeva in silenzio. Anche le voci degli Ent, beninteso, tacevano. Che significava? Bregalad era in piedi teso ed eretto, rivolto a nord verso Tondovallo.

Allora si udì un grande fracasso e un urlo possente risonò: Ra-huum-rah! Gli alberi tremarono, chinandosi come colpiti da una raffica di vento. Vi fu un’altra pausa, e poi cominciò a suonare una marcia simile a un solenne rullo di tamburi; al di sopra del rombo e dei tuoni si elevavano voci dal canto forte e possente.

Veniam, veniam, con rombo di tamburo;

ta-runda ram, ta-runda runda rom!

Gli Ent stavano arrivando, ed il loro canto diveniva sempre più vigoroso e vicino:

Veniam, veniam, con corno e con tamburo;

ta-runa runa runa rom!

Bregalad prese in braccio gli Hobbit e uscì di casa a grandi passi.

* * *

Poco dopo videro la fila che marciava avvicinandosi: gli Ent avanzavano a due a due con ritmo cadenzato, e discendevano il pendio nella loro direzione. Barbalbero era in testa, seguito da una cinquantina di compagni che tenevano il passo e battevano il tempo percuotendosi il fianco con una mano. Quando furono vicini, si poté scorgere il bagliore lampeggiante nei loro occhi.

«Huum, hom! Eccoci qui con un tuono, eccoci qui finalmente!», vociò Barbalbero vedendo Bregalad e gli Hobbit. «Coraggio, unitevi a noi! Stiamo partendo Stiamo partendo per Isengard!».

«Per Isengard!», tuonarono le molte voci degli Ent.

«Per Isengard!».

«Isengard! Anche se sei protetto da un maledetto, da monti e da ponti, noi faremo i conti!

Isengard! Anche se sei forte e violento, freddo come vento, duro e cruento, è giunto il momento,

È giunta la guerra e trema la terra, sfonderem la pietra e la porta tetra!

Bruciano il tronco ed il ramo, e noi andiamo, e noi marciamo

Con passo più duro di sasso, più greve di masso, con tono cavernoso e basso.

A Isengard portiamo sconquasso e fracasso

Sterminio e distruzione, scompiglio e perdizione!».

E così cantando marciarono verso sud.

* * *

Bregalad, con occhi che gli brillavano, s’inserì nella fila accanto a Barbalbero. Il vecchio Ent riprese allora gli Hobbit e li pose a sedere sulle proprie spalle, facendoli in tal modo cavalcare orgogliosamente in testa alla truppa inneggiante, col cuore che batteva forte ed il busto fiero ed eretto. Pur prevedendo che qualcosa sarebbe accaduta prima o poi, Merry e Pipino erano strabiliati della trasformazione subita dagli Ent: improvvisa quasi come l’irrompere di acque a lungo trattenute da una diga.

«Gli Ent sono stati alquanto rapidi nella loro decisione, non è vero?», s’azzardò a commentare Pipino dopo un bel po’ di tempo, durante una pausa del canto, quando si udì soltanto il ritmico battito dei piedi e delle mani.

«Rapidi?», disse Barbalbero. «Huum! Sì davvero. Più rapidi di quanto pensassi. Son davvero secoli che non li vedevo desti come ora. Noi Ent non amiamo essere destati; e non ci destiamo mai, salvo che i nostri alberi e la nostra vita non corrano grave pericolo. Ciò accadde per l’ultima volta in questa Foresta ai tempi delle guerre di Sauron contro gli Uomini del Mare. È tutto quell’abbattere e distruggere inutilmente ràrum degli Orchi, senza nemmeno il losco pretesto di alimentare i fuochi, che ci manda su tutte le furie; e il tradimento di un vicino che ci avrebbe dovuto aiutare. Gli Stregoni dovrebbero sapersi comportare meglio: sanno comportarsi meglio. Non vi è maledizione in Elfico, in Entese, nelle lingue degli Uomini, abbastanza terribile per un simile traditore. A morte Saruman!».

«Sfonderete davvero le porte d’Isengard?», domandò Merry. «Ho, hm, potremmo, sapete! Ma forse non sapete quanto siamo forti. Forse avete udito parlare dei Troll? Sono molto forti. Ma i Troll non sono che pessime copie degli Ent, fatte dal Nemico all’epoca della Grande Oscurità, così come gli Orchi sono una cattiva imitazione degli Elfi. Noi siamo assai più forti dei Troll. Le nostre ossa sono le ossa della terra. Possiamo spaccare la roccia come radici d’albero, ma più in fretta, molto più in fretta se siamo desti! Se non ci demoliscono, e non ci distruggono col fuoco o la magia nera, siamo capaci di spaccare Isengard in piccole schegge e ridurne le mura in briciole».

«Ma Saruman tenterà di arrestarvi, non credi?».

«Hm ah, sì, hai ragione. Non me ne ero dimenticato. Anzi ho meditato a lungo questo problema. Ma, come vedi, molti Ent sono più giovani di me, e di parecchie vite d’albero. Adesso sono tutti desti, e l’unica cosa alla quale pensano per il momento è di distruggere Isengard. Ma tosto rifletteranno di nuovo; si calmeranno un poco quando berremo il nostro sorso serale. Che sete avremo! Ma ora lasciamoli marciare e cantare! La via è molto lunga, e abbiamo tempo per pensare. È già qualcosa esser partiti».

Barbalbero continuò a marciare, cantando in coro con gli altri per qualche tempo. Ma poi la sua voce divenne lentamente un mormorio che infine si spense. Pipino vide che la vecchia fronte era arricciata e corrugata, e quando l’Ent levò il capo, scorse nei suoi occhi un’espressione triste, triste ma non infelice. In essi vi era una luce, come se la fiamma verde si fosse immersa ancor più profondamente nell’oscuro pozzo del suo pensiero.

«Certo è molto probabile, amici», disse adagio, «molto probabile che stiamo marciando verso la nostra distruzione: l’ultima marcia degli Ent. Ma se rimanessimo a casa inattivi, l’ora della distruzione giungerebbe comunque, prima o poi. È un pensiero che da molto tempo ormai covava nei nostri cuori: per questo adesso ci siamo messi in marcia. Non è stata una risoluzione frettolosa. Ora almeno l’ultima marcia degli Ent sarà degna di una canzone. Ahi!», sospirò, «può darsi che aiuteremo le altre genti prima di scomparire. Tuttavia mi sarebbe piaciuto vedere avverarsi ciò che i canti dicono a proposito delle Entesse. Avrei desiderato ardentemente rivedere Fimbrethil! Ma vedete, amici, le canzoni, come gli alberi, portano frutti solo a tempo giusto ed a modo loro: e a volte avvizziscono anzi tempo».

* * *

Gli Ent avanzavano a gran velocità. Erano discesi in una lunga piega del terreno che si abbassava verso sud, e attaccarono la scalata dell’alta e ripida scarpata occidentale. I boschi si diradarono a poco a poco, per lasciare il posto a sparse macchie di betulle, e infine a nudi pendii ove cresceva soltanto qualche pino sparuto. Il sole tramontò dietro l’oscuro colle che si ergeva innanzi a loro. Venne il crepuscolo grigio.

Pipino si voltò a guardare. Il numero degli Ent era aumentato… o che altro stava accadendo? Là dove avevano attraversato squallidi e spogli pendii, gli parve di distinguere grovigli d’alberi. E gli alberi si muovevano! Possibile che le piante di Fangorn si fossero svegliate, e che la foresta ascendesse il colle marciando verso la guerra? Si strofinò gli occhi, dubitando che sonno e tenebre l’avessero ingannato; ma le grandi ombre grigie avanzavano inesorabili. Si udiva un rumore, come il fruscio del vento in un mare di foglie. Gli Ent stavano per raggiungere la cima della scarpata, e le voci non cantavano più. Si fece notte, e il silenzio regnava: non vi era altro rumore che un vago fremito della terra sotto i piedi degli Ent, e un mormorio, come l’ombra di un bisbiglio fra molte foglie trascinate dalla corrente. Infine misero piede sulla cima, e guardarono giù nel buio di un pozzo profondo: il grosso burrone all’estremità dei monti, Nan Curunir, la Valle di Saruman.

«Isengard è immerso nella notte», disse Barbalbero.

CAPITOLO V IL CAVALIERE BIANCO

«Sono ghiacciato fin nelle ossa», disse Gimli agitando le braccia e pestando i piedi. Finalmente si era fatto giorno. All’alba i compagni avevano consumato la loro razione di cibo, e ora che la luce aumentava si preparavano a esaminare di nuovo il terreno, in cerca di tracce degli Hobbit.

«E non dimenticate il vecchietto!», disse Gimli. «Sarei più contento se trovassi l’impronta di scarponi».

«Perché ti farebbe piacere?», domandò Legolas.

«Perché un vecchietto i cui piedi lasciano orme potrebbe essere semplicemente quello che sembra», rispose il Nano.

«Può darsi», ribatté l’Elfo, «ma degli scarponi potrebbero anche non lasciare impronte qui: l’erba è alta e morbida».

«Non è questo che può ingannare un Ramingo», disse Gimli. «Ad Aragorn basta una lama ricurva per trarne le sue deduzioni. Ma non mi aspetto che trovi delle tracce. Quello che abbiamo veduto questa notte era un maligno fantasma di Saruman. Ne sono convinto, anche alla luce del giorno. E forse anche adesso i suoi occhi ci stanno spiando da Fangorn».

«È alquanto probabile», disse Aragorn; «eppure non ne sono del tutto certo. Sto pensando ai cavalli. Stanotte tu hai detto, Gimli, che sono scappati dalla paura. Ma non ebbi la tua stessa impressione. Li hai sentiti, Legolas? A te, parevano bestie colte dal terrore?».

«No», rispose Legolas. «Li ho uditi distintamente. Se non fosse stato per l’oscurità e la nostra paura, avrei detto che erano animali impazziti di gioia improvvisa. Parlavano come sogliono fare i cavalli quando incontrano un amico da tempo smarrito».

«Anche a me parve così», disse Aragorn; «ma non riuscirei a risolvere l’enigma, a meno che i cavalli non tornino. Coraggio! La luce aumenta rapidamente. Prima, guardiamo; indovineremo più tardi! È meglio incominciare da qui, nei pressi del nostro campo, e osservare accuratamente tutt’intorno, risalendo il pendio verso la foresta. Trovare gli Hobbit è il nostro compito, qualunque sia l’opinione di ciascuno sul visitatore notturno. Se per qualche fortuita combinazione sono riusciti a fuggire, si saranno senza dubbio nascosti fra gli alberi, per evitare di essere scorti. Se non troviamo nulla fra il punto in cui ci troviamo e i margini del bosco, faremo un ultimo tentativo sul campo di battaglia e fra le ceneri. Ma tenue è la speranza di trovar lì qualche cosa: i cavalieri di Rohan hanno portato a termine sin troppo bene la loro impresa».

* * *

Per molto tempo i compagni strisciarono tastando il terreno. L’albero s’innalzava mesto sulle loro teste, con le foglie secche e flosce che rumoreggiavano nel freddo vento dell’Est. Aragorn cominciò ad allontanarsi lentamente. Giunse alle ceneri del falò vicino alla sponda del fiume, per poi percorrete all’indietro il terreno sino al colle ove era stata combattuta la battaglia. D’un tratto si fermò, e chinandosi sfiorò quasi col viso l’erba del prato. Poi chiamò gli altri che arrivarono correndo.

«Ecco infine qualche indicazione!», disse Aragorn. Prese da terra e mostrò loro una foglia rotta, una grande foglia pallida e color oro che stava ormai diventando sbiadita e marroncina. «Questa è una foglia dell’albero d’oro di Lórien, e vi sono ancora su di essa e sull’erba vicino delle piccole briciole. E guardate! Qui accanto giacciono dei pezzi di corda tagliata!».

«Ed ecco il coltello che l’ha tagliata!», esclamò Gimli. Curvandosi tirò fuori da un ciuffo d’erba, ove qualche piede pesante l’aveva infilata nel calpestarla, una corta lama dentellata. L’elsa, dalla quale era stata spezzata, si trovava lì vicino. «È un’arma d’Orco», disse il Nano tenendola con precauzione ed osservando disgustato l’impugnatura scolpita che rappresentava un’abominevole testa dagli occhi obliqui e la bocca sghignazzante.

«Ebbene, questo è l’enigma più strano in cui ci siamo finora imbattuti!», esclamò Legolas. «Un prigioniero legato sfugge sia agli Orchi che ai Cavalieri assedianti. Quindi si ferma, prima di essere al coperto, e taglia le proprie corde con il pugnale d’un Orco. Come e perché? Se aveva le gambe legate, come poteva camminare? E se aveva le braccia legate, come ha potuto adoperare il coltello? E se né le une né le altre erano prigioniere, che necessità vi era di tagliare i lacci? Soddisfatto della propria destrezza, egli si sedette quindi comodamente pasteggiando col pan di via! Basta questo particolare, anche tralasciando la foglia di Lórien, per dimostrare che si trattava di un Hobbit. Dopo di che, deve avere trasformato le proprie braccia in ali ed essere volato via cantando fra gli alberi. Non dovrebbe essere difficile trovarlo: basta aver delle ali!».

«Questa è certo stata magia pura», disse Gimli. «Che faceva quel vecchietto? Che cos’hai da dire, Aragorn, sulla interpretazione di Legolas? Hai un’idea migliore?».

«Forse sì», disse sorridendo Aragorn. «Vi sono altri indizi nelle vicinanze, che avete tralasciato. Sono d’accordo sul fatto che il prigioniero era un Hobbit, e che doveva avere gambe o mani libere, prima di arrivare sin qui. Credo che fossero le mani, perché in tal modo l’enigma diventa più facile, e anche perché, a quel che vedo, egli fu trasportato in questo punto da un Orco. Qui venne versato del sangue, a pochi passi di distanza, ed era sangue di Orco. Vi sono impronte profonde di zoccoli tutt’intorno, e le tracce di un oggetto pesante trascinato via. L’Orco fu ucciso dai Cavalieri, e il suo corpo gettato nelle fiamme. Ma nessuno si accorse dell’Hobbit: egli non si trovava infatti allo “scoperto”, poiché era notte ed aveva ancora indosso il manto elfico. Essendo sfinito e affamato, non è da meravigliarsi che, dopo aver tagliato i lacci che lo tenevano prigioniero con il pugnale del nemico morto, si sia riposato e ristorato prima di strisciare via. Ma è confortante sapere che pur essendo corso via senza attrezzi né bagaglio, egli aveva in tasca del lembas: ed anche questo, forse, è tipicamente Hobbit. Dico egli, ma spero e credo che Merry e Pipino fossero ambedue qui; non vi è purtroppo nulla che confermi questa mia idea».

«Come credi che uno dei nostri amici abbia Potuto avere una mano libera?», domandò Gimli.

«Ignoro come abbia fatto», rispose Aragorn. «Ed ignoro anche perché l’Orco li stesse trasportando via. Non per aiutarli a fuggire, questo è certo. No, ma credo di cominciare a capire un fatto che mi ha stupito sin dal primo giorno: perché, dopo la morte di Boromir, gli Orchi furono paghi di aver catturato Merry e Pipino? Non tentarono d’inseguirci, né tanto meno di attaccare il nostro campo; invece si diressero a tutta velocità verso Isengard. Credevano forse di aver fatto prigioniero il Portatore dell’Anello, accompagnato dal suo servo fedele? Non lo penso. I loro padroni non avrebbero mai osato dare agli Orchi ordini così espliciti, anche essendo perfettamente al corrente della verità; non avrebbero mai parlato loro dell’Anello, perché non sono servitori fidati. Credo che gli Orchi avessero ricevuto l’ordine di catturare degli Hobbit vivi, ad ogni costo. Fu fatto un tentativo di sgusciare via con i preziosi prigionieri prima della battaglia. Forse un tradimento, cosa assai frequente per simile gente: qualche grosso Orco sfrontato stava forse cercando di scappare solo con il bottino, per un suo recondito fine. Ecco la mia versione. Ve ne sono forse anche altre possibili. Ma in ogni caso, un punto è sicuro: uno dei nostri due amici è fuggito. Tocca a noi adesso trovarlo e soccorrerlo prima di ritornare a Rohan. Non dobbiamo lasciarci scoraggiare da Fangorn, poiché fu il bisogno a spingerlo in quei luoghi bui».

«Non so che cosa mi scoraggi maggiormente, se Fangorn o il pensiero del lungo viaggio a piedi sino a Rohan», disse Gimli. «E allora inoltriamoci nella foresta», disse Aragorn.

* * *

Poco dopo il Ramingo trovò nuove indicazioni. In un punto presso l’argine dell’Entalluvio scoprì delle orme: erano di Hobbit, ma troppo leggere per rivelare qualcosa d’interessante. Poi di nuovo, ai piedi di un grosso albero, proprio al margine del bosco, scorsero altre impronte; ma la terra era secca e nuda e non vi era molto da vedere.

«Almeno un Hobbit rimase qui in piedi a guardare il cammino percorso, poi voltandosi s’inoltrò nella foresta», disse Aragorn.

«Quindi, anche noi dobbiamo avviarci», disse Gimli. «Ma non mi piace per nulla l’aspetto di questo Fangorn; e fummo anche messi in guardia contro di esso. Se almeno l’inseguimento ci avesse condotti altrove!».

«Non mi pare che il bosco sembri malvagio, nonostante ciò che dicono le storie», ribatté Legolas. In piedi sotto le fronde della foresta, leggermente curvo in avanti come in ascolto, fissava le ombre con grandi occhi spalancati. «No, non è malvagio; o comunque, ciò che vi è di malvagio si trova molto lontano. A me giungono solo echi assai deboli dai luoghi oscuri, ove i cuori degli alberi sono neri. Non vi è malizia intorno a noi; sento però vigilanza e collera».

«Ebbene, non ha alcun motivo la foresta di essere in collera con me», disse Gimli. «Non le ho mai fatto del male».

«Meglio così», disse Legolas. «Tuttavia sento che è stata danneggiata, e che qualcosa accade o sta per accadere più all’interno. Non vi accorgete della tensione? Mi mozza il fiato».

«Mi accorgo che l’aria è soffocante», rispose il Nano. «Questo legno è più leggero di quello del Bosco Atro, ma è ammuffito e decrepito».

«È vecchio, molto vecchio», disse l’Elfo. «Così vecchio che mi par quasi di tornare giovane, una sensazione che non ho mai più provata dopo essermi messo in viaggio con dei bambini come voi. È un bosco vecchio e impregnato di ricordi. Sarei stato felice qui, se fossi giunto in tempo di pace».

«Più che probabile», replicò Gimli. «Tu sei un Elfo dei Boschi, e comunque tutte le varietà di Elfi sono gente strana. Eppure mi dai un certo conforto. Dove vai tu, andrò anch’io. Ma tieni l’arco a portata di mano, mentre io allenterò la mia ascia nella cinta. Non per usarla contro gli alberi», soggiunse velocemente, levando lo sguardo verso l’albero che li sovrastava. «Non desidero incontrare improvvisamente quel vecchietto senza essere provvisto di qualcosa che ci aiuti a discutere; tutto qui. Andiamo!».

* * *

Ed ora, i tre cacciatori s’immersero nella foresta di Fangorn. Legolas e Gimli affidarono ad Aragorn il compito di rilevare le impronte. Vi era poco da vedere. Il terreno del bosco era asciutto e ricoperto di tappeti di foglie; ma supponendo che i fuggiaschi non si sarebbero allontanati dall’acqua, egli tornava spesso sulle rive del fiume. Fu così che scoprì il luogo ove Merry e Pipino avevano bevuto ed immerso i loro piedi, e lì, chiare agli occhi di tutti, erano le impronte di due Hobbit, le une leggermente più piccole delle altre.

«Queste sono buone notizie», disse Aragorn. «Purtroppo sono tracce di due giorni fa, e pare che da qui in poi gli Hobbit abbiano abbandonato il corso d’acqua».

«Ed ora, che cosa facciamo?», domandò Gimli. «Non possiamo certo inseguirli attraverso tutta la foresta. Abbiamo poche provviste. Se non li troviamo presto, saremo del tutto inutili, e non potremo far altro che sederci accanto a loro e dar prova dell’amicizia che ci lega, morendo di fame insieme».

«Se davvero non possiamo far altro, allora è proprio ciò che dobbiamo fare», disse Aragorn. «Andiamo!».

* * *

Giunsero infine alla ripida parete del Colle di Barbalbero, e i loro sguardi si posarono sui rozzi gradini intagliati nel muro di roccia che conducevano all’alto ripiano. Raggi di sole attraversavano le nubi fuggenti, e la foresta sembrava adesso meno grigia e tetra.

«Saliamo lassù per guardarci intorno!», disse Legolas. «Ho ancora il fiato mozzo. Desidererei respirare un po’ di aria meno soffocante».

I compagni si arrampicarono, ed Aragorn salì per ultimo, molto adagio: stava osservando minuziosamente ogni scalino e sporgenza. «Sono quasi certo che gli Hobbit sono stati quassù», disse. «Ma ci sono anche altre impronte assai strane, che non riesco a identificare. Mi domando se da questo ripiano si vedrà qualcosa che ci aiuti a capire da che lato si siano poi diretti!».

Quando fu in piedi in alto, si guardò intorno, ma non vide nulla di interessante. Il ripiano era rivolto a sud-est, ma soltanto in quest’ultima direzione il panorama era sgombro, e si potevano scorgere filari di alberi discendenti verso la pianura che avevano da poco lasciata.

«Abbiamo fatto un lungo giro», disse Legolas. «Saremmo potuti venir qui tutti insieme sani e salvi se fossimo partiti dal Grande Fiume il secondo o il terzo giorno, puntando verso ovest. Pochi possono prevedere dove li condurrà la via prima di essere giunti alla fine». «Ma non era nostra intenzione venire a Fangorn», disse Gimli. «Tuttavia eccoci qui…. bene intrappolati nella rete», disse Legolas. «Guardate!».

«Che cosa dobbiamo guardare?», domandò Gimli.

«Lì, fra gli alberi».

«Dove? Non ho gli occhi d’un Elfo».

«Ssssst! Parla a bassa voce! Guarda!», disse Legolas mostrando con il dito. «Giù nel bosco, lungo il sentiero che abbiamo appena percorso. È lui. Non lo vedete avanzare quatto quatto?».

«Lo vedo! Ora sì che lo vedo!», sibilò Gimli. «Guarda, Aragorn! Te l’avevo detto! Ecco il vecchietto. Tutto vestito di luridi stracci grigi: perciò sulle prime non riuscivo a vederlo».

Aragorn scorse una figura curva che avanzava lentamente. Non era molto distante, e sembrava un vecchio mendicante dal passo stanco che si appoggiasse a un rozzo bastone. Teneva il capo chino, e non levò lo sguardo su di loro. In altre contrade, l’avrebbero salutato con parole amichevoli, ma questa volta rimasero in silenzio, come in preda a una strana tensione: si stava avvicinando qualcosa che conteneva un potere nascosto…, o forse una minaccia.

Gimli osservò con occhi spalancati la figura avvicinarsi a passo a passo. Poi, improvvisamente, incapace di trattenersi ancora, scoppiò a dire: «Il tuo arco, Legolas! Tendilo! Preparati! È Saruman. Non lasciare che parli, o getti su di noi qualche incantesimo! Sii tu il primo a colpire!».

Legolas prese l’arco e lo tese, ma lentamente, come se qualche forza recondita gli opponesse resistenza. Aveva in mano una freccia che però non aggiustò sull’arco. Aragorn taceva, e il suo volto era vigile e attento.

«Che cosa aspetti? Che ti sta succedendo?», disse Gimli, con un sibilante sussurro.

«Legolas ha ragione», disse piano Aragorn. «Non possiamo tirare all’improvviso su di un vecchio ignaro, quali che siano i nostri timori e sospetti. All’erta, ma aspettiamo!».

* * *

In quel momento il vecchio affrettò il passo e giunse con rapidità sorprendente ai piedi della parete rocciosa. Poi levò improvvisamente lo sguardo, mentre in piedi, immobili, essi lo guardavano dall’alto. Non si udiva un rumore.

Il viso del vecchio non si vedeva, poiché portava un cappuccio, e su questo un cappello dalle larghe falde che metteva in ombra tutti i lineamenti, eccetto la punta del naso e una barba grigia. Ciò nonostante, ad Aragorn parve di scorgere il bagliore di due occhi acuminati e brillanti nell’ombra della fronte incappucciata.

Il vecchio interruppe infine il silenzio. «Benincontrati, amici», disse a bassa voce. «Desidero parlarvi. Scendete giù o salgo io?». Senza aspettare la risposta cominciò ad arrampicarsi. «Ora!», gridò Gimli. «Fermalo, Legolas!».

«Non vi ho forse detto che desidero parlarvi?», disse il vecchio. «Mettete via quell’arco, Messer Elfo!».

L’arco e la freccia caddero dalle mani di Legolas, che rimase in piedi con le braccia penzoloni lungo i fianchi.

«E voi, Messer Nano, vi prego, togliete la mano dall’impugnatura della vostra ascia finché sono con voi! L’ascia non serve alla nostra conversazione».

Gimli trasalì e rimase immobile come un sasso, con lo sguardo fisso, mentre il vecchio saltava su per gli impervi scalini agile come una capra. Ogni traccia di stanchezza pareva lo avesse abbandonato. Quando posò il piede sul ripiano, vi fu come un debole raggio, un rapido bagliore di bianco, troppo breve per esserne certi, come se qualche indumento nascosto dagli stracci grigi si fosse per un attimo svelato. Si udì Gimli trattenere il respiro, e nel silenzio sembrò un sibilo.

* * *

«Benincontrati, vi dico di nuovo!», esclamò il vecchio dirigendosi verso di loro. Quando fu a pochi passi di distanza, rimase fermo e curvo sul suo bastone, col capo teso in avanti, scrutandoli da sotto il cappuccio. «E che cosa potete fare da queste parti? Un Elfo, un Uomo ed un Nano vestiti alla maniera elfica. Vi è senza dubbio, dietro tutto ciò, una storia che vale la pena di ascoltare. Simili cose non si vedono spesso da queste parti».

«Parli come se conoscessi bene Fangorn», disse Aragorn. «È così?».

«Non bene», rispose il vecchio: «sarebbe necessario uno studio che duri molte vite. Ma vengo qui di tanto in tanto».

«Potremmo sapere il tuo nome, e poi udire ciò che hai da dirci?», disse Aragorn. «La mattina avanza, e il nostro compito non può attendere».

«Ciò che avevo da dire l’ho già detto: che cosa potete fare da queste parti, e qual è la vostra storia? Quanto al mio nome…». S’interruppe e rise a lungo sommessamente. Aragorn sentì un brivido nella schiena, uno strano fremito gelido; eppure non si trattava di paura o di terrore: era piuttosto l’improvviso morso di un’aria frizzante, o lo scroscio di fresca pioggia che desta un sognatore inquieto.

«Il mio nome!», ripeté il vecchio. «Non l’avete forse già indovinato? Credo che l’abbiate udito prima d’oggi. Sì, l’avete certo udito. Ora, suvvia, narrate la vostra storia!».

I tre compagni rimasero immobili e silenziosi.

«Qualcuno comincerebbe a dubitare che il vostro compito sia lecito», disse il vecchio. «Per fortuna, io ne so qualcosa. State seguendo, credo, le orme di due giovani Hobbit. Sì, Hobbit. Non guardatemi come se non aveste mai udito questo strano nome. Lo conoscete, e lo conosco anch’io. Ebbene, si trovavano quassù l’altro ieri, e incontrarono qualcuno che non si aspettavano. Vi conforta saperlo? Ed ora forse desiderate anche sapere dove sono stati portati? Bene, bene, credo di potervi dare qualche notizia anche su ciò. Ma perché stiamo in piedi? Il vostro compito, vedete, non è più urgente come pensavate. Sediamoci dunque, e saremo più a nostro agio».

Il vecchio si voltò per dirigersi verso un mucchio di pietre e rocce franate ai piedi della cresta che si ergeva dietro di loro. Immediatamente, come se si fosse spezzato un incantesimo, gli altri si rilassarono e si mossero. La mano di Gimli tornò subito all’impugnatura dell’ascia, Aragorn sguainò la spada, Legolas raccolse l’arco.

Il vecchio non vi fece caso, ma chinandosi si sedette su di una bassa pietra piatta. Fu allora che il suo manto grigio si aprì, ed essi videro senza dubbio possibile che l’abito sotto era completamente bianco.

«Saruman!», gridò Gimli balzando avanti con l’ascia in pugno. «Parla! Dicci dove hai nascosto i nostri amici! Che cos’hai fatto di loro? Parla, o lascerò nel tuo cappello una traccia che anche uno Stregone riuscirà difficilmente a cancellare!».

* * *

Il vecchio fu più rapido di lui. Saltò in piedi, e con un balzo salì su di una grande roccia. Ivi si eresse improvvisamente, giganteggiando. Il cappuccio e gli stracci grigi giacevano in terra, e le bianche vesti brillavano. Levò il bastone, e l’ascia sgusciò via dalla mano di Gimli, cadendo con fragore sul terreno. La spada di Aragorn, rigida nella sua mano paralizzata, sfavillò di fuoco improvviso. Legolas lanciò un urlo e scoccò una freccia in alto verso il cielo: scomparve in una vampata di fiamme.

«Mithrandir!», gridò. «Mithrandir!».

«Benincontrato, ti ripeto, Legolas!», disse il vecchio.

Lo guardarono tutti stupefatti. La sua capigliatura al sole era candida come neve, e la sua veste bianca e splendente; gli occhi sotto le folte sopracciglia erano luminosi, penetranti come raggi di sole; in mano aveva lo strumento del potere. Paralizzati dalla meraviglia, dalla gioia e dal timore, rimasero senza parole.

Infine Aragorn si scosse. «Gandalf!», disse. «Al di là di ogni speranza tu giungi a noi nel momento del bisogno! Qual velo copriva i miei occhi? Gandalf!». Gimli non parlò, ma cadde in ginocchio portandosi una mano alla fronte.

«Gandalf», ripeté il vecchio, come se avesse ritrovato fra vecchi ricordi una parola da tempo in disuso. «Sì, era questo il nome. Io ero Gandalf».

Discese dalla roccia e raccolse la cappa grigia, avvolgendosela poi intorno alle spalle: e parve che il sole splendente di poco prima fosse ora di nuovo nascosto dalle nubi. «Sì, potete chiamarmi ancora Gandalf», disse con una voce che era quella del loro vecchio amico e capo. «Alzati, mio buon Gimli! A te nessun rimprovero, e a me nessun danno. Amici, nessuno di voi possiede armi che potrebbero ferirmi. Siate allegri! Eccoci di nuovo insieme, al cambiamento di marea. La grande tempesta sta per giungere, ma la marea è cambiata».

Posò una mano sul capo di Gimli, ed il Nano levò lo sguardo e rise improvvisamente. «Gandalf!», esclamò. «Ma tu sei tutto vestito di bianco!».

«Sì, ora sono bianco», disse Gandalf. «Anzi, sono Saruman, si può dire, Saruman come sarebbe dovuto essere. Ma suvvia, raccontatemi di voi! Io ho attraversato fuochi ed acque profonde, da quando ci lasciammo. Ho obliato molte cose che credevo di sapere, ed appreso molte altre che avevo obliate. Riesco a vedere molte cose assai lontane, e molte altre, vicine, sfuggono alla mia vista. Raccontatemi di voi!».

«Che cosa desideri sapere?», domandò Aragorn. «Sarebbe troppo lungo raccontarti tutto ciò che è accaduto da quando ci lasciammo sul ponte di Moria. Perché non ci dai prima notizie degli Hobbit? Li hai trovati? Sono al sicuro?».

«No, non li ho trovati», rispose Gandalf. «Vi era oscurità sulle valli dell’Emyn Muil, e ignoravo che fossero prigionieri: fu l’aquila a informarmene».

«L’aquila!», disse, Legolas. «Vidi per l’ultima volta tre giorni fa sull’Emyn Muil un’aquila volare alta e molto lontana».

«Sì», disse Gandalf, «era Gwaihir, il Re dei Venti, che mi salvò da Orthanc. Lo mandai avanti ad osservare il Fiume e a raccogliere informazioni. La sua vista è acuta, ma non può penetrare sotto alberi e colline. Egli ha scorto alcune cose, io ne ho vedute altre. L’Anello si trova ormai al di là di ogni mio soccorso, e di quello di qualunque altro membro della Compagnia partita da Gran Burrone. La sua presenza fu quasi rivelata al Nemico, ma poi gli sfuggì. Diedi anch’io il mio contributo: seduto in un luogo elevato lottai contro la Torre Oscura, e l’Ombra passò. Ma io ero stanco, molto stanco, e camminai a lungo, perduto in oscuri pensieri».

«Allora sai qualcosa di Frodo!», esclamò Gimli. «Come procede il suo viaggio?».

«Non saprei dire. Egli fu salvato da un grande pericolo, ma molti altri lo attendono. Decise di recarsi a Mordor da solo, e si mise in cammino; è tutto quanto posso dirvi».

«Ma non solo», disse Legolas. «Pensiamo che Sam l’abbia accompagnato».

«Davvero?», esclamò Gandalf con un lampo negli occhi e un sorriso sul volto. «Lo sta accompagnando, davvero? Non lo sapevo, ma la cosa non mi sorprende. Bene! Molto bene! Mi rincuorate. Dovete raccontarmi tutto quel che sapete. Sedetevi accanto a me e narratemi il vostro viaggio».

* * *

I compagni sedettero per terra ai suoi piedi ed Aragorn incominciò il racconto. Per molto tempo Gandalf non disse nulla e non fece domande. Teneva le mani aperte sulle ginocchia e gli occhi chiusi. Infine, quando Aragorn parlò della morte di Boromir e del suo ultimo viaggio sul Grande Fiume, il vecchio sospirò.

«Non hai detto tutto quel che sai o indovini, Aragorn, amico mio», mormorò dolcemente. «Povero Boromir! Non riuscivo a capire che cosa gli stesse accadendo. Una triste e dura prova per uno come lui: guerriero e signore di molti uomini. Galadriel mi disse che era in pericolo; ma un pericolo a cui egli infine seppe sottrarsi. Ne sono felice. Non è stato vano che i giovani Hobbit siano venuti con noi, poiché hanno contribuito alla salvezza di Boromir. Ma non sarà l’unica parte che avranno avuto in questa vicenda. Furono portati a Fangorn, e la loro venuta è comparabile alla caduta di piccoli sassi che scatenano una valanga in alta montagna. Già mentre parliamo odo i primi rombi. Saruman farà bene a non essere fuori casa, quando crollerà la diga!».

«In un punto non sei per nulla cambiato, amico caro», disse Aragorn: «parli ancora per enigmi».

«Come? Enigmi?», disse Gandalf. «No! Stavo parlando ad alta voce con me stesso. Un’abitudine degli anziani: scelgono fra i presenti il più saggio a cui rivolgersi; le lunghe spiegazioni necessarie ai giovani sono stancanti». Rise, ed ora era un suono caldo e amico come un raggio di sole.

«Non sono più giovane nemmeno dal punto di vista degli Uomini delle Antiche Casate», disse Aragorn. «Perché non rivelarmi con maggior chiarezza ciò che hai in mente?».

«Che dirti, dunque?», rispose Gandalf, e s’interruppe un attimo per riflettere. «Ecco in breve come vedo le cose in questo momento, poiché desideri conoscere nel modo più chiaro possibile le mie idee. Il Nemico sa da molto tempo che l’Anello è in movimento, portato da un Hobbit. Adesso conosce anche il numero dei membri della Compagnia partita da Gran Burrone, e la stirpe di ognuno di essi. Ma non vede ancora quale possa essere il nostro scopo. Egli suppone che ci stiamo tutti recando a Minas Tirith, perché è ciò che avrebbe fatto al nostro posto. Sarebbe stato, dal suo punto di vista, un grosso colpo inflitto al suo potere. Ha davvero una gran paura che qualche essere indomabile appaia improvvisamente e adoperi l’Anello per fargli guerra, distruggerlo, e prendere il suo posto. Che il nostro desiderio sia invece di distruggerlo senza che nessun altro prenda il suo posto, non gli sfiora nemmeno la mente. Che il nostro scopo sia di annientare l’Anello stesso, non l’immagina nemmeno nel suo sogno più buio. In tutto ciò, senza dubbio, vedete la nostra buona fortuna e la nostra speranza. Infatti, prevedendo una guerra, egli l’ha scatenata per primo, convinto che non vi fosse tempo da perdere; colui che colpisce per primo, se colpisce con forza sufficiente, può non aver bisogno di colpi successivi. Ed è per questo che ha messo in moto tutte le forze che da tempo prepara, e lo ha fatto in anticipo sul previsto. Saggio imbecille. Se avesse adoperato tutta la sua potenza per sorvegliare Mordor e impedire a chiunque di entrarvi, e si fosse dedicato con tutta la sua astuzia alla caccia dell’Anello, allora sì sarebbe svanita ogni speranza: né l’Anello né il Portatore l’avrebbero eluso a lungo. Ma ora il suo occhio scruta le terre straniere, anziché quelle intorno a lui, e si posa più insistentemente su Minas Tirith. Tra poco ormai la sua potenza si rovescerà su di essa come una tempesta.

«Egli sa già che i messaggeri inviati per tendere un agguato alla Compagnia hanno di nuovo fallito. L’Anello non è stato trovato. Né sono riusciti a portar seco degli Hobbit come ostaggi. Ma se vi fossero riusciti, sarebbe stato un grave colpo per noi, forse anche fatale. Ma non ottenebriamo i nostri cuori immaginando le torture che avrebbero patito nella Torre Oscura a causa della loro gentile fedeltà. Il Nemico ha colpito a vuoto…, finora. Grazie a Saruman». «Saruman non è dunque un traditore?», disse Gimli.

«Se non è un traditore?», rispose Gandalf. «Lo è doppiamente. Vi sembrerà strano, ma nulla di tutto ciò che abbiamo sofferto di recente è stato grave come il tradimento d’Isengard. Persino quale signore e capo guerriero Saruman è diventato estremamente forte. Egli minaccia gli Uomini di Rohan e li distoglie dall’aiutare Minas Tirith, proprio nel momento in cui si avvicina la tempesta dall’Est. Eppure un’arma traditrice è anche pericolosa per la mano che l’impugna. Saruman aveva intenzione di prendere per sé l’Anello, o perlomeno d’intrappolare qualche Hobbit per i suoi fini malvagi. E così i nostri nemici hanno semplicemente collaborato fra loro per far giungere Merry e Pipino, con straordinaria rapidità e al momento giusto, sin nella foresta di Fangorn, ove altrimenti non sarebbero mai venuti!

«Sono inoltre pieni di nuovi dubbi che disturbano i loro piani. Nessuna notizia della battaglia giungerà a Mordor, grazie ai Cavalieri di Rohan; ma l’Oscuro Signore sa che due Hobbit furono catturati nell’Emyn Muil e trascinati verso Isengard contro il volere dei propri servitori. Ora deve temere Isengard, oltre a Minas Tirith. Se Minas Tirith crolla, le cose si metteranno assai male per Saruman».

«È un peccato che i nostri amici si trovino in mezzo», disse Gimli. «Se non vi fossero terre fra Isengard e Mordor, questi potrebbero combattersi l’un l’altro, e noi osservarli e aspettare».

«Il vincitore ne uscirebbe più forte che mai, e senza più oppositori», disse Gandalf. «Ma Isengard non può combattere contro Mordor se Saruman non si procura l’Anello, e non vi riuscirà mai. Ancora non conosce il pericolo che lo minaccia. Vi sono tante cose ch’egli non conosce. Era così ansioso di metter le mani sulla preda, che non ha saputo resistere alla tentazione di lasciare la propria casa per spiare e incontrare i messaggeri. Ma è arrivato troppo tardi, questa volta; la battaglia era già finita, e la conclusione irrimediabile, prima che giungesse in questi paraggi. Non si trattenne a lungo qui. Io leggo nella sua mente e vedo i dubbi che vi covano. Crede che i Cavalieri abbiano ucciso e bruciato tutti sul campo di battaglia; ma non sa se gli Orchi avessero o no dei prigionieri. E ignora la disputa fra i suoi servitori e gli Orchi di Mordor, come ignora anche il Messaggero Alato».

«Il Messaggero Alato!», esclamò Legolas. «Lo colpii con l’arco di Galadriel al di sopra di Sam Gebir, ed egli cadde dal cielo empiendo tutti noi di terrore. Di quale nuovo maleficio si tratta?».

«È uno che non può esser distrutto con le frecce», disse Gandalf. «Tu uccidesti solo il suo destriero. Una bella impresa, ma il Cavaliere fu presto nuovamente a cavallo. Egli era infatti un Nazgûl, uno dei Nove che adesso montano cavalli alati. Fra breve sovrasteranno col loro terrore gli ultimi eserciti dei nostri amici, togliendo loro ogni raggio di sole. Ma non hanno ancora il permesso di attraversare il Fiume, e Saruman ignora questa nuova forma che riveste gli Spettri dell’Anello. Il suo pensiero è sempre volto all’Anello. Era presente durante la battaglia? Fu trovato da qualcuno? Che cos’accadrebbe se giungesse nelle mani di Théoden, Signore del Mark, e se questi ne apprendesse la potenza? È questo il pericolo che teme, ed è tornato correndo a Isengard per raddoppiare e triplicare le sue forze d’assalto destinate ad attaccare Rohan. E durante tutto ciò ha trascurato un altro pericolo molto vicino, preso com’è dai suoi pensieri. Ha dimenticato Barbalbero».

«Ora parli nuovamente con te stesso», disse sorridendo Aragorn. «Barbalbero non mi è noto. Inoltre, ho indovinato parte del doppio tradimento di Saruman, ma non riesco a capire in che modo la venuta a Fangorn di due Hobbit sia stata utile: a me pare sia soltanto servita a procurarci un lungo infruttuoso inseguimento».

«Un momento!», esclamò Gimli. «Vi è un’altra cosa che desidero sapere innanzi tutto: eri tu, Gandalf, o era Saruman che abbiamo veduto ieri sera?».

«Non avete certo visto me», rispose Gandalf, «quindi ne deduco che dovete aver visto Saruman. Evidentemente ci rassomigliamo a tal punto, che il tuo desiderio di lasciare sul mio cappello tracce incancellabili è alquanto comprensibile».

«Bene, bene!», disse Gimli. «Sono contento che non fossi tu».

Gandalf rise di nuovo. «Sì, mio buon Nano», disse, «è un gran conforto vedere che su alcuni punti non vi sono equivoci possibili. Lo so fin troppo bene! Ma sia chiaro che non ho mai biasimato la tua accoglienza. Come potrei, se sono stato io a consigliare ripetutamente ai miei amici di non fidarsi nemmeno delle proprie mani quando hanno a fare col Nemico. La fortuna ti assista, Gimli figlio di Glòin! Forse un giorno vedrai insieme Saruman e me, e potrai allora istituire un confronto!».

«Ma gli Hobbit!», interloquì Legolas. «Siamo venuti sin qui per cercarli, e pare che tu sappia dove sono. Dicci dunque dove si trovano adesso!».

«Con Barbalbero e gli Ent», rispose Gandalf.

«Gli Ent!», esclamò Aragorn. «C’è dunque un fondo di verità nelle antiche leggende che narrano degli abitanti delle profonde foreste e dei giganteschi pastori d’alberi? Vi sono dunque ancora degli Ent al mondo? Credevo che fossero un tenue ricordo di tempi che furono; pensavo persino che si trattasse soltanto di una leggenda di Rohan».

«Una leggenda di Rohan!», gridò Legolas. «No! Ogni Elfo delle Terre Selvagge ha inneggiato agli antichi Onodrim e alla loro lunga pena. Eppure anche per noi essi non sono che un ricordo. Se ne dovessi incontrare uno ancora in giro per il mondo, allora mi sentirei davvero ritornare giovane! Barbalbero: questa è una traduzione di Fangorn nella Lingua Corrente, tuttavia mi pareva che tu parlassi di una persona. Chi è questo Barbalbero?».

«Ah! Ora stai chiedendo troppo», rispose Gandalf. «Il poco che so della sua lunga e lenta storia empirebbe un racconto per il quale ora non abbiamo tempo sufficiente. Barbalbero è Fangorn, il guardiano della foresta; è il più vecchio degli Ent, l’essere vivente più antico che cammini oggi sotto il sole nella nostra Terra di Mezzo. Spero veramente, Legolas, che tu possa incontrarlo. Merry e Pipino sono stati fortunati: lo incontrarono proprio qui. Egli venne due giorni fa e li portò seco nella sua dimora, fra le radici delle montagne. Sovente viene qui, soprattutto quando la sua mente è inquieta, e le notizie del mondo esterno lo turbano. Lo vidi quattro giorni addietro avanzare a gran passi fra gli alberi, e credo che anche lui mi abbia scorto, poiché si fermò; ma io non dissi nulla, greve com’ero di pensieri, e stanco della lotta con l’Occhio di Mordor; Barbalbero non mi rivolse la parola, né pronunciò il mio nome».

«Forse anche lui ti prese per Saruman», disse Gimli. «Ma tu parli di Fangorn come se fosse un amico. Credevo che fosse invece pericoloso».

«Pericoloso!», esclamò Gandalf. «Anch’io lo sono, estremamente pericoloso: più pericoloso di qualunque cosa tu possa mai incontrare, a meno di non essere condotto vivo innanzi al trono dell’Oscuro Signore. E anche Aragorn è pericoloso, così come Legolas. Sei circondato dai pericoli, Gimli figlio di Glóin, perché pure tu, a modo tuo, sei pericoloso. Certo, la foresta di Fangorn è piena d’insidie… e soprattutto per coloro che sono troppo veloci nell’impugnare l’ascia; e Fangorn stesso è pericoloso; ciò nonostante è saggio e gentile. Ma ora la sua lunga e lenta collera sta per traboccare, e l’intera foresta ne è sommersa. Sono stati gli Hobbit con il loro arrivo e le notizie che portavano, l’ultima goccia: tra poco avanzerà come un’inondazione, una marea, rivolta però contro Saruman e le asce d’Isengard. Sta per accadere una cosa che non succedeva dai Tempi Remoti: gli Ent stanno per destarsi, e scopriranno di essere potenti».

«Che cosa faranno?», domandò Legolas stupefatto.

«Lo ignoro», disse Gandalf. «Credo che nemmeno loro stessi conoscano le proprie intenzioni. Chissà!». Tacque, ed il suo capo si chinò assorto.

* * *

Gli altri lo guardarono. Un raggio di sole, squarciando nuvole in fuga, gli cadeva sulle mani, che teneva ora sul grembo col palmo rivolto verso il cielo: e sembrava che contenessero la luce come vasi empiti di acqua. Infine levò gli occhi e guardò dritto il sole.

«Il mattino sta scomparendo», disse. «Presto dovremo metterci in marcia».

«Andiamo a trovare i nostri amici e a conoscere Barbalbero?», domandò Aragorn.

«No», rispose Gandalf. «Non è quella la via che dovete prendere. Ho detto parole di speranza, ma nulla più che di speranza. La speranza non è la vittoria. La guerra incombe su di noi e su tutti i nostri amici, una guerra in cui soltanto l’uso dell’Anello potrebbe assicurarci la vittoria. Ciò mi empie di grande dolore e di grande paura: molte cose verranno distrutte, e tutto potrebbe essere perduto. Io sono Gandalf, Gandalf il Bianco, ma il Nero è ancor più potente».

Si alzò e guardò l’Oriente, facendosi ombra con la mano, come se vedesse cose lontane che nessuno di loro scorgeva. Quindi scosse il capo. «No», disse a bassa voce, «non lo potremmo più raggiungere. Di ciò perlomeno possiamo essere contenti: nessuna tentazione Più di adoperare l’Anello. Dobbiamo affrontare quasi senza speranza un pericolo, ma quello mortale sappiamo ch’è ormai lontano».

Si volse. «Vieni, Aragorn figlio di Arathorn!», disse. «Non rimpiangere la scelta fatta nella valle dell’Emyn Muil, non chiamare questo un vano inseguimento. Tu scegliesti, nel dubbio, il sentiero che pareva giusto: una decisione ben presa, che è stata ricompensata. In tal modo infatti ci siamo incontrati in tempo giusto, mentre avremmo potuto altrimenti ritrovarci troppo tardi. Ma la missione dei tuoi compagni è conclusa. Il vostro viaggio d’ora in poi avrà il fine di mantenere la promessa fatta. Dovrete andare a Edoras e recarvi da Théoden nel suo palazzo. Hanno bisogno di voi, laggiù. La luce di Andùril deve ora splendere fulgida nella battaglia che ha tanto attesa. C’è la guerra a Rohan e, quel ch’è peggio, le cose si stanno mettendo male per Théoden».

«Allora non rivedremo più gli allegri giovani Hobbit?», domandò Legolas.

«Non ho detto questo», rispose Gandalf. «Chi può saperlo? Abbi pazienza. Vai dove devi andare, e spera! A Edoras! Anch’io sto andando là».

«È un cammino assai lungo per un uomo, sia egli giovane o vecchio», disse Aragorn. «Temo che arriverò quando la battaglia sarà da lungo tempo conclusa».

«Lo vedremo lo vedremo», disse Gandalf. «Volete venire con me adesso?».

«Sì, partiremo insieme», disse Aragorn. «Ma non dubito che giungerai prima di me, se lo desideri». Si alzò, ed il suo sguardo rimase a lungo fisso su Gandalf. Gli altri li osservavano in silenzio, eretti l’uno innanzi all’altro. La figura grigia dell’Uomo, Aragorn figlio di Arathorn, era alta, severa come la pietra, e la sua mano poggiava sull’impugnatura della spada; sembrava che un re fosse sorto dalle nebbie del mare e approdato sulle rive dei miseri mortali. Innanzi a lui, curva, bianca, la vecchia figura brillava ora come se qualche strana luce vi covasse; era china sotto il fardello degli anni, ma custodiva una potenza superiore alle forze dei re.

«Non ho forse ragione, Gandalf», disse infine Aragorn, «quando dico che potresti giungere ovunque molto più rapidamente di me? Ed aggiungo questo: tu sei il nostro capitano e la nostra bandiera. L’Oscuro Signore ne possiede Nove; ma noi ne abbiamo Uno, più possente di tutti loro: il cavaliere Bianco. Egli ha attraversato il fuoco e gli abissi, e loro tremeranno al suo cospetto. Andremo ovunque ci conduca».

* * *

«Sì, ti seguiremo tutti insieme», disse Legolas. «Ma prima, Gandalf, sarebbe un gran sollievo per me udire che cosa ti accadde a Moria. Perché non ce lo racconti? Perché non ti fermi ancora un po’, e non sveli ai tuoi amici come riuscisti a fuggire?».

«Mi sono trattenuto sin troppo», rispose Gandalf. «Il tempo è breve. Ma anche se avessi un anno avanti a me, non potrei dirvi tutto».

«Dicci almeno ciò che vuoi, e ciò che il tempo permette!», pregò Gimli. «Suvvia, Gandalf, narra il tuo viaggio col Balrog!».

«Non pronunziare questo nome!», esclamò Gandalf; e parve che per un momento un’ombra di dolore gli offuscasse il volto, ed egli rimase muto, vecchio come la morte. «Caddi per molto tempo», riprese infine lentamente, come se riandare indietro con la mente gli fosse difficile. «Caddi per molto tempo, e lui con me. Il suo fuoco mi avvolgeva. Avvampai. Poi precipitammo nelle acque profonde e tutto fu buio. Erano fredde come il mare della morte, e mi ghiacciarono quasi il cuore».

«Profondo è l’abisso varcato dal Ponte di Durin, e nessuno mai lo ha misurato», disse Gimli.

«Tuttavia ha un fondo, al di là della luce e di ogni conoscenza», disse Gandalf. «Ivi giunsi infine, nelle estreme fondamenta della pietra. E lui era ancora con me. Il suo fuoco era spento, ma ora si era tramutato in un essere di fango e melma, più forte di un serpente strangolatore.

«Lottammo a lungo nelle profondità della viva terra, ove il tempo non esiste. Sempre mi afferrava e sempre io lo colpivo, e infine fuggì attraverso oscure gallerie. Non erano state scavate dal popolo di Durin, Gimli figlio di Glóin. Giù, molto più giù dei più profondi scavi dei Nani, esseri senza nome rodono la terra. Persino Sauron non li conosce. Essi sono più vecchi di lui. Adesso io ho camminato in quei luoghi, ma non narrerò nulla che possa oscurare la luce del sole. Disperato com’ero, il mio nemico era l’unica speranza che avessi, e lo inseguii afferrandogli le caviglie. Così mi condusse dopo molto tempo nei segreti passaggi di Khazad-dûm, che conosceva sin troppo bene. Poi continuammo a salire, sempre più in alto, e giungemmo all’Interminabile Scala».

«Era da tempo scomparsa», interloquì Gimli. «Molti hanno persino detto che non è esistita altro che nelle leggende, mentre altri pretendono che sia stata distrutta».

«Fu costruita, e mai più distrutta», disse Gandalf. «S’inerpica dalla galleria più profonda sino alla vetta più alta, una spirale ininterrotta di molte migliaia di gradini che ascende sino alla Torre di Durin, scavata nella viva roccia di Zirakzigil, la punta estrema di Dentargento.

«Ivi, in cima a Celebdil, vi era una solitaria finestra nella neve, e al di là di essa uno stretto spazio, che pareva un vertiginoso nido d’uccello rapace sovrastante le nebbie del mondo. Il sole vi scintillava con violenza, ma in basso ogni cosa era avvolta dalle nubi. Lui con un balzo fu all’aperto, e nel momento in cui lo raggiunsi avvampò in nuove fiamme. Nessuno ci vide, altrimenti, nei secoli a venire, forse si canterebbero canzoni sulla Lotta del Picco». Improvvisamente Gandalf rise. «Ma che cosa potrebbero dire le canzoni? Coloro che dal basso miravano la lontana vetta pensarono che il monte fosse incoronato di tempesta. Udirono tuoni, e videro lampi e fulmini scagliarsi su Celebdil e ricadere in una pioggia di lingue di fuoco. Non basta forse questo? Un grande fumo s’innalzò intorno a noi, vapori e foschie si sprigionarono. Il ghiaccio cadde come pioggia. Scaraventai giù il mio nemico, e lui precipitando dall’alto infranse il fianco della montagna nel punto in cui cadde. Allora fui avvolto dall’oscurità, errai fuori dal pensiero e dal tempo, e vagabondai lontano per sentieri che non menzionerò.

«Infine fui rimandato nudo là dove l’oscurità mi aveva colto (ma per poco posso ancora parlare, perché la mia missione mi chiama con urgenza). E giacqui nudo in cima alla montagna. La torre dietro di me non era altro che polvere, e la finestra scomparsa; la scala in rovina soffocata dai massi arsi ed infranti. Ero solo, dimenticato, senza speranza di salvezza, sul duro corno del mondo. Ivi supino, guardavo sopra di me le stelle compiere il loro ciclo, e ogni giorno era lungo come una vita terrena. Vago alle mie orecchie giungeva il rumore confuso di tutte le terre: il sorgere e il morire, il canto e il pianto, e il lento eterno gemito della pietra sotto il troppo pesante fardello. Così infine mi trovò Gwaihir, il Re dei Venti; mi prese con sé e mi portò via.

«“È destino ch’io sia sempre il tuo fardello, amico nel bisogno”, gli dissi.

«“In passato fosti un fardello”, rispose, “ma ora non più. Leggero come piuma di cigno sei fra i miei artigli. Il sole ti attraversa con i suoi raggi. Credo davvero che più non hai bisogno del mio aiuto: se per caso ti lasciassi cadere, galleggeresti sospeso sul vento”.

«“Non lasciarmi cadere!”, esclamai, perché in me sentivo risorgere la vita. “Portami a Lothlórien!”.

«“È infatti questo l’ordine di Dama Galadriel che m’inviò a cercarti”, rispose Gwaihir.

«In tal modo giunsi a Caras Galadhon e seppi che voi eravate partiti da poco. Rimasi a lungo nel tempo senza età di quella terra, ove i giorni guariscono invece di logorare. E fui guarito e vestito di bianco. Diedi consigli e ricevetti consigli. Poi da lì per ignote vie sono giunto a portare messaggi per alcuni di voi. Ad Aragorn fui pregato di rivolgere codeste parole:

Elessar, Elessar, dove sono adesso i Dunedani?

Perché sogliono i tuoi errar così lontani?

È ora che i Perduti si facciano avanti,

Che arrivino i Grigi Compagni dal Nord su cavalli fumanti.

Ma buio è il sentiero ove dovrai camminare,

I Morti guardan la strada che porta sino al Mare.

«A Legolas, Galadriel inviò questo messaggio:

Legolas Verdefoglia, a lungo nella foresta

Hai vissuto con gioia. Guardati dall’Onda!

Se il gabbiano odi gridar sulla sponda,

Il tuo cuor più non riposerà nella foresta».

Gandalf tacque e chiuse gli occhi.

«A me dunque non ha inviato messaggio?», disse Gimli chinando il capo.

«Oscure sono le sue parole», disse Legolas, «ed hanno ben poco significato per coloro che le ricevono».

«Questo non è motivo di conforto», replicò Gimli.

«Come?», ribatté Legolas. «Preferiresti che ti parlasse apertamente della tua morte?».

«Sì, se null’altro avesse da dirmi».

«Che dite?», interloquì Gandalf aprendo gli occhi. «Sì, credo di intuire il significato delle sue parole. Ti chiedo scusa, Gimli! Stavo ponderando i messaggi per l’ennesima volta. Dama Galadriel mi affidò parole anche per te, e non oscure né tristi.

«“A Gimli figlio di Glóin”, mi disse, “porta il saluto della Dama. Scrigno della Ciocca, ovunque andrai il mio pensiero ti accompagnerà. Ma abbi cura che la tua ascia colpisca l’albero giusto!”».

«Che ora felice, questa del tuo ritorno, Gandalf!», gridò il Nano, sgambettando e cantando forte nella strana lingua dei Nani. «Venite! Venite!», vociò, roteando l’ascia. «Poiché la testa di Gandalf è ormai sacra, andiamo in cerca di quella giusta!».

«Non ci vorrà molto per trovarla», disse Gandalf levandosi in piedi. «Venite! Abbiamo concesso tutto il tempo che si possa concedere a degli amici perduti che si ritrovano. Ora dobbiamo affrettarci».

* * *

Si riavvolse nel vecchio manto a brandelli e si mise in marcia. Lo seguirono rapidamente ai piedi dell’alta parete rocciosa, attraverso un tratto di foresta, e poi nuovamente lungo le rive dell’Entalluvio. Non dissero altro finché non si ritrovarono sull’erba oltre i confini di Fangorn. Non vi era traccia dei loro cavalli.

«Non sono tornati», disse Legolas. «Sarà un cammino assai faticoso!».

«Io non camminerò. Ho fretta», disse Gandalf. Alzò la testa e mandò un lungo fischio dalla nota così chiara e acuta, che gli altri rimasero stupefatti di udire un tale suono sibilare fra le vecchie labbra barbute. Fischiò tre volte; allora, fioco e distante, parve loro di sentire il nitrito di un cavallo giungere dalle praterie col vento d’oriente. Attesero incuriositi. Il rumore di zoccoli, che sulle prime non era che un vibrare del terreno percepibile soltanto da Aragorn disteso sull’erba, crebbe velocemente e divenne un rapido scalpitio.

«Vi è più di un cavallo in arrivo», disse Aragorn.

«Naturalmente», ribatté Gandalf. «Siamo un carico troppo ingente per un destriero solo».

«Sono tre», disse Legolas guardando fisso la pianura. «Guardate come corrono! C’è Hasufel, e al suo fianco il mio amico Arod! Ma ne scorgo uno cavalcare innanzi: un cavallo assai grande. Mai ne ho veduto uno simile».

«E mai più lo vedrai», disse Gandalf. «Quello è Ombromanto, il capo dei Mearas, principi dei cavalli, e nemmeno Théoden, Re di Rohan, conobbe mai un destriero così bello. Miratelo scintillare come argento e galoppare liscio come un fiume che scorre veloce! Viene per me: è il cavallo del Cavaliere Bianco. Combatteremo insieme».

Mentre il vecchio stregone parlava, il grande destriero salì di volata il lungo pendio innanzi a loro; il suo manto brillava e la criniera ondeggiava al vento veloce. Gli altri due lo seguivano, ma alquanto lontani. Non appena Ombromanto scorse Gandalf, rallentò l’andatura e nitrì con voce potente; poi, dopo un breve tratto, curvò la fiera testa e strofinò le grandi narici contro il collo del vecchio stregone.

Gandalf lo accarezzò. «Siamo assai distanti da Gran Burrone, amico mio», disse; «ma tu sei saggio e veloce e arrivi nel momento del bisogno. Galoppiamo ora via insieme, senza più separarci in questo mondo!».

Poco dopo giunsero gli altri cavalli e si allinearono tranquilli in attesa d’ordini. «Dobbiamo recarci subito a Meduseld, al palazzo del vostro padrone, Théoden», disse Gandalf rivolgendosi a loro con tono grave. Essi chinarono il capo. «Il tempo preme; perciò, col vostro permesso, amici, noi vi monteremo in groppa. Vi prego di galoppare quanto più rapidi potete. Hasufel porterà Aragorn, ed Arod Legolas. Porrò Gimli innanzi a me e Ombromanto graziosamente ci reggerà ambedue. Adesso ci fermeremo soltanto per bere un sorso».

«Ora mi spiego parte dell’enigma di ieri sera», disse Legolas saltando leggero sulla groppa di Arod. «I cavalli, non so se fuggiti per la paura o qualche altro motivo, incontrarono poi Ombromanto, il loro capo, e lo salutarono con gioia. Sapevi che si trovava nei dintorni, Gandalf?».

«Sì, lo sapevo», rispose lo stregone. «Diressi i miei pensieri su di lui, pregandolo di affrettarsi; e così fece, poiché ieri si trovava all’estremo sud di questo paese. Possa ora riportarmi indietro altrettanto presto!».

Gandalf disse qualcosa a Ombromanto, e il cavallo si avviò con una buona andatura che anche gli altri cavalli però riuscivano a mantenere. Dopo un breve tratto voltò bruscamente, e scegliendo un punto ove gli argini erano più bassi, guadò il fiume dirigendosi poi dritto a sud attraverso una contrada piatta, spoglia e vasta. Il vento correva come onde grigie su interminabili miglia di terra erbosa. Non vi erano tracce di strade né sentieri, ma Ombromanto non si arrestò e non esitò mai.

«Sta puntando dritto verso il palazzo di Théoden, ai piedi delle falde dei Monti Bianchi», disse Gandalf. «In tal modo giungeremo più rapidamente. La terra è più solida nell’Esternnet, sull’altra riva del fiume, ove giace il sentiero principale per il Nord, ma Ombromanto conosce perfettamente la via tra paludi e fossi».

Continuarono a cavalcare per molte ore tra prati e terre fluviali. Sovente l’erba era tanto alta che giungeva oltre le ginocchia dei cavalieri, ed i destrieri parevano nuotare in un oceano grigio-verde. Incontrarono molti stagni celati alla vista e ampie zone umide e fangose ove ondeggiavano i giunchi; ma Ombromanto trovò sempre la strada, e gli altri cavalli seguirono la sua scia. Il sole discese lento in cielo sino a occidente. Guardando l’orizzonte della grande pianura, i cavalieri lo videro per un attimo mentre scompariva come un fuoco rosso tuffatosi nell’erba. I bassi contorni delle montagne su ambedue i lati divennero incandescenti. Un fumo parve innalzarsi e dare al sole un colore di sangue, come se l’astro, passando, avesse arso ogni pianta prima di scendere sotto l’orlo della terra.

«Ivi si trova la Breccia di Rohan», disse Gandalf. «Quasi diritto a occidente. E lì giace Isengard».

«Vedo un grande fumo», disse Legolas. «Che cosa può mai essere?».

«Guerre e battaglie!», disse Gandalf. «Avanti!».

CAPITOLO VI IL RE DEL PALAZZO D’ORO

Continuarono a cavalcare, e giunse lento, dopo il tramonto, il crepuscolo, mentre le ombre della notte cominciavano a infittirsi. Quando infine si arrestarono per smontare, persino Aragorn era irrigidito e stanco. Gandalf concesse poche ore di riposo. Legolas e Gimli dormirono, mentre Aragorn giaceva supino; ma Gandalf rimase in piedi, appoggiato al suo bastone, scrutando l’oscurità a est e a ovest. Regnava il silenzio, e non vi era segno né rumore di esseri viventi. Quando si alzarono, la notte era traversata da lunghe nubi che fuggivano portate da un vento gelido. Si rimisero in viaggio sotto la fredda luna, rapidi come in pieno giorno.

Le ore passavano ed essi cavalcavano sempre. Gimli, insonnolito, sarebbe caduto se Gandalf non l’avesse afferrato e scosso. Hasufel e Arod, stanchi ma fieri, seguivano l’instancabile guida: un’ombra grigia innanzi a loro che si fondeva con le tenebre. Le miglia correvano via. La luna crescente s’immerse nell’Occidente nebbioso.

* * *

Un vento freddo e pungente si levò. Lentamente il buio ad oriente sbiadì e lasciò il posto a un grigio di ghiaccio. Raggi di luce rossa scavalcarono le nere mura dell’Emyn Muil alla loro estrema sinistra. Poi venne l’alba limpida e luminosa; un vento basso attraversava il loro sentiero, correndo sull’erba piegata. D’un tratto Ombromanto si fermò e nitrì. Gandalf indicò qualcosa innanzi a loro.

«Guardate!», gridò, ed essi levarono gli occhi stanchi. Davanti a loro si ergevano le montagne del Sud: incappucciate di bianco e striate di nero. Le praterie si stendevano sino ai colli raggruppati ai loro piedi, e inondavano di verde molte valli ancora vaghe e oscure, inviolate dalla luce dell’alba, che serpeggiavano sin nel cuore delle imponenti montagne. Dritto innanzi ai viaggiatori si apriva la più ampia di queste valli, come un lungo golfo fra i colli. Più lontano, all’interno, scorgevano un insieme montagnoso e franato dal quale emergeva un alto picco; alla imboccatura della conca stava di guardia, come una sentinella, un’altura solitaria. Intorno alle sue falde scorreva un filo d’argento, il corso d’acqua proveniente dalla valle; in cima, ancor lontano, intravidero un barlume al sole sorgente, uno scintillare d’oro.

«Parla, Legolas!», disse Gandalf. «Descrivi quel che scorgi lì innanzi a noi!».

Legolas scrutò l’orizzonte, riparandosi gli occhi dai raggi orizzontali del sole appena levato. «Vedo un bianco fiume che scende dalle nevi», disse. «Nel punto ove esce dall’ombra della valle, si erge ad est un verde colle. È circondato da una diga, un muro possente e un recinto spinoso. All’interno s’innalzano tetti di case e nel centro, su una verde terrazza, vedo, imponente, un grande palazzo di Uomini. Ai miei occhi parrebbe ricoperto d’oro. La sua luce brilla su tutta la contrada. Sono anche d’oro i pilastri delle porte, ove degli Uomini vestiti di lucenti cotte di maglia montano la guardia. Ma tutti nei cortili interni dormono ancora».

«Edoras si chiamano quei cortili», disse Gandalf, «e Meduseld il Palazzo d’Oro. Ivi dimora Théoden figlio di Thengel, Re del Mark di Rohan. Giungiamo col sorgere del giorno. La via si stende aperta avanti a noi, ma dobbiamo cavalcare con maggiore precauzione; la guerra infierisce, ed i Rohirrim, i Signori dei Cavalli, non dormono, anche se da lontano sembrerebbe così. Non sguainate le armi, non pronunziate parole altezzose; questo è il mio consiglio prima di giungere al cospetto di Théoden».

* * *

Il mattino si destava luminoso e limpido, e gli uccelli cantavano, quando i viaggiatori giunsero al corso d’acqua. Scorreva veloce nella pianura, e poco oltre i piedi dei colli descriveva una larga curva e attraversava la loro strada, per poi proseguire verso est ad alimentare il lontano Entalluvio dalle sponde rigogliose di giunchi. La campagna era verde: negli umidi prati e lungo gli argini erbosi del fiume crescevano molti salici. In questa contrada meridionale essi incominciavano già ad arrossire sulla punta delle dita, sentendo avvicinarsi la primavera. Il letto del fiume era attraversato da un guado calpestato da zoccoli di cavalli. I viaggiatori passarono e giunsero così su una ampia pista accidentata che conduceva verso le alture.

Ai piedi del colle cinto da mura, il sentiero serpeggiava all’ombra di molti tumuli alti e verdi. Le loro pendici occidentali erano coperte da un’erba bianca che pareva neve trasportata dal vento: come innumerevoli stelle scintillanti, spuntavano nel prato dei piccoli fiori. «Guardate!», disse Gandalf. «Come son belli gli occhi luminosi nell’erba! Ricordasempre è il loro nome, Simbelmynë in questa terra d’Uomini, poiché fioriscono in ogni stagione dell’anno e crescono là ove riposano i morti. Mirate! siamo giunti presso i grandi tumuli ove dormono i padri di Théoden».

«Sette sulla sinistra e nove sul lato destro», disse Aragorn «Sono trascorse molte lunghe vite d’Uomo da quando fu costruito il Palazzo d’Oro».

«Da allora le foglie rosse della mia dimora nel Bosco Atro sono cadute cinquecento volte», disse Legolas; «a noi sembra un tempo molto breve».

«Ma per i Cavalieri del Mark è così lungo», ribatté Aragorn, «che la costruzione di questa dimora è ricordata solo dalle canzoni, e gli anni precedenti si perdono nella nebbia dei tempi. Essi chiamano ormai questa terra la loro casa, la loro proprietà, e parlano un linguaggio assai diverso da quello dei loro parenti settentrionali». Attaccò allora un dolce canto in un lento idioma ignoto al Nano e all’Elfo; ma essi ascoltarono, perché era molto melodioso e musicale.

«Suppongo sia questa la lingua dei Rohirrim», disse Legolas; «somiglia alla campagna che ci circonda: rigogliosa e morbida a volte, e a volte dura e severa come le montagne. Ma non immagino il significato di quelle parole, capisco soltanto che sono cariche della tristezza degli Uomini Mortali».

«Questa è nel Linguaggio Corrente la versione più fedele che ti possa dare», disse Aragorn.

«Dove sono cavallo e cavaliere? Dov’è il corno dal suono violento?

Dove sono l’elmo e lo scudiere, e la fulgida capigliatura al vento?

Dov’è la mano sull’arpa, e il rosso fuoco ardente?

Dov’è primavera e la messe, ed il biondo grano crescente?

Son passati come pioggia sulla montagna, come raffiche di vento in campagna;

I giorni scompaiono ad ovest, dietro i colli che un mare d’ombre bagna.

Chi riunirà il fumo del legno morto incandescente?

Chi tornerà dal Mare e potrà mirare il tempo lungo e fuggente?

Così parlava a Rohan tanto tempo addietro un poeta obliato che narrava quanto fosse alto e bello Eorl il Giovane, giunto galoppando dal Nord; ali aveva ai piedi il suo destriero, Felaròf, padre dei cavalli. Queste son parole che gli Uomini cantano ancora di sera».

Discorrendo così i cavalieri oltrepassarono i silenziosi tumuli. Seguendo il serpeggiante sentiero su per le verdi falde del colle, giunsero infine alle imponenti mura spazzate dal vento ove si aprivano i cancelli di Edoras.

Ivi sedevano molti Uomini rivestiti di brillanti cotte di maglia, che balzarono subito in piedi sbarrando la via con le lance. «Fermi, ignoti stranieri!», gridarono nella lingua del Riddermark, domandando nome e scopo dei viaggiatori. Nei loro occhi si leggeva la meraviglia, ma poca cordialità; rivolsero a Gandalf uno sguardo cupo. «Comprendo perfettamente il vostro linguaggio», rispose questi nel medesimo idioma; «ma è prerogativa di pochi stranieri. Perché dunque non parlate nella Lingua Corrente, come si usa nell’Occidente, se desiderate ricevere una risposta?».

«È un ordine di Re Théoden, che nessuno varchi i suoi cancelli se non conosce il nostro linguaggio e non ci è amico», rispose una delle guardie. «In giorni di guerra come questi accogliamo soltanto i nostri conterranei e coloro che giungono da Mundburg nel paese di Gondor. Chi siete voi che traversate incauti la pianura con abiti così strani e con cavalli simili ai nostri? È da tempo che montiamo qui la guardia, e vi abbiamo osservati venire da lontano. Mai però scorgemmo cavalieri più strani, né cavalli più fieri di uno di quei che cavalcate. È certo uno dei Mearas, se i nostri occhi non sono ingannati da qualche sortilegio. Dicci, non sei tu forse uno stregone, una spia di Saruman, o qualche diabolico suo fantasma? Parlate adesso, e presto!».

«Non siamo fantasmi», rispose Aragorn, «ed i vostri occhi non vi ingannano. Sono davvero vostri i cavalli che montiamo, e suppongo che lo sapeste già prima di chiedere. Ma è raro che il ladro torni alla stalla. Questi sono Hasufel e Arod, i destrieri che Éomer Terzo Maresciallo del Mark, ci prestò appena due giorni fa. Ora li riportiamo a voi, come vi fu promesso. Non è dunque rientrato Éomer, non vi ha forse avvertiti del nostro arrivo?».

Un’espressione inquieta apparve negli occhi della guardia. «Di Éomer nulla ho da dire», rispose. «Se ciò che dici è vero, senza dubbio Théoden lo saprà. Forse la vostra venuta non era del tutto inattesa. Son passate solo due notti da quando Vermilinguo venne a dirci che per volere di Théoden nessuno straniero doveva oltrepassare questi cancelli».

«Vermilinguo?», disse Gandalf lanciando alla sentinella uno sguardo penetrante. «Non dire altro! Il mio incarico non è per Vermilinguo, bensì per il Signore del Mark in persona. Ho fretta. Perché non vai o mandi a dire che siamo giunti?». Gli occhi gli scintillarono sotto le folte sopracciglia, mentre fissava l’uomo.

«Sì, andrò», rispose questi lentamente. «Ma quali nomi dovrò riferire? E che cosa dovrò dire di voi? Ora sembri vecchio e stanco, ma suppongo che in fondo tu sia fosco e crudele».

«Parli e vedi giusto», rispose lo stregone. «Perché io sono Gandalf. Sono tornato. E guarda! Anch’io riporto un destriero. È Ombromanto il Grande, che nessun’altra mano può domare. Qui al mio fianco è Aragorn figlio di Arathorn, erede di Re, diretto a Mundburg. Con me vengono anche Legolas l’Elfo e Gimli il Nano, nostri compagni. Va’ ora e di’ al tuo padrone che siamo ai suoi cancelli, e desideriamo parlargli, quando ci avrà permesso di entrare nel suo palazzo».

«Davvero strani sono i nomi che avete dato! Ma li riferirò secondo il vostro desiderio, e sentirò il volere del mio padrone», disse la guardia. «Attendete qui qualche istante, e vi riferirò la risposta che gli parrà giusta. Ma non fatevi troppe illusioni! Questi sono tempi oscuri». Si allontanò velocemente affidando i viaggiatori alla vigile custodia dei compagni.

Dopo un certo tempo lo videro tornare. «Seguitemi!», disse. «Théoden vi concede di entrare, ma qualunque arma portiate, sia essa pur solo un bastone, dovrà rimanere sulla soglia. I guardiani le custodiranno».

* * *

Gli oscuri cancelli furono aperti. I viaggiatori entrarono in fila dietro la loro guida. Percorsero un ampio sentiero lastricato di grosse pietre che ora serpeggiava verso l’alto, ora saliva brevi rampe di comodi gradini. Passarono oltre molte case di legno e molte porte scure. Lungo la via scorreva, in un canale di pietra, un limpido ruscello gorgheggiante e spumeggiante. Infine, raggiunsero la sommità del colle. Ivi, su una verde terrazza, si ergeva un’alta piattaforma, e ai suoi piedi sgorgava, da una roccia scolpita a forma di testa di cavallo, una limpida sorgente; l’acqua, raccolta da un’ampia vasca, andava poi ad alimentare il ruscello. Sulla verde terrazza saliva una scalinata di pietra, larga e imponente, in cima alla quale, da ambedue i lati, erano seggi intagliati nella roccia. Ivi sedevano altre guardie, con le spade sguainate posate sulle ginocchia. Le loro chiome d’oro erano sparse sulle spalle, il sole era inciso sui loro verdi scudi, brillanti e brunite erano le lunghe cotte di maglia, e quando si alzarono parvero assai più alti degli Uomini Mortali.

* * *

«Ecco innanzi a voi la porta», disse la guida. «È ora che torni al mio compito presso il cancello. Addio! E possa il Signore del Mark esser gentile con voi!».

Si voltò e scomparve veloce giù per il sentiero. I compagni salirono la lunga scalinata sotto lo sguardo attento delle alte sentinelle. Si ergevano ora silenziose sopra di loro, e non dissero nulla finché Gandalf non posò il piede sul selciato della terrazza in cima alle scale. Allora improvvisamente le loro limpide voci pronunziarono parole di cortese benvenuto nella lingua dei Rohirrim.

«Salute a voi che giungete da lontano!», dissero, volgendo verso i viaggiatori l’elsa delle spade in segno di pace. Gemme verdi scintillarono al sole. Allora una delle guardie fece un passo avanti e rivolgendosi ai compagni nella Lingua Corrente disse:

«Io sono il Custode della Porta di Théoden; Hàma è il mio nome. Qui devo pregarvi di deporre le armi prima di entrare».

Legolas consegnò il suo pugnale dall’elsa d’argento, la faretra, ed infine l’arco. «Custodiscili bene», disse, «perché vengono dal Bosco d’Oro, e fu la Dama di Lothlórien a donarmeli».

Gli occhi dell’uomo si empirono di meraviglia, ed egli si affrettò a posare le armi vicino al muro, come timoroso di toccarle. «Nessuno le toccherà, te lo prometto», disse.

Aragorn esitò incerto. «Non desidero», disse, «deporre la mia spada, né consegnare Andùril nelle mani di un altro uomo». «È il volere di Théoden», disse Hàma.

«Non comprendo perché il volere di Théoden figlio di Thengel, pur essendo egli il Signore del Mark, debba prevalere sul volere di Aragorn figlio di Arathorn, l’erede di Elendil di Gondor».

«Questa è la dimora di Théoden, non di Aragorn, foss’egli anche Re di Gondor sul seggio di Denethor», disse Hàma, piazzandosi pronto davanti alla porta, per sbarrare l’accesso. Stringeva in mano la spada, con la punta verso gli stranieri.

«Queste sono discussioni inutili», disse Gandalf. «La richiesta di Théoden è superflua, ma è stupido opporsi. Un re nel proprio palazzo ottiene sempre ciò che vuole, sia questo saggezza o follia».

«Giusto», disse Aragorn. «Ed io obbedirei agli ordini del padrone di casa, anche trovandomi nella capanna di un taglialegna, se portassi qualunque altra spada che Andùril».

«Chiamala come vuoi», disse Hàma, «ma deporrai qui la tua spada, se non vuoi combattere solo contro tutti gli uomini di Edoras».

«Non solo!», esclamò Gimli carezzando la lama della sua ascia e lanciando alla guardia uno sguardo torvo, come se si trovasse di fronte un giovane albero che intendeva abbattere. «Non solo!».

«Via, via!», disse Gandalf. «Siamo fra amici, o almeno dovremmo esserlo: il riso di Mordor sarà la nostra unica ricompensa, se litighiamo. Il mio compito è urgente. Ecco a te la mia spada almeno, mio bravo Hàma. Conservala bene. Si chiama Glamdring, perché gli Elfi la forgiarono molto tempo addietro. Ora lasciami passare. Coraggio, Aragorn!».

Aragorn si aprì lentamente la cinta e appoggiò con le proprie mani la spada contro il muro. «Qui la depongo», disse; «ma ti ordino di non toccarla, né di permettere ad alcun altro di porvi mano. In questo fodero elfico si trova la Lama che fu Rotta ed è stata nuovamente forgiata. Telchar fu il primo artefice, nella notte dei tempi, La morte attende chiunque sfoderi la spada di Elendil, salvo l’erede di Elendil».

La guardia indietreggiò, mirando stupefatta Aragorn. «Sembra che tu sia giunto sulle ali di un canto dai tempi obliati», disse. «Ciò che comandi, sire, sarà fatto».

«Bene», disse Gimli, «se Andùril le fa compagnia, anche la mia ascia può rimaner qui senza onta», e la pose in terra. «Ed ora, se ogni cosa risponde ai tuoi desideri, permettici di andare a parlare con il tuo padrone».

Ma la guardia era ancora esitante. «Il bastone», disse a Gandalf. «Perdona, ma lo devi lasciare alla porta».

«Sciocchezze!», esclamò Gandalf. «La prudenza è una cosa, ma la scortesia è ben diversa. Sono vecchio. Se non posso camminare con l’aiuto del mio bastone, allora mi siederò qui fuori ad attendere che Théoden giunga barcollante per parlarmi».

Aragorn rise. «Ognuno di noi possiede qualcosa che ama troppo per poterla affidare a qualcun altro. Ma come puoi separare un vecchio dal suo sostegno? Coraggio, facci entrare!».

«Il bastone nelle mani di uno stregone potrebbe essere più di un semplice sostegno», disse Hàma osservando il bordone di frassino al quale si appoggiava Gandalf. «Tuttavia, nel dubbio, un uomo di valore avrà fiducia nella propria saggezza. Vi credo amici e gente d’onore, priva d’intenti malvagi. Entrate Pure».

* * *

Le guardie alzarono le pesanti sbarre delle porte, che spinsero lentamente verso l’interno: i grossi cardini scricchiolarono. I viaggiatori varcarono la soglia. L’interno pareva buio e caldo dopo l’aria limpida del colle. Il salone era ampio e lungo e pieno di ombre e chiaroscuri; imponenti colonne ne sostenevano l’alto soffitto. Qua e là i raggi di sole penetravano come strali scintillanti dalle finestre orientali, che si aprivano nella parte superiore del muro sotto le profondità delle gronde. Dal comignolo nel tetto, oltre le fini spirali di fumo che s’innalzavano, il cielo appariva pallido e azzurro. Quando i loro occhi si furono abituati, i visitatori videro che il pavimento era ricoperto di pietre dai molti colori; rune ramificate e strani disegni s’intrecciavano sotto i loro piedi. Si accorsero allora che le colonne erano riccamente scolpite, ed emettevano un tenue barlume ove l’oro si confondeva con altre vaghe tonalità. Molti arazzi erano appesi alle pareti, e sulle loro ampie superfici incedevano figure d’antiche leggende, alcune offuscate dagli anni, altre oscurate dalle ombre. Ma una di esse era illuminata da un raggio di sole: la figura di un giovane cavaliere su un bianco destriero. Suonava un grande corno, con i capelli biondi svolazzanti al vento. Il cavallo teneva la testa alta, e le sue narici erano rosse e dilatate dal nitrito, e dall’odore di una battaglia lontana. Dell’acqua spumeggiante, verde e bianca, scorreva rapida e increspata intorno alle sue ginocchia.

«Mirate Eorl il Giovane!», disse Aragorn. «Così giunse, cavalcando dal Nord, alla Battaglia del Campo di Celebrant».

* * *

I quattro compagni si fecero avanti, oltrepassando il chiaro fuoco che ardeva nel lungo focolare al centro del salone. Quindi si fermarono. All’altra estremità della stanza, oltre il focolare, vi era, volta a nord verso le porte, una pedana in cima a tre gradini: nel centro, imponente, videro una sedia dorata. Ivi sedeva un Uomo, così curvo sotto il peso degli anni da sembrare quasi un Nano; ma i suoi capelli bianchi erano lunghi e folti e scendevano in grandi ciocche sotto un fine cerchietto d’oro che gli cingeva la fronte: nel centro sfavillava un grande diamante bianco. La barba gli scendeva come neve sulle ginocchia, ma i suoi occhi brillavano ancora di una luce ardente che divenne ancor più intensa quand’egli fissò gli stranieri. In piedi, dietro al seggio, c’era una donna abbigliata di bianco; in terra sui gradini sedeva un Uomo avvizzito, dal pallido viso accorto e le palpebre pesanti.

Vi fu un lungo silenzio. Il vecchio non si mosse sul suo seggio. Infine Gandalf parlò. «Salute, Théoden, figlio di Thengel! Sono tornato. Poiché, guarda! la tempesta è vicina, ed è ora che gli amici si riuniscano per difendersi contro la distruzione».

Il vecchio si levò lentamente in piedi, appoggiandosi con tutto il peso su un corto bastone nero dal manico di osso bianco: allora gli stranieri videro che, anche se curvo, era pur sempre assai alto, e doveva essere stato in gioventù davvero imponente e fiero.

«Ti saluto», disse, «e forse aspetti il mio benvenuto. Ma a dire il vero dubito che qui la tua venuta sia ben accolta, Messere Gandalf. Sei sempre stato messaggero di sventura. Le disgrazie ti seguono come corvi, e sempre più frequenti e più gravi. Non t’ingannerò: quando seppi che Ombromanto era tornato senza cavaliere, mi rallegrai del suo ritorno, ma ancor più dell’assenza del cavaliere; e quando Éomer ci portò la notizia che ti eri infine ritirato nella dimora eterna, non ti rimpiansi. Ma è raro che le notizie giunte da lungi corrispondano alla realtà. Eccoti di nuovo qui! E porti teco, com’era da aspettarsi, dei mali peggiori di prima. Perché dovrei darti il benvenuto, Gandalf Corvotempesta? Dimmi, perché dovrei?». Si risedette lentamente sul suo seggio.

«Parli bene, mio sire!», disse il pallido Uomo seduto sui gradini della pedana. «Non sono passati ancora cinque giorni da quando giunse l’amara notizia che Théodred tuo figlio era stato ucciso ai Confini Occidentali: ed era la tua mano destra, il Secondo Maresciallo del Mark. Di Éomer c’è poco da fidarsi: se gli fosse stato permesso di governare, a guardia delle tue mura avresti guarnigioni assai scarse. Ed ora apprendiamo da Gondor che l’Oscuro Signore si sta muovendo a oriente; questo è il momento che questo vagabondo sceglie per tornare! Perché dovremmo darti il benvenuto, Messere Corvotempesta? Làthspell è il nome che ti si addice, Malaugurio; e pare che malaugurio sia un cattivo ospite». Rise sarcasticamente e alzò un attimo le pesanti palpebre per fissare gli stranieri con sguardo cupo.

«Ti chiamano saggio, amico Vermilinguo, e indubbiamente sei per il tuo padrone un grande sostegno», rispose Gandalf a bassa voce. «Ma vi sono due motivi per i quali un Uomo può giungere accompagnato da cattive notizie. Può essere egli stesso artefice di malvagità, o far parte invece di coloro che non molestano chi sta bene, e vengono solo a porgere il loro aiuto nel momento del bisogno».

«È come dici tu», ribatté Vermilinguo; «ma vi è una terza razza: raccoglitori d’ossa che s’impicciano dei dispiaceri altrui, uccelli avidi di carogne che ingrassano in tempo di guerra. Quale aiuto hai tu mai recato, Corvotempesta? E quale aiuto porti adesso? Da noi cercasti aiuto l’ultima volta che fosti qui. il mio sire ti pregò allora di scegliere un cavallo di tuo gradimento ed andartene; e, fra lo stupore generale, con la tua insolenza osasti prendere Ombromanto. Il mio sire fu profondamente dispiaciuto, ma alcuni pensarono che pur di allontanarti dal paese il prezzo non era troppo caro. Suppongo che questa volta si ripeterà probabilmente la stessa cosa: anziché portarne, cercherai aiuto. Rechi forse con te Uomini? O cavalli, spade, lance? È questo ciò che chiamerei aiuto, ciò di cui abbiamo per ora bisogno. Ma chi sono costoro che seguono le tue orme? Tre cenciosi viaggiatori vestiti di grigio, e tu stesso sei il più mendico dei quattro!».

«La cortesia nel tuo palazzo è alquanto diminuita ultimamente, Théoden figlio di Thengel», disse Gandalf. «Il messaggero al cancello non ti ha dunque riferito i nomi dei miei compagni? Di rado un sire di Rohan ha ricevuto tre ospiti di tale rango. Essi hanno deposto alla tua porta armi che valgono molti Uomini Mortali, e dei più possenti. Grigi sono i loro abiti perché furono gli Elfi a vestirli, permettendo loro in tal modo di attraversare l’ombra di grandi pericoli sino al tuo palazzo».

«Allora è vero quel che riferì Éomer, ossia che siete in lega con la Strega del Bosco d’Oro?», disse Vermilinguo. «Non c’è da meravigliarsi: a Dwimordene furono sempre tessute tele ingannatrici».

Gimli fece un passo avanti, ma sentì improvvisamente la mano di Gandalf che gli afferrava la spalla e si fermò, immobile come pietra.

«A Lórien, a Dwimordene

Gli Uomini han camminato raramente,

Pochi mortali han veduto splendente

La luce che vi brilla sempre.

Galadriel! Galadriel!

Limpida l’acqua del tuo pozzo lontano;

Bianca la stella nella tua bianca mano;

Candidi e puri son foglia, terra e grano

A Lórien, a Dwimordene,

Più belli dei pensieri degli Uomini Mortali».

Gandalf cantò queste parole dolcemente, e poi d’un tratto si trasformò. Gettò via il manto a brandelli, si erse diritto senza più appoggiarsi al bastone, e con una voce chiara e fredda disse:

«I saggi parlano soltanto di ciò che sanno, Grima figlio di Gálmód. Sei diventato un verme dissennato. Perciò taci, e tieni la lingua forcuta ferma dietro ai denti. Non ho attraversato fuoco e morte per scambiare parole contorte con un uomo servile sino al cadere del fulmine».

Alzò il bastone e si udì un rombo di tuono. La luce del sole scomparve dalle finestre orientali; l’intero salone divenne improvvisamente buio come la notte. Del fuoco non rimasero più che cupe ceneri. Si vedeva solo Gandalf ergersi bianco e imponente innanzi al focolare annerito.

Nelle tenebre udirono il sibilo di Vermilinguo: «Non ti avevo consigliato, sire, di impedirgli di entrare con il bastone? Quell’imbecille di Hàma ci ha traditi!». Un lampo balenò, come se il tetto fosse stato colpito dal fulmine. Poi venne il silenzio. Vermilinguo giaceva bocconi.

* * *

«Ed ora, Théoden figlio di Thengel, vuoi ascoltarmi?», disse Gandalf. «Hai bisogno d’aiuto?». Alzò il bastone puntandolo verso un’alta finestra. Ivi l’oscurità parve diradarsi e dall’apertura si scorse, alto e lontano, un pezzo di cielo lucente. «Non tutto è oscuro. Abbi fede, Signore del Mark, perché non troverai aiuto migliore. Non ho consigli da dare ai disperati; eppure a te potrei dare consigli e pronunziare parole di speranza. Vuoi udirle? Non sono per tutte le orecchie. Ti prego di venir con me davanti alle tue porte e di mirare lontano. Troppo a lungo sei rimasto seduto nelle ombre, fidando in racconti contorti e suggerimenti disonesti».

Théoden si alzò lentamente. Una pallida luce crebbe di nuovo nel salone. La donna si avvicinò frettolosamente al re, e prendendolo per il braccio condusse il vecchio barcollante giù dalla pedana e poi pian piano attraverso il salone. Vermilinguo rimase sdraiato in terra. Giunti alle porte Gandalf bussò.

«Aprite!», tuonò. «Passa il Signore del Mark!».

Le porte si aprirono con rumore di tuono e un’aria penetrante giunse sibilando. Il vento soffiava sul colle.

«Manda le tue guardie ai piedi della scalinata», disse Gandalf. «E tu, dama, lascialo un po’ in mia compagnia. Io mi occuperò di lui».

«Va’, Éowyn, figlia e sorella!», disse il vecchio re. «Passati sono i tempi del terrore».

La giovane donna ritornò lentamente nel palazzo. Sulla soglia si voltò per guardarsi indietro. Nel suo sguardo grave e pensoso, posato sul re, si scorgeva una tenera pietà. Splendido il suo volto, ed i lunghi capelli pari a un fiume d’oro. Era bianca ed esile nella bianca veste cinta d’argento; ma pareva forte e severa come acciaio, una figlia di re. Così Aragorn mirò per la prima volta alla luce del giorno Éowyn, Dama di Rohan, e la trovò bella, bella e fredda, come una mattina di pallida primavera, e non ancora maturata in donna. Ed ella si accorse improvvisamente di lui, alto erede di re, reso saggio da molti inverni, vestito d’un manto grigio e munito d’un potere latente che Éowyn però sentiva. Per un attimo rimase immobile come marmo, quindi voltandosi rapidamente scomparve.

«Ora, sire», disse Gandalf, «guarda la tua terra! Respira di nuovo l’aria libera!».

Dal porticato in cima all’alta terrazza scorgevano al di là del fiume le verdi praterie di Rohan sbiadire in un lontano grigio. Cortine di pioggia cadevano oblique sospinte dal vento. Il cielo sopra il loro capo e ad ovest era ancora scuro di tempesta, e lontani lampi balenavano fra le vette di colli invisibili. Ma il vento aveva girato a nord, e già il temporale si allontanava rombando verso il mare. D’un tratto, da uno squarcio fra le nubi alle loro spalle, un raggio di sole apparve come la lama di un pugnale. Gli ultimi scrosci scintillavano argentei e in lontananza il fiume luccicava come vetro sfaccettato.

«Non è poi così buio qui», disse Théoden.

«No», disse Gandalf. «E gli anni non pesano sulle tue spalle come alcuni vorrebbero. Getta via il bastone!».

Dalla mano del Re il nero bordone cadde rumorosamente sulle pietre. Egli si rizzò, pian piano, come un uomo rigido dal lungo curvarsi su qualche triste e duro lavoro. Infine si eresse alto e dritto, ed i suoi occhi blu guardarono il cielo che si apriva.

«Cupi sono stati di recente i miei sogni», disse, «e mi sento come svegliato da poco. Ora vorrei che tu fossi giunto prima, Gandalf. Temo infatti che sia già troppo tardi, e che vedrai soltanto gli ultimi giorni della mia casa. Non si reggerà a lungo in piedi l’imponente palazzo costruito da Brego figlio di Eorl. Il fuoco divorerà l’alto seggio. Che cosa possiamo fare?».

«Molto», rispose Gandalf. «Ma innanzi tutto manda a chiamare Éomer. Ho ragione di supporre che tu lo tenga prigioniero su consiglio di Grima, di colui che tutti, eccetto te, chiamano il Vermilinguo».

«Hai ragione», disse Théoden. «Si è ribellato ai miei ordini e ha minacciato di morte Grima nella mia sala del trono».

«Un Uomo può amare te, eppur non amare Vermilinguo o i suoi consigli», ribatté Gandalf.

«È possibile. Farò come dici. Di’ a Hàma di venire da me. Poiché si è dimostrato poco fidato quale sentinella, divenga portatore di messaggi. I colpevoli accompagneranno al giudizio i colpevoli», disse Théoden con voce severa, ma guardando Gandalf sorrise, e molte rughe di dispiaceri e preoccupazioni gli scomparvero dal viso per non tornarvi più.

* * *

Dopo che Hàma fu chiamato e gli fu affidato il suo incarico, Gandalf condusse Théoden a uno dei sedili di pietra, quindi si sedette anch’egli innanzi al re sull’ultimo gradino. Aragorn e gli altri compagni erano in piedi lì vicino.

«Non c’è tempo per raccontarti tutto ciò che dovresti sapere», disse Gandalf. «Eppure se la mia speranza non è vana, fra non molto giungerà l’ora in cui potrò parlare più esaurientemente. Sappi che ti trovi in un pericolo che nemmeno la mente di Vermilinguo avrebbe saputo tessere nei tuoi sogni. Ma vedi! Non sogni più. Adesso vivi, sire. Gondor e Rohan non sono soli. Il nemico è incredibilmente forte, tuttavia noi abbiamo una speranza ch’egli non immagina nemmeno».

Gandalf si mise allora a parlare rapidamente; la sua voce era bassa e misteriosa, e nessuno oltre il re udì ciò che diceva. Ma a mano a mano che andava avanti, la luce negli occhi di Théoden divenne più intensa, finché il re si levò in tutta la sua statura e, assieme a Gandalf, fece spaziare il suo sguardo da quel posto elevato sino ad oriente.

«Veramente», disse con voce ora chiara e intensa lo stregone, «proprio lì ove si trova il nostro più grande terrore, è anche la nostra speranza. Il destino è ancora appeso a un filo, ma non è il momento di disperare, se riusciamo a resistere per poco tempo ancora».

Anche gli altri volsero i loro sguardi ad est. Al di là delle infinite leghe di campagne e praterie fissarono la linea dell’orizzonte, mentre timore e speranza conducevano ancor oltre i loro pensieri, oltre le montagne oscure nella Terra d’Ombra. Dov’era il Portatore dell’Anello? Com’era davvero fragile il filo da cui pendeva il loro destino! Parve a Legolas, che sforzava i suoi occhi lungimiranti, di scorgere un barlume di bianco: forse il sole aveva illuminato per un attimo un lontano pinnacolo della Torre di Guardia. E ancor più lontano, infinitamente remota eppure presente e minacciosa, brillava una piccola lingua di fuoco.

Théoden si risedette lentamente, come se la stanchezza lottasse ancora per impadronirsi di lui contro la volontà di Gandalf. Si volse a guardare il suo grande palazzo. «Ahimè!», esclamò, «purtroppo questi sono per me tempi malvagi, e giungono nella vecchiaia invece della pace che mi ero meritato! Ahimè, Boromir coraggioso! I giovani periscono mentre i vecchi rimangono ad avvizzire». Si strinse le ginocchia con le mani rugose.

«Le tue dita ricorderebbero più facilmente la loro antica forza se afferrassero l’elsa di una spada», disse Gandalf.

Théoden si alzò portandosi la mano al fianco, ma non vi era spada alla sua cinta. «Dove l’ha messa Grima?», mormorò sottovoce.

«Prendi questa, sire!», disse una limpida voce. «È sempre stata al tuo servizio». Due Uomini avevano salito silenziosamente la scala e si trovavano ora a pochi gradini dalla cima. Uno dei due era Éomer: non portava elmo né cotta di maglia, ma in mano teneva una spada sguainata, e nell’inginocchiarsi ne offrì l’elsa al suo padrone.

«Come mai?», disse severamente Théoden. Si volse verso Éomer, e gli Uomini lo guardarono meravigliati, lieto e dritto com’era. Cos’era accaduto al vecchio che avevano lasciato raggomitolato sulla sedia o curvo sul bastone?

«Sono stato io, signore», disse Hàma tremando. «Avevo capito che Éomer doveva essere liberato. Una tale gioia si era impadronita del mio cuore che forse non ho più saputo comportarmi. E poi, dal momento che era di nuovo libero e Maresciallo del Mark, gli portai la spada, obbedendo alla sua preghiera».

«Per deporla ai tuoi piedi, sire», disse Éomer.

Durante un lungo attimo di silenzio Théoden rimase fermo con lo sguardo fisso su Éomer inginocchiato ai suoi piedi. Nessuno dei due si mosse.

«Non vuoi prendere la spada?», disse Gandalf.

Lentamente Théoden allungò la mano. Le dita e il magro braccio afferrando l’elsa parvero acquistare nuovo vigore e rinnovata forza. D’un tratto egli alzò la lama e la fece roteare scintillante e sibilante. Poi lanciò un grido potente. La sua voce squillò limpida nel cantare nella lingua di Rohan un richiamo alle armi.

Desti ora, desti, Cavalieri di Théoden!

Terribili eventi nell’oscuro Oriente.

Sellate i cavalli, suonate le trombe!

Avanti Eorlingas!

Le guardie, credendo di essere state chiamate, salirono in un baleno la scala. Stupefatti guardarono il loro signore, poi come un solo uomo sguainarono le spade e le deposero ai suoi piedi. «Ordina, signore!», dissero.

«Westu Théoden hàl!», esclamò Éomer. «È una grande gioia per noi vedere che hai ritrovato te stesso. Mai più diranno, Gandalf, che giungi accompagnato solo dalle disgrazie!».

«Riprendi la tua spada, Éomer, figlio e fratello!», disse il re. «Va’, Hàma, a cercare la mia! È Grima che la custodisce. Porta teco anche lui. Ora, Gandalf, dicesti che avevi un consiglio da darmi, se io fossi stato disposto ad ascoltarti. Qual è il tuo consiglio?».

«L’hai già seguito di tua propria iniziativa», rispose Gandalf. «Abbi fiducia in Éomer, anziché in un uomo dalla mente ingannevole. Oblia rimpianto e timori. Fa’ quel ch’è necessario fare adesso. Tutti quelli che sanno cavalcare dovrebbero essere inviati ad ovest immediatamente, come ti consigliò Éomer: dobbiamo anzitutto distruggere la minaccia di Saruman finché siamo ancora in tempo. La sconfitta sarebbe la fine. La vittoria… ci permetterebbe di affrontare il prossimo compito. Nel frattempo tutti quelli che rimangono qui, donne, bambini e vecchi, dovrebbero salvarsi nei rifugi che avete nelle montagne. Non erano forse preparati a dover affrontare un simile giorno? Permetti loro di fare provvisioni, ma che non si attardino né si carichino di tesori, piccoli o grandi che siano. Le loro vite sono in gioco».

«È un consiglio che adesso mi par buono», disse Théoden. «Che il mio popolo si prepari! Ma voi, ospiti miei… Hai detto giusto, Gandalf, che la cortesia nel mio palazzo è diminuita assai. Avete cavalcato tutta la notte, e il mattino è ormai sul finire. Non avete riposato né mangiato. Vi farò preparare un appartamento dove dormirete dopo esservi ristorati».

«No, sire», disse Aragorn. «Non è ancora tempo che gli stanchi riposino. Gli Uomini di Rohan devono partire oggi stesso, e noi andremo con loro, ascia, spada ed arco. Non le portammo queste armi, o Sire del Mark, per deporle ai piedi del tuo muro. E io promisi ad Éomer che la sua spada e la mia sarebbero state sguainate insieme».

«Ora vi è davvero speranza di una vittoria!», esclamò Éomer. «Speranza, sì», disse Gandalf. «Ma Isengard è forte, e un altro pericolo si avvicina sempre più. Non perder tempo, Théoden, quando saremo partiti. Conduci velocemente la tua gente al Forte di Dunclivo sui colli!».

«No, Gandalf!», rispose il re. «Tu non conosci del tutto la tua abilità nel sanare. Non farò come tu dici. Io stesso partirò in guerra, e cadrò in battaglia, se così dovrà essere. Potrò così finalmente dormire meglio».

«In tal caso persino la disfatta di Rohan verrebbe gloriosamente cantata», disse Aragorn. Gli Uomini armati che si trovavano presenti sguainarono le spade gridando: «Parte il Signore del Mark! Avanti Eorlingas!».

«Ma la tua gente non deve rimanere a un tempo senza armi e senza pastore», disse Gandalf. «Chi li guiderà e li governerà al posto tuo?».

«Mi occuperò di ciò prima di partire», rispose Théoden. «Ecco il mio consigliere che arriva».

* * *

In quel momento Hàma usciva dal palazzo. Alle sue spalle, servilmente strisciante fra altri due Uomini, veniva Grima il Vermilinguo. Era bianco in viso. Batteva gli occhi abbacinati dalla luce. Hàma inginocchiandosi presentò al re una lunga spada in un fodero incastonato di gemme verdi e chiuso da un fermaglio d’oro.

«Ecco a te, sire, Herugrim, la tua antica lama», disse Hàma. «La trovammo nel suo forziere. Si dimostrò restio a darci le chiavi. Ivi giacciono molte cose che gli Uomini credevano d’aver perso».

«Menti!», disse Vermilinguo. «E questa spada mi fu affidata dal tuo padrone in persona».

«Ed egli ora te la richiede», disse Théoden. «Ti dispiace forse?».

«Certo no, sire», disse Vermilinguo. «Io mi prendo cura di te e dei tuoi averi, come meglio posso. Ma non ti stancare, e non mettere a dura prova le tue forze. Lascia che altri si occupino di questi fastidiosi ospiti. Il tuo pranzo sta per essere portato in tavola. Perché non vai a mangiare?».

«Lo farò», rispose Théoden. «Fa’ intanto mettere in tavola accanto a me i coperti per i miei ospiti. L’esercito parte oggi. Che gli araldi lo annunzino! Che chiamino tutti coloro che vivono in queste contrade! Che tutti gli uomini, e i giovani forti e capaci di maneggiare le armi, e i proprietari di cavalli siano pronti in sella al cancello prima che suoni la seconda ora dopo il meriggio!».

«Venerato signore», disse Vermilinguo. «È avvenuto quel che temevo. Questo stregone ha gettato su di te qualche incantesimo. Nessuno dunque rimane a difendere il Palazzo d’Oro dei tuoi avi e tutti i tuoi tesori? Nessuno che protegga il Signore del Mark?».

«Se questo è un incantesimo», ribatté Théoden, «mi sembra più salubre di tutti i tuoi bisbigli. Fra non molto le tue stregonerie mi avrebbero costretto a camminare a quattro zampe come una bestia. No, non rimarrà nessuno, nemmeno Grima. Grima partirà anche lui a cavallo. Va’! Hai tempo sufficiente per togliere la ruggine dalla tua spada».

«Pietà, signore!», piagnucolò Vermilinguo strisciando in terra. «Abbi pietà di chi si è logorato al tuo servizio. Non mi allontanare da te! Resterò io al tuo fianco quando tutti gli altri saranno partiti. Non mandare via il tuo fedele Grima!».

«Ho pietà di te», disse Théoden. «E non ti allontano dal mio fianco. Io partirò in guerra con i miei uomini. Ti ordino di venire meco e provare la tua fedeltà».

Vermilinguo guardò uno per uno coloro che gli stavano davanti. Nei suoi occhi c’era lo sguardo della bestia braccata che cerca disperatamente una breccia nel cerchio dei suoi nemici. Si leccò le labbra con la lunga pallida lingua. «Una tale risoluzione era da prevedersi da parte di un signore della Casa di Eorl, pur anziano com’è», disse. «Ma chi lo ama veramente avrebbe risparmiato i suoi ultimi stanchi anni. Tuttavia vedo che giungo troppo tardi. Altri, che la morte del mio signore rattristerebbe forse meno, lo hanno già convinto. Poiché non posso disfare la loro opera, concedimi almeno questo, signore! Qualcuno che conosca il tuo volere e onori i tuoi comandi dovrebbe rimanere a Edoras. Nomina un amministratore fedele. Lascia che il tuo consigliere Grima si occupi di ogni cosa sino al tuo ritorno al quale prego di poter assistere, benché nessun saggio nutrirebbe una simile speranza».

Éomer rise. «E se questa scusa non basta a esimerti dalla guerra, nobile Vermilinguo», disse, «quale incarico meno onorifico accetteresti? Porteresti un sacco di farina sin nelle montagne, ammesso che qualcuno voglia affidartelo?».

«No, Éomer, non afferri interamente il pensiero di Messere Vermilinguo», disse Gandalf fissando su Grima il suo sguardo acuminato. «È ardito e sfrontato. Persino ora che gioca col pericolo vince un punto. Ha già sprecato ore del mio tempo prezioso. Giù, serpe!», tuonò improvvisamente con voce terribile. «Striscia sul ventre! Da quanto tempo ti sei venduto a Saruman? Qual era la ricompensa promessa? Morti tutti gli uomini, avresti presa la tua parte del tesoro e la donna dei tuoi desideri? Troppo l’hai osservata con quegli occhi socchiusi, e seguita a passo a passo».

Éomer afferrò la spada. «Lo sapevo già», mormorò. «Questa ragione sarebbe bastata perché l’uccidessi, dimenticando la legge del palazzo. Ma ve ne sono anche altre». Fece un passo avanti, ma Gandalf lo trattenne con una mano.

«Éowyn è al sicuro adesso», disse. «Ma tu, Vermilinguo, hai fatto quel che hai potuto per il tuo vero padrone. Ti sei meritato almeno una piccola ricompensa. Eppure è facile che Saruman dimentichi i patti. Ti consiglierei di andare presto a ricordarglieli, affinché non si scordi dei tuoi fedeli servigi».

«Menti!», disse Vermilinguo.

«Quella parola esce troppo spesso e facilmente dalle tue labbra», disse Gandalf. «Io non mento. Guarda, Théoden, questa serpe! Portarla teco non è conforme a sicurezza, e tanto meno lasciarla qui. Giustizia vorrebbe che fosse uccisa. Ma un tempo essa non era come ora. Era un uomo, e ti rese dei servigi a modo suo. Dagli un cavallo e che vada immediatamente dove vuole! Dalla sua scelta lo giudicherai».

«Hai udito, Vermilinguo?», disse Théoden. «È questa la tua scelta: seguirmi in guerra, e mostrare a tutti noi nella battaglia se sei sincero, o partire subito, e andare dove vuoi. Ma in questo caso, se ci incontreremo di nuovo, non avrò pietà».

Vermilinguo si alzò lentamente. Guardò gli astanti con occhi semichiusi. Per ultimo scrutò il volto di Théoden e aprì la bocca come per parlare. Poi improvvisamente si raddrizzò. Le sue mani fremevano, gli occhi sfavillavano. In essi si leggeva una tale malvagità che tutti indietreggiarono. Allora scoprì i denti e, con un sibilo, sputò ai piedi del re. Balzando da una parte scomparve giù per le scale.

«Inseguitelo!», disse Théoden. «Attenti che non faccia del male a nessuno, ma senza infierire contro di lui né ostacolarlo. Dategli un cavallo, se lo vuole».

«E se ve n’è uno disposto a portarlo», soggiunse Éomer.

Una guardia discese correndo le scale. Un’altra si recò al pozzo ai piedi della terrazza e riempì l’elmo di acqua. Con essa lavò le pietre che Vermilinguo aveva imbrattate.

* * *

«Ed ora, ospiti miei, venite!», disse Théoden. «Venite a prendere quel poco di ristoro concessoci dalla fretta».

Ritornarono nel grande palazzo. Già nella città ai loro piedi si udivano le voci degli araldi e il suono dei corni di guerra. Il re infatti sarebbe partito non appena riuniti e armati gli Uomini della città e delle vicine campagne.

Al tavolo del re sedettero Éomer ed i quattro ospiti, e dama Éowyn servì il suo signore. Il pasto fu rapido. Gli altri ascoltavano in silenzio mentre Théoden interrogava Gandalf sul conto di Saruman.

«A quando risale il suo tradimento, chissà?», disse Gandalf. «Non fu sempre malvagio. Un tempo credo che fosse amico di Rohan; anche quando il suo cuore divenne freddo, pensava che voi avreste potuto essergli di aiuto. Ma ormai da tempo progetta di distruggervi, celandosi dietro una maschera di amicizia, non essendo ancora pronto. Nei primi tempi il compito di Vermilinguo fu facile, ed ogni tua azione era presto risaputa da Isengard: allora il tuo paese era aperto e gli stranieri andavano e venivano. E il costante bisbiglio di Vermilinguo nelle tue orecchie ti avvelenava i pensieri, ti raggelava il cuore, indeboliva le tue membra, mentre gli altri guardavano senza poter far niente, perché la tua volontà era nelle sue mani.

«Ma quando io fuggii e venni ad avvertirti, allora la maschera si infranse per coloro che vollero guardare. Da quel momento Vermilinguo giocò pericolosamente, cercando sempre di farti indugiare, di impedirti di radunare le forze. Era straordinariamente furbo: abile nell’addormentare la prudenza altrui, o nello sfruttare i timori, secondo le occasioni. Non ricordi con quanta intensità ti esortò a non sacrificare Uomini per una vana spedizione a nord, mentre il pericolo più immediato era ad ovest? Ti persuase a impedire che Éomer inseguisse gli Orchi devastatori. Se Éomer non avesse sfidato la voce di Vermilinguo che parlava con la tua bocca, quegli Orchi sarebbero ormai giunti a Isengard con un ricco bottino. Non proprio ciò che Saruman desidera sopra ogni cosa, ma perlomeno due membri della mia Compagnia, partecipi di una segreta speranza della quale non posso ancora parlare apertamente nemmeno a te, o sire. Immagini quel che patirebbero adesso, o quel che Saruman avrebbe potuto apprendere sul nostro conto e giovarsene per distruggerci?».

«Devo molto a Éomer», disse Théoden. «Cuore fedele può avere lingua ribelle».

«Di’ pure», soggiunse Gandalf, «che ad occhi storti il volto della verità può apparire un ghigno».

«Hai ragione, i miei occhi erano quasi ciechi», disse Théoden. «Sono tuo debitore, ospite mio, più che di chiunque altro. Anche questa volta sei arrivato al momento giusto. Voglio che ti scelga tu stesso un dono prima di partire. Non hai che da nominare qualcosa che mi appartiene. Io ormai conservo solo la mia spada!».

«Bisogna ancora vedere se sono arrivato in tempo», disse Gandalf. «Ma quale dono, sire, ne sceglierò uno conforme alla mia necessità: rapido e sicuro. Dammi Ombromanto! Me lo hai soltanto prestato l’ultima volta, se lo si può chiamare un prestito. Ma ora dovremo galoppare incontro a un grande pericolo, e l’argento si opporrà al nero: non rischierei qualcosa che non mi appartiene. Inoltre fra noi è sorto un grande affetto».

«Hai scelto bene», disse Théoden; «e io sono felice adesso di donartelo. Eppure è un regalo di grande valore. Non ve ne sono altri come Ombromanto. Egli reincarna uno dei possenti destrieri dell’antichità. Mai più torneranno in vita cavalli simili. Agli altri miei ospiti offrirò ciò che potrebbe servir loro della mia armeria. Di spade non avete bisogno, ma vi sono elmi e cotte di maglia dalla lavorazione ingegnosa, donati ai miei avi dai Signori di Gondor. Scegliete prima di partire qualcosa che possa servirvi validamente!».

* * *

Giunsero allora Uomini con abiti da guerra appartenenti al tesoro reale, e vestirono Aragorn e Legolas di cotte lucenti. Scelsero anche degli elmi e degli scudi rotondi, dalle borchie placcate in oro e incastonate di gemme verdi, rosse e bianche. Gandalf non prese per sé alcuna armatura, e Gimli non avrebbe avuto bisogno di cotta di maglia, anche se ve ne fosse stata una della sua taglia, poiché nei forzieri di Edoras non vi era corazza di migliore fattura della sua, forgiata nella Montagna al Nord. Ma scelse un berretto di ferro e cuoio che si addiceva bene alla sua testa tonda, e anche un piccolo scudo. Su questo era inciso il cavallo galoppante, bianco su fondo verde, emblema della Casa di Eorl.

«Che ti protegga bene!», disse Théoden. «Fu fatto per me ai tempi di Thengel, quando ero ancora ragazzo».

Gimli s’inchinò. «Sono fiero, Signore del Mark, di portare il tuo stemma», disse. «E preferirei comunque portare un cavallo che non montarne uno. Mi sento più a mio agio sui miei piedi. Ma forse giungerò in un luogo ove poter combattere con le gambe ben piantate in terra».

«È assai probabile», rispose Théoden.

Il re si alzò, e immediatamente si avvicinò Éowyn con una coppa di vino. «Ferthu Théoden hàl!», disse. «Ricevi ora questo calice e bevi in un’ora felice. Che la salute ti accompagni e allieti la tua partenza e il tuo ritorno!».

Théoden bevve dalla coppa, ed ella quindi la offrì agli ospiti. Quando si trovò innanzi ad Aragorn, rimase d’un tratto immobile, e lo guardò con occhi lucenti. Lo sguardo di lui si posò sul suo bel viso ed egli sorrise; ma nel prendere la coppa le due mani s’incontrarono ed Aragorn la sentì tremare al contatto. «Salute, Aragorn, figlio di Arathorn», disse Éowyn. «Salute, Dama di Rohan!», egli le rispose, ma il suo viso appariva ora turbato e non sorrideva più.

Quando tutti ebbero bevuto, il re si avvicinò alle porte. Ivi le guardie l’attendevano insieme agli araldi, ed ivi erano radunati tutti i signori ed i capitani rimasti a Edoras o abitanti nei dintorni.

«Ascoltate! Io parto, e questa è forse la mia ultima cavalcata» disse Théoden. «Non ho figli. L’unico che avessi, Théodred, è stato ucciso. Nomino Éomer, figlio e fratello, mio erede. Se nessuno di noi due ritorna, sarete voi a scegliere il vostro nuovo re. Ma a qualcuno devo affidare coloro che non partono in guerra, qualcuno dovrà governarli al mio posto. Chi di voi rimane?».

Nessuno rispose.

«Proponete voi stessi un nome! In Chi ha fiducia il mio popolo?»

«Nella Casa di Eorl», rispose Hàma.

«Ma non posso fare a meno di Éomer, ed egli si rifiuterebbe di restare», disse il re; «ed è l’ultimo di quella Casa».

«Non ho fatto il nome di Éomer», rispose Hàma. «Ed egli non è l’ultimo. Dimentichi Éowyn, figlia di Éomund, sua sorella. Dama dal cuore nobile e senza paura. Tutti la amano. Fa’ che prenda lei il posto del sire degli Eorlingas durante la nostra assenza».

«Sarà fatto», disse Théoden. «Che gli araldi annuncino alla popolazione che Dama Éowyn li governerà d’ora in poi!».

Allora il re si accomodò su un seggio innanzi alle porte, ed Éowyn inginocchiatasi avanti a lui ricevette una spada e una splendida cotta di maglia. «Addio, figlia e sorella!», disse Théoden. «L’ora è cupa; tuttavia ritorneremo forse al Palazzo d’Oro. Ma a Dunclivo è possibile difendersi a lungo: se la battaglia dovesse concludersi male, tutti coloro che saranno scampati vi raggiungeranno lì».

«Non parlare così!», disse ella. «Resisterò un anno, giorno per giorno, sino al tuo ritorno». Ma mentre parlava i suoi occhi si posarono su Aragorn, in piedi lì vicino.

«Il re tornerà», disse questi. «Non temere! Il destino ci attende all’Est, non all’Ovest!».

* * *

Il re discese allora insieme con Gandalf la scalinata. Gli altri seguirono. Nel passare il cancello, Aragorn si voltò a guardare. Éowyn si ergeva sola in cima alle scale, avanti alle porte della casa; teneva la spada dritta innanzi a sé, e le mani poggiate sull’elsa. Portava adesso la cotta di maglia e scintillava come argento al sole.

Gimli, con l’ascia sulla spalla, camminava al fianco di Legolas. «Ebbene, infine partiamo!», disse. «Gli Uomini hanno bisogno di molte parole prima di agire. L’ascia è irrequieta fra le mie mani. Non dubito che quando sarà giunto il momento i colpi di questi Rohirrim siano implacabili, tuttavia non è questo il tipo di guerra che mi piace. Come arriverò al luogo della battaglia? Se soltanto potessi camminare invece di essere sballottato come un sacco sull’arcione di Gandalf».

«Un seggio più sicuro di molti altri, direi», rispose Legolas. «Ma indubbiamente Gandalf sarà felice di posarti a terra, quando incominceranno a volare i colpi, e anche Ombromanto stesso. Un’ascia non è arma da cavaliere».

«E un Nano non è un cavaliere. Colli di Orchi voglio spaccare, non radere crani di Uomini», disse Gimli accarezzando l’impugnatura dell’ascia.

Al cancello trovarono un numerosa schiera d’Uomini, vecchi e giovani, già pronti in sella. Erano più di mille. Le loro lance parevano un bosco nascente. All’arrivo di Théoden lanciarono possenti grida di gioia. Alcuni tenevano pronto Nevecrino, il cavallo del re, ed altri i destrieri d’Aragorn e di Legolas. Gimli, a disagio, corrugava la fronte, ma Éomer gli si avvicinò conducendo per mano il proprio cavallo.

«Salve, Gimli figlio di Glóin!», esclamò. «Non ho ancora avuto tempo per apprendere sotto i tuoi colpi a favellar gentilmente, come ti avevo promesso. Ma perché non dimentichiamo la nostra disputa? Io, perlomeno, mai più parlerò male della Dama del Bosco».

«Dimenticherò per qualche tempo la mia collera, Éomer figlio di Éomund», disse Gimli; «ma se ti accadrà di vedere Dama Galadriel con i tuoi occhi, dovrai riconoscere ch’è la più bella e dolce signora, altrimenti la nostra amicizia finirà».

«Così sia!», disse Éomer. «Ma sino a quel momento perdonami, e in segno di perdono, ti prego, cavalca con me. Gandalf galopperà in testa con il Signore del Mark; ma Zoccofuoco, il mio cavallo, ci porterà ambedue, se lo gradisci».

«Ti ringrazio davvero», disse Gimli molto soddisfatto. «Sarò felice di venire con te, se Legolas, il mio compagno, potrà cavalcare al nostro fianco».

«Ma certamente!», disse Éomer. «Legolas alla mia sinistra ed Aragorn a destra, e nessuno oserà levarsi contro di noi». «Dov’è Ombromanto?», domandò Gandalf.

«Corre libero sui prati», gli risposero. «Non permette a nessuno di toccarlo. Eccolo lì, vicino al guado, come un’ombra tra i salici».

Gandalf fischiò e gridò forte il nome del cavallo, che fu visto in lontananza impennarsi e nitrire, e poi lanciarsi verso la schiera come una freccia.

«Se le ali del Vento dell’Ovest portassero un corpo visibile, tale ci apparirebbe», disse Éomer mentre il cavallo si avvicinava, per arrestarsi infine avanti allo stregone.

«Il dono parrebbe già dato», disse Théoden. «Ma ascoltatemi tutti! Qui innanzi a voi io ora nomino il mio ospite, Gandalf il Grigio, il più saggio dei consiglieri, il più gradito dei viaggiatori, io lo nomino principe del Mark, capitano degli Eorlingas finché sopravvivrà la nostra stirpe; e gli dono Ombromanto, il principe dei cavalli».

«Ti ringrazio, re Théoden», disse Gandalf. Poi d’un tratto gettò via il grigio manto e il cappuccio e balzò a cavallo. Non portava elmo né corazza; i suoi candidi capelli volavano liberi al vento, e le bianche vesti brillavano abbaglianti al sole.

«Mirate il Bianco Cavaliere!», gridò Aragorn e tutti ripeterono con lui.

«Il nostro Re e il Bianco Cavaliere!», gridarono. «Avanti Eorlingas!».

Le trombe squillarono. I cavalli s’impennarono e nitrirono. Le lance risonarono contro gli scudi. Poi il re levò alta una mano e con il fragore d’un improvviso turbine di forte vento, l’ultima schiera di Rohan galoppò rombante verso occidente.

Lungi nella pianura Éowyn scorse lo scintillar delle lance, e rimase immobile, sola innanzi alle porte della casa silenziosa.

CAPITOLO VII IL FOSSO DI HELM

Il sole stava già scendendo a occidente quando partirono da Edoras, e la sua luce nei loro occhi trasformava tutte le ondulate praterie di Rohan in una foschia dorata. Vi era, a nord-ovest lungo le falde dei Monti Bianchi, un sentiero battuto, ed essi lo seguirono su e giù per una verde campagna, attraversando a guado molti piccoli e rapidi ruscelli. Leggermente a destra, sulla linea d’orizzonte, giganteggiavano le Montagne Nebbiose, diventando sempre più scure e più alte man mano che passavano le miglia. Il sole tramontò lentamente avanti a loro. La sera giunse alle loro spalle.

La schiera continuava a cavalcare, spinta dall’urgenza. Temendo di giungere troppo tardi, galoppavano a gran velocità senza quasi sostare. Veloci e robusti erano i destrieri di Rohan, ma molte erano le leghe da percorrere. Da Edoras distavano quaranta miglia in linea d’aria, e anche più, i Guadi dell’Isen ove speravano di trovare gli Uomini del re che lottavano contro gli eserciti di Saruman.

La notte li avviluppò. Infine, si fermarono a preparare l’accampamento. Cavalcavano da cinque ore e avevano percorso gran parte della pianura occidentale, eppure non erano ancora a metà strada. Bivaccarono in un grande cerchio sotto il cielo stellato e la luna crescente. Non accesero fuochi, essendo la situazione incerta; tutt’intorno però le sentinelle montarono la guardia, e gli esploratori cavalcarono avanti, come ombre fra le pieghe della campagna. La lenta notte passò senza notizie né allarmi. All’alba suonarono i corni, e in meno di un’ora erano di nuovo a cavallo.

* * *

In cielo non si scorgevano nubi, ma l’aria era pesante; faceva caldo, rispetto alla stagione in cui erano. Il sole sorgeva caliginoso e dietro di esso una crescente oscurità saliva lentamente in cielo, come una grande tempesta giunta da oriente. E lungi, a nord-ovest, un’altra oscurità covava intorno ai piedi delle Montagne Nebbiose, un’ombra che strisciava giù lenta dalla Vallata dello Stregone.

Gandalf galoppò più lento per attendere Legolas che cavalcava accanto a Éomer. «Hai lo sguardo acuminato caratteristico della tua bella stirpe, Legolas», disse; «voi sapete distinguere un passero da un fringuello a una lega di distanza. Dimmi, vedi nulla laggiù in direzione d’Isengard?».

«Molte miglia ci separano», disse Legolas guardando lontano e facendosi ombra agli occhi con la lunga mano. «Vedo un’oscurità in cui si muovono delle figure, grandi figure lontane sulla riva del fiume; ma che cosa siano non saprei dire. Non sono nubi o foschie a ostruirmi la vista: vi è come un velo d’ombra, steso sulla campagna da qualche strana potenza, che discende lentamente il corso del fiume. Si direbbe che il crepuscolo stia scivolando giù dai colli sotto innumerevoli alberi».

«E alle nostre spalle giunge una vera e propria tempesta di Mordor», disse Gandalf. «Sarà una notte nera».

* * *

Man mano che avanzava il loro secondo giorno di viaggio, la pesantezza nell’aria si faceva più greve. Nel pomeriggio le cupe nuvole li raggiunsero: uno scuro baldacchino dai grandi margini vaporosi macchiati di luce accecante. Il sole, color sangue, discese in una nebbiolina fumante. Le lance dei Cavalieri sfavillarono con punte di fuoco quando gli ultimi raggi di luce arsero i ripidi pendii delle vette di Thrihyrne: esse si ergevano ora molto vicine sul braccio settentrionale dei Monti Bianchi come tre corni frastagliati puntati verso il tramonto. Nell’ultimo bagliore rosso gli uomini all’avanguardia videro un punto nero, un cavaliere che galoppava verso di loro. Si fermarono ad aspettarlo.

Quello che giunse era un uomo-sfinito, con in capo un elmo ammaccato ed in mano uno scudo spaccato. Smontò lentamente da cavallo e rimase un attimo immobile respirando affannosamente. Infine parlò. «Éomer è con voi?», domandò. «Venite finalmente, ma troppo tardi e con poche forze. Le cose si sono messe molto male dopo la caduta di Théodred. Fummo respinti ieri al di qua dell’Isen e subimmo molte perdite: quanti Cavalieri morti nell’attraversare il fiume! Di notte, nuove forze vennero a sostenere il campo avverso. Isengard dev’essere completamente vuoto; Saruman ha armato persino i selvaggi montanari e pastori del Dunland oltre i fiumi, per rovesciarli su di noi. Fummo sopraffatti. Il muro di scudi s’infranse. Erkenbrand dell’Ovestfalda ha condotto verso la sua fortezza nel Fosso di Helm tutti gli uomini che è riuscito a radunare.

«Dov’è Éomer? Ditegli che oltre questa zona non vi è speranza. Che torni a Edoras prima che i lupi d’Isengard vi si rechino». Théoden era rimasto silenzioso, nascosto agli occhi dell’uomo dalle sue guardie; ora spinse il suo cavallo avanti. «Vieni, Ceorl, vieni al mio cospetto!», disse. «Io sono qui. L’ultimo esercito degli Eorlingas è partito. Non tornerà senza aver combattuto».

Il viso dell’uomo s’illuminò di gioia e meraviglia, ed egli si tenne dritto innanzi al suo re. Poi inginocchiandosi gli offrì la spada scalfita. «Ordina, o sire!», gridò. «E perdonami! Credevo…».

«Credevi che io fossi rimasto a Meduseld, curvo come un vecchio albero sotto la neve. Ero tale quando partisti in guerra. Ma un vento d’occidente ha scosso i rami», disse Théoden. «Date a quest’uomo un cavallo fresco! Galoppiamo in aiuto di Erkenbrand!».

* * *

Mentre Théoden parlava, Gandalf era andato un po’ più avanti e aveva scrutato a nord in direzione d’Isengard e ad ovest ove tramontava il sole. Quindi era tornato indietro.

«Galoppa, Théoden!», disse. «Galoppa sino al Fosso di Helm! Non andare ai Guadi dell’Isen e non fermarti nella pianura! Devo lasciarti per un breve tempo. Ombromanto mi deve adesso aiutare a compiere una rapida missione». Rivolgendosi ad Aragorn, ad Éomer e agli uomini del re gridò: «Proteggete bene il Signore del Mark sino al mio ritorno. Aspettatemi al Cancello di Helm! Addio!».

Sussurrò una parola a Ombromanto, e come una saetta dall’arco il grande destriero sfrecciò via. Guardavano ancora, e lui era già scomparso: un lampo d’argento nel tramonto, un vento sull’erba, un’ombra fuggente dileguatasi. Nevecrino nitrì e s’impennò, impaziente di seguirlo; ma solo un uccello dal rapido volo avrebbe potuto raggiungerlo.

* * *

«Che significa?», disse a Hàma uno della guardia.

«Che Gandalf il Grigio ha molta fretta», rispose Hàma. «Lo vedi sempre partire e giungere. inatteso».

«Vermilinguo, se fosse presente, troverebbe una facile spiegazione», disse l’altro.

«È vero», ribatté Hàma. «Io invece aspetterò di vedere Gandalf ritornare».

«Forse aspetterai a lungo», disse l’altro.

* * *

L’esercito cambiò rotta, allontanandosi dalla via che portava ai Guadi dell’Isen, per dirigersi a sud. Cadde la notte, ed essi cavalcavano ancora. I colli si avvicinavano, ma le alte vette di Thrihyrne erano già vaghe e confuse nel cielo che imbruniva. A qualche miglio ancora di distanza, dal lato opposto della Vallata Ovestfalda, si trovava una verde conca, una grande baia nelle montagne, che penetrava fra i colli tramite una gola. Gli abitanti di quella contrada la chiamavano il Fosso di Helm, dal nome di un eroe di antiche guerre che vi si era rifugiato. Sempre più ripida e stretta, la gola serpeggiava da nord verso l’interno all’ombra del Thrihyrne, e le rupi a picco abitate dalle cornacchie si ergevano ai due lati come torri imponenti, impedendo alla luce di filtrare.

Al Cancello di Helm, davanti all’imboccatura del Fosso, uno sperone di roccia sporgeva dalla parete nord. Sulla punta vi erano alte mura di pietra antica, e all’interno di esse un’altera torre. Gli Uomini narravano che nei lontani tempi gloriosi di Gondor, i re del mare avevano costruito in quel punto la fortezza con l’aiuto di giganti. La chiamavano il Trombatorrione, perché un corno suonato sulla torre echeggiava in tutto il Fosso, come se eserciti Perduti partissero in guerra da caverne all’interno dei colli. Anticamente gli Uomini avevano anche costruito delle mura, dal Trombatorrione alla parete sud, che sbarravano l’ingresso della gola. Un acquedotto permetteva al Fiume Fossato di attraversare i bastioni: il corso d’acqua serpeggiava poi ai piedi della Trombaroccia ed attraversava in un letto profondo un ampio burrone verde, che scendeva in dolce pendio dal Cancello di Helm alla Diga di Helm. Da lì il torrente cadeva nella Conca Fossato e proseguiva il suo corso verso la Vallata Ovestfalda. Nel Trombatorrione al Cancello di Helm viveva ora Erkenbrand, sire dell’Ovestfalda ai confini del Mark. Poiché i giorni erano cupi di minacce guerresche ed egli era saggio, aveva riparato le mura e rinforzato la cittadella.

* * *

I cavalieri erano ancora nella bassa valle prima dell’imboccatura della Conca, quando le vedette mandate in avanscoperta riferirono di aver udito grida e suoni di trombe. Dall’oscurità le frecce giungevano sibilando. Cavalieri in groppa a lupi galoppavano nella valle, un esercito di Orchi e Uomini selvaggi correva verso sud dai Guadi dell’Isen e sembrava dirigersi al Fosso di Helm.

«Abbiamo trovato molti dei nostri uccisi nella fuga», disse la vedetta. «Ed abbiamo incontrato gruppi sparpagliati che erravano senza capitano. Pare che nessuno sappia che cosa sia accaduto a Erkenbrand. È probabile che venga raggiunto prima di arrivare al Cancello di Helm, se non è già perito».

«Gandalf è stato veduto?», domandò Théoden.

«Sì, mio signore. Molti hanno scorto un vecchio vestito di bianco in sella a un cavallo passare qua e là sulle pianure come vento fra le erbe. Alcuni l’avevano preso per Saruman. Pare si sia recato prima del calar della notte a Isengard. Alcuni dicono anche di aver visto Vermilinguo qualche tempo fa, mentre andava a nord con un gruppo di Orchi».

«Saranno guai per Vermilinguo, se cade nelle mani di Gandalf», disse Théoden. «Comunque sento ora la mancanza di ambedue i miei consiglieri, del vecchio e del nuovo. Ma in questa congiuntura non ci resta che proseguire sino al Cancello di Helm, come voleva Gandalf, anche se Erkenbrand non si trova lì. Conoscete le dimensioni dell’esercito che viene dal Nord?».

«È molto numeroso», rispose la vedetta. «Il fuggiasco conta due volte ogni nemico, tuttavia ho parlato con Uomini valorosi, e dovrei pensare che le forze del nemico siano più volte superiori alle nostre».

«Allora affrettiamoci», disse Éomer. «Cerchiamo di abbattere almeno i nemici che ci separano dalla fortezza. Vi sono caverne nel Fosso di Helm ove centinaia di Uomini possono stare in agguato; e da lì alcuni passaggi segreti conducono sui colli».

«Non fidarti dei passaggi segreti», disse il re. «Saruman ha da tempo esplorato queste contrade. Comunque, lì la nostra difesa potrebbe durare a lungo. Andiamo!».

* * *

Aragorn e Legolas cavalcarono insieme con Éomer. Galopparono senza sosta nella notte cupa, rallentando l’andatura a mano a mano che l’oscurità s’infittiva e che il sentiero, dirigendosi a sud, s’inerpicava sempre più in alto sulle falde delle montagne. Incontrarono pochi nemici: qua e là gruppi di Orchi vaganti che fuggivano prima che i Cavalieri potessero prenderli o ucciderli.

«Fra non molto», disse Éomer, «temo che l’arrivo dell’esercito del re sarà noto al capo dei nostri nemici, Saruman o qualche altro capitano suo alleato».

Il rumore di guerra cresceva alle loro spalle. Udivano persino, attraverso le tenebre, il suono di canti feroci. Quando ebbero percorso gran parte della Conca Fossato si voltarono a guardare. Allora videro innumerevoli punti di luce infocata sui neri campi, torce sparpagliate come fiori rossi o serpeggianti dalle basse terre verso le alture in lunghe file di luminosità intermittente. Qua e là una vampata.

«È un grande esercito, e c’insegue alacremente», disse Aragorn.

«Portano fuoco», disse Théoden, «e stanno bruciando sul loro passaggio alberi, capanne e pagliai. Questa era una ricca vallata piena di fattorie. Ahimè, povero mio popolo!».

«Se almeno fosse giorno, potremmo galoppare all’assalto e travolgerli come una tempesta discesa dalle montagne!», disse Aragorn. «Mi duole dover fuggire innanzi a loro».

«Se vogliamo, possiamo porre fine fra poco alla nostra fuga», disse Éomer. «A breve distanza da qui vi è la Diga di Helm, un’antica trincea con baluardo che attraversa la conca a cinquecento passi dal Cancello di Helm. Lì potremmo voltarci e dare battaglia».

«No, siamo troppo pochi per difendere la Diga», disse Théoden. «È lunga un miglio ed anche più, e la breccia è assai larga».

«È alla breccia che deve sostare la nostra retroguardia, se l’esercito nemico ci preme alle spalle», disse Éomer.

* * *

Non vi era luna né stelle quando i Cavalieri giunsero alla breccia nella Diga, nel punto ove usciva il torrente fiancheggiato dalla strada proveniente dal Trombatorrione. Il bastione si erse all’improvviso innanzi a loro, un’ombra imponente al di là di un oscuro pozzo. Mentre si avvicinavano udirono l’alto-là di una sentinella.

«Il Signore del Mark si reca al Cancello di Helm», rispose Éomer. «Quello che parla è Éomer figlio di Éomund».

«Queste sono notizie insperatamente buone», rispose la sentinella. «Affrettatevi! Il nemico è alle vostre calcagna».

L’esercito passò la breccia e si fermò subito dopo sul prato in pendio. Ivi appresero con gioia che Erkenbrand aveva lasciato molti Uomini a guardia del Cancello di Helm, e che gran parte di coloro che erano sopravvissuti alle battaglie li avevano raggiunti.

«Abbiamo forse un migliaio di Uomini in grado di combattere a piedi», disse Gamling, il vecchio che comandava la guardia della Diga. «Ma la maggior parte ha veduto troppi inverni, come me, o troppo pochi, come il figlio di mio figlio che vedete qui. Quali nuove di Erkenbrand? Ieri giunse voce ch’egli si stava ritirando e cercando di portare qui in salvo gli ultimi migliori Cavalieri dell’Ovestfalda. Ma non è arrivato».

«Temo che ormai non arriverà», disse Éomer. «Le nostre vedette non sono riuscite a darci notizie di lui, e il nemico ha invaso la vallata alle nostre spalle».

«Se fosse sopravvissuto!», disse Théoden. «Era un Uomo possente. In lui riviveva il coraggio di Helm Mandimartello. Non possiamo però aspettarlo qui. Dobbiamo ora radunare tutte le nostre forze dietro le mura. Avete provviste sufficienti? Noi disponiamo di poche vettovaglie, perché partimmo in battaglia, non verso un assedio».

«Dietro di noi, nelle caverne del Fosso, sono rifugiati i tre quarti del popolo dell’Ovestfalda, vecchi e giovani, donne e bambini», rispose Gamling. «Ma ivi abbiamo anche riunito grandi quantità di provviste, di animali e di foraggio».

«È un’ottima cosa», disse Éomer. «Stanno bruciando e saccheggiando ogni cosa nella vallata».

«Se vengono al Cancello di Helm a trattare l’acquisto delle nostre mercanzie, pagheranno un prezzo assai alto», disse Gamling.

* * *

Il re ed i suoi Cavalieri proseguirono. Giunti al ponte che attraversava il corso d’acqua smontarono da cavallo. Quindi condussero gli animali in lunga fila indiana su per il pendio e all’interno dei cancelli del Trombatorrione. Anche lì furono accolti da grida di gioia e di rinnovata speranza; vi erano infatti adesso Uomini a sufficienza per difendere tanto la fortezza quanto le mura.

Éomer si affrettò a organizzare le proprie forze. Il re e gli Uomini del seguito sarebbero rimasti nel Trombatorrione, ove si trovavano già parecchi guerrieri dell’Ovestfalda. Ma sulle Mura Fossato, sulla torre e dietro di esse Éomer dispose la maggior parte degli Uomini, poiché lì la difesa sarebbe stata più ardua nel caso di un assalto deciso e violento. I cavalli vennero condotti all’altra estremità del Fosso e affidati alle poche guardie disponibili.

Le Mura Fossato misuravano venti piedi di altezza ed erano così spesse che quattro Uomini potevano camminare a fianco a fianco su di esse, protetti da un parapetto che solo lo sguardo di un Uomo assai alto sarebbe riuscito a scavalcare. Qua e là, delle feritoie permettevano di tirare contro il nemico. A questo parapetto merlato si accedeva per mezzo di una scala che scendeva dal cortile esterno del Trombatorrione, o di tre rampe di gradini che, dal Fosso, conducevano sulle mura. Ma il lato della cinta rivolto verso l’esterno era completamente liscio, e le grandi pietre che lo componevano erano disposte con tanta maestria da impedire qualunque appiglio alle giunture: cadevano a strapiombo come un promontorio roso dalle acque del mare.

* * *

Gimli era in piedi sulle mura, appoggiato al parapetto ove sedeva Legolas maneggiando il suo arco e scrutando le tenebre.

«Questo luogo è già di mio maggiore gradimento», disse il Nano, pestando i piedi sulle dure pietre. «Il mio cuore si rinfranca sempre avvicinandosi alle montagne. Vi è della buona roccia da queste parti. È una campagna dalle ossa robuste: le sentivo sotto di me mentre salivamo dalla Diga sin qui. In cento e un anno della mia razza farei di questo posto una rocca contro la quale gli eserciti si infrangerebbero come flutti».

«Non lo metto in dubbio», disse Legolas. «Ma tu sei un Nano, ed i Nani sono gente strana. Io non amo questo posto, e la luce del giorno non cambierà i miei sentimenti. Ma tu mi conforti, Gimli, e sono contento di averti accanto, con le tue robuste gambe e la dura ascia. Vorrei che ci fosse qualche altro della tua razza con noi. Ma desidererei ancor di più un centinaio di buoni arcieri del Bosco Atro. Ne avremo bisogno. I Rohirrim hanno dei bravi tiratori d’arco, a modo loro, ma ve ne sono troppo pochi qui, troppo pochi».

«Fa buio per le frecce», disse Gimli. «È davvero ora di dormire. Dormire! Non avrei mai pensato che un Nano potesse sentirne a tal punto il bisogno. Cavalcare è un lavoro pesante. Eppure l’ascia è irrequieta nella mia mano. Datemi una fila di Orchi e un po’ di spazio per prendere lo slancio, ed ogni stanchezza scomparirà dalle mie membra!».

Il tempo passò lento. Giù in fondo nella valle qualche fuoco ardeva ancora. Le schiere d’Isengard avanzavano ora in silenzio. Si vedevano molte file di torce serpeggiare attraverso la conca.

D’un tratto scoppiarono dalla Diga grida e urli e comandi di battaglia. Tizzoni fiammeggianti apparvero dall’altra parte e si raggrupparono vicino alla breccia. Quindi si sparpagliarono e scomparvero. Degli Uomini giunsero al galoppo dal campo e risalirono il pendio sino al cancello del Trombatorrione. La retroguardia dell’esercito d’Ovestfalda era stata respinta verso l’interno.

«Il nemico è qui!», dissero. «Scoccammo ogni freccia disponibile, riempiendo la Diga di Orchi. Ma ciò non li arresterà a lungo. Stanno già risalendo l’argine in molti punti, numerosi come un esercito di formiche. Ma gli abbiamo insegnato a non portare torce».

* * *

Era già mezzanotte passata. Il cielo era completamente buio, e la calma che regnava nell’aria pesante era un presagio di tempesta. Improvvisamente un lampo accecante squarciò le nubi. Rami di fulmini si abbatterono sui colli orientali. Per un incredibile momento gli spettatori sulle mura videro tutto lo spazio tra loro e la Diga illuminato di luce bianca: ribolliva gremito di nere forme striscianti, alcune piatte e larghe, altre grandi e crudeli, con grossi elmi e cupi scudi. Centinaia e centinaia si riversavano all’interno, scavalcando la Diga o passando dalla breccia. La nera marea salì sino alle mura, costeggiandole in tutta la loro lunghezza. I tuoni rombavano nella valle. La pioggia scrosciava.

Frecce fitte come il diluvio giungevano fischiando da sopra il parapetto e cadevano tintinnando e rimbalzando sulle pietre. Alcune trovavano un bersaglio. Era incominciato l’assalto al Fosso di Helm, ma all’interno non si udivano rumori né grida; alle frecce, nessuna freccia rispondeva.

Gli assalitori si arrestarono, gelati dalla silente minaccia di rocce e mura. Incessanti, i fulmini tagliavano in due l’oscurità. Poi gli Orchi urtarono agitando lance e spade e scoccando una nube di dardi contro le figure visibili sulla cinta. Gli Uomini del Mark, stupefatti, videro ciò che a loro parve un grande campo di grano nero scosso da una bufera di guerra, ove ogni spiga brillava di luce pungente.

Si udì uno sfrontato squillar di trombe. Il nemico si catapultò avanti, sia contro le Mura Fossato, sia verso il ponte e il declivio che conducevano ai cancelli del Trombatorrione. Ivi erano radunati gli Orchi più grossi e gli Uomini selvaggi delle colline brulle del Dun’and. Le schiere esitarono un attimo e poi proseguirono l’assalto. Un lampo balenò, e su ogni elmo ed ogni scudo apparve l’emblema della spettrale mano d’Isengard. Raggiunsero la sommità della roccia e si diressero verso i cancelli.

Allora infine giunse la risposta: una tempesta di frecce e una grandine di pietre li accolsero. Vacillarono, ruppero le linee e fuggirono; ma tosto ricominciò la carica, lo scompiglio e di nuovo la carica; ogni volta, come l’alta marea, guadagnavano terreno. Per la seconda volta squillarono le trombe e con un ruggito un turbine di Uomini si precipitò avanti. Tenevano sopra le teste come un tetto i loro grandi scudi, mentre al centro portavano due enormi tronchi d’albero. Dietro a loro, uno stuolo di Orchi scoccava una grandine di frecce contro gli arcieri sulle mura. Raggiunsero i cancelli. Gli alberi, spinti da braccia possenti, colpirono i cardini con frastuono lacerante. Se uno degli Uomini cadeva, schiacciato da un masso precipitato dall’alto, veniva immediatamente sostituito da altri due. Più e più volte i grossi arieti presero lo slancio e urtarono con violenza.

Éomer ed Aragorn erano insieme sulle Mura Fossato. Udirono le grida e i ruggiti e i colpi degli arieti; all’improvviso, un lampo di luce mostrò loro il pericolo che correvano i cancelli.

«Vieni!», disse Aragorn. «È giunta l’ora di sguainare insieme le nostre due spade».

Correndo come fuoco, si precipitarono lungo le mura, su per le scale, e uscirono nel cortile esterno sulla Roccia, trascinandosi dietro un pugno di robusti maneggiatori di spada. Una piccola porta posteriore si apriva in un angolo delle mura occidentali, nel punto in cui si congiungevano con la parete rocciosa. Da essa si accedeva a uno stretto sentiero che conduceva sino al grande cancello, fiancheggiando la parte esterna delle mura da un lato e l’orlo dello strapiombo della Roccia dall’altro. D’un balzo, Éomer ed Aragorn furono fuori della porta seguiti dai loro uomini. Le due spade lampeggiarono come una sola quando le sfoderarono.

«Gùthwinë!», gridò Éomer. «Gùthwinë per il Mark!».

«Andùril!», gridò Aragorn. «Andùril per i Dùnedain!».

Assalendoli di fianco si precipitarono sugli Uomini selvaggi. Andùril s’innalzò e cadde, brillando di fuoco bianco. Un urlo s’innalzò dalle mura e dalla torre: «Andùril! Andùril va in guerra. La Lama che fu Rotta torna a scintillare!».

Sconvolti, gli Uomini che portavano gli arieti li lasciarono cadere per combattere; ma il muro dei loro scudi fu infranto come da un fulmine ed essi vennero travolti, massacrati, o scaraventati dall’alto della Roccia nel pietroso torrente sottostante. Gli Orchi tirarono come impazziti qualche freccia e poi fuggirono.

* * *

Éomer ed Aragorn rimasero un momento fermi davanti al cancello. Il rombo del tuono era ormai lontano. I lampi balenavano ancora in lontananza fra le montagne a sud. Un vento penetrante aveva ricominciato a soffiare da nord. Le nubi squarciate fuggivano, lasciando intravedere le stelle; sui colli dal lato della Conca apparve la luna d’occidente, gialla e lucente in mezzo alle distruzioni della tempesta.

«Siamo arrivati appena in tempo», disse Aragorn guardando i cancelli. I grandi cardini e le grosse sbarre di ferro erano curvi e contorti, molte travi erano rotte.

«Non possiamo però rimanere all’esterno delle mura per difenderli», disse Éomer. «Guarda!». Mostrò il ponte. Un fitto stuolo di Uomini e Orchi si radunava nuovamente dall’altra riva del torrente. Delle frecce sibilando rimbalzarono sulle pietre intorno a loro. «Vieni! Dobbiamo tornare di là a vedere che cosa si può fare per ammucchiare sassi e travi dal lato interno del cancello. Coraggio, andiamo!».

Si voltarono e partirono di corsa. In quell’istante una dozzina d’Orchi che giacevano immobili tra i caduti balzarono in piedi e li raggiunsero veloci e silenziosi. Due di essi si gettarono in terra afferrando le caviglie di Éomer e facendolo cadere, poi in un attimo gli furono addosso. Ma una piccola figura scura che nessuno aveva notato sbucò dalle ombre con un roco grido: Baruk Khazâd! Khazâd ai-menu! Un’ascia oscillò e cadde. Due Orchi piombarono in terra decapitati. Gli altri fuggirono.

Éomer si rialzò rapidamente, mentre Aragorn tornava indietro Correndo in suo aiuto.

* * *

La porticina nelle mura fu richiusa, la porta di ferro sbarrata e rinforzata da un mucchio di pietre. Quando furono tutti all’interno sani e salvi, Éomer si volse verso il Nano. «Ti ringrazio, Gimli figlio di Glóin!», disse. «Non sapevo che ci avessi accompagnati nella sortita. Ma spesso l’ospite non invitato si rivela il compagno più piacevole. Come arrivasti sin lì?».

«Decisi di seguirvi per scrollarmi di dosso il sonno», disse Gimli. «Ma quando vidi gli Uomini delle montagne mi parvero assai grandi in confronto a me, e rimasi seduto presso una roccia a osservare i vostri esercizi con le spade».

«Non sarà facile per me restituirti questo favore», disse Éomer.

«L’occasione si presenterà forse prima che giunga l’alba», rispose ridendo il Nano. «Ma ora sono soddisfatto. Da Moria in poi non avevo tagliato altro che legna».

* * *

«Due!», disse Gimli accarezzando la sua ascia. Aveva ripreso il proprio posto sulle mura.

«Due?», ripeté Legolas. «Ho fatto di meglio, ed ora dovrò andare in cerca di frecce perdute: le mie sono tutte esaurite. I miei conti ammontano almeno a venti; ma ciò rappresenta solo qualche foglia in una foresta».

* * *

Il cielo schiariva rapidamente e la luna che si accingeva a coricarsi brillava intensamente. Ma la luce portò poca speranza ai Cavalieri del Mark. Il nemico innanzi a loro pareva essersi moltiplicato anziché diminuito, e si vedevano i rinforzi giungere dalla vallata e passare la breccia. La sortita sulla Roccia procurò agli assediati solo una breve tregua. Poi l’assalto ai cancelli riprese con raddoppiato vigore. Contro le Mura Fossato l’esercito d’Isengard ruggiva come mare in tempesta. Orchi e Uomini delle montagne brulicavano da un’estremità all’altra della cinta. Corde con ramponi venivano lanciate al di qua del parapetto con tale destrezza e rapidità che i combattenti non facevano in tempo a tagliarle né a respingerle. Centinaia di lunghe scale furono appoggiate alle mura. Molte di esse vennero precipitate e distrutte, ma altre le sostituirono, mentre gli Orchi si arrampicavano come scimmie nelle oscure foreste del Sud. Ai piedi della muraglia morti e rottami erano ammucchiati come ghiaia e pietrisco in una tempesta; gli orrendi mucchi crescevano sempre, e sempre il nemico tornava all’assalto.

Gli Uomini di Rohan erano sfiniti. Avevano scoccato tutte le frecce e tirato tutte le lance; le loro spade erano scalfite e gli scudi incrinati. Tre volte Aragorn ed Éomer li radunarono, e tre volte Andùril fiammeggiò in un assalto disperato, allontanando il nemico dalle mura.

Improvvisamente nel Fosso alle loro spalle si levò un clamore. Degli Orchi, strisciando come topi, avevano attraversato le mura nel punto ove passava il torrente; lì si erano raggruppati all’ombra delle rupi, aspettando che l’assalto giungesse al culmine e che quasi tutti i difensori fossero sulla cinta. Allora erano balzati fuori dal loro nascondiglio. Già qualcuno si era infilato nella gola del Fosso e lottava con le guardie dei cavalli.

Gimli si lanciò giù dalle mura con un grido feroce che rimbombò fra le rocce. «Khazâd! Khazâd!». Trovò presto come impiegare la sua ascia.

«Ai-oi!», vociò. «Gli Orchi sono all’interno delle mura. Ai-oi! Vieni, Legolas! Ce n’è a sufficienza per ambedue. Khazâd ai-menu!».

* * *

Gamling il Vecchio si affacciò dal Trombatorrione, nell’udire la possente voce del Nano sovrastare il tumulto. «Gli Orchi sono nel Fosso!», gridò. «Helm! Helm! Avanti Helmingas!», tuonò scendendo di gran corsa la scala della Roccia con un seguito di Uomini dell’Ovestfalda.

Il loro assalto fu violento e improvviso, e gli Orchi furono costretti a retrocedere. Poco dopo, si trovarono accerchiati nelle strettoie della gola e vennero uccisi o spinti nel baratro del Fosso, precipitando ai piedi dei guardiani delle caverne nascoste.

«Ventuno!», gridò Gimli. Vibrò un altro colpo a due mani, atterrando l’ultimo Orco. «Ora il mio conto supera di nuovo quello di Messer Legolas».

«Dobbiamo chiudere questa tana di topi», disse Gamling. «I Nani godono reputazione di gente esperta di pietre. Dacci il tuo aiuto, messere!».

«Non lavoriamo la pietra con le asce di combattimento né con le unghie», disse Gimli. «Ma farò del mio meglio».

Riunirono tutti i piccoli massi e le pietre rotte che trovarono a portata di mano, e seguendo le istruzioni di Gimli gli Uomini dell’Ovestfalda bloccarono la parte interna del cunicolo, lasciando solo uno stretto passaggio per l’acqua. Il Fiume Fossato, gonfiato dalle piogge, si agitava furioso nell’angusto vano e andava man mano formando freddi stagni fra le due pareti della gola.

«Sopra sarà meno umido», disse Gimli. «Vieni, Gamling, andiamo a vedere come stanno le cose sulle mura!».

Arrampicatosi, trovò Legolas accanto ad Aragorn ed Éomer. L’Elfo aveva trovato dove immergere il suo lungo pugnale. Vi fu un momento di tregua nell’assalto, poiché il tentativo di penetrare dal cunicolo era stato respinto.

«Ventuno!», disse Gimli.

«Bene!», disse Legolas. «Ma io ora sono a due dozzine. Il pugnale ha avuto da fare quassù».

* * *

Éomer ed Aragorn si appoggiarono stanchi alle spade. Alla loro sinistra il fragore e il clamore della battaglia sulla Roccia riprese con nuovo vigore. Ma il Trombatorrione resisteva, come un’isola in mezzo al mare. I cancelli erano distrutti, ma nessun nemico era ancora riuscito a passare la barricata di massi e travi.

Aragorn mirò le pallide stelle, e la luna che scendeva ora obliqua dietro i colli che chiudevano ad ovest la vallata. «Questa notte è lunga come anni interi», disse. «Quanto potrà tardare ancora il giorno?».

«L’alba non è lontana», rispose Gamling che si era arrampicato vicino a lui. «Ma non sarà l’alba ad aiutarci, purtroppo».

«Eppure è sempre l’alba la speranza degli uomini», disse Aragorn.

«Ma queste creature d’Isengard, questi mezzi-Orchi e uomini-folletti creati dall’infame arte di Saruman, non si scoraggeranno certo di fronte al sole», disse Gamling. «E neanche gli Uomini selvaggi delle colline. Senti le loro voci?».

«Le sento», disse Éomer; «ma alle mie orecchie paiono soltanto grida di uccelli e muggiti di bestie».

«Eppure molte di quelle voci urlano nella lingua del Dun’and», disse Gamling. «Io conosco quell’idioma, anticamente parlato dagli Uomini in molte valli occidentali del Mark. Ascoltate! Ci odiano e sono contenti, perché sono certi che ormai il nostro destino sta per compiersi. “Il re, il re!”, gridano. “Prenderemo il loro re. Morte ai Forgoil! Morte ai Testapaglia! Morte ai ladri del Nord!”. Questi sono gli attributi che ci danno. Non sono bastati cinquecento anni Per cancellare in loro il rancore contro i signori di Gondor che diedero il Mark ad Eorl il Giovane e si allearono con lui. Saruman ha infiammato e alimentato quell’antico odio. È gente feroce, quando si desta. Alba e crepuscolo non li faranno indietreggiare se prima non avranno fatto prigioniero Théoden, o non si saranno fatti tutti uccidere».

«Tuttavia l’alba mi recherà speranza», disse Aragorn. «Non si dice forse che mai nemico prese il Trombatorrione difeso dagli Uomini?».

«Così cantano i menestrelli», disse Éomer.

«E allora difendiamolo, e speriamo!», disse Aragorn.

* * *

Mentre parlavano udirono uno squillo di trombe; poi un fragore, un bagliore di fiamma, e fumo. Le acque del Fiume Fossato si riversarono fuori dalle mura sibilando e spumeggiando: nulla più le conteneva, un grande buco si apriva nelle mura squarciate. Una schiera di figure nere irruppe all’interno della cinta.

«Diavolerie di Saruman!», esclamò Aragorn. «Mentre parlavamo sono di nuovo penetrati nel cunicolo, e hanno acceso il fuoco di Orthanc sotto i nostri piedi. Elendil! Elendil!», gridò lanciandosi giù a difendere la breccia; ma nel frattempo centinaia di scale venivano appoggiate contro il parapetto. Da sopra le mura e da sotto le mura l’ultimo assalto giunse dilagando come un’onda scura su una duna. La difesa fu travolta. Parte dei Cavalieri venne respinta sempre più all’interno del Fosso, cadendo e combattendo man mano che retrocedevano, un passo dietro l’altro, verso le caverne. Altri cercarono rifugio nella fortezza.

Un’ampia scala saliva dal Fosso alla Roccia e portava al cancello posteriore del Trombatorrione. Sugli ultimi scalini si ergeva Aragorn, con Andùril che scintillava ancora nella sua mano; il terrore della spada tenne per qualche momento lontano il nemico, permettendo in tal modo a tutti coloro che poterono raggiungere la scala, di salire sino al cancello. In alto, inginocchiato sul gradino superiore, Legolas tendeva il suo arco; non gli rimaneva ormai che una freccia, ed egli scrutava le tenebre, pronto a tirare sul primo Orco che avesse ardito avvicinarsi alla scala.

«Tutti quelli che sono riusciti a fuggire sono ora sani e salvi all’interno, Aragorn», gridò. «Torna su!».

Aragorn si voltò e salì rapido i gradini; ma nel correre la stanchezza lo fece inciampare e cadere. Immediatamente i suoi nemici si lanciarono avanti. Gli Orchi si precipitarono su per le scale, con le lunghe braccia tese in avanti per afferrarlo. Il primo fu abbattuto dall’ultima freccia di Legolas che gli si conficcò nel collo, ma gli altri lo scavalcarono. Allora un grosso macigno scaraventato giù dall’alto delle mura esterne piombò con fragore sulla scalinata respingendo con violenza gli assalitori nel Fosso. Aragorn raggiunse il cancello che si richiuse rapido con suono metallico dietro le sue spalle.

«Le cose si mettono male, amici», disse asciugandosi con la manica il sudore della fronte.

«Male sì», disse Legolas, «ma non c’è da disperarsi, finché ti abbiamo con noi. Dov’è Gimli?».

«Non so», rispose Aragorn. «L’ultima volta che lo vidi stava combattendo dietro le mura, ma il nemico ci allontanò l’uno dall’altro».

«Ahimè! Queste sono cattive notizie», disse Legolas.

«È forte e robusto», disse Aragorn. «Speriamo che riesca a rifugiarsi nelle caverne. Lì starebbe al sicuro per un po’. Più al sicuro di noi. È un tipo di rifugio che dovrebbe proprio piacere a un Nano».

«Lo spero veramente», disse Legolas. «Ma rimpiango che non sia passato da queste parti, perché desideravo comunicare a Messer Gimli che i miei conti ammontano ora a trentanove».

«Se riesce a raggiungere le caverne, ti supererà nuovamente», disse ridendo Aragorn. «Non ho mai visto adoperare tanto un’ascia!».

«Devo andare in cerca di frecce», disse Legolas. «Se almeno questa notte finisse, e io potessi finalmente avere una luce migliore per tirare!».

* * *

Aragorn entrò nella fortezza. Lì apprese costernato che Éomer non aveva raggiunto il Trombatorrione.

«No, non è ritornato alla Roccia», disse uno degli Uomini dell’Ovestfalda. «Lo vidi l’ultima volta intento a radunare soldati che combattessero con lui all’imboccatura del Fosso. Vi erano anche Gamling ed il Nano; ma non riuscì a raggiungerli».

Aragorn attraversò il cortile interno e salì in un’alta stanza nella torre. Ivi era il re, e mirava la valle da una stretta finestra contro la quale si delineava la sua immagine scura.

«Che notizie, Aragorn?», domandò.

«Le Mura Fossato sono state prese. sire, ed i difensori travolti; ma molti di loro sono riusciti a fuggire e a rifugiarsi sulla Roccia». «Éomer è qui?».

«No, sire. Ma parecchi uomini si ritirarono nel Fosso, e ho sentito dire da alcuni che Éomer era fra questi. Lì nelle gole potrebbero respingere l’assalto del nemico e poi riparare nelle caverne. Quale speranza possano avere in seguito, non saprei».

«Più di noi. Buone provviste, a quanto pare. E aria salubre per via delle fessure in alto nella roccia. Nessuno può forzare un’entrata difesa da uomini di polso. Potrebbero resistere a lungo».

«Ma gli Orchi hanno portato da Orthanc qualcosa di diabolico», disse Aragorn. «Hanno un fuoco che squarcia esplodendo, e con esso s’impadronirono delle mura. Se non riescono a entrare nelle caverne, potrebbero rinchiudervi per sempre coloro che vi si trovano. Ma ora dobbiamo concentrare ogni pensiero sulla nostra difesa».

«Sono irrequieto in questa prigione», disse Théoden. «Se avessi cavalcato in testa al mio esercito con la lancia in resta, forse avrei di nuovo provato la gioia del combattimento e concluso in tal modo i miei giorni. Ma qui servo a ben poco».

«Qui almeno sei custodito nella più inespugnabile fortezza del Mark», disse Aragorn. «Abbiamo maggiore speranza di difenderti nel Trombatorrione, che non a Edoras o persino a Dunclivo in mezzo alle montagne».

«Si narra che mai il Trombatorrione ha ceduto a un assalto», disse Théoden; «ma ora nel mio cuore cova un dubbio. Il mondo cambia, e tutto ciò che un tempo era forte ora si rivela insicuro. Come potrà mai una torre resistere a una tale valanga e a un odio così implacabile? Se avessi saputo quale fosse la forza d’Isengard, forse non avrei galoppato via con tanto impeto, non le sarei corso incontro, malgrado tutta l’opera di persuasione di Gandalf. I suoi consigli non sembrano ora buoni come mi erano parsi alla luce del mattino».

«Non giudicare i consigli di Gandalf prima che tutto sia finito, sire», disse Aragorn.

«La fine non tarderà molto», disse il re. «Ma non voglio finire qui, intrappolato come un vecchio tasso. Nel cortile interno ci attendono Nevecrino, Hasufel e i cavalli della guardia. Quando giungerà l’alba dirò ai miei uomini di suonare il corno di Helm, e cavalcherò in avanti. Galopperai allora al mio fianco, Aragorn figlio di Arathorn? Forse riusciremo ad aprirci un varco, o a morire di una morte degna di un poema… se sopravvivrà qualcuno per cantare le nostre gesta».

«Galopperò al tuo fianco», rispose Aragorn.

Poi, dopo aver preso commiato, ritornò sulle mura, che percorse in tutta la loro lunghezza, incoraggiando gli uomini e prestando il suo aiuto ovunque l’assalto fosse violento. Legolas lo seguiva. Vampate di fiamme s’innalzavano da sotto la cinta mentre le pietre tremavano. Ramponi vennero lanciati all’interno e scale poggiate al parapetto. Ripetutamente gli Orchi misero piede sulle mura esterne, e ogni volta i difensori li scaraventarono indietro.

Infine Aragorn si erse al di sopra dei grandi cancelli, noncurante dei dardi del nemico. Guardando innanzi vide il cielo orientale impallidire, e levò alta una mano vuota col palmo rivolto verso l’esterno, indicando con ciò di voler parlare.

Gli Orchi urlarono e sghignazzarono. «Scendi! Scendi!», gridavano. «Se vuoi parlarci, scendi. Porta fuori il tuo re! Siamo gli imbattibili Uruk-hai. Lo scoveremo nella sua tana se non si decide a venir fuori. Mostraci il tuo re scontroso!».

«Il re resta all’interno, o esce quando più gli aggrada», disse Aragorn.

«E allora tu che fai lassù?», ribatterono quelli. «Perché guardi fuori? Desideri vedere quanto è grande il nostro esercito? Noi siamo gli imbattibili Uruk-hai».

«Guardavo fuori per mirare l’alba», disse Aragorn.

«Che t’importa dell’alba?», sghignazzarono. «Noi siamo gli Uruk-hai: non interrompiamo la battaglia né di notte né di giorno, né col sole né con la tempesta. Noi uccidiamo, col sole e con la luna. Che t’importa dell’alba?».

«Nessuno sa che cosa gli porterà il nuovo giorno», disse Aragorn. «Andatevene, prima che le cose si mettano male per voi».

«Scendi o ti abbatteremo con le nostre frecce», urlarono. «Questa non è una discussione: non hai nulla da dire».

«Ho da dire ancora una cosa», rispose Aragorn. «Mai nessun nemico si è impadronito del Trombatorrione. Andatevene, o nessuno di voi verrà risparmiato; non ne rimarrà nemmeno uno in vita che possa tornare al Nord con le notizie. Non sapete quale pericolo correte».

Tanto grandi erano la potenza e la regalità emanate da Aragorn, solo in piedi sui cancelli distrutti innanzi alle schiere nemiche, che molti degli Uomini selvaggi si arrestarono, guardando la vallata dietro di loro, e con aria dubbiosa il cielo. Ma gli Orchi risero forte ed una grandine di dardi sibilò sulle mura mentre Aragorn saltava giù.

Si udirono un boato ed uno scoppio. L’arcata del cancello sulla quale egli si trovava un istante prima, si sbriciolò precipitando fra polvere e fumo. La barricata fu travolta come da un fulmine. Aragorn corse alla torre del re.

Ma mentre cadeva il cancello e gli Orchi tutt’intorno urlavano preparandosi alla carica, un mormorio si levò dietro di loro, come un vento lontano, e divenne tosto il clamore di molte voci che gridavano all’alba strane notizie. Gli Orchi sulla Roccia, udendo gemiti e lamenti, esitarono e si voltarono a guardare. Allora, improvviso e terribile, dalla torre sopra di loro squillò il grande corno di Helm.

* * *

Tutti coloro che lo udirono tremarono. Molti Orchi si gettarono in terra bocconi coprendosi le orecchie con le grinfie. Dalle profondità del Fosso giungevano gli echi di ogni squillo, come se rupi e colline avessero avuto ognuna il proprio possente araldo. Ma gli uomini sulle mura guardarono in alto, ascoltando stupefatti: gli echi non morivano mai. Gli squilli continuavano a serpeggiare fra i colli, rispondendosi ora forti e vicini, liberi e potenti.

«Helm! Helm!», gridarono i Cavalieri. «Helm si è destato e torna in guerra. Helm torna per Re Théoden!».

In mezzo al clamore apparve il re. Il suo cavallo era bianco come neve, d’oro era lo scudo e lunga la lancia. Alla sua destra cavalcava Aragorn, l’erede di Elendil, e dietro di lui i signori della Casa di Eorl il Giovane. La luce si diffuse nel cielo. La notte scomparve.

«Avanti Eorlingas!». Con un urlo e un grande fragore partirono alla carica. Come un boato giù dai cancelli, come un uragano sul ponte, come vento fra l’erba travolsero nel loro galoppo le schiere di Isengard. Dal Fosso alle loro spalle giunsero le grida risolute degli uomini che irrompevano fuori dalle caverne scacciando il nemico. Tutti coloro che si trovavano sulla Roccia si riversarono giù nella vallata, mentre fra le colline continuava a echeggiare il suono di trombe squillanti.

Cavalcarono senza sosta il re ed i suoi compagni. Capitani e campioni cadevano o fuggivano innanzi a loro. Né Uomini né Orchi potevano resistere. Le loro schiene erano rivolte verso le spade e le lance dei Cavalieri, e le loro facce verso la vallata. Gridavano e gemevano, perché il giorno era giunto recando terrore e meraviglia.

* * *

Così Re Théoden uscì a cavallo dal Cancello di Helm e falciando ogni cosa avanti a sé giunse alla grande Diga. Ivi la compagnia s’arrestò. La luce intorno a loro si fece intensa. Raggi di sole avvamparono sui colli a oriente e scintillarono sulle loro lance. I Cavalieri, immobili e silenziosi sui destrieri, guardavano fisso la Conca Fossato.

Il paesaggio si era trasformato. Dove prima si stendeva la verde vallata i cui erbosi pendii lambivano le imponenti colline, ora giganteggiava una foresta. Grandi alberi nudi e silenti si ergevano, un filare dopo l’altro, con i loto rami nodosi e le loro chiome canute; le radici contorte erano sepolte nella profonda erba verde. Sotto le fronde regnava l’oscurità. Uno spazio libero di appena cinquecento passi separava la Diga da quel bosco senza nome. E lì, accasciate e tremebonde, le orgogliose schiere di Saruman si rifugiavano, terrorizzate dal re e terrorizzate dagli alberi. Erompevano a frotte dal Cancello di Helm, e nella Diga non ve ne fu più uno, mentre al di là parevano sciami di mosche. Invano tentarono di strisciare e arrampicarsi sulle pareti della conca, in cerca di scampo. Sul lato est era troppo ripida e sassosa la vallata, e a sinistra, da occidente, giungeva la loro condanna.

Ivi improvvisamente su una cresta apparve un cavaliere biancovestito, e splendente nel sole appena nato. Sui colli più bassi squillavano corni. Sui lunghi declivi alle sue spalle arrivavano a piedi mille Uomini brandendo la spada. Fra loro incedeva un Uomo alto e possente. Il suo scudo era rosso. Giunto all’orlo della vallata, si portò alle labbra un grande corno nero e ne trasse uno squillo vibrante.

* * *

«Erkenbrand!», gridarono i Cavalieri. «Erkenbrand!». «Mirate il Bianco Cavaliere!», gridò Aragorn. «Gandalf è ritornato!».

«Mithrandir, Mithrandir!», esclamò Legolas. «Questa è davvero stregoneria! Venite! Vorrei mirare la foresta prima che si rompa l’incantesimo».

L’esercito d’Isengard ruggì, vacillante e ondeggiante, perché ovunque si volgesse lo fronteggiava il terrore. Di nuovo il corno squillò dalla torre. Dalla breccia della Diga, i Cavalieri del re irruppero all’assalto. Dai colli scese alla carica Erkenbrand, signore dell’Ovestfalda. E dall’alto piombò Ombromanto, come daino dal piede sicuro nelle montagne. Il Bianco cavaliere stava per travolgere il nemico, e il terrore di vederlo empì tutti di follia. Gli Uomini selvaggi caddero bocconi innanzi a lui, gli Orchi vacillarono e urlando abbandonarono spade e lance. Come fumo nero spinto da vento impetuoso fuggirono via. Gemendo e strillando s’inoltrarono fra gli alberi, nell’ombra che li aspettava e dalla quale mai più sarebbero usciti.

CAPITOLO VIII LA VIA CHE PORTA A ISENGARD

Fu così che alla luce di un bel mattino Re Théoden e Gandalf il Bianco cavaliere si incontrarono di nuovo sull’erba accanto al Fiume Fossato. Ivi era anche Aragorn figlio di Arathorn, insieme con Legolas l’Elfo, ed Erkenbrand dell’Ovestfalda ed i signori del Palazzo d’Oro. Tutto intorno erano radunati i Rohirrim, Cavalieri del Mark: più grande era la loro stupefazione della gioia per la vittoria, e tutti gli occhi erano rivolti verso il bosco.

Improvvisamente si udirono grida possenti e dalla Diga giunsero coloro che erano stati respinti nel Fosso: arrivò Gamling il Vecchio, ed Éomer figlio di Éomund, e accanto a loro Gimli il Nano. In testa non portava l’elmo, bensì una fascia di lino macchiata di sangue, ma la sua voce era forte e tonante come sempre.

«Quarantadue, Messer Legolas!», gridò. «Ahimè! La mia ascia è scalfita: il quarantaduesimo aveva un collare di ferro. E tu a quanto sei arrivato?».

«Mi superi di un punto», rispose Legolas. «Tuttavia non provo rancore, tanto sono felice di vederti in piedi!».

«Benvenuto, Éomer, figlio e fratello!», disse Théoden. «Ora che ti vedo salvo sono assai contento».

«Salute, Sire del Mark!», disse Éomer. «La buia notte è finita, e il giorno torna a risplendere. Ma ha portato con sé strane novità». Si voltò, guardando con stupore il bosco e poi Gandalf. «Di nuovo giungi nell’ora del bisogno, inatteso», disse.

«Inatteso?», ripeté Gandalf. «Dissi che sarei tornato e ci saremmo incontrati qui».

«Sì, ma non dicesti l’ora, né il modo in cui saresti giunto. Strano è l’ausilio che rechi. Possente è la tua arte di stregone, Gandalf il Bianco!».

«Forse è come dici tu, ma non ne ho ancora dato la prova. Sinora ho soltanto dato buoni consigli a chi era in pericolo e mi son giovato della velocità di Ombromanto. Molto maggior merito hanno il vostro coraggio e le robuste gambe degli Uomini dell’Ovestfalda marcianti attraverso la notte».

Tutti guardarono allora Gandalf con crescente meraviglia. Alcuni lanciarono verso il bosco sguardi smarriti e si passarono la mano sulla fronte, pensando forse che i loro occhi vedevano diversamente dallo stregone.

Gandalf rise a lungo e allegramente. «Gli alberi?», disse. «No, anch’io vedo il bosco come voi, ma non è opera mia. È qualcosa che oltrepassa le previsioni dei saggi, che supera ogni mio progetto: i fatti si sono dimostrati migliori d’ogni mia speranza».

«E allora, se non è magia tua, chi ne è l’artefice?», disse Théoden. «Certo non Saruman. Esiste dunque qualche altro saggio ancor più potente del quale non abbiamo mai udito parlare?».

«Questa non è magia, ma un potere assai più antico», disse Gandalf, «un potere che era sulla terra prima che l’Elfo cantasse, prima che un martello battesse.

Prima che si scoprisse il ferro e s’abbattesse il tronco fosco,

Quando giovane il monte era sotto la luna,

Non forgiato l’anello né scoperta sfortuna,

Lui camminava nel bosco».

«E quale sarebbe la soluzione di questo rompicapo?», disse Théoden.

«Se desideri conoscerla dovresti venire con me a Isengard», rispose Gandalf.

«A Isengard?», esclamarono tutti.

«Sì», disse Gandalf. «Io sto per ritornare a Isengard; se volete potete accompagnarmi. Potremmo vedere cose molto strane».

«Ma non vi sono uomini sufficienti nel Mark per assalire la fortezza di Saruman, nemmeno se fossero tutti radunati e guariti dalla stanchezza e dalle ferite», disse Théoden.

«Tuttavia io andrò a Isengard», disse Gandalf. «Non mi tratterrò a lungo, però: il mio sentiero si dirige ora verso oriente. Mi troverete a Edoras prima della luna calante!».

«No!», disse Théoden. «Nell’ora oscura prima dell’alba io esitai, ma adesso ho deciso che non ci separeremo. Verrò con te, se me lo consigli tu».

«Voglio parlare con Saruman al più presto», disse Gandalf, «e poiché grave è il torto che ti ha fatto, conviene che anche tu sia presente. Ma fra quanto potrai riprendere il cammino?».

«I miei uomini sono sfiniti dalla battaglia», rispose il Re; «ed anch’io sono spossato! ho cavalcato a lungo e dormito poco. Ahimè! La mia vecchia età non è una finzione creata soltanto dai bisbigli di Vermilinguo. È un male che nessun medico può sanare, nemmeno Gandalf».

«Allora fa’ riposare adesso tutti quelli che dovranno partire con me», disse Gandalf. «Viaggeremo all’ombra della notte. È un saggio consiglio, poiché reputo che le nostre andate e venute debbano d’ora in poi esser coperte da grande segretezza. Ma non farti scortare da molti uomini, Théoden. Andiamo a parlamentare, non a combattere».

Il Re scelse allora dei cavalieri illesi che avevano rapidi destrieri e li mandò in ogni vallata del Mark ad annunciare la vittoria, e a partecipare ad ogni uomo, giovane o vecchio che fosse, la sua convocazione, con l’ordine di recarsi senza indugio a Edoras. Ivi il Sire del Mark avrebbe radunato un’assemblea di tutti coloro che potevano maneggiare le armi, il secondo giorno dopo la luna piena. Come scorta per il suo viaggio a Isengard il Re scelse Éomer e venti uomini del proprio seguito. Gandalf sarebbe stato accompagnato da Aragorn, Legolas e Gimli. Malgrado la sua ferita, il Nano si rifiutò di restare con gli altri.

«Il colpo inflittomi era assai leggero, e il copricapo lo respinse», disse Gimli. «Ci vuol altro che un simile graffio d’Orco per trattenermi qui».

«Lo curerò, mentre tu riposi», disse Aragorn.

* * *

Il Re tornò quindi nel Trombatorrione, ove dormì un sonno calmo e tranquillo che da molti anni ormai non gli era più concesso. Gli Uomini scelti per scortarlo riposarono anch’essi, mentre tutti gli altri non feriti intrapresero una grande opera; molti infatti erano i caduti in combattimento che giacevano sul campo e nel Fosso.

Non era rimasto vivo nemmeno un Orco, e i loro cadaveri erano innumerevoli. Ma molti Uomini delle montagne si erano arresi e, terrorizzati, imploravano pietà.

Gli Uomini del Mark li spogliarono delle armi e li misero al lavoro.

«Aiutate ora a riparare il male al quale avete contribuito», disse Erkenbrand. «Dopo di che presterete giuramento di non passare mai più in armi i Guadi dell’Isen, né di marciare con i nemici degli Uomini: allora sarete liberi di ritornare nelle vostre contrade. Siete stati ingannati da Saruman. Molti di voi hanno avuto la morte come ricompensa per la fiducia nello stregone; ma anche se foste stati vittoriosi, la vostra paga sarebbe stata poco più generosa».

Gli Uomini del Dun’and erano stupefatti, perché Saruman aveva detto loro che gli Uomini di Rohan erano crudeli e solevano bruciare vivi i prigionieri.

Al centro del campo innanzi al Trombatorrione furono eretti due tumuli, all’interno dei quali vennero sepolti tutti i Cavalieri del Mark caduti in combattimento, da una parte quelli provenienti dalle Valli Orientali e dall’altra gli Uomini dell’Ovestfalda. Solo, in una tomba all’ombra del Trombatorrione, giaceva Hàma, capitano della Guardia Reale. Era caduto innanzi al Cancello.

Gli Orchi furono ammucchiati in grosse pile lontano dai tumuli degli Uomini, non lungi dai margini della foresta. E tutti erano inquieti, essendo i mucchi di carogne troppo grandi per la sepoltura e per essere bruciati: avevano poca legna per il fuoco, e nessuno avrebbe osato avvicinare un’ascia agli strani alberi, anche se Gandalf non avesse avvertito di lasciare stare rami e cortecce per non correre seri rischi.

«Lasciate gli Orchi dove sono», disse Gandalf. «Il mattino ci porterà forse consiglio».

* * *

Nel pomeriggio la scorta del Re si apprestò a partire. Il lavoro di sepoltura era appena incominciato; Théoden rimpianse tristemente la perdita del suo capitano Hàma, e gettò il primo pugno di terra sulla sua tomba. «Assai grandi sono i danni causati da Saruman a questa terra e a me personalmente», disse; «e non lo dimenticherò quando ci incontreremo».

Il sole si stava già avvicinando ai colli occidentali della Conca, quando infine Théoden, Gandalf ed i loro compagni galopparono giù dalla Diga. Alle loro spalle si era riunita una moltitudine di gente, Cavalieri e gente dell’Ovestfalda, vecchi a giovane, donne e bambini, usciti dalle caverne. Cantarono con voci cristalline un canto vittorioso; poi cadde il silenzio, perché tutti si domandarono che cosa sarebbe accaduto, mentre i loro occhi guardavano fissi gli alberi con timore.

I Cavalieri giunsero al bosco e si fermarono; Uomini e cavalli erano restii a entrare. Gli alberi parevano grigi e minacciosi e circondati da ombre o da nebbia. Le estremità dei lunghi rami ondeggianti pendevano come dita intente a perquisire, le radici uscivano dal terreno come membra di strani mostri e buie caverne si aprivano sotto di essi. Ma Gandalf si fece avanti, conducendo la compagnia, e tutti videro allora, nel punto in cui la strada proveniente dal Trombatorrione incontrava gli alberi, un’apertura a forma di cancello arcuato protetto da robusti rami; ivi Gandalf s’inoltrò e gli altri lo seguirono. Poi, con somma meraviglia, si accorsero che la strada proseguiva, fiancheggiando il Fiume Fossato, e che il cielo sopra di loro era visibile e inondato di luce dorata. Ma da ambedue le parti le grandi navate del bosco erano già avvolte nel crepuscolo, immergendosi in lontananza fra ombre impenetrabili; si udivano scricchiolii e gemiti di rami, grida distanti, brusii di voci senza parole che mormoravano incollerite. Non si vedevano Orchi né alcun’altra creatura vivente.

Legolas e Gimli cavalcavano ora sul medesimo cavallo, tenendosi sempre vicini a Gandalf, poiché Gimli temeva il bosco.

«Fa caldo qui dentro», disse Legolas a Gandalf. «Sento intorno a me una tremenda collera. Non senti pulsare l’aria nelle orecchie?». «Sì», rispose Gandalf.

«Che cosa è accaduto ai disgraziati Orchi?», domandò Legolas.

«Credo che nessuno lo saprà mai», disse Gandalf.

* * *

Cavalcarono in silenzio per qualche tempo; ma Legolas si guardava continuamente intorno, e si sarebbe più volte fermato ad ascoltare i rumori del bosco se Gimli glielo avesse permesso.

«Questi sono gli alberi più strani ch’io abbia mai visto», disse. «Ed ho visto molte querce da ghiande divenire vecchie piante cadenti. Se almeno ora avessi tempo di camminare fra loto! Hanno voce, e forse dopo un po’ riuscirei a comprendere i loro pensieri».

«No, no!», esclamò Gimli. «Andiamo via! Io indovino già il loro pensiero: odio per tutto ciò che ha due gambe; e parlano di stritolare e strangolare».

«Non odiano tutto ciò che ha due gambe», ribatté Legolas. «Non sei nel giusto. Essi odiano gli Orchi. Sono alberi che non appartengono a queste contrade, e sanno poco sul conto degli Elfi e degli Uomini. Lontane sono le valli ove crebbero. È dalle profonde vallate di Fangorn, credo, che essi vengono, Gimli».

«E quello è il più pericoloso dei boschi della Terra di Mezzo», disse Gimli. «Dovrei essere riconoscente per il loro contributo, ma non li amo. Tu pensi forse che sono meravigliosi, ma io ho veduto in questa contrada una cosa ancor più stupenda, più bella di qualunque foresta o radura: il mio cuore è ancora pieno del suo ricordo.

«Strano modo di comportarsi quello degli Uomini, Legolas! Posseggono qui una delle meraviglie del Mondo Settentrionale e come ne parlano? Chiamandole caverne! Caverne! Buchi ove rifugiarsi in tempo di guerra, ove immagazzinare foraggio! Mio buon Legolas, sai che le caverne del Fosso di Helm sono ampie e belle? Vi sarebbe un interminabile pellegrinaggio di Nani per venirle a vedere, se si conoscesse l’esistenza di simili meraviglie. Ah sì! Pagherebbero in oro puro per poter dare appena un’occhiata!».

«Ed io pagherei in oro pur di non entrarvi», disse Legolas, «e il doppio per uscirne se vi dovessi capitare!».

«Non le hai vedute, e perdono le tue parole scherzose», disse Gimli. «Ma parli come uno sciocco. Pensi forse che siano belle le stanze ove dimora il tuo Re, nei colli del Bosco Atro, e che i Nani aiutarono a costruire, molto tempo addietro? Ma non sono che tuguri in confronto alle caverne che ho visto qui: saloni interminabili pieni dell’eterna musica dell’acqua che gocciola in stagni splendidi come Kheled-zâram al lume delle stelle.

«E, Legolas, quando le fiaccole sono accese e gli Uomini camminano sui pavimenti sabbiosi sotto cupole echeggianti, ah! Legolas, allora gemme e cristalli e filoni di minerali preziosi scintillano sulle pareti lucide; e la luce risplende attraverso marmi ondulati simili a conchiglie, luminosi come le vive mani di Dama Galadriel. Vi sono colonne di bianco, di zafferano e di rosa-alba, Legolas, plasmate e modellate in forme di sogno; sorgono da pavimenti di mille colori per avvinghiarsi agli scintillanti soffitti: ali, corde, tende fini e trasparenti come nuvole ghiacciate; lance, bandiere, pinnacoli di palazzi pensili! Laghi tranquilli riflettono la loro immagine; un mondo sfavillante si affaccia dagli scuri stagni coperti di limpido vetro; città, che la fantasia di Durin avrebbe difficilmente immaginato in sogno, si stendono con viali e cortili circondati da colonnati, sino alle oscure nicchie ove non penetra la luce. D’un tratto, clic!, cade una goccia d’argento e i cerchi increspati sul vetro fanno curvare e tremare ogni torre come alghe e coralli in una grotta del mare. Poi giunge la sera: le visione sbiadiscono e scompaiono scintillando; le fiaccole passano in un’altra stanza, in un altro sogno. C’è una camera dopo l’altra, Legolas: un salone che dà su un altro salone, una scalinata su un’altra scalinata, una cupola dopo l’altra, e mai i serpeggianti sentieri interrompono la loro corsa verso il cuore della montagna. Caverne! Le Caverne del Fosso di Helm! Felice il destino che mi condusse sin lì! Piango ora di doverle lasciare».

«E allora per confortarti ti auguro la fortuna, Gimli», disse l’Elfo, «di poter tornare sano e salvo dalla guerra a rivederle. Ma non raccontarlo a tutta la tua gente! Dalla tua descrizione sembra che vi sia poco che si possa fare per abbellirle. Forse gli Uomini di questa regione si comportano da saggi parlando poco delle meraviglie che posseggono: una famiglia di operosi Nani muniti di martello e scalpello potrebbe guastare più di quanto essi non abbiano costruito».

«No, non capisci», disse Gimli. «Non vi è Nano che rimarrebbe impassibile innanzi a tanta bellezza. Nessun discendente di Durin scaverebbe quelle caverne per estrarne gemme e minerali, nemmeno se vi fossero diamanti e oro in abbondanza. Abbatti tu, forse, boschetti di alberi in fiore per raccoglier legna in primavera? Noi cureremmo queste radure di pietra fiorita, non le trasformeremmo in miniere. Con cautela e destrezza, un colpetto dopo l’altro, un’unica piccola scheggia di roccia e nient’altro, forse, in tutta una giornata ansiosa: tale sarebbe il nostro lavoro, e col passar degli anni apriremmo nuovi sentieri, scopriremmo nuove stanze lontane e ancor buie che s’intravedono ora come un vuoto dietro fessure nella roccia. E le luci, Legolas! Creeremmo luci, lampade come quelle che risplendevano un tempo a Khazad-dûm; e secondo il nostro desiderio potremmo allontanare la notte che sommerge le caverne da quando furono innalzati i colli, o lasciarla rientrare per cullare il nostro riposo».

«Mi commuovi, Gimli!», disse Legolas. «Mai ti avevo sentito parlare in questo modo. Rimpiango quasi di non aver veduto le caverne. Suvvia! Facciamo un patto: se usciremo ambedue salvi dalle insidie che ci attendono, faremo un viaggio insieme. Tu visiterai con me Fangorn, e io verrò poi con te a vedere il Fosso di Helm».

«Questa non sarebbe la via del ritorno che preferirei scegliere», rispose Gimli. «Ma sopporterò la visita di Fangorn, se prometti di accompagnarmi nelle caverne e di condividere la mia ammirazione».

«Te lo prometto», disse Legolas. «Ma purtroppo ora dobbiamo abbandonare per un bel po’ di tempo bosco e caverna. Vedi, siamo arrivati ai margini della foresta. Quanto dista Isengard, Gandalf?».

«Circa quindici leghe, percorse dai corvi di Saruman», rispose Gandalf; «cinque dall’imboccatura della Conca Fossato ai Guadi dell’Isen, e altre dieci sino ai cancelli d’Isengard. Ma non percorreremo tutta la strada questa notte».

«E quando arriveremo, quale spettacolo si presenterà ai nostri occhi?», domandò Gimli. «Tu forse lo sai, ma io non riesco a indovinarlo».

«Neanch’io lo so del tutto», rispose lo stregone. «Mi recai ad Isengard sul calar della notte scorsa, ma molte cose possono essere accadute nel frattempo. Tuttavia non potrete dire, immagino, che il viaggio sarà stato vano, anche se vi ha costretti ad abbandonare le Scintillanti Caverne d’Aglarond».

* * *

Infine la compagnia sbucò fuori dagli alberi e si accorse di essere giunta in fondo alla Conca, nel punto in cui la strada proveniente dal Fosso di Helm si divideva in due: una che portava ad est verso Edoras, e l’altra a nord sino ai Guadi dell’Isen. Mentre uscivano dalle fronde del bosco, Legolas si fermò voltandosi a guardare con rimpianto. Improvvisamente lanciò un’esclamazione.

«Vi sono occhi!», disse. «Occhi che guardano dalle ombre dei rami! Non avevo mai veduto occhi simili».

Gli altri, sorpresi dal suo grido, s’arrestarono e si girarono; allora Legolas fece per ritornare sui propri passi.

«No, no!», gridò Gimli. «Fa” quel che vuoi se sei pazzo, ma lasciami prima smontare da questo cavallo! Non voglio vedere occhi di alcun genere!».

«Rimani, Legolas Verdefoglia!», disse Gandalf. «Non ritornare nel bosco, non è ancora tempo! Non è giunta la tua ora».

Mentre parlava, dagli alberi uscirono tre strane figure. Erano alte come Troll, dodici piedi o più; i corpi possenti, solidi come alberi vigorosi, parevano coperti di vesti o di pelli assai strette color grigio e marrone. Avevano membra lunghe e mani dalle molte dita; la loro capigliatura era rigida e le loro barbe parevano muschio grigio-verde. Guardavano con occhi solenni, ma non osservavano i Cavalieri: i loro sguardi erano diretti a nord. D’un tratto si portarono alla bocca le lunghe mani e lanciarono squillanti richiami, limpidi come note di un corno, ma più armoniosi e variati. Tosto si udirono le risposte, e i Cavalieri, voltandosi nuovamente in avanti, videro altre creature della medesima specie avvicinarsi camminando a gran passi sull’erba. Giungevano spediti dal Nord, e la loro andatura era d’aspetto simile a quella degli aironi; ma la velocità era diversa, perché i lunghi passi delle loro gambe erano più rapidi e frequenti dei battiti d’ala di un airone. I cavalieri lanciarono grandi esclamazioni di meraviglia, e alcuni portarono la mano all’elsa della spada.

«Non avete bisogno delle vostre armi», disse Gandalf. «Costoro sono soltanto pastori. Non sono nemici, anzi non si occupano per nulla di noi».

Ed effettivamente pareva che fosse così: mentre lo stregone parlava, le imponenti creature s’inoltrarono nel bosco e scomparvero, senza degnare di un’occhiata i Cavalieri.

«Pastori!», ripeté Théoden. «Dove sono i loro greggi? Che cosa sono, Gandalf? Mi par di capire che a te non siano sconosciuti».

«Sono i pastori degli alberi», rispose Gandalf. «È passato dunque tanto tempo dall’ultima volta che udisti narrare racconti intorno al camino? Vi sono bimbi nel tuo paese che saprebbero trovare, fra gl’intricati nodi della storia, una risposta alla tua domanda. Hai veduto degli Ent, o Re; Ent provenienti dalla Foresta di Fangorn, che nella vostra lingua chiamate Entobosco. Credevi forse che il nome fosse stato attribuito dalla pura fantasia? No, Théoden, non è così: per loro, voi non siete che una vicenda passeggera; tutti gli anni trascorsi da Eorl il Giovane a Théoden il Vecchio contano ben poco, e tutte le imprese della tua casata sono fatti di infima importanza».

Il Re rimase silenzioso. «Ent!», disse infine. «Dalle ombre della leggenda incomincio a intravedere, credo, la meraviglia di questi alberi. La mia lunga vita mi permette di vedere tempi assai strani. A lungo abbiamo curato le bestie ed i campi, costruito case, foggiato attrezzi, e più volte abbiamo galoppato a Minas Tirith per aiutarla nelle guerre. Noi chiamavamo ciò la vita degli Uomini, il corso del mondo. Ci occupavamo poco di tutto ciò che si trovava oltre i confini del nostro paese. Vi sono canzoni che parlano delle cose alle quali alludi, ma le stiamo dimenticando, e si insegnano solo ai bambini, come una qualunque consuetudine. E ora le canzoni giungono fra noi da luoghi strani e camminano sotto al sole innanzi ai nostri occhi».

«Dovresti essere contento, Re Théoden», disse Gandalf, «poiché ora non è solo la vita breve degli Uomini che corre seri pericoli, bensì anche la vita di ciò che reputavi unicamente soggetto di leggende. Hai degli alleati, pur non conoscendoli».

«Eppure dovrei anche esser triste», disse Théoden; «poiché, qualunque sia l’esito della guerra, non è forse probabile che molte cose belle e meravigliose scompaiano per sempre dalla Terra di Mezzo?».

«È probabile», disse Gandalf. «Il male provocato da Sauron non potrà mai essere del tutto sanato, né distrutto come se non fosse esistito. È il destino che vuole così. Proseguiamo il viaggio intrapreso!».

La compagnia si allontanò allora dalla Conca e dal bosco, prendendo la via per i Guadi. Legolas seguiva riluttante. Il sole era tramontato, affondando dietro l’orlo del mondo; ma mentre galoppavano lungi dall’ombra dei colli, si voltarono verso la Breccia di Rohan, e laggiù ad oriente il cielo era ancora rosso, e una luce incandescente covava sotto le nubi galleggianti. Scuri si delineavano contro il fuoco i contorni degli uccelli dalle nere ali che roteavano e planavano sulle loro teste. Alcuni passarono con grida lugubri e si rifugiarono nei loro covi fra le rocce.

«Gli uccelli avidi di carogne si sono dati da fare sul campo di battaglia», disse Éomer. Stavano ora cavalcando comodamente, e l’oscurità sommerse le pianure intorno a loro. La lenta luna s’innalzò, e la fredda luce argentea del suo cerchio, ormai quasi pieno, illuminò gonfie praterie ondulate come un grande mare grigio. Da circa quattro ore avevano lasciato l’incrocio delle strade, quando si avvicinarono ai Guadi. Lunghi pendii correvano rapidi giù verso il fiume, largo e stanco fra banchi sabbiosi ed alte terrazze erbose. Trasportato dal vento udirono l’ululato dei lupi. Pesanti erano i loro cuori, poiché rammentavano i molti uomini caduti in battaglia proprio in quel luogo.

La strada s’infossava tra argini sempre più alti ricoperti di prati e, scavandosi un passaggio fra le terrazze, giungeva alla riva del fiume per poi risalire dall’altra parte. Tre file di pietre piatte attraversavano il corso d’acqua, e fra di esse vi erano dei guadi per i cavalli, che dalle due rive conducevano a un nudo isolotto in centro. I Cavalieri guardarono il fiume ed esso parve loro assai strano: i Guadi erano sempre stati inondati dal fragore e dallo scroscio delle acque sulle pietre: ora erano del tutto silenziosi. Il letto del fiume, quasi asciutto, pareva un nudo deserto di ghiaia e grigia sabbia.

«Questo posto è diventato tetro», disse Éomer. «Quale malattia si è impadronita del torrente? Saruman ha distrutto molte splendide cose: ha forse divorato persino le fonti dell’Isen?». «Così sembra», disse Gandalf.

«Ahimè!», disse Théoden. «È necessario passare per questi luoghi, ove gli uccelli rapaci divorano tanti valorosi Cavalieri del Mark?».

«Questa è la nostra via», rispose Gandalf. «Triste è la morte dei tuoi uomini, ma vedrai che almeno i lupi delle montagne non li divorano. Sono i loro amici Orchi che costituiscono il loro banchetto: è il loro modo di concepire l’amicizia. Vieni!».

Cavalcarono giù sino al fiume, e i lupi smisero di ululare allontanandosi furtivamente. Il terrore li prese vedendo Gandalf illuminato dalla luna e il suo destriero Ombromanto scintillare come argento. I Cavalieri misero piede sull’isolotto, e degli occhi lucenti e pallidi li scrutarono dalle ombre delle rive.

«Guardate!», disse Gandalf. «Degli amici hanno lavorato qui».

Videro che al centro dell’isolotto si ergeva un tumulo circondato di pietre e di molte lance.

«Qui giacciono tutti gli Uomini del Mark caduti nei paraggi», disse Gandalf.

«Che riposino in pace!», disse Éomer. «E quando le loro spade saranno arrugginite e marce, possano i loro tumuli per molto tempo ancora ergersi a guardia dei Guadi dell’Isen!».

«Anche questa è opera tua, Gandalf, amico mio?», disse Théoden. «Hai compiuto molte cose nello spazio di una sera e di una notte!».

«Con l’aiuto di Ombromanto… e di altri», rispose Gandalf. «Cavalcai rapido, lontano. Ma qui, presso le tombe vi dirò una cosa che vi conforterà: molti valorosi caddero durante la battaglia dei Guadi, ma meno di quanti non pensiate. Più grande fu il numero dei dispersi che quello degli uccisi, e io radunai tutti quelli che riuscii a trovare. Ne inviai alcuni a raggiungere Erkenbrand, ed impiegai altri al lavoro che vedete qui; ma ormai saranno già tornati a Edoras, raggiungendo quelli partiti precedentemente per difendere la tua casa. Sapevo che Saruman aveva concentrato tutte le sue forze contro di te, e che i suoi servitori avevano abbandonato ogni altro incarico per recarsi al Fosso di Helm: non si vedeva un nemico in tutto il paese; tuttavia io temevo che cavalcatori di lupi e predoni si recassero a Meduseld mentre era indifesa. Ma ora credo che tu non abbia nulla da temere: troverai al tuo ritorno la tua casa che ti attende».

«E sarò assai felice di rivederla», disse Théoden, «anche se durerà poco il mio prossimo soggiorno».

La compagnia disse allora addio all’isola e al tumulo, e dopo aver attraversato il fiume risalì la riva opposta. Ripresero a cavalcare, felici di allontanarsi dai tristi Guadi. In lontananza, i lupi ricominciavano a ululare.

Da quel punto un’antica strada conduceva a Isengard. Per un certo tratto fiancheggiava il fiume, curvando con esso ad est e poi a nord; ma infine deviava per dirigersi direttamente ai cancelli d’Isengard. Questi si trovavano alle falde dei monti nella parte occidentale della valle, a sedici o più miglia dall’imboccatura. I Cavalieri seguirono l’antica strada, senza però calpestarla, poiché il terreno a fianco era solido e pianeggiante e ricoperto nel giro di parecchie miglia da un’erba corta e soffice. Accelerarono l’andatura, tanto che a mezzanotte i Guadi distavano già quasi cinque leghe. Allora si fermarono, concludendo così il viaggio notturno, perché il Re era stanco. Erano ai piedi delle Montagne Nebbiose, e le lunghe braccia di Nan Curunir si protendevano verso di loro. Buia era la valle innanzi a loro, poiché la luna discesa a occidente era nascosta dai colli. Ma dalle fitte tenebre della valle s’innalzava una grande spirale di fumo e vapore: nel salire, incontrava i raggi della luna calante e si stendeva sul cielo stellato come una scintillante caligine nera e argento.

«Che te ne pare, Gandalf?», domandò Aragorn. «Sembrerebbe che l’intera Valle dello Stregone sia in fiamme».

«C’è costantemente del fumo sopra questa valle, ormai», disse Éomer, «ma non avevo mai veduto nulla di simile. Più che fumi, queste sono esalazioni. Saruman sta fabbricando qualche diavoleria per accoglierci. Forse ha messo a bollire tutte le acque dell’Isen, ed è per questo che il fiume è quasi asciutto».

«Chissà!», disse Gandalf. «Domani sapremo che cosa sta combinando. Ora riposiamo, piuttosto, se ne siamo capaci».

Si accamparono lungo le rive del fiume Isen, sempre vuoto e silenzioso. Alcuni riuscirono a dormire. Ma a notte fonda le sentinelle gridarono e tutti si destarono. La luna era scomparsa. In cielo luccicava qualche stella; ma sul terreno strisciava un’oscurità più nera della notte, e risaliva ambedue le sponde del fiume verso di loro, dirigendosi a nord.

«Fermi dove siete!», disse Gandalf. «Non sguainate le armi! Aspettate! Passerà oltre!».

Una nebbia s’infittì tutt’intorno a loro. In cielo luccicava ancora qualche fioca stella, ma da una parte e dall’altra si ergevano mura di tenebre impenetrabili; i Cavalieri si trovavano in uno stretto sentiero fra mobili torri d’ombra. Udivano voci, bisbigli e lamenti e un eterno fruscio sospiroso; la terra tremava sotto i loro piedi. L’immobile attesa timorosa parve a tutti assai lunga, ma infine oscurità e rumori svanirono fra le braccia della montagna.

* * *

Giù a sud, gli uomini che si trovavano nel Trombatorrione udirono nel mezzo della notte un grande frastuono, come un vento nella valle, e la terra tremò; tutti ne furono terrorizzati, e nessuno ardì recarsi a vedere cosa fosse accaduto. Ma la mattina seguente, quando guardarono fuori, rimasero stupefatti: i cadaveri degli Orchi erano scomparsi, ed anche gli alberi non esistevano più. Nel fondo della Conca l’erba era schiacciata e calpestata come se giganteschi pastori vi avessero pascolato immensi greggi di bestiame; ma a un miglio dalla Diga era stato scavato un profondo pozzo, e su di esso un mucchio di pietre formava come una collina. Gli Uomini immaginarono che gli Orchi morti vi fossero seppelliti, ma nessuno seppe dire se anche quelli che erano fuggiti nel bosco giacessero lì, perché nessuno mai posò piede su quella collina. La Duna della Morte la chiamarono, e non vi crebbe mai un filo d’erba. Ma nella Conca Fossato non furono più rivisti gli strani alberi, ritornati di notte da dove venivano, nelle lontane e buie valli di Fangorn. Si erano vendicati degli Orchi.

* * *

Il re e la sua scorta non dormirono più quella notte, ma non videro né udirono altre cose strane, se non la voce del fiume accanto a loro, che improvvisamente si risvegliò. Vi fu uno scroscio d’acqua precipitosa giù fra le pietre, e l’Isen riprese a scorrere gorgogliando nel suo letto come aveva sempre fatto.

All’alba si prepararono a proseguire. La luce giunse grigia e pallida, ed essi non videro il sole innalzarsi. L’aria sulle loro teste era pesante di nebbia e sulla campagna tutt’intorno si stendevano falde di vapori. Avanzarono lentamente, percorrendo ora il sentiero. Era largo e il suolo duro e ben tenuto. Vagamente nella caligine scorgevano il lungo braccio delle montagne innalzarsi alla loro sinistra. Erano entrati in Nan Curunir, nella Valle dello Stregone, una zona riparata, aperta soltanto a sud; un tempo verde e rigogliosa, attraversata da un Isen dal corso già impetuoso e profondo prima di toccare la pianura: molte sorgive e numerosi ruscelli vi confluivano infatti sui colli lavati dalla pioggia, e tutt’intorno la campagna era un tempo fertile e piacevole.

Ma adesso non era più così. Ai piedi delle mura d’Isengard vi erano tuttora terre coltivate dagli schiavi di Saruman, ma la maggior parte della valle era ormai sterpaglia e rovi selvaggi. Spine ricoprivano il terreno e si arrampicavano su cespugli e monticelli, creando irsute caverne ove dimoravano piccole bestie. Non vi crescevano alberi, ma fra le erbacce si vedevano ancora i ceppi, arsi e martoriati dalle asce, di quelli che un tempo erano verdi boschetti. Era un paesaggio tetro e muto, ove l’unico rumore, adesso, era lo scroscio di acque rapide nel letto pietroso. Fiumi e vapori gareggiavano come cupe nubi, fermandosi nelle depressioni. I Cavalieri non parlavano. Molti in fondo al cuore erano dubbiosi e si domandavano a quale tragica fine avrebbe condotto il loro viaggio.

Dopo aver cavalcato per qualche miglio, videro che il sentiero diveniva un’ampia strada, lastricata di grandi pietre piatte, squadrate e sistemate con abilità: fra le giunture non cresceva nemmeno un filo d’erba. Profonde cunette ove gorgogliava l’acqua abbondante fiancheggiavano i due lati della carreggiata. Improvvisamente, un imponente pilastro si erse innanzi a loro. Era nero e sovrastato da una grande pietra intagliata e dipinta nelle sembianze di una lunga Bianca Mano. Il suo dito indice puntava verso nord. Ora sapevano che i cancelli d’Isengard erano ormai assai vicini, e sentirono una stretta al cuore; ma i loro occhi non riuscirono a penetrare la nebbia che li circondava.

* * *

Nella valle dello Stregone, ai piedi del braccio della montagna, da anni e anni s’innalzava l’antica dimora chiamata Isengard dagli Uomini. In parte era stata creata dalla formazione del monte, ma gli Uomini dell’Ovesturia vi avevano compiuto opere imponenti, e Saruman, che viveva lì ormai da molto tempo, non era rimasto inattivo.

Quando Saruman era all’apogeo, ed era considerato da molti il capo degli Stregoni, la dimora si presentava così: un grande muro circolare di rocce, simile a una cinta di rupi a strapiombo, si allontanava dal fianco della montagna, descriveva una curva, e vi ritornava. In esso vi era un’unica apertura, un grande arco scavato nella parte meridionale; in quel punto una galleria attraversava la cupa roccia, e due robusti portali di ferro ne chiudevano le estremità. Questi poggiavano su immensi cardini, formati da pali d’acciaio conficcati nella viva pietra, ed erano costruiti in modo che bastava una leggera spinta, quando non erano sprangati, per spalancarli silenziosamente. Percorrendo la buia galleria piena di echi, si sbucava in una pianura di forma circolare e leggermente infossata in centro come un’ampia ciotola poco profonda: misurava un miglio di diametro. Un tempo era stata verde e piena di vita, rigogliosa di alberi da frutta, irrigata dai ruscelli che dalla montagna scorrevano verso un lago nei dintorni. Ma non vi era più nulla di verde in quest’ultimo periodo del regno di Saruman: le vie pavimentate da lastre di pietra scura e dura, fiancheggiate, anziché da alberi, da lunghe file di colonne di marmo, rame o ferro, collegate fra loro da pesanti catene.

Numerosissime le dimore, stanze, saloni, corridoi, scavati e intagliati all’interno delle mura e sovrastanti con le loro innumerevoli finestre e scure porte il grande spazio aperto. Migliaia di operai, servi, schiavi, guerrieri coi loro arsenali vi potevano vivere; in profonde tane sotterranee i lupi venivano nutriti e custoditi. Anche la pianura era stata scavata e forata: pozzi penetravano a grandi profondità nel terreno, mentre le bocche esterne erano mimetizzate da bassi cumuli di pietre, che al chiaro di luna facevano sembrare il Cerchio d’Isengard un cimitero di morti irrequieti. La terra infatti tremava. I pozzi percorrevano ripidi pendii sotterranei e scale a spirale conducevano a profonde caverne ove Saruman teneva i suoi tesori, i suoi magazzini, gli arsenali, le fucine e le grandi fornaci. Ivi ruote di ferro giravano ininterrottamente, martelli battevano; di notte pennacchi di fumo esalavano dalle condutture, illuminati dal basso di luce rossa, blu, o verde veleno.

Le strade incassate nelle loro pareti conducevano tutte al centro della pianura, ove si ergeva una torre dalla forma meravigliosa. Era stata creata dagli antichi costruttori che avevano fabbricato il Cerchio d’Isengard, eppure non pareva creazione umana, bensì un pezzo delle ossa della terra staccatosi durante una immemorabile tortura dei colli. Un picco e un’isola rocciosa, nera e dura e scintillante: quattro imponenti piedritti di pietra sfaccettata si fondevano in uno solo puntando verso il cielo, ma vicino alla sommità i loro pinnacoli aguzzi come punte di spade, taglienti come lame di pugnali, si separavano lasciando uno stretto spazio in centro; ivi, su di un pavimento di pietra lucida ricoperto di strani segni, si sovrastava di cinquecento piedi la pianura. Questa era Orthanc, la fortezza di Saruman, il cui nome aveva (per coincidenza o di proposito) un significato ambivalente: nell’idioma elfico orthanc significa infatti Monte Zanna, mentre nell’antica lingua del Mark vuol dire l’Astuta Mente.

Una dimora inespugnabile e meravigliosa, quell’Isengard, che per tanto tempo era stata così bella! Ivi avevano vissuto grandi signori, i custodi di Gondor a occidente, e grandi saggi avevano da lì osservato le stelle. Ma lentamente Saruman l’aveva trasformata secondo i suoi nuovi scopi, credendo pazzamente di migliorarla; poiché tutte le arti e le sottili astuzie per le quali aveva rinnegato l’antica saggezza, e che s’illudeva d’aver inventato da solo, venivano da Mordor: ciò ch’egli faceva non era nulla, era semplicemente una piccola copia, un modello infantile o una lusinga di cortigiano, di quella immensa fortezza, prigione, armeria, fornace chiamata Barad-dûr, la Torre Oscura, il cui enorme potere non temeva rivali si beffava delle lusinghe e faceva ogni cosa con comodo, calma e sicura com’era col suo orgoglio e la sua forza smisurata.

Era questa la fortezza di Saruman, quale allora veniva descritta; ma gli Uomini di Rohan non ne varcavano i cancelli da tempo immemorabile, eccetto forse qualcuno, come Vermilinguo, che ci veniva di nascosto e non svelava a nessuno ciò che gli capitava di vedere.

* * *

Gandalf cavalcò verso la colonna sormontata dalla Mano, e mentre la oltrepassava i Cavalieri notarono con stupefazione che la Mano non era più bianca: era macchiata di sangue coagulato, e guardando più da vicino videro che le unghie erano rosse. Noncurante, Gandalf proseguì il suo galoppo nella nebbia, ed essi lo seguirono riluttanti. Tutt’intorno, grosse pozzanghere d’acqua stagnavano lungo la strada, riempivano i fossi, mentre i rigagnoli gocciolavano gorgogliando fra le pietre, come se vi fosse stata un’improvvisa inondazione.

Infine Gandalf s’arrestò e li chiamò a sé; avvicinandosi, videro che avanti a lui la nebbia si era diradata e che brillava una pallida luce di sole. Il meriggio era passato ed essi erano giunti alle porte d’Isengard.

Ma le porte giacevano in terra travolte e contorte. Tutt’intorno pietre spaccate e infrante, innumerevoli schegge frastagliate erano sparse ovunque o ammucchiate in cumuli di rovine. Il grande arco era ancora in piedi, ma si apriva ora su un baratro senza soffitto: il tetto del tunnel era crollato e le pareti a strapiombo da ambedue le parti erano spaccate e piene di fessure, delle torri non restava altro che polvere. Se il Grande Mare, gonfio e incollerito, si fosse riversato tempestoso sui colli, non avrebbe potuto causare danni maggiori.

Lo spazio all’interno del cerchio era inondato di acque ribollenti: una caldaia borbottante ove galleggiavano avanzi e relitti di travi e di alberi, di casse e di caschi e di armature distrutte. Pilastri contorti e sradicati s’impennavano coi loro fusti scheggiati sulla palude, mentre tutte le strade erano sommerse. Lontanissima pareva, dietro un velo di nebbia serpeggiante, l’isola rocciosa. Oscura e imponente come sempre, inalterata dalla tempesta, si vedeva ergersi Orthanc. Livide acque le lambivano i piedi.

Il re ed i suoi compagni, immobili e silenziosi sui loro cavalli, miravano stupefatti, e capivano che il potere di Saruman era stato travolto; ma in che modo ciò fosse avvenuto, non riuscivano a immaginare. Rivolsero i loro sguardi verso l’arcata e i cancelli distrutti, e scorsero lì vicino un grande mucchio di rottami; poi, d’un tratto, si accorsero di due piccole figure vestite di grigio, comodamente coricate sulla cima e quasi invisibili in mezzo ai sassi. Bottiglie, piatti e ciotole giacevano accanto a loro, come se dopo aver ben mangiato, essi stessero ora riposandosi del lavoro. Uno pareva addormentato, e l’altro, con le gambe incrociate e le braccia dietro il capo, appoggiato contro un pezzo di roccia, emetteva dalla bocca lunghe spirali e piccoli cerchi di fumo azzurro.

* * *

Per un momento Éomer ed i suoi rimasero immobili e stupefatti a guardarli. In mezzo a tutta la rovina d’Isengard, questa fu per loro la visione più strana. Ma prima che il re potesse parlare, la piccola figura che soffiava fumo si accorse improvvisamente della loro presenza, vedendoli silenziosi a cavallo sull’orlo della barriera di nebbia: balzò allora in piedi. Poteva essere un giovane Uomo, o comunque ne aveva le sembianze, pur essendo alto circa la metà; la sua testa bruna e ricciuta era scoperta, ma indosso portava un manto logoro e stinto dalle intemperie, uguale di forma e colore a quelli che avevano i compagni di Gandalf al loro arrivo a Edoras. S’inchinò profondamente, portandosi una mano al cuore. Poi, come se non avesse scorto lo stregone e i suoi amici, si rivolse a Éomer e al re.

«Benvenuti, signori, a Isengard!», disse. «Siamo i guardiani delle porte. Il mio nome è Meriadoc, figlio di Saradoc; ed il mio compagno, ahimè stravolto dalla stanchezza» (diede un calcio all’altro) «è Peregrino, figlio di Paladino, della casa dei Tuc. La nostra casa è lungi da qui, nel Nord. Sire Saruman si trova qui, ma per il momento è rinchiuso con un certo Vermilinguo, altrimenti sarebbe senz’altro venuto ad accogliere ospiti così onorevoli».

«Ne sono certo!», esclamò ridendo Gandalf. «E fu anche Saruman a incaricarvi di sorvegliare le sue porte danneggiate e attendere l’arrivo di ospiti, negli intervalli di tempo libero fra un piatto e una bottiglia?».

«No, mio caro signore; gli è sfuggito di mente», rispose Merry con aria grave. «È stato molto occupato. Gli ordini li ricevemmo da Barbalbero che ha preso in mano la condotta delle cose qui a Isengard. Mi ordinò di dare al Sire di Rohan un degno benvenuto. Ho fatto del mio meglio».

«E ai tuoi compagni? Nulla per Legolas e per me?», gridò Gimli incapace di trattenersi ancora. «Mascalzoni, vagabondi, teste di legno, piedi lanosi! Che bell’inseguimento ci avete fatto fare! Duecento leghe attraverso paludi e foreste, battaglie e morte, soltanto per salvare voi! Ed ecco che vi troviamo oziosi, intenti a rifocillarvi… ed a fumare! Fumare! Dove avete scavato la malerba, disgraziati? Molle e martelli! Sono talmente diviso fra la rabbia e la gioia, che se non scoppio sarà un vero miracolo!».

«Tu parli anche per me, Gimli», disse ridendo Legolas, «anche se preferirei sapere dove hanno trovato il vino».

«Una cosa che certo non avete trovata nel vostro inseguimento è la prontezza di spirito», rispose Pipino aprendo un occhio. «Ci trovate qui seduti e vittoriosi in mezzo a un campo di battaglia, fra i bottini di molti eserciti, e vi domandate come ci siamo procurate poche comodità ben meritate!».

«Ben meritate?», disse Gimli. «Non lo credo proprio!».

I Cavalieri risero. «Indubbiamente assistiamo all’incontro di cari amici», disse Théoden. «Sono questi dunque i dispersi della tua compagnia, Gandalf? I giorni paiono destinati ad esser pieni di meraviglie. Già ne ho vedute molte dopo aver lasciato la mia dimora; ed ora qui innanzi ai miei occhi trovo altri personaggi leggendari. Non sono questi quei Mezzuomini, che alcuni chiamano Holbytlan?» «Hobbit, se non vi dispiace, sire», disse Pipino.

«Hobbit?», ripeté Théoden. «Il vostro linguaggio si è stranamente trasformato; ma questo nuovo nome non suona male. Hobbit! Niente di tutto ciò che ho udito sul vostro conto corrisponde alla realtà».

Merry s’inchinò; Pipino si alzò in piedi e fece una profonda riverenza. «Siete generoso, sire; e spero di aver inteso in senso giusto le vostre parole», disse. «E vi rivelerò un’altra meraviglia! Ho visitato molti paesi dopo aver lasciato il mio, e mai sino ad ora avevo incontrato qualcuno che conoscesse storie sul conto degli Hobbit».

«La mia gente venne dal Nord tanto tempo addietro», rispose Théoden. «Ma non voglio ingannarvi: non narriamo racconti che parlano degli Hobbit. Tutto ciò che sappiamo è che assai lontano, al di là di fiumi e colline, vive il popolo dei Mezzuomini in caverne scavate nelle dune di sabbia. Ma non vi sono leggende sulle loro imprese, perché si dice che agiscano poco, ed evitino di farsi scorgere dagli Uomini grazie alla loro capacità di scomparire in un lampo; sanno inoltre mutare il suono della loro voce nel trillo di un uccello. Ma a quanto vedo, vi sarebbe altro da aggiungere».

«Ve ne sarebbe, eccome, sire!», esclamò Merry.

«Tra l’altro», disse Théoden, «ignoravo che soffiassero fumo dalla bocca».

«Ciò non mi sorprende», rispose Merry, «poiché è un’arte che pratichiamo solo da poche generazioni. Fu Tobaldo Soffiatromba, di Pianilungone nel Decumano Sud, che piantò per primo nei suoi giardini l’autentica erba-pipa, nel 1070 circa del nostro calendario. Come scoprì il vecchio Tobia, quella pianta…».

«Non sai il pericolo che corri, Théoden», interloquì Gandalf. «Questi Hobbit sono capaci di starsene seduti per ore su cumuli di rovine a discutere i piaceri della tavola, o le piccole manie dei loro padri, nonni, bisnonni e remoti cugini, se li incoraggi con indebita pazienza. Rinviamo a un momento più opportuno la storia dell’erba-pipa. Dov’è Barbalbero, Merry?».

«Su a nord, credo. È andato a bere un sorso… di acqua pulita. La maggior parte degli Ent è con lui, ancora intenta all’opera, in fondo». Merry agitò la mano verso il lago ribollente, ed essi, mentre guardavano, udirono in lontananza un rombo e un rantolo, come se una valanga stesse precipitando lungo il fianco della montagna. Giungeva anche un distante hum-huum, il suono di corni trionfanti.

«Hanno dunque lasciato Orthanc senza vigilanza?», domandò Gandalf.

«È circondata dalle acque», rispose Merry. «Ma Sveltolampo e qualche suo compagno la sorvegliano. Non tutti i pilastri che vedi nella pianura sono stati eretti da Saruman. È Sveltolampo, credo, quello in piedi accanto alla roccia, ai piedi della scalinata».

«Sì scorgo un alto Ent grigio», disse Legolas, «con le braccia lungo i fianchi e immobile come una colonna».

«È mezzogiorno passato», disse Gandalf, «e noi non mangiamo da molte ore. Però desidero vedere Barbalbero al più presto possibile. Non ha lasciato alcun messaggio per me, o sono stati i piatti e le bottiglie a farvelo dimenticare?».

«Ha lasciato un messaggio», disse Merry, «e stavo per riferirtelo, ma molte altre domande me lo hanno impedito. Mi incaricò di dire che se il Signore del Mark e Gandalf vorranno recarsi alle mura settentrionali, vi troveranno Barbalbero felice di accoglierli. Posso aggiungere che troveranno anche i cibi più squisiti, scoperti e scelti dai vostri umili servitori». Fece un inchino.

Gandalf rise. «Meglio così!», disse. «Ebbene, Théoden, vuoi ventre con me in cerca di Barbalbero? Dovremo fare un gran giro, ma non è molto lontano. Quando vedrai Barbalbero apprenderai molte cose; egli infatti è Fangorn, il decano e il capo degli Ent, ed ascoltandolo parlare udrai il linguaggio del più antico essere vivente».

«Ti accompagnerò», disse Théoden. «Addio, cari Hobbit! A rivederci nella mia dimora! Ivi seduti accanto a me potrete narrarmi tutto ciò che il vostro cuore desidera: le imprese familiari più remote che rammentiate, Tobaldo il Vecchio e la sua erudizione in materia di erbe. Addio!».

Gli Hobbit s’inchinarono profondamente. «Dunque questi è il Re di Rohan!», disse Pipino a bassa voce. «Un vecchio assai simpatico e molto cortese».

CAPITOLO IX RELITTI E ALLUVIONI

Gandalf e la scorta del Re si allontanarono cavalcando, voltando verso est per fare il periplo delle mura distrutte d’Isengard. Ma Aragorn, Gimli e Legolas rimasero al cancello. Mentre Arod e Hasufel erravano liberi in cerca di erba, essi andarono a sedersi accanto agli Hobbit.

«Bene, bene! La caccia è finita, ed ecco che c’incontriamo nuovamente là dove nessuno di noi avrebbe mai immaginato di capitare», disse Aragorn.

«Ed ora che i grandi hanno da discutere importanti faccende», disse Legolas, «gli inseguitori possono forse infine scoprire le soluzioni di alcuni piccoli enigmi. Seguimmo le vostre tracce sino alla foresta, ma rimangono molti punti su cui desidererei conoscere la verità».

«E anche noi vogliamo sapere moltissime cose», disse Merry. «Barbalbero, il Vecchio Ent, ci ha dato qualche ragguaglio, ma di gran lunga insufficiente».

«Ogni cosa a tempo debito», interloquì Legolas. «Noi eravamo i cacciatori, e tocca a voi narrare per primi le vostre avventure».

«Sì, ma più tardi», disse Gimli. «Innanzi tutto urge un pasto. La mia testa ferita duole e il mezzogiorno è passato. Questi vagabondi potrebbero farsi perdonare le loro colpe trovandoci un po’ del bottino di cui parlavano. Cibi e bevande ridurrebbero alquanto i vostri debiti nei miei confronti».

«E allora te ne daremo», rispose Pipino. «Preferisci rimanere qui, o pasteggiare più comodamente fra le macerie della guardiola di Saruman, lì in fondo sotto l’arco? Noi dovemmo portare qui le provviste per dare un’occhiata alla strada mentre mangiavamo».

«Meno di un’occhiata!», disse Gimli. «Ma mi rifiuto di mettere piede in casa di Orchi, di toccare carne di proprietà degli Orchi o qualunque altra cosa essi abbiano manipolato».

«Non pretenderemmo mai una cosa simile da te», disse Merry. «Anche noi non vogliamo più saperne degli Orchi per tutta la vita, dopo quello che abbiamo passato! Ma c’era molta altra gente a Isengard. Saruman, nonostante tutto, era ancora abbastanza saggio per non fidarsi dei suoi Orchi. Teneva degli Uomini a guardia del cancello, i suoi servi più fedeli, suppongo. Comunque erano privilegiati e forniti di ottime provviste».

«E di erba-pipa», soggiunse Gimli con aria inquisitiva.

«No, non credo», disse ridendo Merry. «Ma quella è un’altra storia, che può attendere; prima cerchiamo di essere a stomaco pieno».

«Ebbene, andiamo a mangiare!», disse il Nano.

* * *

Gli Hobbit fecero strada; passarono sotto l’arco e giunsero a un’ampia porta sulla sinistra, in cima a una rampa di scale. Dava su una grande stanza, in cui da un lato era un camino, e sulla parete opposta altre piccole porte; era una stanza scavata nella roccia, e un tempo doveva essere molto buia, poiché le finestre si aprivano soltanto sulla galleria. Ma ora la luce entrava liberamente dal tetto crollato. Nel focolare bruciava un rimasuglio di legna.

«Ho acceso il fuoco», disse Pipino. «Ci dava un po’ di allegria in mezzo a tanta nebbia. C’erano pochi fasci, e la maggior parte della legna che trovammo in giro era bagnata. Ma il camino tira benissimo: sembra che una corrente d’aria serpeggi su attraverso la roccia, e per fortuna la cappa non è stata bloccata. Un falò fa sempre comodo. Vi preparerò del pane abbrustolito, perché purtroppo è vecchio di tre o quattro giorni».

Aragorn ed i compagni si sedettero all’estremità di un lungo tavolo, e gli Hobbit scomparvero da una delle porte interne.

«Lì c’è un magazzino, al di sopra delle acque, fortunatamente», disse Pipino quando tornarono carichi di piatti, ciotole, tazze, coltelli e cibi vari.

«E non c’è alcun motivo per arricciare il naso di fronte ai cibi, Messer Gimli», vociò Merry. «Questa non è roba da Orchi, ma mangime umano, come lo chiama Barbalbero. Preferisci vino o birra? C’è un barile di là…. passabile. E questo è maiale salato di primissima qualità; ma se preferite posso farvi alla brace qualche fetta di lardo. Mi dispiace di non avere verdure: i rifornimenti sono stati interrotti negli ultimi giorni! Non ho altro da offrirvi, per finire, che burro e miele da spalmare sul pane. Vi basta?».

«Eccome!», disse Gimli. «Il vostro debito diminuisce notevolmente».

I tre compagni furono tosto intenti a mangiare, e i due Hobbit incominciarono spudoratamente un secondo pasto. «Dobbiamo tener compagnia ai nostri ospiti», dissero.

«Siete pieni di cortesia stamane», disse ridendo Legolas. «Ma suppongo che se non fossimo giunti noi vi terreste compagnia a vicenda».

«Forse, e perché no?», rispose Pipino. «È stato assai brutto il viaggio con gli Orchi, e l’alimentazione dei giorni scorsi lasciava a desiderare. Sembrava passato un tempo eterno dall’ultima volta che avevamo mangiato a sazietà».

«Comunque non credo che vi abbia fatto alcun male», disse Aragorn. «Sembrate davvero rigogliosi di salute».

«Proprio così», disse Gimli, osservandoli dalla testa ai piedi oltre l’orlo della sua tazza. «Anzi, i vostri capelli sono due volte più ricci e folti di quando ci lasciammo; e giurerei che siete ambedue cresciuti, ammesso che sia ancora possibile per degli Hobbit della vostra età. Questo Barbalbero, in ogni caso, non vi ha fatto morire di fame».

«No davvero», disse Merry. «Ma gli Ent bevono soltanto, e ciò non basta per saziare l’appetito. Le pozioni di Barbalbero saranno nutrienti, ma si sente il bisogno di qualcosa di solido. E non nuoce per una volta un cibo diverso dal solito lembas».

«Avete davvero bevuto l’acqua degli Ent?», domandò Legolas. «Ah! Allora credo che probabilmente non sia un’illusione quella di Gimli. Strane canzoni circolano a proposito delle ambrosie di Fangorn».

«Molti strani racconti ho udito narrare su quella contrada», disse Aragorn. «Non vi ho mai messo piede. Suvvia, ditemi qualcos’altro, anche sul conto degli Ent!».

«Gli Ent», disse Pipino, «gli Ent sono… bene, gli Ent sono innanzi tutto diversi gli uni dagli altri. Ma i loro occhi, vedete, i loro occhi sono molto curiosi». Cercò di mormorare qualche incerta parola che finì nel silenzio. «Oh, comunque», soggiunse poi, «ne avete visti alcuni da lontano, loro in ogni caso vi hanno scorti, e hanno detto che stavate giungendo. Ne vedrete molti altri, suppongo, prima di partire, e potrete così farvene una vostra idea personale».

«Ehi, ehi!», esclamò Gimli. «Stiamo incominciando la storia a metà. Desidero un racconto ordinato, che risalga a quello strano giorno in cui si ruppe la nostra Compagnia».

«Lo avrai, se disporremo di tempo a sufficienza», disse Merry. «Ma prima, se avete finito di mangiare, riempite le pipe e accendetele. Potremo poi per qualche tempo far finta di esser di nuovo tutti sani e salvi a Brea o a Gran Burrone».

Estrasse dalla tasca un piccolo sacchetto in pelle pieno di tabacco. «Ne abbiamo in quantità», disse; «ne potrete portar via quanto vorrete. Stamattina Pipino e io abbiamo fatto opera di salvataggio. Un sacco di cose andavano galleggiando, e Pipino trovò due barilotti che le acque rubarono probabilmente a qualche cantina o magazzino. Aprendoli, trovammo che erano pieni di erba-pipa della specie più fine e perfettamente intatta».

Gimli ne prese un pizzico che strofinò fra le due mani per poi annusarlo. «È buono al tatto e buono all’odorato», disse.

«È buono davvero!», disse Merry. «Mio caro Gimli, è Foglia di Pianilungone! Sui barili c’erano, chiari e precisi, i sigilli Soffiatromba. Come abbia potuto giungere sin qui, proprio non lo so. Per uso privato di Saruman, suppongo. Non sapevo che venisse esportata tanto lontano, ma ora è assai utile, no?».

«Lo sarebbe», disse Gimli, «se avessi anche una pipa. Purtroppo persi la mia a Moria, o anche prima. In mezzo a tutto il vostro bottino non ne avete per caso trovata una?».

«Temo proprio di no», rispose Merry. «Non ce n’erano, nemmeno nelle guardiole. A quanto pare, questa era una leccornia riservata a Saruman. E non credo che servirebbe molto bussare alle porte di Orthanc per domandargliene una! Saremo costretti a fare un po’ per uno, come fanno tutti i buoni amici in caso di necessità».

«Un momento!», disse Pipino, e infilando la mano nel taschino interno della giacca estrasse un piccolo sacchetto morbido legato da un cordino. «Tengo a contatto con la pelle uno o due tesori, per me preziosi come Anelli. Eccone uno: la mia vecchia pipa di legno. Ed eccone un altro: una pipa nuova. La porto con me da quando sono partito, e non so perché; non mi aspettavo certo di trovare erba-pipa in viaggio, dopo aver esaurito la mia provvista. Ma ora si rivela utile, dopo tutto». Mostrò una piccola pipa dal bocchino largo e piatto, e la tese a Gimli. «Basta per regolare i conti fra noi?», domandò.

«Se basta!», gridò Gimli. «Ma ora, nobile Hobbit, sono io profondamente indebitato verso di te».

«Bene, io torno all’aria aperta a vedere che cosa fanno il vento e il cielo!», disse Legolas.

«Veniamo anche noi», disse Aragorn.

Uscirono e andarono a sedersi sul mucchio di pietre davanti al cancello. I loro sguardi poterono spaziare lungi nella valle, perché la nebbia si stava diradando e galleggiava via sulla brezza.

«E ora riposiamo qui per qualche minuto!», disse Aragorn. «Seduti su cumuli di rovine a discutere, come dice Gandalf, mentre egli è indaffarato altrove. Di rado mi è accaduto di sentirmi stanco e sfinito come oggi». Si avvolse nel manto grigio, coprendo la cotta di maglia, e stese le lunghe gambe. Quindi si sdraiò sul dorso, soffiando dalle labbra un esile filo di fumo.

«Guardate!», esclamò Pipino. «Grampasso il Ramingo è tornato fra noi!».

«Non si era mai allontanato», disse Aragorn. «Io sono al tempo stesso Grampasso e Dùnadan, e appartengo tanto a Gondor quanto al Nord».

* * *

Fumarono in silenzio per qualche tempo, mentre il sole irradiava sui loro corpi distesi i raggi che piombavano obliqui nella valle, trafiggendo le alte nubi bianche a occidente. Legolas, immobile, fissava sole e cielo con sguardo sicuro canticchiando sottovoce. Infine si mise a sedere. «Coraggio!», disse. «Il tempo scorre veloce, e la nebbia si dirada, o perlomeno lo farebbe se strana gente come voi non s’inghirlandasse di fumo. E il racconto?».

«Ebbene, il mio racconto incomincia dal momento in cui mi svegliai al buio tutto legato, prigioniero in un accampamento d’Orchi», disse Pipino. «Vediamo, che giorno è oggi?».

«Il quinto di marzo, secondo il Calendario della Contea[16]», disse Aragorn. Pipino fece qualche calcolo con le dita. «Solo nove giorni fa!», esclamò. «Sembra che sia passato un anno da quando fummo presi. Ebbene, benché gran parte del tempo fosse come un incubo, credo proprio che i tre giorni successivi furono veramente i più atroci. Merry mi correggerà, se dovessi dimenticare qualcosa d’importante: non entrerò nei particolari, le frustate, la sporcizia, il fetore e tutto il resto: non ne sopporto il ricordo». Con ciò, si mise a narrare l’ultima battaglia di Boromir e la marcia degli Orchi dall’Emyn Muil alla Foresta. Gli altri assentivano col capo man mano che i vari episodi combaciavano con le loro supposizioni.

«Ecco alcuni preziosi oggetti che avevate perduti», disse Aragorn. «Sarete felici di riaverli». Si allentò la cinta sotto il manto e ne estrasse due pugnali nelle loro guaine.

«Stupendo!», esclamò Merry. «Mai avrei immaginato di rivederli! Col mio ho infilzato un paio di Orchi, ma Uglúk si premurò a toglierceli di mano. Com’era furente! Sulle prime pensai che stesse per pugnalarmi, e invece lo vidi gettare via i coltelli come se fossero roventi».

«Ed eccoti la spilla, Pipino», soggiunse Aragorn. «L’ho custodita bene, perché è un oggetto assai prezioso».

«Lo so», disse Pipino. «Fu straziante doverla abbandonare; ma che altro potevo fare?».

«Nient’altro», rispose Aragorn. «Colui che non sa separarsi da un tesoro al momento del bisogno è simile a uno schiavo in ceppi. Hai fatto bene».

«Fu un bel lavoro, quello di tagliare le corde che ti legavano i polsi!», disse Gimli. «La fortuna ti ha arriso, ma bisogna riconoscere che hai saputo cogliere l’occasione con ambedue le mani».

«E porre a noi un enigma assai arduo», disse Legolas. «Incominciavo a pensare che ti fossero cresciute le ali!».

«Sfortunatamente no», rispose Pipino. «Ma non sapevi nulla di Grishnâkh». Rabbrividì e non disse più altro, lasciando che Merry narrasse gli ultimi orribili momenti: le mani che frugavano, l’alito caldo e la terribile forza delle pelose braccia di Grishnâkh.

«Tutto ciò che mi dite degli Orchi di Mordor, o Lugbùrz come lo chiamano loro, mi rende molto inquieto», disse Aragorn. «L’Oscuro Signore sapeva già troppe cose, e anche i suoi servitori; inoltre Grishnâkh mandò evidentemente qualche messaggio al di là del Fiume dopo la disputa. L’Occhio Rosso sarà puntato su Isengard. Saruman in ogni modo è in un vicolo cieco, dove si è cacciato di propria iniziativa».

«Sì; qualunque parte vinca, egli ha ben poche prospettive», disse Merry. «Le cose incominciarono a mettersi male per lui dal momento in cui i suoi Orchi misero piede a Rohan».

«Abbiamo intravisto il vecchio farabutto», disse Gimli; «Gandalf, almeno, pensa che fosse lui, ai margini della Foresta».

«Quando?», domandò Pipino.

«Cinque notti fa», rispose Aragorn.

«Vediamo», disse Merry: «cinque notti fa… si tratta di una parte della storia che ignorate del tutto. Incontrammo Barbalbero quella mattina dopo la battaglia, e la sera stessa ci trovavamo in una delle sue ent-case. La mattina seguente ci recammo all’Entaconsulta, cioè ad una riunione di Ent; è la cosa più strana che abbia mai veduta. Durò l’intera giornata e anche il giorno seguente, e noi trascorremmo le notti con un Ent chiamato Sveltolampo. E poi, improvvisamente, nel tardo pomeriggio del terzo giorno di consulta, gli Ent si destarono. Fu stupefacente. La foresta ci era parsa sino allora tesa come se vi stesse covando una tempesta, e tutt’a un tratto esplose. Vorrei che li aveste uditi cantare mentre marciavano».

«Se Saruman li avesse uditi, a quest’ora sarebbe lontano cento miglia, a costo di dover fuggire a piedi», disse Pipino.

«Isengard, anche se sei forte e violento, freddo come vento, duro e cruento, è giunto il momento,

È giunta la guerra, e trema la terra, sfonderem la pietra e la porta tetra!

C’erano molti altri versi. Gran parte della canzone non aveva parole, era solo simile a una musica di corni e tamburi. Era molto eccitante. Ma io credevo che si trattasse semplicemente di una marcia, soltanto di un canto… fin quando non giungemmo qui. Ora ho cambiato idea».

«Passammo l’ultima cresta di monti, e dopo il calar della notte arrivammo a Nan Curunir», proseguì Merry. «Fu allora che per la prima volta ebbi la sensazione che la Foresta stessa si muovesse alle nostre spalle. Credevo di sognare un ent-sogno, ma Pipino ebbe la medesima impressione, e tutti e due ci sentimmo molto impauriti. Solo più tardi ci fu data qualche spiegazione.

«Si trattava di quelli che gli Ent chiamano nella “lingua abbreviata” Ucorni. A Barbalbero non piace troppo parlare di loro, ma credo che siano Ent trasformatisi quasi in alberi, almeno esternamente. In piedi e immobili qua e là ai margini o nell’interno del bosco, osservano ininterrottamente gli alberi; ma nel profondo delle valli più buie credo che ve ne siano centinaia e centinaia.

«Una grande potenza è latente in loro, e sembrerebbero capaci di avvilupparsi nelle ombre: è difficile vedere i loro movimenti. Eppure si muovono. E se sono incolleriti avanzano assai veloci. Mentre tranquillo guardi il cielo o ascolti il sussurro del vento, ti può capitare improvvisamente di trovarti in mezzo a un bosco, circondato da grandi alberi. Hanno ancora la voce, e sanno parlare con gli Ent è per questo motivo che li chiamano Ucorni, mi ha detto Barbalbero ma sono diventati strani e selvaggi. Pericolosi. Sarei terrorizzato se li incontrassi da solo, senza la compagnia di veri Ent che li sorveglino. «Ebbene, la notte era calata da poco, quando scendemmo un lungo strapiombo e giungemmo nella parte superiore della Valle dello Stregone, insieme con gli Ent e con tutti i loro Ucorni fruscianti. Non li vedevamo, beninteso, ma l’aria era piena di scricchiolii. Era una notte molto buia e nuvolosa. Appena si furono allontanati dai colli, avanzarono a gran velocità, con un rumore simile a vento impetuoso. La Luna non fece mai capolino fra le nuvole, e poco dopo mezzanotte un bosco alto e fitto circondava tutta la parte settentrionale d’Isengard. Non vi era traccia di nemici e non si udivano sentinelle. Soltanto una luce brillava da un’alta finestra sulla torre.

«Barbalbero e qualche altro Ent proseguirono silenziosamente la marcia per giungere in un punto da cui si potevano scorgere i cancelli. Pipino e io eravamo con loro; seduti sulle spalle di Barbalbero, lo sentivamo fremere dalla tensione. Ma anche quando sono stati destati, gli Ent sanno essere molto cauti e pazienti. Rimasero immobili come statue di pietra, respirando e ascoltando.

«Poi, tutta un tratto, vi fu un tremendo trambusto. Squilli di trombe che facevano echeggiare le mura d’Isengard. Credevamo di essere stati scoperti, e che la battaglia stesse per incominciare. Ma non accadde nulla del genere. Tutti gli eserciti di Saruman si mettevano in marcia; non so molto di questa guerra, né dei Cavalieri di Rohan, ma a quanto pare Saruman intendeva distruggere il Re e tutti i suoi uomini con un colpo finale. Isengard si vuotò. Vidi partire il nemico: file interminabili di Orchi che marciavano, schiere di Orchi a cavallo di lupi, e anche battaglioni di Uomini. Molti portavano fiaccole, e il bagliore mi permise di distinguere i loro volti. La maggior parte erano Uomini normali, alquanto alti, bruni, seri, ma non particolarmente crudeli e malvagi. Ma ve ne erano altri orribili: alti come Uomini, col viso di Orchi, olivastri, equivoci, con occhi obliqui. Sapete, mi ricordarono subito quel tale del Sud a Brea; la somiglianza con gli Orchi non era però altrettanto palese».

«Anch’io pensai a quell’individuo», disse Aragorn. «Dovemmo lottare contro parecchi di questi Mezzi-Orchi nel Fosso di Helm. È chiaro ora che quel tale del Sud altro non era che una spia di Saruman; ma chissà se lavorava con i Cavalieri Neri o soltanto per Saruman: è difficile, con questa gente infida, distinguere quando sono alleati e quando si stanno ingannando a vicenda».

«Ebbene, messe insieme tutte le razze, dovevano essere almeno diecimila», disse Merry. «Impiegarono un’ora per uscire dai cancelli. Alcuni percorsero la strada che conduce ai Guadi, ed altri deviando si diressero verso est. Avevano costruito un ponte a circa un miglio di distanza, nel punto in cui il fiume scorre in un letto profondamente incassato fra le rocce. Stando in piedi su questo cumulo si riesce a intravedere qualcosa. Partirono cantando con quelle loro voci crudeli, ridendo e facendo un fracasso orribile. Pensai che le cose si mettevano molto male per Rohan. Ma Barbalbero non si mosse, e disse: “Ho qualche faccenda da sbrigare a Isengard, questa notte; ho da fare con pietre e rocce”.

«Ma benché non riuscissi a vedere che cosa succedeva al buio, credo che gli Ucorni si siano incamminati verso sud non appena i cancelli furono richiusi. Loro avevano qualcosa da sbrigare con gli Orchi, immagino. L’indomani mattina erano già lontani nella valle, o comunque in quel punto vi era un’ombra impenetrabile.

«Appena Saruman ebbe spedito via tutto l’esercito, toccò a noi agire. Barbalbero ci posò per terra e si recò ai cancelli ove, martellando contro i battenti, si mise a chiamare Saruman. Non si udì risposta, ma frecce e sassi piovvero dalle mura. Ora, vedete, le frecce sono del tutto inefficaci contro gli Ent. Li pungono, certo, come insetti voraci, e li rendono ancor più furiosi. Ma un Ent può essere coperto di frecce d’Orco come un cuscinetto di spilli e non subirne alcun danno effettivo. Innanzi tutto è impossibile avvelenarli, ed hanno una pelle straordinariamente spessa e più coriacea della corteccia degli alberi. Ci vuole un pesante colpo d’ascia per ferirli sul serio. Infatti non amano le asce. E inoltre dovrebbero esserci un bel po’ di Uomini muniti d’asce per lottare contro un solo Ent: dopo un primo colpo non si ha mai la possibilità di brandirne un secondo, perché il pugno di un Ent accartoccia il ferro come fosse latta.

«Quando Barbalbero ebbe ricevuto un bel po’ di frecce, incominciò a scaldarsi, a diventare alquanto “frettoloso”, direbbe lui. Lanciò un possente huum-hum, e una dozzina di Ent arrivò a grandi passi. Un Ent arrabbiato è terrificante. Le dita delle mani e dei piedi si avvinghiano alla roccia e la strappano come crosta di pane. Mi pareva di osservare il lavoro che imponenti radici compiono in centinaia di anni, condensato in pochi istanti.

«Spingevano, tiravano, laceravano, scuotevano, martellavano; clang-bang, crash-crack, in cinque minuti questi cancelli giacevano in terra distrutti; alcuni si erano messi a rodere le mura, come conigli in una buca di sabbia. Non so che cosa Saruman abbia immaginato che accadesse; ma in ogni caso, non fu capace di reagire. La potenza delle sue arti magiche potrebbe essersi affievolita di recente, beninteso; ma credo che non abbia comunque molto mordente, che non abbia il coraggio necessario per resistere da solo, in un posto angusto, senza tutti i suoi schiavi, le sue macchine ed altri congegni; non so se rendo l’idea. Molto diverso dal vecchio Gandalf. Mi domando se la sua fama non fosse dovuta quasi unicamente alla sua abilità nell’installarsi a Isengard».

«No», disse Aragorn. «Un tempo era degno della fama che godeva. La sua sapienza era profonda, il suo pensiero ingegnoso, e le sue mani straordinariamente abili; inoltre aveva il potere d’influenzare la volontà altrui. Sapeva persuadere i saggi e scoraggiare la gente dappoco. È un potere che certamente possiede ancora. Pochi sono, nella Terra di Mezzo, coloro che potrebbero senz’alcun rischio rimanere soli a discuter con lui, anche dopo questa disfatta. Gandalf, Elrond, e forse Galadriel, ora che la perfidia di lui è stata messa a nudo; ma pochissimi altri».

«Gli Ent sono al sicuro», disse Pipino. «Pare che una volta sia riuscito a ingannarli, ma la cosa non si è mai più ripetuta. E comunque Saruman non li capì, e fece il grosso errore di escluderli dai suoi progetti. Non aveva preparato piani per combatterli, e quando si misero al lavoro, non c’era più tempo sufficiente per farne. Non appena ci lanciammo all’attacco, i pochi disertori rimasti a Isengard si precipitarono fuori da tutte le brecce aperte dagli Ent. Questi lasciarono liberi gli Uomini, due o tre dozzine al massimo, dopo averli interrogati qui dove ci troviamo. Non credo che molti Orchi, di qualunque misura, siano riusciti a sfuggire. Certo non scamparono agli Ucorni: ve n’era un bosco intorno a Isengard, oltre a quelli giù nella valle.

«Quando gli Ent ebbero ridotto in polvere gran parte delle mura meridionali, Saruman, vedendosi abbandonato dagli ultimi servitori, fuggì in preda al panico. Pare che fosse ai cancelli quando arrivammo; e suppongo che stesse ammirando la sfilata del suo splendide esercito. Quando gli Ent riuscirono ad aprirsi un varco, corse via rapidamente. Sulle prime non lo videro; ma la notte si era rischiarata e le stelle irradiavano una luce di gran lunga sufficiente per gli occhi degli Ent. Improvvisamente Sveltolampo lanciò un grido: “L’uccisore d’alberi, l’uccisore d’alberi!”. Sveltolampo è una creatura dall’animo dolce, ma ciò non fa che acuire il suo odio per Saruman: le asce degli Orchi avevano fatto soffrire crudelmente i suoi compagni. Si precipitò per il sentiero che parte dal cancello interno, e notai che, quando era desto, Sveltolampo si muoveva davvero come un turbine di vento. Una pallida figura in lontananza avanzava frettolosa, apparendo e scomparendo nell’ombra delle colonne: aveva quasi raggiunto le scale della torre. Scampò per un pelo. Sveltolampo si lanciò con tale furia all’inseguimento, che Saruman stava per essere raggiunto e strangolato quando riuscì a infilarsi nella porta.

«Tornato ad Orthanc sano e salvo, mise in azione immediatamente le sue preziose macchine. Ormai vi erano molti Ent all’interno d’Isengard: alcuni avevano seguito Sveltolampo, altri erano penetrati da nord e da est; andavano in giro distruggendo ciò che trovavano. Improvvisamente dal terreno uscirono vampate di fuoco e fetidi fumi: i pozzi e le condutture di tutta la piana incominciarono a sputare ed eruttare. Parecchi Ent si bruciarono e si scottarono. Uno di essi, credo si chiamasse Faggiosso, un Ent molto alto e bello, fu avviluppato da uno spruzzo di fuoco liquido ed arse come una torcia: uno spettacolo atroce.

«Ciò li fece impazzire. Avevo creduto, dapprima, che fosse impossibile renderli desti più di com’erano; ma mi sbagliavo. Vidi infine che cosa significava, e ne rimasi sbalordito: ruggiti, tuoni e boati a tal punto che le pietre cadevano per il rumore. Merry e io, coricati per terra, c’infilavamo i mantelli nelle orecchie. Tutt’intorno alla roccia di Orthanc gli Ent roteavano come tempesta, come turbini di bufera, sradicando colonne, scaraventando valanghe di macigni giù nei pozzi, lanciando in aria come foglie immense lastre di pietra. La torre era al centro di un vortice di vento. Vidi pilastri di ferro e blocchi di muratura saettare a centinaia di piedi d’altezza e infrangersi contro le finestre d’Orthanc. Ma Barbalbero non perse la testa: non aveva, per fortuna, nessuna scottatura. Non voleva che i suoi amici si ferissero, travolti dalla propria furia, e non voleva che Saruman in mezzo a tanta confusione riuscisse a scappare da qualche buco. Parecchi Ent si scaraventavano con violenza contro la roccia di Orthanc, ma senz’alcun esito. È molto liscia e dura. Forse vi è in essa qualche magia, più antica e più potente di quella di Saruman. Comunque non riuscirono ad afferrarla né a scalfirla; non facevano che ferirsi e ammaccarsi contro la rupe.

«Allora Barbalbero andò al centro del cerchio e gridò. La sua voce enorme sovrastava il frastuono. Immediatamente vi fu un grande silenzio. D’un tratto irruppe da un’alta finestra sulla torre una stridula risata; ebbe uno strano effetto sugli Ent. Da ribollenti che erano, divennero freddi e severi come ghiaccio, immobili. Quindi, calmi e silenziosi, si radunarono intorno a Barbalbero. Egli si rivolse a loro nella lingua degli Ent, e credo che stesse spiegando un piano elaborato nella sua vecchia testa tanto tempo addietro. Poi scomparvero nella luce grigia. Stava ormai albeggiando.

«Misero sentinelle a guardia della torre, credo, ma così ben nascoste nelle ombre e così immobili che non riuscivo a distinguerle. Gli altri si diressero verso nord. Non li vedemmo durante tutto il giorno, perché erano indaffaratissimi altrove, e fummo lasciati soli quasi per tutto il tempo. Una giornata tetra: vagammo un po’ in giro, tenendoci però quanto più possibile nascosti alla vista delle finestre di Orthanc: ci fissavano con aria terribilmente minacciosa. Passammo gran parte del tempo in cerca di qualcosa da mangiare. Di tanto in tanto ci sedevamo a discutere di ciò che sarebbe accaduto giù a sud, a Rohan, domandandoci cosa ne fosse degli altri membri della Compagnia. Udivamo ogni tanto in lontananza il rantolo dei macigni Che precipitavano, e rumori rimbombanti che echeggiavano fra i colli.

«Nel pomeriggio facemmo l’intero giro del cerchio, per andare a vedere che cosa stava succedendo. Un grande bosco ombroso di Ucorni occupava l’imboccatura della valle, e un altro fiancheggiava il muro settentrionale. Non osammo inoltrarci. Ma dall’interno giungeva il rumore di Ent ed Ucorni intenti a frantumare e a lacerare: stavano scavando grandi pozzi e trincee, creando dighe e stagni, radunando tutte le acque dell’Isen e di ogni altra fonte e sorgente che trovavano. Li lasciammo al lavoro.

«Al crepuscolo, Barbalbero tornò da noi. Canticchiava sottovoce con aria soddisfatta. Stiracchiò le lunghe braccia e le lunghe gambe, e trasse un profondo respiro. Gli domandai se fosse stanco.

«“Stanco?”, ripeté, “stanco? Beh no, non stanco ma aggranchito. Ho bisogno di un bel sorso d’acqua dell’Entalluvio. Abbiamo lavorato sodo; da molti lunghi anni ormai non rompevamo più tante pietre e non rodevamo tanta terra. Ma abbiamo quasi terminato. Sul calar della notte state lontani da qui e dalla vecchia galleria! È probabile che venga giù una valanga d’acqua, e sarà acqua assai sporca fin quando non avremo lavato tutta la sporcizia di Saruman. Allora l’Isen potrà nuovamente scorrere limpido e pulito”. Si mise a scaraventare giù un altro pezzo di mura, senza fretta, solo per divertirsi.

«Ci stavamo domandando se sarebbe stato prudente sdraiarci e schiacciare un sonnellino, quando accadde la cosa più stupefacente. Udimmo lo scalpitio di un cavallo che percorreva rapidamente la strada verso i cancelli. Merry e io restammo immobili, mentre Barbalbero si nascondeva all’ombra dell’arco. D’un tratto apparve un gran cavallo, come un bagliore d’argento. Incominciava a imbrunire, ma vidi chiaramente il viso del cavaliere: sembrava che scintillasse, e i suoi abiti erano completamente bianchi. Mi misi a sedere come abbagliato, con la bocca spalancata. Cercai di chiamare ma non ne fui capace.

«Era inutile. Si fermò accanto a noi e ci guardò a lungo. “Gandalf!”, dissi infine, ma la mia voce non era che un bisbiglio. E credete che abbia detto: “Ciao, Pipino! Ecco una bella sorpresa!”? No davvero! Disse: “Alzati, fannullone di un Tuc! Dove diamine posso trovare Barbalbero in mezzo a tutto questo sconquasso? Gli voglio parlare. Presto!”.

«Barbalbero udì la sua voce ed uscì immediatamente dall’ombra; fu uno strano incontro. Gandalf evidentemente non si aspettava di trovare lì Barbalbero, e questi sembrava stesse nei pressi del cancello apposta per incontrarlo. Eppure avevamo narrato al vecchio Ent tutta la vicenda di Moria. Allora rammentai lo strano sguardo che ci aveva lanciato in quel momento. Posso soltanto supporre che aveva veduto Gandalf o ricevuto sue notizie, ma che non voleva dir nulla troppo presto. “Niente fretta!” è il suo motto; ma nessuno, nemmeno gli Elfi, dicono quel che sanno sui movimenti di Gandalf quand’egli non è presente.

«“Huum! Gandalf!”, disse Barbalbero. “Sono contento che tu sia venuto. Legno e acqua, tronchi e pietre posso facilmente dominare; ma qui c’è da lottare con uno stregone”.

«“Barbalbero”, disse Gandalf, “ho bisogno del tuo aiuto. Hai fatto molto, ma è necessario fare dell’altro. Ho circa diecimila Orchi da sistemare”.

«Poi i due si allontanarono a discutere insieme in qualche angolo. Barbalbero dovette avere l’impressione di una fretta esagerata, perché Gandalf aveva una premura terribile e stava già parlando a gran velocità prima che si ritirassero. Rimasero via pochi minuti, al massimo un quarto d’ora. Poi Gandalf si avvicinò a noi con aria di sollievo, quasi allegro. Allora disse di essere felice di vederci.

«“Ma Gandalf”, gridai, “dove sei stato? Hai veduto gli altri?”. «“Ovunque sia stato, eccomi di ritorno”, rispose nella sua maniera caratteristica. “Sì, ho visto alcuni degli altri. Ma le notizie devono attendere. Questa è una notte di pericolo, e io devo galoppare via velocemente. Ma l’alba potrebbe essere più luminosa; se sarà così, c’incontreremo di nuovo. Non siate imprudenti e state lontani da Orthanc! Addio!”.

«Barbalbero fu molto pensieroso dopo la partenza di Gandalf. Aveva evidentemente appreso molto in poco tempo, e stava digerendo. Ci guardò dicendo: “Hm, bene, trovo che dopo tutto non siete frettolosi come credevo. Mi avete detto molto meno di quanto avreste potuto, e non più di quanto avreste dovuto. Hm, questo sì che è un bel mucchio di notizie! Beh, ora Barbalbero si deve rimettere al lavoro”.

«Prima che se ne andasse riuscimmo a tirargli fuori qualche informazione, che non ci mise per nulla di buon umore. Ma per il momento pensavamo più a voi tre, che non a Frodo e Sam, o al povero Boromir. Capimmo infatti che c’era una grande battaglia, o che sarebbe presto incominciata, e che voi eravate nel bel mezzo, e forse non ne sareste mai usciti.

«“Gli Ucorni daranno una mano”, disse Barbalbero. Poi se ne andò e non lo vedemmo più sino a questa mattina.

* * *

«Era notte fonda. Noi dormivamo coricati in cima a un mucchio di pietre, e non vedevamo nulla al di là. Nebbia e ombre avviluppavano ogni cosa intorno a noi, come una grande coperta. L’aria pareva calda e pesante, ed era piena di fruscii, di scricchiolii e di voci che passavano mormorando. Credo che altre centinaia di Ucorni stessero marciando verso il campo di battaglia. Più tardi udimmo un grande tuono nel lontano Sud, e vedemmo lampi e fulmini balenare nel cielo di Rohan. Di tanto in tanto si scorgevano vette di montagne distanti centinaia di miglia spuntare all’improvviso, bianche e nere, e poi scomparire. E alle nostre spalle sembrava che il tuono rombasse sui colli, ma in un modo diverso. A volte l’intera valle rimbombava.

«Doveva essere circa mezzanotte quando gli Ent infransero le dighe e riversarono tutte le acque attraverso una breccia nella parete nord d’Isengard. Il buio ucornico era passato, e i tuoni rombavano distanti. La Luna stava per scomparire dietro le montagne ad occidente.

«Isengard incominciò ad empirsi di pozzanghere e di rigagnoli neri e striscianti. Rilucevano agli ultimi raggi di Luna, mentre inondavano la pianura. Di tanto in tanto le acque penetravano in qualche pozzo e fessura: grandi vapori bianchi si sprigionavano sibilando. Il fumo s’innalzava come nebbia. Le esplosioni si alternavano alle vampate di fuoco. Una grande spira di vapore salì serpeggiando, attorcigliandosi tutt’intorno ad Orthanc, che parve infine ergersi come un alto picco di nubi, dalla base incandescente e la cima illuminata dalla Luna. E l’acqua continuava ad entrare, finché Isengard sembrò un’immensa casseruola ribollente e schiumeggiante».

«Vedemmo da sud ieri notte una nube di fumo e vapori, giungendo all’imboccatura di Nan Curunir», disse Aragorn. «Temevamo che Saruman stesse preparando qualche nuova diavoleria per noi».

«Non certo Saruman!», disse Pipino. «Si sentiva probabilmente soffocare, e non rideva più. Di mattina, ieri mattina, vedemmo che l’acqua era penetrata in tutti i buchi e che si era formata una fitta nebbia. Ci rifugiammo in quella guardiola, e fummo colti dal panico. Il lago incominciò a traboccare e ad uscire dalla vecchia galleria, mentre l’acqua saliva rapidamente i gradini. Credemmo che saremmo rimasti intrappolati come Orchi in un buco, ma nel retro del magazzino una scala a chiocciola ci condusse sulla sommità dell’arco. Fu complicata l’uscita, perché i corridoi erano tutti lesionati e quasi ostruiti dalle pietre cadute all’imboccatura. Giunti là, ci sedemmo in alto sopra l’inondazione per assistere all’annegamento d’Isengard. Gli Ent continuarono a riversare acqua fin quando ogni fuoco fu estinto ed ogni caverna colmata. La nebbia si addensò lentamente, e s’innalzò trasformandosi in un immenso ombrello di nubi, alto almeno un miglio. Di sera comparve sui colli orientali un grande arcobaleno; poi il tramonto fu offuscato da una fitta pioggerella lungo i fianchi delle montagne. Tutto avvenne molto silenziosamente. Qualche lupo gemette lugubre in lontananza. Gli Ent interruppero l’immissione durante la notte, e dirottarono nuovamente l’Isen nel suo antico letto. Questa fu la conclusione di tutto.

* * *

«Da allora le acque hanno ripreso a calare. Credo che ci debbano essere degli sbocchi sotterranei da qualche parte. Se Saruman sbircia da una delle sue finestre vedrà confusione e rovina. Ci sentivamo molto soli. Nemmeno un Ent col quale parlare in mezzo a tanta desolazione; e niente notizie. Passammo tutta la notte sull’arco; faceva freddo e umido, e non dormivo. Avevamo la sensazione che qualunque cosa sarebbe potuta accadere da un momento all’altro. Saruman è ancora rinchiuso nella sua torre. Durante la notte udimmo un rumore simile ad un’ondata di vento che risaliva la valle. Credo che gli Ent e gli Ucorni partiti per il campo di battaglia stessero ritornando; ma dove siano andati a finire adesso, lo ignoro. Il mattino era umido e uggioso quando scendemmo giù e guardandoci intorno vedemmo che non c’era nessuno. Non ho altro da raccontare. Sembra quasi che regni la pace ora, dopo tanto frastuono. Ed anche la sicurezza, da quando Gandalf è ritornato. Riuscirei a dormire!».

* * *

Rimasero tutti silenziosi per qualche tempo. Gimli si riempì di nuovo la pipa. «Un punto ancora mi rende perplesso», disse accendendola con l’esca e la pietra focaia. «Vermilinguo. Dicesti a Théoden che è rinchiuso insieme con Saruman. Come ha fatto ad arrivare sin lì?».

«Oh, sì! Mi ero dimenticato di lui», disse Pipino. «È arrivato soltanto questa mattina. Avevamo appena acceso il fuoco e fatto colazione quando riapparve Barbalbero. LO udimmo tuonare e chiamare i nostri nomi da fuori.

«“Sono semplicemente venuto a vedere come ve la passate, ragazzi miei”, disse, “e a darvi qualche notizia. Gli Ucorni sono tornati. Va tutto bene; sì, davvero benone!”, rise battendosi le mani sulle cosce. “Niente più Orchi a Isengard, niente più asce! E arriverà gente dal Sud alquanto presto, gente che vi farà probabilmente piacere incontrare”.

«Aveva appena finito di parlare che udimmo per la strada uno scalpitar di zoccoli. Ci precipitammo fuori del cancello, ed io rimasi a guardare, pressoché certo di veder giungere Grampasso e Gandalf alla testa di un esercito. Ma dalla nebbia apparve un Uomo sopra un vecchio cavallo stanco; anche lui pareva una strana creatura contorta. Non vi era nessun altro. Quando sbucò dalla foschia e vide all’improvviso innanzi a sé tanta rovina e distruzione, rimase a bocca aperta, immobile, e il suo viso divenne quasi verde. Era talmente stupefatto che da principio parve non accorgersi di noi. Ma quando ci scorse, lanciò un urlo tentando di voltare il cavallo e di fuggire al galoppo. Ma Barbalbero fece tre passi, allungò un grande braccio e lo sollevò dalla sella. Mentre il cavallo terrorizzato scappava a gran carriera, egli strisciava per terra. Disse di essere Grima, amico e consigliere del re, incaricato di portare a Saruman importanti messaggi da parte di Théoden.

«“Nessun altro avrebbe mai osato cavalcare in aperta campagna, in mezzo a tanti infidi Orchi”, disse, “perciò inviarono me. Ho fatto un viaggio assai pericoloso, e sono sfinito e affamato. Fuggii a nord, allungando di molto inseguito dai lupi”.

«Notai gli sguardi obliqui che lanciava a Barbalbero, e dissi dentro di me: “Bugiardo”. Barbalbero l’osservò a lungo e lentamente come è solito fare, mentre il disgraziato si torceva per terra. Infine disse: “Ha, hm, vi stavo aspettando, Messer Vermilinguo”. L’uomo sussultò udendo il nome. “Gandalf è giunto qui prima di voi, quindi so quanto basta sul vostro conto, e so anche che cosa fare di voi. Gandalf mi disse di mettere tutti i ratti in una sola trappola, ed è ciò che farò. Sono io adesso che comando a Isengard, ma Saruman è rinchiuso nella sua torre; tu puoi andare da lui e portargli tutti i messaggi che riuscirai a immaginare”.

«“Lasciatemi andare, lasciatemi andare!”, disse Vermilinguo. “Conosco la strada”.

«“Non dubito che tu conoscessi la strada”, disse Barbalbero. “Ma le cose sono un po’ cambiate da queste parti. Va” a vedere!”

«Lasciò che Vermilinguo si avviasse zoppicando attraverso l’arco, con noi alle calcagna, e che giunto all’interno della cerchia di mura vedesse tutta l’acqua che si stendeva fra lui e Orthanc. Allora il miserabile si volse verso di noi.

«“Lasciatemi andare via!”, piagnucolò. “Lasciatemi andare via; ormai i miei messaggi sono inutili”.

«“Lo sono davvero”, disse Barbalbero. “Ma hai due sole alternative: rimanere con me finché arrivino Gandalf e il tuo padrone, o altrimenti attraversare le acque. Cosa preferisci?”

«L’uomo rabbrividì udendo parlare del suo padrone, e mise un piede nell’acqua; ma indietreggiò immediatamente. “Non so nuotare”, disse.

«“L’acqua non è profonda”, disse Barbalbero. “È sporca, ma ciò non ti farà alcun male, Messer Vermilinguo. Coraggio, dentro!”.

«Il miserabile si avviò sguazzando nello stagno. Prima che lo perdessi di vista l’acqua gli arrivava già al collo. L’ultima volta lo vidi aggrappato a qualche vecchio barile o pezzo di legno; Barbalbero lo seguì sino a un certo punto, osservandone i progressi.

«“Ebbene, è entrato”, disse ritornando. “L’ho visto strisciare su per le scale come un topo fradicio. Vi è ancora qualcuno nella torre: una mano è uscita e lo ha tirato dentro. Perciò eccolo lì, e spero che l’accoglienza sia di suo gradimento, Ora devo andare a levarmi di dosso tutto questo fango. Sarò su nella parte settentrionale, se qualcuno desidera vedermi. Non vi è da queste parti acqua pulita che un Ent possa bere, o con la quale possa lavarsi. Quindi pregherò voi ragazzi di tener d’occhio il cancello in attesa della gente che deve arrivare. State attenti, perché vi sarà il Sire dei Campi di Rohan! Voi dovrete dargli il benvenuto come meglio sapete fare: i suoi uomini hanno combattuto una grande battaglia contro gli Orchi. Forse conoscerete meglio di un Ent le parole degli Uomini adatte a dare il benvenuto a un così gran signore. Ai miei tempi vi furono molti signori nei verdi campi, ma non appresi mai il loro idioma né i loro nomi. Desidereranno cibi da Uomini, e suppongo che sappiate tutto su questo argomento. Perciò trovate, se possibile, tutto ciò che si può imbandire per il desco di un re”. E tale è la fine della storia. Tuttavia vorrei sapere chi è questo Vermilinguo. Era davvero il consigliere del re?».

«Lo era», rispose Aragorn. «Ed era anche la spia e il servitore di Saruman a Rohan. Il fato gli ha reso quel che meritava, senza alcuna pietà. Vedere distrutto tutto ciò ch’egli credeva potente e magnifico dev’essere stato quasi un castigo sufficiente. Ma temo che l’attendano cose peggiori».

«Sì, suppongo che Barbalbero non l’abbia spedito ad Orthanc per pura gentilezza», disse Merry. «Sembrava che la faccenda gli procurasse un certo malizioso piacere, e l’ho visto ridere tutto soddisfatto quando andava a farsi il bagno e a bere. Poi ci siamo dati molto da fare per cercare fra i relitti e frugare ovunque. Trovammo un paio di magazzini nelle vicinanze, che non erano stati raggiunti dalle acque. Ma Barbalbero mandò qualche Ent a portarsi via gran parte della roba.

«“Abbiamo bisogno di mangime umano per venticinque”, dissero gli Ent, e ciò dimostra che qualcuno aveva accuratamente contato i membri della vostra compagnia prima che arrivaste. È chiaro che voi sareste dovuti andare con la gente importante, ma non avreste pranzato meglio. Abbiamo, sì, mandato loro cose buone, ma ne abbiamo conservate altrettante per noi, ve lo assicuro. Anzi, di più, poiché non abbiamo inviato loro nulla da bere.

«“E da bere?”, chiesi agli Ent.

«“Abbiamo l’acqua dell’Isen”, risposero, “e va bene tanto per noi quanto per gli Uomini”. Ma spero che gli Ent abbiamo fatto in tempo a preparare qualcuna delle loro pozioni a base d’acqua di sorgiva, così potremo vedere riccioli nella barba di Gandalf quando torna. Gli Ent se ne andarono, e noi eravamo stanchi ed affamati. Ma non protestammo: le nostre fatiche erano state largamente ricompensate. Durante la ricerca di mangime umano Pipino aveva infatti scoperto il bottino più prezioso fra tutti i relitti, i barilotti di Soffiatromba. “L’erba-pipa è migliore dopo colazione”, disse Pipino; ed è perciò che ci trovaste intenti a fumare».

«Ora comprendiamo tutto perfettamente», disse Gimli

«Tutto, salvo una cosa», ribatté Aragorn: «la Foglia del Decumano Sud a Isengard. Più vi rifletto e più mi pare curioso. Non ero mai venuto a Isengard, ma ho fatti parecchi viaggi in questo paese, e conosco bene le campagne desertiche che separano Rohan dalla Contea. Né merci né persone le hanno attraversate da molti anni a questa parte, per quel che ne so. Suppongo che Saruman avesse contatti segreti con qualcuno nella Contea. Tipi come Vermilinguo se ne possono trovare anche fuori del palazzo di Re Théoden. Avete visto se c’era una data sui barilotti?».

«Sì», rispose Pipino. «Era il raccolto del 1417, ossia dell’anno scorso; no, ormai di due anni fa, naturalmente; un’ottima annata». «Ah, bene, qualunque malvagità covasse nella Contea, adesso spero sia stroncata; e comunque sarebbe impossibile per noi, ora come ora, andare a prestare il nostro aiuto», disse Aragorn. «Ciò nonostante credo che ne parlerò a Gandalf, anche se può sembrare una faccenda poco importante fra tutte le grandi cose ch’egli ha da fare».

«Mi domando proprio che cosa stia facendo», disse Merry. «Il pomeriggio è ormai inoltrato. Andiamo a dare un’occhiata! Ora in ogni caso puoi entrare a Isengard, se vuoi, Grampasso. Ma non è una visione molto allegra».

CAPITOLO X LA VOCE DI SARUMAN

Attraversarono la galleria crollata, e da un mucchio di sassi guardarono la cupa roccia di Orthanc dalle molte finestre, una minaccia ancora, pur in mezzo a tanta desolazione. L’acqua ormai era quasi interamente assorbita. Qua e là restava qualche lurida pozzanghera, ricoperta di feccia e di detriti, ma la maggior parte dell’ampio cerchio era di nuovo scoperta, un deserto di melma e massi franati, butterato di fori anneriti, di colonne e pilastri ubriachi inclinati in equilibrio precario. All’orlo della grande ciotola in frantumi si vedevano grossi mucchi e tumuli, simili a montagnole di ghiaia formate da un uragano; al di là, la verde vallata s’inoltrava nel profondo burrone fra le scure braccia della montagna. All’altra estremità dello spazio desolato scorsero dei cavalieri avanzare con cautela; giungevano dal lato nord e si stavano già avvicinando ad Orthanc.

«Ecco Gandalf, Théoden e gli uomini di scorta!», disse Legolas. «Andiamo loro incontro!».

«Cammina con precauzione!», disse Merry. «Ci sono lastre in bilico che potrebbero rovesciarsi e gettarti in un pozzo, se non stai attento».

* * *

Percorsero ciò che un tempo era la via che dai cancelli conduceva ad Orthanc, camminando lentamente, perché la pavimentazione era piena di crepe e coperta di melma. I cavalieri, vedendoli avvicinare, si fermarono all’ombra di una roccia ad aspettarli. Gandalf continuò a cavalcare verso di loro.

«Ebbene, Barbalbero e io abbiamo discusso proficuamente e fatto qualche piano», disse; «e poi per tutti c’è stato il meritato riposo. Ora dobbiamo riprendere il cammino. Spero che anche voi vi siate riposati e rifocillati».

«Eccome!», rispose Merry. «Ma le nostre discussioni incominciarono e finirono in fumo. Eppure ci sentiamo meno maldisposti di prima nei confronti di Saruman».

«Davvero?», disse Gandalf. «Ebbene, io no. Mi rimane un ultimo compito prima di partire: fare a Saruman una visita d’addio. Sarà una cosa pericolosa e probabilmente anche inutile, ma è indispensabile. Chi lo desidera può accompagnarmi… ma attenti! E niente scherzi! Non è il momento adatto».

«Io verrò con te», disse Gimli. «Voglio vederlo, e scoprire se effettivamente vi rassomigliate».

«E come farai a scoprirlo, Messer Nano?», disse Gandalf. «Se sapesse che gli può essere utile, Saruman potrebbe benissimo far sì che i tuoi occhi lo vedano simile a me. E sei tu abbastanza saggio per non lasciarti ingannare dalle sue finzioni? Beh, forse lo vedremo. Può darsi che sia riluttante a mostrarsi a tante persone diverse riunite. Ma ho pregato tutti gli Ent di allontanarsi dalla sua vista, e forse in tal modo lo persuaderemo ad uscire».

«Ma qual è il pericolo?», domandò Pipino. «Potrà colpirci, O lanciare fuoco dalle sue finestre? O ammaliarci da lontano con qualche incantesimo?».

«L’ultima ipotesi è la più probabile, per chi dovesse avvicinarsi alla sua porta incautamente», rispose Gandalf. «Ma non si può mai sapere cosa sarebbe capace di fare o di tentare. Una bestia feroce che non ha più scampo è sempre pericolosa. E Saruman possiede poteri che non immagini nemmeno. Attento alla sua voce!».

* * *

Giunsero ai piedi di Orthanc. La roccia era nera, e riluceva come se fosse bagnata. Gli speroni sfaccettati avevano bordi aguzzi come lame appena affilate. Qualche graffio e alcune sottili schegge alla base erano le uniche tracce visibili della furia degli Ent.

Dalla parte orientale, all’angolo di due banchine, vi era una grande porta assai alta al di sopra del livello del terreno; più in alto si scorgeva una finestra sprangata, che dava su di un balcone dalla balaustra di ferro. Una rampa di ventisette ampi scalini, creati da qualche ignoto artefice nella medesima pietra nera, conduceva alla soglia della porta. Era questo l’unico ingresso della torre; ma molte lunghe finestre dai vani assai profondi si aprivano nella rupe a strapiombo: sbirciavano come piccoli occhi dall’alto delle ripide pareti.

Ai piedi della scalinata Gandalf ed il re smontarono da cavallo. «Io salirò», disse Gandalf. «Sono già stato ad Orthanc e so quale pericolo corro».

«Anch’io intendo salire», disse il re. «Sono vecchio, e non temo più, ormai, nessun pericolo. Voglio parlare col nemico che mi ha fatto tanti torti. Éomer mi accompagnerà, e farà sì che i miei vecchi piedi non mi tradiscano».

«Come vuoi», disse Gandalf. «Aragorn verrà con me. Gli altri ci attendano ai piedi della scalinata: anche da qui potranno udire e vedere, ammesso che vi sia qualcosa da udire e da vedere».

«No!», esclamò Gimli. «Legolas ed io vogliamo osservare più da vicino. Siamo i soli qui a rappresentare le nostre razze. Anche noi saliremo».

«Allora venite!», disse Gandalf e si mise a salire le scale, con Théoden al suo fianco.

I Cavalieri di Rohan sedevano irrequieti sui loro cavalli da ambedue i lati della scala, lanciando sguardi cupi in direzione della grande torre, timorosi che potesse accadere qualcosa al loro sire. Merry e Pipino, rannicchiati sull’ultimo gradino, si sentivano al tempo stesso poco importanti e poco al sicuro.

«Mezzo miglio di fanghiglia da qui al cancello!», mormorò Pipino. «Se almeno riuscissi a tornare quatto quatto nella guardiola! Perché diamine siamo venuti! Non siamo desiderati».

Gandalf, ritto innanzi alla porta di Orthanc, bussò forte col suo bastone. Rimbombò un suono cavernoso. «Saruman, Saruman!», tuonò con voce forte e imperiosa. «Saruman, fatti avanti!».

Da principio non giunse risposta. Infine la finestra sopra la porta venne aperta, ma nessuno comparve nel buio vano.

«Chi è?», disse una voce. «Che cosa volete?».

Théoden sussultò. «Conosco quella voce», disse, «e maledico il giorno che cominciai ad ascoltarla».

«Va’ a cercare Saruman, visto che sei divenuto il suo servo, Grima Vermilinguo!», disse Gandalf. «E non ci far perdere tempo!».

La finestra si richiuse. Aspettarono. Improvvisamente si udì un’altra voce, lenta e melodiosa, il cui suono era già di per sé un incantesimo. Coloro che l’ascoltavano imprudentemente, di rado riuscivano a riferire le parole che avevano udito, e se vi riuscivano rimanevano stupefatti, perché sembravano spoglie di qualunque potere. Rammentavano soltanto, di solito, che era una delizia ascoltare quella voce, e che tutto ciò che essa diceva pareva saggio e ragionevole: nasceva allora in essi il desiderio di sembrare anche loro saggi, accondiscendendo rapidamente. Quando qualcun altro prendeva la parola, dava per contrasto l’impressione di essere rozzo e goffo, e se contraddiceva l’incantevole voce, nel cuore di chi era soggiogato avvampava la collera. Per alcuni l’incantesimo durava solo finché la voce si rivolgeva a loro personalmente, e quando parlava a qualcun altro essi sorridevano come chi ha indovinato il trucco di un prestigiatore, mentre gli altri sono ancora sbalorditi. A molti bastava udirne il suono per essere avvinti; vi erano infine i succubi, coloro che rimanevano vittime dell’incantesimo e che ovunque fossero udivano la dolce voce bisbigliare istigandoli. Ma sino a quando il padrone la controllava, nessuno rimaneva impassibile, nessuno riusciva a respingerne le implorazioni e i comandi se non con l’aiuto di una grande forza di volontà e di spirito.

«Ebbene?», fu la prima gentile domanda. «Perché disturbate il mio riposo? Non volete dunque accordarmi pace né di notte né di giorno?». Il tono era quello di un cuore affettuoso affranto da ingiustizie immeritate.

Essi levarono sorpresi lo sguardo, perché Saruman era giunto senza il minimo rumore: videro allora affacciata al balcone una figura che li guardava. Era un vecchio avviluppato in un grande manto dal colore difficilmente discernibile, poiché mutava ogni volta che si spostavano gli occhi o ch’egli si muoveva. Aveva un viso lungo, dalla fronte alta, ove due occhi profondi, ch’era impossibile scandagliare, parevano ora gravi e benevoli, e un po’ stanchi. Capelli e barba erano bianchi, ma intorno alle labbra e alle orecchie si scorgeva ancora qualche ciocca nera.

«Simile eppur dissimile», mormorò Gimli.

«Ma suvvia!», disse la dolce voce. «Fra voi ve ne sono due di cui conosco il nome. Gandalf lo conosco troppo bene per poter sperare che venga qui in cerca d’aiuto o di consigli. Ma quanto a te, Théoden, Sire del Mark di Rohan, ti riconosco dai nobili ornamenti e ancor più dallo splendido aspetto che contraddistingue la Casa d’Eorl. O valoroso figlio di Thengel dalla Triplice Nomea! Perché non sei venuto prima, e in qualità d’amico? Da tempo desideravo vederti, o più potente dei re occidentali, e in particolar modo in questi ultimi anni, onde salvarti dagli imprudenti e malvagi consigli che ti assillavano! È già forse troppo tardi? Malgrado tutte le offese che mi sono state fatte e alle quali, ahimè, gli Uomini di Rohan hanno preso parte, io potrei ancora salvarti, e proteggerti dalla disfatta che si avvicina inevitabile se prosegui lungo il sentiero che hai preso. Sono davvero il solo che possa aiutarti».

Théoden aprì la bocca come per parlare, ma non disse nulla. Levò lo sguardo su Saruman che lo fissava con i suoi profondi occhi solenni, e poi lo volse su Gandalf al suo fianco: sembrava esitare. Gandalf non si mosse; rimase immobile e silenzioso come pietra, come chi attende pazientemente che venga chiamato il suo turno. Sulle prime i Cavalieri si agitarono, mormorando la loro approvazione per le parole di Saruman, e poi tacquero anch’essi, soggiogati dal sortilegio. Parve loro che mai Gandalf si fosse rivolto al loro sire con parole così splendide e appropriate. Duri e orgogliosi apparivano ora tutti i suoi discorsi fatti a Théoden; nei loro cuori incominciò a penetrare un’ombra, il timore di un grande pericolo: la fine del Mark in un oscuro baratro ove Gandalf li stava conducendo, mentre Saruman schiudeva la porta della salvezza, dalla quale entrava un raggio di luce. Seguì un momento di pesante silenzio.

Fu Gimli il Nano a interromperlo improvvisamente. «Le parole di questo stregone non hanno né capo né coda», ruggì, afferrando l’impugnatura della sua ascia. «Nella lingua di Orthanc aiuto significa rovina e salvare significa uccidere, è chiaro. Ma non veniamo qui a chiedere favori».

«Pace!», disse Saruman, e per un istante la sua voce fu meno soave, mentre una luce gli balenò negli occhi. «Non mi sono ancora rivolto a te, Gimli figlio di Glóin», disse. «La tua casa è assai lontana, ed i fatti di questo paese ti riguardano ben poco. Non di tua propria iniziativa vi fosti coinvolto, ed è per questo che non biasimo il ruolo che vi hai recitato… un ruolo senz’alcun dubbio valoroso. Ma ti prego, permettimi di parlare prima col Re di Rohan, mio vicino e un tempo mio amico.

«Che hai da dirmi, Re Théoden? Vuoi la pace con me, e tutto l’aiuto che ti potrà dare la mia sapienza, acquisita in lunghi anni? Vuoi che uniamo i nostri sforzi per lottare contro i giorni malvagi e riparare i danni subiti con tale buona volontà da far rifiorire più splendide di prima le nostre terre?».

Théoden continuò a tacere. Nessuno avrebbe saputo dire se stesse lottando contro la collera o contro il dubbio. Fu invece Éomer a parlare.

«Sire, ascoltami!», disse. «Ora sentiamo il pericolo del quale ci avevano avvertiti. Abbiamo forse arduamente conquistato la vittoria per finire immobili e stupefatti avanti a un vecchio bugiardo col miele sulla lingua biforcuta? È così che il lupo braccato parlerebbe ai cani, se potesse. Che aiuto ti può dare, in verità? Tutto ciò che desidera è di scampare dalla situazione in cui si trova. Ti presti dunque a discutere con quest’esperto in tradimenti ed assassinii? Ricorda Théodred ai Guadi e la tomba di Hàma nel Fosso di Helm!».

«Parlando di lingue velenose, che cosa dovremmo dire della tua, giovane vipera?», disse Saruman, e il bagliore di collera del suo viso fu evidente. «Ma suvvia, Éomer figlio di Éomund!», proseguì con tono nuovamente affabile. «A ognuno la propria parte. La tua è il valore guerriero, e alti meriti ed onori essa ti procura. Uccidi coloro che il tuo sire chiama nemici e sii contento. Non t’immischiare in trattative che non comprendi. Forse, se un giorno diventerai re, capirai che un re deve scegliere con cura le sue amicizie. L’appoggio di Saruman e la potenza di Orthanc non si possono scartare senza riflettere, unicamente in nome di qualche offesa, vera o immaginaria. Hai vinto una battaglia ma non una guerra… e vi sei riuscito grazie ad un aiuto sul quale non potrai più contate. Potresti trovare l’Ombra del Bosco innanzi alla tua porta da un momento all’altro: è capricciosa e insensibile, e non ama gli Uomini.

«Ma mio sire di Rohan, devo sentirmi chiamare assassino perché dei valorosi sono caduti in combattimento? Se mi fai guerra, e inutilmente (poiché io non lo desideravo) è inevitabile che vi siano dei morti. Ma se per questo m’incolpate d’assassinio, allora tutta la Casa di Eorl è macchiata del medesimo crimine; ha infatti combattuto più di una guerra, e ha assalito chi la sfidava. Ciò nonostante, con alcuni avete poi fatto pace; e non vi recò alcun danno essere saggi. È ciò che ti propongo, Re Théoden: vuoi che fra noi vi sia pace e amicizia? Tocca a noi decidere».

«Voglio che vi sia la pace», disse infine con voce pesante e sforzata Théoden. Parecchi Cavalieri esultarono. Théoden levò il braccio. «Sì, voglio la pace», disse ora con tono chiaro e deciso, «e la avrò quando tu e tutte le tue opere sarete distrutti, insieme con le opere del tuo oscuro padrone al quale vorresti consegnarci. Sei un bugiardo, Saruman, e un corruttore di cuori. Mi tendi la mano, e scorgo un dito delle grinfie di Mordor. Freddo e crudele! Anche se la tua guerra contro di me fosse giusta (e non lo è, perché non hai il diritto di dominare me e la mia gente per il tuo profitto), anche se tu fossi dieci volte più saggio, come giustificheresti le torce accese nell’Ovestfalda ed i bimbi morti che giacciono lì? E perché tagliarono a pezzi il corpo di Hàma dopo averlo ucciso avanti alle porte del Trombatorrione? Quando ti vedrò penzolare fuori della tua finestra appeso a una forca per il divertimento dei tuoi cari corvi, vi sarà la pace fra me ed Orthanc. Ho parlato per la Casa di Eorl. Sono un erede forse indegno di grandi antenati, ma non ho bisogno di leccarti le mani. Rivolgiti altrove. Ma temo che la tua voce abbia perduto il suo fascino».

I Cavalieri fissarono Théoden come fossero stati svegliati di soprassalto da un sogno. Aspra come il gracchiare di una vecchia cornacchia pareva la voce del loro padrone dopo la musica di Saruman. Questi fu per qualche istante sopraffatto dalla collera; si chinò dalla balaustra come se volesse colpire il Re col suo bastone. Ad alcuni Parve di vedere all’improvviso svolgersi un serpente pronto a ferire.

«Forche e cornacchie!», sibilò, e tutti rabbrividirono al ripugnante cambiamento. «Vecchio rimbambito! La Casa di Eorl non è altro che una capanna di paglia dove i briganti bevono in mezzo al fetore, mentre i loro bambini si rotolano per terra insieme con i cani! Da troppo tempo sono scampati alla forca. Ma il nodo scorsoio si avvicina, lento all’inizio, duro e stretto alla fine. Impiccatevi se volete!». La sua voce cambiò di nuovo mentre egli cercava di dominarsi. «Non so perché io abbia avuto la pazienza di parlarti. Non ho bisogno di te, né dei tuoi cavallerizzi pronti a fuggire quanto ad avanzare, Théoden Signore dei Cavalli. Tempo addietro ti offrii una situazione assai al di sopra dei tuoi meriti e del tuo cervello; te l’ho proposta una seconda volta, affinché coloro che tu conducesti sulla cattiva strada potessero farsi un’idea chiara di ciò che avevi scelto. Mi hai risposto con millanterie ed offese. Così sia. Ritorna alle tue capanne!

«Ma tu, Gandalf! Mi addolora vedere la tua vergogna. Com’è possibile che tu tolleri gente simile, tu che sei orgoglioso, e non senza motivo, perché hai uno spirito nobile, e occhi che guardano profondo e lontano. Anche ora non vuoi sentire i miei consigli?».

Gandalf si mosse e levò lo sguardo. «Che cos’hai da dire che non dicesti durante il nostro ultimo colloquio?», domandò. «O forse hai qualcosa da disdire?».

Saruman s’interruppe. «Disdire?», mormorò come perplesso. «Disdire? Tentai di consigliarti per il tuo bene, ma tu mi ascoltasti appena. Sei orgoglioso e non ami gli altrui pareri, avendo tu stesso una grande provvista di sapienza. Ma in quell’occasione sbagliasti, credo, interpretando male, a bella posta, le mie intenzioni. Temo che la mia ansietà di persuaderti mi abbia fatto perdere la pazienza; mi rincresce davvero. Non ero infatti mal disposto nei tuoi riguardi, e persino ora non lo sono, pur vedendoti ritornare in compagnia di violenti e di ignoranti. Come potrei? Non siamo forse ambedue membri di un alto ordine antico, il più eccelso della Terra di Mezzo? Profitteremmo in egual maniera della reciproca amicizia. Potremmo portare a buon termine molte cose unendo i nostri sforzi per sanare i disordini del mondo. Comprendiamoci a vicenda e dimentichiamo questa gente inferiore! Siano essi ad ubbidire alle nostre decisioni! Per il bene comune sono disposto a dimenticare il passato e a riceverti. Non vuoi consultarti con me? Non vuoi salire?».

Così grande fu il potere esercitato da Saruman nel suo ultimo sforzo, che nessuno dei presenti rimase impassibile. Ma ora l’incantesimo era di tutt’altro genere. Udivano le dolci rimostranze di un re benevolo a un ministro ch’egli, malgrado i suoi errori, amava tanto. Ma gli altri erano esclusi, ascoltavano dietro la porta parole che non erano dirette a loro, come bambini maleducati o stupidi servitori intenti ad origliare gli elusivi discorsi dei superiori, e preoccupati di ciò che avrebbe potuto toccarli da vicino. I due interlocutori erano plasmati in una materia più nobile; erano venerabili e saggi. Un’alleanza fra loro era inevitabile. Gandalf sarebbe salito nella torre nelle alte stanze di Orthanc, a discutere profondi problemi per loro del tutto incomprensibili. La porta sarebbe stata chiusa ed essi avrebbero atteso fuori che venissero distribuiti compiti o castighi. Persino nella mente di Théoden si fece strada il pensiero, l’ombra di un dubbio: «Ci tradirà; lo vedremo salire…. saremo perduti».

All’improvviso Gandalf rise. Le fantasie svanirono come una nube di fumo.

«Saruman, Saruman!», disse Gandalf continuando a ridere. «Saruman, hai sbagliato mestiere durante la tua vita! Avresti dovuto essere il giullare di un re, e guadagnarti il pane ed anche i galloni scimmiottando i suoi consiglieri. Ahimè!», s’interruppe, frenando la propria allegria. «Comprenderci a vicenda? Temo che mai potresti aspirare a comprendermi. Ma te, Saruman, ormai comprendo sin troppo bene. Ho un ricordo più preciso di quanto tu non creda dei tuoi atti e dei tuoi argomenti. Quando ti venni a trovare l’ultima volta, eri il carceriere di Mordor, ed ivi avresti dovuto mandarmi. No, l’ospite fuggito dal soffitto ci penserà su due volte prima di ritornare dalla porta. No, non credo che salirò. Ma ascolta, Saruman, per l’ultima volta! Perché non scendi? Isengard ha dimostrato di essere meno potente di quanto la tua speranza e la tua immaginazione ti facevano credere. Lo stesso potrebbe accadere ad altre cose in cui hai ancora fiducia. Non sarebbe bene allontanarti da qui per un certo tempo? Dedicarti forse a nuove imprese? Rifletti bene, Saruman; non vuoi scendere?».

Un’ombra passò sul volto di Saruman, che divenne poi d’un pallore mortale. Prima che riuscisse a nasconderla, si intravide attraverso la sua maschera l’angoscia di una mente combattuta dal dubbio, dall’odio per ciò che lo tratteneva e dal terrore di abbandonare il proprio rifugio. Per un attimo esitò, e tutti rimasero senza fiatare. Poi si mise a parlare, e la sua voce era stridula e fredda. L’orgoglio ed il livore stavano riprendendo il sopravvento.

«Scendere?», disse beffardo. «Può forse un uomo disarmato scendere a parlare con dei ladri fuori della propria dimora? Ti odo benissimo anche da qui. Non sono uno stolto, e non mi fido di te, Gandalf. Anche se non sono qui sulle mie scale, so che i selvaggi demoni dei boschi stanno all’agguato in attesa dei tuoi ordini».

«I traditori sono sempre diffidenti», rispose Gandalf con tono stanco. «Ma non devi temere per la tua vita. Non intendo ucciderti né farti del male, e lo sapresti, se mi capissi veramente. Io ho il potere di proteggerti, e ti sto offrendo l’ultima occasione. Puoi lasciare Orthanc, libero…, se lo desideri».

«Sembra quasi una buona proposta», rispose beffardo Saruman. «Tipica di Gandalf il Grigio: così condiscendente, e tanto gentile. Non dubito che troveresti Orthanc spazioso e la mia partenza assai conveniente. Ma perché dovrei voler partire? E che cosa intendi con “libero”? Ci sono condizioni, presumo; non è così?».

«I motivi che giustificherebbero una tua partenza li puoi vedere dalla finestra», rispose Gandalf. «Altri ti verranno in mente: i tuoi servitori sono distrutti e dispersi; i tuoi vicini ti sono diventati nemici; infine hai ingannato il tuo nuovo padrone, o almeno hai tentato di farlo. Quando il suo occhio si volgerà verso questi luoghi, sarà rosso di collera. Ma quando dico “libero”, intendo “libero”: libero da legami, da catene e da ordini, libero di andare dove vorrai, persino a Mordor, Saruman, se lo desideri. Ma prima mi consegnerai la Chiave di Orthanc, e il tuo bastone. Saranno tenuti in pegno della tua condotta, e ti verranno restituiti se li meriterai».

Il viso di Saruman divenne livido, contorto dalla rabbia, mentre una luce rossa gli covava negli occhi. Rise come un pazzo. «Restituiti!», gridò e la sua voce era quasi un urlo. «Restituiti! Sì, quando avrai anche le Chiavi di Barad-dûr, suppongo; e le corone di sette re, ed i bastoni dei Cinque Stregoni; quando ti sarai comperato un paio di stivali assai più grandi di quelli che porti adesso. Un piano modesto. Non è necessario il mio aiuto! Ho altre cose da fare. Non essere sciocco. Se vuoi trattare con me finché ne hai ancora l’opportunità, vattene e ritorna quando avrai ritrovato il senno! E non portare con te questi tagliagole e tutta la gentaglia che ti penzola dietro! Buon giorno!». Si volte e lasciò il balcone.

«Ritorna, Saruman!», disse Gandalf con tono perentorio. Con enorme stupore gli altri videro Saruman voltarsi di nuovo verso di loro e, come trascinato contro la propria volontà, avvicinarsi alla ringhiera di ferro e appoggiarvisi respirando affannosamente. Il suo viso era segnato e appassito. La mano che stringeva il pesante bastone nero pareva un artiglio.

«Non ti ho dato il permesso di andartene», disse Gandalf aspramente. «Non ho finito. Sei diventato uno stolto, Saruman, eppur pietoso. Avresti potuto abbandonare follia e malvagità ed essere utile a qualcosa. Ma hai scelto di rimanere, rimuginando sulla fine dei tuoi vecchi intrighi. Resta dunque! Ma ti avverto, non ti sarà facile trovare un’altra via d’uscita. A meno che le oscure mani dell’Est non si allunghino esse stesse per afferrarti e trascinarti via. Saruman!», gridò, ed il potere e l’autorità della sua voce aumentarono ancora. «Osserva, io non sono Gandalf il Grigio che tu tradisti. Sono Gandalf il Bianco, ritornato dalla morte. Ora tu non hai più colore, e io ti espello dall’ordine e dal Consiglio».

Levò la mano, e parlò con voce limpida e fredda. «Saruman, il tuo bastone è rotto». Si udì uno schianto e il bastone si spezzò nella mano di Saruman; l’impugnatura cadde ai piedi di Gandalf. «Va”!», disse questi. Con un grido Saruman scomparve e strisciò via. In quell’istante un oggetto pesante e lucido cadde dall’alto con fracasso. Rimbalzò sulla ringhiera di ferro mentre Saruman lasciava la presa, e passando accanto alla testa di Gandalf colpì il gradino sul quale egli sedeva. La ringhiera vibrò e si schiantò. La scala scricchiolò e scheggiandosi lanciò scintille sfavillanti. Ma la palla era intatta: rotolò sino all’ultimo gradino, un globo di cristallo, scuro, ma dal cuore incandescente. Mentre balzava verso una pozzanghera Pipino corse a raccoglierlo.

«Canaglia e assassino!», gridò Éomer. Ma Gandalf rimase indifferente. «No, non è stato lanciato da Saruman», disse, «e nemmeno per suo ordine, credo. Proviene da una finestra assai più alta. Un tiro d’addio di Messer Vermilinguo, immagino, ma la mira era difettosa».

«Forse lo era perché egli non riusciva a decidere chi odiare di più, te o Saruman», disse Aragorn.

«Può darsi» rispose Gandalf. «Poco conforto troveranno quei due nella reciproca compagnia: si roderanno a vicenda con le parole. Ma la punizione è giusta. Se Vermilinguo dovesse uscire vivo da Orthanc, sarebbe una ricompensa non meritata.

«Dai qua, ragazzo, lo prenderò io! Non ti ho chiesto di maneggiarlo», esclamò, voltandosi all’improvviso e vedendo Pipino risalire lentamente le scale, come se stesse portando un pesante fardello. Gli andò incontro e tolse velocemente lo scuro globo dalle mani dell’Hobbit, avvolgendolo nelle falde del proprio mantello. «Ne avrò cura io», disse. «Non è un oggetto che Saruman avrebbe desiderato gettare via».

«Ma potrebbe avere altre cose da lanciare», disse Gimli. «Se la discussione è terminata, allontaniamoci almeno, per evitare di essere colpiti da qualche sasso!».

«La discussione è terminata», disse Gandalf. «Andiamo».

* * *

Volsero le spalle alle porte di Orthanc e scesero le scale. I Cavalieri accolsero il re con esclamazioni di gioia, e salutarono Gandalf. L’incantesimo di Saruman era infranto: l’avevano veduto avvicinarsi, chiamato a gran voce, e strisciar via, bruscamente licenziato.

«Ebbene, questa è fatta», disse Gandalf. «Ora devo trovare Barbalbero e dirgli come sono andate le cose».

«L’avrà certo immaginato, suppongo!», disse Merry. «Potevano forse andare altrimenti?».

«No, era pressoché impossibile», rispose Gandalf, «eppure per un attimo la bilancia fu in equilibrio. Ma avevo delle ragione per tentare; alcune misericordiose, altre meno. Innanzi tutto Saruman ha potuto constatare che il potere della sua voce sta diminuendo: non può essere contemporaneamente tiranno e consigliere. Quando il complotto è pronto, è impossibile tenerlo segreto. Tuttavia è caduto nella trappola, cercando di trattare con le sue vittime una per una mentre gli altri ascoltavano. Allora gli ho fatto un’ultima proposta alquanto generosa: rinunciare sia a Mordor che ai suoi piani personali e meritare il nostro perdono aiutandoci nel momento del bisogno. Nessuno meglio di lui conosce le nostre necessità. Avrebbe potuto renderci grandi servigi; invece ha preferito rifiutare e non rinunciare al dominio di Orthanc. Non vuole servire, vuole solo comandare. Vive ora nel terrore dell’ombra di Mordor, eppure sogna ancora di cavalcare un giorno in testa alla bufera. Povero stolto! Sarà divorato se la potenza dell’Est allunga le braccia verso Isengard. Noi non possiamo distruggere Orthanc dall’esterno, ma Sauron… chissà che cos’è capace di fare?».

«E se Sauron non vince la guerra? Che cosa farai a Saruman?», domandò Pipino.

«Io? Nulla!», disse Gandalf. «Non gli farò assolutamente nulla. Non desidero la supremazia. Che cosa gli accadrà? Lo ignoro. Mi rincresce che ciò che un tempo era scrigno di sapienza ora marcisca nella torre. Comunque per noi le cose non sono andate male. Strane sono le svolte del destino! Spesso l’odio si ritorce contro se stesso! Immagino che anche se fossimo entrati all’interno di Orthanc, vi avremmo trovato pochi tesori più preziosi dell’oggetto che Vermilinguo ci ha scagliato addosso».

Un urlo stridulo e improvvisamente soffocato si levò da una finestra aperta in cima al pinnacolo.

«Sembrerebbe che anche Saruman la pensi come me», disse Gandalf. «Lasciamoli!».

* * *

Ritornarono quindi alle rovine del cancello. Avevano appena attraversato l’arco che videro comparire dalle ombre dei cumuli di sassi ove erano rimasti nascosti, Barbalbero e una dozzina di altri Ent. Aragorn, Gimli e Legolas li fissarono stupefatti.

«Ecco tre dei miei compagni, Barbalbero», disse Gandalf. «Ti ho parlato di loro, ma ancora non li avevi conosciuti». Li nominò uno dopo l’altro.

Il Vecchio Ent li scrutò a lungo e poi si rivolse a ciascuno di loro. Con Legolas parlò per ultimo e disse: «Hai dunque percorso tutta la strada che ci separa dal Bosco Atro, mio buon Elfo? Era un’assai grande foresta, anticamente!».

«E lo è ancora», rispose Legolas. «Ma noi che vi dimoriamo non siamo mai stanchi di vedere nuovi alberi. Desidererei tanto visitare il Bosco di Fangorn! Vi ho appena messo piede, ma non sarei Più voluto tornare indietro».

Gli occhi di Barbalbero brillarono di contentezza. «Spero che il tuo desiderio si realizzi prima che i colli invecchino ancora», disse.

«Verrò, se la fortuna me lo permetterà», disse Legolas. «Ho fatto un patto col mio amico che, se tutto va bene, visiteremo insieme Fangorn… col tuo permesso».

«Accoglierò con piacere qualunque Elfo desideri accompagnarti», rispose Barbalbero.

«L’amico di cui parlo non è un Elfo», disse Legolas, «bensì Gimli, il figlio di Glóin che vedete qui». Gimli s’inchinò profondamente, e l’ascia scivolatagli dalla cinta cadde in terra con fragore.

«Huum, Hm! Ah, vedo!», disse Barbalbero guardandolo cupamente. «Un Nano portatore di un’ascia! Huum! Sono pieno di buona volontà nei confronti degli Elfi, ma tu chiedi troppo. Questa è un’amicizia assai strana!».

«Ti parrà forse strana», rispose Legolas, «ma finché vivrà Gimli io non mi recherò a Fangorn da solo. La sua ascia non è destinata agli alberi, bensì alle teste degli Orchi, o Fangorn, Padrone del Bosco di Fangorn. Ne ha tagliate ben quarantadue nel corso della battaglia».

«Huu! Che cosa mi dici mai!», esclamò Barbalbero. «Questa sì che è una storia allegra! Bene, bene, le cose andranno come vorranno gli eventi, inutile affrettare i tempi. Ma adesso dobbiamo separarci per qualche tempo. Il giorno sta per finire, e Gandalf dice che dovete partire prima del calar della notte, ed il Sire del Mark è ansioso di rivedere la sua dimora».

«Sì, dobbiamo partire, e subito», disse Gandalf. «Sarò costretto a privarti dei tuoi guardiani; ma non avrai più bisogno del loro aiuto».

«Forse no», rispose Barbalbero. «Però mi mancheranno molto. Siamo diventati amici in così breve tempo che ho l’impressione di star diventando frettoloso…. di far marcia indietro, forse, verso la gioventù. Vedi, sono la prima cosa nuova che vedo sotto sole e luna da molti e molti anni. Non li dimenticherò. Ho inserito il nome nella Lunga Lista. Gli Ent lo ricorderanno.

Ent vecchi come monti e dalla terra nati,

grandi camminatori e bevitori d’acqua;

Hobbit bimbi allegri e sempre affamati,

popolo ridente, di piccola gente,

rimarranno amici sin quando le foglie verranno rinnovate. Buon viaggio! Ma se avete notizie che mi possono interessare, nel vostro dolce paese, nella Contea, fatemelo sapere! Voi capite che cosa intendo dire: se vedete o udite parlare delle Entesse. Venite voi stessi, se vi è possibile!».

«Non dubitare!», esclamarono Merry e Pipino in coro, mentre si allontanavano velocemente. Barbalbero li osservò in silenzio, scuotendo pensieroso il capo. Poi si rivolse a Gandalf.

«Saruman si è dunque rifiutato di partire?», disse. «Me lo aspettavo. Il suo cuore è fradicio come quello di un nero Ucorno. Eppure anch’io, se fossi sopraffatto e tutti i miei alberi venissero distrutti, avendo un buco scuro ove nascondermi, non lo abbandonerei».

«No», disse Gandalf. «Ma tu non hai complottato per invadere il mondo coi tuoi alberi e soffocare ogni altro essere vivente. Ma poiché le cose stanno così, Saruman rimanga pure a cuocere il suo odio e a tessere altre trame d’intrighi. Ha lui la Chiave di Orthanc. Ma non deve assolutamente evadere».

«No davvero! E gli Ent vi provvederanno», disse Barbalbero. «Saruman non metterà piede fuori della sua rocca senza il mio permesso. Gli Ent lo sorveglieranno».

«Benissimo!», esclamò Gandalf. «È proprio quel che speravo. Ora posso andarmene e dedicarmi ad altre faccende con una preoccupazione in meno. Ma devi essere assai cauto. Il livello delle acque è sceso. Temo che non basti appostare sentinelle intorno alla torre. Senza dubbio vi erano profonde gallerie scavate sotto Orthanc, e Saruman spera di poter fra breve andare e venire indisturbato. Se non vi dispiace intraprendere una simile fatica, vi prego di voler riversare di nuovo le acque all’interno d’Isengard, sin quando non si sarà trasformato in uno stagno perenne o non abbiate scoperto gli sbocchi delle gallerie. Quando tutti i luoghi sotterranei saranno invasi dalle acque, e tutte le uscite bloccate, allora Saruman dovrà rimaner sulla sua torre e guardar fuori dalle finestre».

«Lascia fare agli Ent!», disse Barbalbero. «Scandaglieremo la valle da cima a fondo, scrutando sotto ogni sassolino. Degli alberi si apprestano a tornare a vivere qui, alberi vecchi, alberi selvaggi. Lo chiameremo Boscoguardio. Qualora vi penetrasse anche uno scoiattolo io lo saprei. Lascia fare agli Ent! Passeranno sette volte gli anni durante i quali egli ci ha torturato, prima che ci stanchiamo di sorvegliarlo».

CAPITOLO XI IL PALANTIR

Il sole stava calando dietro il lungo braccio occidentale delle montagne quando Gandalf e i suoi compagni, il re e i suoi Cavalieri partirono da Isengard. Gandalf prese Merry sul suo cavallo, ed Aragorn s’incaricò di Pipino. Due degli uomini del re cavalcarono veloci all’avanguardia e scomparvero tosto alla vista in fondo alla vallata. Gli altri seguirono con andatura più tranquilla.

Una solenne fila di Ent, in piedi come statue avanti al cancello, con le lunghe braccia alzate verso il cielo, assisteva silenziosa alla loro partenza. Merry e Pipino si voltarono a guardare quando ebbero percorso un breve tratto della strada serpeggiante. La luce del sole brillava ancora in cielo, ma già lunghe ombre si stendevano su Isengard: grigie rovine piombate nell’oscurità. Ora Barbalbero era solo, dritto come il ceppo di un vecchio albero: gli Hobbit pensarono al loro primo incontro sulla soleggiata sporgenza di rupe ai lontani margini di Fangorn.

Giunsero al pilastro della Bianca Mano. La colonna era ancora in piedi, ma la mano scolpita era stata gettata in terra e fatta a pezzi. Nel bel mezzo della strada giaceva il lungo indice, bianco nel crepuscolo, e la sua unghia rossa diventava lentamente nera.

«Gli Ent non trascurano alcun dettaglio!», disse Gandalf.

Continuarono a cavalcare, e la notte s’infittì nella valle.

* * *

«Hai intenzione di cavalcare parecchio questa notte, Gandalf?», domandò Merry dopo qualche tempo. «Non so come tu ti senta con questa misera gentaglia che ti penzola dietro; ma la gentaglia è stanca e sarà felice di smettere di penzolare e sdraiarsi un po’ a dormire».

«Perciò, anche tu l’hai sentito?», disse Gandalf. «Non sentirti ferito! Sii grato che non ti abbia rivolto parole assai più impudenti. Aveva messo gli occhi su di te. Se può in qualche modo consolare il tuo orgoglio, ti dirò che, ora come ora, tu e Pipino siete ciò che maggiormente occupa i suoi pensieri. Si domanda chi siete, come siete arrivati, perché, che cosa sapete; se eravate stati catturati, ed in tal caso come siate fuggiti mentre tutti gli Orchi sono stati uccisi: sono, questi, piccoli enigmi che rodono la grande mente di Saruman. Il suo sarcasmo, Meriadoc, è un complimento, se ti senti onorato dall’interesse che prova nei tuoi riguardi».

«Grazie!», esclamò Merry. «Ma è un onore ancor maggiore penzolare alla tua coda, Gandalf. Fra l’altro, è una posizione che permette di porre per la seconda volta una domanda. Hai intenzione di cavalcare molto questa notte?».

Gandalf rise. «Un Hobbit eternamente insoddisfatto! Tutti gli stregoni dovrebbero avere a disposizione un paio di Hobbit che insegnino loro il significato delle parole e li correggano. Ti chiedo scusa, ma mi sono preoccupato anche di queste piccole faccende. Cavalcheremo ancora qualche ora, lentamente, sino al limite della valle. Domani avanzeremo più rapidamente.

«Quando arrivammo intendevamo ritornare direttamente da Isengard alla dimora del re a Edoras, al di là delle pianure, un viaggio di parecchi giorni. Ma abbiamo riflettuto e mutato il piano. Dei messaggeri sono stati spediti al Fosso di Helm per avvertire che il re ritorna domani. Quindi proseguirà con un folto seguito la sua cavalcata verso Dunclivo, percorrendo sentieri che passano fra i colli. Da ora in poi bisogna assolutamente evitare che più di due o tre persone insieme attraversino l’aperta campagna, sia di notte che di giorno».

«Tu, o non dai nulla o dai doppia razione!», esclamò Merry. «Temo di non essermi preoccupato di ciò che verrà dopo il riposo notturno. Dov’è e cos’è il Fosso di Helm e tutto il resto? Ignoro tutto di questo paese».

«Allora faresti bene ad imparare, se desideri comprendere ciò che sta accadendo. Ma non in questo momento, e non da me: ho troppi problemi urgenti da risolvere».

«Va bene, interpellerò Aragorn accanto al fuoco di campo: è meno stizzoso. Ma perché tanta segretezza? Credevo che avessimo vinto la battaglia».

«Sì, l’abbiamo vinta, ma è solo la prima, e ciò non fa che aumentare il pericolo che corriamo. Vi era qualche legame fra Isengard e Mordor che non ho ancora scoperto. Come si scambiassero le informazioni, lo ignoro, ma certamente lo facevano. L’Occhio di Barad-dûr si poserà impaziente sulla Valle dello Stregone, e credo anche su Rohan. Meno vedrà, meglio sarà». La via scorreva lenta, serpeggiando per la valle. Ora vicino, ora distante, l’Isen fluiva nel suo letto sassoso. La notte discese dalle montagne. La nebbia era del tutto scomparsa. Un vento gelido soffiava. La luna, ormai tonda, empiva il cielo orientale di un pallido lustro freddo. I contorni delle montagne alle loro spalle scendevano in dolce pendio sino ai colli brulli. Le ampie pianure grigie si aprivano innanzi a loro.

Infine si fermarono. Poi, deviando dalla strada maestra, si avviarono lungo i morbidi declivi erbosi. Procedendo per circa un miglio giunsero in una vallata; era aperta a sud, e dall’altra parte si appoggiava al tondeggiante Dol Baran, l’ultimo colle delle catene settentrionali, dalle verdi falde e dalla corona d’erica. I lati della valle erano irti di felci secche fra le quali gli arricciati bocciuoli della primavera spuntavano in un terreno dolcemente profumato. Le basse pendici, ai piedi delle quali si accamparono una o due ore prima di mezzanotte, erano ricoperte di fitti rovi. Accesero un fuoco nell’incavo delle radici di un biancospino alto come un albero, avvizzito dagli anni, ma vigoroso in ogni suo membro; dei turgidi bocciuoli spuntavano su ogni ramo.

Organizzarono un turno di guardia di due sentinelle alla volta; gli altri, dopo aver pranzato, si avvolsero nei loro manti e nelle coperte e si misero a dormire. Gli Hobbit si coricarono insieme su di un mucchio di felci secche. Merry aveva sonno, ma Pipino era invece stranamente irrequieto. Le felci frusciavano e scoppiettavano mentre egli si girava e si rigirava.

«Che ti succede?», domandò Merry. «Ti sei sdraiato su un formicaio?».

«No», rispose Pipino, «ma non sto comodo. Mi chiedo da quanto tempo non dormo in un letto!».

Merry sbadigliò. «Contalo sulle dita», disse. «Ma dovresti sapere quanto tempo fa partimmo da Lórien».

«Ah, quello!», disse Pipino. «Io intendevo dire un vero letto in una camera».

«Beh, allora dai giorni di Gran Burrone», disse Merry. «Ma potrei dormire ovunque, questa notte».

«Sei stato fortunato, Merry», disse a bassa voce Pipino dopo un breve silenzio. «Eri a cavallo con Gandalf».

«Ebbene, che significa?».

«Sei riuscito ad avere notizie, informazioni?».

«Sì, parecchie. Più del solito. Ma hai udito tutto o pressappoco: eri vicino, e non stavamo svelando segreti. Ma puoi andar tu con lui domani, se credi di riuscire a scoprire qualcos’altro… e se lui ti vuole».

«Davvero posso? Bene! Ma è misterioso, non ti pare? Non è affatto cambiato».

«Oh, sì che lo è!», esclamò Merry un po’ più sveglio, incominciando a meravigliarsi delle preoccupazioni del suo compagno. «È cresciuto, o qualcosa del genere. Sa essere al tempo stesso più gentile e più preoccupante, più allegro e più solenne di prima, credo. È cambiato; ma ancora non abbiamo avuto l’opportunità di vedere quanto. Pensa soltanto alla conclusione del colloquio con Saruman! Se ricordi, Saruman un tempo era il superiore di Gandalf: capo del Consiglio, o qualcosa di simile. Era Saruman il Bianco. Ora Gandalf è il Bianco. Saruman si avvicinò quando ne ricevette l’ordine, ed il bastone gli fu tolto; poi fu congedato, e lui se ne andò!».

«Bene, se Gandalf, come dici tu, è cambiato, è semplicemente diventato ancor più misterioso di prima», ribatté Pipino. «Quella sfera di vetro, per esempio. Sembrava esserne quasi soddisfatto. Nemmeno una parola. Eppure io la raccolsi impedendo che rotolasse in uno stagno. “Dai qua, la prendo io, ragazzo mio”…, e nient’altro. Chissà che cos’è! Sapessi com’era pesante!». La voce di Pipino si fece quasi un sussurro, come se stesse parlando tra sé.

«Capisco!», esclamò Merry. «Ecco quel che ti preoccupa tanto! Ora Pipino, ragazzo mio, non dimenticare il motto di Gildor, quello che Sam citava sempre: “Non t’impicciare degli affari degli Stregoni, perché sono astuti e suscettibili”».

«Ma da mesi, ormai, non facciamo che impicciarci degli affari degli Stregoni», ribatté Pipino. «Oltre ai pericoli, gradirei qualche informazione. Vorrei dare uno sguardo a quella sfera».

«Dormi, piuttosto!», disse Merry. «Vedrai che prima o poi informazioni ne avrai. Caro Pipino, mai un Tuc fu più inquisitivo di un Brandibuck; ma ti par questo il momento giusto?».

«E va bene! Che male faccio dicendoti ciò che desidererei, ossia poter dare un’occhiata a quella pietra? So che non è possibile, col vecchio Gandalf seduto sopra come una gallina che cova. Ma non è un grande aiuto sentirti dire semplicemente non-la-puoi-avere-quindi-dormi!».

«Ebbene, che altro potrei dire?», protestò Merry. «Mi dispiace, Pipino, ma devi davvero aspettare sino a domattina. Sarò curioso quanto vorrai dopo colazione, e ti presterò tutto il mio aiuto nell’esplorazione di Stregoni e affini. Ma ora non riesco più a stare sveglio. Se continuo a sbadigliare la mia bocca finirà con lo spaccarsi sino alle orecchie. Buona notte!».

* * *

Pipino tacque. Adesso era immobile, ma il sonno non accennava a venire, tutt’altro che favorito dal lieve respiro di Merry, addormentatosi pochi attimi dopo aver augurato la buona notte. L’immagine dello scuro globo pareva farsi più intensa, ora che intorno regnava il silenzio. Pipino ne sentiva ancora il peso fra le mani, e rivedeva i misteriosi abissi rossi che aveva scrutati per un momento. Si girò e si rigirò cercando di pensare ad altro.

Infine, la situazione divenne intollerabile. Si alzò guardandosi intorno. Faceva assai freddo, e si avvolse nel proprio manto. La luna brillava gelida e bianca illuminando la valle, e le ombre dei cespugli erano nere. Era circondato da forme dormienti. Le due guardie non si vedevano: forse erano salite in cima alla collina, o nascoste fra le felci. Guidato da un misterioso impulso, Pipino si avvicinò silenziosamente al luogo dove era coricato Gandalf. Posò il suo sguardo su di lui: lo stregone pareva addormentato, ma non teneva le palpebre perfettamente chiuse: i suoi occhi scintillavano dietro le lunghe ciglia. Pipino indietreggiò rapidamente. Ma Gandalf rimase immobile; allora, attratto nuovamente in avanti quasi contro la sua volontà l’Hobbit strisciò in direzione della nuca dello stregone. Questi era avviluppato in una coperta sulla quale aveva steso il proprio mantello; accanto, fra il fianco destro ed il braccio ripiegato su se stesso, vi era un rigonfiamento, una cosa tonda avvolta in un panno scuro: sembrava che la mano con la quale la teneva fosse appena scivolata sul terreno.

Quasi senza fiatare, Pipino continuò ad avanzare, un passetto dopo l’altro; infine s’acquattò e con gesto furtivo prese l’oggetto e lo sollevò lentamente: era meno pesante di quanto non pensasse. «Sarà solo un fagotto di cianfrusaglie, dopo tutto», si disse con uno strano senso di sollievo; ma non lo rimise a posto. Rimase un attimo immobile stringendolo fra le mani. Poi gli venne un’idea. Si allontanò in punta di piedi e dopo aver preso una grossa pietra ritornò sui propri passi.

Tolse rapidamente il panno, vi avvolse la pietra, ed inginocchiandosi posò l’involto accanto alla mano dello stregone. Infine guardò ciò che aveva preso. Eccolo: un liscio globo di cristallo, scuro e spento, giaceva in terra davanti alle sue ginocchia. Pipino lo raccolse, ed avvolgendolo svelto nel proprio manto si apprestò a tornarsene a letto. In quel momento Gandalf si mosse nel sonno, mormorando qualche parola in una lingua ignota; allungando la mano afferrò la pietra, poi sospirò e rimase immobile.

«Che razza di stupido idiota!», borbottò sottovoce Pipino. «Ti sei cacciato in un terribile guaio. Rimettilo a posto, presto!». Ma si accorse che le gambe gli tremavano, e non ebbe il coraggio di avvicinarsi allo stregone tanto da poter rimediare. «Sarà impossibile ormai, senza svegliare Gandalf», si disse; «in ogni caso dovrò prima calmarmi; ne approfitterò per dargli un’occhiata, ma non qui dove mi trovo!». Si allontanò furtivamente, andando a sedere su di una verde collinetta non lontana dal suo giaciglio. La luna fece capolino sull’orlo della conca.

Pipino sedeva accovacciato stringendo il globo fra le ginocchia. Si curvò su di esso come un bambino goloso su un piatto di leccornie in un angolino nascosto. Aprendo il mantello, fissò intensamente la sfera: da principio gli parve scura, nera, lucente; i raggi di luna scintillavano sulla liscia superficie. Poi il nucleo centrale incominciò ad ardere calamitando il suo sguardo e impedendogli di distoglierlo. Presto tutto l’interno parve incandescente; la palla roteava, o forse vi erano luci nel suo centro che giravano vorticosamente su se stesse; ma improvvisamente si spensero. Pipino emise un’esclamazione e cercò di svincolarsi; ma rimase curvo con la sfera serrata fra le mani. Si chinò sempre più avanti e poi improvvisamente si irrigidì; le sue labbra si mossero ma nessun suono ne uscì. Con un urlo strozzato ricadde all’indietro e giacque immobile.

L’urlo stridulo fece saltar giù le sentinelle dai terrapieni; tutto l’accampamento fu in subbuglio.

* * *

«Ecco il ladro!», esclamò Gandalf. Gettò velocemente il proprio manto sulla sfera. «Proprio tu, Pipino! che brutta piega hanno preso gli eventi!». S’inginocchiò accanto al corpo dell’Hobbit che giaceva supino e rigido e fissava il cielo con occhi sbarrati. «Diavolo! quale danno ha causato a se stesso e a tutti noi!». Il volto dello stregone era teso e inquieto.

Prese la mano di Pipino, e curvandosi sul suo viso ne ascoltò il respiro; poi gli posò una mano sulla fronte. L’Hobbit rabbrividì. Gli occhi gli si chiusero; poi, levandosi improvvisamente e fissando attonito i visi intorno a lui, urlò con voce stridula ed atona, pallido sotto i raggi di luna.

«Non è per te, Saruman!», disse allontanandosi da Gandalf; «lo manderò a prendere immediatamente. Hai capito? Di’ solo questo!» Poi, con grande sforzo, tentò di alzarsi e fuggire; Gandalf lo trattenne gentilmente ma con fermezza.

«Peregrino Tuc!», disse. «Torna immediatamente qui!».

L’Hobbit si rilassò e cadde all’indietro, afferrando la mano dello stregone. «Gandalf!», gridò. «Gandalf, perdonami!».

«Perdonarti?», disse lo stregone. «Confessa prima quel che hai fatto!».

«Ho… ho preso la palla e l’ho guardata», balbettò Pipino; «ho visto cose spaventose. Volevo andarmene, ma non ne ero capace. Poi arrivò lui e mi fece delle domande, e mi guardò fisso, e… non ricordo altro».

«Così non può andare», disse Gandalf severamente. «Che hai veduto e che cos’hai detto?».

Pipino chiuse gli occhi e rabbrividì, ma non disse nulla. Tutti lo guardarono in silenzio, eccetto Merry che distolse lo sguardo. Ma il volto di Gandalf era ancora duro e inflessibile. «Parla!», disse. Con voce bassa ed esitante, Pipino ricominciò da capo, e man mano le parole si fecero più chiare e decise. «Ho visto un cielo cupo, e alte muraglie», disse. «E minuscole stelle. Ogni cosa pareva lontanissima e remota, eppure crudele e netta. Le stelle si spegnevano a intermittenza, oscurate dal passaggio di esseri alati. Credo che fossero in realtà assai grandi, ma nel vetro sembrava veder roteare dei pipistrelli intorno alla torre; ebbi l’impressione che ve ne fossero nove. Uno di essi puntò dritto su di me, diventando sempre più grande. Aveva un orribile… no, no! Non posso dirlo.

«Tentai di fuggire, perché credevo che sarebbe volato fuori dal globo; ma quando la sua ombra ebbe invaso tutta la sfera, improvvisamente scomparve. Poi venne lui. Non pronunciava parole, guardava soltanto, ed io capivo.

«“Così, sei tornato? Perché è passato tanto tempo senza che tu mi riferissi nulla?”.

«Non risposi. Egli domandò allora: “Chi sei?”. Continuai a tacere, ma mi sentivo straziare; e lui insisteva, tanto che infine dissi: “Un Hobbit”.

«Allora parve che improvvisamente mi vedesse, e mi rise in faccia. Era crudele. Mi sentivo come trafitto da mille pugnali. Cercai di svincolarmi, ma lo udii esclamare: “Aspetta un momento! Ci rincontreremo presto. Di’ a Saruman che quel gingillo non è per lui. Lo manderò a prendere immediatamente. Hai capito? Di’ solo questo!”.

«Mi guardò con gioia perversa, e mi parve di essere tagliato in piccoli pezzettini. No, no! Non posso dire altro. Non ricordo più nulla».

«Guardami!», disse Gandalf.

Pipino lo guardò dritto negli occhi; lo stregone lo fissò per un momento in silenzio. Poi il suo viso si raddolcì, ed apparve l’ombra di un sorriso. Posò affettuosamente la mano sul capo dell’Hobbit.

«Va bene!», disse. «Non ti domando altro! Non sei stato contagiato dal male. La menzogna non cova nel tuo sguardo, come temevo. Ma egli non ti parlò a lungo. Uno sciocco sei, Peregrino Tuc, ma uno sciocco onesto. Conosco dei saggi che si sarebbero comportati assai peggio, in una simile situazione. Ma ricorda! Siete stati salvati, tu ed i tuoi amici, da un colpo di fortuna, come si suol dire. Non ci puoi contare una seconda volta. Se ti avesse interrogato all’istante, assai probabilmente avresti rivelato tutto ciò che sai, causando la nostra rovina. Ma lui era troppo impaziente. Non si accontentava delle sole informazioni, voleva te, al più presto, onde poterti lentamente sondare nella Torre Oscura. Non rabbrividire! Se non puoi fare a meno d’impicciarti degli affari degli Stregoni, devi essere preparato al pensiero di simili eventualità. Suvvia! Ti perdono. Coraggio! Poteva andare molto peggio».

Sollevò con delicatezza Pipino e lo portò a letto. Merry li seguì e si sedette accanto al compagno. «Rimani qui coricato, e riposa, se ci riesci, Pipino!», disse Gandalf. «Abbi fiducia in me; se ti dovessero prudere di nuovo le dita dimmelo! Sono cose che si possono curare. Ma comunque, mio caro Hobbit, non rimettere pezzi di roccia sotto il mio gomito! Ora vi lascerò soli, voi due Hobbit, per qualche minuto».

* * *

E con ciò Gandalf si accostò agli altri, il cui inquieto pensiero era ancora rivolto alla pietra di Orthanc. «Il pericolo giunge di notte quando meno te lo aspetti», disse. «Siamo scampati per un soffio!». «Come sta l’Hobbit?», domandò Aragorn.

«Credo che fra poco gli sarà passato tutto», rispose Gandalf; «non fu trattenuto a lungo, e gli Hobbit hanno una straordinaria capacità di ripresa. Il ricordo, o almeno l’orrore della visione sbiadirà probabilmente assai presto. Troppo presto, forse. Vuoi tu, Aragorn, prendere la pietra di Orthanc e custodirla? È un pericoloso fardello».

«Davvero pericoloso, ma non per tutti», rispose Aragorn. «Vi è qualcuno che può rivendicarlo di dritto, poiché questo è senza dubbio il palantir di Orthanc che appartenne al tesoro d’Elendil, posto qui dai Re di Gondor. La mia ora sta per giungere. Lo custodirò io».

Gandalf guardò Aragorn, poi con stupore di tutti scoprì la pietra e s’inchinò nel presentargliela.

«Ricevila, sire!», disse; «sarà un pegno per tutte le altre cose che ti verranno restituite. Ma se mi è permesso consigliarti nell’uso di ciò che ti appartiene, non l’adoperare… non ancora! Sii cauto!».

«Mi sono forse mai mostrato frettoloso o incauto, io che ho atteso preparandomi per tanti lunghi anni?», disse Aragorn.

«No, ancora mai. Non inciampare quindi alla fine del cammino», rispose Gandalf. «Ma in ogni caso tienilo segreto, tu e tutti gli altri che sono qui con noi! Soprattutto Peregrino, l’Hobbit, non deve sapere dov’è conservato. L’attacco maligno potrebbe verificarsi nuovamente, perché ahimè! egli l’ha tenuto in mano, ed ha guardato nel globo, cosa che mai avrebbe dovuto fare. Mai avrebbe dovuto toccarlo a Isengard, e io non fui abbastanza svelto. Ma il mio pensiero era rivolto a Saruman, e immaginai troppo tardi quale fosse la natura della sfera. Adesso ne sono convinto».

«Sì, non vi possono essere dubbi», disse Aragorn. «Finalmente conosciamo il nesso fra Isengard e Mordor, e sappiamo come si svolgevano le cose. Molti misteri si spiegano».

«Strani poteri hanno i nostri nemici, e strane debolezze!», esclamò Théoden. «Ma è un antico detto che spesso il male si ritorce contro se stesso».

«Ciò accade sovente», disse Gandalf. «Ma noi questa volta siamo stati particolarmente fortunati. Forse questo Hobbit mi ha salvato da un tremendo passo falso. Stavo pensando se non fosse il caso di provare personalmente la sfera per rendermi conto delle sue funzioni. Se l’avessi fatto, avrei rivelato a lui la mia presenza. Non sono pronto ad affrontare una simile prova, e non credo che lo sarò mai. Ma anche trovando la forza necessaria per allontanarmi, sarebbe disastroso se egli mi vedesse, finché la segretezza è ancora per noi un’arma potente».

«Temo che ormai non lo sia più», disse Aragorn.

«No», disse Gandalf, «resta ancora un breve periodo d’incertezza che noi dobbiamo sfruttare. Il Nemico evidentemente credeva che la pietra si trovasse ad Orthanc: nulla di più naturale. Ne ha dedotto che l’Hobbit era prigioniero e che Saruman per torturarlo lo costringeva a guardare nella sfera. L’oscura mente non potrà fare a meno adesso di pensare con impazienza alla voce ed al viso dell’Hobbit: passerà forse un bel po’ di tempo prima che si renda conto dell’errore commesso. Dobbiamo cogliere l’occasione. Abbiamo agito con troppa calma; dobbiamo affrettarci. I dintorni d’Isengard non sono luoghi da frequentarsi. Partirò immediatamente con Peregrino Tuc: sarà meglio per lui, anziché giacere desto nell’oscurità mentre gli altri dormono».

«Terrò con me Éomer e dieci Cavalieri», disse il re. «Partiremo di prima mattina. Gli altri scorteranno Aragorn, e possono partire quando meglio credono».

«Come preferisci», disse Gandalf. «Ma cerca di giungere al più presto al riparo dei monti, al Fosso di Helm!».

* * *

In quel momento un’ombra li sovrastò. I luminosi raggi della luna furono improvvisamente offuscati; parecchi cavalieri gridarono, ed acquattandosi si portarono le mani sul capo, come per proteggersi da un colpo proveniente dall’alto: furono invasi dal panico e da un freddo mortale; accasciati, levarono lo sguardo. Un’immensa figura alata faceva ombra alla luna come una nube nera. Roteò e si diresse quindi verso nord, volando più rapida di qualunque vento della Terra di Mezzo. Le stelle le si sbiadirono innanzi, poi essa scomparve.

Si levarono in piedi, rigidi, come pietrificati. Gandalf guardava il cielo con le braccia tese lungo i fianchi e le mani contratte.

«Nazgûl!», esclamò. «Il messaggero di Mordor. La tempesta si avvicina. I Nazgûl hanno attraversato il Fiume! A cavallo, a cavallo! Non attendete l’alba! Che i più veloci non aspettino i più lenti! Partite!».

Balzò via di corsa chiamando Ombromanto. Aragorn lo seguì. Gandalf si recò da Pipino e lo prese in braccio. «Verrai tu con me, questa volta», disse. «Ombromanto ti farà provare la sua andatura». Poi ritornò nel punto in cui aveva dormito, e vi trovò il cavallo già pronto. Gettandosi in spalla il piccolo fagotto che costituiva il suo bagaglio, lo stregone gli balzò in groppa. Aragorn sollevò Pipino e lo depose, avvolto in un manto e in una coperta, fra le braccia di Gandalf.

«Addio! Seguitemi, presto!», gridò Gandalf. «Si parte, Ombromanto!».

Il grande destriero scrollò il capo. La coda fluente scintillò al chiaro di luna. Poi saettò via sdegnando la terra e scomparendo come il vento del Nord dalle montagne.

* * *

«Una bella notte riposante!», disse Merry ad Aragorn. «Certa gente ha una fortuna incredibile. Pipino non voleva dormire e voleva cavalcare con Gandalf… ed ecco fatto! Invece di venir pietrificato e condannato a rimanere per sempre qui immobile in segno di ammonimento!».

«Se fossi stato tu il primo a prendere in mano la pietra di Orthanc, invece di Pipino, che cosa sarebbe accaduto?», disse Aragorn. «Forse ti saresti comportato ancor peggio. Chissà! Ma ora la tua sorte è di venire con me, temo. Si parte subito. Preparati, e prendi tutto ciò che Pipino può aver lasciato. Presto!».

* * *

Ombromanto volava attraverso pianure e praterie, senza bisogno d’incoraggiamenti né d’indicazioni. Era trascorsa meno di un’ora, ed erano già arrivati ai Guadi dell’Isen. Li avevano passati, e il Tumulo dei Cavalieri con le fredde lance grigie era ormai lontano alle loro spalle.

Pipino stava ritornando in sé. Era accaldato, ma la frizzante brezza gli rinfrescava il viso. Aveva Gandalf accanto; l’orrore della pietra e l’immagine dell’immonda ombra sulla luna stavano scomparendo come oggetti obliati nelle nebbie delle montagne o in un sogno fugace. Trasse un profondo respiro.

«Non sapevo che tu cavalcassi a pelo, Gandalf», disse. «Non hai né sella né briglia!».

«Ombromanto è l’unico ch’io monti alla maniera elfica», disse Gandalf. «Rifiuta ogni bardatura. Non puoi dire di montare Ombromanto: è lui che accetta di portarti… o no. Se accetta, è più che sufficiente. È affar suo, in tal caso, far sì che tu gli rimanga in groppa, a meno che non sia tu stesso a lanciarti verso il cielo».

«Qual è la velocità del suo galoppo?», domandò Pipino. «Assai elevata, mi pare, in confronto al vento, ma regolare e costante. E con quanta leggerezza posa gli zoccoli!».

«Sta andando alla massima velocità raggiungibile dal cavallo più rapido», disse Gandalf; «ma per lui non è una forte andatura. La terra qui è in leggero pendio e più accidentata di quanto non fosse al di là del fiume. Ma guarda come si avvicinano i Monti Bianchi al lume di stelle! Lì in fondo si ergono come lance nere i picchi Thrihyrne. Fra breve giungeremo al crocevia ed alla Conca Fossato, dove due notti fa si svolse la battaglia».

Pipino rimase qualche tempo silenzioso. Udì Gandalf canticchiare sottovoce e mormorare brevi brani di un poema in parecchie lingue, mentre le miglia fuggivano dietro di loro. Infine lo stregone intonò una canzone di cui l’Hobbit poté distinguere le parole: qualche verso gli giunse chiaro e comprensibile alle orecchie malgrado il fragore del vento:

Alte navi ed alti re

Tre volte tre,

Che portaron da terre sommerse

Oltre il mare in tempesta?

Sette stelle e sette pietre

E un albero bianco.

«Che stai dicendo, Gandalf?», domandò Pipino.

«Stavo soltanto rimuginando qualche vecchio Poema di Sapienza», rispose lo stregone. «Gli Hobbit, suppongo, hanno dimenticato i pochi poemi che sapevano».

«No, ti sbagli», disse Pipino. «Anzi, ne abbiamo parecchi che parlano esclusivamente del nostro passato, e che forse non ti interesserebbero. Ma questo non l’avevo mai udito. Di che cosa parla? Che cosa sono le sette stelle e le sette pietre?».

«Parla dei palantiri dei Re dell’Antichità», rispose Gandalf

«E che cosa sono?».

«Il nome significa ciò che guarda lontano. La pietra di Orthanc era una di essi».

«Allora non fu fabbricata, non fu fatta», Pipino esitò, «dal Nemico?».

«No», rispose Gandalf. «E neppure da Saruman. Né lui né Sauron sarebbero capaci di creare un simile oggetto. I palantiri vengono da Eldamar, al di là dell’Ovesturia. Furono fatti dai Noldor; forse l’artefice fu proprio Fëanor, in giorni così lontani che il tempo non può misurarsi in anni. Ma non esiste nulla che Sauron non sappia adoperare per scopi malefici. Ahimè, misero Saruman! Comprendo ora che fu questa la sua rovina. È pericoloso per chiunque servirsi degli artifizi di un’arte di cui non sappiamo scandagliare gli abissi. Tuttavia la colpa è sua. Pazzo! Lo tenne segreto perché lo voleva tutto per sé. Non ne fece mai parola a nessuno del Consiglio, ed infatti noi ignoravamo che uno dei palantiri era scampato alla distruzione di Gondor. Gli estranei al Consiglio, Uomini ed Elfi, avevano persino obliato la loro esistenza, e rammentavano soltanto un Poema di Sapienza recitato dalla gente di Aragorn».

«Perché se ne servivano gli Uomini dell’antichità?», domandò Pipino, felice e stupefatto di sentirsi rispondere a tante domande, e curioso di vedere quanto tempo ancora sarebbe durato.

«Per vedere lontano e trasmettersi i pensieri», rispose Gandalf. «Fu così che custodirono e mantennero unito il reame di Gondor per tanto tempo. Installarono dei Globi a Minas Anor, a Minas Ithil e ad Orthanc nel cerchio d’Isengard. Il più potente fu posto sotto la Cupola di Stelle a Osgiliath prima che venisse distrutta. Gli altri erano assai lontani. Pochi sono ormai coloro che sanno ove si trovano gli altri, perché nessun poema lo narra. Ma nella casa di Elrond si dice che erano custoditi ad Annùminas e ad Amon Sûl, e la Pietra di Elendil si trovava sui Colli Torrioni che guardano verso Mithlond nel Golfo di Luhun dove sono ancorate le grigie navi.

«I palantiri potevano parlare indistintamente fra di loro, ma ad Osgiliath li potevano sorvegliare tutti assieme allo stesso tempo. Ora parrebbe che la roccia di Orthanc che ha resistito a tutte le intemperie conservi ancora il suo palantir. Ma senza gli altri poteva vedere ben poco, solo piccole immagini di cose lontane e di giorni remoti. Ciò si dimostrò, senz’alcun dubbio, assai utile a Saruman; eppure evidentemente non gli bastava per renderlo soddisfatto. Guardò sempre più lontano verso ignoti paesi, finché posò lo sguardo su Barad-dûr. Ed allora fu reso succube!

«Chissà ove giacciono ormai tutti gli altri globi: rotti, sepolti o profondamente sommersi? Sauron comunque ne deve aver scoperto uno, poi adattato ai suoi usi. Suppongo si tratti dell’Ithil-sfera, poiché s’impadronì di Minas Ithil molto tempo addietro, trasformandolo in un luogo infido: oggi si chiama Minas Morgul.

«È facile immaginare con quanta rapidità l’occhio scrutatore di Saruman venne intrappolato e ipnotizzato, e come sia stato facile da allora persuaderlo da lontano e minacciarlo quando la persuasione non era sufficiente. Chi soleva mordere era stato morso, il falco dominato dall’aquila, il ragno intrappolato in una rete d’acciaio! Chissà da quanto tempo egli era costretto a recarsi al cospetto di questa pietra per subire interrogatori e ricevere istruzioni! La pietra di Orthanc è talmente protesa verso Barad-dûr che ormai solo una volontà d’acciaio potrebbe trattenere mente e sguardo dal dirigersi costì. E quale forza d’attrazione possiede! Non l’ho forse provata io stesso? Ancor ora il mio cuore desidera esercitare la propria volontà su di essa, per tentare di strapparla a Sauron e dirigerla là ove vorrei… oltre l’ampio mare d’acqua e di tempo che ci separa da Tirion la Splendida, per poter scorgere al lavoro l’ineffabile mano e spirito di Fëanor fra l’Albero Bianco e l’Albero d’Oro in fiore!». Sospirò e tacque.

«Se soltanto avessi saputo tutto ciò!», esclamò Pipino. «Non immaginavo nemmeno lontanamente quel che stavo facendo».

«Invece lo immaginavi, eccome!», disse Gandalf. «Sapevi che il tuo comportamento era errato e sciocco; in te una voce lo diceva, ma tu non l’ascoltasti. Se non ti avevo detto nulla di tutto ciò sinora, è perché l’ho infine capito a furia di rimuginare sull’accaduto adesso mentre galoppavamo insieme. Ma anche se ti avessi dato qualche ragguaglio, il tuo desiderio non sarebbe stato più debole, né più facile da respingere, anzi! No, la mano bruciata è la migliore lezione. Dopo un’esperienza simile gli avvertimenti vanno dritti al cuore».

«Hai ragione!», disse Pipino. «Se adesso ponessero innanzi a me tutte sette le pietre, chiuderei gli occhi e metterei le mani in tasca».

«Bene!», disse Gandalf. «È ciò che speravo».

«Ma vorrei sapere…», riprese Pipino.

«Pietà!», gridò Gandalf. «Se per curare la tua curiosità è necessario distribuire informazioni, passerò il resto dei miei giorni a risponderti. Che altro vuoi sapere?».

«Il nome di tutte le stelle, di tutti gli esseri viventi, l’intera storia della Terra di Mezzo, del Sopracielo e dei Mari Nemici!», rispose ridendo Pipino. «Beninteso! O forse tu pensavi a qualcosa di meno? Stasera, comunque, non ho fretta, e mi stavo semplicemente domandando che cosa fosse quell’ombra nera. Ti ho udito gridare “messaggero di Mordor”. Di che si trattava precisamente? Che cosa mai poteva fare a Isengard?».

«Era un Cavaliere Nero alato», rispose Gandalf. «Un Nazgûl che poteva rapirti e portarti nella Torre Oscura».

«Ma non era venuto in cerca di me, no?», balbettò Pipino. «Voglio dire…. non sapeva che avevo…».

«No di certo», rispose Gandalf. «Sono più di duecento leghe in linea d’aria da Barad-dûr ad Orthanc, ed anche un Nazgûl impiegherebbe qualche ora per percorrerle. Penso invece che Saruman, dopo la scorreria degli Orchi, abbia indubbiamente guardato nel globo svelando in tal modo i pensieri che intendeva rimanessero segreti. È stato allora inviato un messaggero incaricato di scoprire che cosa egli stia facendo. E dopo quel ch’è accaduto stanotte, credo che ne giungerà un secondo assai presto. Saruman si troverà quindi infine intrappolato nel vicolo cieco ove si era infilato. Non ha prigionieri da inviare. Non ha Globo per vedere e non può rispondere alle ingiunzioni. Sauron penserà ch’egli voglia tenere per sé il prigioniero e si rifiuti di adoperare il Globo, e non servirà a nulla che Saruman racconti al messaggero la verità. Isengard è distrutto, egli tuttavia è sano e salvo a Orthanc: perciò, volente o nolente, apparirà come un ribelle. Eppure rifiutò la nostre proposte proprio per evitare che una simile cosa accadesse! Come potrà tirarsi fuori da una tale situazione, lo ignoro. Credo che finché resta a Orthanc abbia ancora il potere di resistere ai Nove Cavalieri: forse è ciò che tenterà di fare. Forse cercherà di prendere in trappola i Nazgûl o perlomeno di uccidere gli esseri sui quali ora spaziano nel cielo. Se ciò dovesse succedere, che Rohan custodisca bene i propri cavalli!

«Ma non saprei dire come andrà a finire, se in bene o in male per noi. Può darsi che il pensiero del Nemico venga confuso o dirottato dalla sua collera contro Saruman. Può darsi che apprenda ch’io mi recai costì, in piedi sulla scalinata di Orthanc… con degli Hobbit al mio seguito, e che un erede di Elendil, vivo, si ergeva al mio fianco. Se Vermilinguo non fosse stato ingannato dall’armatura di Rohan, rammenterebbe certo Aragorn ed il titolo del quale si fregiava. È ciò che temo maggiormente: in tal modo corriamo non lungi dal pericolo, bensì verso un pericolo ancor più grande. Ogni passo d’Ombromanto ti avvicina alla Terra d’Ombra, Peregrino Tuc».

Pipino non rispose, ma si strinse nel proprio manto come colto da un freddo improvviso. La grigia terra scorreva sotto di loro. «Guarda adesso!», disse Gandalf. «Le valli dell’Ovestfalda si aprono innanzi a noi. Stiamo per riprendere la via che conduce a oriente. L’ombra scura lì in fondo è l’imboccatura della Conca Fossato. Da quella parte si trovano Aglarond e le Caverne Scintillanti: non chiedermi di parlartene. Domandalo a Gimli quando lo vedrai, e forse per la prima volta in vita tua ti sarà data una risposta più lunga di quanto non desideri. Tu non vedrai le caverne, perlomeno non durante codesto viaggio. Fra poco saranno già lontane dietro di noi».

«Credevo che avessi intenzione di fermarti al Fosso di Helm!», disse Pipino. «Dove stiamo andando allora?».

«A Minas Tirith, prima che turbini di guerra la travolgano».

«Oh! E quanto dista?».

«Leghe interminabili», rispose Gandalf. «È tre volte più lontana della dimora di Re Théoden, la quale a sua volta si trova a più di cento miglia a est dal punto ove ci troviamo; cento miglia in linea d’aria, per il volo dei messaggeri di Mordor, ma Ombromanto deve percorrere una via più lunga. Chi sarà il più veloce?

«Continueremo a cavalcare sino all’alba, ossia per qualche ora ancora. Poi anche Ombromanto avrà bisogno di riposo, in qualche piccola valle fra i colli: a Edoras, spero. Dormi, se ci riesci! Può darsi che vedrai il primo barlume dell’alba sul dorato tetto della casa di Eorl. E due giorni dopo mirerai l’ombra viola del Monte Mindolluin, e le mura della torre di Denethor bianche nel mattino.

«Coraggio, Ombromanto! Corri, cuor di leone, come non hai mai corso sinora! Siamo giunti nelle terre della tua infanzia, ove tu conosci ogni pietra. Corri adesso! La nostra speranza è la tua velocità!».

Ombromanto scrollò il capo e mandò un possente nitrito, come spinto al combattimento dallo squillo di una tromba. Poi balzò avanti. Il fuoco si sprigionava dai suoi piedi, la notte volava intorno a lui.

Mentre il sonno lo intorpidiva lentamente, Pipino ebbe una strana sensazione: Gandalf e lui erano immobili come pietre, seduti sulla statua di un cavallo al galoppo, e sotto di loro il mondo fuggiva via in mezzo a un gran fragore di vento.

LIBRO QUARTO

CAPITOLO I SMÉAGOL DOMATO

«Ebbene, padrone, siamo indubbiamente in un bel guaio», disse Sam Gamgee. Scoraggiato e curvo accanto a Frodo scrutava le tenebre con occhi socchiusi.

Erano passati tre giorni da quando avevano lasciato la Compagnia, o perlomeno essi così pensavano: avevano pressoché perso il conto delle ore trascorse ad arrampicarsi faticosamente sui pendii nudi e pietrosi dell’Emyn Muil, costretti sovente a ritornare sui loro passi perché non riuscivano a proseguire, e accorgendosi a volte di aver camminato per ore e di ritrovarsi allo stesso punto di prima. Tuttavia avevano percorso parecchia strada verso est, cercando di seguire quanto più possibile il limite esterno di quello strano e contorto gruppo di colline. Ma le pareti si ergevano sempre a strapiombo, alte e impenetrabili, minacciose sulla pianura; oltre le pendici piene di rocce franate, si stendevano acquitrini lividi e insalubri ove nulla si muoveva e non si scorgeva nemmeno un uccello.

* * *

Gli Hobbit si trovavano ora sull’orlo di un’alta rupe scarna e nuda i cui piedi erano avvolti nella nebbia; alle loro spalle s’innalzavano gli altipiani coronati da nuvole fuggenti. Un vento gelido soffiava da oriente. La notte stava giungendo sull’informe paesaggio innanzi a loro; il verde malsano si trasformava in un marrone repellente. All’estrema destra l’Anduin, che qualche raggio di sole aveva illuminato a volte durante il giorno, era ormai sepolto nell’ombra. Ma i loro occhi non si volsero verso il Fiume, verso Gondor, verso le terre degli Uomini ove si trovavano i loro amici. Fissarono invece a sud-est il punto ove nella notte sopraggiungente si scorgeva una scura linea, come remoti monti d’immobile fumo. Di tanto in tanto un piccolo bagliore rosso scintillava ai confini della terra con il cielo.

«Che guaio!», disse Sam. «Fra i tanti luoghi di cui abbiamo udito parlare, quello è l’unico che non desideriamo vedere da vicino; ed è proprio lì che stiamo cercando di recarci! E chissà perché non riusciamo assolutamente ad arrivarvi. A quanto pare, abbiamo percorso una strada del tutto sbagliata. Non abbiamo modo di scendere; ed anche se vi riuscissimo, sicuramente troveremmo che quella verde campagna altro non è che un’immonda palude. Puah! Sentite che odore?». Annusò il vento.

«Sì, lo sento», disse Frodo, ma non si mosse ed i suoi occhi continuarono a fissare l’oscura linea e la fiamma intermittente. «Mordor!», mormorò sottovoce. «Se mi devo recare laggiù, spero di potervi giungere al più presto e di farla finita!»; rabbrividì. Il vento era gelido eppur greve di putrido odore. «Ebbene», disse distogliendo infine lo sguardo, «non possiamo trascorrere qui la notte, guai o non guai. Dobbiamo trovare un posto più riparato e accamparci nuovamente; forse il domani ci indicherà un sentiero».

«O forse il dopodomani, o il giorno dopo ancora», mormorò Sam. «Può darsi che nessun giorno ce lo indichi, perché abbiamo sbagliato direzione».

«Chissà!», disse Frodo. «È il mio destino, credo, recarmi sino all’Ombra lontana; è inevitabile che trovi una via. Ma chi me la mostrerà, il bene o il male? La nostra speranza era la rapidità. Il ritardo fa il gioco del Nemico… ed eccomi qui, costretto a ritardare. È dunque la volontà della Torre Oscura che ci conduce? Tutte le mie scelte si sono dimostrate errate. Avrei dovuto abbandonare la Compagnia molto tempo addietro e venir giù direttamente dal Nord, percorrendo la via ad est del Fiume e dell’Emyn Muil e attraversando il duro pian della Battaglia sino ai passi di Mordor. Ma ormai non è più possibile per noi due soli trovare un sentiero che ci riporti indietro, tanto più che gli Orchi infestano la riva orientale. Ogni giorno che passa è tempo prezioso perduto. Sono stanco, Sam. Non so che fare. Che ci rimane da mangiare?».

«Soltanto quelle… come si chiamano… lembas, signor Frodo. Un bel po’. Sono senza dubbio meglio di nulla. Eppure non avrei mai creduto, gustandole per la prima volta, che un giorno me ne sarei stancato. Ed invece ora desidererei cambiare: un pezzo di pane ed un bicchiere… anche mezzo bicchiere di birra sarebbero bene accetti. È dall’ultimo accampamento che mi sto trascinando dietro gli strumenti di cucina, e di quale utilità mi sono stati? Non sono serviti a fare un fuoco, e nemmeno a cucinare un filo d’erba!».

Si allontanarono dal punto ove si trovavano per discendere in una conca pietrosa. Il sole già basso a occidente fu avvolto da nubi e la notte giunse rapida. In un cantuccio, in mezzo a immensi pinnacoli frastagliati di roccia corrosa dal tempo, nonostante il freddo che li faceva girare e rigirare, riuscirono a dormire; erano perlomeno al riparo dal vento.

* * *

«Li avete rivisti, signor Frodo?», domandò Sam mentre sedevano rigidi e intorpiditi dal freddo, rosicchiando lembas nel freddo grigiore del primo mattino.

«No», rispose Frodo. «Sono due notti ormai che non odo e non vedo più nulla».

«Neanche io», disse Sam. «Brrr! Quegli occhi mi terrorizzavano! Ma forse siamo finalmente riusciti a far perdere le nostre tracce a quel misero verme. Gollum! Glielo farò dire io, gollum, se mai riesco a stringergli le mani intorno al collo!».

«Spero che non sia mai necessario», disse Frodo. «Non so come abbia fatto a seguirci, ma può darsi che ora, come tu dici, ci abbia smarriti. Su questi terreni aridi e spogli non lasciamo certo molte impronte, né molte tracce reperibili dal suo naso che fiuta».

«Spero che sia come dite voi», disse Sam. «Se solo ce ne fossimo liberati per sempre!».

«Anch’io lo desidererei», disse Frodo; «ma non è lui la mia maggiore preoccupazione. Vorrei soprattutto riuscire ad andarmene da questi colli! Li detesto. Mi sento completamente scoperto sul lato est, in cima a queste rupi, mentre fra me e l’Ombra non vi sono che terre piatte e vuote. C’è un Occhio in quell’Ombra. Coraggio! Dobbiamo assolutamente scendere in qualche modo, oggi».

* * *

Ma il giorno invecchiava, e quando il pomeriggio si tramutò lentamente in sera essi stavano ancora avanzando lungo la cresta senza trovare via di scampo.

Talvolta nel silenzio di quel paesaggio desolato credevano di udire vaghi suoni alle loro spalle, come il rumore di un sasso che cadeva o di piedi che s’inerpicavano sulla roccia. Ma fermandosi e rimanendo immobili ad ascoltare non udivano più nulla oltre il sospirare fra denti taglienti.

La cresta esterna dell’Emyn Muil che stavano percorrendo piegava sempre più verso nord. Era un ampio altipiano accidentato ed irto di massi lisi e corrosi, intagliato qua e là da profondi burroni scoscesi che incidevano lunghe fessure nella parete rocciosa. Per riuscire a passare i dirupi che si facevano sempre più frequenti, Frodo e Sam erano spinti verso sinistra, e si allontanavano quindi dall’orlo senza accorgersi che da parecchie miglia ormai stavano gradualmente scendendo verso la pianura: la cresta infatti si abbassava al livello delle terre pianeggianti.

Infine furono costretti a fermarsi. La cresta descriveva verso nord una curva assai pronunciata, quindi era squarciata da un burrone più profondo degli altri. Dal lato opposto del precipizio le rupi s’innalzavano nuovamente di parecchie decine di braccia: una minacciosa parete grigia si ergeva innanzi a loro, come tagliata a strapiombo da una coltellata. Era impossibile andare avanti e si videro costretti a voltare o verso ovest, O verso est. Ma dirigendosi ad ovest si sarebbero soltanto inoltrati nel cuore delle colline, affaticandosi notevolmente e ritardando ancor più; procedendo verso est sarebbero giunti allo strapiombo esterno.

«Non ci rimane altro da fare che tentare la discesa di questo burrone, Sam», disse Frodo. «Vediamo dove conduce!».

«A un brutto dirupo, suppongo», disse Sam.

La scarpata era più lunga e profonda di quanto non pensassero. Un po’ più in giù trovarono qualche albero contorto e tronco, per lo più betulle nodose alternate qua e là da un abete: le prime tracce di vegetazione che vedevano dopo parecchi giorni. Molti alberi erano secchi o sparuti, morsi sino al midollo dai gelidi venti orientali. Un tempo, in giorni più miti, vi doveva essere un gruppetto abbastanza folto di alberi nel burrone, ma ormai dopo una cinquantina di braccia scomparivano, lasciando il posto a vecchi ceppi sparsi quasi sino all’orlo della rupe. Il fondo della scarpata era irto di pietre rotte e scendeva scosceso; quando ne ebbero infine raggiunta l’estremità, Frodo si curvò e guardò fuori.

«Guarda!», disse. «Dobbiamo aver percorso molta strada in discesa, oppure è l’altezza della cresta ad esser notevolmente diminuita. Qui la parete rocciosa è molto più bassa di prima, e parrebbe anche più facile da scalare».

Sam s’inginocchiò accanto a lui, affacciandosi con riluttanza. Poi lanciò un’occhiata all’imponente cresta di colli che si ergeva sempre più alta alla loro sinistra. «Più facile!», borbottò. «Beh, suppongo sia sempre più facile scendere che salire. Chi non sa volare può saltare!».

«Sarebbe sempre un bel salto!», disse Frodo. «Circa, beh…», cercò di misurarlo con lo sguardo, «circa una trentina di braccia, direi. Non di più».

«È sufficiente», esclamò Sam. «Sapeste come odio guardare dall’alto! Ma guardare è meglio che scendere».

«Comunque», disse Frodo, «credo che in questo punto potremmo scendere; anzi penso che dovremmo proprio tentare. Guarda…: la roccia è assai diversa da come era alcune miglia più addietro: è franata e piena di fessure».

La parete esterna infatti non era più ripida, bensì leggermente obliqua; pareva una muraglia o una diga le cui fondamenta si fossero spostate, lasciandola contorta e semicrollata, interrotta da grandi fessure e lunghi pendii a volte larghi come scale.

«E se vogliamo tentare di scendere, sarebbe opportuno incominciare subito. Si sta facendo buio presto; credo che si avvicini una tempesta».

La macchia grigio fumo delle montagne a oriente si confondeva nell’oscurità che già incominciava ad avvolgere l’Occidente fra le sue lunghe braccia. Una leggera brezza si mise a soffiare, recando seco un distante mormorio di tuono. Frodo annusò l’aria e guardò dubbioso il cielo. Si passò intorno alla cappa una cinta che legò stretta, e si sistemò bene sulle spalle il leggero fagotto; poi si avvicinò all’orlo della scarpata. «Ho intenzione di tentare», disse.

«Benissimo!», disse Sam con aria cupa. «Ma io vado per primo».

«Tu?», esclamò Frodo. «Come mai hai cambiato idea sulle scalate?».

«Non ho cambiato idea; è semplice buon senso: mettere più in basso chi rischia maggiormente di scivolare. Non voglio precipitarvi addosso e scaraventarvi giù; sarebbero troppi due morti con una sola caduta».

Prima che Frodo potesse fermarlo, si sedette sull’orlo, fece penzolare le gambe, quindi, voltandosi, cercò con le dita dei piedi un appiglio. Mai aveva compiuto a sangue freddo un gesto così coraggioso, o così incosciente.

«No, no! Sam, vecchio scemo!», esclamò Frodo. «Ti ammazzerai di certo lanciandoti fuori in quel modo senza nemmeno cercare un punto verso il quale dirigerti. Torna indietro!». Afferrò Sam sotto le ascelle, issandolo accanto a sé. «Ora aspetta un attimo e abbi pazienza!», disse. Poi sdraiatosi in terra si protese in avanti e guardò giù; sembrava che la luce scomparisse rapidamente, nonostante il sole non fosse ancora tramontato. «Credo che ce la dovremmo fare», disse infine. «Io in ogni caso ce la farei, ed anche tu se ti mantenessi calmo e mi seguissi cautamente».

«Non so come potete essere tanto sicuro», obiettò Sam. «Non si vede nemmeno il fondo con questa luce! Come fareste se a un tratto vi mancasse un appoggio per le mani o i piedi?».

«Tornerei su, suppongo», rispose Frodo.

«Facile a dirsi», obiettò Sam. «Meglio attendere il mattino e la luce».

«No! A meno che non ne sia costretto», disse Frodo con un’improvvisa e strana veemenza. «Odio ogni ora che passa, ogni minuto. Scendo in avanscoperta. Non seguirmi prima che torni o che ti chiami!».

Afferrando con le dita l’orlo del precipizio si lasciò strisciare giù dolcemente finché, quando le braccia erano ormai quasi completamente tese, i piedi trovarono una sporgenza. «Un passo è fatto!», disse. «Verso destra questo ripiano si fa più largo. Vi potrei stare in piedi senza dovermi tenere. Credo…». Le sue parole furono bruscamente interrotte.

* * *

L’oscurità che giungeva veloce e s’infittiva rapidamente invadeva il cielo da oriente. Udirono sulle loro teste lo schianto secco e reciso di un tuono. Lampi infocati trafissero i colli. Poi un turbine di vento selvaggio trascinò nel proprio boato un urlo acuto e stridulo. Gli Hobbit avevano udito il medesimo grido nelle lontane Paludi quando fuggivano da Hobbiville, e persino là, nei boschi della Contea, il loro sangue si era gelato nelle vene. Ma qui, nel deserto, il terrore fu ancor più grande: si sentirono trafitti da fredde lame d’orrore e disperazione che mozzavano il fiato e interrompevano i battiti del cuore. Sam cadde bocconi. Involontariamente Frodo allentò la presa per coprirsi testa e orecchie con le mani. Ondeggiò, scivolò e strisciò giù con un gemito e un lamento.

Sam lo udì e si avvicinò carponi all’orlo della scarpata. «Padrone, padrone!», chiamò. «Padrone!».

Non ebbe alcuna risposta. Si accorse di tremare terribilmente, tuttavia trasse un profondo respiro e urlò nuovamente: «Padrone!». Pareva che il vento gli respingesse la voce in gola, ma nel passare ruggendo attraverso la forra ed oltre i colli, portò sino alle sue orecchie una fioca risposta:

«Tutto bene, tutto bene! Sono qui. Ma non ci vedo».

Frodo gridava con voce debole. In effetti non era molto lontano. Era scivolato e non caduto, ritrovandosi bruscamente in piedi sopra una sporgenza più ampia pochi metri più in basso. Fortunatamente in quel punto la parete rocciosa era ben obliqua, ed il vento lo premeva contro la rupe impedendogli di precipitare. Cercò di recuperare l’equilibrio poggiando il volto contro la fredda pietra, mentre il suo cuore batteva all’impazzata. L’oscurità era ormai calata tutt’intorno, a meno che i suoi occhi non avessero perduto la vista: regnava il buio più completo. Frodo pensò di essersi accecato. Trasse un profondo respiro.

«Tornate su! Tornate su!», udì gridare la voce di Sam nell’oscurità che lo sovrastava.

«Non posso», rispose. «Non ci vedo. Non trovo appiglio. Non riesco ancora a muovermi».

«Cosa posso fare, signor Frodo? Cosa posso fare?», urlò Sam sporgendosi pericolosamente. Come mai il suo padrone non ci vedeva? Vi era certo poca luce, ma non faceva del tutto buio. Vedeva Frodo sotto di sé, una grigia figura solinga e appiattita contro la parete rocciosa, troppo distante per poter essere raggiunta da una mano amica.

Si udì un altro scoppio di tuono, poi la pioggia incominciò a scrosciare. Piombava gelida e pungente contro la rupe, una cortina accecante frammista a grandine.

«Sto scendendo verso di voi», gridò Sam; ma non sapeva proprio in quale modo poteva sperare di aiutarlo.

«No, no! Aspetta!», gli rispose Frodo con maggiore energia. «Fra poco starò bene. Già mi sento meglio. Aspetta! Non puoi far nulla senza una corda».

«Corda!», esclamò Sam, parlando concitatamente da solo, tale era il suo sollievo. «Ebbene, eccone proprio una, qui, per impiccarmi, come ammonimento per i lenti di cervello! Non sei altro che una testascema, Sam Gamgee; me lo diceva sempre il Gaffiere che aveva inventato lui la parola. Corda!».

«Piantala di chiacchierare!», gridò Frodo che ormai si era rimesso abbastanza per sentirsi al tempo stesso divertito e seccato. «Lascia perdere il tuo Gaffiere! Stai forse cercando di dirmi che hai in tasca una corda? Se così è tirala fuori!».

«Sì, signor Frodo, nel mio fagotto con tutto il resto. Dopo essermela trascinata dietro per centinaia di miglia me ne ero completamente dimenticato!».

«Allora datti da fare e calala giù!».

Sam si tolse velocemente di dosso il sacco e vi frugò. E davvero in fondo vi era un rotolo della serica e grigia corda fatta dalla gente di Lórien. Ne lanciò un capo a Frodo. A questi parve che l’oscurità si diradasse, o che la vista gli stesse ritornando. Vide scendere dondolando la grigia linea, e gli parve che irradiasse un bagliore argenteo. Ora che vi era nel buio un punto ove fissare lo sguardo, si sentì meno in preda alle vertigini. Sporgendosi in avanti, si assicurò la corda intorno alla vita, quindi la afferrò con ambedue le mani.

Sam indietreggiò, puntando i piedi contro un ceppo a un paio di metri dall’orlo. Per metà trascinato, per metà inerpicandosi, Frodo tornò su e si gettò per terra.

Il tuono rombava e ruggiva in lontananza, e la pioggia continuava a cadere a dirotto. Gli Hobbit cercarono strisciando un rifugio all’interno del burrone, ma invano. Rigagnoli di pioggia incominciarono a scorrere giù, trasformandosi tosto in un ruscello che spumeggiava scrosciando sui sassi e tuffandosi dall’alto della rupe come dalle grondaie di un grande tetto.

«Fossi rimasto laggiù sarei quasi annegato, o le acque avrebbero provveduto a trascinarmi via», disse Frodo. «Fortuna che tu avevi una corda!».

«Maggior fortuna ancora se me ne fossi rammentato prima», disse Sam. «Forse vi ricordate quando misero le corde nelle nostre barche, il giorno che partimmo dalla terra elfica. Mi piacquero assai, e ne ficcai un rotolo nel mio fagotto: sembrano passati anni da quel giorno. “Potrebbe esservi utile in parecchie circostanze”, ci disse Haldir o uno dei suoi. E aveva ragione».

«Peccato che non abbia provveduto anch’io a portarne un rotolo», disse Frodo, «ma ero troppo confuso e avevo troppa premura quando lasciai la Compagnia. Se ne avessimo abbastanza per aiutarci a scendere! Sai quanto misura?».

Sam la srotolò lentamente, misurandola col proprio braccio. «Cinque, dieci, venti, trenta aune circa», disse.

«Chi l’avrebbe mai pensato!», esclamò Frodo.

«Davvero!», disse Sam. «Gli Elfi sono gente meravigliosa. Ha un aspetto esile, ma è solida e robusta, e morbida come burro al tatto. Occupa poco spazio ed è leggera come l’aria. Gente davvero meravigliosa!».

«Trenta aune!», ripeté Frodo sopra pensiero. «Credo dovrebbe bastare. Se la tempesta passa prima del calar della notte, voglio tentare l’impresa».

«La pioggia ormai è già quasi finita», disse Sam. «Ma non ricominciate a fare cose pericolose al buio, signor Frodo! Forse voi avete dimenticato quell’urlo nel vento, ma io no. Sembrava un Cavaliere Nero… ma su in aria, come se volasse. Ho l’impressione che faremmo meglio a rimanere quassù fra le rocce durante la notte».

«Ed io ho l’impressione che non resisterò un minuto più del necessario su questo ripiano, mentre gli occhi dell’Oscuro Paese scrutano le paludi», ribatté Frodo.

Quindi alzandosi in piedi tornò all’estremità del burrone e si affacciò dalla parete rocciosa. Il cielo stava tornando limpido a oriente. Le nubi lacerate dalla tempesta si allontanavano grevi di pioggia; la grande battaglia era finita. Il cupo pensiero di Sauron spiegò ancora per qualche minuto le proprie ali sull’Emyn Muil, poi si distolse, riversando sulla vallata dell’Anduin grandine e fulmini e sovrastando Minas Tirith come una minaccia di guerra. Quindi, addentrandosi fra i monti, si diresse in grandi spirali oltre Gondor, sino ai confini di Rohan, tanto che, mentre cavalcavano verso occidente, i Cavalieri, lontano nella pianura, videro i cupi vortici di tempesta muoversi dietro il sole. Ma lì ov’erano gli Hobbit, sul deserto e sulle fetide paludi, il blu intenso del cielo serale riapparve e qualche pallida stella fece capolino: piccoli buchi bianchi nel baldacchino che sovrastava la luna crescente.

«Com’è bello poter vedere di nuovo!», esclamò Frodo respirando profondamente. «Sai che per qualche momento pensai di aver perduto la vista? Credevo fosse a causa dei fulmini o di qualche altra cosa terribile. Non riuscivo a scorgere nulla, assolutamente nulla, fin quando non spuntò la corda grigia. Sembrava che scintillasse».

«Effettivamente al buio pare argentata», disse Sam. «Non me n’ero mai accorto, però non ricordo di averla mai tirata fuori dal mio sacco. Ma poiché siete tanto deciso a tentare la discesa, signor Frodo, come avete intenzione di adoperarla? Trenta aune sono all’incirca una quarantina di braccia, ossia appena l’altezza della scarpata».

Frodo rifletté qualche istante. «Fissala a quel ceppo, Sam!», disse. «Poi per questa volta farai come desideri e scenderai per primo. Io ti calerò giù lentamente, e basterà che tu adoperi mani e piedi per evitare di sbattere contro la roccia. Tuttavia, se di tanto in tanto ti appoggi a una sporgenza e mi fai riposare un attimo, tanto meglio. Quando avrai toccato terra ti seguirò. Mi sento perfettamente bene, adesso».

«Benissimo», disse cupo Sam. «Se è proprio necessario, facciamola subito finita!». Raccolse la corda e la fissò al ceppo più vicino all’orlo; quindi si legò l’altra estremità intorno alla vita. Infine si voltò con riluttanza, apprestandosi a passare nuovamente il bordo della scarpata.

La discesa non fu comunque disastrosa come pensava. La corda gli dava una certa fiducia, benché più di una volta dovesse chiudere gli occhi, perché vi erano sporgenze e la parete era ripida e persino rientrante; scivolò e rimase sospeso alla linea argentea. Ma Frodo lo fece scendere lentamente e senza scossoni, ed infine fu fatta. Il suo maggior timore era stato che la lunghezza della corda non bastasse a calarlo sino a terra, invece ne avanzava ancora un bel pezzo in mano a Frodo quando Sam dal basso gridò: «Sono arrivato». La voce giungeva limpida dal basso, ma Frodo non lo vedeva; il grigio manto elfico si era fuso con il crepuscolo.

Frodo impiegò molto più tempo per seguirlo. Si era assicurato la corda intorno alla vita, accorciandola affinché lo tenesse sospeso sopra il livello del suolo in caso di caduta; comunque voleva evitare ogni rischio e non si fidava ciecamente come Sam della robustezza dell’esile fune grigia. In due punti tuttavia fu costretto a contare unicamente su di essa: superfici lisce ove nemmeno le sue forti dita di Hobbit trovavano una presa e non vi erano sporgenze vicine ove poggiare i piedi. Ma infine anch’egli toccò terra.

«Bene!», gridò. «Ce l’abbiamo fatta! Siamo fuggiti dall’Emyn Muil! Ed ora vediamo che cosa ci attende! Forse ben presto rimpiangeremo la buona roccia dura».

Ma Sam non rispose: guardava fisso la rupe. «Testesceme!», esclamò. «Asini! La mia bella corda! Guardatela lì legata a un ceppo mentre noi siamo quaggiù! La migliore scala che potessimo lasciare per quel viscido Gollum. Avremmo fatto meglio a mettere un segnale indicante la direzione che prendevamo! Il tutto mi sembra un po’ troppo facile».

«Se riesci a immaginare un metodo per poter al tempo stesso adoperare la corda e portarcela dietro, allora mi puoi attribuire il testascema e qualunque altro epiteto coniato per te dal Gaffiere», disse Frodo. «In ogni caso, se vuoi, puoi sempre tornare su, slegarla e ridiscendere».

Sam si grattò la testa. «No, non saprei come fare, vi chiedo scusa», disse. «Ciò non toglie che mi dispiaccia assai lasciarla qui». Accarezzò l’estremità della corda e la scosse dolcemente. «È penoso per me separarmi da qualunque cosa provenga dalla terra elfica. Forse fatta persino da Galadriel in persona. Galadriel!», mormorò scuotendo tristemente il capo. Poi levò gli occhi tirando per l’ultima volta la fune come in segno d’addio.

Con immenso stupore di ambedue gli Hobbit, la corda si staccò. Sam cadde all’indietro e le lunghe spire grigie gli scivolarono addosso silenziosamente. Frodo rise: «Chi l’aveva legata?», disse. «Meno male che ha resistito sinora! E dire che avevo affidato tutto il mio peso al tuo nodo!».

Sam non rise. «Forse non sono molto bravo nello scalare le rupi, signor Frodo», disse con tono offeso, «ma di corde e di nodi me ne intendo. È, come si suol dire, cosa di famiglia. Mio nonno e dopo di lui mio zio Andy, il fratello maggiore del Gaffiere, possedettero per parecchi anni una corderia nei pressi di Piandifune. E nessuno, sia all’interno che all’esterno della Contea, avrebbe saputo legare intorno a quel ceppo un nodo più stretto del mio».

«Allora si dev’essere rotta la corda, lisa dallo spigolo della roccia, suppongo», disse Frodo.

«Scommetto che non è così!», esclamò Sam con voce ancor più offesa. Si curvò a esaminare le estremità della fune. «No, infatti non si è rotta; non c’è nemmeno una sfilatura!».

«Allora penso che sia stata colpa del tuo nodo», disse Frodo.

Sam scosse il capo senza rispondere. Si passava la corda fra le dita, sopra pensiero. «Pensate ciò che preferite, signor Frodo», disse infine, «ma io credo che la corda si sia staccata da sola… al mio richiamo». L’arrotolò nuovamente e l’infilò affettuosamente nel proprio sacco.

«In ogni caso si è staccata», disse Frodo, «ed è ciò che conta di più. Ma ora dobbiamo riflettere sulla prossima mossa da fare. La notte c’inghiottirà fra breve. Come sono belle le stelle e la luna!».

«Rinfrancano davvero il cuore!», esclamò Sam levando gli occhi. «Sono elfiche, per qualche strano motivo. E la Luna è crescente. Da un paio di notti questo tempo nuvoloso c’impediva di vederla. Irradia già parecchia luce».

«Sì», disse Frodo. «Ma ci vorrà ancora qualche giorno prima che sia piena. Non penso che c’inoltreremo nelle paludi alla fioca luce di una mezza luna».

* * *

Avvolti dalle prime ombre della notte ripartirono per la seconda tappa del loro viaggio. Dopo qualche tempo Sam si voltò per guardare la via percorsa. La gola era una fessura nera nella parete rocciosa ormai scura. «Sono felice di aver ricuperato la corda», disse. «In ogni caso sarà un piccolo enigma che quel malandrino dovrà risolvere. Può mettere alla prova i suoi orribili piedi piatti su quelle sporgenze!».

Si fecero strada fra un mare di macigni e di rozze pietre, bagnati e viscidi a causa della pesante pioggia, allontanandosi dai piedi della rupe. Il terreno era ancora scosceso. Dopo un breve tratto si parò improvvisamente innanzi a loro una grande fessura nera. Non era molto larga, ma lo era sempre troppo perché potessero saltarla quasi al buio. Credettero di udire l’acqua gorgogliare in profondità. Alla loro sinistra curvava verso nord, in direzione dei colli, sbarrando quindi la strada almeno sino a quando non fosse tornata la luce.

«È meglio tentare di dirigersi verso sud, fiancheggiando la cresta», disse Sam. «Potremmo forse trovare qualche recesso, o persino una caverna o qualcosa di simile».

«Chissà!», disse Frodo. «Sono stanco e non credo che riuscirò a destreggiarmi fra i sassi ancora per molto tempo stasera…. pur odiando ogni minuto perso. Se avessimo innanzi a noi un sentiero libero e piano! Andrei avanti fino all’estremo delle forze».

* * *

Avanzare lungo le falde impervie dell’Emyn Muil non fu impresa più agevole, e Sam non trovò recessi né caverne ove ripararsi: soltanto nudi pendii pietrosi sovrastati dalla cresta dei colli che si faceva man mano sempre più alta e più ripida. Infine, spossati, si lasciarono cadere per terra al riparo di un macigno poco distante dai piedi della scarpata. Rimasero lì qualche tempo raggomitolati e afflitti nella fredda notte, mentre il sonno li invadeva lentamente nonostante tutti i loro sforzi. La luna era ormai alta e luminosa. La limpida luce bianca s’irradiava sulle rocce e bagnava la gelida e minacciosa parete che non si ergeva più come un nero gigante, bensì pallida e grigia, trafitta qua e là da ombre cupe.

«Ebbene!», disse Frodo alzandosi in piedi e avviluppandosi ancor più stretto nel proprio manto. «Dormi un po’, Sam, e prendi la mia coperta. Io camminerò avanti e indietro facendo la guardia». D’un tratto s’irrigidì e chinandosi afferrò il braccio di Sam. «Che cos’è?», sussurrò. «Guarda lì sulla cresta!».

Sam levò lo sguardo e trattenne il fiato. «Ssss!», esclamò. «Ecco che cos’è. È quel Gollum! Vipere e serpi! E dire che pensavo di metterlo in difficoltà con quel poco di discesa che abbiamo fatto noi! Guardatelo! Come un immondo ragno che striscia lungo un muro».

* * *

Giù per il dirupo a strapiombo, che pareva quasi liscio al pallido chiaro di luna, si muoveva una piccola figura nera aggrappandosi con tutt’e quattro le esili membra nere. Forse le molli dita vischiose trovavano sporgenze e crepe che nessun Hobbit avrebbe mai veduto né adoperato, in ogni caso pareva avesse zampe appiccicose, come qualche grosso strano insetto. Scendeva con la testa avanti e sembrava che fiutasse la via; di tanto in tanto l’alzava lentamente, capovolgendola quasi sul lungo collo magro, e gli Hobbit scorgevano due piccole luci pallide, due occhi che abbagliati dalla luna venivano presto coperti dalle palpebre.

«Credete che ci veda?», domandò Sam.

«Non lo so», rispose a bassa voce Frodo, «ma non lo credo. È difficile anche per occhi amici scorgere questi manti elfici: io non ti vedo lì seduto all’ombra nemmeno a pochi passi di distanza. E so che lui non ama né il Sole né la Luna».

«Allora perché sta scendendo proprio in questo punto?», domandò Sam.

«Piano, Sam!», disse Frodo. «Forse può fiutare la nostra presenza. E credo che abbia un udito acuto come quello degli Elfi. Mi sembra che ora abbia sentito qualcosa: probabilmente le nostre voci. Abbiamo gridato parecchio sulla rupe, e anche ora parlavamo con voce troppo alta».

«Ebbene, sono stufo di lui», disse Sam. «Ci ha seguiti troppo per i miei gusti, e gli voglio dire quattro parole, se riesco. Suppongo che in ogni caso ormai sarebbe inutile tentare di fargli perdere le nostre tracce». Calandosi sul viso il grigio cappuccio, Sam si avvicinò furtivamente alla rupe.

«Attento!», bisbigliò Frodo andandogli dietro. «Non l’allarmare! È assai più pericoloso di quanto non sembri».

La figura nera aveva già percorso tre quarti della parete e si trovava ormai a una cinquantina di piedi da terra. Immobili come sassi, accucciati all’ombra di un grosso macigno, gli Hobbit lo osservavano. Sembrava che avesse incontrato un punto più impervio o fosse preoccupato di qualcosa. Lo udivano annusare, e di tanto in tanto un aspro sibilo che pareva un’imprecazione. Levò il capo, ed ebbero l’impressione che sputasse. Poi si rimise in marcia. Udivano il gracchiare ed il fischiare della sua voce.

«Ach, sss! Cauto, tesoro mio! Più fretta meno velocità. Non dobbiamo risschiare di romperci il collo, niente risschi, nevvero tessoro? No, tessoro… gollum!». Alzò nuovamente la testa, fu abbagliato dalla luna e chiuse subito gli occhi. «Odiossa!», sibilò. «Sschifossa, sschifossa luce tremula che ci sspia, tessoro, ci fa male agli occhi».

Si stava avvicinando ed i sibili erano più aspri e comprensibili. «Dove ssei, dove ssei: tessoro mio, mio tessoro? È mio, lo è e lo voglio. Ladri, ladri, sporchi piccoli ladri. Dove ssono col mio tessoro? Maledetti! Odiossi!».

«Non si direbbe che sappia dove siamo, vero?», sussurrò Sam. «E cos’è il suo tesoro? Intende dire…».

«Sst!», bisbigliò Frodo. «È assai vicino ormai, tanto da udire i nostri sussurri».

Infatti Gollum si era improvvisamente fermato di nuovo, e dondolava il testone da una parte e dall’altra del collo come per ascoltare. I pallidi occhi erano socchiusi. Sam si trattenne benché le dita gli prudessero. I suoi occhi, pieni di collera e di disgusto, erano fissi sull’ignobile creatura che si era rimessa ad avanzare, continuando a bisbigliare e sibilare.

Giunse infine a una dozzina di piedi sopra le loro teste. Da lì era necessario saltare, perché la parete rientrava leggermente e persino Gollum non riuscì a trovare alcun appiglio. Ebbero l’impressione che cercasse di girare su se stesso, onde scendere con le gambe avanti, quando d’un tratto lanciò un urlo stridulo e cadde. Nel precipitare raggomitolò gambe e braccia come un ragno al quale hanno tagliato il filo.

Sam in un lampo uscì dal nascondiglio e con un paio di balzi attraversò lo spazio che lo separava dalla base della rupe. Prima che Gollum potesse rialzarsi gli fu addosso. Ma scoprì che persino così, all’improvviso, dopo una caduta, Gollum era assai più forte e abile di quanto non immaginasse. Prima che l’Hobbit riuscisse ad afferrarlo, delle lunghe braccia e gambe lo avvinghiarono, paralizzando ogni sua mossa e stringendolo in una morsa molle ma terribilmente forte, come se delle corde lo stritolassero pian piano; dita viscide brancolavano in cerca della sua gola. Infine sentì nella spalla il morso di denti aguzzi. Non gli restava altro da fare che cozzare di sbieco con la dura testa tonda contro il flaccido viso di Gollum. Questi sibilò e sputò ma non afferrò la presa.

Le cose sarebbero finite male per Sam, se fosse stato solo. Ma Frodo balzò in piedi sguainando Pungolo. Con la mano sinistra afferrò i fini capelli sparuti di Gollum e gli tirò indietro la testa, allungandogli il collo e costringendo i pallidi occhi velenosi a fissare il cielo.

«Molla la presa, Gollum!», disse. «Questa spada è Pungolo. L’hai già veduta una volta. Molla la presa, o questa volta ne proverai la lama! Ti taglierà il collo».

Gollum cadde prostrato e molle come spago bagnato. Sam si alzò tastandosi la spalla. Nei suoi occhi covava la collera, ma non poteva vendicarsi: il suo misero nemico si contorceva piagnucolando sulle pietre.

«Non ci far male! Tesoro mio, impedisci che ci facciano del male. Non ci faranno nulla, vero, cari piccoli Hobbit? Nessuna cattiva intenzione avevamo, ma ci saltano addosso come gatti su poveri topi, ci saltano addosso, tesoro. E noi siamo così soli, gollum. Saremo gentili con loro, molto molto gentili, se anche loro lo saranno; sicuro, gentilissimi!».

«Ebbene, che ne facciamo?», domandò Sam. «Direi di legarlo, per impedirgli di strisciarci dietro».

«Ma così ci uccideresti, ci uccideresti», piagnucolò Gollum. «Crudeli piccoli Hobbit. legarci nelle terre fredde gelide e lasciarci soli, gollum, gollum». Singhiozzi e singulti si susseguirono nella sua gola.

«No», disse Frodo. «Se decidiamo di ucciderlo, dobbiamo farlo immediatamente. Ma una tale azione non ci è permessa così come stanno le cose. Povero disgraziato! Non ci ha fatto alcun male».

«Ah no?», esclamò Sam strofinandosi la spalla. «Comunque ne aveva l’intenzione e scommetto che ce l’abbia ancora. Strangolarci nel sonno, ecco il suo programma».

«Senz’alcun dubbio», disse Frodo. «Ma quel che intende fare è un fatto a parte». Rimase un attimo silenzioso a riflettere. Gollum giaceva immobile e aveva smesso di piagnucolare. Sam lo guardava con cipiglio.

A Frodo parve improvvisamente di udire, distinte ma lontane, voci del passato:

Che peccato che Bilbo non abbia trafitto con la sua spada quella vile ed ignobile creatura quando ne ebbe l’occasione!

Peccato? Ma fu la Pietà a fermargli la mano. Pietà e Misericordia: egli non volle colpire senza necessità.

Non ho nessuna pietà per Gollum. Merita la morte.

Se la merita! E come! Molti tra i vivi meritano la morte. E alcuni che sono morti avrebbero meritato la vita. Sei forse tu in grado di dargliela? E allora non essere troppo generoso nel distribuire la morte nei tuoi giudizi, sappi che nemmeno i più saggi possono vedere tutte le conseguenze.

«Molto bene», rispose ad alta voce abbassando la spada. «Ma ho ancora paura. Eppure, come vedi, non toccherò questo essere. Infatti, ora che lo vedo, mi fa pietà».

* * *

Sam fissò stupito il padrone che sembrava parlare a qualcuno assente. Gollum levò il capo.

«Sì, siamo disgraziati, tesoro», gemette. «Miseri, miseri! Gli Hobbit non ci uccideranno, cari piccoli Hobbit».

«No, non ti uccideremo», disse Frodo. «Ma nemmeno ti lasceremo libero. Sei un covo di malvagità e di malizia, Gollum. Sarai costretto a venire con noi affinché ti possiamo sorvegliare, tutto qui. Ma dovrai fare tutto quanto è in tuo potere per aiutarci: i favori vanno ricambiati».

«Sì, sì davvero», disse Gollum mettendosi a sedere. «Cari Hobbit! Andremo con loro. Li guideremo al buio per sentieri sicuri, sì, sì. E dov’è che vanno attraverso queste terre fredde gelide, ci domandiamo, chissà, dov’è che vanno?». Levò gli occhi verso di loro ed un vago barlume d’astuzia e d’avidità scintillò per un attimo nei pallidi occhi tremuli.

Sam lo guardò torvo e strinse le mascelle; ma ebbe la sensazione che il suo padrone fosse di umore strano e che ogni tentativo di discussione sarebbe stato vano. Ciò nonostante rimase stupefatto dalla risposta di Frodo.

Questi guardò fisso negli occhi di Gollum che si volsero altrove fuggendo il suo sguardo. «Lo sai dove andiamo, o comunque hai indovinato giusto, Sméagol», disse con voce bassa e severa. «Andiamo a Mordor, beninteso. E credo che tu conosca la via».

«Ah! sss!», disse Gollum coprendosi con le mani le orecchie, come se tanta franchezza e disinvoltura nel pronunziare certi nomi lo ferisse. «Indovinato, sì indovinato», bisbigliò; «e non volevamo che andassero, nevvero? No tesoro, non i cari piccoli Hobbit. Cenere, cenere e polvere e sete troverete; e pozzi, pozzi, pozzi, ed Orchi, migliaia di Orchi. Cari Hobbit non devono andare in quei… sss… quei posti».

«Perciò, tu ci sei stato?», insistette Frodo. «Ed ora ti rivogliono lì, vero?».

«Sssì. Sssì. No!», strillò Gollum. «Una volta, per caso, del tutto per caso, nevvero tesoro? Sì, per puro caso. Ma non ci torneremo, no, no!». Poi improvvisamente la sua voce ed il suo linguaggio cambiarono ed egli si mise a singhiozzare sommessamente e a parlare senza però rivolgersi a loro. «Lasciatemi solo, gollum! Mi fate male. Oh le mie povere mani, gollum! Io, noi, non voglio tornare. Non riesco a trovarlo. Sono stanco. Io, noi non riusciamo a trovarlo, gollum, gollum, no, in nessun luogo. Sono sempre svegli. Nani, Uomini ed Elfi, Elfi terribili dagli occhi luminosi. Non riesco a trovarlo. Ach!». Si levò in piedi e serrando la lunga mano in un pugno ossuto e nodoso lo brandì verso oriente. «Non lo faremo mai!», urlò. «Non per te». Poi crollò nuovamente. «Gollum, gollum», piagnucolò guardando terra. «Non ci guardare! Vai via! Vai a dormire!».

«Non se ne andrà certo via né a dormire al tuo comando, Sméagol.», disse Frodo. «Ma se desideri davvero liberarti di lui, allora mi devi aiutare. E ciò significa indicarci il sentiero che conduce da lui. Ma non è necessario che tu ci accompagni sino in fondo, ci puoi lasciare ai confini del suo paese».

Gollum si risedette e lo guardò da sotto le palpebre socchiuse. «È laggiù», borbottò. «Sempre lì. Gli Orchi vi condurranno. Facile trovare Orchi ad est del Fiume. Non chiedete a Sméagol. Povero, povero Sméagol, partito tanto tempo fa. Gli rubarono il suo Tesoro ed ora è perso da sempre».

«Forse se ci accompagni lo ritroveremo», disse Frodo.

«No, no, mai! Ha perso il suo Tesoro», disse Gollum.

«Alzati!», ordinò Frodo.

Gollum si alzò e si diresse indietreggiando verso la parete rocciosa.

«Parla!», disse Frodo. «È più facile per te trovare un sentiero di giorno o di notte? Siamo stanchi, ma se preferisci la notte partiremo all’istante».

«Le grosse luci ci fanno male agli occhi, assai male», gemette Gollum. «Non sotto la Faccia Bianca, non ancora. Fra poco andrà dietro i colli, sì sì. Prima riposate un po’, cari Hobbit!».

«Allora siediti», disse Frodo, «e non ti muovere!».

* * *

Gli Hobbit gli si sedettero accanto appoggiando la schiena alla rupe e allungando le gambe. Era del tutto superfluo prendere accordi: ambedue sapevano che non dovevano lasciarsi cogliere dal sonno nemmeno un minuto. La luna tramontò lentamente. Le ombre calarono dai colli e tutto intorno a loro si fece buio. Le stelle in cielo divennero più numerose e splendenti. Nessuno si mosse. Gollum sedeva con le gambe raggomitolate, il mento poggiato sulle ginocchia, mani e piedi piatti per terra, occhi chiusi; eppure sembrava teso, come se intento a riflettere o ad ascoltare.

Frodo lanciò un’occhiata a Sam. I loro occhi s’incontrarono e si compresero. Si rilassarono, appoggiandosi comodamente con la schiena e chiudendo gli occhi o fingendo di chiuderli. Presto si udì il rumore regolare del loro respiro. Le mani di Gollum si contrassero. Quasi impercettibilmente la sua testa si volse a sinistra e a destra, mentre uno dopo l’altro gli occhi si socchiusero. Gli Hobbit rimasero immobili.

D’un tratto, con sorprendente agilità e rapidità, Gollum balzò in avanti nelle tenebre saltando come un grillo o una ranocchia. Ma era proprio ciò che Frodo e Sam attendevano. Sam gli fu sopra prima che potesse avanzare di un passo, e Frodo lo raggiunse afferrandogli una gamba e gettandolo per terra.

«Probabilmente la tua corda ci sarà di nuovo utile, Sam», disse.

Questi tirò fuori la fune. «Dove te ne stavi andando, attraverso le terre fredde gelide, signor Gollum?», ruggì. «Chissà dove andavi! In cerca di qualcuno dei tuoi amici Orchi, scommetto. Essere infido e malvagio! Intorno al collo dovrei legarti questa corda, ed anche stretta».

Gollum rimase immobile e non tentò altri scherzi. Non rispose a Sam ma gli lanciò una rapida occhiata velenosa.

«Abbiamo soltanto bisogno di qualcosa per tenerlo», disse Frodo. «È necessario che cammini, quindi inutile legargli le gambe…. ed anche le mani, poiché sembra che le adoperi quasi altrettanto. Legagli un’estremità alla caviglia e tieni ben stretto in mano l’altro capo».

Ergendosi con aria minacciosa innanzi a Gollum, osservò Sam che legava il nodo. Il risultato fu per ambedue una sorpresa. Gollum si mise a strillare con voce stridula e straziante, orribile a udirsi. Si contorse, cercando di portare la bocca alla caviglia per mordere la corda, senza smettere di gridare.

Infine Frodo si convinse che effettivamente soffriva, ma era impossibile che fosse colpa del nodo. Osservandolo vide che non era neppure stretto, anzi persino troppo lento. Sam era più gentile di quel che le sue parole lasciavano intravedere. «Che ti succede?», domandò Frodo. «Poiché non c’è altro modo per impedirti la fuga, dobbiamo legarti; ma non vogliamo farti del male».

«Fa male, fa male!», sibilò Gollum. «Ghiaccia, morde! Gli Elfi l’hanno fatta, maledetti! Cattivi crudeli Hobbit! Perciò cercavamo di fuggire, certo, tesoro mio. Sapevamo che erano Hobbit crudeli. Amici degli Elfi, degli Elfi feroci dagli occhi luminosi. Toglietela! Fa male».

«Ne, non la toglierò», disse Frodo, «a meno che…», s’interruppe un attimo per riflettere, «a meno che tu non mi faccia una promessa di cui io possa fidarmi».

«Giureremo su qualunque cosa volete, sì, sssì», sibilò Gollum, continuando a contorcersi ed a fregarsi la caviglia. «Fa male». «Giureresti?», ripeté Frodo.

«Sméagol», disse Gollum all’improvviso con voce chiara, spalancando gli occhi e fissando Frodo con uno strano bagliore. «Sméagol giurerà sul Tesoro».

Frodo si raddrizzò, e Sam fu di nuovo sorpreso dalla sua risposta e dal suo tono severo. «Sul Tesoro? Come osi?», disse. «Pensaci!


Un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli.


Affideresti a ciò la tua promessa, Sméagol? Ti costringerà a rispettarla. Ma è più infido di te; potrebbe travisare le tue parole. Attento!».

Gollum si accasciò. «Sul Tesoro, sul Tesoro!», ripeté.

«E che cosa giureresti?», domandò Frodo.

«Di essere tanto, tanto buono», disse Gollum. Poi, strisciandogli ai piedi, si contorse bisbigliando con voce roca: un brivido lo percorse, come se le parole facessero tremare dal terrore persino le sue ossa. «Sméagol giurerà che mai, mai, Lui lo avrà. Mai! Sméagol lo salverà. Ma deve giurare sul Tesoro».

«No! Non su di esso», disse Frodo posando su Gollum uno sguardo di severa pietà. «Tutto ciò che desideri è di vederlo, di toccarlo se possibile, pur sapendo che impazziresti. Non su di esso. Giura in nome del Tesoro, se vuoi. Perché sai dove si trova. Sì che lo sai, Sméagol. È innanzi a te».

Per un attimo parve a Sam che il suo padrone fosse cresciuto e Gollum rimpicciolito: un’ombra alta e severa, un possente signore che occultava il suo splendore dietro grigie nubi, ed ai suoi piedi un cagnolino piagnucoloso. Eppure i due esseri non erano del tutto dissimili, ma avevano qualche affinità: indovinavano i reciproci pensieri. Gollum si alzò e si mise ad accarezzare Frodo facendogli vezzi e moine.

«Giù! Giù!», disse Frodo. «Formula ora la tua promessa!»

«Promettiamo, sì, prometto!», disse Gollum. «Servirò il padrone del Tesoro. Buon padrone, buono Sméagol, gollum, gollum!». Poi ricominciò a piangere e a mordersi la caviglia.

«Togli la corda, Sam!», disse Frodo.

Sam obbedì con riluttanza. Immediatamente Gollum si alzò e si mise a saltellare tutt’intorno, come un cane frustato che il padrone perdona accarezzando. Da quel momento subì una notevole trasformazione che durò per qualche tempo. Parlò con meno sibili e piagnucolii, rivolgendosi direttamente ai compagni e non al suo beneamato tesoro. Si contraeva e indietreggiava se gli Hobbit si avvicinavano o facevano movimenti bruschi, ed evitava che i loro manti elfici lo sfiorassero; ma era affettuoso, e destava pietà vedere come si affannava per far piacere. Schiamazzava e rideva facendo capriole se li udiva scherzare o se Frodo gli parlava con dolcezza, mentre piangeva se questi lo rimproverava. Sam gli rivolgeva di rado la parola. Era più sospettoso che mai e odiava il nuovo Gollum, Sméagol, ancor più di prima.

«Ebbene, Gollum, o come diavolo dobbiamo chiamarti», disse, «adesso in marcia! La Luna è scomparsa e la notte se ne sta andando. Faremmo bene a muoverci».

«Sì, sì», acconsentì Gollum, saltellando ovunque. «In marcia! Vi è un unico passaggio fra l’estremità nord e quella a sud. Io l’ho trovato, io. Gli Orchi non l’adoperano, gli Orchi non lo conoscono. Gli Orchi non traversano le paludi, fanno un giro lungo decine di miglia. Siete stati fortunati a venire da queste parti; molto fortunati ad aver trovato Sméagol, sì molto. Seguite Sméagol!».

Si allontanò di qualche passo, quindi si voltò con aria interrogativa, come un cane che invita il proprio padrone a una passeggiata. «Aspetta un attimo, Gollum!», gridò Sam. «Non andare troppo avanti! Io ti starò sempre alle calcagna e ho la corda a portata di mano».

«No, no!», esclamò Gollum. «Sméagol ha promesso».

A notte fonda, al lume di pallide stelle gelide si misero in marcia. Gollum fece loro ripercorrere per un certo tratto il sentiero che conduceva verso nord; quindi deviò a destra allontanandosi dalla ripida parete dell’Emyn Muil per attraversare i pendii accidentati e pietrosi sino alle vaste terre acquitrinose.

Scomparvero veloci e silenziosi nelle tenebre. Una calma nera regnava sulle interminabili leghe di deserto che li separavano dai cancelli di Mordor.

CAPITOLO II L’ATTRAVERSAMENTO DELLE PALUDI

Gollum avanzava veloce, con testa e collo protesi in avanti, servendosi sovente delle mani oltre che dei piedi. Era assai arduo per Frodo e Sam seguirlo; ma sembrava non avere più alcuna intenzione di fuggire, e se vedeva che erano rimasti indietro, si voltava fermandosi ad aspettarli. Dopo qualche tempo giunsero all’orlo della stretta gola che avevano già incontrata; ora però erano più lontani dai colli.

«Eccolo!», esclamò Gollum. «C’è un sentiero che scende, sì che c’è. Ora noi lo seguiamo, giù e poi fuori, lì in fondo». Mostrò le paludi a sud-ovest. Il loro fetore giungeva sino alle narici dei viandanti, greve e immondo persino nella fresca aria notturna.

Gollum andò avanti e indietro lungo l’orlo del burrone ed infine li chiamò a sé. «Qui! Qui possiamo scendere. Sméagol passò da qui una volta; io passai da qui, per nascondermi dagli Orchi».

Fece strada, e gli Hobbit lo seguirono tuffandosi nelle tenebre. Non fu un’impresa difficile, perché la crepa in quel punto non misurava più di una quindicina di piedi in profondità, e una dozzina in larghezza. Nel fondo scorreva dell’acqua: era quello infatti il letto di uno dei numerosi ruscelli che scendevano dai colli per alimentare gli stagni ed i pantani. Gollum voltò a destra, più o meno in direzione sud, sguazzando nell’acqua poco profonda del torrente sassoso. Sembrava estremamente felice del contatto con essa, e rideva sommesso, gracchiando a volte una specie di canzone.

Terra fredda e dura

Che morde e tortura

Che rode le dita.

Rocce, sassi e macigni

Come vecchi ossi arcigni

Senza carne né vita.

Ma stagni e ruscelli

Son freschi, son belli;

La fatica è finita!

Vediam se ci riesce…

«Ha! Ha! Che cosa vogliamo che riesca?», disse, lanciando agli Hobbit uno sguardo obliquo. «Ebbene, ve lo diremo», gracchiò. «Lui l’indovinò tanto tempo fa, Baggins l’indovinò». Un bagliore gli brillò negli occhi, e Sam, che l’intravide nel buio, lo trovò assai poco piacevole.

Vive senza respirare;

È freddo come il mare;

Non beve e non ha mai sete;

Veste di maglia ma mai lo udirete.

Annega sui terreni asciutti

E prende per un monte

L’isola fra i flutti

E crede che una fonte

Sia dell’aria a sbuffi

Sì lisci, sì buffi!

Che gioia fra le dita!

Vediam se ci riesce

Di prendere un pesce,

polpa saporita!

Queste parole non fecero che acuire il pressante problema che aveva inquietato Sam sin dal momento in cui si era reso conto che il suo padrone avrebbe adottato Gollum come guida: il problema alimentare. Non pensò che anche Frodo poteva avere la medesima preoccupazione, ma era convinto che Gollum l’avesse. Chissà come aveva fatto per nutrirsi durante il lungo e solitario vagabondaggio! «Non deve aver risolto il problema brillantemente», pensò Sam. «Ha un’aria assai affamata. Sarebbe una bella leccornia assaggiare della carne d’Hobbit, in mancanza di pesce… supponendo che riuscisse a sorprenderci nel sonno. Ebbene, non vi riuscirà, non certo con Sam Gamgee».

* * *

Avanzarono a lungo a tentoni nella buia gola sinuosa, ed ai piedi stanchi di Frodo e di Sam parve un’eternità. Il burrone curvava verso est, e man mano che procedevano si faceva gradualmente più ampio e meno profondo. Infine il cielo sulle loro teste si tinse del pallido grigiore del primo mattino. Gollum non dava segni di stanchezza, ma levando lo sguardo si arrestò.

«Il Giorno si avvicina», sussurrò, come se il Giorno avesse potuto udirlo e balzargli addosso. «Sméagol si ferma qui: io sto qui ed il Viso giallo non mi vede».

«Noi saremmo felici di vedere il Sole», disse Frodo, «ma ci fermeremo qui: siamo troppo stanchi per camminare ancora».

«Non è saggio essere felici di vedere il Viso Giallo», ribatté Gollum. «Ti tradisce. Cari Hobbit ragionevoli rimangono con Sméagol. Orchi e cose brutte sono in giro. Vedono lontano. Restate qui con me nascosti!».

Si installarono tutti e tre ai piedi della parete rocciosa della gola, apprestandosi a riposare. Ormai il fosso era poco più alto di un uomo, e il fondo era costituito da ampie pietre piatte e asciutte; l’acqua scorreva in un canaletto ai piedi dell’altra parete. Frodo e Sam si sedettero su una delle pietre, poggiando all’indietro la schiena. Gollum sguazzava e frugava nel ruscello.

«Noi dobbiamo mangiare qualcosa», disse Frodo. «Tu hai fame, Sméagol? Abbiamo ben poco da dividere, ma ti daremo il possibile».

Alla parola fame una luce verdastra si accese negli occhi pallidi di Gollum, che parvero più sporgenti che mai nel magro viso malaticcio. Per un attimo ritornò ad essere il vecchio Gollum. «Siamo affamati, sssì, affamati sssiamo, tessoro», disse. «Cos’è che mangiano? Hanno bei pesssci?». La lingua penzolò fuori dagli aguzzi denti gialli, leccando le labbra scolorite.

«No, non abbiamo pesci», disse Frodo. «Abbiamo solo questo», mostrò un biscotto di lembas, «e dell’acqua, se questa qui è potabile».

«Sssì, sssì, acqua buona», disse Gollum. «Beviamo, finché è possibile! Ma cos’è che hanno, tessoro? Si può rosicchiare? È saporito?».

Frodo ruppe un pezzetto di biscotto e glielo porse nella foglia che l’avvolgeva. Gollum annusò la foglia e cambiò faccia: uno spasimo di disgusto ed un tocco dell’antica malvagità vi apparvero. «Sméagol lo fiuta!», disse. «Foglie del paese elfico, puah! Puzzano. Si arrampicava su quegli alberi e non riusciva più a togliere l’odore delle mani, le mie care manine». Gettando la foglia si mise a rosicchiare un cantuccio del lembas. Ma lo sputò, scosso da una fitta di tosse.

«Ah! No!», bofonchiò. «Cercate di affogare il povero Sméagol. Polvere e cenere non può mangiarle lui. Deve morire di fame. Ma a Sméagol non importa. Cari Hobbit! Sméagol ha promesso. Morirà di fame. Non può mangiare cibo degli Hobbit. Morirà di fame. Povero magro Sméagol!».

«Mi dispiace», disse Frodo; «ma temo di non poterti aiutare. Credo che questo cibo ti farebbe bene, se cercassi d’ingoiarlo. Ma forse per te è impossibile persino tentare, almeno per il momento».

* * *

Gli Hobbit rosicchiarono il loro lembas in silenzio. Sam trovò il sapore molto migliore di quanto gli era sembrato di recente: il comportamento di Gollum gliene aveva fatto di nuovo notare la fragranza. Eppure non si sentiva a proprio agio. Gollum osservava ogni pezzetto lungo il tragitto dalla mano alla bocca, come un cane che aspetta accanto alla sedia di chi pranza. Solo quando ebbero finito e si prepararono al riposo, si convinse chiaramente che non avevano leccornie nascoste da dividere con lui. Allora se ne andò via, e si sedette solo a qualche passo di distanza, piagnucolando un poco.

«Ehi!», disse Sam rivolgendosi a Frodo a voce bassa ma non troppo: non gli importava che Gollum lo udisse o no. «Abbiamo bisogno di dormire, ma non tutti e due nello stesso tempo, con quel farabutto affamato nelle vicinanze. Non mi fido delle promesse: Sméagol o Gollum che sia, non cambierà certo le sue abitudini in un baleno, ve l’assicuro. Voi dormite pure, signor Frodo, ed io vi chiamerò quando non ce la farò più a tener aperte le palpebre. Gira e volta, il rischio che corriamo è sempre quello, finché non lo legheremo».

«Forse hai ragione, Sam», disse Frodo, parlando apertamente. «Vi è in lui un cambiamento, ma di che genere sin e quanto profondo, ancora non saprei dire. Tuttavia credo che seriamente non vi sia da aver alcun timore…. per il momento. Comunque, sorveglialo pure, se vuoi. Dammi due ore di tempo, non di più, e poi chiamami».

Frodo era tanto stanco che la testa gli cadde in avanti sul petto e si addormentò non appena finito di parlare. Sembrava che Gollum non avesse più alcun timore. Si raggomitolò e fu tosto colto dal sonno, del tutto indifferente ai loro discorsi. Infine si udì il suo respiro sibilare dolcemente fra i denti serrati, mentre egli era immobile come un sasso. Dopo qualche tempo, timoroso di addormentarsi anche lui, fermo com’era ad ascoltare i due compagni che respiravano, Sam si alzò e si mise a punzecchiare Gollum. Questi strinse e contorse le mani, ma non fece altro movimento. Sam si chinò e gli bisbigliò pesce all’orecchio, ma non udì alcuna risposta, nemmeno un’aritmia del respiro.

Sam si grattò la testa. «Dorme davvero», mormorò. «E se io fossi come Gollum, non si sveglierebbe mai più». Distolse la mente dai pensieri di spada e di corda che sorgevano numerosi, e andò a sedere accanto al suo padrone.

* * *

Quando si destò, il cielo era scuro, più scuro di quando avevano fatto colazione, anziché essere più chiaro. Sam balzò in piedi. Il sentirsi in forze e affamato contribuì a fargli improvvisamente capire che aveva dormito almeno nove ore, e nel frattempo il sole si era levato e coricato. Frodo dormiva ancora profondamente, ora lungo disteso sul fianco. Nessuna traccia di Gollum. A Sam vennero alla mente vari epiteti di biasimo e rimprovero appartenenti alla vasta nomenclatura paterna del Gaffiere; poi si rese conto che il suo padrone aveva avuto ragione: non vi era stata sino a quel momento necessità di alcuna protezione. Erano infatti ambedue vivi e vegeti.

«Povero disgraziato!», si disse con qualche rimorso. «Chissà dove se n’è andato!».

«Non lontano, non lontano!», disse una voce sopra di lui. Levò gli occhi e vide la grossa testa e le orecchie di Gollum staccarsi contro il cielo serale.

«Ehi, che stai facendo?», gridò Sam ripreso dagli antichi sospetti non appena veduta quella testa.

«Sméagol ha fame», disse Gollum. «Torna presto».

«Torna immediatamente!», urlò Sam. «Ehi! Torna qui!». Ma Gollum era scomparso.

Frodo si svegliò alle grida di Sam, e si sedette strofinandosi gli occhi. «Buon giorno!», disse. «Qualcosa che non va? Che ore sono?».

«Non lo so», rispose Sam. «Passato il tramonto, credo. E quello lì se n’è andato. Dice di aver fame».

«Non ti preoccupare!», disse Frodo. «Non possiamo farci nulla. Ma vedrai che tornerà. La promessa durerà ancora qualche tempo. E comunque non abbandonerebbe mai il suo Tesoro».

Poi, quando seppe che avevano dormito ore intere con Gollum, ed un Gollum assai affamato, in libertà accanto a loro, prese la notizia a cuor leggero. «Non pensare agli epiteti del tuo Gaffiere», disse. «Eri sfinito, e tutto è andato bene: ora siamo ambedue riposati. Ci attende una strada faticosa, il tratto più arduo».

«E per il cibo, come faremo?», obiettò Sam. «Quanto ci vorrà per finire il nostro lavoretto? E poi, come risolveremo il problema? Questo pan di via ti regge in piedi meravigliosamente bene, benché non appaghi per nulla le interiora, per così dire; con ciò non intendo essere irrispettoso verso coloro che l’hanno fatto, bensì esprimere quel che sento. Comunque, bisogna mangiarne un po’ ogni giorno, e la quantità non aumenta. Direi che le nostre provviste potranno bastare all’incirca tre settimane, ma, badate bene, con la cinta stretta ed il dente leggero. L’abbiamo consumato con troppa libertà, sinora».

«Non so quanto ci vorrà per… per finire», disse Frodo. «Quel ritardo sulle colline è stato disgraziato. Ma, Samvise Gamgee, mio caro Hobbit… anzi, Sam, mio più caro Hobbit, mio adorato amico…. non credo sia necessario riflettere su ciò che accadrà dopo. Che speranza abbiamo di finire il nostro lavoretto, come dici tu? E se vi dovessimo riuscire, chissà quali ne saranno le conseguenze? Se l’Unico Anello cade nel Fuoco, e noi siamo nelle vicinanze? Credi, Sam, che potremmo ancora aver bisogno di pane? Non penso. Se riusciremo a sorreggere le nostre membra sino al Monte Fato, avremo fatto del nostro meglio. Incomincio già a pensare che io non vi riuscirò».

Sam assentì col capo. Prese una mano del padrone e vi si chinò sopra. Non la baciò, ma le sue lacrime la bagnarono. Poi, abbandonandola, si strofinò il naso con una manica, e si alzò, pestando forte coi piedi, cercando di fischiettare e borbottando fra un tentativo e l’altro: «Dov’è quella dannata creatura?».

In verità, Gollum ritornò poco dopo, ma così silenzioso che ne notarono la presenza soltanto quando se lo videro davanti. Aveva il viso e le mani coperti di fango nero. Stava ancora masticando e sbavando. Non domandarono che cosa avesse mangiato, e preferirono non pensarvi.

«Vermi o scarafaggi o qualche altra cosa viscida nascosta nei buchi», si disse Sam. «Brr! Sudicia creatura; povero disgraziato!».

Gollum non disse nulla finché non ebbe bevuto abbondantemente, lavandosi nel ruscello. Poi si avvicinò a loro leccandosi le labbra. «Meglio adesso», disse. «Riposati? Pronti a ripartire? Cari piccoli Hobbit che dormono così bene! Avete fiducia di Sméagol ora? Molto, molto bene».

* * *

La tappa seguente del viaggio fu assai simile alla precedente. Man mano che avanzavano, la gola diveniva meno profonda, e il pendio del terreno meno scosceso. Il fondo era molto più terroso e quasi privo di sassi, e lentamente le pareti si tramutarono in semplici elevazioni del terreno. Il percorso incominciò a serpeggiare. La notte stava per finire, ma le nubi coprivano luna e stelle ed una pallida luce grigia che si diffondeva gradualmente fu l’unico segno dell’arrivo del giorno.

Impiegarono un’ora di freddo cammino per giungere alla fine del corso d’acqua. Gli argini divennero tumuli ricoperti di muschio. Dall’ultima roccia putrida il ruscello cadeva gorgogliando in una melma scura ove scompariva. Canne secche sibilavano e frusciavano, benché apparentemente non vi fosse vento.

* * *

Tutt’intorno a loro si stendevano adesso paludi ed acquitrini, che si perdevano a sud e ad est nella pallida luce. Nebbie e foschie s’innalzavano a spirale da cupi botri pieni di rumori. Un fetore soffocante stagnava nell’aria immobile. In lontananza, ormai quasi in linea retta verso sud, giganteggiavano le muraglie dei monti di Mordor, come un nero banco di nubi minacciose galleggianti sopra un insidioso mare di nebbia.

* * *

Gli Hobbit erano ormai interamente nelle mani di Gollum. Non sapevano, e non potevano indovinare, in quella luce caliginosa, che i confini settentrionali delle paludi si trovavano appena alle loro spalle e che tutto il resto degli acquitrini si stendeva a sud innanzi a loro. Avrebbero potuto, conoscendo il territorio, tornare leggermente indietro, e quindi, voltando ad est e percorrendo campagne sassose, giungere al nudo Dagorlad: il campo di un’antica battaglia svoltasi alle porte di Mordor. Non che un tale itinerario offrisse molte speranze: in quella pianura pietrosa non vi era riparo; vi era invece la strada che solevano percorrere gli Orchi e i soldati del Nemico. Neppure i manti di Lórien avrebbero potuto occultare i viandanti.

«Verso dove ci dirigiamo adesso, Sméagol?», domandò Frodo. «Dobbiamo attraversare queste fetide paludi?».

«Non dobbiamo non dobbiamo», disse Gollum, «se gli Hobbit vogliono raggiungere le montagne scure e vedere Lui al più presto. Un po’ indietro, un po’ a destra», il braccio macilento mostrò verso nord-est, «e delle strade dure e fredde vi porteranno fino ai cancelli del Suo paese. Molti dei Suoi saranno lì in attesa di ospiti, molto felici di condurli a Lui direttamente, oh sì! Il Suo Occhio scruta sempre in quella direzione. Scoprì là Sméagol, tanto tempo fa». Gollum rabbrividì. «Ma da allora Sméagol ha adoperato i propri occhi, sì, sì: ho adoperato occhi e piedi e naso da allora. Conosco altre vie. Più difficili, meno veloci, ma migliori, se non vogliamo che Lui veda. Seguite Sméagol! Vi guiderà attraverso le paludi, attraverso la nebbia, la bella nebbia fitta. Seguite Sméagol molto attentamente, e farete forse molta strada, molta molta strada, prima che Lui vi trovi».

* * *

Il giorno era ormai giunto, un mattino imbronciato e senza vento, e le esalazioni delle paludi stagnavano nell’aria greve. Nemmeno un raggio di sole trafiggeva il pesante cielo coperto, e Gollum pareva impaziente di proseguire subito. Quindi dopo un breve riposo si misero in marcia e scomparvero presto in un mondo ombroso e silente, nascosto alla vista di tutto ciò che li circondava, tanto dei colli da cui provenivano, quanto delle montagne ove erano diretti. Procedevano lenti e in fila indiana: Gollum, Sam, Frodo.

Frodo sembrava il più stanco dei tre, e benché avanzassero assai piano egli rimaneva sovente indietro. Gli Hobbit si accorsero ben presto che ciò che era parso loro un’unica grande palude era in realtà un’interminabile rete di stagni, di molli pantani, di sinuosi e soffocati corsi d’acqua. Fra l’uno e l’altro, un occhio e un piede abile potevano scoprire un vago sentiero. Gollum aveva certo l’abilità necessaria, e pareva che l’adoperasse tutta. La sua testa si voltava sempre da un lato e dall’altro del lungo collo, senza mai smettere di annusare e di mormorare da solo sottovoce. A volte levava la mano per farli fermare, mentre egli avanzava carponi, tastando il terreno con le dita delle mani e dei piedi, o semplicemente ascoltando con un orecchio premuto contro terra.

Era triste e spossante. Un inverno freddo e viscoso regnava ancora in quella contrada abbandonata. L’unica macchia verde era la schiuma di livide alghe sulla scura superficie oleosa delle cupe acque. Erbe morte e canne putride si ergevano nella foschia come lacere ombre di estati dimenticate.

Con l’avanzar del giorno la luce crebbe leggermente e la nebbia si diradò, facendosi più fine e trasparente. Alto sopra i vapori e la putrescenza del mondo, il Sole dorato cavalcava in un sereno paesaggio di spume abbacinanti, ma dal basso ne scorgevano soltanto uno spettro indistinto, pallido, senza calore né luce. Ma bastava quel vago ricordo della sua presenza perché Gollum guardasse torvo e tenesse il broncio. Si fermarono a riposare, rannicchiati come animali inseguiti, ai confini di una grande macchia di canne brune. Regnava un profondo silenzio, increspato solo in superficie dal fioco fruscio di gusci di sementi vuoti e dal vibrare di fili d’erba agli impercettibili spostamenti d’aria.

«Neanche un uccello!», disse triste Sam.

«No, niente uccelli», disse Gollum. «Carini gli uccelli!». Si leccò i denti. «Niente uccelli qui. Ci sono serpenti, vermi, altre cose negli stagni. Tante cose, tante cose brutte. Niente uccelli», concluse tristemente. Sam lo guardò con disgusto.

* * *

Passò così il loro terzo giorno di viaggio con Gollum. Prima che le ombre della sera ricominciassero ad allungarsi verso terre più felici, si rimisero in marcia, avanzando instancabilmente con qualche breve sosta, che serviva più per aiutare Gollum, che non per dar loro modo di riposare; infatti adesso anche lui era costretto a procedere con grande cautela, ed a volte lo vedevano indeciso e confuso. Erano giunti al limite delle Paludi Morte, e faceva buio.

Camminavano piano, curvi, stretti l’uno dietro l’altro, intenti a seguire ogni mossa di Gollum. Le paludi divenivano sempre più acquitrinose, grandi laghi stagnanti fra i quali era una crescente difficoltà trovare punti solidi ove poggiare i piedi senza affondare nel fango gorgogliante. Fortunatamente i viandanti erano leggeri, perché forse nel caso contrario non avrebbero trovato una via.

Poi, il buio divenne completo: l’aria stessa pareva nera e pesante da respirare. Quando d’un tratto apparvero delle luci, Sam si strofinò gli occhi credendo di avere le traveggole. Prima ne scorse una con l’angolino dell’occhio sinistro: un barlume pallido tosto scomparso; ma poco dopo ne spuntarono altre: alcune parevano fumo vagamente scintillante, altre, tremule fiammelle indistinte su candele invisibili; qua e là si torcevano come lenzuola fantasma piegate da mani nascoste. Ma nessuno dei suoi compagni diceva nulla.

Infine Sam non ne poté più. «Che cosa è tutto ciò, Gollum?», sussurrò. «Che sono queste luci? Le vedo ovunque intorno a noi. Siamo forse intrappolati? Cosa sono?».

Gollum levò gli occhi verso di lui. Si trovava innanzi a dell’acqua cupa e strisciava carponi a destra e sinistra in cerca di un sentiero. «Sì, sono ovunque intorno a noi», bisbigliò. «Luci furbe. Candele di cadaveri, sì sì. Non farci caso! Non guardare! Non seguirle! Dov’è il padrone?».

Sam si voltò e si accorse che Frodo era di nuovo rimasto indietro. Non riusciva a vederlo. Fece qualche passo nell’oscurità, osando appena muoversi o chiamare con voce più forte di un roco sussurro. D’un tratto urtò contro Frodo, immobile e perso nei pensieri, con gli occhi fissi sulle pallide luci. Teneva le braccia tese lungo i fianchi; fango ed acqua gli gocciolavano dalle mani.

«Venite, signor Frodo!», disse Sam. «Non le guardate! Gollum dice che non dobbiamo. Cerchiamo di mantenere il suo passo e di uscire da questo dannato posto al più presto possibile…, se ci sarà possibile!».

«Va bene!», disse Frodo, come destandosi da un sogno. «Ti seguo. Va” avanti!».

Sam, precipitandosi avanti, inciampò in qualche vecchia radice o ciuffo d’erba. Cadde lungo disteso, mettendo avanti le mani, che affondarono in una viscida e profonda melma, tanto che il suo viso toccò quasi la superficie scura del fango. Udì un fioco sibilo, un odore nauseabondo lo avvolse, le luci tremarono, danzarono e girarono vorticosamente. Per un attimo l’acqua sotto di lui parve una finestra dai vetri sporchi attraverso la quale egli sbirciava. Estraendo con violenza le mani dalla melma, Sam balzò indietro lanciando un urlo. «Ci sono cose morte, facce morte nell’acqua», disse pieno d’orrore. «Facce morte!».

Gollum rise. «Le Paludi Morte, sì, sì: così si chiamano», squittì. «Non dovreste guardare quando le candele sono accese».

«Chi sono? Cosa sono?», domandò Sam rabbrividendo e rivolgendosi a Frodo che ora era dietro di lui.

«Non lo so», rispose Frodo con voce sognante. «Ma anch’io li ho veduti. Negli stagni quando le candele erano accese. Ci sono in tutti gli stagni, pallidi visi, in fondo alle buie acque. Li vidi: volti crudeli e cattivi, volti nobili e tristi. Molti volti orgogliosi e belli, con alghe fra gli argentei capelli. Ma tutti sporchi, tutti putridi, tutti morti. In loro brilla una tetra luce». Frodo si nascose il viso fra le mani. «Non so chi siano; ma mi è parso di vedere Uomini ed Elfi, e Orchi accanto a loro».

«Sì, sì», disse Gollum. «Tutti morti, tutti putridi. Elfi, Uomini ed Orchi. Le Paludi Morte. Vi fu una grande battaglia tanto tempo fa, sì, così gli raccontarono quando Sméagol era giovane, quando io ero giovane ed il Tesoro non ancora arrivato. Fu una grande battaglia. Alti Uomini con lunghe spade, Elfi terribili, grida di Orchi. Combatterono sulla pianura per giorni e mesi avanti ai Neri Cancelli. Ma le Paludi si sono estese da allora, hanno ingoiato le tombe; avanzano sempre, sempre».

«Ma accadde più di un’era fa tutto ciò», disse Sam. «I Morti non possono essere effettivamente qui! Qualche diavoleria cova forse nell’Oscuro Paese?».

«Chissà! Sméagol non lo sa», rispose Gollum. «Non puoi raggiungerli, non puoi toccarli. Ci provammo una volta, sì, ci provammo, tesoro. Ci provai una volta, ma non si possono raggiungere. Forse sono solo forme che si vedono e non si toccano. No, tesoro! Tutti morti».

Sam gli lanciò uno sguardo cupo e rabbrividì di nuovo, credendo d’indovinare perché Sméagol aveva tentato di toccarli. «Ebbene, io non voglio vederli», disse. «Mai più! Non possiamo avanzare e andarcene via?».

«Sì, sì», disse Gollum. «Ma piano, molto piano. Molto attentamente! Altrimenti gli Hobbit andrebbero giù a raggiungere i Morti ed accendere piccole candeline. Seguite Sméagol! Non guardate le luci!».

* * *

Avanzò carponi verso destra, in cerca di un sentiero che contornasse lo stagno. Gli altri lo seguirono da vicino, curvi, adoperando spesso le mani come faceva lui. «Tre piccoli graziosi Gollum in fila indiana diventeremo, se continua ancora a lungo così», pensò Sam.

Infine giunsero all’estremità del nero lago e lo attraversarono pericolosamente, strisciando o saltando da un ciuffo d’erba traditore all’altro. Sovente mettevano un piede in fallo, cadevano in acque nauseabonde come pozzi neri, coprendosi di melma e di sporcizia quasi sino al collo e puzzando terribilmente.

Era notte fonda quando raggiunsero infine un terreno più stabile. Gollum sibilava e mormorava sottovoce, ma apparentemente era soddisfatto: in qualche modo misterioso, grazie a un misto di odorato, di tatto, e di straordinaria memoria per le forme al buio, sapeva di nuovo esattamente dove si trovavano e pareva sicuro della strada da percorrere.

«Avanti!», disse. «Cari piccoli Hobbit! Coraggiosi Hobbit! Molto stanchi, naturalmente; e lo siamo tutti, tesoro mio, tutti. Ma dobbiamo allontanare il padrone dalle luci cattive, sì, sì, dobbiamo». E con ciò ripartì quasi al trotto percorrendo quello che sembrava un lungo viale fra alte pareti di canne; gli altri cercarono di seguirlo quanto più velocemente potevano. Ma poco dopo Gollum si fermò all’improvviso, annusando l’aria con diffidenza, sibilando come se fosse inquieto o scontento.

«Che c’è?», ruggì Sam, fraintendendo il suo comportamento. «Che bisogno c’è di annusare? La puzza mi fa quasi svenire anche tenendo stretto il naso. Tu puzzi, ed il padrone puzza; tutto puzza qui intorno».

«Sì, sì, e anche Sam puzza!», rispose Gollum. «Povero Sméagol lo sente, ma buon Sméagol lo sopporta. Aiuta il caro padrone. Ma non importa. È l’aria che si muove, qualcosa che cambia. Sméagol si domanda che cosa; non è contento».

* * *

Si rimise in cammino, ma la sua inquietudine crebbe e di tanto in tanto, raddrizzandosi sulle gambe posteriori, allungava il collo verso est e verso sud. Per un certo tempo gli Hobbit non riuscirono né a udire né a sentire ciò che lo turbava. Poi, improvvisamente, si fermarono tutti e tre insieme, irrigidendosi in ascolto. A Frodo e a Sam parve di udire in lontananza un lungo grido, alto, stridulo e crudele. Rabbrividirono. Allo stesso tempo percepirono il cambiamento nell’aria, che divenne molto fredda. Mentre erano immobili e con le orecchie tese, sentirono come un forte vento giungere da lontano. Le luci indistinte tremarono, impallidirono, si spensero.

Gollum si rifiutava di avanzare. Rimase fermo, tremebondo e balbettante, mentre un turbine di vento si precipitava su di loro, sibilando e ringhiando sulle paludi. La notte si fece meno cupa, abbastanza chiara da permettere di vedere, o d’intravedere, informi banchi di nebbia che si avviluppavano e si contorcevano oltrepassando i viaggiatori. Levando gli occhi videro le nubi rompersi e lacerarsi, mentre alta nel Sud una luna scintillante comparve fra i lembi stracciati.

Per un attimo la sua immagine rallegrò il cuore degli Hobbit, ma Gollum si accasciò per terra, mormorando minacce contro la Faccia Bianca. Improvvisamente Frodo e Sam, che fissavano il cielo respirando profondamente l’aria fresca, la videro arrivare: una piccola nube proveniente dai colli maledetti, un’ombra nera partita da Mordor, un’immensa forma alata e immonda. Saettò davanti alla luna e con un grido di morte volò verso occidente, oltrepassando il vento con la sua feroce rapidità.

Caddero in avanti, senza badare al terreno gelido su cui si accasciavano. Ma l’ombra orrida roteò e tornò indietro, volando ora più in basso e proprio su di loro, sfiorando con le sue spaventose ali le esalazioni delle paludi. Poi scomparve, volando nuovamente verso Mordor con tutta la velocità della collera di Sauron, mentre dietro di essa il vento ruggente lasciava nude e spoglie le Paludi Morte. Sino a perdita d’occhio, sino alla lontana minaccia delle montagne, lo squallido deserto era puntellato dall’intermittente luce della luna. Frodo e Sam si alzarono, strofinandosi gli occhi, come bambini destati da un cattivo sogno, che trovano il mondo intorno ancora immerso nella notte amica. Ma Gollum giaceva per terra come stordito. Lo destarono con difficoltà, ed egli per qualche tempo non volle sollevare il viso; in ginocchio e poggiato in avanti sui gomiti, si copriva la nuca con le grandi mani piatte.

«Spettri!», gemette. «Spettri con ali! Il Tesoro è il loro padrone. Vedono tutto, tutto. Nulla può sfuggire loro. Maledetta Faccia Bianca! E raccontano a Lui ogni cosa. Lui vede, Lui sa. Ah, gollum, gollum, gollum, gollum!». E fin quando la luna non tramontò lontano, ad ovest, oltre Tol Brandir, si rifiutò di alzarsi e di muoversi.

* * *

Da quel momento in poi, Sam ebbe la sensazione che un nuovo cambiamento fosse avvenuto in Gollum. Era più prodigo di lusinghe e di manifestazioni d’affetto, ma Sam gli sorprese a volte qualche strana espressione negli occhi, soprattutto diretta verso Frodo; inoltre ricadeva sempre più sovente nel vecchio modo di parlare. Un’altra crescente preoccupazione inquietava Sam: Frodo sembrava sfinito, sfinito sino all’esaurimento. Non diceva nulla, non parlava quasi mai e non si lamentava, ma camminava come chi porta un fardello il cui peso va sempre crescendo; e trascinava ogni passo con maggior lentezza, tanto che Sam doveva spesso pregare Gollum di attendere, perché il padrone non rimanesse indietro.

Infatti, ad ogni passo che lo avvicinava ai cancelli di Mordor, Frodo sentiva l’Anello appeso alla catenella intorno al collo farsi più gravoso. Ora aveva persino la sensazione che fosse un vero peso che lo trascinava verso terra. Ma ciò che più l’inquietava era l’Occhio. Così chiamava infatti quella forza, più insopportabile del peso dell’Anello, che lo sfiniva e lo accasciava durante la marcia. L’Occhio: la crescente orribile sensazione di una volontà ostile che si sforzava con tutta la sua potenza di penetrare ogni minima ombra di nube, di terra, di carne, per vederlo: per immobilizzarlo sotto il suo sguardo micidiale, nudo, inamovibile. Quanto fini, quanto fragili e fini erano ormai i veli che lo proteggevano! Frodo sapeva esattamente dove si trovava il cuore di quella volontà; lo poteva dire con la certezza di chi ad occhi chiusi indica la direzione del sole. Era di fronte a lui, e ne sentiva la potenza martellare sulla propria fronte.

Gollum probabilmente provava una sensazione simile. Ma che cosa accadesse nel suo cuore infelice, straziato dalla pressione dell’Occhio, dal desiderio dell’Anello così vicino e dall’umiliante promessa fatta sotto la minaccia della gelida spada, gli Hobbit lo ignoravano. Frodo non vi pensava nemmeno. Il pensiero di Sam era interamente rivolto al suo padrone, e notava appena la cupa nube che gravava sul proprio cuore. Fece camminare Frodo avanti a sé, osservandone attentamente i più piccoli movimenti, sorreggendolo quando inciampava, cercando di incoraggiarlo con goffe parole.

* * *

Quando il giorno infine giunse, gli Hobbit furono stupefatti di vedere quanto fossero ormai vicine le infauste montagne. L’aria era più limpida e fredda e, pur lontane, le mura di Mordor non erano più una nuvolosa minaccia all’orizzonte, ma torri nere e tetre che dominavano tenebrose un desolato deserto. Le paludi stavano finendo, e le ultime propaggini erano costituite da terreni torbosi e da ampi spiazzi di fango secco e crepato. Innanzi a loro, la campagna si innalzava in lunghi pendii, nudi e spietati, verso le desertiche terre che conducevano ai cancelli di Sauron.

Finché durò la grigia luce, rimasero accovacciati sotto un masso nero, strisciando come vermi per paura che il terrore alato passasse nuovamente, spiandoli con i suoi occhi crudeli. Il resto del viaggio fu come un’ombra di crescente paura ove la memoria non trovava nulla su cui poggiarsi. Per altre due notti avanzarono faticosamente attraverso la spossante campagna senza sentieri. L’aria parve loro divenire aspra, piena di un odore amaro che mozzava il respiro e prosciugava la bocca.

Infine, la mattina del quinto giorno di marcia con Gollum, si fermarono di nuovo. Innanzi a loro si ergevano scure nell’alba le imponenti montagne, perdendosi fra nuvole e fumi. Grossi speroni e colline spaccate sporgevano dalle loro falde e distavano ormai non più di una dozzina di miglia. Frodo si guardò intorno inorridito. Se le Paludi Morte e le aride brughiere delle Terre di Nessuno erano spaventose, di gran lunga più immondo era il paesaggio che il giorno svelava lentamente al suo sguardo restio. Persino al Lago delle Facce Morte sarebbe giunto qualche spettro sparuto della verde primavera; ma lì mai più sarebbero tornate la primavera e l’estate. Ivi nulla viveva, nemmeno le escrescenze lebbrose, i parassiti della putredine. Gli stagni boccheggianti erano soffocati da cenere e da fanghi mobili d’un bianchiccio malsano, come se le montagne avessero vomitato la feccia delle loro viscere sulla terra intorno. Alti tumuli di roccia stritolata e in polvere, grandi coni di terra inaridita dal fuoco e macchiata di veleno si ergevano in file interminabili come in un osceno cimitero che una luce riluttante scopriva lentamente. Erano giunti alle desolate terre innanzi a Mordor: il monumento durevole delle tetre fatiche dei suoi schiavi, destinato a sopravvivere anche qualora ogni tentativo di Sauron fosse stato vano; una terra immonda, malata, senza speranza di risanamento… salvo forse un’invasione delle acque del Grande Mare che la sommergesse nell’oblio. «Mi sento male», disse Sam. Frodo non aprì bocca.

Rimasero per qualche minuto immobili come chi, sull’orlo del sonno ove l’incubo sta in agguato, cerca di difendersi, pur sapendo che si giunge al mattino soltanto attraverso le ombre. La luce si fece più diffusa e intensa. I pozzi spalancati ed i tumuli velenosi divennero orribilmente chiari. Il sole in cielo vagava fra nubi e lunghe fasce di fumo, ma persino la sua luce era deturpata. Gli Hobbit non l’accolsero con gioia; pareva ostile, svelando la loro fragilità di piccoli spettri squittenti ed erranti fra i cumuli di cenere dell’Oscuro Signore.

* * *

Troppo stanchi per proseguire, cercarono un posto in cui riposare. Rimasero per qualche tempo muti, seduti all’ombra di un tumulo di scorie che emanava fetide esalazioni, mozzando loro il respiro e soffocandoli. Gollum fu il primo ad alzarsi, sputando e imprecando; senza rivolgere agli Hobbit uno sguardo né una parola, strisciò via carponi. Frodo e Sam lo seguirono sino a un grande pozzo quasi circolare, il cui argine ad ovest era assai alto. Era freddo e morto, ed un infetto lezzume di oleosa melma multicolore ne costituiva il fondo. Si acquattarono in quel laido fosso, sperando che l’ombra li occultasse alla vista dell’Occhio.

La giornata trascorse lenta. Erano torturati da una sete ardente, ma bevvero soltanto poche gocce dalle bottiglie empite nel burrone, che adesso nel ricordo sembrava loro un luogo di pace e di bellezza. Gli Hobbit stabilirono un turno di guardia. Sulle prime, stanchi com’erano, nessuno dei due riuscì a dormire; ma quando il sole lontano stava per tuffarsi fra lente nubi, Sam si addormentò. Frodo era di guardia. Giaceva supino sul pendio del pozzo, ma il senso di oppressione che gravava su di lui non si alleggeriva minimamente. Levò gli occhi al cielo striato di fumo e vide strani fantasmi, oscure figure a cavallo, volti del passato. Perse il conto del tempo nel dormiveglia, e infine lo colse l’oblio.

* * *

Improvvisamente Sam si svegliò, credendo di udire il padrone che lo chiamava. Era sera. Frodo non poteva aver chiamato, poiché si era addormentato, scivolando quasi in fondo al pozzo. Gollum gli era accanto. Per un attimo, Sam ebbe l’impressione che stesse cercando di svegliare il padrone, ma poi si accorse che non era così. Gollum parlava da solo. Sméagol discuteva con un immaginario interlocutore che si serviva della sua medesima voce, facendola però squittire e sibilare. Una luce pallida e una luce verde si alternavano nei suoi occhi mentre parlava. «Sméagol ha promesso», disse il primo pensiero. «Sì, sì, tesoro mio», fu la risposta, «abbiamo promesso: di salvare il Tesoro, di non farlo avere a Lui…. mai. E invece sta andando verso di Lui, ogni passo più vicino. Che cosa vuole farne l’Hobbit, chissà, sì, chissà!».

«Non lo so. Non posso far nulla. Il padrone ce l’ha. Sméagol ha promesso di aiutare il padrone».

«Sì, sì, di aiutare il padrone: il padrone del Tesoro. Ma se fossimo noi il padrone, allora potremmo usarlo, sì, e continuare a mantenere la promessa».

«Ma Sméagol ha detto che sarebbe stato molto buono. Caro Hobbit! Ha tolto la corda cattiva dalla gamba di Sméagol. Mi parla gentilmente».

«Molto molto buono, eh, tesoro mio? Siamo buoni allora, buoni come pesci, dolce tesoro, ma con noi stessi. Senza far male al caro Hobbit, naturalmente, no, no».

«Ma il Tesoro mantiene la sua promessa», obiettò la voce di Sméagol.

«Allora prendilo», disse l’altro, «e manterremo noi la promessa! Saremo noi il padrone, gollum! Fa’ che l’altro Hobbit, l’Hobbit cattivo e sospettoso, strisci, sì, gollum!».

«Ma non l’Hobbit gentile e caro?».

«Oh no, se non ci fa piacere. Eppure è un Baggins, tesoro mio, sì, un Baggins. Fu un Baggins a rubarlo. Lo trovò e non disse nulla, nulla. Noi odiamo Baggins».

«No, non questo Baggins».

«Sì, tutti i Baggins. Tutti quelli che hanno il Tesoro. Dobbiamo averlo noi!».

«Ma Lui vedrà, Lui saprà. Ce lo toglierà!».

«Lui vede. Lui sa. Lui ci ha sentiti fare sciocche promesse… contro i Suoi ordini, sì. Bisogna prenderlo. Gli Spettri cercano. Bisogna prenderlo».

«Non per Lui!».

«No, dolce tesoro. Vedi, tesoro mio: se ce l’abbiamo noi, allora possiamo fuggire, anche da Lui, eh? Forse diventiamo molto forti, più degli Spettri. Sire Sméagol? Gollum il Grande? Il Gollum! Mangia pesce ogni giorno, tre volte al giorno, fresco dal Mare. Gollum più prezioso dei Tesori! Bisogna averlo. Lo vogliamo, lo vogliamo, lo vogliamo!».

«Ma sono in due. Si sveglieranno troppo presto e ci uccideranno», piagnucolò Sméagol facendo l’ultimo sforzo. «Non adesso. Non ancora».

«Lo vogliamo! Ma…». Qui vi fu una lunga pausa, come se un nuovo pensiero si fosse destato in lui. «Non ancora, eh? Forse no. Lei potrebbe aiutare. Lei forse sì».

«No, no! Non in quel modo!», gemette Sméagol.

«Sì! Lo vogliamo! Lo vogliamo!».

Ogni volta che parlava il secondo pensiero, la lunga mano di Gollum strisciava fuori lentamente, frugando e tastando Frodo, per poi ritrarsi all’improvviso quando parlava la voce di Sméagol. Infine ambedue le braccia, con le lunghe dita che si contraevano spasmodicamente, brancolarono verso il collo dell’Hobbit.

Sam era rimasto immobile, affascinato dalla discussione ma intento ad osservare da sotto le palpebre socchiuse ogni minimo movimento di Gollum. Per la sua mente semplice il pericolo maggiore di costui era la fame, il desiderio di mangiare carne hobbit. Ora si rendeva conto di essersi sbagliato: Gollum sentiva il terribile richiamo dell’Anello. L’Oscuro Signore era beninteso il Lui di cui parlava, ma Sam si domandò chi fosse Lei. Una delle infide amicizie fatte dalla misera creatura durante i suoi vagabondaggi, probabilmente. Poi dimenticò la questione, perché la situazione era chiaramente andata troppo avanti e stava diventando pericolosa. Una grande pesantezza gli aveva invaso le membra, ma con uno sforzo riuscì a mettersi a sedere. Qualcosa gli raccomandava di essere cauto e di non rivelare che aveva udito la discussione. Trasse un profondo respiro e sbadigliò rumorosamente.

«Che ore sono?», disse con voce sonnacchiosa.

Gollum mandò un lungo sibilo. Si rizzò un momento, teso e minaccioso; poi si accasciò, cadendo in avanti e strisciando carponi su per l’argine del pozzo. «Cari Hobbit! Caro Sam!», disse. «Dormiglioni, sì, dormiglioni! Lasciate che Sméagol faccia da guardia! Ma è sera. Il crepuscolo sta arrivando. È ora di partire».

«Eccome!», pensò Sam. «È anche ora di separarci». Eppure gli balenò in mente l’idea che ormai Gollum sarebbe forse stato altrettanto pericoloso libero di quanto lo era insieme a loro. «Maledetto! Potesse soffocare!», mormorò. Incespicò giù per il pendio e svegliò il padrone.

Cosa assai strana, Frodo si sentiva rincuorato. Aveva sognato. L’ombra scura era passata, e una splendida visione gli era apparsa in quel paese infetto. Non ne conservava alcun ricordo, eppure per causa sua si sentiva felice e col cuore più leggero. Il fardello gli pesava di meno. Gollum lo salutò come un cane gioioso. Schiamazzava e chiacchierava, facendo scricchiolare le lunghe dita ed accarezzando le ginocchia di Frodo. Questi gli sorrise.

«Coraggio!», disse. «Ci hai guidati bene e fedelmente. Questa è l’ultima tappa. Guidaci al Cancello, e io non ti domanderò di proseguire. Guidaci al Cancello e potrai andare dove desideri…, salvo che dai nostri nemici».

«Al Cancello, eh?», squittì Gollum, apparentemente sorpreso e spaventato. «Al Cancello, dice il padrone! Sì, così dice. E buon Sméagol fa quel che gli si dice, oh sì. Ma quando saremo più vicini forse vedremo, forse allora vedremo. Non sarà per nulla carino. Oh no! Oh no!».

«Avanti, va’!», disse Sam. «Facciamola finita!».

* * *

Il crepuscolo stava sopraggiungendo quando s’inerpicarono fuori dal pozzo e si avviarono lentamente attraverso le terre morte. Avevano appena percorso un breve tratto, quando sentirono di nuovo la paura che si era impadronita di loro nel momento in cui la forma alata era saettata nel cielo sulle paludi. S’arrestarono, acquattandosi sul fetido terreno; ma non videro nulla nel cupo cielo della sera, e presto la minaccia passò, alta sulle loro teste, spedita forse da Barad-dûr per una missione urgente. Dopo qualche tempo Gollum si alzò e si rimise ad avanzare, mormorando tremebondo.

Circa un’ora dopo la mezzanotte furono colti dal terrore per la terza volta, ma adesso sembrava più remoto, come se stesse volando alto sopra le nubi, precipitandosi ad ovest con velocità spaventosa. Gollum, comunque, era paralizzato dal panico, convinto che li stessero inseguendo, che il loro arrivo fosse ormai noto.

«Tre volte», gemette. «Tre volte è una minaccia. Sentono la nostra presenza qui, sentono il Tesoro. Il Tesoro è il loro padrone. Non possiamo più andare avanti, no. È inutile! Inutile!».

Preghiere e parole gentili non servirono a nulla. Soltanto quando Frodo glielo ordinò con tono feroce, portando la mano all’elsa della spada, Gollum acconsentì a rialzarsi. Si levò allora in piedi ringhiando e li precedette come un cane bastonato.

Camminarono incespicando durante tutto il resto della greve notte, avanzando in silenzio col capo chino, senza vedere nulla, senza udire altro che il vento sibilante nelle orecchie, sino al sorgere di un altro giorno di terrore.

CAPITOLO III IL CANCELLO NERO È CHIUSO

Prima che albeggiasse, il loro viaggio a Mordor era giunto al termine. Paludi e deserti giacevano alle loro spalle; innanzi a loro, scure contro un pallido cielo, le imponenti montagne ergevano la testa fiera e minacciosa.

Ad ovest, Mordor era fiancheggiato dalla tetra muraglia dell’Ephel Dùath, le Montagne dell’Ombra, e a nord dai frastagliati picchi e dalle nude creste dell’Ered Lithui, grigi come cenere. Ma nel punto in cui queste catene si ravvicinavano, non essendo d’altronde altro che segmenti di un unico muro intorno alle tetre pianure di Lithlad e di Gorgoroth, ed al triste mare interno di Nùrnen, due lunghe braccia sporgevano verso nord; fra queste braccia si apriva una profonda gola. Era questo Cirith Gorgor, il Passo Maledetto l’entrata al paese del Nemico. Le alte creste da ambedue le parti si abbassavano, e all’imboccatura si ergevano due rupi scarne e nere, sulle quali s’innalzavano i Denti di Mordor, due possenti e imponenti torri. In tempi assai lontani erano state costruite dagli orgogliosi e potenti Uomini di Gondor per impedire che Sauron, dopo la disfatta e la fuga, tentasse di riprendere l’antico reame. Ma la potenza di Gondor s’indebolì, e gli Uomini dormirono, e da lunghi anni ormai le torri erano vuote. Poi Sauron tornò. Ora le torri di guardia, che stavano cadendo in rovina, erano state riparate ed empite di armi e fornite di forti guarnigioni che vigilavano incessantemente. Dalle loro facciate di pietra le cupe fessure delle finestre guardavano a nord, ad est e ad ovest, ed ogni feritoia era piena di occhi sempre desti.

Fra una parete e l’altra della gola, l’Oscuro Signore aveva costruito un bastione di roccia. In esso si apriva un unico cancello di ferro e sul suo parapetto le sentinelle montavano la guardia ininterrottamente. Ai piedi dei colli, da ambedue i lati, erano state scavate nella roccia centinaia di caverne e di buchi, ove un esercito di Orchi attendeva il segnale per precipitarsi fuori come formiche nere in guerra. Nessuno poteva oltrepassare i Denti di Mordor senza sentirne il morso, a meno di non essere stato invitato da Sauron, o di conoscere i segreti lasciapassare che aprivano Morannon, il nero cancello del suo paese.

I due Hobbit fissarono le torri e le mura con disperazione. Persino da lontano e nella fioca luce, scorgevano il movimento delle nere guardie sulla muraglia e delle sentinelle innanzi al Cancello. I viandanti stavano sbirciando dal bordo di un fosso pietroso all’ombra dello sperone settentrionale dell’Ephel Dùath. Attraversando l’aria pesante in linea retta, un corvo non avrebbe forse percorso più di mezzo miglio, volando dal loro nascondiglio alla nera sommità della vicina torre. Un vago fumo vi si innalzava a spirale, come se il fuoco covasse all’interno della collina.

* * *

Venne il giorno, e il sole di paglia sbirciò dalle smorte creste dell’Ered Lithui. Poi all’improvviso si udirono squillare sfrontate le trombe: suonavano dalle torri, mentre lontane risposte giungevano da fortezze ed avamposti nascosti nei colli; ancor più distanti, remoti ma minacciosi echeggiavano i possenti corni e tamburi di Barad-dûr. Un altro spaventoso giorno di paura e di fatica incominciava a Mordor; le sentinelle notturne furono richiamate nelle prigioni sotterranee e negli abissali saloni, mentre le guardie di giorno, dallo sguardo crudele e malvagio, si recavano ai loro posti. Un bagliore d’acciaio scintillava sulle mura.

* * *

«Ebbene, eccoci qui», disse Sam. «Qui è il Cancello, ed ho l’impressione che più avanti di qui non andremo. Parola d’onore, il mio Gaffiere avrebbe due parole “da dirmi se mi vedesse ora! Me lo ripeteva spesso che sarei finito male se non guardavo dove mettevo i piedi, spesso me lo ripeteva. Ma ormai credo che non lo rivedrò più, il vecchio. Perderà l’occasione di dirmi te l’avevo detto, Sam: mi dispiace. Potrebbe ripetermelo a perdita di fiato, se soltanto riuscissi a rivedere il suo vecchio viso. Ma dovrei darmi prima una lavata, altrimenti non mi riconoscerebbe.

«Suppongo che sia inutile domandarsi da che parte andiamo adesso. Non possiamo andare avanti…. a meno che non decidiamo di chiedere agli Orchi il permesso di passare».

«No, no!», esclamò Gollum. «Inutile. Non possiamo andare avanti. Sméagol l’aveva detto. Aveva detto: andremo al Cancello e poi vedremo. E adesso vediamo davvero. Oh sì, tesoro mio, che vediamo. Sméagol sapeva che gli Hobbit non potevano passare di qui. Oh sì, Sméagol lo sapeva».

«E allora perché diamine ci hai portati sin qui?», disse Sam, poco disposto ad essere equo e ragionevole.

«Il padrone l’ha detto. Il padrone dice: Portaci al Cancello. E buon Sméagol lo fa. Il padrone l’ha detto, saggio padrone».

«Infatti», disse Frodo. Il suo volto era teso e severo, ma risoluto. Era sporco, magro, sfinito, ma non più curvo, ed i suoi occhi erano limpidi. «Lo dissi, perché intendo entrare a Mordor e non conosco altra via. Quindi entrerò da qui. Desidero che nessuno mi accompagni».

«No, no, padrone!», gemette Gollum accarezzandolo con aria disperata. «Inutile di qui! Inutile! Non portare il Tesoro a Lui! Lui ci mangerà tutti se riesce ad averlo, mangerà il mondo intero. Tienilo tu, caro padrone, e sii gentile con Sméagol. Non darlo a Lui. Altrimenti parti, va’ in bei posti, e ridallo al piccolo Sméagol. Sì, sì, padrone: restituirlo, eh? Sméagol lo terrà al sicuro, farà tanto bene, specialmente ai cari piccoli Hobbit. Hobbit è meglio che tornino a casa. Non andate al Cancello!».

«Mi è stato ordinato di recarmi nel paese di Mordor, quindi io vi andrò», rispose Frodo. «Se non vi è che un’unica via, dovrò prendere quella. Ciò che accadrà dopo sarà inevitabile».

* * *

Sam non disse nulla. L’espressione sul volto di Frodo era sufficiente a fargli capire che sarebbe stato inutile parlare. Dopo tutto, non aveva mai avuto speranza nel buon esito della faccenda; ma poiché era un Hobbit allegro, la speranza era cosa superflua fin quando la disperazione poteva essere rimandata. Ora erano giunti all’amara conclusione. Ma lui era stato sempre al fianco del suo padrone; era partito principalmente per questo motivo, ed avrebbe continuato a rimanergli accanto. Il suo padrone non si sarebbe recato a Mordor da solo; Sam l’avrebbe accompagnato… e si sarebbero infine liberati di Gollum.

Questi, tuttavia, non intendeva ancora essere lasciato libero. Si inginocchiò ai piedi di Frodo, torcendosi le mani e piagnucolando. «Non di qui, padrone!», supplicava. «C’è un’altra via. Sì che c’è. Un’altra via più sicura, più difficile da trovare, più segreta. Ma Sméagol la conosce. Permetti che Sméagol te la mostri!».

«Un’altra via!», esclamò Frodo dubbioso, posando su Gollum uno sguardo scrutatore.

«Ssì! Ssì davvero! C’era un’altra via. Sméagol la trovò. Andiamo a vedere se è ancora lì!».

«Non ne avevi mai parlato prima».

«No. Il padrone non ha chiesto. Padrone non ha detto cosa intendeva fare. Non lo dice al povero Sméagol. Dice: Sméagol, portami al Cancello… e poi addio! Sméagol può andarsene, ed essere buono e bravo. Ma ora dice: Intendo entrare a Mordor da qui. Perciò Sméagol è molto impaurito. Non vuole perdere il caro padrone. Ed ha promesso, il padrone gli ha fatto promettere di salvare il Tesoro. Ma il padrone lo porta direttamente a Lui, alla Mano Nera, se il padrone decide di andare di qui. Quindi Sméagol deve salvarli tutti e due, e pensa a un’altra via che esisteva, una volta. Caro padrone. Sméagol molto buono, aiuta sempre».

* * *

Sam aggrottò le sopracciglia. Se i suoi occhi avessero avuto il potere di perforare Gollum, lo avrebbero fatto. La sua mente era piena di dubbi. Tutte le apparenze davano ad intendere che Gollum fosse genuinamente affranto e ansioso di aiutare Frodo. Ma Sam, ricordando la discussione udita, trovava assai difficile convincersi che il sottomesso Sméagol avesse ripreso il sopravvento: certo, non era stata la sua voce a vincere la disputa. L’idea di Sam era che le due metà, Sméagol e Gollum (che egli fra sé e sé chiamava Servile e Scurrile), avessero stabilito un periodo di tregua e di temporanea alleanza: nessuna delle due desiderava che il Nemico s’impadronisse dell’Anello; ambedue volevano evitare che Frodo fosse fatto prigioniero per tenerlo sotto gli occhi il più a lungo possibile, in ogni caso fino a quando fosse esistita per Scurrile la possibilità di mettere mano sul suo «Tesoro». Che vi fosse davvero un altro ingresso a Mordor, Sam ne dubitava assai.

«E meno male che nessuna delle due metà conosce le intenzioni del padrone», si disse. «Se Gollum sapesse che il signor Frodo sta cercando di mettere fine al suo Tesoro una buona volta, ci sarebbero guai assai presto, scommetto. Comunque, il vecchio Scurrile è talmente terrorizzato dal Nemico, ai cui ordini egli è o era, che preferirebbe tradirci anziché essere scoperto mentre ci aiuta, e anche, probabilmente, anziché permettere che il suo Tesoro venga annientato. In ogni caso, questa è la mia opinione; spero che il padrone rifletterà accuratamente. È più saggio di molti, ma è tenero di cuore. È impossibile per un Gamgee prevedere la sua prossima mossa».

Frodo non rispose subito a Gollum. Mentre i dubbi si affollavano nella lenta ma scaltra mente di Sam, egli fissava, immobile, la scura cresta di Cirith Gorgor. Il fosso nel quale si erano rifugiati era scavato nel fianco di una piccola collinetta, leggermente più in alto di una lunga valle a forma di trincea che lo separava dagli speroni esterni dei monti. Nel centro della valle si ergevano le nere fondamenta della torre occidentale. Alla luce del mattino si potevano ora distinguere chiaramente le strade pallide e sabbiose convergenti al Cancello di Mordor; una serpeggiava verso nord, un’altra scompariva ad est nella foschia che avviluppava le falde dell’Ered Lithui e la terza si dirigeva là dove si trovavano i viandanti, descrivendo una curva intorno alla torre e inoltrandosi in una stretta gola che passava poco Più in basso del loro rifugio. Ad ovest, sulla loro destra, procedeva lungo le falde dei monti per poi scomparire verso sud nelle profonde ombre che ammantavano tutti i fianchi occidentali dell’Ephel Dùath; percorreva quindi la fascia di terra compresa fra le montagne ed il Grande Fiume.

Mentre guardava tutto ciò, Frodo si accorse che vi era movimento ed agitazione nella pianura. Sembrava che interi eserciti fossero in marcia, benché per la maggior parte nascosti dalle esalazioni e dai fumi provenienti dalle paludi e dagli acquitrini. Ma qua e là intravide il bagliore di lance e di elmi, mentre lungo le strade cavalcavano numerose compagnie di cavalieri. Rammentò la visione apparsa ai suoi occhi dall’alto di Amon Hen pochi giorni prima, anche se ora pareva che fossero passati anni interi. Allora capì che la speranza balenatagli nel cuore in un momento di follia era del tutto vana. Le trombe non suonavano la sfida, bensì il benvenuto. Non si trattava qui di un assalto degli Uomini di Gondor contro l’Oscuro Signore, della carica di cavalieri risorti come spettri di vendetta dalle tombe di valorosi da tempo scomparsi. Questi erano Uomini di un’altra razza, provenienti dalle vaste terre dell’Est, che si radunavano agli ordini del loro Signore e Capo; eserciti accampatisi di notte innanzi al Cancello, e che ora si recavano a ingrandire ulteriormente il suo crescente potere. Come se si fosse reso improvvisamente conto di quanto fosse pericolosa la loro posizione, soli, nella luce del giorno nascente, vicini a quella imponente minaccia, Frodo si strinse il fragile cappuccio grigio intorno al capo e ridiscese velocemente nella conca. Quindi si rivolse a Gollum.

«Sméagol», gli disse, «voglio una volta ancora fidarmi di te. Anzi, sembra che debba farlo, e che sia mio destino ricevere aiuto da te, l’ultima persona da cui l’avrei cercato, e tuo destino aiutare colui che inseguisti per tanto tempo con intenti malvagi. Sinora hai meritato la mia fiducia, mantenendo sinceramente la promessa fatta. Sinceramente, lo dico e ne sono convinto», soggiunse lanciando un’occhiata a Sam, «perché due volte ormai siamo stati in tuo potere, e tu non ci hai fatto alcun male. Non hai nemmeno tentato di prendermi ciò che un tempo cercavi. Che la terza volta possa essere la migliore! Ma ti avverto, Sméagol, sei in pericolo».

«Sì, sì, padrone!», disse Gollum. «Terribile pericolo! Le ossa di Sméagol tremano al pensiero, ma lui non fugge. Deve aiutare il caro padrone».

«Non intendevo parlare del pericolo che incombe su tutti noi», disse Frodo. «Mi riferisco a un tuo pericolo personale. Hai prestato giuramento su ciò che chiami il Tesoro. Ricordalo! Esso ti terrà vincolato alla promessa, ma cercherà di ritorcerla contro di te per perderti. Già ti stai torcendo, me lo hai dimostrato tu stesso scioccamente poco fa. Ridallo a Sméagol, hai detto. Non ripeterlo! Che un tale pensiero non cresca nella tua mente! Non lo riavrai mai. Ma il desiderio potrebbe condurti a una triste fine. Non lo riavrai mai. Se non avessi più altra scelta, Sméagol, mi infilerei al dito il Tesoro, il Tesoro che ti dominava tanto tempo addietro. Se io, portandolo, ti comandassi, tu obbediresti, anche se si trattasse di lanciarti da un precipizio o di buttarti nel fuoco. E tale sarebbe il mio comando. Perciò in guardia, Sméagol!».

Sam guardò il padrone con aria d’approvazione, ma anche con sorpresa: Frodo aveva un’espressione sul volto ed un tono di voce del tutto nuovi. Sam aveva sempre ritenuto che la bontà del caro padrone fosse talmente grande da implicare inevitabilmente un notevole grado di cecità. Nutriva anche, beninteso, la ferma e contrastante convinzione che il signor Frodo fosse la persona più saggia del mondo (a parte, forse, il vecchio signor Bilbo e Gandalf). Gollum, a modo suo, avrebbe potuto commettere un simile errore (tanto più che la sua conoscenza era assai più recente) confondendo la bontà con la cecità. In ogni caso l’allocuzione lo confuse e lo terrorizzò. Si accasciò a terra, incapace di pronunciare parole che non fossero caro padrone.

Frodo attese pazientemente per qualche attimo, poi parlò di nuovo ma con minor durezza. «Suvvia, Gollum o Sméagol se preferisci, indicami quest’altra via, e dimostrami, se puoi, quale speranza essa mi offre, e se è tale da giustificare una deviazione dal mio itinerario. Ho fretta».

Ma Gollum era in uno stato pietoso, e la minaccia di Frodo l’aveva completamente snervato. Non fu facile trargli di bocca una chiara spiegazione, fra i suoi balbettamenti e squittii, e le frequenti interruzioni durante le quali strisciando per terra li supplicava di essere gentili col «povero piccolo Sméagol». Dopo un po’ incominciò a calmarsi, e Frodo riuscì a ricostruire, a bocconi e a frammenti, ciò che voleva sapere: un viaggiatore, seguendo la strada che voltava ad ovest dell’Ephel Dùath, avrebbe incontrato un crocevia in mezzo a un cerchio di cupi alberi. Sulla destra, una strada conduceva ad Osgiliath e ai ponti sull’Anduin; l’altra procedeva dritta verso sud.

«Avanti, avanti, avanti», disse Gollum. «Noi non siamo mai andati da quella parte, ma dicono che va avanti per cento leghe, e porta a vedere la Grande Acqua mai ferma. Ci sono molti pesci lì, e grandi uccelli mangiano i pesci; buoni uccelli: ma noi non ci siamo mai andati, mai avuto l’occasione. E ancor più lontano vi sono altre terre, dicono, ma il Viso giallo lì è molto caldo, e di rado vi sono nuvole, e gli uomini sono feroci e hanno la faccia scura. Non vogliamo vedere quel paese».

«No!», disse Frodo. «Ma non allontanarti dalla tua strada. Parlami della terza deviazione».

«Oh sì, oh sì, c’è una terza via», disse Gollum. «È la strada sulla sinistra. Incomincia subito a salire, serpeggiando e arrampicandosi verso le alte ombre. Quando gira intorno alla roccia nera, allora la vedrai, la vedrai improvvisamente sopra di te, e vorrai nasconderti».

«Vederla, vederla? Che cosa si vedrà?».

«La vecchia fortezza, molto vecchia, molto orribile adesso. Ascoltavamo sempre storie del Sud, quando Sméagol era giovane, tanto tempo fa. Oh sì, raccontavamo tante storie la sera, seduti lungo gli argini del Grande Fiume, nelle campagne piene di salici, quando anche il Fiume era più giovane, gollum, gollum». Si mise a piangere e a mormorare. Gli Hobbit attesero pazientemente.

«Storie del Sud», proseguì Gollum, «degli alti Uomini con occhi brillanti, con case come colline di roccia; e la corona d’argento del loro Re, ed il suo Albero Bianco: storie meravigliose. Costruivano altissime torri, ed una era bianca e argento, e conteneva una pietra come la Luna, e tutt’intorno aveva grandi muraglie bianche. Oh sì, molte storie parlavano della Torre della Luna».

«Sarebbe a dire Minas Ithil, costruita da Isildur figlio di Elendil», disse Frodo. «Fu Isildur che mozzò il dito del Nemico».

«Sì, Lui ne ha soltanto quattro sulla Mano Nera, ma sono sufficienti», disse Gollum rabbrividendo. «E Lui odiava la città di Isildur».

«C’è forse qualcosa che Egli non odia?», disse Frodo. «Ma che c’entra con noi la Torre della Luna?».

«Ebbene, padrone, lì era e lì si trova: l’alta torre e le bianche case e le mura; ma non belle ora, non belle. Lui le conquistò tanto tempo fa. È un posto assai terribile adesso. I viaggiatori tremano alla sua vista, strisciano via, fuggono la sua ombra. Ma il padrone dovrà andare da lì. È l’unica altra via. Perché in quel punto le montagne sono più basse e la vecchia strada sale, sale, fino a raggiungere in cima un oscuro valico, e poi scende, scende, di nuovo sino… a Gorgoroth». La sua voce divenne un sussurro e lo videro rabbrividire.

«Ma di che utilità può esserci quella via?», domandò Sam. «Certo il Nemico conoscerà bene le proprie montagne, e quella strada sarà sorvegliata come questa! La torre non è vuota, vero?».

«Oh no, non vuota!», bisbigliò Gollum. «Sembra vuota, ma non lo è, oh no! Cose spaventose vivono lì. Orchi, sì, dappertutto Orchi; ma cose peggiori, cose peggiori vivono lì. La strada sale proprio all’ombra delle mura e passa il cancello. Nulla si muove sulla strada senza che essi lo sappiano. Le cose nascoste dentro lo sanno: le Sentinelle Silenti».

«Perciò è questo il tuo consiglio, eh?», disse Sam; «di fare un’altra lunga marcia sino a sud, per poi trovarci nei guai come qui o peggio ancora, una volta arrivati a destinazione, ammesso che vi arriviamo?».

«No, no davvero», rispose Gollum. «Hobbit devono comprendere, devono cercare di capire. Lui non aspetta un attacco da quella parte. Il Suo Occhio è ovunque, ma osserva più attentamente certi posti. Non può vedere tutto allo stesso tempo, non ancora. Vedete, ha conquistato tutte le terre ad ovest delle Montagne dell’Ombra fino al Fiume, ed ora è Lui che tiene i ponti. Crede che nessuno possa giungere alla Torre della Luna senza prima combattere una grande battaglia sui ponti, o senza adoperare una gran quantità di barche che non si potranno nascondere e di cui Egli sarà perfettamente informato».

«Sembra che tu sappia molte cose su quel che Lui fa e pensa», disse Sam. «Gli hai forse parlato di recente? O soltanto chiacchierato in grande intimità con gli Orchi?».

«Non buono l’Hobbit, non giudizioso», disse Gollum, lanciando a Sam un’occhiata furibonda, e rivolgendosi a Frodo. «Sméagol ha parlato con Orchi, sì, certo, prima d’incontrare padrone, e con molta altra gente: ha camminato molto lontano. E quel che dice lui adesso, molta gente lo dice. È qui nel Nord il più gran pericolo per Lui e per noi… E Lui uscirà dal Cancello Nero un giorno, un giorno assai vicino. È l’unica via che i grandi eserciti possano percorrere. Ma giù ad ovest Lui non ha paura, e ci sono le Sentinelle Silenti».

«Proprio così!», disse Sam, al quale era difficile sottrarsi. «Quindi noi dovremmo andar su da loro e bussare al Cancello chiedendo se per arrivare a Mordor quella è la strada giusta? O sono forse troppo silenti per poter rispondere? Non ha senso tutto ciò. Tanto vale farlo qui e risparmiarci una lunga marcia».

«Non scherzare», sibilò Gollum. «Non è divertente, oh no! Non c’è nulla da ridere. Non ha senso il fatto in sé, di cercare di entrare a Mordor. Ma se padrone dice devo andare o voglio andare, allora deve tentare in qualche modo. Ma non deve recarsi nella terribile città, oh no, no di certo! È qui che Sméagol aiuta, caro piccolo Sméagol, anche se nessuno gli spiega niente. Sméagol aiuta di nuovo. Lui l’ha trovato. Lui lo conosce».

«Che cosa hai trovato?», domandò Frodo.

Gollum si accovacciò e la sua voce ridiventò un bisbiglio. «Un piccolo viottolo che conduce su nelle montagne; e poi una scala, una stretta scala, oh sì, molto lunga e stretta. E poi altre scale. E infine…», la sua voce si fece ancor più fioca, «un tunnel, un oscuro tunnel; poi in ultimo una piccola fessura e un sentiero assai più in alto del valico principale. Fu così che Sméagol uscì dall’oscurità. Ma accadde tanti anni fa. Il viottolo può essere scomparso ormai; ma forse no, forse no».

«Non mi piace tutta questa faccenda», interloquì Sam. «Sembra troppo facile, almeno come la racconta lui. Se quel viottolo c’è ancora, sarà sorvegliato. Non era sorvegliato, Gollum?». Nel dire ciò, colse, o credette di cogliere, una luce verde negli occhi di Gollum, il quale borbottò ma non rispose.

«Non è sorvegliato?», domandò Frodo duramente. «E tu, Sméagol, fuggisti dall’oscurità? Non ti fu piuttosto concesso di partire, incaricato di svolgere un compito? È ciò che pensava Aragorn, il quale ti trovò nei pressi delle Paludi Morte alcuni anni addietro».

«Menzogna!», sibilò Gollum, e una luce malvagia si accese nel suo sguardo al nome di Aragorn. «Lui mentì, sì, lui mentì. Sono davvero fuggito, tutto solo, povero me! Mi dissero, sì, di cercare il Tesoro, ed io ho cercato e sondato, certo che l’ho fatto. Ma non per il Nero. Il Tesoro era nostro, era mio, ti dico. Io fuggii davvero».

Frodo aveva la strana certezza che in quella faccenda, una volta tanto, Gollum non fosse lontano dal dire la verità. Doveva in qualche modo aver trovato una via d’uscita da Mordor, e credeva effettivamente di esservi riuscito grazie alla propria abilità. In primo luogo notò che Sméagol adoperava la prima persona singolare, il che sembrava un segno, le poche volte che si verificava, delle rimanenti tracce dell’antica sincerità. Ma anche se su questo punto ci si poteva fidare di Gollum, Frodo non dimenticava gli inganni del Nemico. La «fuga» avrebbe potuto essere permessa, e persino organizzata, e nella Torre Oscura se ne conosceva forse ogni dettaglio. E in ogni caso era chiaro che Gollum nascondeva ancora molte cose.

«Ripeto la domanda», disse Frodo: «questa via segreta non è dunque sorvegliata?».

Ma il nome di Aragorn aveva messo Gollum di cattivo umore. Aveva l’aria offesa del bugiardo sospettato quando una volta tanto ha detto la verità, O parte di essa. Non rispose.

«Non è sorvegliata?», ripeté Frodo.

«Sì, sì, forse. Niente posti sicuri in questo paese», disse Gollum scontroso. «Niente posti sicuri. Ma padrone deve tentare o tornarsene a casa. Nessun’altra via». Non riuscirono a tirargli fuori altro. In quanto al nome del luogo pericoloso e dell’alto valico, non lo sapeva, o non lo voleva dire.

Il nome era Cirith Ungol, un nome dalla terribile fama. Aragorn avrebbe forse svelato loro nome e significato, Gandalf li avrebbe messi in guardia. Ma erano soli, Aragorn assai lontano, e Gandalf in mezzo alle rovine d’Isengard lottava con Saruman, indugiando col traditore. Eppure, mentre rivolgeva a Saruman le ultime parole, e il palantir cadeva con scintille e fragore sulla scalinata di Orthanc, il pensiero di Gandalf era con Frodo e Samvise, e la sua mente piena di speranza e di pietà percorreva lunghe leghe in cerca di loro.

Forse Frodo, senza saperlo, lo sentiva come l’aveva sentito in cima ad Amon Hen, pur credendo lo stregone scomparso per sempre nella lontana ombra di Moria. Rimase a lungo seduto per terra, silenzioso, con la testa china, cercando di rammentare tutto ciò che Gandalf gli aveva detto. Ma per questa scelta non ricordava alcun consiglio. L’aiuto di Gandalf era stato tolto loro troppo presto, davvero troppo presto, quando l’Oscuro Paese era ancora molto lontano. Lo stregone non aveva detto come, giunti alla fine del viaggio, sarebbero dovuti entrare a Mordor. Forse nemmeno lui lo sapeva. Nella fortezza del Nemico a nord, a Dol Guldur, una volta era penetrato. Ma si era mai recato a Mordor, alla Montagna di Fuoco, e a Barad-dûr, da quando l’Oscuro Signore aveva di nuovo accresciuto il proprio potere? Frodo credeva di no. Ed ecco lì ora un piccolo Mezzuomo della Contea, un semplice Hobbit giunto dalla pacifica campagna, incaricato di trovare una via là dove i grandi non potevano passare, o non osavano passare. Destino crudele! Ma era stato lui stesso a sceglierselo, nel proprio salotto, una lontana primavera di un anno ormai tanto remoto che pareva un capitolo della storia dell’infanzia del mondo, quando fiorivano ancora gli Alberi d’Oro e d’Argento. Questa era una scelta crudele. Quale via scegliere? E se ambedue conducevano al terrore e alla morte, che motivo c’era di scegliere?

* * *

Il giorno avanzava. Un profondo silenzio invase la piccola conca grigia ove giacevano, così vicini ai confini del paese del terrore: e lo percepivano quel silenzio, come un fitto velo che li separasse dal mondo intorno. Sulle loro teste una cupola di pallido cielo striata di fumo fuggente era alta e talmente lontana che avevano l’impressione di osservarla attraverso profondi abissi di un’aria greve d’inquieti pensieri.

Neanche un’aquila in pieno sole avrebbe notato gli Hobbit lì seduti, accasciati sotto il peso del destino, silenti, immobili, avvolti nei fini manti grigi. Si sarebbe forse fermata un attimo ad osservare Gollum, una minuscola figura distesa per terra: lì giaceva, chissà, l’affamato scheletro di qualche bambino umano, vestito ancora di pochi cenci, dalle lunghe braccia e gambe bianche e magre quasi come ossa: non vi era certo carne sufficiente per una beccata.

Frodo teneva il capo curvo sulle ginocchia, ma Sam era coricato supino, con le mani dietro la testa, e fissava da dentro il suo cappuccio il cielo vuoto. Rimase vuoto per molto tempo. Poi, d’un tratto, parve a Sam di scorgere un’oscura figura simile a un uccello roteare nel suo campo visivo, planare e scomparire poi di nuovo roteando. Altre due la seguirono, quindi una quarta. Alla vista sembravano molto piccole, eppure qualcosa gli diceva che erano esseri immensi, dall’enorme apertura d’ali, che volavano ad altezze vertiginose. Si coprì gli occhi, accovacciandosi in avanti. Si sentiva pervaso dallo stesso terrore minaccioso che aveva provato in presenza dei Cavalieri Neri quell’orrore paralizzante provocato dall’urlo del vento e dall’ombra contro la luna; adesso non era altrettanto terribile e schiacciante: la minaccia era più remota. Ma era sempre una minaccia. La medesima sensazione s’impadronì di Frodo, interrompendo la sua riflessione. Si mosse e rabbrividì, ma non levò gli occhi. Gollum si raggomitolò come un ragno in un cantuccio. Le forme alate rotearono e, puntando rapide verso il basso, saettarono in direzione di Mordor.

Sam trasse un profondo respiro. «I Cavalieri sono di nuovo in movimento, e lassù in cielo», disse in un roco sussurro. «Li ho veduti. Credete che anche loro ci abbiano visti? Volavano molto in alto. E poi, se sono gli stessi Cavalieri Neri di prima, non ci vedono bene alla luce del giorno, no?».

«No, forse no», rispose Frodo. «Ma i loro destrieri ci vedono. E quelle creature alate sulle quali ora cavalcano hanno probabilmente una vista più acuta di qualunque altro essere vivente. Sono simili a grossi uccelli rapaci. Stanno cercando qualcosa: temo che il Nemico sia all’erta».

La sensazione di panico passò, ma il silenzio era stato rotto. Per qualche tempo erano stati tagliati fuori dal mondo, come su di un’isola invisibile; ora giacevano di nuovo allo scoperto, il pericolo era tornato. E tuttavia Frodo non parlava, e non comunicava la sua decisione. Teneva gli occhi chiusi, come se stesse sognando, o sondando il proprio cuore e la propria memoria. Infine si mosse e si alzò, e parve che stesse per parlare e decidere. Invece disse: «Ehi! Che cos’è quello?».

* * *

Furono colti da una nuova paura. Udirono canti e roche grida. Sulle prime sembravano giungere da lontano, ma poi si avvicinarono: si dirigevano verso di loro. Nelle loro menti balenò il pensiero che le ali Nere li avessero scorti, e avessero spedito soldati armati per catturarli: nulla sembrava troppo rapido per questi terribili servitori di Sauron. Si accovacciarono tendendo l’orecchio. Le voci ed il fragore d’armi e di bardature erano assai vicini. Frodo e Sam aprirono i foderi delle loro piccole spade. La fuga era impossibile.

Gollum si alzò lentamente e strisciò come un insetto sino all’orlo del fosso. Con estrema cautela si sollevò, un pollice alla volta, per potere sbirciare fra due pietre rotte. Rimase lì immobile qualche istante, senza fare alcun rumore. Infine, le voci si allontanarono nuovamente, per poi scomparire del tutto. Dai bastioni del Morannon giunse il lontano suono d’un corno. Allora Gollum ritornò silenziosamente, raggiungendo gli altri nella conca.

«Altri Uomini che vanno a Mordor», disse a bassa voce. «Facce scure. Non avevamo mai visto Uomini come questi, no, Sméagol non ne aveva mai visti. Sono feroci. Hanno occhi neri, e lunghi capelli neri, e cerchi d’oro alle orecchie; sì, molto oro bello. E alcuni hanno pittura rossa sulle guance e manti rossi; e le loro bandiere sono rosse, ed anche le punte delle lance; gli scudi sono rotondi, gialli e neri con grosse punte. Non belli, no; Uomini molto crudeli e cattivi sembrano. Quasi cattivi come gli Orchi, e molto più grandi. Sméagol crede che sono venuti dal Sud, dalle terre al di là della fine del Grande Fiume: percorrevano quella strada. Sono arrivati al Cancello Nero; ma altri potrebbero venire. C’è sempre più gente che va a Mordor. Un giorno tutti saranno dentro».

«C’erano per caso degli olifanti?», domandò Sam dimenticando la paura nell’ansia di udire notizie di strane contrade.

«No, niente olifanti. Cosa sono olifanti?», disse Gollum.

* * *

Sam si alzò, e mettendo le mani dietro la schiena (come soleva fare ogni qual volta «parlava in poesia»), incominciò:

Come un topo son grigio

E grande come un edificio,

Il mio naso è un serpente

E il mio passo irruente

Fa tremare la terra

Molto più di una guerra.

Con due corna in bocca

Camminare mi tocca,

Sventolando l’orecchio.

Ma non sono mai vecchio

Pur marciando parecchio,

Pur se supino mai,

Neanche per morire mi vedrai.

Io sono Olifante,

Il più importante,

Il più grosso e il più grande.

Se un giorno t’incontro

Non scorderai lo scontro;

Ma se non mi vedi,

So che non ci credi.

Eppur sono Olifante,

Il vecchietto ben portante.

«Questa», disse Sam quando ebbe finito di recitare «è una filastrocca che conosciamo tutti nella Contea. Sciocchezze forse, ma forse no. Anche noi abbiamo le nostre storie, e le nostre notizie sui paesi del Sud. Anticamente gli Hobbit viaggiavano, di tanto in tanto. Non dico che molti tornassero, né che tutto ciò che raccontavano fosse preso sul serio: notizie da Brea, e non sicure parole della Contea, come dicono i proverbi. Ma ho udito parecchie storie sulla Gente Alta che vive giù nelle Terre del Sole. Noi li chiamiamo Swerting, nei nostri racconti, e pare che montino olifanti per andare in guerra. Mettono case e torri e tutto il resto sulle schiene degli olifanti, e gli olifanti si tirano l’un l’altro rocce ed alberi. Perciò, quando hai detto “Uomini del Sud, tutti vestiti di rosso e oro”, io ti ho domandato se c’erano degli olifanti. Perché se ce ne fossero stati, avrei dato un’occhiata, rischio o non rischio. Ma suppongo che non vedrò mai un olifante. Forse non esiste nemmeno un animale del genere». Sospirò.

«No, niente olifanti», ripeté Gollum. «Sméagol non ne ha sentito parlare. Non vuole vederli. Non vuole che esistano. Sméagol vuole andarsene via da qui e nascondersi in un posto più sicuro. Sméagol vuole che il padrone parta. Caro padrone, perché non andare con Sméagol?».

Frodo si alzò. Aveva riso nonostante tutti i suoi problemi, mentre Sam cantilenava la vecchia filastrocca dell’Olifante, e il ridere aveva risolto i suoi dubbi. «Vorrei che avessimo mille olifanti, di cui uno bianco, montato da Gandalf, in testa», disse. «Forse allora ci apriremmo un varco in questa malefica terra. Ma purtroppo non ne abbiamo: solo le nostre stanche gambe e nient’altro. Ebbene, Sméagol, chissà se la terza via non sarà la migliore? Verrò con te».

«Buon padrone, saggio padrone, caro padrone!», gridò Gollum felice e contento, accarezzando le ginocchia di Frodo. «Buon padrone! Allora riposate adesso, cari Hobbit, all’ombra dei sassi, stretti sotto i sassi! Riposo e silenzio, fin quando se ne va il Viso Giallo. Poi potremo partire veloci. Agili e veloci come ombre, dobbiamo essere!».

CAPITOLO IV ERBE AROMATICHE E CONIGLIO AL RAGÙ

Riposarono durante le ultime ore di luce, spostandosi all’ombra man mano che il sole girava, finché l’ombra dell’orlo occidentale della loro conca empì tutto il fosso. Allora mangiarono un po’ e bevvero con oculatezza. Gollum non prese cibo, ma accettò l’acqua con molta gioia.

«Ora presto ne avremo dell’altra», disse leccandosi le labbra. «Buona acqua scorre in ruscelli fino al Grande Fiume, buona acqua nelle terre dove stiamo andando. Sméagol troverà lì anche da mangiare, forse. Ha molta fame, sì, gollum!». Si posò le grandi mani piatte sulla magra pancia ed una luce verde pallida gli apparve negli occhi.

* * *

L’ombra del crepuscolo era già fitta quando si misero finalmente in marcia, strisciando fuori dal bordo occidentale della conca e scomparendo come fantasmi nell’accidentata campagna attraversata dalla strada. Mancavano tre notti al plenilunio, ma l’astro tardava molto ad affacciarsi dalle montagne, e la prima parte della notte era assai buia. Un’unica luce rossa brillava in alto nelle Torri dei Denti, ma non si vedeva né si udiva altro segno della insonne sorveglianza sul Morannon.

Per molte miglia parve loro che l’occhio rosso li osservasse fuggire, incespicando in quelle terre nude e sassose. Non osarono percorrere la strada, preferendo costeggiarla sulla sinistra, seguendone il più possibile il tracciato. Infine, quando la notte stava ormai morendo ed essi erano già stanchi, avendo fatto una sola breve sosta, l’occhio non fu più che un piccolo punto infocato, e poi svanì: avevano girato intorno alla cupa sporgenza settentrionale delle montagne più basse, e si dirigevano ora verso sud.

Col cuore stranamente leggero si fermarono di nuovo a riposare, ma per poco. Gollum riteneva infatti che non procedessero abbastanza in fretta; secondo lui, il Morannon distava quasi trenta leghe dal crocevia sopra Osgiliath, ed egli sperava di coprirle in quattro tappe. Perciò si rimisero presto in marcia, avanzando sino a quando l’alba incominciò a distendersi lenta sull’ampia e grigia solitudine. Avevano percorso quasi otto leghe, e gli Hobbit non avrebbero potuto fare un passo di più, anche avendone il coraggio.

* * *

La luce crescente rivelò una campagna già meno spoglia e impervia. Le montagne giganteggiavano sempre minacciose alla loro sinistra, ma nelle vicinanze scorgevano ora la via per il Sud, che allontanandosi dalle nere radici dei colli si dirigeva ad ovest. Al di là i pendii erano ricoperti di cupi alberi simili a tetre nubi, mentre tutto intorno si stendeva una brughiera di erica, ginestra, corniolo ed altri cespugli a loro ignoti. Qua e là vedevano gruppetti di alti pini. Il cuore degli Hobbit si rinfrancò malgrado la stanchezza: l’aria era fresca e fragrante, e rammentava loro gli altipiani del lontano Decumano Nord. Erano felici che l’ora fatidica fosse stata rinviata, felici di attraversare una terra che solo da pochi anni soggiaceva all’Oscuro Signore e non era del tutto caduta in rovina. Ma non dimenticavano il pericolo che correvano, né il Cancello Nero ancor troppo vicino, se pur nascosto dietro cupe alture. Cercarono un nascondiglio dove ripararsi da occhi malvagi durante la luce del giorno.

* * *

Il giorno trascorse inquieto. Giacevano nella profonda erica contando le lente ore che parevano tutte simili: si trovavano infatti ancora all’ombra dell’Ephel Dùath che oscurava il sole. Frodo dormì a intervalli un sonno profondo e pacifico, sia che si fidasse di Gollum, sia che fosse troppo stanco per preoccuparsene; ma Sam poté soltanto sonnecchiare, anche quando Gollum dormiva profondamente, sbuffando e torcendosi nei suoi sogni segreti. La fame, forse, più che la sfiducia, lo teneva sveglio: incominciava a desiderare ardentemente un buon pasto casereccio, «qualcosa di caldo in una pentola».

Non appena la campagna si fuse nel grigio informe della notte imminente, si rimisero in cammino. Gollum li condusse in breve alla via diretta al Sud, dopo di che procedettero con maggior rapidità, sebbene il pericolo fosse più grande. Tendevano l’orecchio temendo di udire rumore di zoccoli o passi sulla strada innanzi o alle loro spalle; ma la notte passò, senza traccia di viandanti né di cavalieri.

La strada era stata costruita in tempi immemorabili, e riparata per una trentina di miglia dal Morannon; tuttavia, a mano a mano che avanzava verso sud, la natura selvaggia riprendeva il sopravvento. Si riconosceva ancora il tocco degli Uomini dell’antichità nel tracciato dritto, sicuro e pianeggiante: di tanto in tanto si apriva un varco attraverso i pendii delle colline, o d’un balzo attraversava un corso d’acqua su di un ampio arco armonioso in solida muratura; ma infine ogni traccia di opere in pietra scomparve, eccetto qualche colonna rotta sparsa qua e là fra i cespugli e qualche vecchia lastra della pavimentazione che faceva capolino fra l’erba ed il muschio. Erica, alberi e felci coprivano o sovrastavano gli argini della strada, o addirittura ne invadevano la carreggiata. La via non era ormai che un viottolo di campagna poco frequentato; ma non serpeggiava: manteneva il suo corso guidandoli lungo l’itinerario più breve.

* * *

Varcarono così i confini settentrionali di quella terra un tempo chiamata dagli Uomini «Ithilien», un bel paese dai boschi scoscesi e dai rapidi torrenti. La luna piena e le stelle rendevano la notte trasparente, e agli Hobbit parve che la fragranza dell’aria crescesse andando avanti; dagli sbuffi e dai mormorii di Gollum sembrava che anche lui se ne accorgesse, ma non ne provava alcun piacere. Ai primi albori del giorno s’arrestarono nuovamente. Erano giunti all’estremità di una lunga e profonda gola, fiancheggiata nel tratto centrale da pareti a strapiombo, attraverso la quale la strada si apriva un varco in una cresta rocciosa. I viandanti si arrampicarono sul margine occidentale per permettere allo sguardo di spaziare tutt’intorno.

Il giorno sorgeva in cielo, ed essi videro che ora le montagne erano assai più distanti, e si allontanavano verso est descrivendo una curva sfuggente all’orizzonte. Volgendosi ad ovest, videro innanzi a loro dolci pendii affondare in una cupa caligine. Tutt’intorno piccoli boschetti di alberi resinosi, abeti, cedri e cipressi ed altre varietà sconosciute nella Contea, cosparsi di ampie radure; ovunque un’abbondanza di erbe e di arbusti aromatici. Il lungo viaggio da Gran Burrone li aveva condotti assai più a sud del loro paese, ma ora per la prima volta, in questa regione più riparata, sentivano il cambiamento di clima. Qui la Primavera si dava già molto da fare: i germogli spuntavano nel muschio e nel terriccio, i larici avevano le dita verdi, piccoli fiorellini sbocciavano già nell’erbetta, gli uccelli cantavano. L’Ithilien, il giardino di Gondor ormai abbandonato, conservava ancora la scomposta bellezza di una driade.

A sud-ovest, l’Ithlien si stendeva in direzione delle basse valli calde dell’Anduin, protetta ad oriente dall’Ephel Dùath, pur senza esserne coperta dall’ombra, riparata a nord dall’Emyn Muil, aperta ai venti meridionali ed ai venti umidi del Mare lontano. Vi crescevano molti grandi alberi, piantati in tempi remoti, che finivano i loro giorni trascurati, immersi in una marea di progenitura indifferente; macchie e boschetti di tamarisco e di pungenti terebinti, di olivi e di lauri; ginepri e mirtilli e timo, in cespuglio o arrampicati su pietre nascoste che rivestivano di cupe tappezzerie; mille varietà di salvia si adornavano di fiori blu, rossi o verde pallido; giovani e teneri erano la maggiorana ed il prezzemolo; e c’erano erbe le cui forme e i cui profumi esulavano dalla competenza botanica di Sam. Le grotte e le pareti rocciose erano punteggiate di sassifraghe, e primule ed anemoni si destavano fra gli avellani; innumerevoli asfodeli e lillà dondolavano le teste semichiuse nell’erba, un’erba verde cupa che circondava i laghi ove i torrenti impetuosi riposavano le loro acque prima di raggiungere l’Anduin.

I viaggiatori volsero le spalle alla strada, discendendo il colle. Mentre camminavano, sfiorando erbe e cespugli, dolci profumi s’innalzavano intorno a loro. Gollum fiutava nauseato; gli Hobbit invece respiravano profondamente, e d’un tratto Sam rise, non perché volesse scherzare ma perché si sentiva felice. Seguirono un ruscello che scendeva ripido, e li condusse a un piccolo limpido lago in una bassa conca: erano quelle le rovine di un antico bacino in pietra, il cui bordo intagliato era quasi interamente coperto di muschi e rose rampicanti; iris si ergevano come punte di spade tutt’intorno, e foglie di ninfee galleggiavano sulla superficie leggermente increspata; ma l’acqua era profonda e fresca e gocciolava fuori senza interruzione, da un labbro roccioso all’altra estremità.

Si lavarono e bevvero a gran sorsi dalla cascatella; poi cercarono un posto ove riposare e nascondersi; il paese infatti, pur dall’aspetto ancora bello e accogliente, era tuttavia territorio del Nemico. Si erano allontanati di poco dalla strada, eppure in un così breve tragitto avevano già veduto le cicatrici delle antiche guerre e le nuove ferite inflitte dagli Orchi e dagli altri infami servitori dell’Oscuro Signore: un pozzo di rifiuti e sporcizie non coperto; alberi tagliati per puro divertimento e abbandonati lì a morire, con rune malvagie o il crudele emblema dell’Occhio intagliati nella corteccia da mani violente.

Sam, scendendo oltre lo sbocco delle acque del laghetto per annusare e toccare piante ed alberi sconosciuti, immemore per un attimo di Mordor, fu bruscamente condotto a ricordare l’onnipresente pericolo. Inciampò in una radura ancora segnata dal fuoco, al centro della quale rinvenne una pila di ossa e teschi inceneriti. La rapida crescita della vegetazione ricca di brughiere e di rose selvatiche e di clematidi rampicanti stava già ricoprendo d’un velo quelle orribili testimonianze di carneficina e festini, malgrado fossero recenti. Sam ritornò veloce dai compagni, ma non disse nulla: era meglio lasciare in pace le ossa, anziché permettere che Gollum le scovasse.

«Cerchiamo un posto dove sdraiarci», disse. «Non più in basso. Preferisco salire un po’ più in alto».

* * *

A breve distanza dal laghetto trovarono un bruno giaciglio fatto di felci dell’anno precedente. Al di là un boschetto di lauri dalle scure foglie s’inerpicava su un ripido pendio incoronato da vecchi cedri. Decisero di riposare e trascorrere la giornata che già si annunciava luminosa e calda, adatta per passeggiare leggiadramente fra boschetti e radure dell’Ithilien; ma benché gli Orchi fuggissero la luce del sole, troppi erano i posti dove essi avrebbero potuto nascondersi a spiare; inoltre, vi erano anche altri occhi malefici in movimento: Sauron aveva molti servitori. Gollum, in ogni caso, rifiutava di muoversi alla luce del Viso Giallo. Si sarebbe presto affacciato da sopra gli scuri contorni dell’Ephel Dùath, facendolo svenire ed accasciarsi alla luce ed al calore.

Mentre camminavano, Sam aveva seriamente riflettuto su come nutrirsi. Ora che la disperazione provocata dall’invalicabile Cancello era cosa ormai lontana, egli non si sentiva incline come il padrone a non darsi pensiero della loro sussistenza dopo l’adempimento della missione; e comunque, gli sembrava saggio conservare il pan di via degli Elfi per i giorni peggiori, che li attendevano. Erano passati sei giorni e più da quando aveva calcolato a tre settimane scarse la durata delle scorte.

«Se di questo passo avremo allora raggiunto il Fuoco, saremo stati davvero fortunati!», si disse. «E potremmo voler tornare a casa. Potremmo davvero desiderarlo!».

Inoltre, alla fine di una lunga marcia notturna, dopo un bagno e una bevuta, si sentiva ancor più affamato del solito. Una cena, o uno spuntino accanto al fuoco nella vecchia cucina di via Saccoforino, era il suo più grande desiderio. Un’idea gli balenò alla mente e si rivolse a Gollum. Costui stava allontanandosi per i fatti propri, strisciando via a quattro zampe attraverso le felci.

«Ehi, Gollum!», disse Sam. «Dove stai andando? A caccia? Ebbene, senti qui, vecchio fiutatore, a te non piace il nostro cibo, e anche a me non dispiacerebbe cambiare. Il tuo nuovo motto è sempre pronto ad aiutare. Sapresti trovare qualcosa adatto a un Hobbit affamato?».

«Sì, forse sì», disse Gollum. «Sméagol aiuta sempre, se loro domandare…, se loro domandare gentilmente».

«Giusto!», disse Sam. «Io domandare. E se non è abbastanza gentile, io pregare».

* * *

Gollum scomparve. Stette via qualche tempo, e Frodo dopo pochi bocconi di lembas si sdraiò tra le profonde felci brune e si addormentò. Sam volse verso di lui il suo sguardo. I primi albori del mattino stavano appena incominciando a penetrare sino alle ombre fra gli alberi, eppure egli vedeva molto chiaramente il volto del padrone, ed anche le sue mani, poggiate in terra lungo i fianchi. Gli tornò d’un tratto alla mente l’immagine di Frodo dormiente nella casa di Elrond dopo la micidiale ferita. Allora, nello stargli accanto, Sam aveva a volte notato una fioca luce che sembrava emanare dal suo corpo; ora quella luce era ancora più chiara e intensa. Il volto di Frodo era pacifico, le tracce della paura e dell’inquietudine erano scomparse; eppure sembrava un viso anziano, anziano e bello, come se lo scalpello degli anni si rivelasse ora in molte minute rughe prima nascoste, pur senza cambiarne la fisionomia. Non che Sam esprimesse in tal modo il suo pensiero. Scosse il capo, come se trovasse inutili le parole, mormorando: «Gli voglio bene. Lui è così, e qualche volta, chissà come, traspare. Ma io gli voglio bene lo stesso».

Gollum ritornò silenziosamente e sbirciò da sopra la spalla di Sam. Guardando Frodo, chiuse gli occhi e si allontanò senza far rumore. Sam lo raggiunse dopo un attimo e trovò che masticava qualcosa, borbottando sottovoce. Per terra accanto a lui giacevano due piccoli conigli, che egli stava incominciando ad osservare con avidità.

«Sméagol aiuta sempre», disse. «Ha portato conigli, buoni conigli. Ma padrone addormentato, e forse anche Sam vuole dormire. Forse non vuole conigli adesso. Sméagol cerca di aiutare ma non può trovare le cose in un attimo».

Sam comunque non faceva alcuna obiezione riguardo ai conigli, e lo disse. Almeno, non ai conigli cotti. Tutti gli Hobbit, beninteso, sanno cucinare perché cominciano ad apprendere l’arte prima dell’alfabeto (che molti non imparano mai); ma Sam era un buon cuoco, anche da un punto di vista hobbit, ed aveva fatto un bel po’ di cucina durante il viaggio, quando ne aveva avuto l’occasione. Si trascinava ancora dietro, speranzoso, parte dell’attrezzatura: una piccola esca, due casseruole di cui la più piccola era infilata nella più grande; all’interno di queste, un cucchiaio di legno, una piccola forchetta a due denti e degli spiedini; nascosto in fondo al fagotto, un tesoro che andava diminuendo: il sale. Ma aveva bisogno di fuoco e di altre cose ancora. Rifletté per un attimo mentre estraeva il coltello, lo bagnava, l’inumidiva e incominciava a pulire i conigli. Non aveva intenzione di lasciar solo Frodo addormentato nemmeno per pochi attimi.

«Ora, Gollum», disse, «ho un altro lavoretto per te. Va’ a riempire d’acqua queste padelle e riportamele!».

«Sméagol andrà a prendere l’acqua, sì», disse Gollum. «Ma a che serve tanta acqua all’Hobbit? Ha bevuto, si è lavato».

«Non pensarci», disse Sam. «Se non indovini, lo scoprirai fra poco. E più presto porterai l’acqua, più presto lo saprai. Non mi rovinare le padelle, o ti faccio a pezzettini».

Mentre Gollum lavorava, Sam diede un altro sguardo a Frodo. Dormiva ancora pacifico, ma Sam fu colpito dalla magrezza del suo viso e delle sue mani. «È troppo deperito e tirato», mormorò. «Non va, per un Hobbit. Se riesco a cuocere questi conigli lo sveglierò».

Sam raccolse un fascio di felci più secche, e quindi inerpicandosi su per il pendio raccattò rami e legna; un grosso ramo di cedro caduto in cima al declivio rappresentava una notevole provvista. Tolse dell’erba ai piedi del pendio appena fuori delle felci, e scavando un buco poco profondo vi depose il combustibile. Essendo assai abile nell’uso dell’esca e della pietra focaia, riuscì presto ad accendere una piccola fiamma che non faceva quasi fumo ed emanava invece un profumo aromatico. Era chino sul fuoco, intento a proteggerlo ed a rinforzarlo con legna più grossa, quando sopraggiunse Gollum, reggendo attentamente le casseruole e borbottando a bassa voce.

Posò in terra i recipienti, poi all’improvviso vide quel che Sam stava facendo. Lanciò un piccolo strillo sibilante, apparentemente impaurito ed arrabbiato allo stesso tempo. «Ah! Sss… no!», gridò. «No! Sciocchi Hobbit, stupidi, sì, stupidi! Non devono farlo!». «Non devono fare che cosa?», domandò Sam stupito.

«Non devono fare le cattive lingue rosse», sibilò Gollum. «Fuoco, fuoco! È pericoloso, sì che lo è. Brucia, uccide. E porterà i nemici, sì, li porterà».

«Non credo», ribatté Sam. «Non vedo perché dovrebbe, se tu non ci metti sopra della roba bagnata soffocandolo. Ma se così sarà, che sia pure così. Io in ogni caso intendo rischiare. Voglio cucinarmi uno stufato di coniglio».

«Uno stufato di coniglio!», strillò Gollum angosciato. «Sciupare bella carne che Sméagol ha conservato per voi, povero Sméagol affamato! Perché? Perché, stupido Hobbit? Sono giovani, sono teneri, sono buoni. Mangiali, mangiali!». Diede un’unghiata al coniglio più vicino, già spellato e pronto accanto al fuoco.

«Via, via!», disse Sam. «Ognuno a modo suo. Il nostro pane ti strozza e il coniglio crudo strozza me. Se mi dai un coniglio, il coniglio è mio, capisci, e lo posso cucinare, se ne ho voglia. E ne ho. Inutile che tu rimanga a guardare. Va’ a cacciarne un altro e mangialo come ti pare…. in un posto appartato e fuori di vista. Così tu non vedrai il fuoco, e io non vedrò te, e saremo tutti e due più contenti. Farò in modo che il fuoco non fumi, se la cosa ti conforta».

Gollum si allontanò borbottando, e s’infilò tra le felci. Sam si diede da fare con le padelle. «Ciò che ci vuole col coniglio, per un Hobbit», si disse, «sono erbe aromatiche e radici, soprattutto tate…. per non parlare del pane. Erbe a quanto pare ce ne sono».

«Gollum!», chiamò a bassa voce. «Terza e ultima volta. Ho bisogno di erbe». La testa di Gollum fece capolino fra le felci, ma animata da un’espressione tutt’altro che amichevole e servizievole. «Qualche foglia di timo, di lauro e di salvia basteranno…. prima che l’acqua si metta a bollire», disse Sam.

«No!», rispose Gollum. «Sméagol non è contento. E Sméagol non ama foglie puzzolenti. E non mangia erbe né radici, no tesoro, non prima di morir di fame o di malattia, povero Sméagol».

«Sméagol finirà in un po’ d’acqua bella calda, quando quest’acqua si metterà a bollire, se non fa quel che gli si dice», ruggì Sam. «Sam gli infilerà la testa dentro, sì tesoro. E gli farebbe cercare anche rape e carote e tate, se fosse la stagione giusta. Scommetto che c’è un sacco di buona roba che cresce selvatica in questo paese. Darei chissà che cosa per una mezza dozzina di tate».

«Sméagol non vuole andare, oh no tesoro, questa volta no», sibilò Gollum. «Ha paura, è molto stanco, e questo Hobbit non è gentile, per niente gentile. Sméagol non fruga per radici e carote e… tate. Cosa sono tate, tesoro, eh, cosa sono tate?».

«Pa-ta-te», disse Sam. «La delizia del Gaffiere, una meravigliosa zavorra per uno stomaco vuoto. Ma non ne troverai; perciò, inutile cercare. Ma sii bravo, Sméagol, e va’ a prendermi le erbe, e io avrò una migliore opinione di te. E poi, se incominci a comportarti bene e non torni subito indietro, ti cuocerò delle tate uno di questi giorni. Davvero: fritto misto di patate e pesce servito da Sam Gamgee. Non potresti rifiutare una cosa del genere!».

«Oh, sì! Sì che potremmo. Sciupare bel pesce, bruciarlo. Dammi pesce ora, e tieniti cattive patate!».

«Con te non c’è speranza», disse Sam. «Va’ a dormire!».

* * *

Infine dovette andarsele a cercare da sé, le cose che voleva; ma non fu necessario che si allontanasse, né che perdesse di vista il padrone che giaceva ancora addormentato. Per qualche tempo, in attesa che l’acqua bollisse, rimase seduto ed assorto, alimentando di tanto in tanto il fuoco. La luce aumentò e l’aria divenne calda; la rugiada scomparve da erba e foglie. Presto i conigli tagliati a pezzi bollirono a fuoco lento nelle casseruole insieme con le erbe raccolte. Sam fu sul punto di addormentarsi durante l’attesa. Li lasciò cuocere a stufato per quasi un’ora, toccandoli ogni tanto con la forchetta ed assaggiandone il brodo.

Quando tutto fu pronto, tolse le casseruole dal fuoco e si diresse verso Frodo. Questi socchiuse gli occhi mentre Sam lo guardava dall’alto, quindi si destò dal sogno in cui era immerso: un altro dolce, irrecuperabile sogno di pace.

«Ehi, Sam!», disse. «Non riposi? Qualcosa che non va? Che ore sono?».

«Circa un paio d’ore dopo l’alba», rispose Sam, «e più o meno le otto e mezzo secondo gli orologi della Contea, suppongo. Ma le cose vanno abbastanza bene, pur non essendo proprio perfette: niente provviste, niente tate, niente cipolle. Vi ho preparato un po’ di stufato e del brodo, signor Frodo. Vi farà bene. Dovrete però sorseggiarlo dal cucchiaio o direttamente dalla padella, quando si sarà raffreddata. Non ho portato tazze, né altre cose del genere».

Frodo sbadigliò stiracchiandosi. «Avresti dovuto riposare, Sam», disse. «E accendere un fuoco è assai pericoloso da queste parti. Ma ho davvero fame. Hmm! Me lo fai annusare? Stufato di che cosa?».

«Un regalo di Sméagol», rispose Sam: «una coppia di giovani conigli. Credo però che Gollum li compianga molto. Ma non ho trovato altro contorno che poche erbe aromatiche».

Sam e il suo padrone, seduti tra le felci, mangiarono lo stufato dalle padelle dividendosi il vecchio cucchiaio e la forchetta. Si concessero mezzo pan di via elfico per ciascuno. Sembrò loro un banchetto.

«Ehi, Gollum!», chiamò Sam, e lanciò un piccolo fischio. «Coraggio! Fai ancora in tempo a cambiare idea. Ne è rimasto un po’, se ti va di provare il coniglio stufato». Non ricevette risposta.

«Oh beh! Suppongo che sia partito in cerca di qualcosa per sé. Lo finiremo noi» disse Sam.

«Poi tu devi riposare un PO’», disse Frodo.

«Non appisolatevi mentre io dormo, signor Frodo. Non sono tanto sicuro di quel Gollum. C’è in lui ancora un bel po’ di Scurrile, la parte cattiva intendo dire, e sta ricominciando a prendere il sopravvento. Sono convinto comunque che adesso cercherebbe di strangolare me per primo. Non vediamo le cose dal medesimo punto di vista, e lui non è per niente contento di Sam, oh no tesoro, per niente contento».

Finirono il pasto, e Sam se ne andò al ruscello a sciacquare gli attrezzi. Nel rizzarsi per tornare indietro guardò su per il pendio. Vide il sole in quel momento emergere dalle esalazioni, nebbie, o scure ombre che sovrastavano sempre l’Oriente, e proiettare i raggi dorati sugli alberi e le radure tutt’intorno. Poi notò una esile spira di fumo grigio azzurro, chiaramente visibile al sole, innalzarsi da un gruppo di arbusti. Si accorse che era quello il fumo del suo piccolo fuoco che aveva dimenticato di estinguere.

«Così non può andare! Mai avrei creduto che si vedesse così!», mormorò mettendosi a correre. Ma improvvisamente si fermò ad ascoltare. Aveva sentito un fischio, o no? Era forse il richiamo di qualche strano uccello? Se era davvero un fischio, non proveniva dal luogo ov’era Frodo. Ed eccolo che si ripeteva in un’altra direzione! Sam corse su per il colle a tutta velocità.

Scoprì che un piccolo tizzone aveva appiccato fuoco alle felci che si trovavano al margine del falò, e queste a loro volta avvampando avevano incendiato le zolle erbose. Estinse in fretta ciò che rimaneva del fuoco pestando con i piedi e sparpagliando le ceneri, quindi richiuse il buco con l’erba. Infine tornò quatto quatto da Frodo.

«Avete udito un fischio, e qualcosa come una risposta?», domandò. «Qualche minuto fa. Spero che fosse solo un grido d’uccello, ma non gli rassomigliava tanto: pareva piuttosto qualcuno che lo imitasse. E purtroppo il mio piccolo fuoco si è messo a fumare. Ora, se ho combinato dei guai, non me lo perdonerò mai. Probabilmente non ne avrò nemmeno l’occasione!».

«Sssst!», sussurrò Frodo. «Mi è parso di udire delle voci».

* * *

I due Hobbit chiusero i loro fagotti e li tennero stretti, pronti a fuggire, strisciando poi nel fitto delle felci. Ivi rimasero accovacciati in ascolto.

Non vi era alcun dubbio sulle voci. Parlavano basse e furtive, ma erano vicine e continuavano ad avvicinarsi. Poi all’improvviso ne udirono una proprio accanto.

«Qui! È da qui che veniva il fumo!», disse. «Sarà da queste parti. Nelle felci senza dubbio. Lo prenderemo come un coniglio in trappola, così capiremo infine che razza di creatura è».

«Sì, sì, e anche quel che sa!», soggiunse una seconda voce.

Immediatamente quattro Uomini s’inoltrarono a grandi passi fra le felci da direzioni diverse. Poiché fuggire e nascondersi non era ormai più possibile, Frodo e Sam balzarono in piedi, mettendosi schiena contro schiena e sguainando le piccole spade.

Se essi rimasero stupefatti innanzi a ciò che videro, i loro avversari lo furono ancor di più. Quattro alti Uomini erano infatti apparsi. Due di essi stringevano in pugno una lancia dalla punta larga e luminosa. Gli altri erano armati d’immensi archi alti quasi quanto loro, e di faretre piene di lunghe frecce dalle piume verdi. Tutti cingevano una spada, ed erano vestiti di varie tonalità di verde e di marrone come per meglio celarsi nelle radure dell’Ithilien. Guanti verdi coprivano le loro mani, e i loro volti erano protetti da un cappuccio e da una maschera verdi che lasciavano liberi soltanto gli occhi, assai penetranti e luminosi. Immediatamente Frodo pensò a Boromir, perché quegli Uomini gli rassomigliavano nella statura, nel portamento e nel modo di parlare.

«Non abbiamo trovato quel che cercavamo», disse uno di essi. «Che cosa abbiamo trovato, invece?».

«Non sono Orchi», rispose un altro lasciando l’elsa della spada che aveva afferrata vedendo scintillare Pungolo in mano a Frodo.

«Elfi?», disse un terzo dubbioso.

«No! Non certo Elfi», disse il quarto, il più alto e apparentemente il capo. «Non vi sono Elfi a spasso nell’Ithilien in giorni come questi. E poi gli Elfi sono meravigliosamente belli, a quanto pare».

«Sarebbe a dire che noi non lo siamo, suppongo», disse Sam. «Grazie infinite. E quando avrete finito le discussioni sul nostro conto, forse ci direte chi siete voi, e perché non lasciate riposare in pace degli stanchi viaggiatori».

L’Uomo alto e verde rise sarcastico. «Io sono Faramir, Capitano di Gondor», disse. «Ma non vi sono viaggiatori in questo paese: vi sono solo i servitori della Torre Oscura o della Torre Bianca».

«Ma noi non apparteniamo né agli uni né agli altri», ribatté Frodo. «E siamo davvero viaggiatori, checché possa dire Capitano Faramir».

«Allora affrettatevi a rivelare chi siete e qual è la vostra missione», disse Faramir. «Abbiamo un lavoro da compiere e questo non è posto adatto agli enigmi e alle discussioni. Coraggio: dov’è il terzo membro della vostra comitiva?».

«Il terzo?».

«Sì, quel tipo scontroso che abbiamo visto laggiù infilare il naso nel laghetto. Ha un aspetto assai sgradevole. Qualche varietà di Orco dedita allo spionaggio, o altra creatura del genere. È riuscito a sfuggirci con chissà quale astuto stratagemma».

«Non so dov’egli sia», rispose Frodo. «È soltanto un compagno incontrato per caso sulla nostra strada, e io non sono responsabile per lui. Se ve ne impadronite, risparmiatelo. Portatelo a noi o ditegli di venire. È solo una disgraziata creatura bastarda, ma sono incaricato di occuparmene per qualche tempo. Quanto a noi, siamo Hobbit della Contea, che si trova all’estremo nord-ovest, al di là di molti fiumi. Il mio nome è Frodo figlio di Drogo, e questi è Samvise, figlio di Hamfast, un rispettabile Hobbit al mio servizio. Siamo giunti percorrendo lunghe strade… da Gran Burrone, o Imladris come lo chiamano taluni». Udendo ciò Faramir sussultò e divenne molto attento. «Sette compagni avevamo: uno lo perdemmo a Moria, gli altri li lasciammo a Parth Galen sopra Rauros: due della mia razza, oltre a un Nano, un Elfo e due Uomini. Questi erano Aragorn e Boromir, che si diceva originario di Minas Tirith, una città del Sud».

«Boromir!», esclamarono insieme i quattro Uomini.

«Boromir figlio di Sire Denethor?», domandò Faramir, mentre una strana espressione austera gli trasformava il volto. «Avete viaggiato con lui? Sono notizie davvero sorprendenti, se sono vere. Sappiate, piccoli stranieri, che Boromir figlio di Denethor era Alto Guardiano della Torre Bianca, e nostro Capitano Generale: ne sentiamo profondamente la mancanza. Chi siete dunque, e che cosa vi accomunava a lui? Siate brevi, perché il Sole sta salendo in cielo!».

«Conoscete voi le enigmatiche parole che Boromir portò a Gran Burrone?», rispose Frodo.

Cerca la Spada che fu Rotta.

Ad Imladris la troverai.

«Le parole ci sono ben note», disse Faramir stupefatto. «Il fatto che le conosciate anche voi testimonia in parte la verità delle vostre asserzioni».

«Aragorn, di cui parlavo, è colui che porta la Spada che fu Rotta», disse Frodo. «E noi siamo i Mezzuomini di cui parlava la strofa».

«Questo lo vedo», disse Faramir pensoso. «O vedo che sarebbe possibile. E che cos’è il flagello d’Isildur?».

«Ciò non si rivela», rispose Frodo. «Indubbiamente a tempo debito verrà svelato».

«Dobbiamo sapere di più», disse Faramir, «e conoscere la causa del vostro viaggio nel così lontano Oriente, sovrastato da quell’ombra…», fece un segno con la mano ma non disse alcun nome. «Ma non è questo il momento. Abbiamo un lavoro da fare. Siete in pericolo, e non avreste percorsa molta strada né attraversato molti campi, oggi. Vi saranno colpi duri nelle vicinanze prima che il Sole giunga all’apice. Poi la morte, o una rapida fuga verso l’Anduin. Vi lascerò due guardie, per il vostro e per il mio bene. Un uomo saggio non si fida degli incontri casuali fatti lungo le strade di questo paese. Se tornerò, continueremo i nostri discorsi».

«Addio!», disse Frodo con un profondo inchino. «Credete pure quel che volete, ma io sono amico di tutti i nemici dell’Unico Nemico. Vi accompagneremmo, se noi, piccoli Mezzuomini, potessimo sperare di aiutare voi, Uomini dall’aspetto così forte e valoroso, e se la mia missione me lo permettesse. Che la luce brilli sulle vostre spade!».

«I Mezzuomini sono, in ogni caso, gente assai cortese», disse Faramir. «Addio!».

* * *

Gli Hobbit si sedettero di nuovo, senza però comunicarsi pensieri e dubbi. Accanto a loro, all’ombra macchiettata dei lauri, due Uomini erano rimasti di guardia. Si toglievano di tanto in tanto la maschera per rinfrescarla man mano che il calore del giorno aumentava, e Frodo vide che erano begli Uomini, dalla pelle chiara e dai capelli scuri, gli occhi grigi ed il viso triste e fiero. Parlavano fra loro a bassa voce, servendosi prima della Lingua Corrente ma in forma arcaica, e adoperando poi un loro proprio idioma. Con stupore Frodo si rese conto, ascoltandoli, che parlavano la lingua elfica, o un’altra assai simile; e li guardò meravigliato, perché sapeva che dovevano essere dei Numenoreani del Sud, Uomini della stirpe dei Signori dell’Ovesturia.

Infine rivolse loro la parola; ma essi erano lenti e cauti nel rispondere. Dissero di chiamarsi Mablung e Damrod, soldati di Gondor e Raminghi dell’Ithilien; discendevano infatti da un popolo che anticamente viveva nell’Ithilien, prima di essere sopraffatto. Fra tali Uomini Sire Denethor sceglieva i suoi sicari, incaricati di attraversare in segreto l’Anduin (come e dove non vollero rivelare), per uccidere gli Orchi e gli altri nemici erranti fra l’Ephel Dùath ed il Fiume.

«Dista quasi dieci leghe da qui, la riva est dell’Anduin», disse Mablung, «e di rado ci spingiamo tanto lontano. Ma questo viaggio ha uno scopo diverso dal solito: siamo venuti a tendere un agguato agli Uomini dell’Harad. Maledetti!».

«Sì, maledetti Sudroni!», disse Damrod. «Pare che anticamente vi fossero dei rapporti commerciali fra Gondor ed i reami dell’Harad all’estremo Sud, ma non vi furono mai legami d’amicizia. A quei tempi le nostre frontiere si trovavano giù a sud, oltre le foci dell’Anduin, e Umbar, il loro regno più vicino, riconosceva il nostro imperio. Ma è trascorso molto tempo da allora. Da numerose vite d’Uomo nessun rapporto esiste più fra i nostri paesi. Di recente abbiamo appreso che il Nemico si è recato da loro, e che essi sono ora dalla Sua parte, o che vi sono tornati (furono sempre pronti a obbedire alla Sua volontà), come tanti altri popoli orientali. I giorni di Gondor sono indubbiamente contati, e le mura di Minas Tirith votate alla distruzione, così grandi sono la Sua forza e la Sua malvagità».

«Eppure noi non rimaniamo oziosi e non Gli lasciamo fare tutto il male che vorrebbe», disse Mablung. «Questi dannati Sudroni arrivano marciando sulle antiche strade per ingrandire ancora gli eserciti della Torre Oscura. Sì, percorrono proprio le strade tracciate dal popolo di Gondor. E avanzano sempre più balzandosi, ci dicono, convinti che il potere del loro nuovo padrone sia tale che basti la semplice ombra delle Sue colline per proteggerli. Siamo venuti a insegnare loro che non è così. Abbiamo saputo che numerose schiere partirono per il Nord alcuni giorni addietro. Secondo i nostri calcoli, uno dei loro reggimenti dovrebbe passare poco prima del meriggio un po’ più in alto sulla strada, nel punto ove attraversa una gola. Forse la strada l’attraversa, ma essi non l’attraverseranno mai! Perlomeno finché Faramir è Capitano. È lui ora a condurci in tutte le pericolose avventure. Ma qualche sortilegio protegge la sua vita, o il destino lo serba per un’altra fine».

* * *

Tacquero e s’immersero in un silenzio attento. Tutto pareva immobile e guardingo. Sam, accovacciato nell’orlo della macchia di felci, sbirciò fuori. I suoi penetranti occhi hobbit videro che vi erano molti più Uomini in movimento. Li scorgeva strisciare su per i pendii, soli o in fila indiana, sempre all’ombra di cespugli e boschetti, resi quasi invisibili dagli abiti verdi e marroni fra l’erba e le felci. Portavano tutti maschera e cappuccio e guanti verdi alle mani, ed erano armati come Faramir e i suoi compagni. Presto scomparvero tutti. Il sole s’innalzò tanto da sfiorare quasi il Sud. Le ombre si restrinsero.

«Vorrei sapere dove si è cacciato quel dannato Gollum», si disse Sam tornando carponi ove l’ombra era più cupa. «Corre seri rischi di essere preso per un Orco o arrostito dal Viso Giallo. Ma credo che saprà difendersi». Si sdraiò accanto a Frodo e si appisolò.

Si destò, convinto di udire un suono di corni. Si sedette. Era pieno mezzogiorno. Le guardie in piedi all’ombra degli alberi erano tese e all’erta. Improvvisamente si sentì giungere dall’alto del declivio l’inconfondibile suono di corni. A Sam parve di udire anche grida e urla selvagge, ma fioche e lontane, come se provenienti da qualche distante caverna; infine, poco più in alto del loro nascondiglio, un rumore di battaglia. Chiaro era il tintinnio dell’acciaio contro l’acciaio, forte il clamore della spada sull’elmo di ferro, sordo il colpo della lancia sullo scudo; Uomini gridavano e strillavano, ed una limpida voce tuonava Gondor! Gondor!

«Sembrerebbe di udire cento fabbri all’opera contemporaneamente», disse Sam a Frodo. «Purché non venga loro in mente di avvicinarsi!».

* * *

Invece il rumore si avvicinò. «Stanno venendo!», esclamò Damrod. «Vedete! Alcuni dei Sudroni sono sfuggiti alla trappola e stanno scappando via dalla strada. Eccoli lì! I nostri li inseguono, col Capitano in testa».

Sam, ansioso di vedere meglio, andò a raggiungere le guardie. Si arrampicò su uno dei grossi lauri; per un attimo intravide degli Uomini di carnagione scura vestiti di rosso scendere di corsa il pendio con guerrieri in abiti verdi alle calcagna che li atterravano durante la fuga. Fitta era la pioggia di frecce. Poi improvvisamente un Uomo cadde proprio dall’orlo della loro conca, quasi sulle loro teste, piombando fra gli esili arbusti. Giacque immobile nelle felci a pochi passi di distanza, bocconi, con frecce dalle verdi piume che gli trafiggevano il collo appena più in basso del collare d’oro. I suoi abiti rossi erano laceri, la cotta di piastrine d’ottone strappata e deforme, le nere trecce adorne d’oro fradicie di sangue. La bruna mano stringeva ancora l’elsa di una spada rotta.

Era per Sam la prima immagine di una battaglia di Uomini contro Uomini, e non gli piacque. Era contento di non poter vedere il viso del morto. Avrebbe voluto sapere da dove veniva e come si chiamava quell’Uomo, se era davvero di animo malvagio, o se non erano state piuttosto menzogne e minacce a costringerlo ad una lunga marcia lontano da casa; se non avrebbe invece preferito restarsene lì in pace… Pensieri balenati alla mente e presto cacciati. Infatti, mentre Mablung si avvicinava al corpo caduto, udirono un altro rumore. Alte grida ed urla, e nel mezzo lo squillo stridulo di una tromba. Infine colpi e tonfi assordanti, come di immensi arieti che speronassero la terra.

«Attento! Attento!», gridò Damrod al suo compagno. «Possa il Valar farlo deviare! Mûmak! Mûmak!».

Con stupefazione e terrore, ed infine con immensa gioia, Sam vide una imponente forma emergere rumorosamente dagli alberi e precipitarsi a gran carriera giù per il pendio. Grande come un edificio, molto più di un edificio, gli sembrò: piuttosto una grigia collina mobile. La paura e la meraviglia l’ingrandirono forse agli occhi dell’Hobbit, ma il Mûmak di Harad era davvero un bestione, e non se ne trovano oggi altri come lui nella Terra di Mezzo; quelli della sua razza che ancora sopravvivono non sono che un riflesso della sua mole e maestosità. Continuò la corsa puntando dritto su di loro e deviando poi appena in tempo, sfiorandoli quasi a pochi metri di distanza, facendo tremare la terra sotto i loro piedi: grandi gambe che parevano alberi, enormi orecchie sventolanti come vele, lungo muso eretto come un immenso serpente pronto a colpire, piccoli occhi rossi e focosi. Le zanne a forma di corno e rivolte verso l’alto erano adorne di fasce dorate e gocciolavano di sangue. La bardatura oro e scarlatta sventolava intorno a lui ridotta a brandelli. Le rovine di ciò che sembrava una vera e propria torre di guerra giacevano sulla groppa sollevata, distrutte dal furibondo passaggio attraverso i boschi; in alto sul suo collo era ancora disperatamente avvinghiata una minuta figura…, il corpo di un possente guerriero, un gigante fra i Sudroni.

Come una valanga di collera cieca il bestione si precipitò con fragore di tuono attraverso il lago e il boschetto. Le frecce scivolavano e rimbalzavano impotenti sul triplo strato di pelle dei suoi fianchi. Di qua e di là gli Uomini fuggivano al suo arrivo, ma molti venivano travolti e schiacciati. Presto lo persero di vista, udendone però ancora il frastuono in lontananza. Sam non seppe mai che fine facesse: se fosse rimasto a vagabondare qualche tempo nelle zone selvagge, per poi morire lungi da casa o intrappolato in qualche profondo pozzo; o se invece, proseguendo nel suo vortice di rabbia, si fosse tuffato nel Grande Fiume che lo avrebbe accolto e ingoiato.

* * *

Sam trasse un profondo respiro. «Un Olifante era!», disse. «Dunque esistono gli Olifanti, e io ne ho visto uno. Che vita! Ma nessuno a casa mi crederà mai. Ebbene, se tutto è finito io schiaccio un pisolino».

«Dormi finché puoi», disse Mablung. «Ma il Capitano tornerà, se è illeso; e appena tornato partiremo subito. Ci inseguiranno non appena il Nemico sarà messo al corrente della nostra impresa, e non tarderà molto».

«Partite silenziosamente, allora!», disse Sam. «Inutile disturbare il mio sonno. Ho camminato tutta la notte».

Mablung rise. «Non credo che il Capitano ti lascerà qui, Messer Samvise», disse. «Ma vedrai».

CAPITOLO V LA FINESTRA CHE SI AFFACCIA A OCCIDENTE

A Sam parve di aver dormito solo pochi attimi quando si destò nel tardo pomeriggio, dopo il ritorno di Faramir. Questi aveva portato con sé parecchi Uomini; tutti i superstiti dell’imboscata erano ora radunati sul declivio, qualcosa come due o trecento robusti guerrieri. Sedevano in un ampio semicerchio al centro del quale, per terra, si trovava Faramir, e in piedi innanzi a lui, Frodo. Sembrava stranamente il processo di un prigioniero.

Sam strisciò fuori dalle felci, e poiché nessuno faceva caso a lui, si collocò ad una delle estremità delle file di uomini, ove poteva vedere e udire tutto ciò che accadeva. Osservava e ascoltava attentamente, pronto a precipitarsi in aiuto al padrone, se necessario. Vedeva il viso di Faramir, ora senza maschera: era severo ed imperioso, e dietro al suo sguardo investigatore si nascondeva un’intelligenza acuta. Il dubbio covava nei grigi occhi che fissavano Frodo.

Sam si accorse presto che il Capitano non era soddisfatto del racconto di Frodo su parecchi punti: che ruolo egli avesse nella Compagnia partita da Gran Burrone; perché si fosse separato da Boromir; dove stesse ora andando. In particolare, ritornava spesso al Flagello d’Isildur. Evidentemente capiva che Frodo gli nascondeva qualche fatto di grande importanza.

«Ma il Flagello d’Isildur doveva destarsi con la venuta del Mezzuomo, questo almeno intendevano dire le parole», insistette Faramir. «Se tu dunque sei il Mezzuomo di cui si parla, devi senza dubbio aver portato questo oggetto, qualunque esso sia, al Consiglio di Elrond; e là Boromir l’ha veduto. Neghi forse ciò?».

Frodo non rispose. «Vedo!», disse Faramir. «Desidero quindi che tu me ne parli più chiaramente, perché ciò che riguarda Boromir riguarda me. Le antiche leggende narrano che fu la freccia di un Orco a uccidere Isildur. Ma frecce d’Orchi ce ne sono molte, e la vista di una di esse non sarebbe considerata da Boromir di Gondor un segno del Fato. Questo oggetto era affidato a te? È nascosto, dici; ma forse lo è perché tu hai deciso di occultarlo».

«No, non ho deciso io», rispose Frodo. «Esso non mi appartiene. Non appartiene ad alcun mortale, sia egli grande o piccolo; tuttavia, se qualcuno potesse reclamarlo, questi sarebbe Aragorn figlio di Arathorn di cui vi parlavo, il capo della nostra Compagnia da Moria a Rauros».

«Perché lui e non Boromir, principe della Città fondata dai figli di Elendil?».

«Perché Aragorn discende in linea diretta da Isildur, il figlio stesso di Elendil. E la spada ch’egli cinge fu la spada di Elendil».

Un mormorio di stupefazione percorse il cerchio d’Uomini. Alcuni esclamarono ad alta voce: «La spada di Elendil! La spada di Elendil viene a Minas Tirith! Grande notizia!». Ma il volto di Faramir rimase impassibile.

«Può darsi», disse. «Ma una tale pretesa dovrà essere verificata, e saranno richieste chiare prove, nel caso che questo Aragorn venisse a Minas Tirith. Né lui né alcun altro membro della vostra Compagnia era arrivato quando partii sei giorni addietro».

«Boromir era convinto della fondatezza della pretesa», disse Frodo. «Anzi, se Boromir fosse presente, risponderebbe lui a tutte le vostre domande. E poiché si trovava a Rauros parecchi giorni fa, e intendeva allora tornare direttamente nella sua città, al vostro rientro, con ogni probabilità, apprenderete tutto ciò che desiderate sapere. Il mio ruolo nella Compagnia gli era noto, come a tutti gli altri, poiché fu Elrond d’Imladris in persona ad assegnarmelo innanzi all’intero Consiglio. Per adempiere al mio incarico sono giunto in questo paese, ma non ho il diritto di rivelarlo a chi non fa parte della Compagnia. Tuttavia, coloro che pretendono di lottare contro il Nemico farebbero bene a non ostacolarlo».

Il tono di Frodo era fiero, qualunque fosse il sentimento che lo animava, e Sam lo approvò; ma non servì a rassicurare Faramir.

«Bene!», disse. «Mi dici di occuparmi di ciò che mi riguarda, di tornarmene a casa e di lasciarti andare. Boromir racconterà tutto al suo ritorno. Al suo ritorno, dici! Eri tu amico di Boromir?».

Vivida alla mente di Frodo apparve l’immagine dell’assalto di Boromir, e per un attimo l’Hobbit esitò. Gli occhi di Faramir Che lo osservavano si fecero più duri. «Boromir era un valoroso membro della nostra Compagnia», disse infine Frodo. «Sì, io, da parte mia gli ero amico».

Faramir sorrise tetro. «Allora ti dispiacerebbe apprendere che Boromir è morto?».

«Mi dispiacerebbe davvero», disse Frodo. Poi vide l’espressione degli occhi di Faramir e vacillò. «Morto?», ripeté. «Volete dire che è morto e che voi lo sapevate? Avete dunque tentato d’intrappolarmi con le parole, prendendovi gioco di me? O state ora cercando di ingannarmi con una vostra invenzione?».

«Non ingannerei neppure un Orco dicendo una menzogna», disse Faramir.

«Com’è dunque morto, e come fate a saperlo? Infatti sostenete che nessun membro della Compagnia era giunto nella vostra città quando voi partiste».

«Quanto alla sua morte, speravo che il suo amico e compagno mi avrebbe saputo dire com’era avvenuta».

«Ma Boromir era vivo e forte quando ci lasciammo. E per quel che ne so è ancora vivo, benché vi siano certo molti pericoli in questo mondo».

* * *

«Molti davvero», disse Faramir, «e non ultimo il tradimento».

Sam stava diventando sempre più impaziente e arrabbiato. Queste ultime parole erano più di quanto potesse sopportare e, facendo irruzione in mezzo al semicerchio, si recò a grandi passi al fianco del suo padrone.

«Vi domando scusa, signor Frodo», disse, «ma tutto ciò è durato abbastanza. Non ha alcun diritto di parlarvi in quel modo, dopo tutto quel che avete passato per il bene suo e di questi grandi Uomini come di chiunque altro.

«Ascoltatemi bene, Capitano!». Si piantò davanti a Faramir con le mani sui fianchi, guardandolo come se si fosse rivolto a un giovane Hobbit che, interrogato sulle sue visite nell’orto, avesse risposto con insolenza. Ci furono dei mormorii, ma anche dei sorrisi sul volto degli Uomini tutt’intorno: la vista del loro Capitano, seduto per terra, a faccia a faccia con un giovane Hobbit fremente di collera e saldamente piantato sulle due gambe era per loro qualcosa di nuovo. «Ascoltatemi bene!», disse. «Che cosa volete concludere? Cerchiamo di arrivare al punto, prima che tutti gli Orchi di Mordor ci piombino addosso! Se credete che il mio padrone abbia assassinato questo Boromir e sia poi scappato, allora non capite nulla; ma ditelo, almeno, e facciamola finita! E poi fateci sapere che cosa intendete fare nei nostri riguardi. Ma è un vero peccato che la gente che parla tanto di lottare contro il Nemico non lasci fare agli altri, a modo loro, quel che hanno da fare. Sarebbe assai felice, Lui, se vi vedesse in questo momento. Crederebbe di essersi fatto un nuovo amico, crederebbe».

«Pazienza!», disse Faramir, ma senza collera. «Non parlare innanzi al tuo padrone, che ha un’intelligenza più grande della tua. E non ho bisogno di nessuno che m’insegni che siamo in pericolo. Sappi che sto sacrificando un po’ del poco tempo di cui dispongo per giudicare con equità un caso arduo. Fossi stato frettoloso come te, vi avrei già uccisi da parecchio tempo. Ho infatti l’ordine di uccidere chiunque si trovi in questo territorio senza il permesso del Sire di Gondor. Ma non uccido uomo o bestia inutilmente, e mai con piacere, anche se necessario. Inoltre, non parlo invano. Quindi consolati, siediti accanto al tuo padrone e taci!».

Sam si sedette pesantemente, rosso in faccia. Faramir si rivolse nuovamente a Frodo. «Mi hai chiesto come mai so che il figlio di Denethor è morto. Le notizie di morte hanno molte ali. Notte porta spesso nuove ai parenti stretti, si dice. Boromir era mio fratello».

Un’ombra di tristezza gli oscurò il volto. «Rammenti qualcosa di particolare appartenente all’equipaggiamento di Sire Boromir?».

Frodo rifletté un momento, temendo altri tranelli e domandandosi come si sarebbe infine conclusa la discussione. Era a malapena riuscito a salvare l’Anello dalla fiera presa di Boromir: ora, fra tanti Uomini bellicosi e forti, che cosa avrebbe potuto fare? Sentiva in fondo al cuore che Faramir, pur rassomigliando molto al fratello nel fisico, era meno ambizioso ed orgoglioso, e al tempo stesso più saggio e più severo. «Ricordo che Boromir portava un corno», disse infine Frodo.

«Ricordi bene, come chi l’ha davvero conosciuto», disse Faramir. «Puoi dunque forse rivederne l’immagine: un grande corno del selvaggio bue d’oriente, ornato d’argento e di antichi caratteri. È stato tramandato attraverso le generazioni al primogenito della nostra casata, e pare che, suonandolo in caso di bisogno entro i confini dell’antico reame di Gondor, la sua voce venga udita ovunque.

«Cinque giorni prima che intraprendessi questa avventura, ossia undici giorni fa, più o meno a quest’ora, udii il suono di quel corno: sembrava provenire dal Nord, ma fioco, come fosse solo un’eco in fondo alla mente. Un cattivo presagio parve a mio padre e a me, poiché nessuna notizia di Boromir ci era giunta dal giorno della sua partenza, e nessuna sentinella l’aveva veduto varcare i nostri confini. Tre notti dopo mi accadde un altro fatto ancor più strano.

«Era notte, e sedevo sulla sponda dell’Anduin nella grigia oscurità, sotto la giovane pallida luna, osservando l’eterno fluire delle acque; le tristi canne frusciavano. Sorvegliamo infatti costantemente le rive presso Osgiliath, che ormai è in parte nelle mani del nemico, il quale fa partire da lì tutte le incursione nelle nostre terre. Ma quella notte ogni cosa dormiva. Allora vidi, o credetti di vedere, una barca galleggiare sul fiume, grigia e scintillante, una piccola barca di forma strana e dalla prua alta, nella quale non c’era nessuno a remare o a dirigerla.

«Fui colto da profondo stupore, perché essa irradiava una pallida luce. Ma mi alzai, recandomi sino all’argine, e mi misi a camminare nella corrente, irresistibilmente attratto. Allora la barca si volse verso di me, e rallentando galleggiò lenta sino a portata di mano; tuttavia non osai toccarla. Era profondamente immersa nei flutti, come se carica di un pesante fardello, e vedendola passare sotto i miei occhi, mi parve che fosse quasi piena di limpida acqua dalla quale emanava la luce. Avviluppato dall’acqua giaceva un guerriero dormiente.

«Sulle sue ginocchia una spada rotta; sul suo corpo molte ferite. Era Boromir, mio fratello, morto. Riconobbi le sue vesti, la sua spada, il suo amato volto. Un’unica cosa mancava: il suo corno. Un’unica cosa tra quelle che aveva era a me ignota: una splendida cinta come di foglie d’oro intrecciate intorno alla sua vita. Boromir! gridai. Dov’è il tuo corpo? Dove stai andando? Oh Boromir! Ma egli scomparve. La barca tornò nel mezzo della corrente e svanì scintillando nella notte. Quasi un sogno, ma non del tutto, perché non vi fu risveglio. E sono certo ch’egli è morto e che il Fiume l’ha recato seco sino al Mare».

* * *

«Ahimè!», disse Frodo. «Era davvero il Boromir ch’io conoscevo. La cinta d’oro gli fu infatti donata a Lothlórien da Dama Galadriel. Fu lei a vestirci in questa maniera, di grigio elfico. Questa spilla è della medesima fattura». Toccò la foglia verde e argento che gli assicurava il manto sotto il collo.

Faramir la osservò da vicino. «È bella», disse. «Sì, opera dello stesso artefice. Passaste dunque per il Paese di Lothlórien? Laurelindórenan era il suo antico nome, ma ormai da tempi immemorabili è luogo sconosciuto agli Uomini», soggiunse a bassa voce, considerando Frodo con un nuovo stupore negli occhi. «Incomincio ora a comprendere molte cose in te che mi parevano strane. Non vuoi dirmi altro? È per me un pensiero assai triste che Boromir sia morto a breve distanza dai confini della sua patria».

«Non posso dire più di quel che ho detto», rispose Frodo. «Eppure il vostro racconto mi pare un presentimento. Fu una visione, credo, quella che vedeste, e null’altro: un’ombra di sfortuna passata o futura. A meno che non sia qualche inganno del Nemico. Io ho intravisto i volti di splendidi guerrieri di tempi antichi dormire negli stagni delle Paludi Morte, o rievocati dalle infide magie del Nemico».

«No, non è questo il mio caso», disse Faramir. «Le sue opere empiono il cuore d’orrore, mentre il mio fu invaso da tristezza e pietà».

«Ma come sarebbe potuta avvenire in realtà una simile cosa?», domandò Frodo. «Impossibile trasportare sin lì una barca attraverso i pietrosi colli da Tol Brandir; inoltre, Boromir intendeva tornare a casa percorrendo l’Entalluvio e i campi di Rohan. E poi, come poteva un battello, per di più carico d’acqua, traversare la spuma delle grandi cascate senza sprofondare nei gorgoglianti flutti?».

«Lo ignoro», disse Faramir. «Ma da dove veniva la barca?». «Da Lórien», disse Frodo. «Con tre di questi battelli scendemmo l’Anduin sino alle Cascate. Anch’essi erano di fattura elfica».

«Sei passato per la Terra Nascosta», disse Faramir, «ma credo che tu non ne abbia compreso il potere. Gli Uomini che hanno conosciuto la Maestra di Magia del Bosco d’Oro saranno testimoni di strani eventi. È pericoloso infatti, per un mortale, uscire dal mondo illuminato da questo Sole, e pochi furono anticamente coloro che ne tornarono immutati.

«Boromir! Oh Boromir!», gridò. «Quali parole ti rivolse la Dama che non muore? Che cosa ti disse? Che cosa si destò allora nel tuo cuore? Perché mai passasti da Laurelindórenan, invece di tornare per la tua via, giungendo a casa nel mattino sul dorso di un destriero di Rohan?».

Quindi, rivolgendosi nuovamente a Frodo, riprese un tono di voce calmo. «A queste domande credo che tu potresti rispondere, Frodo figlio di Drogo. Ma forse non qui, né adesso. Ma nel caso considerassi ancora la mia storia una visione, ti dirò un’altra cosa: il corno di Boromir tornò infine realmente, e non in sogno. Il corno giunse a noi, ma spaccato in due, come da un’ascia o da una spada. I pezzi vennero separatamente sulla riva: uno di essi fu trovato fra le canne ove si nascondevano le sentinelle di Gondor, a nord, sotto le cascate dell’Entalluvio; l’altro roteava nei flutti e fu scorto da uno dei nostri in missione sulle acque. Strane coincidenze, ma la verità è figlia del Tempo, si dice.

«Ed ora, il corno del primogenito giace in due pezzi in grembo a Denethor, che seduto sul suo alto seggio attende notizie. E tu non puoi dirmi nulla su come fu infranto il corno?».

«No, non ne sapevo nulla», disse Frodo. «Ma il giorno in cui voi lo udiste suonare, se i vostri calcoli sono giusti, era il medesimo in cui la Compagnia si sciolse, dopo che il mio servitore ed io la lasciammo. Ora, ciò che mi dite mi empie di paura: se Boromir quel giorno si trovò in pericolo e fu ucciso, temo che anche i miei compagni siano periti con lui. Ed essi erano miei parenti ed amici.

«Perché non abbandonate i vostri dubbi e non mi lasciate partire? Sono sfinito, e purtroppo ora anche pieno di tristezza. Ma ho un’impresa da compiere, o almeno da tentare, prima di essere ucciso anch’io. Ed ancor maggiore è la mia fretta, se è vero che noi due Mezzuomini siamo gli unici superstiti della Compagnia.

«Tornate, valoroso Faramir, Capitano di Gondor, a difendere la vostra città finché siete ancora in tempo, e permettete che io vada ove mi porta il destino».

«Io non trovo certo conforto nella nostra conversazione», rispose Faramir; «ma tu ne trai più timori di quanto non sia necessario. A meno che non siano intervenuti proprio gli abitanti di Lórien, chi può aver vestito Boromir per il funerale? Non certo gli Orchi o altri servitori del Nemico. Alcuni dei tuoi compagni vivono quindi ancora.

«Ma qualunque cosa sia avvenuta ai Confini Nord, io di te, Frodo, più non dubito. I giorni crudeli mi hanno reso buon giudice dei visi e delle parole degli Uomini; mi sia concesso di azzardare un parere sui Mezzuomini! Nonostante», e qui sorrise, «vi sia in te qualcosa di strano, Frodo, un’atmosfera elfica forse. Ma le parole scambiate fra noi hanno un peso maggiore di quanto non pensassi sulle prime. Ora dovrei riportarti a Minas Tirith perché tu risponda alle domande di Denethor, e se prendo invece una decisione nefasta per la mia città, la mia vita ne sarà il prezzo. Perciò non avrò fretta nel decidere su quel che sarà da fare. Tuttavia, dobbiamo allontanarci di qui al più presto».

D’un balzo fu in piedi e tuonò degli ordini. Immediatamente gli Uomini riuniti intorno a lui si divisero in piccoli gruppi, scomparendo veloci qua e là fra le ombre delle rocce e degli alberi. Non rimase nessuno, oltre Mablung e Damrod.

«Ora voi, Frodo e Samvise, verrete con me e con le mie guardie», disse Faramir. «Non potete percorrere la strada che conduce a sud, se tali erano le vostre intenzioni. Sarà pericolosa per qualche giorno, e sempre più sorvegliata dopo questo agguato. Inoltre credo che oggi non andreste lontani, perché siete stanchi; anche noi lo siamo. Ci rechiamo in un nascondiglio segreto, che dista dieci miglia scarse da qui. Gli Orchi e le spie del Nemico ancora non l’hanno scoperto, ma se ciò accadesse potremmo resistere a lungo anche contro un assalto massiccio. Ci coricheremo, riposeremo un po’, e voi farete lo stesso. Domattina si deciderà quel ch’è meglio fare, per me e per voi».

* * *

Frodo non aveva altra scelta che accondiscendere all’invito, o all’ordine, di Faramir. Sembrava in ogni caso una saggia decisione, poiché la scorreria degli Uomini di Gondor aveva reso più pericoloso che mai l’attraversamento dell’Ithilien.

Si misero subito in marcia: Mablung e Damrod avanti, e Faramir con Frodo e Sam qualche passo più indietro. Costeggiando il laghetto ove gli Hobbit si erano lavati, attraversarono il ruscello, risalirono un lungo declivio e s’inoltrarono fra verdi ed ombrosi boschi che scendevano interminabili verso occidente. Mentre avanzavano alla massima velocità possibile per degli Hobbit, parlavano a bassa voce.

«Ho interrotto la nostra conversazione», disse Faramir, «non solo perché il tempo premeva, come Messer Samvise mi fece notare, ma anche perché stavamo per toccare fatti che era meglio non discutere apertamente innanzi a molti Uomini. Per questo motivo preferii parlare di mio fratello e lasciar perdere il Flagello d’Isildur. Non sei stato del tutto sincero con me, Frodo».

«Non ho detto menzogne, e della verità ho detto tutto ciò che mi è permesso», rispose Frodo.

«Non ti biasimo», disse Faramir. «Parlasti in un luogo difficile con abilità e, mi pare, con saggezza. Ma io appresi o indovinai dalle tue parole più di quanto esse non dicevano. Non eravate amici con Boromir o, comunque, non vi separaste da amici. Tu e anche Messer Samvise credo abbiate avuto qualche motivo di lagnanza. Io lo amavo teneramente, e con gioia vendicherei la sua morte, però so quale carattere aveva. Il Flagello d’Isildur…, oserei dire che il Flagello d’Isildur era l’ostacolo fra di voi e il motivo di disputa nella vostra Compagnia. Deve essere senza dubbio un oggetto di grande valore, e codeste non sono cose che coltivino la pace fra compagni, almeno stando alle antiche leggende. Non ho forse colto nel segno?».

«Vicino», disse Frodo, «ma non nel centro. Non vi furono dispute nella nostra Compagnia, benché vi fosse un dubbio: dubbio sulla via da scegliere dopo l’Emyn Muil. Ma in qualunque modo siano andate le cose, le antiche leggende c’insegnano anche il pericolo delle parole avventate a proposito di oggetti… di grande valore».

«Ah, allora è come pensavo: fu solo Boromir a crearti dei problemi. Desiderava che questo oggetto venisse portato a Minas Tirith. Ahimè! Un destino ingiusto suggella le labbra di te che fosti l’ultimo a vederlo, tenendomi segreto ciò che bramo sapere: che cos’avesse nel cuore e nella mente durante le ultime sue ore. Che egli abbia errato o no, di una cosa sono certo: morì di nobile morte, compiendo un bel gesto. Il suo volto era più bello ancora che da vivo.

«Ma, Frodo, fui assai incalzante da principio circa il Flagello d’Isildur. Perdonami! Non fui saggio in tale ora e luogo; non avevo avuto tempo di riflettere. Avevamo combattuto una dura battaglia, più che sufficiente per occupare la mia mente. Ma mentre parlavo con te incominciai ad avvicinarmi al bersaglio, e deliberatamente cambiai argomento. Devi sapere infatti che si conserva ancor molto delle antiche leggende, fra i Sovrani della città. La mia casata non discende da Elendil, benché il sangue di Nùmenor scorra nelle nostre vene. La nostra linea risale a Mardil, il buon sovrintendente che governò al posto del re partito in guerra. Questi era Re Eämur, ultimo della linea d’Anàrion, il quale non aveva figli e non fece mai ritorno. Da quel dì i sovrintendenti hanno governato la città, per molte generazioni d’Uomini.

«E rammento che Boromir, da ragazzo, quando apprendevamo insieme la storia dei nostri antenati e della nostra città, rimpiangeva sempre che nostro padre non fosse re. “Quante centinaia di anni sono dunque necessarie affinché un sovrintendente divenga re, se questi non ritorna?”, diceva. “Pochi anni, forse, in luoghi ove la regalità è di rango inferiore”, rispose un dì mio padre. “A Gondor non basterebbero diecimila anni”. Ahimè! Povero Boromir! Non trovi questo dettaglio significativo?».

«Sì, davvero», rispose Frodo. «Eppure trattò sempre Aragorn con onore».

«Non lo metto in dubbio», disse Faramir. «Se, come tu dici, era convinto della fondatezza delle pretese di Aragorn, era naturale che lo riverisse. Ma il momento cruciale non era ancora giunto: essi non si trovavano a Minas Tirith, non erano ancora rivali nelle guerre per il suo possesso.

«Ma sto smarrendo il filo del discorso. Noi della Casa di Denethor conosciamo bene le antiche storie per lunga tradizione, e nei nostri tesori sono inoltre conservate molte cose: libri ed iscrizioni su sbiadite pergamene, su pietra e su fogli d’oro e d’argento, nei più disparati caratteri. Ve ne sono alcuni che più nessuno sa leggere. Quanto agli altri, è raro che qualcuno li consulti. Io qualcosa comprendo, perché me lo hanno insegnato. Furono proprio questi documenti ad attirare da noi il Grigio Pellegrino. Lo vidi per la prima volta quando ero bambino; da allora è tornato due o tre volte».

«Il Grigio Pellegrino?», disse Frodo. «Non aveva un nome?». «Mithrandir lo chiamavamo, alla maniera elfica», rispose Faramir, «ed egli ne era contento. Molti i nomi che ho nelle diverse terre, egli soleva dire. Mithrandir sono per gli Elfi, Tharkûn per i Nani; Olórin ero da giovane nell’ormai obliato Ovest, nel Sud Incànus, nel Nord Gandalf; all’Est non vado mai».

«Gandalf!», esclamò Frodo. «Avevo pensato che fosse lui. Gandalf il Grigio, il più amato fra i consiglieri, Capo della nostra Compagnia. Lo perdemmo a Moria».

«Mithrandir scomparso!», disse Faramir. «Un destino crudele sembra aver perseguitato la vostra Compagnia. È assai difficile credere che una persona di si gran sapienza e potere (da noi compì imprese davvero meravigliose) sia potuta perire, privando il mondo di tanta saggezza. Sei sicuro di ciò che dici? Non credi possibile che vi abbia semplicemente lasciati per qualche sua misteriosa destinazione?».

«Ahimè! sì», disse Frodo. «Lo vidi precipitare nell’abisso». «Comprendo che alla base di tutto ciò vi è una storia assai drammatica», disse Faramir, «che forse mi racconterai questa sera. Questo Mithrandir era, me ne accorgo adesso, più di un grande sapiente: un vitale artefice degli eventi dei nostri tempi. Se fosse stato presso di noi quando cercavamo chi ci spiegasse le parole del sogno, egli ce le avrebbe chiarite senza bisogno di messaggero. Tuttavia, forse si sarebbe rifiutato di farlo, e il viaggio di Boromir era voluto dal destino. Mithrandir non ci parlò mai del futuro, e mai ci rivelò le sue intenzioni. Ottenne da Denethor il permesso, ignoro in quale modo, di consultare i segreti del nostro tesoro, ed io appresi qualcosa da lui quando era disposto ad insegnare (e ciò accadeva raramente). Cercava sempre ed ovunque, interrogandoci soprattutto circa la Grande Battaglia combattuta a Dagorlad ai primordi di Gondor, quando Colui che non nominiamo venne sconfitto. Ed era avido di storie sul conto d’Isildur, del quale avevamo però meno cose da dire; da noi infatti non si seppe mai nulla di certo riguardo alla sua fine».

La voce di Faramir divenne un sussurro. «Ma questo è ciò che riuscii ad apprendere, o indovinare, e a conservare tuttavia segreto in fondo al cuore: Isildur prese qualcosa dalla mano dell’Innominato prima di partire da Gondor, senza che mai più gli Uomini Mortali lo rivedessero. Questa mi parve la risposta alle domande di Mithrandir. Ma a quei tempi pensavo che si trattasse solo di un fatto interessante per gli studiosi di storia antica. Neanche quando le enigmatiche parole del nostro sogno vennero discusse, pensai che il Flagello d’Isildur potesse essere la medesima cosa. Infatti, secondo l’unica leggenda che conoscevamo, Isildur cadde in un’imboscata e fu ucciso dalle frecce degli Orchi: e Mithrandir non mi aveva mai detto altro.

«Che cosa sia in realtà tale oggetto, ancora non saprei dire; ma deve trattarsi di qualcosa assai potente e periglioso. Un’arma crudele forse, escogitata dall’Oscuro Signore. Se questo oggetto poteva procurare vantaggi a un guerriero, comprendo bene come Boromir, fiero e spericolato, sovente avventato, sempre ansioso di vedere la vittoria di Minas Tirith (e con essa la propria gloria), potesse desiderarlo ed esserne attratto. Ahimè, perché partì lui per quella missione? Mio padre e gli anziani avrebbero dovuto scegliere me, ma egli si fece avanti, essendo il maggiore ed il più ardito (vere ambedue le cose), e non si lasciò distogliere da nessuno.

«Ma non avere più timore! Io non m’impadronirei di codesto oggetto, neppure se lo trovassi lungo la strada, neppure se Minas Tirith stesse cadendo in rovina e l’unica speranza di salvezza fosse quella di usare l’arma dell’Oscuro Signore per il bene della mia terra e per la mia gloria. No, non desidero tali trionfi, Frodo figlio di Drogo».

«Neanche il Consiglio li desiderava», rispose Frodo. «E tanto meno io. Preferirei non aver nulla a fare con questa faccenda».

«Quanto a me», disse Faramir, «desidererei veder rifiorire l’Albero bianco nei cortili dei re e ritornare la Corona d’Argento, e la pace a Minas Tirith: Minas Anor qual era in passato, reame di luce, alta e splendente, bella come una regina fra le regine: non una padrona di molti schiavi, no, nemmeno una dolce padrona di schiavi volontari. La guerra è indispensabile per difendere la nostra vita da un distruttore che divorerebbe ogni cosa; ma io non amo la lucente spada per la sua lama tagliente, né la freccia per la sua rapidità, né il guerriero per la gloria acquisita. Amo solo ciò che difendo: la città degli uomini di Nùmenor; e desidero che la si ami per tutto ciò che custodisce di ricordi, antichità, bellezza ed eredità di saggezza. Non desidero che desti altro timore che quello riverenziale degli Uomini per la dignità di un anziano saggio.

«Non temere, quindi! Non ti domando altro. Non ti domando nemmeno se adesso le mie parole si avvicinano più di prima alla verità. Ma se avrai fiducia in me, forse potrei consigliarti e persino aiutarti a compiere la tua missione, qualunque essa sia».

Frodo non rispose. Stava quasi per cedere al desiderio di aiuto e consiglio, e raccontare a quel severo giovane, le cui parole sembravano così belle e sagge, ciò che pesava sulla sua mente. Ma qualcosa lo trattenne. Il suo cuore era pieno di timore e tristezza: se Sam e lui erano davvero, come sembrava probabile, gli unici superstiti dei Nove Viandanti, significava che egli era il solo responsabile del segreto della missione. Meglio diffidenza immeritata che parole avventate. Ed il ricordo di Boromir, della spaventosa trasformazione avvenuta in lui a causa del desiderio dell’Anello, lo assillava ogni qual volta guardava Faramir e ne ascoltava la voce: diversi erano, eppure molto affini.

* * *

Procedettero per qualche tempo in silenzio, passando sotto i vecchi alberi come ombre grigie e verdi, camminando senza il minimo rumore; sopra di loro cinguettavano molti uccelli, e il sole scintillava sulla lucente volta di foglie scure nei boschi sempreverdi dell’Ithilien.

Sam non aveva preso parte alla conversazione, pur avendola ascoltata; e contemporaneamente aveva teso il suo acuto orecchio d’Hobbit agli ovattati suoni del bosco intorno a loro. Aveva notato una cosa: che durante tutta la conversazione Gollum non era stato nominato nemmeno una volta. Ne era assai contento, pur sapendo che sarebbe stata troppo ardita la speranza di non udirne parlare mai più. Presto si accorse che nonostante camminassero da soli, vi erano molti Uomini nei paraggi: non solo Damrod e Mablung che apparivano e scomparivano nelle ombre innanzi a loro, ma parecchi altri da ambedue i lati che camminavano nascosti e veloci in qualche direzione prestabilita.

Una volta, voltandosi all’improvviso come se un prurito alle spalle l’avesse avvertito che qualcuno l’osservava da dietro, gli parve d’intravedere una piccola figura scura scivolare dietro un albero. Sam aprì la bocca per parlare e poi la richiuse. «Non ne sono sicuro», si disse, «e perché dovrei riportare alla loro mente quel farabutto, se loro preferiscono dimenticarlo? Se soltanto vi riuscissi anch’io!».

* * *

Continuarono a camminare, finché i boschi divennero meno fitti ed il terreno più scosceso. Allora deviarono nuovamente verso destra, giungendo poco dopo a un ruscello che scorreva in una stretta gola: il medesimo corso d’acqua che gocciolava lassù dal rotondo laghetto era adesso un rapido torrente, e scorreva in un letto pietroso e profondamente incassato, sovrastato da cupi boschi di querce. Guardando ad ovest scorgevano ai loro piedi, immerse in una caligine luminosa, vaste pianure e grandi praterie, e lungi a occidente vedevano scintillare al sole calante le possenti acque dell’Anduin. «Qui purtroppo devo essere scortese con voi», disse Faramir. «Spero vorrete perdonare chi, per essere cortese, ha sinora trasgredito ordini come quello di uccidervi o di legarvi. Ma è perentorio che nessuno straniero, nemmeno uno dei nostri alleati di Rohan, veda il sentiero che stiamo per percorrere. Sono costretto a bendarvi gli occhi».

«Come volete», disse Frodo. «Persino gli Elfi, in caso di necessità, fanno la medesima cosa; con gli occhi bendati attraversammo i confini della splendida Lothlórien. Gimli il Nano se ne ebbe a male, ma gli Hobbit lo sopportarono».

«È in un posto assai meno bello che io vi condurrò», disse Faramir. «Ma sono contento che accettiate spontaneamente, senza costringermi ad adoperare la forza».

Chiamò a bassa voce Mablung e Damrod, che tornarono sui loro passi verso di lui. «Bendate questi ospiti», disse Faramir. «Stretto ma senza dar loro fastidio. Non legate loro le mani. Daranno la loro parola di non fare alcun tentativo per vedere. Potrei certo fidarmi se dicessi loro di tenere gli occhi chiusi, ma gli occhi si aprono se i piedi inciampano. Conduceteli voi affinché non abbiano a incespicare».

Le due guardie bendarono allora gli occhi degli Hobbit con fazzoletti verdi, e calarono loro i cappucci quasi fin sulla bocca; poi li presero per mano e continuarono per la loro via. Tutto ciò che Frodo e Sam seppero di quell’ultimo miglio, lo appresero indovinando al buio.

Poco dopo si accorsero di percorrere un sentiero che scendeva assai ripido; tosto si fece così stretto che dovettero avanzare in fila indiana, sfiorando da ambedue le parti delle pareti rocciose; le guardie li orientavano da dietro con le mani saldamente poggiate sulle loro spalle. Di tanto in tanto, ove il sentiero era più accidentato, venivano sollevati da terra e poi posati un po’ più avanti. Sempre, sulla loro destra, udivano il rumore d’acqua che scorreva, ora più vicina e fragorosa. Infine li fecero fermare. Mablung e Damrod li girarono rapidamente su loro stessi parecchie volte, ed essi perdettero ogni senso d’orientamento. Quindi percorsero un breve tratto in salita: faceva freddo e il rumore del corso d’acqua era fioco. Si sentirono sollevare e portare giù per innumerevoli scalini, e voltare un angolo. Improvvisamente udirono di nuovo l’acqua, ora rumorosa, gorgogliante e spruzzante. Pareva circondarli, e sentivano sulle guance e sulle mani una fine pioggerella. Infine li posarono per terra; per un momento rimasero lì immobili, timorosi, bendati, senza sapere dove si trovassero; nessuno parlava.

Poi alle loro spalle udirono la voce di Faramir. «Ora possono vedere», disse. I fazzoletti furono tolti e i cappucci gettati all’indietro, lasciandoli abbagliati e stupefatti.

Si trovavano su un pavimento bagnato di pietra lucida, come la soglia del rozzo arco intagliato nella roccia che si apriva buio dietro di loro. Ma davanti pendeva un fine velo d’acqua, così vicino che Frodo vi avrebbe potuto infilare il braccio disteso. Era rivolto a occidente. Il sole del tramonto vi proiettava i suoi raggi orizzontali, la cui luce rossa s’infrangeva in mille scintille dal luccicante colore cangiante. Avevano l’impressione di affacciarsi alla finestra di una torre elfica, velata da fili d’oro e d’argento, da rubini, zaffiri e ametiste eternamente incandescenti.

* * *

«Fortunatamente, almeno l’ora del nostro arrivo vi ricompensa per la vostra pazienza», disse Faramir. «Questa è la Finestra del Tramonto, Henneth Annûn, la più splendida delle cascate d’Ithilien, terra dalle molte fontane. Pochi stranieri l’hanno ammirata, ma il salone ch’è dietro non è degno di tanta bellezza. Entrate ora, e vedrete!».

Mentre parlava, il sole scomparve ed il fuoco impallidì fra i flutti. I viandanti si voltarono e varcarono il basso arco minaccioso. Si trovarono in un’ampia e grezza caverna dal soffitto pendente e disuguale. Poche torce accese irradiavano una pallida luce sulle pareti lucide. Molti Uomini erano già lì. Ne arrivavano altri a gruppetti di due e di tre da una stretta e scura porta laterale. Man mano che i loro occhi si abituarono alle tenebre, gli Hobbit si accorsero che la stanza era più grande di quanto non pensassero e piena di armi e vettovagliamenti.

«Ebbene, questo è il nostro rifugio», disse Faramir. «Non è certo pieno di comodità, ma vi trascorrerete la notte in pace. Perlomeno è asciutto e, pur non essendoci fuoco, vi è da mangiare. Un tempo l’acqua scorreva attraverso la caverna e l’arco, ma anticamente venne deviata più in alto nella gola, raddoppiando l’altezza della cascata. Tutti gli ingressi che conducevano a questa grotta furono bloccati per impedire il passaggio dell’acqua o di altro, tutti eccetto uno. Esistono oggi soltanto due vie d’uscita: quel passaggio dal quale siete entrati bendati e, al di là della Finestra Velata, un profondo bacino pieno di lame di pietra. Ora riposate per qualche minuto, mentre preparano il pranzo».

* * *

Gli Hobbit furono condotti in un angolo della sala ove si trovava un basso letto sul quale potevano coricarsi se lo desideravano. Nel frattempo gli Uomini si davano da fare nella caverna, silenziosamente e con ordinata fretta. Delle tavole leggere appoggiate al muro vennero installate su cavalletti e apparecchiate. I servizi erano semplici e disadorni, ma di bella fattura e buon gusto: piatti tondi, ciotole e vassoi di ceramica marrone o di legno di bosso liscio e pulito. Qua e là una tazza o altro recipiente di bronzo lucidato e, al posto del Capitano, nel mezzo del tavolo centrale, una coppa d’argento.

Faramir girava fra i suoi Uomini, interrogando a bassa voce ciascuno di coloro che entravano. Alcuni erano di ritorno dall’inseguimento dei Sudroni; altri, che erano rimasti a sorvegliare la strada, giunsero per ultimi. Di tutti i Sudroni, eccetto il grande Mûmak, si sapeva cos’era avvenuto: di esso non si avevano infatti notizie. Il nemico non accennava a muoversi; non vi era in giro nemmeno un Orco.

«Hai visto o udito nulla, Anborn?», domandò Faramir all’ultimo arrivato.

«No, sire», rispose l’Uomo. «O comunque, nessun Orco. Ho veduto invece, o mi è parso di vedere, una cosa strana. Il crepuscolo era ormai inoltrato, e in quell’ora gli occhi ingrandiscono le dimensione di ogni cosa. Forse dunque non era altro che uno scoiattolo». Sam tese l’orecchio udendo ciò. «Ma doveva essere allora uno scoiattolo nero e senza coda. Era come un’ombra sul terreno, che scivolò dietro un tronco d’albero appena mi a avvicinai, e si arrampicò veloce come uno scoiattolo. Voi non volete che uccidiamo inutilmente animali selvatici, e poiché non mi sembrava si trattasse di altro, non scoccai frecce. In ogni caso era troppo buio per mirare, e la creatura si era volatilizzata fra le tenebre delle foglie. Io rimasi qualche tempo fermo, perché il tutto mi pareva un po’ strano, e poi mi affrettai a tornare qui. Nell’allontanarmi ebbi l’impressione che l’animale mi sibilasse addosso dall’alto delle fronde. Forse si trattava di un grosso scoiattolo. O forse all’ombra dell’Innominato alcune delle bestie del Bosco Atro errano inoltrandosi persino nei nostri boschi. Pare che lì scoiattoli neri ve ne siano».

«Può darsi», disse Faramir. «Ma sarebbe un cattivo presagio. Non vogliamo nell’Ithilien i fuggiaschi del Bosco Atro». A Sam parve che il Capitano lanciasse uno sguardo agli Hobbit nel dire ciò: ma Sam non fece commenti. Rimase per qualche tempo sdraiato accanto a Frodo, osservando la luce delle torce e gli Uomini che andavano avanti e indietro parlando a bassa voce. Poi, improvvisamente, Frodo s’addormentò.

Sam discuteva e lottava con se stesso. «Potrebbe essere sincero», pensava, «ma potrebbe anche non esserlo. Dietro alle belle parole può nascondersi un cuore infido». Sbadigliò. «Dormirei per una settimana, e mi farebbe bene. E cosa posso fare, anche rimanendo sveglio, da solo contro tutti questi grossi Uomini? Nulla, Sam Gamgee; ma devi restare sveglio lo stesso». E, chissà come, vi riuscì. La luce all’ingresso della caverna scomparve, ed il grigio velo d’acqua si scurì, perdendosi fra le fitte ombre. Incessante continuava il rumore della cascata, senza cambiare nota né il mattino, né la sera, né la notte. Mormorava bisbigliando parole di sonno. Sam si ficcò le nocche delle dita negli occhi.

* * *

Accesero altre torce; fu aperto un barile di vino. I pacchi delle provviste vennero slegati, mentre alcuni Uomini attingevano l’acqua dalla cascata. Altri si lavavano le mani in un catino. A Faramir furono portati una grande bacinella di rame ed un panno bianco, ed egli si lavò.

«Svegliate i nostri ospiti», disse, «e portate loro dell’acqua. È ora di mangiare».

Frodo si sedette sbadigliando e stiracchiandosi. Sam, non avvezzo ad essere servito, guardò alquanto stupito l’imponente guerriero che s’inchinava nel porgergli un catino d’acqua.

«Posatelo per terra, messere, per favore!», disse. «Più facile, sia per me che per voi». Poi con meraviglia e divertimento di tutti, infilò la testa nell’acqua fredda, spruzzandosi collo e orecchie.

«Si usa dunque, nel vostro paese, lavarsi il capo prima di pranzo?», disse l’Uomo incaricato di servire gli Hobbit.

«No, prima di colazione», disse Sam. «Ma se siete a corto di sonno, un po’ di acqua fredda sul collo fa l’effetto della pioggia sulla lattuga avvizzita. Ecco! Ora posso restare sveglio quanto basta per mangiare un boccone!».

Furono fatti accomodare accanto a Faramir su dei barili ricoperti di pelli e più alti delle panche ove sedevano gli Uomini, affinché stessero comodi. Prima d’incominciare, Faramir ed i suoi si volsero verso occidente tenendo un minuto di silenzio. Faramir fece segno agli Hobbit di fare altrettanto.

«È un gesto che compiamo sempre», disse sedendosi. «Guardiamo Nùmenor che fu, e oltre Nùmenor l’Elfica Dimora che tuttora esiste, e più lungi ancora ciò che sempre sarà. Non seguite un’usanza simile prima dei pasti?».

«No», rispose Frodo, sentendosi stranamente rustico e incivile. «Ma quando siamo ospiti c’inchiniamo innanzi al padrone di casa, e dopo il pasto ci alziamo e gli porgiamo i nostri ringraziamenti».

«Lo facciamo anche noi», disse Faramir.

* * *

Dopo tanti viaggi, accampamenti e giorni trascorsi nelle solitarie zone selvagge, quel pranzo parve agli Hobbit un banchetto: bere un vino giallo pallido, fresco e fragrante, mangiare pane e burro, e carni salate, e frutta secca, e del buon formaggio rosso, con mani e posate pulite e da piatti puliti. Né Frodo né Sam rifiutarono nulla di ciò che venne loro offerto, e si servirono non due ma ben tre volte. Il vino scorreva nelle vene e nelle stanche membra, ed essi si sentivano felici e rincuorati come non erano mai più stati dopo la partenza da Lórien.

Quando ebbero finito, Faramir li condusse in una nicchia in fondo alla caverna, in parte nascosta da tende, ove furono portati due sgabelli ed una sedia. Un piccolo lume in terracotta ardeva in un incavo della roccia.

«Fra poco desidererete dormire», disse, «e specialmente il buon Samvise, che si è rifiutato di chiudere occhio prima di cena… (ignoro se per paura di assopire anche la sua nobile fame, o per paura di me). Ma non fa bene alla salute dormire subito dopo mangiato, soprattutto quando si è prima digiunato a lungo. Chiacchieriamo per qualche minuto. Avrete senza dubbio molte cose da narrare a proposito del vostro viaggio da Gran Burrone in poi. E forse desiderate anche apprendere qualcosa su di noi e sulle terre ove ci troviamo adesso. Parlatemi di mio fratello Boromir, e del vecchio Mithrandir, e degli splendidi abitanti di Lothlórien».

Frodo non si sentiva più insonnolito, ed era disposto a parlare. Ma benché il cibo ed il vino lo avessero messo a proprio agio, non gli avevano però fatto dimenticare la prudenza. Sam, raggiante, canticchiava a bassa voce, e mentre Frodo parlava, si accontentava da principio di ascoltare, osando solo di tanto in tanto manifestare il proprio consenso con un’esclamazione.

Frodo narrò molte storie, pur distogliendo sempre la conversazione dalla missione della Compagnia e dall’Anello, e preferendo sottolineare la parte valorosa che spettava a Boromir in tutte le loro avventure, sia con i lupi nelle zone selvagge, sia sulle nevi del Caradhras, sia nelle miniere di Moria ov’era caduto Gandalf. La vicenda che più commosse Faramir fu la lotta sul ponte.

«Boromir si sarà roso dalla rabbia di dover fuggire innanzi agli Orchi», disse, «e innanzi a quell’immondo essere che chiami Balrog…. anche se andò via per ultimo».

«Sì, fu lui l’ultimo», disse Frodo, «ed Aragorn fu costretto a divenire la nostra guida. Egli soltanto, dopo la scomparsa di Gandalf, conosceva la via. Ma se non vi fossimo stati noi, piccoli esseri inermi, non credo che lui e Boromir sarebbero fuggiti».

«Forse sarebbe stato meglio che Boromir fosse caduto lì insieme con Mithrandir», disse Faramir, «invece di andare incontro al destino che lo attendeva sopra le cascate di Rauros».

«Può darsi. Ma narratemi ora le vostre avventure», disse Frodo, cambiando una volta ancora argomento. «Desidererei saperne di più su Minas Ithil ed Osgiliath, e su Minas Tirith la resistente. Che speranze avete per questa città nella vostra lunga guerra?».

«Che speranze abbiamo?», disse Faramir. «Da tempo ormai non abbiamo più speranza. La spada d’Elendil, se ritorna davvero, potrebbe forse ravvivarla, ma credo che allontanerebbe soltanto il giorno fatale, a meno che non giungano anche altri aiuti inattesi da Elfi o da Uomini. Il Nemico cresce mentre noi diminuiamo. Siamo un popolo sul finire, un autunno senza primavera.

«Gli Uomini di Nùmenor vivevano un po’ dappertutto sulle rive e le regioni marittime delle Grandi Terre, ma la maggior parte di essi divenne schiava della malvagità e della follia. Molti si innamorarono dell’Oscurità e della magia nera; altri si diedero all’ozio e al lusso, altri ancora combatterono fra di loro sino a quando gli Uomini Selvaggi, approfittando della loro debolezza, li soggiogarono.

«Mai si è detto che le arti malefiche venissero praticate a Gondor, né che l’Innominato vi fosse riverito e onorato; l’antica saggezza e bellezza provenienti dall’Ovest durarono a lungo nel reame dei figli d’Elendil il Bello e vi rimangono ancora. Eppure fu Gondor la causa della propria rovina; tutti divennero noncuranti e stolti, convinti che il Nemico dormisse, mentre era soltanto stato cacciato, e non distrutto.

«La morte era sempre presente, perché i Numenoreani, come nel loro antico regno che avevano in tal modo perduto, continuavano a desiderare un’eterna vita immutata. I re costruivano tombe più splendide delle abitazioni dei vivi ed erano più affezionati ai nomi dei loro antichi alberi genealogici che a quelli dei loro figli. In atavici saloni sedevano re senza progenitura meditando d’araldica; in nascondigli segreti uomini avvizziti creavano forti elisir, o dall’alto di fredde torri interrogavano le stelle. E l’ultimo re della stirpe di Anàrion non ebbe figli.

«I sovrintendenti si dimostrarono invece più saggi e Più fortunati. Saggi, perché reclutarono il nostro esercito fra i popoli robusti della costa ed i tenaci montanari dell’Ered Nimrais. E stabilirono una tregua con i fieri popoli del Nord che sovente ci avevano assaliti, gente dal feroce coraggio, ma lontanamente imparentata con noi, diversa dai selvaggi dell’Est e dai crudeli Haradrim.

Fu così infatti che ai tempi di Cirion, il Dodicesimo Sovrintendente (mio padre è il vigesimo sesto), quegli Uomini ci vennero in aiuto e sul grande Campo di Celebrant distrussero i nemici impadronitisi delle nostre provincie settentrionali. Questi alleati, noi li chiamammo Rohirrim, padroni di cavalli, e cedemmo a loro i campi del Calenardhon, il cui nome divenne Rohan; si trattava di una provincia da lungo tempo spopolata. Essi hanno sempre rispettato con sincerità la nostra alleanza, aiutandoci nel bisogno e difendendo i nostri confini settentrionali e la Breccia di Rohan.

«Delle nostre usanze e tradizioni hanno appreso quel che hanno voluto, ed i loro signori in caso di necessità parlano la nostra lingua; tuttavia si attengono soprattutto alle usanze dei loro padri e alle proprie memorie, parlando fra loro nella lingua nordica che li contraddistingue. E noi li amiamo molto: Uomini alti e splendide donne, gli uni e le altre valorosi e forti, dai capelli d’oro e gli occhi luminosi; risvegliano in noi il ricordo della gioventù degli Uomini nei Tempi Remoti. Anzi, i nostri dotti maestri dicono che anch’essi, come noi Numenoreani, discendano dalle antiche Tre Casate degli Uomini; forse non da Hador il Chiomadoro, l’Amico degli Elfi, ma comunque da coloro fra i suoi figli e sudditi che resistettero al richiamo dell’Occidente e non attraversarono il Mare.

«Tale è infatti la distinzione che la nostra storia fa tra gli Uomini: gli Alti, o Uomini dell’Ovest, erano i Numenoreani; i Mediani, Uomini del Vespro, sono i Rohirrim e gli altri della loro stirpe che vivono all’estremo Nord; ed i Bradi, Uomini dell’Oscurità.

«Ma ormai, così come i Rohirrim sono andati via via rassomigliandoci, sviluppando l’arte e la cortesia, anche noi ci siamo avvicinati a loro, e non possiamo quasi più rivendicare il titolo di Alti. Siamo diventati Mediani, Uomini del Vespro, pieni però di ricordi di altre cose. Abbiamo appreso dai Rohirrim ad amare la guerra ed il coraggio come cose buone in se stesse, tanto uno svago quanto uno scopo; e pur convinti che un guerriero debba possedere altre doti d’intelligenza e destrezza oltre l’abilità nel maneggiare armi e uccidere, tuttavia lo consideriamo superiore agli Uomini d’altri mestieri. Sono i tempi che vogliono così. E tale era mio fratello Boromir: era un prode, e perciò era considerato il migliore Uomo di Gondor. E davvero assai valoroso si dimostrò sempre: da lunghi anni ormai nessun figlio di Minas Tirith si era rivelato sì resistente alle fatiche, sì temerario in battaglia, né aveva soffiato nel suo Grande Corno con maggior potenza». Faramir sospirò e tacque.

* * *

«Non avete detto molto degli Elfi nelle vostre storie, signore», disse Sam prendendo all’improvviso il coraggio a due mani. Aveva notato che Faramir sembrava riferirsi agli Elfi con deferenza, e ciò aveva contribuito ancor più della sua gentilezza, del suo cibo e del suo vino a conquistare il rispetto dell’Hobbit addormentandone i sospetti.

«No davvero, Messer Samvise», rispose Faramir, «perché non sono un esperto di storia elfica. Ma vedi, anche da questo punto di vista siamo cambiati, scendendo man mano da Nùmenor alla Terra di Mezzo. Saprai infatti, avendo avuto Mithrandir come compagno e avendo parlato con Elrond, che gli Edam, i Padri dei Numenoreani, combatterono al fianco degli Elfi le prime guerre, ricevendo come ricompensa il dono del reame in mezzo al Mare, dal quale si poteva scorgere l’Elfica Dimora. Ma nei giorni dell’oscurità, le arti del Nemico e i lenti cambiamenti subiti dalle due stirpi lungo i diversi cammini che percorrevano, alienarono gli Uomini dagli Elfi. Adesso i primi temono e diffidano degli Elfi, pur sapendo ben poco su di loro. E noi di Gondor stiamo diventando come gli altri Uomini, come gli uomini di Rohan; anche loro, nonostante siano nemici dell’Oscuro Signore, temono gli Elfi e parlano con terrore del Bosco d’Oro.

«Eppure vi è ancora fra noi qualcuno che ha rapporti con gli Elfi, e di tanto in tanto si reca di nascosto a Lórien, e sovente non ne ritorna. Non io. Giudico pericoloso per un mortale cercare di propria iniziativa i Priminati; tuttavia invidio voi che avete parlato con la Bianca Dama».

«La Dama di Lórien! Galadriel!», gridò Sam. «Dovreste vederla, davvero dovreste, signore. Io non sono che un Hobbit, e a casa il mio lavoro è il giardinaggio, signore, quindi voi capirete che non sono bravo nel comporre versi: forse di tanto in tanto qualche poema comico, sapete, ma non della vera poesia. Perciò non posso spiegarmi bene come vorrei. Bisognerebbe cantare. Grampasso, cioè Aragorn, o il vecchio signor Bilbo potrebbero farlo. Ma come desidererei scrivere una canzone su di lei! Sapeste com’è bella, signore! Stupenda! A volte come un grande albero in fiore, a volte come un bianco narciso, piccolo ed esile. Dura come un diamante, soffice come un raggio di luna. Calda come sole, fredda come il gelo delle stelle. Fiera e distante come un monte di neve, più allegra di una ragazza che di primavera s’intreccia margherite fra i capelli. Ma sono tutte sciocchezze, e non rendono per nulla l’idea».

«Allora dev’essere davvero stupenda», disse Faramir. «Pericolosamente bella».

«Non so se sia pericolosa», disse Sam. «Mi ha colpito il fatto che la gente porta con sé il proprio pericolo, e poi lo ritrova a Lórien, perché se l’è portato dietro. Ma forse la si potrebbe definire pericolosa, perché è talmente forte in se stessa. Ci si potrebbe infrangere e distruggere contro di lei, come una nave contro una roccia; o annegare in lei, come un Hobbit in un fiume. Ma né roccia né fiume sarebbero da biasimare. Per esempio, Boro…». S’interruppe e arrossì.

«Sì? Stavi dicendo per esempio Boromir?», domandò Faramir. «Che cosa volevi dire? Che lui si era portato dietro il suo pericolo?».

«Sì, signore, vi domando scusa, e vostro fratello era una persona in gamba, se mi posso permettere di dirlo. Ma voi avete subodorato tutto sin dall’inizio. Io ho osservato e ascoltato Boromir in viaggio da Gran Burrone in poi, senza cattive intenzioni nei suoi riguardi, voi capite bene, ma soltanto per vegliare sul mio padrone; sono convinto che a Lórien comprese per la prima volta quel che io già avevo indovinato: che cosa bramava il suo cuore. Dal momento in cui l’aveva veduto, non desiderava altro che l’Anello del Nemico!».

«Sam!», gridò Frodo, sconvolto. Si era per qualche tempo profondamente immerso nei propri pensieri, e ne veniva ora tirato fuori all’improvviso e troppo tardi.

«Povero me!», esclamò Sam, prima bianco e poi rosso paonazzo. «I miei soliti guai! Ogni volta che apri la tua grossa bocca fai una frittata, mi diceva sempre il Gaffiere, e aveva ragione. Santo cielo! Santo cielo!

«Ebbene ascoltatemi, signore!», disse rivolgendosi a Faramir con tutto il coraggio che poté racimolare. «Guardatevi bene dall’approfittare del mio padrone solo perché il suo servitore è un perfetto idiota! Avete usato parole assai belle, parlando degli Elfi e di tutto il resto, e siete riuscito a disarmarmi. Ma bello è chi bello fa, diciamo noi. Ecco l’occasione buona per dimostrare le vostre virtù».

«Così pare», disse Faramir, sottovoce e adagio, con uno strano sorriso. «È dunque codesta la risposta a tutti gli enigmi! L’Unico Anello che tutti pensavano scomparso dal mondo. E Boromir tentò d’impadronirsene con la forza? E voi scappaste? E correndo correndo… cadete fra le mie mani! E qui in mezzo a contrade sperdute eccomi con due Mezzuomini, e una schiera di Uomini ai miei ordini, e l’Anello degli Anelli. Un bel colpo di fortuna! Una buona occasione per Faramir, Capitano di Gondor, di mostrare la propria virtù! Ah!». Si alzò in piedi, altissimo e severo, e gli occhi gli brllavano.

Frodo e Sam saltarono giù dai loro sgabelli, piantandosi a fianco a fianco con le spalle al muro e cercando di impugnare la spada. Vi fu un silenzio. Tutti gli Uomini tacquero nella caverna e li guardarono stupefatti. Ma Faramir tornò a sedere con un riso sommesso, e poi improvvisamente il suo volto divenne di nuovo grave.

«Ahimè, povero Boromir! Fu una dura prova!», disse. «Come avete accresciuto la mia pena, voi due, strani viandanti di un remoto paese, portatori del pericolo degli Uomini! Questi, però, voi non li sapete ancora valutare con giustizia. Siamo gente sincera, noi Uomini di Gondor. Le rare volte che ci vantiamo, facciamo di tutto per dare una dimostrazione, o moriamo nel tentativo. Io non m’impadronirei di quell’oggetto anche se lo trovassi lungo la strada, dissi qualche tempo fa. Pur se fossi Uomo da desiderarlo, e benché allora non sapessi precisamente di che cosa stessi parlando, considererei tuttavia quelle parole una promessa vincolante.

«Ma non sono quel genere d’Uomo. O forse sono abbastanza saggio per sapere che vi sono pericoli dai quali un Uomo deve fuggire. Sedete in pace! E consolati, Samvise. Se ti par di avere inciampato, pensa che l’ha voluto il destino. Il tuo cuore è furbo quanto fedele, ed ha veduto meglio dei tuoi occhi. Per strano che possa sembrare, è stato un bene che tu abbia parlato: potrebbe aiutare il padrone che tanto ami. Se sarà in mio potere farlo, codesta dichiarazione lo salverà. Perciò consolati. Ma non nominare più quell’oggetto ad alta voce. Una volta è sufficiente».

* * *

Gli Hobbit tornarono ai loro sgabelli e si sedettero in silenzio. Gli Uomini ripresero a bere e a conversare, convinti che si trattasse di uno scherzo fra il loro capitano ed i piccoli ospiti, o di qualcosa di simile.

«Ebbene, Frodo, ora infine ci comprendiamo a vicenda», disse Faramir. «Tu che hai accettato il peso di codesto fardello con riluttanza, su preghiera altrui, tu hai tutta la mia pietà e la mia stima. E con stupore ammiro il tuo comportamento: tenerlo nascosto e segreto e non adoperarlo. Voi siete per me un nuovo popolo e un nuovo mondo. La tua gente è tutta come te? La terra in cui vivete deve certo essere un reame di pace e tranquillità, e i giardinieri devono godervi di un’alta reputazione».

«Non tutto funziona perfettamente», rispose Frodo, «ma certo i giardinieri sono assai stimati».

«Ma indubbiamente anche lì, anche nei vostri giardini, la gente conosce la fatica, come ogni altra cosa sotto il sole di questo mondo. E voi siete lontani da casa e stanchi di tanto camminare. Per questa sera, basta. Dormite ambedue… in pace, se ne siete capaci. Non temete! Non desidero vederlo, né toccarlo, né sapere altro su di esso (quel che già so è più che sufficiente), e non voglio che il pericolo mi tenda un agguato, rivelandomi alla prova più debole di Frodo figlio di Drogo. Andate ora a riposare… Ma prima ditemi, per favore, dove desiderate recarvi e cosa intendete fare. Io ora debbo sorvegliare, aspettare, riflettere. Il tempo passa. Domattina ognuno di noi dovrà riprendere velocemente la propria strada».

Frodo si era accorto di tremare, passato il primo attimo di terrore. Ora una grande stanchezza calò su di lui come una nube, ed egli non seppe celarla né resistere.

«Sto cercando un modo per entrare a Mordor», disse debolmente. «Stavo andando a Gorgoroth. Devo trovare la Montagna di Fuoco e gettare l’oggetto nell’abisso del Fato. Gandalf me l’ha detto. Non credo che ci arriverò mai».

Faramir lo fissò grave e stupefatto per un momento. Poi lo sostenne quando all’improvviso Frodo vacillò, e sollevandolo con dolcezza lo portò a letto, ove lo depose coprendolo con calde coperte. Frodo piombò subito in un sonno profondo.

Accanto a lui fu sistemato un letto per il suo servitore. Sam esitò un attimo e poi, inchinandosi profondamente, disse: «Buona notte, Capitano, mio signore. Avete colto l’occasione, signore». «Davvero?», Disse Faramir.

«Sì, signore, e avete mostrato le vostre virtù: le più alte».

Faramir sorrise. «Un servitore impertinente, Messer Samvise. Ma no: la lode dei meritevoli è la più preziosa delle ricompense. Eppure in tutto ciò non vi è nulla degno di lode. Non desideravo comportarmi diversamente da come mi sono comportato».

«Ebbene, signore», concluse Sam, «diceste che il mio padrone ha un non so che di elfico, e avevate perfettamente ragione. Ma ora vi dico che anche voi avete un non so che di… Gandalf, degli stregoni».

«Può darsi», disse Faramir. «Può darsi tu avverta da lontano l’aria di Nùmenor. Buona notte!».

CAPITOLO VI LO STAGNO PROIBITO

Frodo si destò e vide Faramir chino su di lui. Per un attimo lo colsero gli antichi timori e si mise a sedere, cercando d’indietreggiare.

«Non vi è nulla da temere», disse Faramir.

«È già mattino?», domandò Frodo sbadigliando.

«Non ancora, ma la notte sta per finire e la luna piena va scomparendo. Perché non vieni a vederla? Inoltre c’è un fatto sul quale vorrei chiederti un consiglio. Mi dispiace destarti dal sonno, ma vuoi venire con me?».

«Vengo», rispose Frodo alzandosi e rabbrividendo nel lasciare le calde pelli e coperte. Nella caverna senza fuoco sembrava facesse freddo. Il rumore dell’acqua giungeva assai forte, ora che il silenzio era generale. Si gettò il manto sulle spalle e seguì Faramir.

Sam, svegliato all’improvviso da qualche vigile istinto, vide il letto vuoto del padrone e balzò in piedi. Poi scorse due figure scure, Frodo e un Uomo, delinearsi nel vano dell’arco ora inondato da una pallida luce bianca. Si affrettò a seguirli, passando file d’Uomini addormentati su materassi lungo i muri. Dalla bocca della caverna vide che la Cortina era divenuta un abbagliante velo di seta, perle e argento filato: fondenti ghiaccioli di chiaro di luna. Ma non si fermò ad ammirare, e si voltò seguendo il padrone attraverso la stretta porta nella parete della grotta.

Percorsero prima un buio corridoio, quindi salirono molti gradini bagnati giungendo così a un piccolo pianerottolo scavato nella roccia e illuminato dal pallido cielo che faceva capolino sulle loro teste, in cima a un’alta apertura. Di lì partivano due rampe di scale: una sembrava condurre alla sommità del ripido argine del torrente, l’altra voltava a sinistra. Presero quest’ultima, che presto incominciò a salire a spirale come la scala di una torre.

Infine uscirono dal buio della pietra e si guardarono intorno. Erano sopra una grande roccia piatta senza ringhiera né parapetto. A destra, il torrente scrosciava verso est, cascando fragoroso da mille terrazze e precipitandosi giù per un ripido pendio, empiendo un pianeggiante canale d’un oscuro impeto d’acqua macchiato di spuma; poi, i flutti gorgoglianti quasi ai loro piedi piombavano dalla rupe nell’abisso alla loro sinistra. Un Uomo silenzioso in piedi sull’orlo della piattaforma guardava in basso, verso l’acqua.

Frodo si voltò a osservare il liscio collo delle onde inarcarsi e tuffarsi. Poi levò gli occhi e lasciò spaziare lo sguardo. Il mondo era immobile e freddo, come se l’alba fosse ormai vicina. Lungi ad ovest la luna piena si coricava, tonda e bianca. Una pallida foschia scintillava nell’ampia vallata, grande golfo di argentei fumi sotto ai quali scorrevano le fresche acque notturne dell’Anduin. Al di là giganteggiava una nera oscurità ove, remoti, aguzzi, freddi, bianchi come denti di spettri, scintillavano qua e là i picchi dell’Ered Nimrais, i Monti Bianchi del Reame di Gondor, incappucciati di nevi eterne.

Frodo rimase qualche tempo immobile sull’alta rupe, ed un brivido lo percorse mentre si domandava se in qualche parte di quell’immensità notturna i suoi compagni camminavano o dormivano, o giacevano morti e avvolti dalla nebbia. Perché avevano interrotto l’oblio del sonno per condurlo sin lì?

Sam, impaziente di ricevere risposta alla medesima domanda, non seppe frenarsi dal mormorare con voce udibile solo dal suo padrone (o perlomeno così credeva): «Indubbiamente un bel panorama, signor Frodo, ma gelido tanto per il cuore quanto per le ossa! Che cosa sta succedendo?».

Faramir udì e rispose. «La luna tramonta su Gondor. La bella Ithil, nell’allontanarsi dalla Terra di Mezzo, scivola sui candidi riccioli del vecchio Mindolluin. Uno spettacolo che vale un paio di brividi. Ma non è ciò che ti volevo mostrare… Quanto a te, Samvise, non volevo mostrarti nulla, e non fai che pagare il prezzo della tua vigilanza. Un sorso di vino rimedierà. Venite con me ora».

Si avvicinò alla sentinella silenziosa sulla scura rupe, seguito da Frodo. Sam non si mosse. Già si sentiva sufficientemente insicuro sull’alta piattaforma bagnata ove si trovava. Faramir e Frodo guardarono giù. Videro in fondo le bianche acque precipitarsi in una vasca spumeggiante, girare vorticose in un profondo bacino ovale fra le rocce cercando di raggiungere uno stretto passaggio dal quale uscivano fumanti e gorgoglianti, per poi raggiungere punti più calmi e piani. Il chiaro di luna scendeva ancora obliquo sino ai piedi della cascata, scintillando sulle onde increspate del bacino. D’un tratto Frodo si accorse di una piccola cosa scura vicino alla riva, che si tuffò proprio mentre l’osservava, scomparendo poco oltre il ribollire di schiuma delle rapide, fendendo le nere acque come una freccia o una pietra affilata.

Faramir si rivolse all’Uomo che gli stava accanto. «Che cosa credi che sia, Anborn? Uno scoiattolo o un martin pescatore? Vi sono martin pescatori neri nei nostri stagni del Bosco Atro?».

«Sarà qualunque cosa ma non un uccello», rispose Anborn. «Ha quattro membra e si tuffa come un Uomo; e dimostra anche parecchia bravura. Che sta facendo? Sta cercando forse una via dietro alla Cortina, una via che conduca al nostro nascondiglio? Siamo dunque stati infine scoperti? Ho qui il mio arco, ed ho piazzato altri arcieri, bravi quasi come me, su ambedue le rive. Per scoccare la freccia attendiamo solo i vostri ordini, Capitano».

«Tiriamo?», disse Faramir, voltandosi rapido verso Frodo.

Questi non rispose subito. Poi disse: «No! Vi prego di non farlo». Se ne avesse avuto il coraggio, Sam avrebbe detto: «Sì», più presto e più forte. Non vedeva quel che stavano guardando, ma dalle loro parole l’indovinava perfettamente.

«Sai dunque che cos’è quell’essere?», domandò Faramir. «Suvvia, ora che hai veduto, dimmi perché dovremmo risparmiarlo. Durante tutti i nostri discorsi mai una volta accennasti al vostro compagno bastardo, ed io lo lasciai perdere per il momento. Aspettavo che lo prendessero e lo conducessero innanzi a me: incaricai i miei più abili cacciatori di cercarlo, ma riuscì sempre a sfuggire; eccetto Anborn, che lo scorse ieri al crepuscolo, gli altri lo vedono ora per la prima volta. Ma ciò che ha fatto adesso è violazione assai più grave che non una semplice caccia al coniglio su per i colli: ha ardito venire a Henneth Annûn, e la sua vita ne è il prezzo. Mi meraviglio della creatura; misteriosa e furba com’è, se ne viene a guazzare nell’acqua proprio davanti alla nostra finestra! Crede forse che gli Uomini dormano tutta la notte senza montare la guardia? Che cosa sta facendo?».

«Vi sono, credo, due risposte», disse Frodo. «Innanzi tutto conosce male gli Uomini, e nonostante la sua furbizia è probabile che non sappia che qui vi è un loro nascondiglio. In secondo luogo, credo che sia attratto qui da un desiderio prepotente, più forte della sua prudenza».

«È attratto qui, dici?», ripeté sottovoce Faramir. «Conosce dunque il tuo fardello?».

«E come! Lo portò lui stesso per anni e anni».

«Lui lo portò?», disse Faramir col respiro mozzo dallo stupore. «Questa storia si fa sempre più intricata e piena d’enigmi. Allora sta inseguendo l’Oggetto?».

«Forse. È un tesoro, per lui. Ma non intendevo riferirmi ad esso».

«Allora che cosa diamine vuole?».

«Pesci», disse Frodo. «Guardate!».

Abbassarono lo sguardo sul cupo bacino. Una piccola testa nera comparve all’altra estremità, emergendo dall’ombra profonda delle rocce. Un rapido barlume argenteo, un moltiplicarsi di piccole onde increspate. Nuotò sino all’orlo, e con meravigliosa agilità la figura di un balzo s’arrampicò fuori dall’acqua sulla riva. Si sedette immediatamente, e si mise a rosicchiare qualcosa di piccolo e argentato che riluceva quando lo voltava. Gli ultimi raggi di luna cadevano dietro il muro di pietra all’estremità del bacino.

Faramir rise piano. «Pesci!», disse. «È una fame meno pericolosa. O forse no: i pesci della cascata di Henneth Annûn potrebbero costargli tutto ciò che ha da dare».

«È esattamente sotto la mira della mia freccia», disse Anborn. «Non volete che tiri, Capitano? La nostra legge decreta la morte per chi viene qui senza invito».

«Aspetta, Anborn», disse Faramir. «Questa è una faccenda più ardua di quanto non sembri. Che cos’hai da dire ora, Frodo? Perché dovremmo risparmiarlo?».

«È un essere disgraziato e affamato», disse Frodo, «e inconsapevole del proprio pericolo. Gandalf, il vostro Mithrandir, vi avrebbe anch’egli pregato di non ucciderlo, per questo e per altri motivi. Proibì agli Elfi di farlo. Non so esattamente perché, e ciò che suppongo non posso dirvelo apertamente quassù. Comunque, questa creatura è in qualche modo legata alla mia missione. Sino al momento in cui ci prendeste prigionieri, era la nostra guida».

«La vostra guida!», esclamò Faramir. «La faccenda si fa ancora più strana. Per te farei molte cose, Frodo, ma non ti posso concedere ciò: lasciare questo astuto vagabondo libero di andarsene quando gli pare, affinché più tardi vi ragiunga se gli aggrada, o affinché gli Orchi si impadroniscano di lui e gli tirino fuori tutto quel che sa sotto la minaccia della tortura. Dev’essere morto o prigioniero. Se non viene fatto al più presto prigioniero, bisognerà ucciderlo. Ma come si può afferrare quest’essere viscido se non con un dardo?».

«Lasciate che scenda silenziosamente da lui», disse Frodo. «Continuate pure a tendere l’arco, e uccidete almeno me, se fallisco; io non fuggirò».

«Allora va’ e fa’ presto!», disse Faramir. «Se conserva la vita, dovrà rimanerti servo fedele per il resto dei suoi giorni infelici. Conduci Frodo senza rumore sino al bacino, Anborn. Quel coso ha naso e orecchie. Da’ a me il tuo arco».

Anborn bofonchiò e fece strada giù per la scala a chiocciola sino al pianerottolo, risalendo poi l’altra scala che conduceva a una stretta apertura nascosta da fitti cespugli. DOPO essere uscito pian piano, Frodo si trovò in cima all’argine meridionale che sovrastava il bacino. Ormai faceva buio e le cascate erano grigio-pallide e riflettevano solo quel poco di chiarore lunare che perdurava in cielo a occidente. Non vide Gollum. Percorse un altro breve tratto seguito dal silenzioso Anborn.

«Andate!», bisbigliò questi all’orecchio di Frodo. «Attento al lato destro. Se cadete nel bacino vi può salvare soltanto il vostro amico pescatore. E non dimenticate che vi sono arcieri nelle vicinanze, anche se non li vedete».

Frodo avanzò carponi, servendosi delle mani come Gollum, per tastare il terreno e mantenere l’equilibrio. Le rocce erano quasi tutte lisce e piatte, ma molto sdrucciolevoli. Si fermò tendendo l’orecchio. Sulle prime non udì altro rumore che l’incessante scroscio della cascata alle sue spalle. Poi improvvisamente, poco più avanti, un sibilante mormorio.

«Pesci, bei pesssci. Faccia Bianca è scomparsa, tesoro mio, finalmente, sì, scomparsa. Ora possiamo mangiare pesce in pace. No, non in pace, mio tesoro. Perché Tesoro è perduto, sì, perduto. Sporchi Hobbit, cattivi Hobbit. Loro via ed io solo, gollum; e Tesoro via. Povero Sméagol, ora è tutto solo. No, tesoro. Cattivi Uomini lo prenderanno, ruberanno mio Tesoro. Ladri. Li odiamo. Pesci, bei pesssci. Ci fa forti. Fa gli occhi lucenti, le mani potenti. Sì, strangola, tesoro. Sì, strangolali tutti se capita l’occasione. Bei pesssci. Bei, bei pesssci!».

E continuava così, ininterrottamente come la cascata, frammisto a vaghi rumori di masticazione ed a gorgoglii. Frodo rabbrividì, ascoltando con pietà e disgusto. Fu colto dal desiderio di farlo smettere, di non dover mai più udire quella voce. Anborn non era lontano. Strisciando poteva tornare sui propri passi e dirgli di dar l’ordine agli arcieri di tirare. Mentre Gollum inconsapevolmente s’ingozzava, essi si potevano avvicinare, e sarebbe bastato un solo buon tiro per liberare per sempre Frodo da quella miserabile voce. Ma no, Gollum aveva ora dei diritti. Il servitore ha dei diritti nei confronti del padrone per il servizio prestato, anche se prestato sotto la spinta della paura. Sarebbero affondati nelle Paludi Morte, senza l’aiuto di Gollum. Inoltre Frodo aveva la precisa sensazione che Gandalf non avrebbe voluto.

«Sméagol!», sussurrò.

«Pesssci, bei pesssci», disse la voce.

«Sméagol», ripeté più forte. La voce s’interruppe.

«Sméagol, Padrone è venuto a cercarti. Padrone è qui. Vieni, Sméagol!». Non vi fu risposta, solo il sibilo di qualcuno che trattiene il respiro.

«Vieni, Sméagol!», disse Frodo. «Siamo in pericolo. Gli Uomini ti uccideranno se ti trovano qui. Vieni presto se vuoi scampare alla morte. Vieni dal Padrone!».

«No!», disse la voce. «Non buono Padrone. Lascia povero Sméagol e va con nuovi amici. Padrone può aspettare. Sméagol non ha finito».

«Non c’è tempo», disse Frodo. «Porta pesci con te. Vieni!».

«No! Devo finire pesci».

«Sméagol!», disse Frodo con disperazione. «Tesoro sarà arrabbiato. Io prenderò Tesoro e dirò: Fagli ingoiare le lische e fallo affogare. Mai più mangerai pesce. Vieni, Tesoro aspetta!».

Si udì un forte sibilo. D’un tratto nell’oscurità Gollum arrivò carponi, come un cane errante al comando «Cuccia!». Aveva un pesce per metà mangiato in bocca, e un altro in mano. Si avvicinò a Frodo, sfiorandone quasi il naso col proprio naso e fiutandolo. I suoi pallidi occhi brillavano. Poi si tolse il pesce di bocca e si rizzò su due gambe.

«Buon Padrone!», sussurrò. «Caro Hobbit che torna dal povero Sméagol. Buono Sméagol viene. Ora andiamo, andiamo presto, subito. Attraverso gli alberi, mentre le Facce sono scure. sì, andiamo!».

«Sì, fra poco andremo», disse Frodo. «Ma non subito. Io verrò con te come promesso. Prometto di nuovo. Ma non subito. Ancora non sei al sicuro. Io ti salverò, ma tu devi fidarti di me».

«Devo fidarmi di Padrone?», disse Gollum dubbioso. «perché? Perché non partire subito? Dov’è l’altro, hobbit iroso e maleducato? Dov’è?».

«Lassù», rispose Frodo mostrando la cascata. «Non parto senza di lui. Dobbiamo tornare da lui». Sentì una fitta al cuore. Il tutto era troppo simile a un imbroglio. Non temeva veramente che Faramir permettesse l’uccisione di Gollum, ma certo l’avrebbe preso prigioniero e legato, e il comportamento di Frodo sarebbe parso un imbroglio alla povera creatura. Probabilmente Frodo non sarebbe nemmeno mai riuscito a fargli capire o credere che gli aveva salvato la vita nell’unico modo possibile. Che altro avrebbe potuto fare per tener fede alle promesse nei confronti di ambedue le parti? «Vieni!», disse. «Altrimenti il Tesoro si arrabbierà. Ora torniamo su lungo il torrente. Va’ avanti, va’ avanti tu!».

Gollum avanzò strisciando sull’orlo per un breve tratto, annusando con fare sospettoso. Infine si fermò e levò il capo. «Qui c’è qualcosa!», disse. «Non un Hobbit». Improvvisamente si voltò. Una luce verde brillava nei suoi occhi sporgenti. «Padrone, Padrone!», sibilò. «Cattivo! Infido! Falso!». Sputò e allungò verso di lui le braccia dalle bianche dita ad artiglio.

In quell’istante la nera figura d’Anborn si eresse alle sue spalle piombandogli addosso. Una mano grande e forte lo prese alla nuca e lo immobilizzò. Gollum si voltò in un baleno, bagnato e viscido com’era, torcendosi come un’anguilla, mordendo e graffiando come un gatto. Ma altri due Uomini emersero dalle ombre.

«Fermo!», disse uno di essi. «Altrimenti ti riempiamo di spilli da sembrare un porcospino. Fermo!».

Gollum si afflosciò e si mise a piangere e a lamentarsi. Lo legarono, senza troppa dolcezza.

«Piano, piano!», disse Frodo. «Non credete che sia forte come voi! Non gli fate del male, se non è indispensabile. Starà più tranquillo se voi sarete gentili. Sméagol! Non ti faranno del male. Io ti accompagnerò, e non ti succederà nulla, a meno che non uccidano anche me. Abbi fiducia nel Padrone!».

Gollum si voltò e gli sputò in faccia. Gli Uomini lo sollevarono, gli infilarono un cappuccio sugli occhi, e lo portarono via.

Frodo li seguì, sentendosi assai infelice. Percorsero il corridoio celato dai cespugli, ridiscesero scale e passaggi e giunsero nella caverna. Due o tre fiaccole erano state accese. Gli Uomini si stavano destando. Sam era lì con loro e lanciò una strana occhiata al molle fagotto che portavano. «Preso?», disse a Frodo.

«Sì. Beh no, non l’ho preso io. È stato lui a venire da me, perché purtroppo sulle prime aveva fiducia in ciò che gli dicevo. Non volevo che lo legassero in questo modo, spero che tutto finisca nel migliore dei modi, ma odio questa faccenda».

«Anch’io», disse Sam. «E nulla andrà mai bene là dove ci sarà questo relitto».

Un Uomo si avvicinò e fece segno agli Hobbit, conducendoli alla nicchia in fondo alla caverna. Faramir era lì seduto, e la lampada sopra la sua testa era stata riaccesa; mostrò agli Hobbit i due sgabelli accanto a sé e poi disse: «Portate vino per gli ospiti, e il prigioniero al mio cospetto».

Ebbero il vino, ed Anborn arrivò con Gollum. Gli tolse il cappuccio dalla testa e lo poggiò sui due piedi, rimanendogli alle spalle per sostenerlo. Gollum sbatté gli occhi coprendone la malizia con le pesanti e pallide palpebre. Assai miserevole, gocciolante e viscido, puzzava di pesce (ne stringeva ancora uno in mano); le ciocche sparse gli pendevano come fetida malerba sulle sopracciglia ossute, il suo naso tremava.

«Lasciateci liberi! Liberi!», disse. «La corda ci fa male, sì, ci fa male, e non abbiamo fatto niente».

«Niente?», ripeté Faramir osservando la misera creatura con sguardo penetrante ma senza che il suo volto tradisse collera, pietà o meraviglia. «Niente? Non hai mai fatto niente che meriti di essere punito con dei solidi legacci o peggio ancora? Comunque, quella non è per fortuna una cosa che tocchi a me giudicare. Ma stanotte sei venuto qui ove ogni visita si paga con la morte. I pesci di quel bacino costano assai cari».

Gollum mollò il pesce che teneva in mano: «Non voglio pesce», disse.

«Il prezzo non è imposto sul pesce», disse Faramir. «Basta venire qui ed ammirare il bacino per meritare la morte. Ti ho risparmiato sinora su preghiera di Frodo, che sostiene di esserti, almeno lui, in qualche modo riconoscente. Ma devi soddisfare anche me. Come ti chiami? Da dove vieni? E dove stai andando? Quali sono i tuoi affari?».

«Siamo perduti, perduti», disse Gollum. «Niente nome, niente affari, niente Tesoro, nulla. Solo vuoto. Solo fame; sì, abbiamo fame. Pochi piccoli pesci, cattivi ossuti piccoli pesci per una povera creatura, e loro dicono morte. Oh come sono saggi! E giusti, tanto giusti!».

«Non molto saggi», disse Faramir. «Ma giusti forse sì, nella misura permessa dalla nostra poca saggezza. Slegalo, Frodo!». Faramir si tolse dalla cinta un piccolo coltello e lo tese a Frodo. Gollum fraintendendo il gesto strillò e cadde per terra.

«Suvvia, Sméagol!», disse Frodo. «Devi fidarti di me. Non ti abbandonerò. Rispondi sinceramente, se puoi. Ti farà del bene, non certo del male». Tagliò le corde che gli legavano polsi e caviglie e lo fece alzare in piedi.

«Vieni qui!», disse Faramir. «Guardami negli occhi. Conosci tu il nome di questo luogo? Sei già stato qui prima d’oggi?».

Pian piano Gollum levò lo sguardo, fissando con riluttanza gli occhi di Faramir. Ogni luce scomparve da quelli della misera creatura, che per un momento si persero, nudi e pallidi com’erano, nei limpidi occhi imperturbabili dell’Uomo di Gondor. Vi fu un immobile silenzio. Poi Gollum chinò il capo e si accasciò in terra, rannicchiato e tremebondo. «Non sappiamo e non vogliamo sapere», piagnucolò. «Mai venuti qui, mai più torneremo».

«Vi sono nella tua mente porte sprangate e finestre chiuse che danno su camere cupe e buie», disse Faramir. «Ma ritengo che in questo caso tu stia dicendo la verità. È un punto a tuo favore. Su che cosa vuoi giurare di non ritornare mai più qui, e di non mostrarne mai la via ad essere vivente, né a segni né a parole?».

«Padrone sa», rispose Gollum lanciando a Frodo un’occhiata obliqua. «Sì, lui sa. Noi prometteremo al Padrone, se lui ci salva. Giureremo su di Esso, sì». Strisciò ai piedi di Frodo. «Salvateci, caro Padrone!», gemette. «Sméagol promette sul Tesoro, promette sinceramente. Mai più tornare, mai parlare, no, mai! No, tesoro, no!».

«Sei soddisfatto?», disse Faramir.

«Sì», disse Frodo. «In ogni caso dovete scegliere fra accettare questa promessa e applicare le vostre leggi. Non otterrete altro da lui. Ma io promisi che venendo con me non sarebbe stato maltrattato. E non desidero essere considerato sleale».

* * *

Faramir rimase per un momento assorto in pensieri. «Molto bene», disse infine. «Ti cedo al tuo padrone Frodo figlio di Drogo. Che sia lui a dichiarare la tua sorte!».

«Ma, Sire Faramir», disse Frodo inchinandosi, «voi non avete ancora espresso le vostre intenzioni riguardo al detto Frodo, e finché non saranno note, egli non potrà formulare programmi per se stesso e per i suoi compagni. Il vostro giudizio venne rinviato al mattino, ed esso è ormai assai vicino».

«Allora dichiarerò la mia sentenza», disse Faramir. «Te, Frodo, in nome dei poteri a me concessi da più alta autorità, io dichiaro libero di viaggiare nel reame di Gondor sino all’estremo dei suoi antichi confini; con l’eccezione però che né tu, né altri che ti accompagni, avete diritto di ritornare in questo luogo senza essere preventivamente stati invitati. Questa sentenza sarà valida per un anno e un giorno, quindi scadrà, a meno che tu non venga prima del termine a Minas Tirith, e ti presenti al Sire e Sovrintendente della Città. In tal caso lo pregherei di confermare la mia sentenza, prolungandola a vita. Nel frattempo, chiunque tu prenda sotto la tua protezione sarà sotto la mia protezione, difeso dallo scudo di Gondor. Hai trovato risposta alle tue domande?».

Frodo fece un profondo inchino. «L’ho trovata», disse, «e mi metto a vostra completa disposizione, se ciò può avere alcun valore per un Uomo così nobile e meritevole».

«Ha un grande valore», disse Faramir. «Ed ora, intendi Prendere codesta creatura, questo Sméagol, sotto la tua protezione?».

«Prendo Sméagol sotto la mia protezione», rispose Frodo. Sam trasse un sospiro assai udibile, e non per via dei complimenti cerimoniosi che, come ogni buon Hobbit, approvava interamente. Anzi, nella Contea una faccenda simile avrebbe richiesto molti più inchini e parole.

«Allora tu sappi», disse Faramir rivolgendosi a Gollum, «che sul tuo capo pende la condanna a morte; ma finché starai al fianco di Frodo sarai al sicuro, per quel che ci riguarda. Se però un Uomo di Gondor ti incontrasse senza di lui, la condanna sarà eseguita. E possa la morte coglierti rapidamente, dentro o fuori Gondor, se non lo servi bene. Ora rispondimi: dove intendevi recarti? Eri tu la sua guida, dice il tuo padrone. Dove lo stavi conducendo?». Gollum non rispose.

«Non voglio che ciò mi sia nascosto», disse Faramir. «Rispondimi, altrimenti muterò la mia sentenza!». E Gollum non rispose.

«Parlerò io per lui», disse Frodo. «Mi condusse, come avevo chiesto, al Cancello Nero: ma non vi era speranza d’accesso».

«Nessun cancello aperto conduce alla Terra Innominata», disse Faramir.

«Vedendo ciò, percorremmo la via che conduce a sud», proseguì Frodo; «poiché egli ci disse che esiste, o potrebbe esistere un sentiero vicino a Minas Ithil».

«Minas Morgul», disse Faramir.

«Non so con precisione», rispose Frodo; «ma credo che il sentiero s’arrampichi sulle montagne dal lato settentrionale della valle ove si erge l’antica città. S’inerpica sino a un alto valico per poi ridiscendere verso… ciò che si trova dall’altra parte».

«Conosci il nome di quell’alto valico?», domandò Faramir.

«No», disse Frodo.

«Si chiama Cirith Ungol». Gollum sibilò con violenza e si mise a borbottare sottovoce. «Non è forse questo il nome?», disse Faramir volgendosi verso di lui.

«No!», disse Gollum, e Poi strillò, come se fosse stato pugnalato. «Sì, Sì, abbiamo sentito una volta quel nome. Ma che cosa c’importa il nome? Padrone dice che deve entrare. Perciò dobbiamo tentare una via. Non c’è altra via da tentare, no».

«Non c’è altra via?», disse Faramir. «E come lo sai? Chi ha mai esplorato tutti i confini dell’oscuro reame?». Fissò a lungo e pensieroso Gollum. Infine parlò nuovamente. «Porta via codesta creatura, Anborn. Trattala con gentilezza, ma sorvegliala. E tu, Sméagol, guardati bene dal tentare di tuffarti nelle cascate. Le rocce hanno denti così aguzzi che ti ucciderebbero anzi tempo. Lasciaci ora, e portati via il tuo pesce!».

Anborn uscì e Gollum lo seguì strisciando. La tenda della nicchia fu chiusa.

* * *

«Frodo, credo che ti stia comportando con poca saggezza», disse Faramir. «Non ti consiglio di andare con codesta creatura. È malvagia».

«No, non del tutto malvagia», ribatté Frodo.

«Non del tutto forse», disse Faramir, «ma la malizia rode il suo cuore come un cancro, e il male in lui cresce. Gollum non condurrà a buon esito la tua impresa. Se tu accetti di lasciarlo, io gli darò un salvacondotto e una guida e lo farò accompagnare ovunque egli desideri, lungo le frontiere di Gondor».

«Non accetterebbe mai», disse Frodo. «Mi seguirebbe, come ha fatto per tanto tempo. E più volte gli ho promesso di prenderlo sotto la mia protezione, e di andare ove egli mi conduceva. Non vorrete che io rompa la mia promessa?».

«No», rispose Faramir. «Ma il mio cuore lo desidererebbe. Sembra meno grave consigliare a un altro di infrangere un patto, che non farlo tu stesso, specialmente se si tratta di un amico involontariamente vincolato a un giuramento a lui nefasto. Ma no… Se Gollum vuole venire con te, ora devi sopportarlo. Ma non credo che tu sia tenuto ad andare a Cirith Ungol, di cui non ti ha detto tutto quel che sa. L’ho letto chiaramente nel suo cervello. Ascoltami, non andare a Cirith Ungol!».

«Dove volete dunque che vada?», disse Frodo. «Volete che torni al Cancello Nero e mi arrenda alle sentinelle? Che cosa sapete riguardo a quel valico che ne rende il nome così spaventoso?».

«Nulla di certo», disse Faramir. «Noi di Gondor non passiamo mai di questi tempi ad est della Via, e nessuno di noi giovani vi è mai passato, né ha messo piede sulle Montagne dell’Ombra. Di esse sappiamo soltanto ciò che narrano gli antichi racconti e le leggende di giorni remoti. Ma nei valichi sopra Minas Morgul vive qualche oscuro terrore. Quando si nomina Cirith Ungol, gli anziani ed i sapienti impallidiscono e tacciono.

«La valle di Minas Morgul fu invasa dal male molto tempo addietro, e costituiva una minaccia paurosa anche quando il Nemico sopraffatto dimorava ancora lontano e la maggior parte dell’Ithilien era nelle nostre mani. Come sai, Minas Morgul era un tempo una splendida e fiera fortezza, Minas Ithil, gemella della nostra città. Ma di essa s’impadronirono esseri malvagi dominati in un primo tempo dal Nemico, che vagavano senza casa né padrone dopo la sua caduta. Dicono che i loro capi fossero Uomini di Nùmenor piombati nella cupa malizia; a loro il Nemico aveva donato Anelli del Potere, divorandoli in tal modo: erano ormai spettri viventi, terribili e malefici. Quando Egli se ne andò, presero Minas Ithil e vi dimorarono, empiendola, insieme con la valle che la circondava, di putredine e rifiuti: sembrava vuota e non lo era, perché un informe terrore viveva fra quelle mura in rovina. Vi erano Nove Signori, i quali dopo il ritorno del loro Padrone, che aiutarono e prepararono di nascosto, tornarono ad essere potenti. E così i Nove Cavalieri eruppero dai cancelli del terrore, e nessuno poté resistere. Non avvicinarti alla loro fortezza. Ti scopriranno! È un posto ove l’insonne malvagità veglia con occhi senza palpebre. Non prendere quella via!».

«Ma quale altra direzione potreste suggerirmi?», disse Frodo. «Non sapreste voi stesso, mi avete detto, guidarmi alle montagne né indicarmi una strada per valicarle. Ma valicarle io debbo, poiché ho solennemente promesso innanzi al Consiglio di trovare una via o morire nell’impresa. E se tornassi sui miei passi, rifiutando l’amara fine del mio viaggio, chi dunque mi accetterebbe fra gli Uomini o gli Elfi? Desiderereste che venissi a Gondor con questo Oggetto, l’Oggetto che fece impazzire vostro fratello dalla bramosia? E quale effetto avrebbe su Minas Tirith? Volete che vi siano due Minas Morgul, che si guardino sorridendo in mezzo a una terra morta e piena di marciume?».

«Non lo vorrei», disse Faramir.

«Allora che cosa vorreste che facessi?».

«Non lo so. So solo che non voglio vedervi marciare incontro alla morte o alla tortura. E non credo che Mithrandir avrebbe accettato la tua scelta».

«Ma Poiché lui non c’è, sono costretto a percorrere i sentieri che trovo, tanto più che non posso perdere tempo in lunghe ricerche».

«È un crudele destino e una missione senza speranza, Frodo figlio di Drogo», disse Faramir. «Ricorda almeno il mio avvertimento: attento alla tua guida, attento a questo Sméagol! Ha già ucciso in vita sua. Lo leggo in lui». Sospirò.

«Ebbene, ecco che c’incontriamo e ci lasciamo, Frodo figlio di Drogo. Inutile con te mitigare le parole: non spero di rivederti un giorno sotto questo sole. Ma possa la mia benedizione accompagnare te e tutto il tuo popolo. Riposa un po’ adesso, in attesa che ti preparino la colazione.

«Mi farebbe piacere apprendere in che modo questo viscido Sméagol venne in possesso dell’Oggetto, e come lo perdette, ma non ti voglio importunare adesso. Se mai dovessi, del tutto insperatamente, ritornare nelle terre dei vivi, ci metteremo a sedere accanto a un muro assolato, raccontando le avventure vissute, ridendo delle antiche Pene: allora mi spiegherai ogni cosa. Sino a quel giorno, O a qualche altro giorno irraggiungibile persino alla vista delle Pietre Veggenti di Nùmenor, io ti dico addio!».

Si alzò e fece a Frodo un profondo inchino, e tirando la tenda tornò nella caverna.

CAPITOLO VII VIAGGIO SINO AL CROCEVIA

Frodo e Sam tornarono ai rispettivi letti e vi si sdraiarono, riposando in silenzio mentre gli Uomini si destavano ed incominciavano il lavoro della giornata. Dopo qualche tempo fu portata loro dell’acqua; quindi vennero condotti a un tavolo apparecchiato per tre. Faramir ruppe con loro il digiuno. Non dormiva da prima della battaglia del giorno precedente, eppure non sembrava stanco.

Quando ebbero finito si alzarono da tavola. «Possa la fame non inquietarvi mai lungo la via», disse Faramir. «Avete ancora qualche provvista, tuttavia ho fatto mettere nei vostri fagotti una piccola scorta di cibo adatto ai viandanti. Non sarà l’acqua a mancarvi nell’Ithilien, ma mi raccomando di non bere dai torrenti sgorgati da Imlad Morgul, la Valle della Morte Vivente. Un’altra cosa ho da dirvi. Le mie vedette e le sentinelle sono tutte rientrate, anche quelle spintesi sino al Morannon. Ed hanno tutte notato un fatto assai strano: le terre sono vuote. Nulla sulla strada, nessun rumore di passi, di corno, di freccia. Un silenzio ansioso regna sulla Terra Innominata. Ignoro che cosa possa presagire. Ma le cose stanno volgendo rapidamente verso una grande conclusione. La tempesta si avvicina. Affrettatevi finché potete! Se siete pronti, partiamo. Fra poco il Sole emergerà dalle ombre».

Degli Uomini portarono agli Hobbit i loro fagotti (un po’ più pesanti di prima), ed anche due bastoni di legno lucido, dalle rifiniture in ferro e dai pomelli intagliati ed attraversati da corregge di cuoio intrecciate.

«Non ho doni adatti per voi», disse Faramir; «ma prendete questi bordoni; potrebbero essere utili a coloro che cammineranno e s’inerpicheranno in zone selvagge. Gli Uomini dei Monti Bianchi li adoperano, ma questi sono stati accorciati per voi e ferrati a nuovo. Il loro legno proviene dallo splendido albero lebethron, preferito dai falegnami di Gondor, e possiede la virtù di trovare e ritornare. Possa codesta virtù non svanire del tutto nell’Ombra in cui vi apprestate ad entrare!».

Gli Hobbit s’inchinarono profondamente. «Mio grazioso Sire», disse Frodo, «Elrond Mezzognomo mi disse che avrei incontrato sulla via amici ignoti e inattesi. Certo, mai mi sarei atteso manifestazioni d’amicizia pari alle vostre. Avervi incontrato trasforma il male in un gran bene».

* * *

Si apprestarono quindi a partire. Gollum fu tirato fuori da qualche angolo o nascondiglio, e sembrava più contento di prima, benché non si muovesse dal fianco di Frodo ed evitasse lo sguardo di Faramir.

«La tua guida deve essere bendata», disse Faramir, «ma tu e il tuo servitore Samvise ne siete esonerati, se vi fa piacere».

Gollum strillò, contorcendosi e afferrandosi a Frodo, quando gli si avvicinarono per bendargli gli occhi; allora Frodo disse: «Bendateci tutti e tre, incominciando da me, così forse capirà che non vogliamo fargli del male». Il suo consiglio fu seguito, ed essi vennero condotti fuori dalla caverna di Henneth Annûn. Dopo aver percorso corridoi e scale sentirono intorno a sé la fresca aria del mattino, dolce e fragrante. Proseguirono ciechi per un altro breve tratto di strada, prima in salita, poi in lieve discesa. Infine la voce di Faramir ordinò che venissero tolte loro le bende.

Si trovavano di nuovo sotto le fronde dei boschi. Non si udiva il rumore della cascata, perché ormai un lungo pendio li separava dalla gola ove scorreva il torrente. A occidente attraverso gli alberi scorgevano della luce, come se il mondo in quel punto finisse bruscamente e da lì in poi incominciasse il cielo.

«Questo è il luogo del nostro ultimo addio», disse Faramir. «Seguite il mio consiglio, e non puntate ancora verso est. Continuate dritti, e potrete percorrere molte miglia al coperto nei boschi. Sul lato occidentale del vostro sentiero il terreno scende verso le grandi vallate, a volte ripido e scosceso, a volte in lunghi pendii. Tenetevi vicini al bordo del declivio e all’orlo del bosco. Potrete, credo, percorrere il primo tratto del viaggio anche di giorno: le terre sono immerse nel sogno di una pace fittizia, e per un attimo il male si è ritirato. Fate buon viaggio, finché sarà possibile!».

Quindi abbracciò gli Hobbit secondo l’usanza del suo popolo, chinandosi e ponendo le mani sulle loro spalle, e dando loro un bacio in fronte. «Che la buona volontà di tutti gli Uomini dabbene vi accompagni!», disse.

Essi s’inchinarono sino a terra. Poi lui si voltò, e senza guardarsi indietro li lasciò, recandosi dalle due guardie che lo attendevano poco distanti. Gli Hobbit si meravigliarono di notare con quanta rapidità si muovevano quegli Uomini dalle vesti verdi, scomparendo quasi in un batter d’occhio. La foresta sembrava vuota e tetra ora che Faramir se n’era andato, come un sogno che svanisce.

* * *

Frodo sospirò e si volse verso sud. Quasi a sottolineare il suo disprezzo per tanti gesti cavallereschi, Gollum frugava nel terriccio ai piedi d’un albero. «Già di nuovo fame?», pensò Sam. «Ebbene, allora, al lavoro!».

«Se ne sono andati, finalmente?», disse Gollum. «Uomini cattivi e malvagi! Il collo di Sméagol fa ancora male, sì che fa male! Andiamo!».

«Sì, andiamo», disse Frodo. «Ma se non sai fare altro che parlar male di chi si è mostrato con te misericordioso, allora sta’ zitto!».

«Buon Padrone!», disse Gollum. «Sméagol stava soltanto scherzando. Perdona sempre, lui, sì sì, perdona persino i piccoli inganni del buon Padrone. Oh sì, buon Padrone, buono Sméagol!».

Frodo e Sam non risposero. Si caricarono sulle spalle i fagotti, e prendendo ognuno il proprio bastone s’inoltrarono nel fitto dei boschi dell’Ithilien.

Riposarono due volte durante il giorno, consumando parte del cibo procurato loro da Faramir: frutta secca e carne salata sufficienti per parecchi giorni, e la giusta quantità di pane, quanto bastava perché potessero mangiarlo prima che divenisse duro. Gollum non toccò cibo.

Il sole s’innalzò e solcò invisibile il cielo, e cominciò a calare, e la luce che penetrava da ovest fra gli alberi divenne dorata; essi continuavano a camminare nella fresca ombra verde, e tutto intorno taceva. Sembrava che tutti gli uccelli fossero volati via o improvvisamente ammutoliti.

L’oscurità giunse presto nella foresta immobile, e prima del calar della notte si fermarono, sfiniti, poiché avevano percorso sette leghe e più da Henneth Annûn. Frodo, sdraiato sul terriccio ai piedi di un antico albero, dormì sino al diradarsi delle tenebre. Sam accanto a lui era più inquieto: si destò a più riprese, ma non vide mai traccia di Gollum, scomparso non appena gli altri si erano coricati. Forse aveva dormito da solo in qualche fosso nelle vicinanze, o forse aveva vagabondato irrequieto nella notte; comunque non lo disse. Tornò ai primi albori e destò i suoi compagni.

«Devono alzarsi, sì, devono assolutamente!», disse. «Molta strada da fare ancora, a sud e ad est. Hobbit devono far presto!».

* * *

Quel giorno trascorse in modo assai simile al precedente, eccezion fatta per il silenzio che pareva più profondo; l’aria divenne pesante e quasi soffocante sotto gli alberi. Era come se si stesse preparando una tempesta. Gollum s’arrestava sovente, fiutando l’aria e mormorando poi sottovoce, istigandoli ad affrettare il passo.

La terza tappa della loro giornata di marcia si stava avvicinando, ed il pomeriggio s’oscurava, quando la foresta si aprì e gli alberi divennero più grossi e dispersi. Imponenti lecci dalla mole massiccia si ergevano scuri e solenni in ampie radure puntellate qua e là da canuti frassini e da querce giganti che incominciavano appena a gettare i primi germogli verdi e marroni. Tutt’intorno, ampie distese d’erba verde, cosparse di anemoni e celidinie bianche e azzurre, ora richiuse per la notte; vaste zone ove s’affollavano le foglie dei giacinti, i cui esili steli già spuntavano dal terriccio. Non vi era creatura vivente, né animale né uccello, eppure in quelle radure Gollum veniva colto dal timore e raccomandava loro di avanzare con prudenza, saltando da una lunga ombra all’altra.

La luce stava rapidamente svanendo quando giunsero alla fine della foresta. Si sedettero sotto una vecchia quercia nodosa che spingeva le sue radici contorte come serpenti giù per un ripido pendio dirupato. Una profonda valle caliginosa giaceva innanzi a loro. All’altra estremità riapparivano i boschi, blu e grigi nella cupa sera, e si stendevano a sud. Sulla destra ardevano le Montagne di Gondor, remote a occidente, in un cielo macchiato di fuoco. A sinistra tutto era oscurità: ivi si ergevano le mura di Mordor. E da quella oscurità emergeva la lunga valle che scendeva scoscesa e sempre più ampia verso l’Anduin. Nel fondo scorreva un impetuoso torrente: Frodo ne udiva la voce pietrosa innalzarsi in mezzo al silenzio; una strada sinuosa fiancheggiava la valle come un pallido nastro, immergendosi in grigie e fredde nebbie che nessun raggio di sole crepuscolare sfiorava. A Frodo parve di distinguere, lontani e come galleggianti su di un mare d’ombra, i pinnacoli rotti e le alte cime di vetuste torri tetre e desolate.

Si rivolse a Gollum. «Sai dove siamo?», domandò.

«Sì, Padrone. Posti pericolosi. Questa è la strada che viene dalla Torre della Luna, Padrone, e va giù alla città distrutta sulle rive del Fiume. La città distrutta, sì, posto molto cattivo, pieno di nemici. Non avremmo dovuto seguire consiglio degli Uomini. Hobbit ora sono molto fuori strada. Devono andare ad est adesso, lassù». Agitò il braccio scheletrico in direzione dille montagne immense nelle ombre. «E non possiamo prendere questa strada. Oh no! Gente crudele viene dalla Torre lungo questa strada».

Frodo percorse con lo sguardo la strada. In ogni caso ora nulla vi si muoveva. Sembrava sola e abbandonata, diretta a fredde rovine avvolte nella nebbia. Ma nell’aria si sentiva davvero un non so che di malvagio, come se effettivamente cose invisibili e maligne vi camminassero su e giù. Frodo rabbrividì riguardando i lontani pinnacoli ormai quasi confusi nelle tenebre; il rumore dell’acqua gli parve d’un tratto freddo e crudele: la voce di Morgulduin, l’inquinato torrente che scorreva dalla Valle degli Spettri.

«Che dobbiamo fare?», disse. «Abbiamo percorso molta strada. Che ne diresti di cercare un posto nei boschi alle nostre spalle, ove poterci coricare e nascondere?».

«Inutile nascondersi al buio», disse Gollum. «È di giorno che Hobbit devono nascondersi ora, sì, di giorno».

«Oh, suvvia!», disse Sam. «Dobbiamo riposarci un po’, anche se poi ci rialziamo a notte fonda. Avremo ancora ore intere di buio innanzi a noi, e tu ci potrai guidare per un lungo tratto, se conosci la via».

Gollum acconsentì riluttante e tornò verso gli alberi, procedendo per un certo tempo lungo i margini del bosco verso est. Non voleva dormire per terra, così vicino alla strada infida, e dopo qualche discussione si arrampicarono tutti su di un canuto leccio i cui fitti rami sorgevano tutti insieme dal tronco e costituivano un buon nascondiglio ed un rifugio abbastanza confortevole. La notte giunse e sotto il baldacchino dell’albero si fece il buio completo. Frodo e Sam bevvero un sorso d’acqua e mangiarono pane e frutta secca, ma Gollum si rannicchiò seduta stante e si addormentò. Gli Hobbit non chiusero occhio.

Doveva essere da poco passata la mezzanotte quando Gollum si svegliò. D’un tratto si accorsero che i suoi pallidi occhi dalle palpebre aperte rilucevano verso di loro. Gollum ascoltava ed annusava, il che evidentemente, come avevano notato in precedenza, doveva essere il suo metodo abituale per scoprire di notte l’ora.

«Siamo riposati? Abbiamo fatto un bel sonno?», disse. «Andiamo!».

«Non lo siamo e non l’abbiamo fatto», ruggì Sam. «Ma se dobbiamo andare, andiamo!».

Gollum si lasciò cadere sulle quattro zampe in terra ai piedi dell’albero, mentre gli Hobbit lo seguivano più lentamente.

Non appena giunti al suolo ripresero il cammino, guidati da Gollum verso est, su per i bui declivi. Vedevano ben poco, e la notte era adesso talmente buia che difficilmente si accorgevano dei tronchi d’albero prima di sbattervi contro. Il terreno diveniva via via più accidentato, rendendo la marcia assai ardua, ma Gollum non sembrava per nulla in difficoltà. Li conduceva attraverso boschetti e cespugli di rovi, a volte lungo l’orlo di una profonda gola o di un tetro pozzo, a volte in fondo a fossi neri ed irti di arbusti e poi di nuovo fuori; se mai percorrevano un breve tratto in discesa, il tratto seguente s’inerpicava ogni volta più ripido. Stavano gradualmente salendo. Alla prima sosta si voltarono a guardare, e scorsero vagamente le fronde della foresta attraversata, che si stendeva come una vasta e densa ombra, una notte più scura sotto lo scuro cielo vuoto. Qualcosa di nero e d’immenso sembrava emergere lentamente da est, divorando tutte le pallide ed indistinte stelle. La luna scendendo in cielo sfuggì alla nuvola che l’inseguiva, ma uno strano bagliore giallognolo la circondava.

Infine Gollum si volse verso gli Hobbit. «Fra poco giorno», disse. «Hobbit devono fare presto. Imprudente stare allo scoperto in questi posti. Presto!».

Affrettò il passo, ed essi lo seguirono stancamente. Tosto cominciarono a risalire una gibbosità del terreno. Era in gran parte coperta da una rigogliosa vegetazione di ginestre e mirtilli e basse spine coriacee, nonostante vi fosse qua e là una radura, traccia di fuochi recenti. I cespugli di ginestre si fecero più frequenti man mano che si avvicinavano alla cima; erano assai canuti e grossi, macilenti e nodosi in basso, ma fitti di rami in alto, e già qualche bocciolo giallo scintillava nelle tenebre emanando un vago e dolce profumo. Gli arbusti erano talmente alti che gli Hobbit potevano camminare sotto di essi senza curvarsi, passando fra lunghe navate asciutte e su profondi tappeti di terriccio spinoso.

Sull’ampia cima della collina si arrestarono, strisciando in cerca di un nascondiglio sotto un intricato nodo di pruni. I rami contorti toccavano terra e ad essi si avvinghiava una selva arrampicante di rovi secchi. Oltrepassati questi si accedeva a un vano dal soffitto di rami morti fra i quali s’intravedevano qua e là i primi germogli primaverili. Giacquero li a lungo, troppo stanchi ancora per mangiare; sbirciando dai buchi della tana attesero che il giorno si levasse lento.

Ma il giorno non si levò; regnava tutt’intorno un morto crepuscolo marrone. Ad est un bagliore rosso appariva sotto le nubi basse: non si trattava del rosso dell’alba. Al di là delle irte campagne i monti dell’Ephel Dùath li guardavano minacciosi, neri e deformi là dove la notte era ancora fitta e non accennava a diradarsi, fieri e duri ove le vette aguzze spiccavano contro il bagliore incandescente. Alla destra del loro nascondiglio una sporgenza dei monti, scura e nera fra le ombre, era protesa verso ovest.

«Da che parte andiamo?», domandò Frodo. «È quella lì l’apertura della… della Valle di Morgul, laggiù oltre quella nera massa?».

«Dobbiamo proprio pensarci adesso?», disse Sam. «Ormai certo passeremo qui il giorno, se giorno è!».

«Forse no, forse no», disse Gollum. «Ma dobbiamo ripartire presto, andare al Crocevia. Sì, al Crocevia. È quella strada lì, sì, Padrone».

* * *

Il bagliore rosso su Mordor scomparve. La luce crepuscolare s’infittì man mano che grandi vapori s’innalzarono ad est e strisciarono sulle loro teste. Frodo e Sam mangiarono un boccone e poi si coricarono, ma Gollum non aveva pace. Non volle assaggiare il loro cibo, accettò soltanto un po’ d’acqua, prima di mettersi a strisciare sotto i cespugli, annusando e mormorando. D’un tratto scomparve.

«A caccia, suppongo», disse Sam sbadigliando. Toccava a lui dormire per primo, e fu presto immerso nei sogni. Gli parve di essere tornato a Casa Baggins e di star cercando qualcosa nel giardino; ma sulle spalle aveva un pesante fagotto che lo costringeva a stare curvo. Ogni cosa sembrava stranamente bagnata e rancida, e pruni e rovi invadevano le aiuole vicino alla siepe in fondo al parco.

«Un bel lavoretto per me, vedo, vedo; ma sono così stanco!», non faceva che ripetere. Infine si ricordò quel che cercava. «La mia pipa!», disse, e con ciò si svegliò.

«Stupido!», si disse, aprendo gli occhi e domandandosi perché era sdraiato sotto una siepe. «È nel tuo fagotto!». Poi si rese conto innanzi tutto che la pipa era, sì, nel suo fagotto, ma che non c’erano foglie, ed in secondo luogo che Casa Baggins distava centinaia di miglia. Si mise a sedere. Sembrava che facesse quasi buio. Perché il suo padrone l’aveva lasciato dormire più di quanto non gli toccasse, quasi sino a sera?

«Signor Frodo, non avete dormito?», disse. «Che ore sono? Sembra che si stia facendo tardi!».

«No, al contrario», disse Frodo. «Ma il giorno invece di diventare più chiaro si sta facendo sempre più buio. Più o meno, direi che non è ancora mezzogiorno, e che non hai dormito più di tre ore».

«Chissà che cosa sta accadendo!», disse Sam. «Minaccia forse una tempesta? In tal caso sarebbe certo la peggiore che abbia mai vista, e ci farebbe desiderare di essere profondamente seppelliti in un fosso, anziché soltanto riparati da una siepe». Tese l’orecchio. «Che cos’è? Tuono o tamburi, o che altro?».

«Non lo so», rispose Frodo. «È da un bel po’ di tempo ormai che lo sento. A volte sembra che la terra tremi, a volte pare che l’aria soffocante ti martelli alle orecchie».

Sam si guardò intorno. «Dov’è Gollum? Non è ancora tornato?».

«No», rispose Frodo. «Di lui non v’è stata traccia né rumore». «Non riesco a tollerarlo», disse Sam. «Vi dirò, non ho mai portato in viaggio nulla la cui perdita mi sarebbe dispiaciuta meno della scomparsa di Gollum. Ma dopo tutte queste miglia percorse sarebbe proprio degno di lui andarsi a perdere adesso che abbiamo più bisogno del suo aiuto…, ammesso che ci sarà mai d’aiuto, e su ciò ho i miei seri dubbi».

«Dimentichi le Paludi Morte», disse Frodo. «Spero che non gli sia successo nulla».

«E spero che non stia combinando guai. E soprattutto spero che non cada nelle mani di qualcun altro, perché in tal caso avremmo presto di che preoccuparci».

In quel momento si udì nuovamente, più forte e cavernoso, un rumore di rombo e rullio. Il terreno parve tremare sotto i loro piedi. «Credo che vi sia in ogni caso di che preoccuparsi», disse Frodo. «Temo che il nostro viaggio si stia per concludere».

«Può darsi», disse Sam; «ma finché c’è vita c’è speranza, soleva dire il mio Gaffiere; e necessità di vettovaglie, di solito aggiungeva. Mangiate un boccone, signor Frodo, e poi fatevi una bella dormita».

* * *

Quel che Sam considerò doversi chiamare pomeriggio, volgeva al termine. Sbirciando dalla tana vedeva solo un mondo grigio e senza ombre che andava man mano immergendosi in deformi ed incolori tenebre. L’aria era soffocante ma non calda. Frodo dormiva irrequieto, girandosi e rigirandosi e talvolta mormorando qualcosa. Per due volte Sam credette di udire qualcuno che gli sussurrava il nome di Gandalf. Le ore sembravano trascinarsi interminabili. D’un tratto Sam sentì un sibilo alle proprie spalle, e vide Gollum carponi che li fissava con occhi luccicanti.

«Svegli, svegli! Svegliatevi, dormiglioni!». sussurrò. «Sveglia! Non c’è tempo da perdere. Dobbiamo andare, sì, dobbiamo andare subito. Non c’è tempo da perdere!».

Sam lo osservò sospettoso: sembrava impaurito o eccitato. «Andare adesso? Cosa stai tramando? Non è ancora ora. Non può essere nemmeno l’ora della merenda, o comunque non lo è nei posti decenti dove esiste la merenda».

«Stupido!», sibilò Gollum. «Non siamo in posti decenti. Il tempo scappa, il tempo fugge, sì. Non c’è tempo da perdere. Dobbiamo andare. Sveglia, Padrone, sveglia!». Diede un graffio a Frodo il quale, svegliato all’improvviso, balzò a sedere afferrandolo per un braccio. Gollum si svincolò violentemente e indietreggiò.

«Non devono essere stupidi gli Hobbit», sibilò. «Dobbiamo andare, non c’è tempo da perdere!». E nient’altro riuscirono a tirargli fuori. Si rifiutò di dire dov’era stato e per quale motivo impellente aveva tanta fretta. Sam covava profondi sospetti e lo dava ad intendere; al contrario Frodo non tradiva minimamente quel che aveva in cuore. Sospirò, riprese il fagotto e si apprestò a inoltrarsi nell’oscurità sempre più fitta.

Furtivamente Gollum li condusse giù dalla collina, tenendosi quanto più possibile nascosto, e correndo quasi curvo sino a terra per attraversare i tratti scoperti; ma la luce era talmente fioca che sarebbe stato assai difficile anche per un animale selvatico dall’occhio di lince scorgere gli Hobbit, incappucciati, ammantati di grigio, che camminavano silenziosi e cauti come solo la Gente Piccola sa camminare. Senza che scricchiolasse un ramoscello, senza che frusciasse una foglia, passavano e scomparivano.

Procedettero per circa un’ora silenziosamente e in fila indiana, oppressi dalle tenebre e dalla completa immobilità della campagna, interrotta solo di tanto in tanto da un vago rombo di tuono lontano, o da un rullio di tamburi in qualche cavità delle colline. Scendendo dal loro nascondiglio girarono verso sud, e seguirono quindi il sentiero più dritto che Gollum riuscì a trovare lungo un pendio accidentato che s’innalzava verso i monti. D’un tratto, non molto distante, scorsero una cinta d’alberi ergersi come un muro nero. Avvicinandosi, si accorsero che erano piante assai imponenti e vetuste, ancora alte benché le cime fossero spoglie e lacere, come travolte da tempeste e fulmini che non erano però riusciti ad ucciderle né a scuoterne le smisurate radici.

«Il Crocevia, sì», sussurrò Gollum; erano le prime parole che pronunciava dal momento in cui erano usciti dal nascondiglio. «Dobbiamo andare da quella parte». Puntando verso est li condusse su per il declivio. Lì, improvvisamente, se la trovarono davanti: la Via Meridionale, serpeggiante lungo le falde dei monti per poi tuffarsi nella grande cinta di alberi.

«Questa è l’unica via», bisbigliò Gollum. «Niente sentiero al di là della strada. Niente sentieri. Dobbiamo andare al Crocevia. Ma presto! E silenzio!».

Furtivi come vedette in un accampamento nemico, misero piede sulla strada e ne seguirono il bordo occidentale, al riparo di una banchina pietrosa, grigi come le pietre stesse e più silenziosi di un gatto in agguato. Infine raggiunsero gli alberi e scoprirono che si trattava di un grande anello il cui centro era vuoto e a cielo aperto; gli spazi fra gli immensi tronchi sembravano archi cupi e giganteschi di un palazzo in rovina. Nel punto centrale s’incontravano quattro vie. Alle spalle dei viandanti, la strada che conduceva al Morannon; innanzi a loro, quella che continuava il suo lungo viaggio verso sud; alla loro destra, la via che s’inerpicava su dalla antica Osgiliath e che, dopo l’incrocio, scompariva ad est nell’oscurità; la quarta strada, quella che li attendeva.

Frodo, immobile e terrorizzato, si accorse a un tratto che brillava una luce; la vedeva ardere sul volto di Sam al suo fianco. Volgendosi verso di essa vide, oltre un arco di rami, la via per Osgiliath correre dritta quasi come uno spago teso giù, sempre più giù, verso l’Occidente. Ivi, lontano, al di là del triste Gondor sopraffatto dalle ombre, il Sole stava tramontando, immergendosi nella statica e funebre coltre di nubi, e affondando in un fuoco minaccioso verso il Mare ancora immacolato. Un breve raggio incandescente cadde su di un’immensa figura seduta, immobile e solenne come i grandi re di pietra di Argonath. Gli anni l’avevano rosa, e delle mani crudeli mutilata. La testa era stata sostituita in segno di scherno da una rozza pietra volgarmente dipinta da mani selvagge, che le avevano dato le sembianze di una faccia sghignazzante con un unico grande occhio rosso in centro alla fronte. Sul suo grembo e sull’imponente seggio e tutt’intorno al piedistallo vani scarabocchi si alternavano agli immondi simboli adoperati dai vermicolanti abitatori di Mordor.

Improvvisamente illuminata dai raggi paralleli al suolo, Frodo vide la testa del vecchio re: giaceva abbandonata lungo la strada. «Guarda, Sam!», esclamò dallo stupore. «Guarda! Il re ha di nuovo in capo una corona!».

Gli occhi erano due buchi e la barba scolpita pressoché inesistente, ma l’alta fronte severa era cinta da una corona d’oro e d’argento. Una pianta rampicante dai fiori simili a piccole stelle bianche gli si era avvolta intorno al capo, come per riverire il re caduto, e nelle fessure della sua capigliatura di pietra splendeva della gialla sassifraga.

«Non possono conquistare per sempre!», disse Frodo. E poi improvvisamente la visione svanì. Il sole s’immerse e scomparve, e la notte nera calò come se una lampada fosse stata spenta.

CAPITOLO VIII LE SCALE DI CIRITH UNGOL

Gollum tirava il mantello di Frodo, sibilando per la paura e l’impazienza. «Dobbiamo andare», disse. «Non possiamo stare qui fermi. Fate presto!».

Riluttante, Frodo volse le spalle all’Occidente e seguì la guida che lo conduceva verso l’oscurità che avviluppava l’Oriente. Lasciarono l’anello d’alberi avanzando furtivi lungo la strada in direzione delle montagne. Dopo un breve tratto rettilineo, la via cominciò a curvate verso sud, per giungere infine ai piedi della grande sporgenza rocciosa che avevano veduta in lontananza. Nera e ostile giganteggiava su di loro, più cupa del cupo cielo. Strisciando alla sua ombra, la strada proseguiva, la contornava, e riprendeva la direzione est, arrampicandosi ripida.

Frodo e Sam camminavano con passo e con cuore pesante, incapaci ormai di preoccuparsi del pericolo che correvano. La testa di Frodo era china: il suo fardello lo trascinava di nuovo verso terra. Non appena passato il grande Crocevia, il peso, quasi inavvertito in Ithilien, aveva preso a ricrescere. Ora, sentendo la strada farsi ripida innanzi a sé, Frodo levò stancamente gli occhi; e allora la vide, tale quale Gollum gliel’aveva descritta: la città degli Spettri dell’Anello. Si rannicchiò contro le pietre della banchina.

Una lunga valle, profondo golfo d’ombra, penetrava all’interno dei monti. Dal lato opposto della vallata si ergevano, alte su di un seggio di roccia nel grembo nero dell’Ephel Dùath, le mura e la torre di Minas Morgul. Ogni cosa intorno era buia, terra e cielo, ma nella fortezza brillava una luce. Non il chiaro di luna imprigionato fra le mura marmoree di Minas Ithil molto tempo addietro, quando era la Torre della Luna, splendida e raggiante in seno ai colli. Assai più pallida di una luna malaticcia durante una lenta eclissi ne era adesso la luce, vacillante e tremula come una fetida esalazione di putridume, luce cadaverica che non illuminava nulla. Nelle mura e nella torre le finestre parevano innumerevoli buchi neri scavati nel vuoto; ma la parte superiore del torrione girava lentamente, prima da una parte e poi dall’altra, immensa testa spettrale sghignazzante nella notte. Per un momento i tre compagni la fissarono con occhi riluttanti, indietreggiando dalla paura. Gollum fu il primo a riprendersi. Li tirò insistentemente per i manti, ma senza dir nulla. Se li trascinò quasi dietro; i loro passi erano indecisi, ed il tempo sembrava rallentarli facendo sì che fra il sollevare un piede ed il posarlo di nuovo a terra passassero minuti di ripugnanza.

Giunsero così lentamente al bianco ponte. Ivi la strada, fiocamente illuminata, passava sul torrente che scorreva in mezzo alla valle, e proseguiva sinuosa e serpeggiante verso il cancello della città: una cavità nera nel cerchio esterno delle mura settentrionali. Da ambedue i lati del fiume si stendevano ampi prati ombrosi pieni di pallidi fiori bianchi, luminosi anch’essi, di forma bella eppure orribile, come le forme dementi di un sogno inquieto; emanavano un vago e ripugnante odore d’ossario; esalazioni putride empivano l’aria. D’un balzo il ponte collegava fra loro i prati; alle sue due estremità si ergevano, scolpite con abilità in forme umane e bestiali, delle figure degenerate e repellenti. L’acqua scorreva silente e fumante, ma il vapore che s’innalzava, avvolgendosi e torcendosi intorno al ponte, era freddo come la morte. Frodo si sentì girare la testa ed oscurare la mente. Poi ad un tratto, come se una forza diversa dalla sua volontà lo istigasse ad agire, affrettò il passo, trotterellando innanzi, con le mani brancolanti tese in avanti e la testa che gli oscillava di qua e di là. Contemporaneamente Sam e Gollum lo rincorsero, e Sam accolse il padrone fra le sue braccia mentre inciampava, cadendo quasi sulla soglia del ponte.

«Non da quella parte! No, non da quella parte!», bisbigliò Gollum, ma il respiro fra i suoi denti parve lacerare la pesante immobilità dell’aria come un fischio, ed egli si accasciò al suolo esterrefatto.

«Tiratevi su, signor Frodo!», balbettò Sam all’orecchio del padrone. «Tornate indietro! Non da quella parte. Gollum dice di no, e una volta tanto sono d’accordo con lui».

Frodo si passò la mano sulla fronte e distolse a fatica gli occhi dalla città in cima al colle. La torre luminosa l’affascinava, ed in lui lottava un terribile desiderio di risalire correndo l’opalescente strada che conduceva al cancello. Infine, con un ultimo sforzo, si voltò, e in quel momento sentì l’Anello resistergli, premendo in basso la catena intorno al suo collo; ed era come se anche i suoi occhi, distogliendosi, fossero diventati ciechi. L’oscurità innanzi a lui era impenetrabile.

Gollum, strisciando per terra come un animale spaventato, stava già scomparendo nelle tenebre. Sam lo seguì quanto più velocemente poteva, sorreggendo e guidando il padrone. Non lungi dall’argine del fiume vi era una breccia nel muro di pietra che fiancheggiava la strada. Vi passarono, e Sam vide che si trovavano su di uno stretto viottolo il cui primo tratto riverberava debolmente come la strada principale, ma che in seguito, man mano che s’innalzava al di sopra dei prati dai micidiali fiori, s’oscurava serpeggiando sinuoso su per i fianchi settentrionali della valle.

Gli Hobbit avanzarono lungo quel sentiero, a fianco a fianco, incapaci di distinguere Gollum innanzi a loro, a meno ch’egli non si voltasse, incalzandoli a far presto. Allora i suoi occhi brillavano d’una luce verdognola, il riflesso forse del tetro barlume di Morgul, o di chissà quale suo interiore stato d’animo. Di quella luce mortale e delle nere finestre, Sam e Frodo furono sempre coscienti, lanciandosi alle spalle timorose occhiate, per poi a stento riportare lo sguardo verso l’avanti, in cerca del buio sentiero. S’inerpicavano lentamente. Man mano che s’innalzavano sopra la puzza ed i vapori del velenoso torrente, il loro respiro divenne più facile e la loro mente più limpida; ma ora sentivano una immensa stanchezza invadere le loro membra, come se avessero camminato tutta la notte sotto un pesante fardello o fossero reduci da lunghe ore di nuoto contro una forte corrente. Infine non poterono più andare avanti e furono costretti a fermarsi.

Frodo si sedette su una pietra. Si trovavano ora in cima a una grossa gobba di nuda roccia. Innanzi a loro vi era una insenatura nel fianco della valle, ed il viottolo ne seguiva l’orlo, non più largo di una sporgenza a strapiombo su di un abisso; poi si arrampicava sulla ripida parete meridionale della montagna, scomparendo nell’oscurità che lo sovrastava.

«Devo riposare un attimo Sam», bisbigliò Frodo. «Mi pesa, Sam. Mi pesa molto. Chissà per quanto tempo ancora riuscirò a portarlo? In ogni caso devo riposare prima di avventurarmi lassù». Mostrò la stretta sporgenza rocciosa innanzi a loro.

«Ssst! Ssst!», sibilò Gollum tornando velocemente verso di loro. «Ssst!». Teneva un dito sulle labbra e scuoteva violentemente il capo. Tirando la manica di Frodo, indicò il sentiero; ma Frodo si rifiutò di muoversi.

«Non ancora», disse, «non ancora». Non solo la stanchezza, ma anche qualcos’altro lo opprimeva: come se la sua mente ed il suo corpo fossero succubi di un incantesimo. «Devo riposare», balbettò.

Udendo ciò, la paura e l’agitazione di Gollum crebbero a tal punto da farlo parlare, sibilando dietro la mano con la quale si copriva la bocca, come per allontanarne il suono da invisibili ascoltatori aerei. «Non qui, no. Non riposare qui. Pazzi! Occhi possono vederci. Quando arrivano al ponte ci vedranno. Venite via! Saliamo! Saliamo! Venite!».

«Venite, signor Frodo», disse Sam. «Ha di nuovo ragione lui. Non possiamo restare qui».

«Va bene», disse Frodo con voce lontana, quasi come se stesse parlando nel sonno. «Tenterò». Si alzò stancamente in piedi.

* * *

Ma era troppo tardi. In quel preciso istante la roccia vibrò e tremò sotto i loro piedi. Il possente rombo, più forte che mai, rullò sotto terra echeggiando nelle montagne. Poi all’improvviso balenò un immenso lampo rosso. Lungi oltre i monti orientali squarciò il cielo, schizzando di cremisi le basse nuvole. Nella valle d’ombra e di gelida luce mortale sembrò insopportabilmente feroce e violento. Punte di roccia e creste come lame scalfite proiettarono il loro inviolabile nero nella fiammata prorompente da Gorgoroth. Poi si udì il rombo di un tuono.

Minas Morgul rispose. Una vampata di livide saette, forche di fiamme blu sprigionate dalla torre e dalle colline intorno, squarciò le tetre nubi. La terra gemette; dalla città s’innalzò un urlo. Misto al suono di voci aspre come il gracchiare di uccelli da preda, ed allo stridulo nitrire di cavalli folli di terrore e di collera, giunse alle loro orecchie uno strillo spaventoso, vibrante, che salì rapidamente d’ottava in ottava sino alla punta più stridente, quasi irraggiungibile dall’udito umano. Gli Hobbit si voltarono verso di esso e si gettarono per terra, coprendosi con le mani le orecchie.

Quando il terribile grido si estinse, lamentosamente ricadendo nel silenzio, Frodo levò lentamente il capo. Al di là della stretta valle, quasi al livello dei suoi occhi, si ergevano le mura della malefica città, il cui cancello cavernoso era spalancato come una bocca aperta dai denti scintillanti. Un esercito ne uscì.

Ogni soldato era vestito di nero, buio come la notte. Contro le pallide mura e l’opalescente lastricato della strada, Frodo vedeva stagliarsi file di piccole figure nere dal passo silenzioso e veloce, che sgorgavano in un flusso interminabile. Erano premute da un gran numero di Uomini a cavallo che si muovevano come ombre ordinate, alla cui testa cavalcava il più alto di tutti: un Cavaliere interamente nero, che aveva però sulla testa incappucciata un elmo come una corona scintillante d’una luce micidiale. Si stava avvicinando al ponte, e Frodo lo seguiva guardandolo fisso, incapace di chiudere le palpebre, incapace di distogliersi. Non era quello il Signore dei Nove Cavalieri ritornato sulla terra per condurre il suo spaventoso esercito in guerra? Ivi, sì, proprio innanzi a loro, era lo spettrale re che con la sua gelida mano, armata d’un mortifero pugnale, aveva colpito il Portatore dell’Anello. L’antica ferita ricominciava a dolere ed un freddo glaciale penetrava nel corpo di Frodo, in direzione del suo cuore.

Mentre questi pensieri lo empivano di terrore, paralizzandolo come per incantesimo, il Cavaliere s’arrestò all’improvviso, appena prima di mettere piede sul ponte; dietro di lui l’esercito si fermò. Vi fu una pausa, un morto silenzio. Forse l’Anello invocava il Re degli Spettri, e questi ne era turbato, percependo qualche altro potere nella sua valle. Da un lato e dall’altro si volse la scura testa dall’elmo forgiato nella paura, e spazzò le ombre con occhi invisibili. Frodo attese, come un uccello all’avvicinarsi di un serpente, incapace di muoversi. E nell’attesa sentì, più impellente che mai, l’ordine di infilarsi al dito l’Anello. Ma per quanto forte fosse la pressione, egli tuttavia non provava più la tentazione di cedervi. Sapeva che l’Anello l’avrebbe soltanto tradito, e che non possedeva ancora, anche con l’Anello infilato, la forza sufficiente per affrontare il Re di Morgul…. non ancora. Non vi era in lui alcuna risposta a quell’ordine impellente, nonostante fosse sconvolto dal terrore, e sentiva solo il peso di un grande potere esterno che s’impadroniva della sua mano, spostandola di centimetro in centimetro verso la catena che portava al collo; Frodo osservava ogni movimento con la sua mente, senza cedere, ma ansioso come se stesse rivedendo un’antica storia di tempi remoti. Poi la sua volontà reagì: lentamente forzò la mano ad allontanarsi, dirigendola verso un altro oggetto, che teneva nascosto sul petto. Freddo e duro gli parve nello stringerlo: era la fiala di Galadriel, così a lungo conservata e quasi dimenticata fino a quel momento. Toccandola, ogni pensiero relativo all’Anello gli scomparve dalla mente. Frodo sospirò e chinò il capo.

In quel momento il Re degli Spettri spronò il suo cavallo, avanzando quindi sul ponte seguito dalla nera schiera. Forse i suoi occhi invisibili nulla poterono contro gli elfici manti, e la mente del suo piccolo nemico, avendo acquistato più forza, aveva deviato il suo pensiero. Aveva fretta. L’ora era già scoccata, ed egli doveva eseguire gli ordini del suo grande Padrone, marciando in guerra verso l’Occidente.

Presto scomparve, ombra nell’ombra, in fondo alla strada serpeggiante, mentre dietro di lui decine di file nere attraversavano ancora il ponte. Era dal tempo in cui Isildur regnava che un simile esercito non usciva da quella valle; mai schiera così crudele ed armata aveva assalito i guadi dell’Anduin; eppure non era che uno solo, e non il più grande degli eserciti usciti in quei giorni da Mordor.

* * *

Frodo si mosse. Improvvisamente il suo pensiero andò a Faramir. «La tempesta infine si è scatenata», si disse. «Quel grande arsenale di lance e di spade sta andando ad Osgiliath. Riuscirà Faramir a ritornare a casa in tempo? Aveva previsto tutto ciò, ma sapeva l’ora? E chi mai avrebbe potuto difendere i guadi assaliti dal Re dei Nove Cavalieri? E giungeranno altri eserciti. Ho fatto troppo tardi. Tutto è perduto. Mi sono fermato troppo per strada. Tutto è perduto. Anche se compio la mia missione, nessuno mai lo saprà. Non vi sarà più nessuno a cui poterlo dire. Sarà tutto vano». Sopraffatto dalla debolezza, pianse. Le schiere di Morgul marciavano ancora sul ponte.

Poi, lontana e remota, come se proveniente dai ricordi della Contea, illuminata dal sole del primo mattino, mentre il giorno sorgeva e le porte si aprivano, udì la voce di Sam. «Svegliatevi, signor Frodo! Svegliatevi!». Se la voce avesse aggiunto: «La prima colazione è pronta», Frodo non si sarebbe stupito. Ma certo Sam era impaziente. «Svegliatevi, signor Frodo! Sono partiti», disse.

Si udì un sordo fragore. Il cancello di Minas Morgul si era richiuso. L’ultima fila di lance scompariva in fondo alla via. La torre sghignazzava ancora sulla valle, ma la luce andava via via indebolendosi. L’intera città stava immergendosi nell’ombra scura ed ostile e nel silenzio. Tuttavia all’interno ogni cosa era vigile.

«Svegliatevi, signor Frodo! Sono partiti, e anche noi faremmo bene ad andarcene. C’è ancora qualcosa in quella torre, qualcosa che vive, che possiede occhi, o una mente visiva, non so se mi spiego; e più rimaniamo fermi in un punto, più facile sarà per essa identificarci. Coraggio, signor Frodo!».

Frodo sollevò il capo, poi si alzò in piedi. La disperazione non l’aveva abbandonato, ma la debolezza era passata. Riuscì persino a sorridere risoluto, provando con la medesima chiarezza la sensazione opposta a quella destatasi in lui un momento prima, e cioè che la sua missione la doveva compiere, se possibile, noncurante se Faramir, Aragorn, Elrond, Galadriel, Gandalf o altri ne venissero a conoscenza o meno. Prese in una mano il bastone e nell’altra la fiala. Quando vide la limpida luce fluire fra le sue dita, la nascose di nuovo sul petto, stringendola contro il cuore. Poi, voltando le spalle alla città di Morgul, ormai nulla più di un vago grigiore al di là di un cupo golfo, si apprestò a proseguire lungo la strada in salita.

Gollum doveva essere strisciato via lungo la sporgenza verso l’oscurità, quando il cancello di Minas Morgul si era aperto e gli Hobbit non si erano mossi da dove si trovavano. Ora lo videro tornare, coi denti che gli battevano e le dita che fremevano. «Pazzi! Sciocchi!», sibilò. «Presto! Non devono pensare gli Hobbit che il pericolo è passato. Non lo è. Presto!».

Essi non risposero, ma lo seguirono sulla ripida sporgenza. A nessuno dei due piacque molto, nemmeno dopo aver affrontato tanti altri pericoli; ma durò poco. Il sentiero giunse infatti nel punto in cui il fianco della montagna si gonfiava nuovamente, ed ivi s’infilava all’improvviso in una stretta fessura della roccia. Erano arrivati alla prima scala di cui Gollum aveva parlato. Il buio era quasi completo, e vedevano poco oltre le mani tese; ma gli occhi di Gollum lucevano fiocamente, parecchi piedi più in alto, quando si voltava verso di loro.

«Attenti!», bisbigliò. «Gradini. Molti gradini. Bisogna stare attenti!».

Era certo necessaria molta attenzione. Sulle prime gli Hobbit si sentirono più a loro agio, avendo un muro da ambedue le parti, ma gli scalini erano quasi ripidi come quelli di una scala a piuoli, ed essi sentivano sempre più la presenza di un profondo abisso nero dietro le spalle. I gradini erano stretti, disuguali, e spesso infidi: i bordi erano lisci e corrosi, alcuni erano rotti, altri si fendevano al poggiare di un piede. Gli Hobbit s’inerpicavano a fatica, afferrando con dita disperate i gradini superiori, forzando le ginocchia doloranti a curvarsi e a raddrizzarsi; e man mano che la scala s’inoltrava più profondamente nel cuore della montagna, le mura rocciose crescevano, crescevano sulla loro testa.

Infine, proprio quando sentivano di non farcela più, gli occhi di Gollum si volsero giù verso di loto. «Siamo in alto», bisbigliò. «Prima scala è passata. Bravi Hobbit a salire così in alto, bravissimi Hobbit. Ancora pochi piccoli gradini e poi basta».

Sfinito e vacillante, Sam, seguito da Frodo, s’arrampicò sull’ultimo gradino e si sedette strofinandosi gambe e ginocchia. Erano in un profondo corridoio buio che sembrava continuasse in salita, senza gradini però, e meno ripido. Gollum non li lasciò riposare a lungo.

«C’è ancora un’altra scala», disse. «Scala molto più lunga. Riposare quando siamo in cima alla prossima scala, sì, non ancora».

Sam gemette. «Più lunga, hai detto?», domandò.

«Sssì, sssì, più lunga», sibilò Gollum. «Ma meno difficile. Hobbit saliti prima sulla Scala Dritta. Ora viene la Scala Sinuosa». «E poi, dopo?», disse Sam.

«Vedremo», disse Gollum sottovoce. «Oh sì, vedremo!».

«Mi sembrava che tu avessi parlato d’una galleria», disse Sam. «Non c’è una galleria o qualcosa del genere da attraversare?».

«Oh sì, c’è una galleria», rispose Gollum. «Ma Hobbit possono riposare prima. Quando avranno passato la galleria saranno quasi in cima. Oh sì, quasi in cima!».

Frodo rabbrividì. La scalata l’aveva fatto sudare, ma ora si sentiva infreddolito e umidiccio, ed una corrente fredda soffiava giù per il buio corridoio da invisibili alture. Si alzò scuotendosi la stanchezza di dosso. «Ebbene, continuiamo!», disse. «Questo non è il posto più adatto per sedersi».

* * *

Il corridoio sembrava proseguire all’infinito, mentre l’aria gelida continuava a soffiare, trasformandosi in uno sferzante vento man mano che salivano. Era come se le montagne tentassero di scoraggiarli con il loro micidiale respiro di respingerli lontano dai segreti delle alte vette, di precipitarli giù nell’oscurità alle loro spalle. Seppero che erano giunti alla fine della galleria, sentendosi improvvisamente mancare il muro sulla destra. Vedevano ben poco. Grandi masse nere e informi, ombre grigie e cupe giganteggiavano su di loro e tutt’intorno, ma di tanto in tanto una smorta luce rossa s’accendeva sotto le nubi, mostrando per un attimo gli alti picchi che si ergevano ai due lati del loro sentiero, come pilastri sostenitori di un ampio tetto curvo. Dovevano aver scalato parecchie centinaia di piedi, giungendo su di un’ampia cornice di roccia. Avevano a sinistra una rupe e a destra un abisso.

Gollum li conduceva per un sentiero a ridosso della parete rocciosa. Ora il terreno non era più in salita, ma assai accidentato e pericoloso, e massi e rocce franate intralciavano il loro buio sentiero. Avanzavano lenti e cauti. Ormai né Sam né Frodo avrebbero saputo dire da quanto tempo erano entrati nella Valle di Morgul. Interminabile pareva la notte.

Infine si accorsero che di nuovo innanzi a loro si ergeva una parete rocciosa, sulla quale un’altra si arrampicava. Dopo una breve sosta intrapresero la seconda ascensione: era molto lunga e faticosa, ma i gradini questa volta non penetravano all’interno della montagna, bensì serpeggiavano sul ripido declivio, spingendosi a un certo punto sino all’orlo del cupo abisso: Frodo guardò giù e vide all’imboccatura della Valle di Morgul un ampio pozzo nero, il grande burrone in fondo al quale scintillava come un verme fosforescente la strada degli spettri che conduceva dalla città morta al Sentiero Innominato. Frodo si allontanò velocemente.

* * *

Sempre più su, sinuosa e curva, saliva la scala, quando infine una ultima rampa, corta e diritta, li condusse a un altro ripiano. Erano lontani ormai dall’orlo del burrone, e il sentiero procedeva pericolosamente in una stretta gola fra le alte creste dell’Ephel Dùath. Gli Hobbit discernevano vagamente alte vette e pinnacoli frastagliati da ambedue i lati, interrotti da profondi crepacci e fessure più nere della notte, ove inverni obliati avevano roso e scolpito la roccia senza sole. Ed ora la rossa luce in cielo sembrava più intensa, forse perché un’alba spaventosa si levava persino in quel luogo d’ombra, o forse perché intravedevano soltanto il bagliore della fosca violenza di Sauron nel tormentato Gorgoroth. Molto più avanti e molto più in alto Frodo scorse, levando gli occhi, la vetta sulla quale li avrebbe condotti il loro arduo sentiero. Contro il rosso del cielo orientale si disegnava la cresta più elevata, nella quale si apriva una stretta fessura, profondamente scavata nella nera roccia: da ambedue i lati si ergeva un corno di pietra.

Frodo si fermò per guardare più attentamente. Il corno a sinistra era alto ed esile, e vi ardeva una luce rossa, a meno che non fosse il bagliore del cielo che penetrava da qualche foro. Poi vide con estrema nitidezza: si trattava di una nera torre sovrastante il valico. Toccò il braccio di Sam e gli mostrò la bertesca.

«Non mi piace per nulla!», disse Sam. «Perciò questo tuo passaggio segreto dopo tutto è custodito», brontolò rivolgendosi a Gollum. «E suppongo che tu l’abbia sempre saputo, nevvero?».

«Tutti i sentieri sono custoditi, sì», disse Gollum. «Certo che lo sono. Ma Hobbit devono tentarne uno. Forse questo è il meno sorvegliato. Forse sono tutti partiti per la grande battaglia, forse!». «Forse», mormorò Sam. «Comunque sembra ancora molto lontano e molto in alto; e poi abbiamo da percorrere anche la galleria. Credo che dovreste riposare adesso, signor Frodo. Non so che ora del giorno o della notte sia, ma so che sono ore e ore che stiamo camminando».

«Sì, dobbiamo riposare», acconsentì Frodo. «Troviamo qualche angolo riparato e raduniamo le nostre forze… per l’ultima tappa». Gli sembrava infatti quella l’ultima insormontabile difficoltà: il terrore delle terre al di là dei monti, l’impresa che avrebbe dovuto compiere, gli parevano fatti remoti, ancor troppo lontani per essere inquietanti. Ogni suo pensiero era rivolto al passaggio di quell’impenetrabile parete sovrastata dalla torre. Se fosse in qualche modo riuscito a vincere l’impossibile ostacolo, la sua missione sarebbe stata compiuta, o perlomeno così gli sembrava in quella cupa ora di stanchezza, mentre s’inerpicava fra le pietrose ombre sotto Cirith Ungol.

* * *

In una buia fessura fra due macigni si sedettero: Frodo e Sam all’interno e Gollum accovacciato per terra vicino all’apertura. Ivi gli Hobbit consumarono ciò che ritenevano sarebbe stato il loro ultimo pasto prima di scendere nella Terra Innominata, forse l’ultimo pasto consumato insieme. Presero un po’ del cibo di Gondor, e qualche galletta del pan di via degli Elfi, e bevvero un sorso, appena l’indispensabile per inumidirsi le labbra, poiché risparmiavano il più possibile l’acqua.

«Chissà quando troveremo dell’altra acqua?», disse Sam. «Ma suppongo che anche di là bevono, gli Orchi bevono, nevvero?». «Sì, bevono», rispose Frodo. «Ma non parliamone. Non sono bevande adatte a noi».

«Allora più che mai è necessario che empiamo le bottiglie», disse Sam. «Ma non c’è acqua quassù: non ho udito nulla gocciolare né scorrere. E comunque Faramir ci ha raccomandato di non bere acqua di Morgul».

«Niente acqua proveniente da Imlad Morgul, erano le sue parole», disse Frodo. «Non siamo più nella valle ora, e se trovassimo una sorgiva l’acqua scorrerebbe verso di essa, e non da essa».

«Non me ne fiderei», ribatté Sam, «a meno che non stessi proprio morendo di sete. C’è un’atmosfera malvagia in questo posto». Annusò l’aria. «Ed anche una puzza, mi pare. La sentite? Uno strano odore di muffa. Non mi piace».

«Nulla di tutto ciò che ci circonda mi piace», disse Frodo, «sasso o gradino, vento o macigno. Terra, aria, acqua paiono tutte maledette. Ma questo è il nostro sentiero».

«Sì, così è», disse Sam. «E noi non saremmo qui, se avessimo avuto le idee un po’ più chiare prima di partire. Ma suppongo che accada spesso. Penso agli atti coraggiosi delle antiche storie e canzoni, signor Frodo, quelle ch’io chiamavo avventure. Credevo che i meravigliosi protagonisti delle leggende partissero in cerca di esse, perché le desideravano, essendo cose entusiasmanti che interrompevano la monotonia della vita, uno svago, un divertimento. Ma non accadeva così nei racconti veramente importanti, in quelli che rimangono nella mente. Improvvisamente la gente si trovava coinvolta, e quello, come dite voi, era il loro sentiero. Penso che anche essi come noi ebbero molte occasioni di tornare indietro, ma non lo fecero. E se lo avessero fatto noi non lo sapremmo, perché sarebbero stati obliati. Noi sappiamo di coloro che proseguirono, e non tutti verso una felice fine, badate bene; o comunque non verso quella che i protagonisti di una storia chiamano una felice fine. Capite quel che intendo dire: tornare a casa e trovare tutto a posto, anche se un po’ cambiato…. come il vecchio signor Bilbo. Ma probabilmente non sono quelle le migliori storie da ascoltare, pur essendo le migliori da vivere! Chissà in quale tipo di vicenda siamo piombati!».

«Chissà!», disse Frodo. «Io lo ignoro. E così accade per ogni storia vera. Prendine una qualsiasi fra quelle che ami. Tu potresti sapere o indovinare di che genere di storia si tratta, se finisce bene o male, ma la gente che la vive non lo sa, e tu non vuoi che lo sappia».

«No, signore, proprio come dite voi. Per esempio Beren, il quale mai avrebbe pensato di poter togliere il Silmaril dalla Corona Ferrea a Thangorodrim, eppure vi riuscì: e quello era un posto assai più nero e pericoloso di codesto ove ci troviamo noi. Ma certo quella era una lunga storia, al di là della felicità e della tristezza… e il Silmaril fu tramandato a Eärendil. Ma signore, non vi avevo mai pensato prima! Noi… voi avete parte della luce del Silmaril nella fiala che vi donò la Dama! Pensandoci bene, apparteniamo anche noi alla medesima storia, che continua attraverso i secoli! Non hanno dunque una fine i grandi racconti?».

«No, non terminano mai i racconti», disse Frodo. «Sono i personaggi che vengono e se ne vanno, quando è terminata la loro parte. La nostra finirà più tardi… o fra breve».

«Allora potremo prenderci un po’ di riposo», disse Sam. Rise sarcasticamente. «Ed intendo dire proprio e soltanto riposo, signor Frodo. Intendo dire dormire, e svegliarsi pronti a un bel lavoro mattutino in giardino. Temo che sia tutto ciò che desidero per il momento. I grandi programmi importanti non mi si confanno. Eppure mi domando se un giorno ci metteranno nelle favole e nelle canzoni. La storia la stiamo vivendo, beninteso, ma chissà se ne faranno un racconto da narrare accanto al camino, o da leggere per anni e anni in un grosso libro dai caratteri rossi e neri. E la gente dirà: “Parlateci di Frodo e dell’Anello!”. E poi dirà: “Sì, è una delle storie preferite. Frodo era molto coraggioso, nevvero papà?”. “Sì ragazzo mio, il più famoso degli Hobbit, ed è dir molto”».

«È dir di gran lunga troppo», ribatté Frodo ridendo, un riso lungo e limpido, sgorgato dal cuore. Da quando Sauron aveva invaso la Terra di Mezzo quei luoghi non sentivano un suono così puro. A Sam parve improvvisamente che tutte le pietre fossero in ascolto e le imponenti rocce chine su di loro. Ma Frodo non vi fece caso e rise di nuovo. «Sapessi, Sam», disse, «ascoltarti mi rende felice come se la storia fosse già scritta. Ma hai dimenticato uno dei personaggi principali: Samvise il cuor di leone. “Voglio che mi parli ancora di Sam, papà. Perché nel racconto hanno messo così poco delle sue chiacchiere? È quel che mi piace, mi fa ridere. E Frodo non avrebbe fatto molta strada se non avesse avuto Sam, nevvero papà?”».

«Ora, signor Frodo», disse Sam, «non dovreste prenderla a ridere. Io parlavo seriamente».

«Anch’io», rispose Frodo. «E mi pare che stiamo andando avanti un po’ troppo velocemente. Tu ed io, Sam, siamo ancora fermi nel punto peggiore della storia, ed è assai probabile che qualcuno a questo punto dica: “Chiudi il libro adesso, papà, non ho più voglia di leggere”».

«Forse», disse Sam, «ma io certo non direi una cosa del genere. Ciò che è passato e finito e fa parte di un lungo racconto, è assai diverso. Persino Gollum potrebbe venir bene in una favola, in ogni caso meglio che averlo accanto a sé. Dice che un tempo anche a lui piacevano molto le storie. Chissà se si prende per l’eroe o per il cattivo?

«Gollum!», chiamò. «Ti piacerebbe essere l’eroe… Ma dove diavolo si è cacciato?».

Non vi era traccia di Gollum all’ingresso del loro rifugio, né fra le vicine ombre. Aveva rifiutato il loro cibo, pur avendo, come al solito, accettato un sorso d’acqua; poi l’avevano veduto raggomitolarsi per dormire. Credevano che almeno uno degli scopi della sua lunga assenza il giorno precedente fosse la ricerca di qualcosa da mangiare che gli piacesse; ora evidentemente mentre gli Hobbit parlavano era di nuovo sgusciato via. Ma con quali intenti questa volta?

«Non mi piace questo suo scomparire senza dir nulla», disse Sam. «Ora meno che mai. Non sta certo cercando cibo quassù, a meno che non vi sia qualche roccia di suo particolare gradimento. Non cresce nemmeno un ciuffo di muschio!».

«Inutile preoccuparci di lui adesso», disse Frodo. «Non saremmo mai arrivati sin qui, né in vista del valico, senza di lui, quindi dovremo sopportare il suo modo di fare. Se è falso, è falso».

«Comunque preferirei poterlo tenere d’occhio», disse Sam. «E tanto più se è falso. Vi ricordate che non volle mai dire se questo valico era sorvegliato o no? Ora vediamo lì una torre che potrebbe essere deserta, ma anche piena. Credete che sia andato a chiamarli, Orchi o quello che sono?».

«No, non credo», rispose Frodo. «Anche se sta meditando qualche malvagità, il che mi sembra assai probabile. Non credo comunque che si tratti di ciò che dici tu: chiamare gli Orchi o i servitori del Nemico. Perché attendere tanto, sopportare la lunga fatica della salita, e giungere così vicino alla terra che teme? Avrebbe probabilmente potuto consegnarci agli Orchi più d’una volta dal giorno del nostro incontro. Se sta effettivamente escogitando qualcosa, sarà qualche suo piccolo scherzo personale ch’egli considera molto segreto».

«Penso che abbiate ragione, signor Frodo», disse Sam. «Non che la cosa mi conforti molto. Sono convinto di non sbagliarmi: senza dubbio alcuno egli consegnerebbe me agli Orchi con immensa gioia. Ma dimenticavo… il suo Tesoro. No, suppongo che sin da principio si sia trattato del Tesoro per povero Sméagol. È questa l’idea che cova in tutti i suoi piccoli progetti, ammesso che ne abbia. Ma in che modo gli possa essere utile condurci sin quassù, me lo domando proprio!».

«Probabilmente se lo domanda anche lui», disse Frodo. «E non credo che nella sua testa confusa vi sia un unico chiaro programma. Penso che in parte stia effettivamente tentando di salvare il suo Tesoro dal Nemico, il più a lungo possibile. Infatti, se il Nemico se ne impadronisse sarebbe anche per lui il più terribile dei disastri. D’altra parte, forse, sta solo aspettando che giunga la sua ora e si presenti l’occasione adatta».

«Sì, come dicevo io, verme puzzolente», disse Sam. «Ma più si avvicina alla terra del Nemico, più il verme puzzerà, e Servile diventerà Scurrile. Badate bene: se mai riusciamo ad arrivare al valico non ci farà portare il suo prezioso tesoro oltre il confine; combinerà qualche guaio».

«Non siamo ancora arrivati», disse Frodo.

«No, ma è opportuno tenere gli occhi spalancati sin lì», rispose Sam. «Se ci scopre intenti a dormire, Scurrile prenderà tosto il sopravvento. Ma ciò non vuol dire che se faceste un pisolino non sareste al sicuro, padrone; basta che vi corichiate qui vicino a me. Sarei felice di vedervi dormire; vi custodirei, e stando qui accanto, col mio braccio intorno a voi, nessuno potrebbe venire a frugarvi senza che Sam se ne accorga».

«Dormire!», disse Frodo sospirando, come se in un deserto avesse intravisto un miraggio di fresco e di verde. «Sì, riuscirei a dormire persino qui».

«Allora dormite, padrone! Poggiate il capo sulle mie ginocchia».

* * *

Così Gollum li trovò molte ore dopo, quando tornò strisciando furtivo giù per il sentiero immerso nelle tenebre. Sam sedeva appoggiato alla roccia, con la testa ciondolante e il respiro profondo. Sulle sue ginocchia la testa di Frodo, che dormiva un sonno calmo e tranquillo; sulla fronte bianca era posata una delle scure mani di Sam, mentre l’altra proteggeva dolcemente il petto del padrone. La pace regnava su ambedue i volti.

Gollum li guardò a lungo. Una strana espressione passò sul suo scarno viso affamato. Il bagliore nei suoi occhi sbiadì, rendendoli opachi e grigi, vecchi e stanchi. Come colto da uno spasimo di dolore si allontanò, scrutando le tenebre in direzione del valico, scuotendo il capo: pareva in preda a una lotta interiore. Poi tornò indietro, e allungando lentamente una mano tremante sfiorò il ginocchio di Frodo; più che un tocco era una carezza. Per un attimo fugace, se uno dei dormienti l’avesse potuto vedere, avrebbe avuto l’impressione di mirare un vecchio Hobbit stanco, logorato dagli anni che lo avevano trascinato assai oltre il suo tempo, lungi dagli amici e dai parenti, dai campi e dai fiumi della giovinezza, ormai nient’altro che un vecchio e pietoso relitto.

Ma bastò quel tocco perché Frodo si muovesse e lanciasse nel sonno un piccolo grido; e Sam fu immediatamente sveglio. La prima cosa che vide fu Gollum… intento, gli sembrò, a «frugare il suo padrone».

«Ehi, tu!», disse rudemente. «Che stai combinando?».

«Niente, niente», disse Gollum sottovoce. «Caro Padrone!».

«Direi!», esclamò Sam. «Ma dove sei stato… con questo tuo andare e tornare sgattaiolando, farabutto?».

Gollum indietreggiò, e sotto le sue palpebre pesanti luccicò un bagliore verde. Pareva quasi un ragno, accovacciato in quel modo sulle gambette curve, coi suoi occhi protuberanti. L’attimo fugace era volato via per sempre. «Sgattaiolare, sgattaiolare!», sibilò. «Hobbit sempre così gentili, sì. Oh cari Hobbit! Sméagol li conduce su per vie segrete che nessun altro potrebbe trovare. Stanco è, assetato è, sì assetato; e li guida e cerca sentieri e loro dicono sgattaiolare. Carissimi amici, oh sì, tesoro mio, carissimi amici».

Sam provò qualche rimorso, ma non un briciolo in più di fiducia. «Mi dispiace», disse. «Mi dispiace, ma mi hai svegliato di soprassalto, e la cosa mi ha reso un po’ aspro, perché non avrei dovuto dormire. Ma al signor Frodo, ch’è assai stanco, avevo detto di schiacciare un sonnellino; comunque mi dispiace. Ma dove sei stato?».

«A sgattaiolare», disse Gollum, e la luce verde non si spense nei suoi occhi.

«Oh, molto bene, allora», disse Sam, «come preferisci! E suppongo che non sia molto lontano dalla verità. Ora faremmo bene a sgattaiolare via tutti insieme. Che ore sono? È oggi o domani?».

«È domani», disse Gollum, «O questo era domani quando gli Hobbit si sono addormentati. Molto sciocco, molto pericoloso… se povero Sméagol non sgattaiolasse, non sorvegliasse».

«Credo che fra poco ci stancheremo di quella parola», disse Sam. «Ma non importa. Ora sveglierò il padrone». Dolcemente allontanò una ciocca di capelli dalla fronte di Frodo, e chinandosi gli parlò a bassa voce.

«Sveglia, signor Frodo! Sveglia!».

Frodo si mosse ed aprì gli occhi, e vedendo il volto di Sam curvo su di sé, sorrise. «Mi stai svegliando assai presto, nevvero Sam?», disse. «Fa ancora buio!».

«Sì, qui fa sempre buio», disse Sam. «Ma Gollum è tornato, signor Frodo, e dice che è già domani. Perciò dobbiamo rimetterci in marcia. L’ultima tappa».

Frodo trasse un profondo respiro e si mise a sedere. «L’ultima tappa!», ripeté. «Ciao, Sméagol! Trovato qualcosa da mangiare? Fatto un riposino?».

«Niente da mangiare, niente riposino, niente per Sméagol», disse Gollum. «Solo sgattaiolare, solo infido».

Sam fremette ma si trattenne.

«Non ti affibbiare degli attributi, Sméagol», disse Frodo. «Non è prudente, siano essi veraci o falsi».

«Sméagol deve accettare ciò che gli affibbiano», rispose Gollum. «E quell’attributo gli è stato dato dal caro Padrone Samvise, l’Hobbit che sa tante cose».

Frodo guardò Sam. «Sissignore», disse questi. «In effetti ho adoperato quella parola, svegliandomi improvvisamente di soprassalto e trovando Gollum a due passi. Ho detto che mi dispiaceva, ma fra poco non mi dispiacerà più».

«Suvvia, lascia perdere, allora!», disse Frodo. «Ma ora mi sembra che tu ed io siamo giunti al punto cruciale, Sméagol. Dimmi: possiamo trovare da soli l’ultimo tratto di strada? Siamo in vista del valico, di un ingresso, e se ormai è possibile giungervi senza il tuo aiuto, ritengo che sia il caso di considerare sciolto il nostro patto. Hai mantenuto la tua promessa, sei libero: libero di partirtene in cerca di cibo e di riposo, ove meglio credi, eccetto dai servitori del Nemico. E forse un dì sarai ricompensato, da me o da coloro che di me si rammenteranno».

«No, no, non ancora», gemette Gollum. «Oh no! C’è ancora la galleria da passare. Sméagol deve andare avanti. Niente mangiare. Niente riposo. Non ancora».

CAPITOLO IX LA TANA DI SHELOB

Forse, come diceva Gollum, era davvero giorno, ma gli Hobbit vedevano ben poca differenza, salvo forse che il cielo pesante sulle loro teste non era più nero come la pece, ma piuttosto come un grande tetto di fumo; invece delle buie tenebre della notte fonda, che perduravano ancora nei crepacci e nelle fessure, un’ombra grigia e opaca offuscava il mondo pietroso tutt’intorno. Si misero in marcia, Gollum in testa e i due Hobbit a fianco a fianco, risalendo la lunga gola fra macigni e colonne di roccia corrosa e frastagliata che si ergevano come immense statue rozze da ambedue i lati del sentiero. Non si udiva alcun rumore. Più avanti, a un miglio circa di distanza, giganteggiava una grande parete. grigia, l’ultima imponente massa di roccia montagnosa. Era sempre più nera e sempre più alta man mano che si avvicinavano, sovrastandoli infine minacciosa, ostruendo la vista di tutto ciò che si trovava al di là. Ombre fitte e cupe ne avviluppavano le falde. Sam fiutò l’aria.

«Ugh! Questa puzza!», disse. «E sta diventando sempre più insostenibile».

Infine, giunti nell’ombra, scorsero in centro l’apertura di una caverna. «È questo l’ingresso», disse Gollum sottovoce. «È da qui che si entra nella galleria». Ma non ne rivelò il nome: Torech Ungol, la Tana di Shelob. Emanava un fetore orrendo, non il vomitevole odore di putrido dei prati di Morgul, bensì un immondo lezzo, come se indescrivibili cumuli di sordido lerciume fossero ammassati all’interno nell’oscurità.

«È codesta l’unica via, Sméagol?», domandò Frodo. «Sì, Sì», fu la risposta. «Sì, da qui bisogna andare adesso». «Intendi dire che sei già passato da questo buco?», disse Sam. «Puah! Ma forse tu non fai caso ai cattivi odori».

Gli occhi di Gollum luccicarono. «Lui non Sa a cosa facciamo caso, nevvero tesoro? No, non lo sa. Ma Sméagol sa sopportare. Sì. È passato da qui, oh sì, fino in fondo. È l’unica via».

«E chissà qual è la causa di questa puzza!», disse Sam. «Sembrerebbe… beh, preferisco non dirlo. Sarà certo qualche lurido buco degli Orchi, scommetto, con la loro sporcizia che ci stagiona da un secolo».

«Ebbene», disse Frodo. «Orchi o no, se questa è l’unica via, è da qui che dobbiamo andare».

* * *

Trattenendo il fiato s’inoltrarono nell’apertura. Dopo pochi passi si trovarono nella più cupa e totale oscurità. Dalle tenebrose gallerie di Moria, Frodo e Sam non erano mai più stati in un buio così cupo, e questo era forse ancor più fitto e fondo. A Moria vi erano correnti d’aria, echi, un senso di spazio. Qui l’atmosfera era immobile, stagnante, greve, ogni rumore sordo. Sembrava di camminare in un vapore nero plasmato nell’oscurità stessa, e alla cecità degli occhi si aggiungeva ad ogni respiro una più densa nebbia della mente, che offuscava e cancellava persino il ricordo di luci, forme e colori. La notte era il passato, era il futuro; non esisteva che essa.

Ma da principio la loro sensibilità non fu attutita, anzi il senso del tatto delle dita e dei piedi parve quasi dolorosamente acuito. Notarono con sorpresa che le pareti erano lisce ed il pavimento, eccetto in qualche punto, saliva dritto e piano un interminabile ripido pendio. La galleria era alta ed ampia, così larga che sebbene gli Hobbit camminassero a fianco a fianco, sfiorando le mura solo con la punta delle dita, erano separati dalle tenebre, soli nell’oscurità.

Gollum era entrato per primo e sembrava a pochi passi di distanza. Finché riuscirono a percepire i suoni, lo udirono sibilare e respirare affannoso innanzi a loro. Ma dopo qualche tempo i sensi parvero attutirsi, tatto e udito scomparvero mentre continuavano ad avanzare brancolando, spinti soltanto dalla forza di volontà che li aveva incoraggiati a entrare, volontà di andare sino in fondo, desiderio di raggiungere infine l’alto valico.

Non avevano forse percorso ancora un lungo tratto, ma tempo e distanza non erano ormai più entità misurabili, quando Sam tastando il muro sulla sua destra si accorse che vi era un’apertura: per un istante colse un lieve soffio di aria meno pesante, che però oltrepassarono subito.

«Qui c’è più di una galleria», sussurrò con grande sforzo: gli sembrò terribilmente difficile far accompagnare il respiro da qualche suono. «Non esiste certo altro posto più adatto agli Orchi di questo!».

In seguito, lui sulla destra e Frodo sulla sinistra, passarono altre tre o quattro aperture, alcune più grandi, altre assai strette; ma non vi era dubbio sulla via principale, poiché proseguiva dritta, senza mai una curva, su per il ripido pendio. Ma quanto tempo ancora avrebbero dovuto sopportare quel tormento, e come avrebbero potuto sopportarlo? Man mano che salivano, l’aria si faceva sempre più irrespirabile, e sovente parve loro di sentire nella cieca oscurità una resistenza più densa del fetido tanfo. Nell’inerpicarsi sentivano cose che sfioravano loro il capo o le mani, come lunghi tentacoli o penzolanti escrescenze vegetali: non riuscivano a distinguere chiaramente. E il lezzo diveniva più intenso. A tal punto che parve loro di non possedere altro che il senso dell’odorato, per poter meglio essere torturati. Un’ora, due ore, tre ore: quante ne erano trascorse in quel cieco buco? Ore… Piuttosto giorni o settimane. Sam si allontanò dalla parete e si accostò a Frodo, e le loro mani incontrandosi si afferrarono, e proseguirono così stretti insieme.

Infine Frodo, brancolando lungo la parete di sinistra, sentì improvvisamente un vuoto, e per poco non cadde nell’apertura. Questa era molto più larga di tutte le altre, ed emanava un fetore sì immondo ed un senso di malvagità occulta ma così intensa che Frodo vacillò. In quel medesimo istante anche Sam ondeggiò e cadde bocconi.

Lottando contro la nausea e la paura, Frodo afferrò la mano del compagno. «Su!», disse con un roco respiro atono. «Proviene tutto da qui il lezzo ed il pericolo. Scappiamo! Presto!».

Raccogliendo tutto ciò che vi era ancora in lui di forza e di volontà, riuscì a far alzare in piedi Sam e costrinse le proprie membra a muoversi. Sam avanzò barcollando. Un passo, due passi, tre passi…. infine sei passi. Forse perché avevano oltrepassato l’orrenda cavità, o forse per qualche altro motivo, improvvisamente si mossero con più facilità, come se l’ostile resistenza si fosse per un attimo affievolita. Avanzarono vacillando, tenendosi per mano. Ma quasi immediatamente incontrarono una nuova difficoltà: la galleria si divideva in due, ed al buio era impossibile discernere quale delle diramazioni fosse più ampia, o più diritta. Da che parte andare, a sinistra o a destra? Non vi era nulla che indicasse loro la giusta scelta, ed uno sbaglio sarebbe certo stato fatale.

«Che direzione ha preso Gollum?», disse Sam con voce affannosa. «Perché non ci ha aspettati?».

«Sméagol!», cercò di chiamare Frodo. «Sméagol!». Ma la sua voce gracchiò e si spense appena uscita dalle labbra. Non vi fu risposta, né eco, né vibrazione dell’aria.

«Se ne è andato davvero, questa volta», mormorò Sam. «Scommetto che questo è esattamente ciò che intendeva fare. Gollum! Se mai riesco a metterti le mani addosso, ti assicuro che la pagherai».

Poi, brancolando tentoni al buio, si accorsero che il passaggio di sinistra era ostruito: forse si trattava di una chiusura, o forse di qualche grosso macigno franato. «Non può essere questa la direzione», bisbigliò Frodo. «Giusta o no, dobbiamo prendere l’altra galleria».

«E presto!», balbettò Sam. «C’è qualcosa assai peggiore di Gollum nei paraggi. Ho la netta sensazione di essere osservato».

Avevano fatto appena qualche metro quando udirono alle loro spalle un orribile rumore raccapricciante squarciare il pesante e ovattato silenzio: un gorgoglio, un ribollire, un lungo sibilo velenoso. Si voltarono bruscamente, ma non videro nulla. Rimasero immobili come pietrificati, con lo sguardo fisso, aspettando chissà che cosa.

«È una trappola!», esclamò Sam, portando la mano all’elsa della spada; in quell’attimo gli tornò alla mente l’oscurità del tumulo donde essa proveniva. «Che cosa darei perché il vecchio Tom fosse qui con noi adesso!», pensò. Improvvisamente, mentre si ergeva in mezzo all’oscurità, col cuore invaso dalla più cupa rabbia e disperazione, gli parve di vedere una luce: una luce che brillava nella sua mente, quasi intollerabilmente luminosa da principio, come un raggio di sole agli occhi di chi è stato a lungo nascosto in un fosso senza fessure. Poi la luce divenne colore: verde, oro, argento, bianco. Lontanissima, come una miniatura disegnata da mani elfiche, scorse Dama Galadriel in piedi sull’erba di Lórien; in mano teneva dei doni. Per te infine, Portatore dell’Anello, la udì parlare, con voce remota ma chiara, per te ecco che cosa ho preparato.

Il sibilante gorgoglio si avvicinò, ed ora era accompagnato da un cigolare di giunture, come se qualche grande essere si muovesse lento ma sicuro nell’oscurità, preceduto da un terribile lezzo. «Padrone! Padrone!», gridò Sam, e la vita e la fretta tornarono nella sua voce. «Il dono della Dama! La fiala-stella! Disse che doveva essere per voi una luce nel buio. La fiala-stella!».

«La fiala-stella?», ripeté Frodo senza capire, come chi risponde nel sonno. «Ma sì! Come ho potuto dimenticarla? Una luce ove tutte le altre luci si spegnessero! Ed ora davvero soltanto la luce può aiutarci».

Lentamente si portò la mano al petto, e lentamente levò in alto la Fiala di Galadriel. Per un attimo scintillò fioca come una stella che sorge a fatica fra cupe nebbie, poi si fece più intensa, e la speranza crebbe nel cuore di Frodo, e la luce incominciò ad ardere, una fiamma argentea, un minuto fulgore abbacinante, come se Eärendil in persona fosse disceso dagli alti viali del tramonto con l’ultimo Silmaril in fronte. L’oscurità intorno si diradò, e parve che il bagliore risplendesse al centro di un globo di aereo cristallo, mentre la mano che lo reggeva sfavillava di fuoco bianco.

Frodo mirò strabiliato il meraviglioso dono che recava seco da tanto tempo, ignorandone il valore e la potenza. Di rado se ne era rammentato prima di giungere alla Valle di Morgul, e mai l’aveva adoperato, temendone la luce rivelatrice. Aiya Eärendil Elenion Ancalima! gridò, ma non comprese le parole pronunziate; gli parve che un’altra voce parlasse con la sua bocca, una voce limpida, inalterata dall’immonda aria della galleria.

Ma vi sono altre potenze nella Terra di Mezzo, forze della notte antiche ed indomate. E Colei che camminava nel buio aveva udito in tempi immemorabili gli Elfi gridare quel richiamo, ma allora come adesso era rimasta impassibile. Nel pronunziare le parole Frodo sentì una possente malvagità china su di lui, uno sguardo micidiale intento ad osservarlo. Poco più in giù nella galleria, fra loro e l’apertura ove avevano barcollato e inciampato, degli occhi apparvero: due grandi grappoli di occhi… La minaccia incombente era infine svelata. Il bagliore della fiala-stella si rifrangeva sulle loro mille sfaccettature, dietro alle quali incominciò ad ardere una pallida incandescenza micidiale, una fiamma avvampata nel più profondo abisso di un pensiero malefico. Mostruosi e abominevoli erano quegli occhi, bestiali eppur pieni di intento e d’ignobile delizia, di godimento alla vista delle prede intrappolate senza speranza di scampo.

* * *

Frodo e Sam, terrificati, retrocedettero lentamente, come ipnotizzati dallo spaventoso sguardo di quegli occhi foschi; ma mentre loro indietreggiavano gli occhi si facevano avanti. La mano di Frodo tremò, e la Fiala si curvò lentamente. Poi d’un tratto l’incantesimo si affievolì, onde lasciarli correre un breve attimo in preda a un vano panico per il divertimento degli occhi: ed essi si voltarono e fuggirono via insieme; ma mentre scappavano Frodo si girò e vide con terrore che gli occhi li seguivano veloci. La puzza di morte li avviluppava come una nube.

«Fermo! Fermo!», urlò disperatamente. «Correre non serve a nulla!».

Lentamente gli occhi avanzarono.

«Galadriel!», invocò e facendosi forza sollevò di nuovo in alto la Fiala. Gli occhi si arrestarono. Per un attimo allentarono la presa, come turbati da qualche dubbio. Allora una fiamma avvampò nel cuore di Frodo il quale, senza pensare a quel che faceva, follia, disperazione o coraggio, prese la Fiala nella mano sinistra, sguainando con la destra la spada. Pungolo lampeggiò e l’affilata lama elfica sfavillò nella luce argentea, ma i bordi ardevano di fuoco azzurro. Tenendo alta la stella e la luminosa spada puntata in avanti, Frodo, Hobbit della Contea, avanzò deciso verso gli occhi.

Essi vacillarono. Il dubbio li colse man mano che la luce si faceva più vicina. Si oscurarono uno per uno e retrocedettero lentamente. Nessun bagliore così micidiale li aveva mai colpiti. Lì sotto terra erano sempre stati al riparo dal sole, luna e stelle, ma ora una stella era penetrata sin nelle viscere della terra. Si avvicinava implacabile, e gli occhi non seppero resistere. Si spensero tutti, si distolsero, ed una grande massa fuori della portata della luce mosse la sua enorme ombra. Gli occhi scomparvero.

* * *

«Padrone, padrone!», gridò Sam. Era alle spalle di Frodo, pronto, con la spada sguainata. «Stelle e gloria! Gli Elfi comporrebbero una canzone se sapessero come si sono svolte le cose! Possa io vivere abbastanza per raccontarle loro e udirli cantare. Ma non andate oltre, padrone! Non scendete in quella tana! Questa è la nostra unica occasione di scampo. Usciamo da questo immondo buco!».

Tornarono dunque sui loro passi, prima camminando e poi di corsa; infatti man mano che avanzavano, la galleria saliva sempre più scoscesa, ed ogni passo li allontanava dal lezzo della sotterranea tana e infondeva vigore nel loro cuore e nelle loro membra. Ma l’odio dell’Osservatore li perseguiva incessantemente, cieco forse per un attimo, ma invitto e avido di morte. All’improvviso un soffio d’aria venne loro incontro, esile e freddo. L’apertura, la fine della galleria era infine innanzi a loro. Affannosi, assetati d’aria libera, si lanciarono in avanti; poi stupefatti barcollarono e caddero all’indietro. L’uscita era ostruita da una barriera, ma non di pietra: pareva soffice e leggermente elastica, eppure resistentissima e impervia; lasciava filtrare l’aria, ma nessun raggio di luce. Partirono di nuovo alla carica, e di nuovo furono respinti.

Tenendo alta la Fiala, Frodo vide innanzi a sé un grigiore opaco che la luminosità della stella non penetrava, come un’ombra non proiettata da una luce, che quindi nessuna luce poteva diradare. Da un lato all’altro e dal soffitto al pavimento si stendeva un’immensa ragnatela, tessuta forse da un enorme ragno, ma più fitta e assai più grande e dai fili grossi come corde.

Sam rise sarcasticamente. «Ragnatele!», esclamò. «Tutto qui? Ragnatele! Ma che ragno! Via, distruggiamole!».

Brandì con la spada un colpo furioso, ma il filo colpito non si ruppe. Cedette leggermente per poi rimbalzare, come la corda di un arco, e lanciare in alto spada e braccio. Tre volte Sam vibrò colpi furibondi, ed infine una sola delle innumerevoli corde scoccò e si contorse sibilando e fendendo l’aria. Una delle estremità sferzò la mano di Sam che urlò di dolore, e balzò indietro portandosi la mano alla bocca.

«Ci vorranno giorni interi per aprirci un varco», disse. «Che cosa possiamo fare? Gli occhi sono tornati?».

«No, non si vedono», rispose Frodo. «Ma ho ancora la netta sensazione che mi stiano osservando, O comunque pensando a me: forse intenti a preparare qualche altro piano. Se questa luce si affievolisse o si spegnesse, tornerebbero immediatamente».

«Intrappolati proprio alla fine!», disse Sam con voce amareggiata, mentre la collera prendeva di nuovo il sopravvento sulla stanchezza e la disperazione. «Moscerini prigionieri d’una rete. Possa la maledizione di Faramir cadere su Gollum, e al più presto!».

«Ciò non ci aiuterebbe, ora come ora», disse Frodo. «Vieni! Vediamo che cosa sa fare Pungolo. È una lama elfica. Vi erano ragnatele d’orrore nelle scure gole di Beleriand ove fu forgiata. Ma tu devi fare la guardia e tener lontani gli occhi. Tieni, prendi la fiala-stella. Non temere. Reggila in alto e sorveglia!».

* * *

Allora Frodo si avvicinò alla grande ragnatela e brandì un violento colpo, passando rapida l’affilata lama su di un’infinità di corde tese e poi balzando indietro immediatamente. Il bagliore azzurro le squarciò come una falce nell’erba, ed esse rimbalzarono, si arrotolarono, per poi penzolare giù lasciando un’ampia fessura.

Con un colpo dopo l’altro riuscì infine a infrangere tutto ciò che si trovava alla portata della sua spada, mentre la parte superiore ondeggiava e pendeva come un leggero velo in preda a un forte vento. La trappola era aperta.

«Coraggio!», gridò Frodo. «Avanti! Avanti!». La loro fuga dall’orlo della disperazione empì improvvisamente tutto il suo essere di folle gioia. La testa gli girò come in preda all’ebbrezza di un vino potente. Balzò fuori gridando.

Parve luminosa la buia campagna, ai suoi occhi passati attraverso il più cupo della notte. Le grandi nebbie si erano alzate e diradate, e le ultime ore di un fosco giorno stavano morendo; il rosso incandescente di Mordor si era spento nelle tetre tenebre. Eppure a Frodo sembrò di mirare un’alba di subitanea speranza. Aveva quasi raggiunto la sommità del muro. Poco più in alto e poi… la fessura, Cirith Ungol, innanzi a lui come uno spacco nella nera cresta, e le due corna di roccia sempre più oscure nel cielo da ambedue le parti. Una breve corsa, uno scatto finale, e avrebbe varcato il confine!

«Il valico, Sam!», gridò, noncurante dell’acutezza della propria voce che ora, fuori dell’aria soffocante della galleria, risonava alta e concitata. «Il valico! Corri, corri, e saremo dall’altra parte prima che ci possano fermare!».

Sam lo seguiva con tutta la velocità di cui erano ancora capaci le sue gambe; ma nonostante la sua gioia di essere libero, si sentiva inquieto, e mentre correva lanciava continuamente sguardi in direzione della scura imboccatura della galleria nel timore di scorgere occhi e qualche mostruosa figura saltarne fuori per inseguirli. Ignari, ahimè, tanto lui quanto Frodo, del potere di Shelob! Molti erano gli usci della sua tana.

* * *

Essa dimorava lì da tempi immemorabili, malefico essere a forma di ragno, lo stesso che anticamente errava nella Terra degli Elfi in quell’Occidente ormai sommerso dal Mare, lo stesso contro il quale lottò Beren nei Monti del Terrore a Doriath, e che poi in un remoto chiaro di luna si recò a Lùthien sull’erba verde fra le cicute. Nessuna storia narra in che modo, fuggendo dalla rovina, Shelob fosse giunta lì: pochi sono i racconti tramandati dagli Anni Oscuri. Eppure era ancora in quel luogo, colei che vi era arrivata prima di Sauron, prima che fosse posta la prima pietra di Barad-dûr; e non serviva altri che se stessa, bevendo avidamente il sangue di Elfi e Uomini, grassa e gonfia per via dell’interminabile rimuginare i suoi banchetti, tessendo ragnatele d’ombra; ogni essere vivente era il suo cibo, e il suo vomito era oscurità. Le sue orride covate, bastardi dei miserevoli maschi, della propria progenie che uccideva, si erano disperse a destra e a sinistra, fra monti e valli, dall’Ephel Dùath ai colli orientali, sino a Dol Guldur e alla fortezza del Bosco Atro. Ma nessuno poteva rivaleggiare con lei, Shelob la Grande, ultima figlia di Ungoliant, nel tormentare il mondo infelice.

Già molti anni addietro Gollum l’aveva veduta, quello Sméagol che scrutava tutti i buchi neri, e si era inchinato innanzi ad essa, adorandola; e l’oscurità della sua malvagia volontà l’aveva accompagnato ovunque durante il suo stanco cammino, allontanando da lui ogni luce ed ogni rimorso. E Gollum le aveva promesso del cibo. Ma essi non amavano le medesime cose: poco importavano a lei torri, anelli, ed altri oggetti costruiti dalla mente o dalla mano; essa non desiderava altro che la morte dell’altrui mente e corpo, e per se stessa vita a sazietà, sola, e gonfia finché né le montagne né l’oscurità l’avrebbero più potuta contenere.

Ma quel desiderio era ancor lungi dall’avverarsi, e da tempo ormai essa era affamata laggiù nel suo covo, mentre la potenza di Sauron si ingigantiva e luce ed esseri viventi abbandonavano le sue terre; la città nella valle era morta, Elfi e Uomini mai vi si avvicinavano, soltanto gli infelici Orchi. Cibo scarso e poco nutriente. Ma essa doveva mangiare, e malgrado costruissero sempre nuove e sinuose gallerie dal valico e dalla torre, Shelob trovava modo di afferrarli. Ma desiava ardentemente carne più dolce. E Gollum gliel’aveva portata.

«Vedremo, vedremo», si ripeteva spesso, quando era di cattivo umore, nel percorrere la perigliosa via dall’Emyn Muil alla Valle di Morgul, «vedremo. È probabile, oh sì, è assai probabile che quando Lei getterà via le ossa e le vesti vuote, noi lo troveremo, e sarà tutto nostro il Tesoro, una ricompensa per povero Sméagol che porta cose buone da mangiare. E salveremo, come promesso, il nostro Tesoro. Oh sì. E quando l’avremo bene al sicuro, allora Lei lo saprà, oh sì, e gliela faremo pagare, tesoro mio. Allora tutti pagheranno!».

Così si diceva in un recondito angolo della sua astuta mente, che sperava ancora di tenerle nascosto, anche dopo essere tornato da Lei ed averla riverita durante il sonno dei suoi compagni.

Quanto a Sauron, sapeva perfettamente dove fosse il suo covo. Era contento ch’Essa vivesse lì affamata ma indomita nella sua malvagità: sarebbe stato difficile ad altri che a lui immaginare un guardiano più sicuro per quell’antico ingresso nella sua terra. E gli Orchi erano certo utili schiavi, ma ne aveva in abbondanza. Se di tanto in tanto Shelob li utilizzava per appagare la propria fame, tanto meglio: Sauron poteva farne a meno. E a volte, come il padrone che dà al gatto una leccornia, le inviava prigionieri che non sapeva come meglio adoperare: li faceva condurre sino alla tana, ed esigeva rapporti che descrivessero in che modo il mostro avesse giocherellato con le prede.

Così vivevano ambedue, deliziandosi di ogni nuovo artifizio, senza temere assalti, né collere, né fine alla loro malvagità. Mai una mosca era sfuggita alla rete di Shelob, e mai come adesso era stata furiosa e affamata.

* * *

Ma Sam non sapeva nulla di tutta la malvagità che si era destata e inveiva contro di loro: sentiva solo la paura crescere, insieme con una minaccia che non riusciva a discernere; si fece talmente pesante il fardello di codesta angoscia, che gli riusciva pressoché impossibile correre con dei piedi che parevano di piombo.

Il terrore era tutt’intorno, i nemici innanzi nel valico, ed il suo padrone colto da frenesia euforica correva loro incontro. Distogliendo gli occhi dall’ombra dietro di sé e dalle profonde tenebre sotto la rupe alla sua sinistra, guardò avanti, e vide due cose che ingigantirono il suo spavento. Vide che la spada ancor sguainata di Frodo scintillava di luce azzurra, e vide che nonostante il cielo intero fosse ormai buio, la finestra nella torre era ancora rossa e incandescente.

«Orchi!», balbettò. «Non ce la faremo mai correndo così! Ci sono Orchi in giro, e peggio che Orchi». Poi ritornando velocemente alle vecchie abitudini di segretezza, chiuse il pugno intorno alla preziosa Fiala che stringeva ancora in mano. Il suo sangue risplendette rosso per un attimo, prima che riponesse la luce rivelatrice nel fondo di una tasca sul petto, avviluppandosi nell’elfico manto. Poi tentò di accelerare il passo. Stava perdendo strada: il suo padrone era già ormai a una ventina di passi di distanza, e saettava via come un’ombra; presto l’avrebbe perduto di vista in mezzo a tanto grigiore.

* * *

Sam aveva appena nascosto la luce della Fiala quando Shelob comparve. Un po’ più avanti sulla sinistra scorse improvvisamente uscire da un nero buco d’ombra sotto la rupe la forma più abominevole che mai avesse veduta, più orribile del peggiore degli incubi. Assai simile a un ragno, ma più immensa dei grandi animali da preda, e molto più terribile a causa del malvagio intento che covava nei suoi occhi senza rimorso. Quei medesimi occhi che Sam credeva spauriti e sconfitti, si riaccendevano ora d’una luce crudele, incastrati nella testa proiettata in avanti. Aveva grandi corna, e dietro al tozzo e corto collo ondeggiava il suo immenso corpo gonfio, un immenso tumido sacco straripante fra le sue gambe; era una massa nera, macchiata di segni lividi, ma la parte inferiore, pallida e luminosa, emanava un orrendo fetore. Curve le gambe dalle enormi giunture nodose, e come spine d’acciaio i peli irsuti, ed un artiglio all’estremità di ogni membro.

Non appena ebbe spremuto il molle corpo e le gambe ricurve per estrarsi dall’uscita superiore della sua tana, Shelob si mosse con atroce velocità, correndo sulle scricchiolanti membra e balzando a volte improvvisamente. La sua massa separò Sam dal suo padrone. Forse non vide Sam, forse lo evitò per il momento quale portatore della luce; inseguì invece un’unica preda, Frodo, il quale correva incauto su per il sentiero, privo della sua Fiala, ignaro del pericolo. Correva rapido, ma Shelob era più veloce; pochi balzi e l’avrebbe raggiunto.

Sam raccolse tutto il fiato dei propri polmoni per urlare. «Guardatevi le spalle!», gridò. «Attento, padrone! Sto…», ma la sua voce fu d’un tratto soffocata.

Una lunga mano vischiosa gli chiuse la bocca e un’altra gli afferrò il collo, mentre qualcosa si avvinghiava alle sue gambe. Colto di sorpresa, cadde all’indietro nelle braccia dell’aggressore.

«Preso!», gli sibilò Gollum nell’orecchio. «Infine, tesoro mio, lo abbiamo preso, sssì, il cattivo Hobbit. Noi ci occupiamo di questo. Lei se la vedrà con l’altro. Oh sì, sarà Shelob a prenderlo, non Sméagol: Sméagol ha promesso, non farà male a Padrone. Ma a te ti ha preso, lurido, cattivo, piccolo, infido!». Sputò sul collo di Sam.

Furia per il tradimento e disperazione per il ritardo nel momento in cui il suo padrone correva un pericolo mortale, empirono Sam d’una violenza e d’una forza improvvisa, che mai Gollum avrebbe pensato trovare in quel lento e stupido Hobbit. Gollum stesso non si sarebbe svincolato con maggiore rapidità e furore. La mano gli sfuggì dalla bocca di Sam, il quale si proiettò in avanti tentando di liberarsi dalla morsa al collo. Teneva ancora in mano la spada, ed appeso al braccio sinistro il bastone donato da Faramir. Cercò disperatamente di voltarsi e falciare il nemico. Ma Gollum fu troppo veloce. In un baleno il suo lungo braccio destro afferrò il polso dell’Hobbit, stringendolo come una tenaglia; piano ma inesorabilmente curvò in avanti la mano, finché con un grido di dolore Sam lasciò cadere la spada; nel frattempo l’altra mano di Gollum lo strangolava lentamente.

Allora Sam giocò l’ultima carta. Con un brusco movimento si liberò leggermente e piantò solidamente i piedi sul terreno; poi d’un tratto spinse con tutte le forze proiettandosi all’indietro.

Poiché non si aspettava nemmeno un così semplice stratagemma da parte di Sam, Gollum precipitò sulla schiena ed il peso del robusto Hobbit gli piombò sullo stomaco. Emise un acuto sibilo e per un attimo allentò la presa intorno al collo di Sam, stringendogli però sempre freneticamente la mano destra. Sam balzò in piedi roteando veloce verso destra, intorno al polso stretto da Gollum. Afferrando allora il bastone con la mano sinistra, lo levò in aria, vibrando poi una scudisciata sibilante sul braccio che lo teneva prigioniero, poco più in giù del gomito.

Con un urlo Gollum lasciò la presa. Allora Sam si lanciò: senza perdere tempo a cambiare il bastone di mano, brandì un altro terribile colpo. Rapido come un serpente Gollum sgusciò via ed, invece di colpirgli la testa, il legno gli piombò sulla schiena. Il bordone scricchiolò e si ruppe. La lezione fu però sufficiente. Sorprendere dalle spalle era un vecchio trucco di Gollum, raramente fallito. Ma questa volta, sopraffatto dagli antichi rancori, aveva commesso l’errore di parlare e gongolare prima di aver ben salda fra le due mani la gola della vittima. Tutto il suo bel piano era andato male dal momento in cui, nel più fitto dell’oscurità, era apparsa inattesa quella orribile luce. Ed ora si trovava a faccia a faccia con un nemico furibondo, poco più piccolo di lui. Questa lotta non gli si confaceva. Sam, con un ampio gesto, sollevò la spada; Gollum mandò uno strillo acuto, e saltando da una parte fuggì via carponi con balzi di rana. Prima che Sam potesse colpirlo egli correva già con rapidità stupefacente in direzione della galleria.

L’Hobbit lo inseguì brandendo la spada. Per un attimo aveva obliato ogni cosa, accecato da una furia cocente e dal desiderio irrefrenabile di uccidere Gollum. Ma questi scomparve prima che riuscisse a raggiungerlo. Allora, in piedi davanti al foro nero, odorando il fetido lezzo, Sam fu colpito come da un fulmine: il pensiero di Frodo e del mostro. In un baleno si voltò, precipitandosi su per il sentiero, chiamando ripetutamente il padrone. Ma era troppo tardi. Sinora il piano di Gollum era riuscito.

CAPITOLO X MESSER SAMVISE E LE SUE DECISIONI

Frodo giaceva supino per terra, e il mostro era chino su di lui, sì intento al lavoro che non fece caso a Sam e alle sue grida. Questi, arrivando di corsa, vide il padrone legato da corde che lo avvolgevano dalle spalle alle caviglie; il mostro stava incominciando a sollevarlo con gli arti anteriori, nel tentativo di trascinare seco il corpo.

In terra, scintillante, giaceva la spada elfica, inutilizzata. Sam non perse tempo a domandarsi che cosa dovesse compiere, se un atto di coraggio, di lealtà o di collera. Balzò avanti con un urlo e afferrando con la mano sinistra la spada di Frodo, partì all’assalto. Nemmeno nel selvaggio mondo delle bestie si era mai visto un attacco così feroce, pari a quello di una piccola creatura disperata e armata dei soli denti, decisa ad atterrare una massa di corno e di pelle, china sul compagno caduto.

Disturbata nel suo sogno gongolante dal piccolo grido, Shelob volse lentamente l’immonda malvagità del suo sguardo verso di lui. Ma prima che si accorgesse di essere assalita da un furore ineguagliato nel corso dei lunghi anni passati, la lucente spada le morse il piede, amputandone l’artiglio. Sam con un salto fu dentro, fra gli archi dei tentacoli, e levando con violenza e rapidità l’altra mano, colpì gli occhi che si affacciavano nella testa curva. Uno di essi si spense.

Ora il piccolo essere miserevole era sotto il mostro, momentaneamente fuori della portata dei suoi artigli. L’immensa pancia lo dominava con la sua putrida luce, e il lezzo lo fece quasi venir meno. Tuttavia la sua furia lo sostenne, infondendogli vigore per un altro colpo, e prima che Shelob riuscisse a sommergerlo con la sua massa, soggiogandolo insieme con la sua piccola impudenza, la luminosa spada elfica la colpì con forza disperata.

Ma Shelob non era come i draghi, e non possedeva altro punto delicato che gli occhi. Piena di fossi, di bozzi e di putridume era la sua vecchissima pelle, ma protetta all’interno da innumerevoli spessori di orrendi tumori. La lama aprì un terribile squarcio, ma era impossibile trafiggere quelle coriacee pieghe, anche con una spada forgiata da Elfi o da Nani e brandita dalla mano di Beren o di Tulin. Dopo aver ricevuto il colpo, sollevò l’enorme sacca del suo ventre in alto sopra la testa di Sam. Schiuma e bolle di veleno sgorgavano dalla ferita. Poi, divaricando i tentacoli, piombò di nuovo con tutta la sua massa addosso al nemico. Troppo presto. Sam era ancora in piedi, ed aveva lasciato la sua spada per tenere con ambedue le mani la spada elfica puntata verso l’alto contro lo spaventoso soffitto. E così Shelob, con tutta la potenza del proprio malvagio volere, con una forza più immane di quella di un guerriero, si lanciò su di una punta aguzza. Profonda, sempre più profonda s’immerse, e Sam lentamente fu costretto ad accasciarsi in terra.

Mai Shelob aveva sopportato o immaginato un si atroce tormento, in tanti lunghi anni di malefici. Né il più valoroso dei soldati di Gondor, né il più selvaggio degli Orchi intrappolati era mai riuscito a resisterle o a ferire la sua adorata carne. Un brivido la percorse. Sollevandosi di nuovo, allontanando il dolore, curvò sotto di sé i tentacoli e balzò indietro con movimento convulso.

Sam era caduto in ginocchio accanto alla testa di Frodo, in preda alle vertigini per via del lezzo, ma stringendo ancora con ambedue le mani l’elsa della spada. Attraverso la nebbia che gli appannava gli occhi intravide confusamente il volto di Frodo, e lottò con ostinazione per vincere la debolezza e trascinarsi fuori dal deliquio che lo assaliva. Pian piano sollevò il capo, e la vide, a pochi passi di distanza, che lo adocchiava, con un rigagnolo di veleno gocciolante dalla bocca e un liquido verde sgorgante dall’occhio ferito. Poi si acquattò, con la pancia percorsa dai tremiti, schiacciata contro terra, i grandi tentacoli vibranti, pronta ad attaccare di nuovo… e questa volta pronta a mordere e a sopraffare: non un piccolo morso per acquietare i fremiti delle sue carni, bensì la volontà di uccidere e lacerare.

Mentre Sam accovacciato la osservava, leggendole negli occhi la propria morte, gli balenò in mente un pensiero, come pronunciato da una voce remota, e frugando con la mano sinistra scoprì quel che cercava: fredda, dura e solida gli sembrò in quello spettrale mondo d’orrore la Fiala di Galadriel.

«Galadriel!», disse fiocamente; allora udì voci lontane ma limpide, il canto di Elfi vaganti sotto le stelle fra le beneamate ombre della Contea, la musica di Elfi che cullava il suo sonno nella Sala del Fuoco, nella dimora di Elrond.

Gilthoniel o Elbereth!

E poi, come per incanto, la sua lingua si sciolse, ed in un idioma ignoto la sua voce invocò:

A! Elbereth Gilthoniel

o menel palan-diriel,

le nallon si di’nguruthos!

A tiro nin, Fanuilos!

E gridando queste parole si alzò barcollante e fu di nuovo Samvise l’Hobbit, figlio di Ham.

«Vieni, lurida bestia!», urlò. «Hai ferito il mio padrone, bruto, e la pagherai. Noi andremo avanti, ma prima regoleremo i conti con te. Vieni, e assaggia di nuovo questa spada!».

Come se lo spirito indomato ne avesse rinforzato la potenza, la Fiala avvampò improvvisamente come una fiamma bianca nella sua mano. Irradiava il bagliore di una stella fuggita dal firmamento che fende l’oscurità con indomabile fulgore. Mai un simile terrore piombato dal cielo aveva bruciato con tanta forza la faccia di Shelob. I raggi le trafiggevano la testa ferita lacerandola con intollerabile dolore, mentre la spaventosa infezione di luce dilagava da un occhio all’altro. Cadde all’indietro brancolando freneticamente con i tentacoli anteriori, abbacinata da lampi interni, agonizzante. Poi, distogliendo la testa storpiata, rotolò da una parte, e incominciò a strisciare, un artiglio dopo l’altro, verso l’apertura nella roccia dalla quale era uscita.

Sam avanzò. Vacillava come un ubriaco, ma avanzava. E Shelob infine domata, sconfitta, fremeva e tremava cercando di sfuggirgli. Raggiunto il buco vi si infilò comprimendo la massa informe, lasciando un rivo di melma giallognola, mentre Sam vibrava un ultimo colpo contro le brancolanti gambe, prima di stramazzare in terra.

* * *

Shelob era scomparsa; e questa storia non narra se nei lunghi anni d’oscurità a venire, covando e leccando piaghe e miseria nel fondo del suo covo, sia riuscita a guarirsi, a riprodurre gli occhi accecati, per poi ricominciare a tessere le sue orride trame nelle Montagne dell’Ombra, affamata come la morte.

Sam rimase solo. Sfinito, mentre la sera della Terra Innominata calava sul campo di battaglia, tornò carponi verso il suo padrone.

«Padrone, caro padrone», disse; ma Frodo non rispose. Mentre correva avanti, ansioso, felice di esser libero, Shelob l’aveva raggiunto con terribile rapidità, colpendolo al collo con uno dei suoi artigli. Ora giaceva in terra, pallido, immobile, muto.

«Padrone, caro padrone!», ripeté Sam, tendendo invano l’orecchio per un lungo silenzioso momento.

Allora si mise a tagliare quanto più presto poteva le corde che legavano Frodo, poggiando il capo sul suo petto e sulla sua bocca: ma non percepì alcun soffio di vita, né alcun flebile tremito del cuore. Gli sfregò più volte mani e piedi, gli toccò la fronte, ma rimasero gelidi.

«Frodo, signor Frodo!», invocò. «Non mi lasciate qui solo! È il vostro Sam che vi chiama. Non andate dove io non vi posso seguire! Svegliatevi, signor Frodo! Oh, per favore, svegliatevi, signor Frodo, povero me, povero me! Svegliatevi!».

* * *

Allora, sopraffatto dalla collera, si alzò, correndo freneticamente intorno al corpo del padrone, fendendo l’aria con tremendi colpi di spada, assalendo le pietre, urlando parole di sfida. Poi tornò accanto a Frodo, e chinandosi gli osservò il volto, pallido nel crepuscolo; d’un tratto si accorse di trovarsi nell’immagine rivelatagli dallo Specchio di Galadriel a Lórien: Frodo bianco e smunto giaceva profondamente addormentato ai piedi d’una grande rupe scura. O almeno allora aveva creduto che fosse solo addormentato. «È morto!», disse. «Non dorme, è morto!». E nel dire ciò, come se le parole avessero avviato l’azione del veleno, gli parve che il volto diventasse verde e livido.

Allora fu colto dalla più nera disperazione, e si accasciò in terra, coprendosi il capo con l’elfico cappuccio, mentre la notte invadeva il suo cuore: non comprese più nulla.

* * *

Quando infine le tenebre della sua mente si diradarono, Sam levò il capo e vide intorno a sé un mondo d’ombra; ma quanti minuti o quante affannose ore fossero trascorse, non avrebbe saputo dirlo. Era ancora lì nel medesimo posto, ed accanto a lui il suo padrone morto giaceva ancora. I monti non erano divenuti polvere, ed il mondo non era sprofondato.

«Che posso fare, che devo fare?», si disse. «Sono dunque giunto sin qui con lui inutilmente?». In quell’attimo gli parve di udire nuovamente la propria voce pronunziare parole che allora, al principio del viaggio, non aveva comprese. Ho qualcosa da fare prima della fine. Devo andare avanti sino in fondo, non so se mi spiego, signore.

«Ma che cosa posso fare? Non certo lasciare il signor Frodo morto, senza sepoltura in cima a una montagna, e tornarmene a casa, O proseguire? Proseguire?», ripeté, e per un attimo fu scosso da un tremito di paura e di dubbio. «Proseguire? È dunque questo il mio compito? E dovrei lasciarlo qui?».

Allora si mise a piangere; accostandosi a Frodo ne allungò il corpo, piegandogli le fredde mani sul petto, avvolgendolo nel manto; gli depose accanto la propria spada e il bastone donatogli da Faramir.

«Se devo andare avanti» disse, «allora, col vostro permesso, ho bisogno di prendervi la spada, signor Frodo; ma al vostro fianco depongo quest’altra, che giaceva accanto al vecchio re nel tumulo; e poi avete la bella cotta di maglia mithril del signor Bilbo. E la fiala-stella, signor Frodo, me l’avete prestata e ne avrò bisogno, perché ormai sarò sempre nell’oscurità. È troppo preziosa per me, e Dama Galadriel la donò a voi, ma forse comprenderà. Mi capite voi, nevvero, signor Frodo? Devo andare avanti».

* * *

Ma non poteva andarsene, non ancora. S’inginocchiò e prese la mano di Frodo nella sua, incapace di lasciarla. E il tempo passava, ed egli era sempre lì in ginocchio, stringendo la mano del padrone, mentre nel suo cuore si svolgeva una battaglia.

Cercò di trovare la forza sufficiente per strapparsi da lì e partire per un viaggio solitario… verso la vendetta. Una volta in marcia la sua collera l’avrebbe condotto all’inseguimento per tutte le vie del mondo, sino al momento in cui avrebbe raggiunto colui che cercava: Gollum. E quella per Gollum sarebbe stata l’ora della morte. Ma non era quello lo scopo del suo vagare, non sarebbe valsa la pena abbandonare per quello il padrone, non l’avrebbe riportato in vita. Nulla lo poteva far rivivere. Forse era meglio che morissero ambedue. Ed anche quello sarebbe stato un lungo viaggio solitario.

Guardò la lucente punta della spada. Pensò ai luoghi ove una rupe nera si affacciava sul vuoto di uno strapiombo. Ma non vi era scampo in quel modo. Sarebbe stato un atto vano, più vano del pianto. Non per quello era partito. «Ma allora che cosa devo fare?», gridò di nuovo, ed ora gli parve di conoscere esattamente la risposta crudele: andare sino in fondo. Un altro viaggio solitario, il peggiore.

«Come? Io, solo, andare alla Voragine del Fato e tutto il resto?». Esitava ancora, ma il suo intento si rinforzava. «Come? Io togliere l’anello dalla sua mano? Il Consiglio lo affidò a lui».

Ma la risposta giunse immediata: «Ed il Consiglio gli diede dei compagni, affinché la missione non fallisse. E tu sei l’ultimo della Compagnia: la missione non deve fallire».

«Se soltanto non fossi io l’ultimo!», gemette. «Che cosa darei perché Gandalf o qualcun altro fosse qui! Perché mi lasciano qui solo con questa terribile decisione da prendere? Sono certo di sbagliare. E poi non tocca a me prendere l’Anello, farmi avanti».

«Ma non ti stai facendo avanti; sei stato spinto in avanti. In quanto a non essere la persona adatta, nemmeno il signor Frodo era proprio quel che si potrebbe definire la persona più indicata, e nemmeno il signor Bilbo. Non furono loto a decidere».

«Ebbene, io invece devo decidere. E deciderò. Ma sono convinto che commetterò un errore: tipico di Sam Gamgee.

«Riflettendo bene: se ci trovano qui, o se trovano il signor Frodo, e quel Coso è infilato al suo dito, il Nemico se ne impadronirà. E sarebbe la fine per tutti noi, per Lórien, per Gran Burrone, per la Contea e tutto il resto. E non c’è tempo da perdere, altrimenti sarà ugualmente la fine. La guerra è incominciata, e vi sono molte probabilità che sin da ora la sorte arrida al Nemico. Assolutamente impossibile, dunque, tornare indietro col Coso per domandare consiglio o permesso. No, si tratta di sedere qui ad aspettare che mi vengano a uccidere sul corpo del padrone e si prendano l’Anello; oppure prenderlo io e partire». Trasse un profondo respiro. «Allora lo prendo io!».

* * *

Si curvò, e con estrema dolcezza aprì il fermaglio che stringeva la tunica intorno al collo di Frodo, infilandovi la mano; poi, sollevando con l’altra mano il capo, depose un bacio sulla gelida fronte e tirò delicatamente fuori la catenella. E il capo riposò di nuovo immobile e nessun fuggevole cambiamento apparve sul volto tranquillo: fu questo il segno che più di ogni altro convinse Sam che Frodo era davvero morto, abbandonando la missione.

«Addio, padrone adorato!», mormorò. «Perdonate il vostro Sam. Tornerà in questi luoghi a lavoro finito…, se assolverà il suo compito. Allora non vi abbandonerà mai più. Riposate tranquillo finché torno; che nessuna creatura malvagia venga a disturbarvi! E se la Dama potesse udirmi e realizzare un mio desiderio, mi farebbe tornare qui a ritrovarvi. Addio!».

Poi, chinando il capo, si passò la catena intorno al collo, e il peso dell’Anello lo curvò quasi sino a terra, come se gli avessero appeso un pesante macigno. Ma lentamente il fardello si alleggerì, o un nuovo vigore avvampò in lui, e riuscì a raddrizzare la testa, ad alzarsi faticosamente in piedi, scoprendo di essere capace di camminare e di sopportare il fardello. Per un attimo allora estrasse la Fiala, mirando un’ultima volta il suo padrone, e la luce ora brillava dolcemente col caldo fulgore della stella del vespro in estate; ed il viso di Frodo era di nuovo splendido, pallido ma bello, con qualcosa di elfico, come il volto di colui che ormai da tempo è fuori delle ombre. E con l’amaro conforto di quell’ultima immagine Sam si volse e dopo aver nascosto la luce s’avviò barcollante nella notte sempre più fitta.

* * *

Non aveva molta strada da fare. La galleria era poco più indietro; il Valico, circa duecento metri più avanti, o anche meno. Nel buio del vespro si riusciva ancora a distinguere il sentiero, un profondo solco corroso dagli anni, che saliva in leggero pendio attraverso una gola sovrastata a destra e a sinistra da pareti rocciose. Questa divenne sempre più stretta, e infine Sam giunse innanzi a una lunga rampa di ampi e bassi gradini. La torre degli Orchi si ergeva adesso proprio sul suo capo, nera e minacciosa col suo occhio incandescente. Le scure ombre che le lambivano i piedi nascondevano l’Hobbit, il quale arrivò infine in cima alle scale, all’interno dello spiraglio nella cresta.

«Ho deciso», continuava a ripetersi. Ma non era vero. Nonostante avesse fatto del suo meglio per riflettere, ciò che stava facendo era del tutto in contrasto con la sua natura. «Ho dunque sbagliato?», mormorò. «Che cosa avrei dovuto fare?».

Mentre le pareti del Valico gli si chiudevano intorno, prima di raggiungere la vera e propria sommità, prima di posare infine lo sguardo sul sentiero che l’avrebbe condotto nella Terra Innominata, Sam si voltò. Per un momento, paralizzato dall’intollerabile dubbio, scrutò il paesaggio alle proprie spalle. Scorgeva ancora, nelle tenebre ormai fitte, l’ingresso della galleria; e gli parve di vedere o d’indovinare il punto in cui giaceva Frodo. Era come se il terreno laggiù brillasse fiocamente, ma forse si trattava soltanto d’uno scherzo delle lacrime che sgorgavano abbondanti mentre osservava quell’altipiano roccioso ove la sua vita intera era stata distrutta.

«Se soltanto si avverasse il mio desiderio, il mio ultimo desiderio!», sospirò. «Poter tornare e ritrovarlo!». Poi finalmente si volse verso il cammino che lo attendeva e fece qualche passo: i più penosi e riluttanti della sua vita.

* * *

Solo pochi passi; pochi altri passi e non avrebbe mai più riveduto quell’altipiano. Improvvisamente, udì voci e grida. Rimase immobile, come pietrificato. Voci d’Orchi, dietro e davanti. Rumore di passi affrettati e di rochi richiami: gli Orchi stavano risalendo il Valico dall’altra parte, forse provenienti da qualche porta della torre. Passi e urla alle sue spalle. Si voltò in un baleno. Vide piccole luci rosse, fiaccole, lampeggiare in lontananza uscendo dalla galleria. Era incominciato infine l’inseguimento. L’occhio rosso della torre non era cieco. Sam era in trappola.

Il bagliore delle torce che si avvicinavano e il vibrare d’acciaio innanzi a lui erano ormai a pochi passi. In un attimo avrebbero raggiunto la cima, piombando su di lui. Aveva impiegato troppo tempo per prendere una decisione, e adesso era troppo tardi. Come poteva fuggire, salvarsi, salvare l’Anello? L’Anello. Non fu né un pensiero né una scelta; si accorse semplicemente che aveva estratto la catenella e preso in mano l’Anello. I primi Orchi apparvero nel Valico. Allora se lo infilò al dito.

* * *

Il mondo si tramutò, ed un solo attimo di tempo si empì di un’ora di riflessione. Si accorse subito che il suo udito era più acuto e la vista più debole, ma non come era avvenuto nella tana di Shelob. Ogni cosa intorno a lui non era scura bensì vaga, indistinta; e lui, in quel grigio mondo nebuloso, solo, pareva una piccola roccia nera e solida, e l’Anello che trascinava col suo peso la mano sinistra verso il basso, come un globo d’oro ardente. Non si sentiva per nulla invisibile, ma orribilmente e opacamente visibile: sapeva che da qualche parte un Occhio lo cercava alacremente.

Udiva lo scricchiolio delle pietre, e il mormorare delle acque giù nella Valle di Morgul, e nel profondo della roccia la viscida disperazione di Shelob, brancolante, persa in qualche cieco corridoio e le voci nei sotterranei della torre, e le grida degli Orchi prorompenti dalla galleria; assordante per le sue orecchie il fragore dei piedi e il frastuono di Orchi innanzi a lui. Indietreggiò schiacciandosi contro la rupe. Ma essi avanzavano marciando come un esercito fantasma, immagini grigie e distorte nella nebbia, semplici sogni di terrore che agitavano pallide fiammelle. Lo oltrepassarono. Sam si rannicchiò, cercando di strisciare verso qualche fessura e di nascondersi.

Tese l’orecchio. Gli Orchi provenienti dalla galleria e gli altri discesi dal valico, dopo essersi riconosciuti, si affrettavano gridando. Li udiva tutti distintamente, e comprendeva ciò che dicevano. Forse l’Anello conferiva virtù di linguaggio, in particolar modo trattandosi di idiomi dei servi di Sauron, l’artefice. Stando bene attento, l’Hobbit riusciva a capire e a tradurre nella propria lingua. Certo, la potenza dell’Anello era enormemente cresciuta avvicinandosi ai luoghi ove era stato forgiato; ma una cosa che indubbiamente esso non conferiva, era il coraggio. Per il momento Sam non aveva altro pensiero che di nascondersi, di acquattarsi fin quando non fosse tornata la calma; ascoltava ansioso. Non avrebbe saputo dire a quale distanza si trovassero le voci, perché le parole gli sembravano quasi pronunciate nelle sue orecchie.

* * *

«Ehilà! Gorbag! Che fai lassù? Ne hai già abbastanza della guerra?».

«Ordini, imbecille. E tu che stai facendo, Shagrat? Già stanco di startene rintanato lassù? Hai intenzione di scendere a combattere?».

«Ordini, alla faccia tua. Sono io che comando questo passo. Perciò bada bene a quel che dici. Che cos’hai da riferire?».

«Niente».

«Hai! Hai! Yoi!». Degli strilli interruppero lo scambio di parole dei due capibanda. Gli Orchi provenienti dalla galleria avevano improvvisamente avvistato qualcosa. Si misero a correre. Gli altri li seguirono.

«Hai! Holà! C’è qualcosa qui, proprio in mezzo alla strada! Una spia, una spia!». Fragore assordante di corni e babele di concitate voci.

* * *

Di soprassalto Sam fu scosso fuori del suo stato di sgomento. Avevano visto il suo padrone. Che cosa avrebbero fatto? Aveva udito delle storie sul conto degli Orchi da far gelare il sangue nelle vene. Era una situazione intollerabile. Sam balzò in piedi. Dimentico della missione e di ogni sua decisione, dimentico della paura e del dubbio, comprese ora dov’era il suo posto: a fianco del padrone, anche se ignorava che cosa avrebbe potuto fare lì. Si precipitò giù per le scale e per il sentiero, verso Frodo.

«Quanti sono?», si disse, «Trenta o quaranta, almeno, della torre, e direi molti di più giunti dal basso. Quanti ne posso uccidere prima che mi atterrino? Vedranno il bagliore della spada appena la estrarrò dal fodero, e prima o poi riusciranno a sopraffarmi. Chissà se mai una canzone menzionerà questa vicenda: Come Samvise cadde nell’Alto Valico, ergendo intorno al suo padrone un mare di corpi. No, niente canti. Certamente niente canti, poiché l’Anello verrà scoperto. Io non posso farci nulla: il mio posto è accanto al signor Frodo. È necessario che lo capiscano… Elrond, il Consiglio e tutti i grandi Signori e le Dame, con tutta la loro saggezza. I loro piani sono finiti male. Non posso essere io il Portatore dell’Anello, senza il signor Frodo».

* * *

Ma ora aveva perduto di vista gli Orchi. Senza bisogno di riflettere, si accorse di essere stanco, sfinito, quasi esausto; le gambe si rifiutavano di portarlo dove voleva andare. Avanzava con terribile lentezza; il sentiero pareva interminabile. Dove erano andati a finire in mezzo a tutta quella nebbia?

Ah, eccoli di nuovo! Molto distante. Un gruppo di figure intorno a qualcosa che giaceva per terra; alcuni correvano a destra e a sinistra, curvi come cani che seguono una pista. Tentò uno scatto finale.

«Coraggio, Sam!», disse, «o arriverai di nuovo troppo tardi». Allentò la spada nel fodero. In un minuto l’avrebbe sguainata e poi…

Si udì un grande fragore, urla, risa, e qualcosa fu sollevato da terra. «Ya hoi! Ya harri hoi! Su, issa!».

Poi una voce gridò. «Ora via! Dalla scorciatoia. Al Sottocancello! A quanto pare, Lei non ci darà fastidio questa sera». L’intera schiera d’Orchi si mise in movimento. Nel centro, quattro di essi portavano sulle spalle un corpo. «Ya hoi!».

* * *

Avevano preso il corpo di Frodo. Erano partiti. Mai li avrebbe raggiunti. Eppure Sam non si dava per vinto. Gli Orchi avevano raggiunto la galleria e stavano entrando. Quelli col carico s’inoltrarono per primi, seguiti da spinte e scossoni. Sam avanzava. Sguainò la spada, un bagliore azzurro nella mano tremante; ma essi non lo videro. Stava ancora procedendo affannosamente quando l’ultimo Orco scomparve nel nero foro.

Per un attimo s’arrestò, col fiato mozzo, tenendosi il petto. Poi si passò la manica sulla faccia, asciugando sporcizia, sudore e lacrime. «Luridi maledetti!», esclamò e riprese l’inseguimento nell’oscurità.

Non gli parve più tanto buia la galleria; era piuttosto come seda una vaga caligine fosse passato alla nebbia fitta. La sua stanchezza cresceva, ma non faceva che rinforzare la sua volontà. Gli parve di distinguere a poca distanza la luce delle fiaccole, ma per quanto si sforzasse, non riusciva a raggiungerla. Gli Orchi procedono rapidamente nelle gallerie, e questa la conoscevano bene; infatti, nonostante le insidie di Shelob, erano costretti ad usarla sovente poiché era la via più veloce che dalla Città Morta conducesse al di là dei monti. In quali tempi remoti fossero stati scavati la galleria principale ed il grande pozzo tondo in cui Shelob si era rintanata essi certo lo ignoravano. Ma avevano anch’essi scavato molti passaggi laterali, onde evitare il covo, andando e venendo agli ordini dei loro padroni. Quella sera non intendevano scendere molto in basso, volevano solo trovare con la massima rapidità una galleria secondaria che sbucasse nella loro torre sulla rupe. La maggior parte di essi gongolava; erano felici di ciò che avevano trovato e veduto, e, mentre correvano, vociavano e gracchiavano come sono soliti fare gli Orchi. Sam udiva le rudi voci piatte e opache nell’aria morta e distingueva in particolare due voci, più forti e più vicine. Evidentemente i due capibanda marciavano alla retroguardia, discutendo lungo il cammino.

* * *

«Non puoi dire alla tua marmaglia di smetterla con tutto questo chiasso, Shagrat?», grugnì uno di essi. «Non vogliamo che Shelob ci piombi addosso».

«Suvvia, Gorbag! I tuoi fanno ben più della metà del rumore», rispose l’altro. «Ma che i ragazzi giochino pure! Ritengo sia inutile preoccuparsi di Shelob per un po’ di tempo. A quanto pare si deve essere seduta su di un chiodo, e non saremo noi a compatirla. Non hai visto tutto quell’immondo putridume lungo la galleria che conduce nel suo antro? Dir loro di star zitti sarebbe ripeterlo per la centesima volta, perciò tanto vale lasciare che ridano. E poi finalmente abbiamo avuto un colpo di fortuna: abbiamo trovato qualcosa che Lugbùrz desiderava molto».

«Lugbùrz lo desidera molto, eh? Che cosa credi che sia? Roba elfica, ma un po’ troppo piccola. Che pericolo può presentare un essere del genere?».

«Non lo sapremo finché non gli avremo dato un’occhiata». «Oho! Perciò non ti hanno detto che cosa cercare? Non ci dicono tutto quel che sanno, nevvero? Nemmeno la metà. Ma possono fare sbagli, anche i Superiori possono farne».

«Ssst, Gorbag!». La voce di Shagrat si abbassò, e persino l’udito stranamente sviluppato di Sam riusciva a malapena a percepire le sue parole. «Possono farne ma hanno occhi e orecchie ovunque; persino fra la mia marmaglia, scommetto. Ma certo è che qualcosa li preoccupa seriamente. Da ciò che mi dici, appare chiaro che i Nazgûl sono inquieti, e anche Lugbùrz. Qualcosa stava per introdursi».

«Stava! Lo dici tu!», ribatté Gorbag.

«E va bene», disse Shagrat, «ne parleremo dopo. Aspettiamo di essere nel Sottopassaggio. Lì c’è un punto dove possiamo chiacchierare un po’ mentre i ragazzi vanno avanti».

Poco dopo Sam vide le fiaccole scomparire. Poi udì un rombo e, mentre accelerava il passo, un tonfo. L’unica spiegazione possibile era che gli Orchi fossero passati da quella galleria che Frodo aveva trovato bloccata. Era ancora bloccata.

Un grande masso sembrava ostruire il passaggio, ma gli Orchi in qualche modo l’avevano evitato, poiché Sam udiva le loro voci dall’altra parte. Continuavano a correre, penetrando sempre più nel cuore della montagna, verso la torre. Sam si sentì disperato. Portavano via il corpo del suo padrone con qualche losco intento, ed egli non poteva seguirli. Si gettò contro il macigno, spingendo, forzando, ma esso non si spostò. Allora gli parve di udire, alquanto vicine, le voci dei due capitani. Rimase per un attimo immobile in ascolto, sperando forse di apprendere qualcosa di utile. Forse Gorbag, che evidentemente apparteneva a Minas Morgul, sarebbe tornato indietro ed egli avrebbe potuto approfittare della sua uscita per intrufolarsi.

«No, non lo so», disse la voce di Gorbag. «I messaggi generalmente arrivano più veloci d’un volo d’uccelli. Ma non cercar di sapere come ciò sia possibile. Meglio non provarci. Grr! Quei Nazgûl mi fanno venire i brividi. Ti strappano di mano il corpo senza nemmeno guardarti, e ti lasciano fuori nel freddo e nel buio. Ma a Lui piacciono; in questi tempi sono loro i Suoi beniamini, dunque è inutile borbottare. Te lo assicuro, non è uno scherzo servire laggiù nella città».

«Dovresti provare a star quassù in compagnia di Shelob», disse Shagrat.

«Vorrei provare un posto dove non ci siano né l’una né gli altri. Ma ora la guerra è incominciata, e dopo le cose saranno probabilmente più facili».

«Pare che stia andando bene, a sentir quello che dicono loro».

«E che cos’altro potrebbero dire?», grugnì Gorbag. «Lo vedremo. Ma comunque, se effettivamente finirà bene, ci sarà molto più spazio. Che te ne pare?… Se dovessimo avere l’occasione, tu ed io, di svignarcela e metterci su per conto nostro con pochi ragazzi fidati, in un posto dove c’è del buon bottino e niente capi né superiori?».

«Ah!», esclamò Shagrat. «Come ai vecchi tempi».

«Sì», disse Gorbag. «Ma non ci contare. Non sono per nulla tranquillo. Come dicevo, i Grandi Capi, eh sì», la sua voce divenne quasi un bisbiglio, «sì, persino il più Grande, possono commettere degli errori. Qualcosa stava per introdursi, dici. Io ti dico: qualcosa si è introdotta. E dobbiamo stare all’erta. Tocca sempre ai poveri Uruk rimediare, con pochi ringraziamenti. Ma non dimenticare: i nemici non ci amano più di quanto amino Lui, e se lo sopraffanno, anche noi siamo finiti. Ma dimmi un po’: quando hai ricevuto l’ordine di uscire?».

«Circa un’ora fa, immediatamente prima di incontrarvi. Arrivò un messaggio. Nazgûl inquieti. Si temono spie sulle Scale. Raddoppiare sorveglianza. Pattuglia in cima alle Scale. Sono uscito immediatamente».

«Brutta storia», disse Gorbag. «Ascoltami: le nostre Sentinelle Silenti erano già inquete da due giorni, a quel che ne so. Ma la mia pattuglia ricevette ordini soltanto il giorno seguente e nessun messaggio venne inviato a Lugbùrz, a causa del Grande Segnale e della partenza in guerra degli Alti Nazgûl, e di tutto il resto. E poi, a quanto pare, non riuscivano a entrare in contatto con Lugbùrz».

«Suppongo che l’Occhio fosse occupato altrove», disse Shagrat. «Dicono che laggiù ad ovest stiano accadendo grandi cose».

«Direi!», grugnì Gorbag. «Ma nel frattempo dei nemici si sono intrufolati su per le Scale. E tu che cosa stavi facendo? È il tuo compito sorvegliare, vero, con o senza ordini speciali? Che cosa ti prende?».

«Basta così! Non cercare d’insegnarmi il mestiere. Eravamo svegli, eccome. Sapevamo che stavano accadendo strane cose». «Molto strane!».

«Sì, molto strane: luci, e grida, e tutto il resto. Ma Shelob si stava dando da fare. I miei ragazzi l’avevano vista col suo Infido Servitore».

«Infido Servitore? Che cos’è?».

«Devi averlo veduto: piccolo, nero e magro; anche lui simile a un ragno, o piuttosto a una rana affamata. Era già stato da queste parti tempo addietro. Venne fuori da Lugbùrz la prima volta, anni fa, e noi ricevemmo ordini dall’Alto di farlo passare. Da allora è tornato un paio di volte su per le Scale, ma noi l’abbiamo lasciato in pace: pare che se l’intenda con Sua Eccellenza Shelob. Suppongo che non sia buono da mangiare: Lei certo non si preoccupa degli ordini venuti dall’Alto. Ma che bella sorveglianza tenete giù nella valle! Venne quassù il giorno prima che succedesse tutto questo pasticcio. L’abbiamo visto sul presto, ieri sera. In ogni caso i miei ragazzi riferirono che Sua Eccellenza si stava divertendo, e ciò per me bastava; ma poi arrivò il messaggio. Credevo che l’Infido le avesse portato un giochetto, o che voi forse le aveste mandato qualche regalino, un prigioniero di guerra o roba simile. Non m’impiccio quando Lei sta giocando. Nulla sfugge a Shelob quando caccia».

«Nulla, dici tu! Allora non adoperi gli occhi? Ti ripeto che io non sono per niente tranquillo. Ciò ch’è salito per le Scale, è sfuggito. Ha tagliato la ragnatela e se l’è svignata dal buco. Ti consiglierei di rifletterci un attimo!».

«Va bene, ma poi finalmente l’ha preso, no?».

«Preso? Preso chi? Questo piccolo essere? Ma se fosse stato solo l’avrebbe ficcato immediatamente nella sua dispensa, e a quest’ora sarebbe lì. E se Lugbùrz ci teneva tanto, sarebbe toccato a te andarlo a recuperare. Bel lavoretto. Ma ce n’era più d’uno».

A quel punto Sam incominciò ad ascoltare più attentamente, premendo l’orecchio contro il masso.

«Chi ha tagliato le corde che lo legavano, Shagrat? Lo stesso che aveva tagliato la ragnatela. Non ci avevi pensato? E chi ha punto con un chiodo Sua Eccellenza? Lo stesso, suppongo. E dov’è adesso? Dove è, Shagrat?».

Shagrat non rispose.

«Ti conviene mettere in marcia il cervello, se ne hai. Non è roba da ridere. Nessuno, nessuno prima d’ora aveva mai punto Shelob, e lo dovresti sapere. Non che la cosa mi dispiaccia; ma pensa…: c’è qualcuno che ronza qui intorno, più pericoloso del più dannato dei ribelli vissuti nei tempi malvagi, fin dal tempo della grande guerra. Qualcosa si è introdotta».

«E allora che cos’è?», sbottò Shagrat.

«Dagli indizi, Capitano Shagrat, direi che si tratta di un grande guerriero, probabilmente d’un Elfo, armato comunque d’una spada elfica e forse anche di un’ascia; e gironzola libero nel tuo territorio, senza che tu l’abbia nemmeno intravisto. Assai divertente!». Gorbag sputò. Sam sorrise sarcasticamente confrontando se stesso con la descrizione.

«Ah, beh! Tu hai sempre visto tutto nero», disse Shagrat. «Puoi interpretare gli indizi come meglio credi, ma potrebbero anche esserci altre spiegazioni. Quando avrò dato un’occhiata al tipo che abbiamo preso, allora incomincerò a preoccuparmi di qualcos’altro».

«Scommetto che non troverai molto, addosso a quel tipetto», disse Gorbag. «Può darsi che non abbia nulla a vedere con il vero pericolo. Comunque, non mi sembra che il grosso guerriero dalla spada tagliente gli attribuisse molto valore… Lasciarlo lì per terra: tipico degli Elfi».

«Lo vedremo. Coraggio, adesso! Abbiamo parlato abbastanza. Andiamo a dare un’occhiata al prigioniero!».

«Che cos’hai intenzione di farne? Non dimenticare che l’ho scoperto io per primo. Se c’è da divertirsi, io e i miei ragazzi intendiamo partecipare».

«Calma, calma», grugnì Shagrat. «Ho i miei ordini. E non conviene né a me né a te infrangerli. Ogni clandestino trovato dalla guardia dev’essere custodito nella torre. Spogliare il prigioniero. Inviare immediatamente a Lugbùrz, e soltanto a Lugbùrz, descrizione dettagliata di ogni articolo di vestiario, arma, lettera, anello, o gingillo. Il prigioniero deve essere custodito al sicuro e intatto, sotto pena di morte per ciascun membro della guardia, fin quando Egli non invii ordini o non venga personalmente. Mi sembra chiaro, ed è ciò che ho intenzione di fare».

«Spogliare, eh?», disse Gorbag. «Anche denti, unghie, capelli…?».

«No, niente di tutto questo. Ti ho detto che bisogna custodirlo per Lugbùrz. Lo vogliono intatto e intero».

«Non sarà facile come credi», disse ridendo Gorbag. «Ormai non è altro che una carogna. Che cosa possa farne Lugbùrz di questa roba, proprio non lo so. Tanto vale metterlo in pentola».

«Idiota!», inveì Shagrat. «Ti senti molto furbo, ma c’è un sacco di cose che non sai, benché siano di pubblico dominio. Se non stai attento finirai in pentola, o da Shelob! Carogna! Conosci dunque così male Sua Eccellenza? Quando lega con le corde, significa che vuole la carne. Non mangia carne morta, e non succhia sangue freddo. Questo tipo non è mica morto!».

* * *

Sam barcollò, afferrandosi al masso. Gli parve che tutto l’oscuro mondo girasse sottosopra. Il colpo fu tale che per poco non svenne; e mentre lottava per non perdere i sensi, udiva nel profondo del cuore un commento. «Idiota, non è morto, e il tuo animo te lo diceva. Non fidarti della tua testa, Samvise, non è la tua parte migliore. Il guaio con te è che non hai mai veramente sperato. E ora che cosa ti rimane da fare?». Per il momento, nient’altro che appoggiarsi alla pietra immobile e ascoltare, ascoltare le orribili voci degli Orchi.

* * *

«Garn!», disse Shagrat. «Lei ha più di un veleno. Quando caccia, dà solo un colpetto nel collo e le vittime cadono molli come pesci disossati, e allora lei ci gioca come le pare e piace. Ti ricordi il vecchio Ufthak? L’avevamo perso di vista da parecchi giorni. Poi lo trovammo in un angolo; penzolava dal soffitto, ma era sveglio e furente. Che risate! Forse Lei l’aveva dimenticato, ma ci guardammo bene dal toccarlo…: non è il caso di impicciarsi dei Suoi affari. Nar… Questo pugno d’immondezza sarà sveglio fra un paio d’ore; si sentirà un po’ male per qualche tempo, ma poi gli passerà tutto. O gli passerebbe, se Lugbùrz lo lasciasse in pace. Certo si domanderà dov’è e che cosa gli è capitato!».

«E che cosa gli capiterà», rise Gorbag. «In ogni caso gli possiamo raccontare qualche storiella, se non altro. Non penso che sia mai stato nella bella Lugbùrz, perciò potrebbe fargli piacere sapere che cosa l’aspetta. Sarà più divertente di quanto non pensassi. Andiamo!».

«Ti ho detto che non ci sarà alcun divertimento», disse Shagrat. «E lui deve stare al sicuro, o finiremo tutti ammazzati».

«E va bene! Ma se fossi in te prenderei quello grosso che gironzola libero, prima di riferire a Lugbùrz. Non mi sembra molto lusinghiero dire d’aver preso il cucciolo e lasciato scappare il cane».

* * *

Le voci incominciarono ad allontanarsi. Sam udì il rumore di piedi in movimento. Si stava rimettendo dall’emozione, e una furia selvaggia covava in lui. «Ho sbagliato tutto!», gridò. «Ne ero convinto. Ora l’hanno preso, maledetti, disgraziati! Mai lasciare il padrone, mai, mai: era quello il mio compito. E in fondo al cuore lo sapevo. Possa il cielo perdonarmi! Ora devo tornare da lui. In qualche modo, in qualche modo!».

Sguainò di nuovo la spada e colpì con l’elsa la pietra, ma non rispose che un rumore sordo. La spada comunque scintillava con tale bagliore da permettergli di distinguere vagamente. Con sorpresa notò che il grosso blocco aveva la forma di una pesante porta, alta il doppio di lui. Al di sopra, uno spazio vuoto e scuro separava la sommità del macigno dal basso arco della galleria. Probabilmente non era altro che un ostacolo eretto contro Shelob, chiuso dall’interno con qualche serratura che la sua astuzia non sapeva aprire. Radunando le forze residue, Sam fece un salto ed afferrò la parte superiore della porta, s’inerpicò e si lasciò cadere dall’altro lato; allora si mise a correre come un pazzo, con la spada fiammeggiante in mano, girando un angolo e risalendo una sinuosa galleria.

La notizia che il suo padrone era ancora vivo gli dava le forze necessarie per compiere un ultimo sforzo, noncurante della stanchezza. Non discerneva nulla innanzi a sé, perché la galleria era tutta curve e giri; ma gli parve di aver guadagnato terreno: le voci degli Orchi erano di nuovo vicine. Ora sembravano a pochi passi.

* * *

«Ecco che cosa ho intenzione di fare», disse Shagrat con voce adirata. «Metterlo lassù nella stanza più alta».

«Perché?», ruggì Gorbag. «Non hai camere da chiudere a chiave al piano di sotto?».

«Ti dico che non voglio correre rischi», rispose Shagrat. «Capisci? È prezioso. Non mi fido di tutti i miei ragazzi, e di nessuno dei tuoi; e nemmeno di te, quando ti prende la mania del divertimento. Lo metterò dove mi pare e piace, e dove tu non entrerai se non ti comporti come si deve. In cima alla torre, ho detto. Lì sarà al sicuro».

«Credi?», disse Sam. «Dimentichi il grande guerriero elfico che gironzola libero!». E con ciò si precipitò intorno all’ultima curva; ma si accorse che la galleria contorta o l’udito sviluppato dall’Anello gli avevano fatto calcolare male le distanze.

I due Orchi erano ancora abbastanza lontani. Li vedeva ora, neri e tozzi in un bagliore rosso. La galleria, ora diritta, risaliva un pendio; all’estremità, una grande porta doppia spalancata conduceva probabilmente nei sotterranei dell’alta torre. Gli Orchi col loro bottino l’avevano già varcata. Gorbag e Shagrat erano assai vicini.

Sam udì echeggiare canti selvaggi, squillare le trombe, vibrare i gong: un fracasso orrendo. Gorbag e Shagrat erano sulla soglia.

Sam urlò brandendo Pungolo, ma la sua piccola voce si perse nel tumulto. Nessuno si accorse di lui.

La grande porta si chiuse fragorosamente. Bum. Le sbarre di ferro la sprangarono. Clang. Il cancello era serrato. Sam si scaraventò contro le impenetrabili lamine d’ottone e cadde per terra privo di sensi. Lui era fuori nell’oscurità; Frodo era vivo ma prigioniero del Nemico.

Загрузка...