L’astronave emerse dal quarto balzo.
Navigava ad una velocità lievemente inferiore a quella della luce, ad una distanza non superiore a quattro parsec dalla sua destinazione, la gigante-nera KNT-8008, che apparteneva alla classe delle rarissime stelle oscure al carbonio.
I più potenti telescopi della Terra potevano individuarla a fatica, ma adesso incombeva sugli schermi, a nord della nave, grande quanto appare il Sole visto da Mercurio.
Le stelle simili a quella, con un diametro superiore da centocinquanta a centosettanta volte al diametro del sole, erano contraddistinte dall’abbondanza di carbonio nella loro atmosfera. Ad una temperatura di 2.000/3.000 gradi centigradi, gli atomi di carbonio formavano un tipo specifico di molecole, consistenti di tre atomi ciascuna. Le atmosfere stellari dotate di una simile struttura molecolare assorbivano la radiazione nella zona del violetto, e di conseguenza la luminosità delle stelle di questa classe era molto bassa in rapporto alle loro dimensioni.
Il cuore delle giganti al carbonio, tuttavia, aveva temperature che si aggiravano attorno ai cento milioni di gradi, e questo le rendeva simili ad altrettanti, potentissimi generatori di neutroni, che trasformavano gli elementi leggeri in elementi pesanti, perfino più pesanti dell’uranio, dal californio al russio. L’ultimo di questi elementi noti, che aveva un peso atomico pari a 401, era stato ottenuto per la prima volta circa quattrocento anni prima.
Gli scienziati ritenevano che le stelle al carbonio fossero le fabbriche dell’universo nelle quali venivano forgiati gli elementi pesanti, scagliati poi nello spazio da eruzioni periodiche. Le giganti al carbonio erano la sorgente dei nuovi elementi chimici che apparivano costantemente nella nostra Galassia.
L’avvento del volo a tonneggio metteva gli uomini in grado, finalmente, di studiare le stelle al carbonio a brevi distanze e di osservare i processi di trasformazione della materia che vi avvenivano.
L’equipaggio della Tellur si era risvegliato ed era all’opera attorno al programma di ricerca per la cui realizzazione avevano lasciato la Terra per settecento anni. Tutti si rendevano pienamente conto di avere davanti a sé un compito lungo e difficile.
I processi che la spedizione si accingeva a studiare erano estremamente complessi ed i fisici terrestri non erano ancora riusciti a trovare la traccia che consentisse di scoprirne i segreti.
L’astronave sembrava procedere a velocità molto ridotta, ora: ma non occorreva una velocità superiore. La rotta deviava leggermente verso sud rispetto all’ideale linea retta che puntava verso la stella al carbonio, in modo che lo schermo localizzatore fosse al riparo dalle sue radiazioni. Il disco del localizzatore rimaneva un vuoto nero per settimane, per mesi, per anni.
La Tellur, o meglio la IF-1 (Z-685) come era registrata negli elenchi della Flotta Spaziale Terrestre (la sigla significava che era la prima nave a campi invertiti, e che era la seicentottantacinquesima astronave mai costruita) non era grande come le astronavi subfotoniche a grande autonomia che l’avevano preceduta. Quel vecchio tipo di astronave aveva portato anche equipaggi di duecento persone: quei viaggi duravano più a lungo della vita media d’una generazione e mettevano in grado gli esseri umani di addentrarsi abbastanza profondamente nello spazio interstellare.
Tuttavia, ogni volta che una di quelle navi ritornava, portava con se parecchi uomini e donne da un passato lontano. E, mentre quegli uomini e quelle donne rappresentavano un alto livello di evoluzione fisiologica ed intellettuale, trovavano molto difficile adattarsi ai nuovi tempi; così avveniva che molti di essi soccombessero alla melanconia ed alla depressione psichica.
Le astronavi a tonneggio potevano portare gli esseri umani ancora più lontano, nel cosmo, e in un tempo molto breve (il tempo soggettivo degli astronauti, naturalmente) essi sarebbero ritornati nella società umana come altrettanti Matusalemme vecchi di mille anni. Coloro che avrebbero intrapreso viaggi verso gli altri universi-isola sarebbero ritornati al pianeta natale vecchi di milioni di anni. E questo era l’aspetto negativo dell’esplorazione cosmica… la grande barriera che la natura aveva alzato sul sentiero delle ambizioni cosmiche dei suoi irrequieti figli terrestri.
Le astronavi più moderne portavano un equipaggio composto di otto persone soltanto. E, mentre gli astronauti del passato erano stati incoraggiati a formarsi una famiglia durante il volo, i viaggiatori delle nuove navi dirette verso lo spazio sconfinato ne avevano, al contrario, la proibizione.
Anche se la Tellur era più piccola delle astronavi che l’avevano preceduta, le sue dimensioni erano egualmente molto ampie, per un equipaggio così ristretto.
Come sempre dopo un lungo sonno gli otto astronauti, che erano quasi tutti giovani, si sentivano euforici e carichi di energia e passavano gran parte del tempo libero in palestra. Inventavano difficili esercizi di ogni genere e danze complicatissime, o eseguivano le acrobazie più fantastiche nell’angolo della sala che era privo di gravità.
Un altro dei passatempi preferiti consisteva nel nuotare nella piscina di acqua luminescente e ionizzata che aveva lo stesso squisito azzurro della culla dell’umanità, il Mediterraneo.
Kari Ram stava avviandosi verso la piscina, quando si sentì chiamare.
«Ho bisogno d’aiuto, Kari. Questa volta non mi riesce bene.»
Chi gli aveva parlato così era Taina Dan, una ragazza alta e snella, vestita d’una breve tunica di stoffa verde scintillante che aveva la stessa sfumatura dei suoi occhi. Era il chimico della spedizione; ne era il componente più giovane e più allegro. Qualche volta la sua impulsività irritava un poco il solido, equilibratissimo Kari, che, ad ogni modo, condivideva la sua passione per la danza.
Si voltò sorridendo e si diresse verso di lei.
Afra Devi, il biologo della spedizione, lo chiamò dall’alto del trampolino, mentre le passava accanto. Volgendo la schiena all’acqua, Afra stava calzando una cuffia sulla lussureggiante capigliatura nerissima. Ma in quel momento Tey Eron la raggiunse, sul trampolino elastico, e protese il braccio dietro le sue spalle. Afra si ributtò all’indietro contro il braccio di Tey e, per una frazione di secondo, vi rimase in equilibrio, poi ricadde: i due giovani piombarono nell’acqua: la loro pelle aveva l’abbronzatura lucente che può venir data soltanto da una sana vita all’aperto.
Kari li seguì con lo sguardo.
«Si è completamente dimenticato di me!» gridò Taina, premendosi la punta delle dita contro gli occhi.
«Ma è stata una scena bellissima, no?» rispose Kari, attirando la ragazza verso di sé e trascinandola nei primi passi di danza, mentre entravano nella pista dei suoni.
Kari e Taina erano i migliori ballerini, a bordo. Nessun altro sapeva abbandonarsi così completamente alla melodia ed al ritmo. Adesso, Kari si sentiva trascinare nel mondo fantastico della danza, dimentico di qualsiasi cosa che non fosse il fascino del movimento coordinato. La mano della ragazza, posata sulla sua spalla, era salda e morbida; gli occhi verdi sembravano diventati più profondi.
«Assomigli proprio al tuo nome,» sussurrò Kari. «Mi sembra che in una lingua antica, Taina indicasse qualcosa di misterioso, di impenetrabile.»
«Ne sono lietissima,» rispose la ragazza, con serietà. «Avevo pensato che soltanto nel cosmo esistessero cose misteriose e impenetrabili… non certo sulla Terra, ormai. E un essere umano non può essere misterioso… non c’è niente di misterioso o di imprevedibile, in noi.»
«E ti dispiace?»
«Qualche volta sì. Mi piacerebbe incontrare qualcuno simile alle genti del passato. Qualcuno che debba nascondere i suoi sogni ed i suoi sentimenti ad un ambiente ostile, che debba rafforzare le sue decisioni in segreto e costruire la propria volontà fino a renderla incrollabile.»
«Capisco quello che vuoi dire. Ma non stavo pensando ad esseri umani… soltanto ai segreti impenetrabili… quelli di cui si parla nei romanzi antichi: rovine misteriose, profondità sconosciute, altezze irraggiungibili. E prima ancora c’erano foreste e sorgenti incantate, e case abitate da spettri, nelle quali accadevano fatti soprannaturali ed affascinanti.»
«Non sarebbe meraviglioso, Kari, trovare a bordo qualche passaggio segreto…»
«…che portasse ad una camera misteriosa dove…»
«Sì, Rari, continua.»
«La mia immaginazione non riesce ad andare oltre,» disse il giovane ingegnere.
Ma Taina ormai era affascinata da quella idea; attirò Kari in un corridoio laterale, fiocamente illuminato. Gli indicatori di vibrazione ammiccarono debolmente sulle pareti, come se l’intera nave stesse lottando contro una invincibile sonnolenza.
Taina percorse un tratto del corridoio, quasi in punta di piedi, poi si fermò. Un’ombra di stanchezza le sfiorò il volto; ma era già scomparsa prima che Rari potesse essere certo di averla scorta realmente. Quando strinse di nuovo la mano della ragazza, una emozione bizzarra lo afferrò.
«Andiamo in biblioteca,» disse. «Mancano ancora due ore al mio turno di guardia.»
Lei lo seguì, obbediente.
La biblioteca era una grande stanza ad illuminazione indiretta, che creava l’illusione di una nebbia luminosa fluttuante sotto il soffitto. Era posta immediatamente a poppa rispetto alla sala comando principale, secondo l’usanza comune ai costruttori di astronavi.
Kari e Taina aprirono la porta pressurizzata del terzo passaggio trasversale e raggiunsero l’ingresso ellittico, a doppia porta, della galleria centrale. Non appena Kari montò sulla lastra di bronzo posta davanti all’ingresso, provocando l’apertura dei pesanti pannelli, l’aria cominciò a vibrare di suoni.
Taina si illuminò.
«E’ Moot Ang,» disse, stringendo la mano di Kari.
Entrarono nella biblioteca: c’erano tre uomini. Il medico di bordo, Svet Sim e l’ingegnere addetto al tonneggio, Yas Tin, stavano comodamente affondali nelle poltrone fra le pareti delle cabine di proiezione. A sinistra, il comandante della Tellur era chino sulla tastiera del VEM.
Il VEM era il viono elettromagnetico, lo strumento che da tanto tempo ormai aveva sostituito il pianoforte, i cui toni erano troppo duri: il VEM, invece, aveva la ricchezza tonale del piano ma la espandeva con la melodiosa ricchezza del violino. Gli amplificatori potevano conferire ai suoni emessi dal VEM una potenza incredibile.
Moot Ang non si era accorto dei nuovi arrivati.
Era seduto, un poco inclinato in avanti, il volto levato verso i pannelli rombici del soffitto, mentre le sue dita scorrevano leggere sulla tastiera. Come nell’antico pianoforte, ogni sfumatura del suono dipendeva dal tocco del suonatore, anche se il suono non era prodotto da martelletti che percuotevano le corda, ma da delicati impulsi elettronici che avrebbero potuto venir quasi paragonati agli impulsi nervosi del cervello umano.
La musica fluiva in armonie dolcemente intessute, che narravano la fusione della Terra e dell’universo. Il flusso si spezzò, note di pensosa malinconia si frammischiarono al rombo d’un temporale lontano, in un crescendo graduale di suoni dal quale altre note si levavano come grida di disperazione. La tensione divenne più alta, ancora più alta, fino a che raggiunse l’esplosione cataclismica finale che si risolse in una valanga di dissonanze, scivolando sempre più in basso, in un abisso oscuro di affanno inconsolabile per ciò che era perduto per sempre.
Poi improvvisamente pure, chiare note di limpida gioia scaturirono sotto le dita di Moot Ang, fondendosi nella mite malinconia dell’accompagnamento.
Proprio in quel momento la porta si aprì, ed Afra Devi, che ora indossava un camice bianco, entrò nella stanza e si diresse verso Svet Sim. Il medico l’ascoltò, poi fece un cenno al capitano.
Le mani di Moot Ang lasciarono la tastiera, il silenzio spezzò il flusso della musica, con la stessa rapidità con cui la discesa della notte tropicale annienta il giorno.
Il capitano uscì dalla sala insieme al medico, seguito dagli sguardi preoccupati degli altri. Era accaduto qualcosa di molto insolito: il secondo navigatore era stato colto da un attacco di appendicite acuta. Era evidente che aveva trascurato di seguire scrupolosamente il programma di preparazione medica al viaggio.
Il dottor Sim chiese al capitano l’autorizzazione ad operare d’urgenza.
Moot Ang esitò. La medicina moderna, i cui metodi consentivano di regolare l’attività nervosa nello stesso modo in cui, negli apparecchi elettronici, venivano regolati gli impulsi, era in grado di curare una quantità di malattie.
Ma il medico insistette. Osservò che le condizioni del paziente potevano venir migliorate, sul momento: ma l’enorme tensione imposta al suo organismo dal viaggio spaziale avrebbe potuto provocare una ricaduta.
Il paziente era disteso sull’ampia tavola operatoria, ed era avviluppato in un labirinto di fili collegati ai trentasei apparecchi elettronici, che fornivano un quadro dettagliato delle sue condizioni. L’induttore ipnotico ammiccava ritmicamente nella penombra della stanza. Il dottor Sim consultò ancora una volta gli strumenti e fece un cenno ad Afra Devi, che aveva il compito di assisterlo.
Ogni componente dell’equipaggio, infatti, oltre ad essere specializzato in una particolare disciplina scientifica, era addestrato per svolgere anche particolari mansioni, a bordo: mantenere in efficienza i meccanismi dell’astronave, occuparsi delle vettovaglie e così via.
Afra portò una vaschetta trasparente piena di un liquido azzurrino, nella quale giaceva uno strumento di metallo segmentato che somigliava ad una scolopendra di buona misura. Afra preso lo strumento e, da una altra bacinella, prese un arnese di forma conica collegato a lunghi tubi sottili. Si udì un lieve ticchettio e la scolopendra metallica si attivò, con un ronzio appena udibile.
Svet Sim fece un cenno; e lo strumento fu inserito nella bocca del paziente.
Moot Ang si avvicinò allo schermo semitrasparente collocato sopra l’addome del malato: nella luce verdastra dello schermo, i contorni grigi degli organi interni e lo strumento segmentato che si faceva strada lungo l’apparato digerente erano chiaramente visibili.
In pochi minuti, l’estremità ottusa della scolopendra metallica era a contatto con la base dell’appendice.
Mentre lo strumento premeva sull’area infiammata, la sofferenza aumentò; fu necessario somministrare sedativi al paziente, per combattere le contrazioni degli intestini. In pochi minuti, l’analizzatore dei dati aveva completato la diagnosi ed aveva segnalato gli antibiotici e gli antisettici necessari.
Poi la scolopendra metallica inserì le sue lunghe zampe flessibili nell’appendice, ne risucchiò il pus e i corpi estranei che avevano provocato il processo infiammatorio. Questa azione fu seguita da una energica irrigazione con soluzioni biologiche che riportarono le membrane mucose dell’appendice a condizioni normali.
Il paziente dormiva serenamente mentre lo strumento compiva la propria opera. L’operazione finì ed al medico rimaneva soltanto il compito di estrarre il minuscolo automa.
Il capitano emise un respiro di sollievo. Nonostante i progressi della medicina, le imprevedibili particolarità degli organismi individuali provocavano talvolta complicazioni inattese, perché era ovviamente impossibile stabilire in precedenza ogni deviazione rispetto alla norma, fra tutte le migliaia di milioni di abitanti della Terra.
E, se non c’era di che preoccuparsi per queste possibili complicazioni quando ci si trovava sulla Terra, che disponeva di imponenti attrezzature mediche, in una spedizione come quella della Tellur un caso del genere avrebbe potuto rivelarsi pericoloso.
Ma tutto era andato bene. Rasserenato, Moot Ang ritornò nella biblioteca deserta e tornò a sedersi davanti al viono. Posò le mani sulla tastiera, ma non suonò. I suoi pensieri ritornarono, invece, come infinite altre volte, alla felicità umana ed al futuro.
Era il suo quarto viaggio nel cosmo: ma mai, prima di allora, si era imbarcato per un volo destinato a coprire uno spazio ed un tempo così lunghi.
Ora che l’uomo passava rapidamente da una realizzazione all’altra, da una scoperta all’altra, ora che l’umanità aveva accumulato un patrimonio vastissimo di conoscenze, settecento anni non potevano più venire paragonati ad un analogo periodo di tempo appartenente alle civiltà passate. Allora, il progresso sociale era limitato alla conquista di zone ancora disabitate del nostro pianeta, da parte dell’umanità. In quei giorni lontani, il tempo strisciava pigro e il progresso umano era lento quanto il moto dei ghiacciai artici o antartici. Il tempo pareva essere rimasto immobile per secoli: a quei tempi, cosa poteva rappresentare la durata di una vita umana, o un secolo, od anche dieci secoli?
Cosa avrebbero provato, gli abitanti di quel mondo antico, si chiese Moot Ang con un brivido, se avessero saputo in anticipo quanto sarebbe stato lento il progresso sociale, se avessero previsto per quanto tempo ancora l’uomo sarebbe stato oppresso dall’ingiustizia e dal caos? Se uno avesse dormito per settecento anni, ai tempi dell’antico Egitto, si sarebbe svegliato per trovare in vigore lo stesso sistema di schiavismo… con la sola variante di uno sfruttamento ancora più spietato.
Nell’antica Cina, un periodo di settecento anni cominciava e finiva con le stesse guerre e le stesse dinastie; e l’Europa passava, in quello stesso tempo, soltanto dall’oscurità del Medioevo alle tenebre dell’Inquisizione.
Ma ora, il semplice pensiero delle grandi prospettive che si sarebbero aperte nei prossimi sette secoli… secoli densi di cambiamenti, di miglioramenti, di conoscenze sempre nuove, sgomentava l’immaginazione.
E se la vera felicità consiste nel cambiamento, nel movimento, nel rapido progresso, rifletté Moot Ang, chi poteva essere più felice di lui stesso e dei suoi compagni?
Ma la situazione non era semplice come poteva apparire.
La natura dell’uomo è complessa quanto l’ambiente che lo circonda. Mentre ci protendiamo verso il futuro, ci rattristiamo sempre per il trascorrere del tempo, o meglio per la perdita delle belle cose del passato… le cose che vengono conservate dalla memoria e che anticamente davano origine alle leggende dell’età dell’oro svanita nei labirinti del tempo.
Gli uomini non potevano fare a meno di ricordare tutto ciò che c’era stato di bello nel passato, e desideravano il suo ritorno, perché soltanto coloro che disponevano delle menti più limpide erano in grado di prevedere l’inevitabile avvento di cose ancora migliori, nel futuro.
E da sempre, nelle menti degli uomini continuava a sussistere un rimpianto profondo per ciò che era ormai passato, un desiderio nostalgico per ciò che non era più, una tristezza invincibile che aggrediva alla vista degli antichi ruderi e dei monumenti dell’antica storia dell’umanità. E questi sentimenti diventano sempre più pungenti, man mano che uno invecchia…
Moot Ang si alzò dal sedile e raddrizzò le spalle poderose.
Sì, tutto questo era descritto con grande vivezza nei romanzi storici. Ma non c’era nulla che potesse spaventare un equipaggio di giovani, a bordo di una astronave lanciata verso il futuro. La solitudine, forse? La perdita dei parenti? La solitudine di un uomo proiettato verso il futuro era stata descritta molto spesso, negli antichi romanzi. Significava essere strappati alla propria stirpe. Ma quella stirpe era costituita soltanto da un pugno di individui legati fra loro soltanto da formali vincoli di sangue. E adesso tutti gli uomini erano fratelli, e tutte le vecchie convenzioni, le vecchie barriere che avevano diviso gli uomini, sulla Terra, erano state distrutte per sempre.
Cosa avrebbe dovuto dire ai suoi giovani colleghi lui, il capitano della Tellur?
«Noi della Tellur abbiamo perduto tutti coloro che ci erano vicini, che ci erano cari sulla Terra. Ma coloro che ci attendono nel futuro non ci sono meno vicini e meno cari… Le loro menti saranno più acute, i loro sentimenti più ricchi di quelli dei contemporanei che ci siamo lasciati alle spalle…»
Sì, era questo, che avrebbe dovuto dire.
Nel frattempo, Tey Eron era al lavoro nella sala comando. Come al solito, aveva spento tutte le luci non necessarie e, nella penombra, la grande sala rotonda sembrava più comoda, più familiare. Canticchiando una melodia, Tey Eron stava controllando ancora una volta i calcoli. L’astronave si stava avvicinando alla meta estrema del suo viaggio. Oggi la rotta sarebbe stata deviata verso il Serpentario, per avvicinare la stella al carbonio che si doveva studiare.
Ma era ancora pericoloso avvicinarla. La pressione crescente della sua radiazione avrebbe potuto fracassare una nave che si muoveva ad una velocità di poco inferiore a quella della luce.
Tey Eron si voltò, sentendo che qualcuno si avvicinava: e si trovò di fronte il comandante.
Moot Ang si curvò per osservare i dati dell’indicatore che scintillavano in una fila di piccoli riquadri lungo l’orlo inferiore del pannello dei comandi.
Tey Eron alzò verso di lui uno sguardo interrogativo. Il capitano fece un cenno di consenso. In risposta al movimento appena percettibile delle dita di Tey Eron, il sistema di intercomunicazione entrò in azione. Vi fu un suono di campane lungo tutta la nave, accompagnate da una voce metallica.
«Attenzione! Attenzione!»
Moot Ang prese il microfono; sapeva che tutti i componenti dell’equipaggio aspettavano ansiosi le parole che stavano per scendere dagli altoparlanti nascosti nelle pareti.
«Attenzione!» ripeté Moot Ang. «Fra quindici minuti comincerà la decelerazione. Tutti coloro che non sono di servizio dovranno ritirarsi nelle rispettive cabine. La prima fase di decelerazione finirà alle diciotto; la seconda fase, a sei gravità, proseguirà per centoquarantaquattro ore. Cambiamento di rotta dopo la segnalazione di Pericolo di Collisione. E’ tutto.»
Alle diciotto il capitano si alzò dal sedile. Provava il solito dolore al dorso ed alla nuca, come sempre durante le fasi di decelerazione. Annunciò che si sarebbe ritirato nella sua cabina per i sei giorni di azione frenante che ancora rimanevano. Gli altri componenti dell’equipaggio sedevano inchiodati ai loro strumenti, poiché era la loro ultima possibilità di osservare la stella al carbonio.
Tey Eron si accigliò mentre il capitano lasciava la sala comando. Si sarebbe sentito molto meglio se il comandante fosse rimasto accanto a lui, durante la difficile manovra. Anche se non c’era un confronto fra una astronave poderosa come la Tellur ed i piccoli scafi che varcavano i mari della Terra, era pur sempre un fragile guscio d’uovo nell’infinito dello spazio.