La musica irruppe attraverso le nebbie dell’oblio.
«Destatevi, non cedete alla sinistra entropia…»
Le parole familiari del canto stimolarono la memoria, dando l’avvio ad una catena interminabile di associazioni di idee.
La vita ritornò nella grande astronave; vibrava ancora, ma i meccanismi automatici continuavano la loro opera. I vortici di energia che avevano avviluppato le tre cupole di metallo verde a forma d’alveare, nella sala comando, si erano spenti. In pochi secondi, le cupole si sollevarono e scomparvero nelle nicchie del soffitto, in un labirinto di condutture, di fili e di travature, rivelando tre uomini riversi negli ampi sedili imbottiti.
Due uomini rimasero immoti, ma il terzo fremette, aprì gli occhi e ributtò all’indietro una ciocca di capelli neri che gli scendeva sulla fronte. Si sollevò dalle profondità morbide del perfetto isolamento e si piegò in avanti, per leggere i dati sui quadranti del pannello dei comandi, che si stendeva a mezzo metro di distanza dai tre sedili.
«Eccoci qui di nuovo,» disse una voce robusta, vicino a lui. «Sei stato ancora una volta il primo a svegliarti, Kari. Hai proprio il fisico ideale per un astronauta.»
Kari Ram, ingegnere elettronico e astronavigatore della nave spaziale Tellur, si girò per incontrare lo sguardo ancora annebbiato del capitano, Moot Ang.
Il capitano si sollevò, con uno sforzo, emise un respiro di sollievo, e rivolse la sua attenzione al pannello.
«Ventiquattro parsec… Siamo passati accanto ad una stella. Gli strumenti nuovi sono sempre inesatti… O forse dovrei dire che non abbiamo ancora imparato a servircene nel migliore dei modi. Puoi spegnere la musica, adesso. Tey si è svegliato.»
Nel silenzio che seguì, Kari Ram poté udire distintamente il respiro ineguale dell’uomo che stava riprendendo conoscenza.
La sala comando era una stanza piuttosto grande, di forma circolare, profondamente nascosta, per maggiore sicurezza, nelle viscere dell’astronave. Sopra i pannelli degli strumenti e le porte sigillate ermeticamente, uno schermo azzurrino correva tutto intorno alla parete. Davanti, lungo l’asse longitudinale della nave, c’era un varco, nello schermo, per il disco localizzatore, che aveva un diametro pari al doppio dell’altezza di un uomo. Il disco, trasparente come cristallo, sembrava fondersi nello spazio cosmico, scintillando come un diamante nero nella luce fioca che emanava dai quadranti.
Moot Ang fece un movimento quasi impercettibile, e tutti e tre alzarono le braccia per schermarsi gli occhi. Un gigantesco sole color arancio era esploso improvvisamente sullo schermo. Anche se la sua intensità era ridotta da filtri molto potenti, la luce era assolutamente insopportabile.
Moot Ang scosse il capo.
«Stiamo quasi passando attraverso la corona solare. Non calcolerò mai più “rotte esatte", in precedenza! E’ molto più sicuro passare al largo.»
«La cosa peggiore, quando si ha a che fare con le astronavi a tonneggio, è che tu calcoli la rotta, e loro partono alla cieca come proiettili sparati nella notte.» La voce di Tey Eron si levò dalle profondità del sedile. Tey era il secondo ufficiale e l’astrofisico della spedizione. «Per giunta, noi siamo ciechi e impotenti nel centro dei campi vorticali di protezione. Non mi piace questo tipo di volo spaziale, anche se è il più rapido che l’uomo sia riuscito ad inventare.»
«Ventiquattro parsec, e ci è sembrato un momento, » disse Moot Ang.
«Un momento di sonno simile alla morte,» mormorò Tey Eron. «In quanto alla Terra…»
«Meglio non pensare alla Terra,» disse Kari Ram, alzandosi. «Né al fatto che sono passati settantotto anni dalla nostra partenza; e che i nostri amici, i nostri parenti, a casa, sono morti di vecchiaia. Meglio non pensarci. Quali cambiamenti troveremo, quando ritorneremo?»
«Sarebbe la stessa storia anche se usassimo un altro tipo di astronave,» fece il capitano, conciliante. «La sola differenza è che la Tellur si muove più velocemente. E, anche se ci spingeremo nello spazio più di chiunque altro prima di noi, troveremo pochi cambiamenti al nostro ritorno. »
Tey Eron si avvicinò al calcolatore.
«E’ tutto normale,» disse, dopo qualche minuto. «Quella stella è Cor Serpentis, o meglio Unuk el-Hay, come la chiamavano gli antichi astronomi arabi: il Cuore del Serpente.»
«E dov’è la sua compagna?» chiese Kari Ram.
«Nascosta dietro il primario. Guarda qui: spettro K0. Rispetto a noi è in eclisse.»
«Liberate tutti i ricevitori!» ordinò il capitano.
L’infinita oscurità del cosmo avvolse ogni cosa: una oscurità senza fondo che sembrava ancora più nera in confronto alla luce accecante arancio-dorata di Cor Serpentis, che splendeva a sinistra, verso la poppa. La Via Lattea e le altre stelle impallidirono in quel bagliore. Soltanto una stella bianca, più in basso, mantenne il suo splendore.
«Ci avviciniamo all’Epsilon del Serpente,» disse Kari Ram. La sua voce era più alta del normale. Evidentemente, si aspettava un elogio dal capitano. Ma Moot Ang non disse nulla. I suoi occhi erano puntati verso la luce bianca della stella lontana.
«Ecco, fin dove giunse la mia vecchia nave, la Sol,» disse, finalmente, rendendosi conto del silenzio d’attesa che era caduto sulla sala comando. «Per esplorare nuovi pianeti…»
«E quella è Alphecca della Corona Boreale!»
«Sì, Ram. O, per usare il suo nome europeo, Gemma. Ma adesso dobbiamo metterci al lavoro.»
«Debbo svegliare gli altri?» chiese Tey Eron.
«No. Faremo qualche altro balzo, se troveremo via libera,» disse Moot Ang. «Accendi i telescopi ottici ed i radiotelescopi. Controlla il funzionamento delle macchine-memoria. Tey, puoi attivare i motori nucleari. Useremo quelli. E accelera.»
«Sei settimi della velocità della luce?»
Il capitano annuì, e Tey si affrettò a manovrare gli interruttori. Neppure un fremito passò nell’astronave; ma un lampo accecante accese tutti gli schermi, cancellando completamente tutte le stelle della Via Lattea, compreso il vecchio Sole della Terra.
«Dovremo attendere parecchie ore, prima che gli strumenti completino le osservazioni e le controllino,» disse Moot Ang. «Adesso mangeremo qualcosa e faremo bene a dormire un po’. Continua tu, Kari. Poi ti rileverò io.»
Kari Ram si lasciò cadere sul sedile posto di fronte al centro del pannello dei comandi. Dopo che gli altri due uomini si furono allontanati, spense i ricevitori e le fiamme dei motori a razzo scomparvero dalla sua vista.
Il bagliore riflesso del tremendo Cor Serpentis danzava sulle superfici lucenti degli strumenti di bordo. Il disco del localizzatore di prua rimaneva un pozzo oscuro, senza fondo. E questo era confortante: significava che i calcoli per i quali erano stati necessari sei anni di lavoro da parte delle migliori menti e delle migliori calcolatrici terrestri erano esatti.
La Tellur, la prima astronave a tonneggio spaziale costruita sulla Terra, si stava muovendo lungo un grande corridoio nello spazio, vuoto di ammassi stellari e di nubi di polvere cosmica. Quel tipo di astronave, capace di muoversi in uno spazio-zero, era stata progettata per spingersi più lontano di quanto si fossero mai spinte le astronavi atomiche che non potevano superare i cinque sesti o i sei settimi della velocità della luce. Lavorando sul principio della compressione del tempo, le astronavi a tonneggio erano migliaia di volte più rapide. C’era lo svantaggio che durante i balzi erano prive di controllo umano; infatti gli astronauti potevano sopportare l’attimo del balzo nello spazio soltanto in istato di incoscienza, protetti da potenti campi di energia vorticale. La Tellur si spostava a balzi, e prima di ogni balzo era necessario accertarsi che la via fosse sgombra.
Adesso la Tellur era sulla strada per superare il Serpente, verso uno spazio privo di stelle, nelle latitudini alte della Galassia, diretta verso una stella al carbonio nella costellazione di Ercole. Lo scopo di questo viaggio così incredibilmente lungo era studiare il misterioso processo di trasformazione della materia direttamente sulla stella al carbonio. I dati raccolti sarebbero stati di valore inestimabile, per l’evoluzione dell’energia, sulla Terra. Secondo una teoria, quella stella era in rapporto con una nuvola scura, elettromagnetica, a forma di disco, che ruotava di taglio rispetto alla Terra. Gli scienziati ritenevano che i processi in atto in quella zona del cielo relativamente vicina al Sole potevano costituire una ripetizione della nascita del nostro sistema planetario. L’espressione “relativamente vicina", indicava, comunque, una distanza di centodieci parsec, corrispondente a «trecentocinquanta anni-luce.
Kari Ram controllò tutti gli strumenti di sicurezza, che gli confermarono come tutte le installazioni automatiche dell’astronave funzionassero normalmente.
Tornò a sedersi e si dedicò di nuovo ai suoi pensieri.
Adesso la Terra era infinitamente lontana. Settantotto anni luce li dividevano dalla buona, bella Terra che l’umanità aveva trasformato in un’oasi di esistenza felice, di lavoro creativo ed ispirato.
Nella società priva di classi che l’uomo era riuscito a creare per il proprio benessere, ciascuno conosceva il suo pianeta così bene che ormai era rimasto poco da imparare. Gli uomini conoscevano non soltanto le sue fabbriche, le sue miniere, le sue piantagioni, le sue industrie marine ed i suoi centri di ricerca, i suoi musei e le sue riserve, ma anche i tranquilli rifugi nei quali si poteva godere delle bellezze della natura in piacevole solitudine o in compagnia della persona amata.
Era un mondo meraviglioso, ma nella sua insaziabile sete di conoscenza l’uomo si era spinto verso gli spazi gelidi del cosmo, cercando la soluzione dell’enigma dell’universo, ansioso di scoprire i segreti della natura, di assoggettarla ancora più completamente alla propria volontà.
Dapprima l’uomo aveva raggiunto la Luna; aveva veduto le pianure e le montagne lunari spazzate dalla pioggia letale dei raggi X e delle radiazioni ultraviolette del Sole.
Poi su Venere, torrido e senza vita, con i suoi oceani di petrolio, il suo suolo intriso di catrame e la sua nebbia eterna; e su Marte, freddo e sabbioso, che conservava ancora qualche scintilla di vita nelle profondità del sottosuolo.
Aveva avuto appena inizio l’esplorazione di Giove, quando le nuove astronavi già raggiungevano le stelle più vicine. Le navi spaziali della Terra visitarono Alpha e Proxima del Centauro, la Stella di Barnard, Sirio, Età Eridani, e perfino Tau Ceti: non le stelle vere e proprie, naturalmente, ma i loro pianeti o le loro immediate vicinanze, come nel caso della stella doppia di Sirio, che non aveva un sistema planetario.
Ma mai, fino ad allora, gli astronauti della Terra avevano raggiunto un pianeta sul quale la vita fosse arrivata al più alto stadio evolutivo, in altre parole, un pianeta abitato da esseri pensanti.
Dall’infinità del cosmo, le onde radio ultracorte portavano messaggi di altri mondi abitati; qualche volta quei messaggi raggiungevano il nostro pianeta migliaia di anni dopo essere stati lanciati. Ma l’uomo cominciava solo adesso a comprendere questi messaggi, ad ottenere una prima visione del vasto oceano di cognizioni scientifiche e tecniche e di realizzazioni artistiche che bagnava le sponde dei mondi abitati della nostra Galassia.
E questi mondi erano al di fuori della portata dell’uomo; per non parlare, poi, dei mondi appartenenti agli universi-isola lontani milioni di anni-luce!
Questa consapevolezza aveva acuito l’ansia dell’uomo di raggiungere pianeti abitati da uomini, forse dissimili dagli umani della Terra, ma che comunque avevano costruito sane e razionali società nelle quali ogni individuo aveva diritto alla sua parte di felicità, in una misura limitata soltanto dalla sua capacità di dominare la natura. Sembrava ormai certo che esistevano mondi abitati da esseri simili a noi; anzi, questi mondi costituivano probabilmente la maggioranza.
Infatti, le leggi che governavano l’evoluzione dei sistemi planetari e della vita sui loro mondi erano identiche non soltanto nella Galassia, ma in tutto l’universo conosciuto.
L’astronave a deriva spaziale, l’ultimo trionfo del genio umano, aveva reso possibile rispondere al richiamo di tutti quei mondi lontanissimi
E adesso la Tellur era avviata verso la sua missione. Se il suo volo avesse conseguito il successo sperato, allora… Ma, come in ogni altro caso, anche questa invenzione aveva un suo lato negativo.
«Sicuro, l’altra faccia della medaglia,» disse Kari Ram, a voce alta. Era immerso così profondamente nei suoi pensieri che non si accorse di aver parlato finché non udì la voce profonda di Moot Ang cantare una antica canzone.
L’altra faccia dell’amore,
ora profonda come l’oceano
ora stretta come una scala a chiocciola:
non c’è scampo, è nel tuo sangue!
«Non immaginavo che anche a te piacessero le vecchie canzoni,» disse il capitano. «Questa ha almeno cinquecento anni.»
«Non stavo pensando alle canzoni,» rispose l’astronavigatore. «Stavo pensando al nostro volo..E mi chiedevo quale aspetto avrà la Terra, quando ritorneremo.»
Il volto del capitano si rannuvolò.
«Abbiamo percorso soltanto il primo balzo. E tu stai pensando al nostro ritorno?»
«Oh, no! Sai bene quanto mi stava a cuore essere fra i prescelti per questa spedizione. Ma stavo pensando che quando ritorneremo sulla Terra saranno passati settecento anni di tempo terrestre. E anche se la durata media della vita umana sarà raddoppiata, i pro-pronipoti dei nostri fratelli e delle nostre sorelle saranno morti, di qui ad allora.»
«E non lo sapevi?»
«Certo, lo sapevo. Ma c’è qualcosa d’altro che mi ha colpito.»
«L’apparente inutilità del nostro volo?»
«Appunto. Molto tempo prima che la Tellur fosse costruita o anche soltanto progettata, normali astronavi a razzo partirono per Fomalhaut, Capella e Arcturus. Questo accadde cinquant’anni fa; ma la spedizione di Fomalhaut è attesa di ritorno soltanto fra due anni. Le spedizioni di Arcturus e di Capella torneranno fra quaranta o cinquant’anni. Sai bene che Arcturus dista dal Sole dodici parsec, e Capella quattordici. Ma le nuove astronavi a tonneggio possono raggiungere Arcturus in un solo balzo; è una distanza minima, rispetto a quelle che dovremo coprire nel nostro volo. E, prima che noi ritorniamo indietro, gli uomini potrebbero aver conquistato completamente il tempo o lo spazio, da qualsiasi punto di vista lo consideri. Le astronavi che vengono costruite nel frattempo avranno una portata molto più vasta che non la nostra… E noi torneremo sulla Terra con un carico di informazioni inutili ed ormai vecchie.»
«Vuoi dire che la nostra partenza dalla Terra è qualcosa di simile alla morte, e che noi ritorneremo come esseri primitivi, come sopravvissuti di un’età ormai trascorsa?» chiese Moot Ang.
«Sì.»
«Hai ragione e torto nello stesso tempo. La raccolta dì nuove conoscenze e di nuove esperienze, che comprende anche l’esplorazione dell’universo, non deve mai cessare. Altrimenti le leggi dell’evoluzione verrebbero violate; e l’evoluzione è sempre ineguale, contraddittoria. Pensa agli antichi scienziati, che oggi ci sembrerebbero altrettanti primitivi… cosa sarebbe accaduto se avessero atteso che fosse inventato il moderno microscopio a quante? E se i coltivatori ed i costruttori del passato che lavoravano la terra con il loro sudore avessero deciso di non fare nulla fino a che non fossero state costruite le macchine automatiche? Se essi avessero pensato in questo modo, noi vivremmo ancora nelle grotte e ci nutriremmo delle briciole che la natura potrebbe concederci. »
Kari Ram rise, ma Moot Ang proseguì:
«Inoltre, noi abbiamo un dovere da compiere, come ogni altro membro della società. E per essere i primi a penetrare in regioni dell’universo prima d’ora irraggiungibili dobbiamo pagare un prezzo: e questo prezzo è morire per settecento anni. Ma coloro che sono rimasti indietro, a godere di tutti i piaceri della vita terrestre, non conosceranno mai la meraviglia e la gioia di guardare nei segreti più profondi dell’universo. E in quanto al nostro ritorno… non credo che tu debba preoccuparti per il futuro. Dall’inizio della storia umana non c’è mai stata un’età in cui l’umanità non abbia conservato qualcosa del suo passato, nonostante il suo progresso ascensionale. Ogni secolo, oltre alle sue caratteristiche particolari, ha sempre avuto caratteristiche simili a quelle di tutti gli altri tempi. Forse anche quella piccola scintilla di conoscenza che riporteremo sulla Terra potrà contribuire ad un nuovo progresso della scienza, a rendere più ricca e più piena la vita di tutta l’umanità. E anche se noi ritorneremo da un passato lontanissimo, ebbene, le nostre vite non sono forse dedicate al futuro? Come potremo sentirci stranieri in mezzo alle nuove genti fra cui ci recheremo? Come è possibile che qualcuno il quale dà tutto alla società possa essere un estraneo per i suoi fratelli? Devi ammettere che l’uomo è qualcosa di più che un semplice accumulo di nozioni e di conoscenze; è un portatore di emozioni complesse, e sotto questo punto di vista non saremo inferiori a nessuno, dopo le esperienze del nostro viaggio.»
Moot Ang si interruppe per un attimo, poi aggiunse, in tono più leggero:
«Parlando a titolo strettamente personale, sono così ansioso di vedere il futuro che anche soltanto per questo…»
«…ti senti pronto a morire temporaneamente, dal momento che è nell’interesse della Terra?» chiese il navigatore.
Il capitano annuì.
«Faresti meglio ad andare a prendere qualcosa da mangiare,» disse poi. «Fra poco verrà il momento di iniziare il secondo balzo. E tu cosa sei venuto a fare qui, Tey?»
Il secondo ufficiale alzò le spalle.
«Volevo dare un’occhiata alla rotta calcolata dai nostri strumenti. Ed è anche il momento di rilevarti.»
Premette un pulsante al centro del pannello ed una liscia, lucida copertura concava slittò via. Una spirale di nastro color argento sorse dalle profondità dello strumento; e vi scorreva sopra un ago nero che indicava la rotta della nave.
Minuscole luci, scintillanti come gemme, rappresentavano, sulla spirale metallica, le stelle delle diverse classi spettrali, in mezzo alle quali doveva svolgersi la rotta della Tellur. Su un incalcolabile numero di quadranti, le lancette danzavano, mentre le calcolatrici stabilivano la direzione del prossimo balzo, in modo da mantenere l’astronave a distanza di sicurezza rispetto alle stelle, alle nuvole di polvere cosmica ed alle nebulae luminose che avrebbero potuto nascondere ignoti corpi celesti.
Tey Eron era così assorbito nel suo lavoro che quasi non si rendeva conto che il tempo passava. E, nel frattempo, la grande astronave continuava ad avanzare attraverso il nero abisso del cosmo.
Mentre l’astrofisico lavorava, i suoi due compagni se ne stavano seduti, in silenzio, sprofondati in un sedile semicircolare posto accanto alla massiccia, triplice porta che divideva la sala comando dal resto dell’astronave.
Parecchie ore più tardi, il gaio tintinnio d’un campanello annunciò che i calcoli erano terminati.
Il capitano si diresse verso il pannello dei comandi.
«Magnifico! Il prossimo balzo sarà tre volte più lungo di questo!»
«Non proprio. Guarda qui…» Tey indicò la punta dell’ago nero che stava vibrando debolmente, all’unisono con una serie di indicatori.
«In ogni caso, siamo sicuri di un balzo di cinquantasette parsec. Ammettiamo un margine di errore di cinque parsec; il che significa cinquantadue. Pronti per il balzo.»
Gli innumerevoli strumenti vennero controllati ancora una volta.
Moot Ang si recò a controllare le cabine, dove dormivano gli altri cinque componenti dell’equipaggio.
Gli strumenti automatici di osservazione fisiologica garantivano che tutti e cinque si trovavano in condizioni normali. Stabilito questo, il capitano riaccese il campo protettivo attorno ai quartieri dell’equipaggio. Striature rosse corsero lungo il pannello gelido sopra la parete, rivelando il flusso del gas attraverso i tubi nascosti nell’intercapedine.
«Pronti?» chiese Tey Eron al comandante.
Il capitano annuì, ed i tre uomini nella sala comando tornarono a prendere posto nei grandi sedili imbottiti. Si assicurarono con cuscini pneumatici, poi presero le siringhe ipodermiche chiuse nello scompartimento del bracciolo sinistro.
«Bene, avanti… per altri centocinquant’anni di vita terrestre,» disse Kari Ram, affondandosi nel braccio la punta dell’ago.
Moot Ang lo fissò, attento: ma il lieve scintillio ironico negli occhi del giovane lo rassicurò. Quando i suoi due compagni furono ricaduti all’indietro contro le spalliere dei sedili ed ebbero perduto conoscenza, il capitano attivò i meccanismi automatici che controllavano tanto il calcolatore del balzo quanto lo schermo protettivo, mosse le leve di un pannello più piccolo, per fare discendere dal soffitto le cupole massicce e silenziose.
Quando le cupole furono discese al loro posto, il capitano gettò un ultimo sguardo sui quadranti che adesso erano illuminati da una fioca luce azzurrina, e affondò nel braccio la punta dell’ago ipodermico.