Vicino al Bordo

C’era voluto molto tempo per costruirlo. Adesso era quasi completo e gli schiavi toglievano a colpi di scalpello gli ultimi resti di argilla del manto.

Là dove altri schiavi strofinavano alacremente i suoi fianchi di metallo con l’argento, cominciava già a brillare nel sole con la serica lucentezza propria del bronzo nuovo. Era ancora caldo, anche dopo essere rimasto per una settimana a raffreddarsi nella fossa di colata. L’Arciastronomo di Krull fece un gesto con la mano e i portatori deposero il suo trono all’ombra dello scafo.

"Come un pesce" pensò. "Un grande pesce volante. E di quali mari?"

— È davvero magnifico — bisbigliò. — Una vera opera d’arte.

— È frutto di abile mestiere — disse l’uomo tarchiato al suo fianco. L’Arciastronomo si voltò lentamente a fissare il suo volto impassibile. Non è difficile per un volto sembrare impassibile quando al posto degli occhi ci sono due globi d’oro. Che brillavano in modo sconcertante.

— Davvero un abile mestiere — sorrise l’astronomo. — Ritengo che non ci sia un artigiano più abile di te in tutto il Disco. Occhiodoro. Ho ragione?

L’artigiano non rispose subito. Il suo corpo nudo (nudo, se non fosse stato per una cintura con gli arnesi, un pallottoliere da polso e una marcata abbronzatura) si irrigidì mentre ponderava sulle implicazioni di quella osservazione. I suoi occhi d’oro sembravano guardare in un altro mondo.

— La risposta è sì e no — disse alla fine. Alcuni degli astronomi minori che si tenevano dietro il trono trattennero il fiato a quella mancanza di etichetta, ma l’Arciastronomo sembrò non notarla.

— Continua — lo incoraggiò.

— Io manco di certe capacità essenziali. Eppure sono Occhiodoro Manodargento Dactylos. Ho fatto i Guerrieri Metallici a guardia della Tomba di Pitchiu, ho disegnato i Bacini Luminosi del Grande Nef, ho costruito il Palazzo dei Sette Deserti. E tuttavia… — Si batté un dito su uno degli occhi, che risuonò debolmente. — Quando ho costruito l’esercito di automi per Pitchiu, lui prima mi ha ricoperto d’oro e poi. per impedirmi di creare un’altra opera che rivaleggiasse con la sua, mi ha fatto cavare gli occhi.

— Saggio ma crudele da parte sua — affermò con simpatia l’Arciastronomo.

— Già. Così ho imparato a udire la tempra dei metalli e a vedere con le mie dita. Ho imparato a distinguere i minerali al tatto e all’odorato. Mi sono fatto questi occhi, ma non sono riuscito a fare in modo che vedessero.

"Più tardi sono stato chiamato a costruire il Palazzo dei Sette Deserti e, come risultato, l’Emiro mi ha ricoperto d’argento e poi mi ha fatto tagliare la mano destra, cosa che non mi ha del tutto colto di sorpresa"

— Un serio impedimento nel tuo mestiere — dichiarò l’Arciastronomo.

— Ho usato un po’ dell’argento per farmi questa nuova mano, servendomi della mia conoscenza senza pari delle leve e dei fulcri. Ed è stato sufficiente. Dopo avere creato il primo grande Bacino Luminoso, della capacità di cinquantamila ore-luce, i consessi tribali nel Nef mi hanno ricompensato con della seta bellissima e poi mi hanno azzoppato per impedirmi di scappare. Come risultato, ho dovuto faticare un bel po’ per usare la seta e delle canne di bambù per costruirmi una macchina volante con la quale lanciarmi dalla torre più alta della mia prigione.

— E, dopo molte peripezie sei arrivato a Krull — disse l’Arciastronomo. — Impossibile non pensare che qualche altra occupazione, per esempio la coltivazione della lattuga, offrirebbe meno rischi di essere messo a morte a rate. Perché continui?

Occhidoro Dactylos si strinse nelle spalle. — Perché sono bravo in questo mestiere.

L’Arciastronomo guardò ancora il pesce di bronzo, che il sole di mezzogiorno faceva risplendere come un gongo. — Una tale bellezza — mormorò. — E unico. Via, Dactylos, ricordami quale ricompensa ti ho promesso.

— Mi hai chiesto di disegnare un pesce che nuotasse nei mari dello spazio che separano i mondi — intonò il maestro artigiano. — In cambio di che… in cambio…

— Sì? La mia memoria non è più quella di una volta — sussurrò l’altro, accarezzando il bronzo caldo al tatto.

— In cambio — riprese Dactylos, senza mostrare di sperarci troppo — tu mi avresti lasciato andare libero e senza mutilarmi. Non chiedo nessun tesoro.

— Ah sì, adesso mi ricordo. — Il vecchio alzò una mano dalle vene bluastre e aggiunse: — Ho mentito.

Un sibilo lievissimo e l’uomo dagli occhi d’oro vacillò. Abbassò lo sguardo alla freccia che gli usciva dal petto e annuì stancamente. Sulle labbra si allargò una goccia di sangue.

Nella piazza regnava il silenzio (salvo il ronzio di qualche mosca in attesa) mentre lui alzava, con molta lentezza, la mano d’argento e tastava la freccia.

— Una lavorazione grossolana — brontolò e cadde riverso.

L’Arciastronomo toccò il corpo con la punta del piede e sospirò. — Ci sarà un breve periodo di lutto come si conviene per un mastro artigiano — disse. Osservò un tafano posarsi su uno degli occhi d’oro e volare via sconcertato… — Questo può bastare — decretò, e ordinò a due schiavi di portare via la salma.

— Sono pronti i chelonauti? — chiese.

Il capo controllore del lancio si precipitò avanti. — Certo, Vostra preminenza.

— Sono state intonate le preghiere appropriate?

— Naturalmente, Vostra preminenza.

— Quanto tempo ci vuole per arrivare alla porta?

— Alla finestra di lancio — lo corresse l’uomo con precauzione. — Tre giorni, Vostra Preminenza. La Grande A’Tuin si troverà in una posizione impareggiabile.

— Allora — concluse l’Arciastronomo — rimane soltanto da trovare i sacrifici adatti.

Il capo controllore del lancio si inchinò. — Ce li fornirà l’oceano — affermò.

— Lo fa sempre — sorrise il vecchio.


— Se soltanto tu sapessi navigare…

— Se soltanto tu sapessi governare.

Un’ondata spazzò il ponte. Scuotivento e Duefiori si guardarono. — Continua ad aggottare — gridarono all’unisono e afferrarono i buglioli.

Dopo un po’, dalla cabina allagata, filtrò la voce petulante di Duefiori: — Non capisco perché debba essere colpa mia. — Sollevò un altro bugliolo che Scuotivento vuotò in mare.

— Eri tu che dovevi fare la guardia — lo rimproverò in tono secco.

— È merito mio se ci siamo salvati dagli schiavisti, ricordati — disse l’ometto.

— Preferisco essere uno schiavo piuttosto che un cadavere — ribatté il mago. Si raddrizzò e contemplò il mare con aria perplessa.

Era alquanto diverso dallo Scuotivento che era sfuggito all’incendio di Ankh-Morpork sei mesi prima. Intanto, aveva più cicatrici e aveva viaggiato molto di più. Aveva visitato le terre di Centro, scoperto i costumi di molti popoli pittoreschi, guadagnandosi nel contempo altre cicatrici, ed aveva perfino, per pochi indimenticabili giorni, veleggiato sul leggendario Oceano Disidratato nel cuore del deserto incredibilmente arido conosciuto come il Grande Nef. Su un mare più freddo e più umido aveva visto galleggiare montagne di ghiaccio. Aveva cavalcato un dragone immaginario. Era stato lì lì per pronunciare l’incantesimo più potente del Disco. Aveva…

…decisamente l’orizzonte era meno esteso di quanto avrebbe dovuto essere.

— Uhm? — disse Scuotivento.

— Ho detto che nulla è peggiore della schiavitù — affermò Duefiori Rimase a bocca spalancata vedendo l’amico buttare lontano in mare il bugliolo e sedersi pesantemente sul ponte allagato, il viso una maschera grigia.

— Senti, mi rincresce di avere manovrato in modo da essere finiti contro la scogliera, ma non sembra che questa nave stia per affondare e presto o tardi dovremo pur toccare terra — disse Duefiori per confortarlo. — Questa corrente deve andare da qualche parte.

— Guarda l’orizzonte — rispose Scuotivento con voce monotona.

Duefiori ubbidì. — A me pare a posto — replicò dopo un po’. — Ammetto che sia meno esteso di quanto dovrebbe, ma…

— È a causa del Rimfall. Siamo trascinati oltre il bordo del mondo.

Seguì un lungo silenzio, rotto soltanto dallo sciacquio delle onde, mentre la nave che affondava roteava lentamente nella corrente, che si era fatta molto forte.

— Probabilmente ecco la ragione per cui abbiamo urtato la scogliera — aggiunse il mago. — Siamo stati trascinati fuori rotta durante la notte.

— Vuoi mangiare qualcosa? — gli chiese l’ometto che cominciò a frugare nel fagotto che aveva legato al parapetto, per ripararlo dall’umidità.

— Non capisci? — scattò Scuotivento. — Stiamo andando oltre il Bordo, accidentaccio!

— Non possiamo farci niente?

— No.

— Allora non vedo che senso c’è a lasciarsi prendere dal panico.

— Lo sapevo che non avremmo dovuto spingerci tanto lontano in questa direzione — si lamentò Scuotivento con gli occhi rivolti al cielo. — Vorrei…

— Io vorrei avere la mia scatola a immagini — disse Duefiori — ma è rimasta su quella nave di schiavi con il resto del Bagaglio e…

— Dove stiamo andando non avrai bisogno di bagaglio. — Scuotivento, avvilito, contemplò una balena distante, che sbadatamente si era persa nella corrente e adesso stava lottando per non farsi trascinare oltre il bordo.

All’orizzonte raccorciato c’era una linea bianca e al mago parve di udire un rombo lontano.

— Che accade quando una nave oltrepassa il Rimfall? — chiese Duefiori.

— Chi lo sa?

— Be’, in questo caso forse veleggeremo nello spazio e approderemo in un altro mondo. — Negli occhi dell’ometto brillò uno sguardo nostalgico. — Mi piacerebbe — concluse.

Scuotivento si limitò a sbuffare.

Il sole salì alto nel cielo; così vicino al Bordo sembrava notevolmente più grande. I due compagni, con la schiena appoggiata all’albero maestro, erano immersi nei loro pensieri. Ogni tanto, l’uno o l’altro prendeva un bugliolo e, senza apparente ragione, aggottava svogliatamente.

Intorno a loro il mare si faceva affollato. Alla loro altezza fluttuavano numerosi tronchi d’albero e, proprio sotto la superficie, l’acqua pullulava di pesci di ogni tipo. Il che era naturale, dato che la corrente doveva abbondare di cibo spazzato via dai continenti prossimi al Centro. Scuotivento cercò d’immaginare che vita poteva essere, se costretti a nuotare tutto il tempo per restare esattamente nello stesso posto. Molto simile alla sua, decise. Scorse una piccola rana verde che annaspava disperatamente, nella morsa inesorabile della corrente. Davanti allo stupefatto Duefiori. trovò un remo e lo tese al piccolo anfibio, che ci si arrampicò, grato. Un attimo dopo, spuntarono dall’acqua due mandibole che scattarono impotenti verso il punto dove l’animale aveva nuotato.

La rana, che Scuotivento teneva in mano, lo guardò e gli azzannò un pollice, pensierosa. Duefiori ridacchiò. Il mago si ficcò la rana in tasca e finse di non avere udito.

— Molto umanitario, ma perché? — disse l’ometto. — Tra un’ora sarà tutto lo stesso.

— Perché — disse vagamente Scuotivento e si mise ad aggottare. Ora la corrente era così forte che le onde si rompevano tutto intorno a loro tra spruzzi di schiuma. Il caldo era innaturale e sul mare si stendeva una caligine dorata.

Il rombo si faceva più forte. Una seppia, più grande di quanto avesse mai visto prima Scuotivento, spuntò dall’acqua a qualche centinaio di metri, agitando frenetica i tentacoli prima di risprofondare. Un’altra creatura, grossa e fortunatamente non identificabile, ululò nella nebbia. Un’intera squadra di pesci volanti balzò su in una nuvola di goccioline iridate, riuscì a percorrere qualche metro prima di ricadere nell’acqua ed essere spazzata via in un vortice.

Stavano correndo fuori dal mondo. Scuotivento lasciò cadere il bugliolo e si aggrappò all’albero maestro. La fine ultima di tutto precipitava rombando incontro a loro.

Un oggetto duro e resistente urtò lo scafo che ruotò di novanta gradi e finì di lato all’invisibile ostacolo. Quindi si arrestò d’improvviso e una valanga d’acqua si abbatté sul ponte, tanto che per qualche secondo Scuotivento si trovò sommerso da parecchi centimetri di ribollente acqua verde. Si mise a gridare e poi il mondo sommerso divenne di color porpora acceso che prelude alla perdita dei sensi, perché fu in quel momento che Scuotivento cominciò ad affogare.

Si svegliò con la bocca piena di liquido bruciante e, quando lo ingoiò, il dolore lacerante nella gola lo fece rinvenire di colpo.

Sentiva la schiena premuta sull’orlo di una barca e vedeva Duefiori guardarlo con espressione preoccupata. Con un gemito si rizzò a sedere.

Questo si rivelò uno sbaglio: il bordo del mondo distava pochi centimetri.

Al di là, a un livello immediatamente sottostante all’orlo del Rimfall, c’era qualcosa di assolutamente magico.


A un centinaio di chilometri di distanza, bene al riparo dalla corrente e dalla sua spinta, un sambuco con le tipiche vele rosse della nave adibita al trasporto degli schiavi andava alla deriva nel crepuscolo vellutato. La ciurma, o quello che ne rimaneva, era radunata a prua intorno ai compagni che lavoravano febbrilmente a costruire una zattera.

Il capitano, un uomo tarchiato dal turbante tipico degli abitanti del Grande Nef, aveva molto viaggiato e aveva visto molti popoli strani e cose curiose, da lui poi rispettivamente fatti schiavi o rubate. La sua carriera era iniziata come marinaio sull’Oceano Disidratato, nel cuore del deserto più arido del Disco. (Sul Disco l’acqua possiede una insolita quarta proprietà, causata dal calore intenso combinato con gli strani effetti disseccanti della luce dell’ottarino: si disidrata, lasciando un residuo argenteo simile a sabbia fluida attraverso la quale uno scafo ben disegnato può scivolare agevolmente. L’Oceano Disidratato è un posto strano, ma non così strano come i suoi pesci). Ma prima il capitano aveva avuto realmente paura. Adesso era terrorizzato.

— Non sento nulla — borbottò rivolto al nostromo.

Il nostromo scrutò nella semioscurità.

— Forse è caduto in mare? — suggerì speranzoso. Quasi in risposta alla sua domanda, da sotto coperta venne il rumore di colpi furiosi e di legno spezzato. Gli uomini dell’equipaggio si strinsero timorosi gli uni agli altri e brandirono le accette e le torce.

Probabilmente non avrebbero osato servirsene, anche se il Mostro gli si fosse avventato contro. Prima di rendersi conto della sua terribile natura, diversi uomini lo avevano attaccato con le accette; dopodiché quello aveva smesso la sua ostinata perlustrazione della nave e li aveva inseguiti buttandoli a mare o li aveva… mangiati? Il capitano non ne era sicuro. La Cosa aveva l’aspetto di un comune baule da marinaio. Un po’ più largo del solito, forse, ma nulla di sospetto. Ma mentre a volte sembrava contenere cose come vecchie calzette e oggetti vari, altre volte (il capitano rabbrividì) sembrava essere, sembrava avere… Cercò di non pensarci. Probabilmente gli uomini affogati erano stati più fortunati di quelli catturati. Il capitano cercò di non pensarci. Aveva visto dei denti, denti simili a bianche pietre tombali, e una lingua rossa come il mogano…

Cercò di non pensarci. Non ci riuscì. Ma a una cosa pensò con amarezza. Quella era l’ultima volta che lui salvava uomini ingrati sul punto di affogare, in circostanze misteriose. La schiavitù era meglio dei pescecani, no? Poi quelli erano scappati e quando i suoi marinai avevano ispezionato il loro grosso baule… Come mai erano apparsi in mezzo a un oceano calmo, seduti su un grosso baule… che aveva…? Cercò di non pensarci, ma senza volerlo si chiese che cosa sarebbe successo quando quella maledetta cosa si fosse resa conto che il suo proprietario non si trovava più a bordo.

— La zattera è pronta, signore — annunciò il nostromo.

— Calatela in acqua — urlò il capitano. — Salite a bordo! …Incendiate la nave!

Dopo tutto, pensò con filosofia, un’altra nave prima o poi sarebbe passata, ma un uomo doveva aspettare a lungo in quel Paradiso magnificato dai mullah prima di ricevere un’altra vita. Che la scatola magica si mangiasse pure le aragoste.

Certi pirati hanno conseguito l’immortalità grazie alla loro crudeltà o alla loro audacia. Altri ammassando grandi fortune. Ma già da un pezzo il capitano aveva deciso che, tutto sommato, lui avrebbe preferito conseguire l’immortalità evitando di morire.


— Che diavolo è quello? — domandò Scuotivento.

— È bello — disse serafico Duefiori.

— Mi pronuncerò quando saprò che cos’è.

— È il Rimbow — disse una voce vicino al suo orecchio sinistro — e tu sei davvero fortunato a guardarlo. Dall’alto, intendo.

La voce era accompagnata da un soffio di alito freddo, che sapeva di pesce. Scuotivento rimase immobile.

— Duefiori? — chiamò.

— Sì?

— Se mi giro, che cosa vedo?

— Si chiama Tethis e dice di essere un troll marino. Questa è la sua barca. Lui ci ha salvati — spiegò Duefiori. — Adesso vuoi voltarti?

— In questo momento no, grazie. Allora, perché non oltrepassiamo il Bordo?

— Perché la vostra barca ha cozzato contro la Circonferenza — disse la voce (con toni che evocarono per Scuotivento abissi sottomarini e Cose in agguato nelle barriere corallifere).

— La Circonferenza? — ripeté.

— Sì. Corre lungo il bordo del mondo — rispose l’invisibile troll. Al di sopra del rombo della cascata sembrò a Scuotivento di udire il tonfo dei remi. Sperava che fossero remi.

— Ah. vuoi dire la circonferenza — disse. La circonferenza costituisce il bordo delle cose.

— E tale è la Circonferenza — dichiarò il troll.

— Lui vuole dire questo — intervenne Duefiori, puntando un dito in basso. Scuotivento lo seguì con gli occhi e con la paura di ciò che poteva vedere…

Verso il centro della barca, una fune era sospesa a qualche centimetro dalla superficie dell’acqua. Ormeggiata eppure immobile, la barca era attaccata a essa con un complicato sistema di pulegge e rotelle di legno, che scorrevano lungo la fune via via che l’invisibile rematore spingeva l’imbarcazione lungo il bordo stesso del Rimfall. Questo spiegava un mistero… ma che cosa sosteneva la fune?

Guardando meglio, Scuotivento scorse qualche metro più avanti un robusto pilastro di legno sporgere dall’acqua. La barca accostò e lo superò; scorrendo nell’apposita scanalatura le rotelle producevano uno scatto secco. Il mago notò pure che dalla fune principale pendevano a intervalli di circa un metro delle corde più piccole.

Disse, rivolto a Duefiori: — Posso vedere che cosa è, ma che è?

Duefiori alzò le spalle. Allora il troll marino disse: — Più avanti c’è la mia casa. Diremo di più quando saremo lì. Adesso devo remare.

Scuotivento scoprì che guardare avanti voleva dire che doveva voltarsi e vedere com’era fatto un troll marino. E non era ancora sicuro di desiderarlo. Così invece guardò il Rimbow.

L’arcobaleno era sospeso nella bruma a una certa distanza oltre il bordo del mondo; esso appariva soltanto la mattina e la sera, quando la luce del piccolo satellite solare del Disco brillava al di là della mole della Grande A’Tuin, la Tartaruga del Mondo e si proiettava sul campo magico esattamente all’angolo giusto.

Un doppio arcobaleno si stava formando: i suoi sette colori minori brillavano e danzavano nella spuma dei mari morenti.

Ma erano pallidi in confronto alla striscia più larga che fluttuava al di là, disdegnosa di condividere con loro lo stesso spettro.

Era il Colore Reale, di cui tutti gii altri sono riflessi meramente parziali e slavati. Era l’ottarino, il colore della magia. Era vivo risplendente vibrante ed era l’indiscusso pigmento dell’immaginazione perché, ovunque apparisse, stava a significare che la semplice materia era serva dei poteri della mente magica. Era l’incantamento stesso.

Ma per Scuotivento il suo colore era una sorta di porpora con sfumature verdastre.


Dopo un po’ una piccola macchia sull’orlo del mondo si rivelò un isolotto o una roccia scoscesa, così pericolosamente in bilico che le acque della cascata ci vorticavano attorno all’inizio della loro lunga discesa. Sopra ci era stata costruita una capanna fatta di pezzi di legno trascinati dalla corrente: la fune principale della Circonferenza, poggiata su pali di ferro, si arrampicava sull’isolotto roccioso e passava nella casetta attraverso una finestrella rotonda. Come Scuotivento seppe in seguito, in questo modo il troll poteva essere immediatamente avvertito della possibilità di un salvataggio sul suo tratto della Circonferenza per mezzo di una serie di campanelli di bronzo attaccati alla fune.

Sul lato dell’isola verso la terraferma era stata costruita una rozza palizzata galleggiante, che conteneva una o due carcasse di navi e una grande quantità di tavole, travi e perfino tronchi d’albero, alcuni ancora con le loro foglie verdi.

Così vicino al Bordo, il campo magico del Disco era tanto intenso che dappertutto tremolava un alone nebbioso, generato dall’illusione naturale che si scaricava spontaneamente.

Con qualche sobbalzo finale la barca scivolò accanto a un piccolo molo di legno. Come si fermò descrivendo un cerchio, Scuotivento provò tutte le sensazioni familiari di una possente aura occulta: oleosa, di un gusto bluastro, l’odore di stagno. Tutto intorno a loro la magia pura si spargeva leggera nel mondo.

Il mago e Duefiori si arrampicarono sul tavolato e per la prima volta Scuotivento vide il troll.

Non era affatto spaventoso come lo aveva immaginato.

"Uhm", disse dopo un po’ la sua immaginazione.

Non che il troll fosse orrido. Invece della putrida mostruosità tentacolare che si aspettava, Scuotivento si trovò davanti a un vecchio tarchiato ma non particolarmente brutto, che senza alcuna difficoltà sarebbe apparso normale per le strade di una città, sempre a patto che i passanti fossero abituati a vedere dei vecchi apparentemente composti quasi soltanto d’acqua. Pareva che l’oceano avesse deciso di creare la vita senza passare per tutto il noioso processo dell’evoluzione. E avesse semplicemente plasmato una parte di se stesso in un bipede poi inviato a camminare traballante sulla spiaggia. Il troll era di un gradevole colore azzurro traslucido. Mentre Scuotivento lo contemplava, un piccolo banco di pesci argentati gli sfrecciò attraverso il petto.

— Non è educato fissare una persona — disse il troll. La sua bocca si aprì con una piccola cresta di spuma e si richiuse nello stesso esatto modo in cui l’acqua si richiude su una pietra.

— Davvero? Perché? — chiese il mago. "Come fa a stare insieme" si domandava. "Perché non trabocca?"

— Se volete seguirmi a casa, vi troverò del cibo e un cambio d’abiti — disse solenne il troll e si avviò sugli scogli senza guardare se gli andavano dietro. Dopo tutto, dove altro potevano andare? Si stava facendo buio e un vento freddo e umido soffiava sopra il bordo del mondo. Già l’arcobaleno era scomparso e sopra la cascata la foschia cominciava a dissiparsi.

— Andiamo — disse Scuotivento e afferrò Duefiori per il gomito. Ma il turista non pareva intenzionato a muoversi.

— Andiamo — ripeté il mago.

— Quando diventa veramente buio, credi che guardando giù potremo vedere la Grande A’Tuin, la Tartaruga del Mondo? — chiese Duefiori, con lo sguardo alle nuvole.

— Spero di no — rispose Scuotivento. — Davvero. Ora andiamo.

Duefiori lo seguì a malincuore nella capanna. Il troll aveva acceso due lampade e se ne stava comodamente seduto in una poltrona a dondolo. Quando entrarono, si alzò in piedi e versò da un’alta caraffa due tazze di un liquido verde. Nella luce fioca pareva divenuto fosforescente, come i mari caldi nelle notti d’estate. Giusto per aggiungere un tocco di stravaganza alla paura che segretamente provava Scuotivento, sembrava anche diventato più alto di parecchi centimetri.

Il mobilio della stanza era composto quasi esclusivamente di casse.

— Uhm. Hai un gran bel posto qui — si congratulò il mago. — Etnico.

Prese in mano una tazza e guardò il liquido verde luccicante. "Speriamo che sia potabile" pensò. "Perché sto per berlo" e lo mandò giù.

Era la stessa roba che Duefiori gli aveva dato nella barca ma allora non ci aveva fatto caso, perché aveva la mente occupata da questioni più pressanti. Adesso aveva tutto il tempo di assaporarlo.

Storse la bocca e gemette piano. Con un movimento convulso una delle sue gambe si sollevò e lo colpì in mezzo al petto.

Duefiori, pensieroso, faceva roteare il suo liquido e ne analizzava il gusto. — Ghlen Livid — disse alla fine. — Il liquido fermentato della noce vul che distillano nella mia patria. Un certo gusto fumoso… Piccante. Dalle piantagioni occidentali della… ah… Provincia Rehigreed, sì? Dal colore, direi il raccolto dell’anno prossimo. Posso domandarti come lo hai avuto?

(Sul Disco le piante includono le categorie comunemente conosciute come annuali, seminate quest’anno per avere il raccolto più in là nello stesso anno; biennali, seminate quest’anno per l’anno prossimo e perenni, seminate per crescere fino a nuovo avviso. Includono anche poche e rare re-annuali, le quali, a causa di un insolito intreccio quadridimensionale dei geni, possono essere seminate quest’anno per nascere l’anno scorso. La vite della noce vul era particolarmente eccezionale in quanto poteva essere in pieno rigoglio fino a otto anni prima della semina. Si diceva che il vino della noce vul conferisse a certi bevitori il potere di leggere nel futuro che, dal punto di vista della pianta, era il passato. Strano ma vero).

— Tutte le cose confluiscono a tempo debito nella Circonferenza — sentenziò il troll. — Il mio lavoro consiste nel recuperare i relitti galleggianti. Legname, naturalmente, e navi. Botti di vino. Balle di indumenti. Voi due.

Nella mente di Scuotivento si fece la luce. — Si tratta di una rete, vero? Tu hai teso una rete proprio sul bordo del mare!

Il troll annuì. — La Circonferenza. — Sul petto gli corsero delle increspature.

Il mago guardò fuori all’oscurità fosforescente che circondava l’isola e fece una risatina sciocca. — Certo — esclamò. — Straordinario! Si potrebbero affondare delle palafitte, fissarle alla scogliera e… buona fortuna! La rete dovrebbe essere molto robusta.

— Lo è — disse Tethis.

— Si potrebbe estendere per più di due chilometri, purché si trovino abbastanza rocce e altro.

— Sedicimila chilometri. È la zona che pattuglio io.

— È un terzo della circonferenza del Disco!

Tethis fece di nuovo di sì con la testa e sparse un po’ d’acqua. Mentre i due uomini si versavano dell’altro vino verde, raccontò loro della Circonferenza, del grande sforzo fatto per costruirla; dell’antico e saggio Regno di Krull che l’aveva fabbricata diversi secoli prima, dei sette navigli che la ispezionavano costantemente per eseguire le riparazioni e riportare a Krull i prodotti del salvataggio; del modo in cui Krull era diventato un paese dove era piacevole vivere, governato dai più grandi sapienti e del modo in cui essi cercavano costantemente di comprendere in ogni dettaglio la mirabile complessità dell’universo; del modo in cui i marinai abbandonati sulla Circonferenza erano fatti schiavi e di solito avevano tagliata la lingua. A questo punto, dopo alcune interiezioni, parlò in via amichevole della futilità d’impiegare la forza, dell’impossibilità di fuggire dall’isola, se nor con la barca, verso una delle altre trecentottanta isole situate tra la sua e il regno di Krull, oppure di saltare giù dall’Orlo. E del grande merito del mutismo paragonato a, diciamo, la morte.

Seguì una pausa. Il rombo attutito nella notte del Rimfall serviva soltanto a fare risaltare il silenzio.

Quindi la poltrona a dondolo si rimise a cigolare. Sembrava che durante il monologo Tethis fosse cresciuto in maniera allarmante.

— In tutto questo non c’è nulla di personale — aggiunse. — Anch’io sono uno schiavo. Se cercate di avere la meglio su di me, sarò costretto a uccidervi, naturalmente, ma non mi darà nessun piacere.

Scuotivento guardò i pugni luccicanti posati in grembo al troll. Li sospettava capaci di colpire con tutta la forza di un maremoto.

— Non credo che tu capisca — disse Duefiori. — Io sono un cittadino dell’Impero Dorato. Sono sicuro che Krull non desidererebbe incorrere nel corruccio dell’Imperatore.

— Come potrà saperlo l’imperatore? — chiese il troll. — Pensi di essere la prima persona proveniente dall’Impero che sia finita nella Circonferenza?

— Io non sarò uno schiavo — gridò Scuotivento. — Piuttosto io… io salterei giù dall’Orlo! — Si meravigliò lui stesso del suono della propria voce…

— Davvero? — disse il troll. La sedia a dondolo andò a sbattere contro la parete e un braccio azzurro afferrò il mago per la vita. Un attimo dopo il troll usciva dalla capanna tenendo con noncuranza nel suo pugno Scuotivento. Non si fermò se non quando si trovò sul limite dell’isola dalla parte della cascata. Scuotivento strillava.

— Piantala o ti butto davvero di sotto — sbottò il troll. — Ti sto reggendo, no? Guarda.

Il mago guardò.

Davanti a lui si estendeva la notte nera dove le stelle brillavano pacifiche. Ma il suo sguardo si abbassò, attirato da una seduzione irresistibile.

Sul Disco era mezzanotte e pertanto il sole oscillava lentamente molto molto più giù. sotto la vasta corazza ghiacciata della Grande A’Tuin.

Scuotivento si sforzò un’ultima volta di fissare lo sguardo sulla punta dei suoi stivali, che sporgevano dall’orlo della roccia, senza riuscirci.

Su entrambi i lati due scintillanti cortine d’acqua si precipitavano verso l’infinito mentre il mare batteva le coste dell’isola nel suo cammino verso l’enorme cascata. Un centinaio di metri più in basso il più grosso salmone che avesse mai visto saltò fuori dalla schiuma, in un ultimo disperato frenetico grido. Poi ricadde, più e più volte, nella luce dorata del mondo sommerso.

Ombre gigantesche si levarono da quella luce come pilastri che sorreggessero il tetto dell’universo. Centinaia di chilometri in basso il mago scorse l’ombra di qualcosa, il bordo di qualcosa…

Come quei curiosi quadretti in cui la sagoma di un bicchiere finemente decorato diventa improvvisamente il contorno di due volti, la scena sotto a lui acquistò una nuova, terrificante prospettiva. Perché laggiù c’era la testa di un elefante grosso come un continente di proporzioni medie. Una zanna possente risaltava come una montagna contro la luce dorata e disegnava verso le stelle un’ombra che si andava allargando. La testa era leggermente inclinata di lato e si scorgeva un enorme occhio di rubino, quasi una super-gigante rossa che avesse trovato il modo di brillare a mezzogiorno.

Sotto l’elefante…

Scuotivento deglutì e cercò di non pensare…

Sotto l’elefante non c’era nulla se non il distante disco del sole. Lo oltrepassava lentamente un qualcosa che, malgrado le sue squame delle dimensioni di una citta, la sua rocciosità lunare e i suoi buchi come crateri, era senza dubbio una pinna.

— Ti debbo lasciare? — suggerì il troll.

— Noo — disse Scuotivento, tirandosi indietro con tutte le sue forze.

— Ho vissuto per cinque anni qui su! Bordo e non ho avuto il coraggio — dichiarò Tethis con il suo vocione. — E nemmeno tu, se sono buon giudice. — Indietreggiò e lasciò che l’altro si buttasse a terra.

In quel momento arrivò Duefiori, che abbassò lo sguardo. — Fantastico — esclamò. — Se soltanto avessi la mia scatola a immagini… Che altro c’è laggiù? Voglio dire, se uno si butta, che cosa vedrebbe?

Tethis si sedette su una roccia sporgente. La luna apparve da dietro una nube e gli dette l’apparenza dei ghiaccio.

— Forse la mia casa si trova laggiù — disse lentamente. — Oltre i vostri stupidi elefanti e quella ridicola tartaruga. Un mondo vero. A volte vengo qui e guardo, ma non riesco mai a decidermi a fare quell’ultimo passo… Un mondo vero, con gente vera. Ho moglie e bambini, da qualche parte laggiù… — S’interruppe e si soffiò il naso. — Si impara presto di che cosa si è fatti, qui sul Bordo.

— Smettila di dirlo, ti prego — gemette Scuotivento. Si voltò e vide Duefiori ritto proprio sull’orlo della roccia. — Nooo — disse e cercò di cacciarsi dentro la pietra.

— C’è un altro mondo laggiù? — chiese Duefiori, sporgendosi a guardare. — Dove, esattamente?

Il troll fece un gesto vago. — Da qualche parte. È tutto ciò che so. È un mondo piccolissimo. Quasi tutto azzurro.

— Allora perché sei qui?

— Non è ovvio? — scattò Tethis. — Sono caduto dal Bordo!


Raccontò loro del mondo di Bathys, da qualche parte tra le stelle, dove la gente del mare aveva creato floride civiltà nei tre grandi oceani che si estendevano sul suo disco. Lui aveva l’incarico di procurare la carne e come tale apparteneva alla casta che si guadagnava la vita in mezzo ai pericoli e viveva in grandi yacht a vela; questi si avventuravano nell’entroterra per cacciare le mandrie di cervi e di bufali che abbondavano nei continenti battuti dagli uragani. Una improvvisa bufera di vento aveva spinto la sua imbarcazione in terre non segnate sulle mappe. Il resto dell’equipaggio aveva preso il piccolo carrello a remi dello yacht e si era diretto a un lago lontano. Ma Tethis, essendo il capitano, aveva scelto di rimanere con il suo vascello. L’uragano l’aveva trasportato via e sbattuto giù dal confine del mondo e ridotto la sua imbarcazione a un mucchio di rottami.

— All’inizio sono caduto — proseguì Tethis — ma cadere non è poi tanto male, sapete. Atterrare è ciò che fa male, e là sotto di me non c’era niente. Mentre cadevo vedevo il mondo roteare nello spazio finché lo persi tra le stelle.

— E dopo cosa è accaduto? — domandò Duefiori con il fiato sospeso e con un’occhiata verso il nebbioso universo.

— Diventai un pezzo di ghiaccio. Per fortuna è una cosa alla quale la mia razza può sopravvivere. Ma di tanto in tanto, passando accanto ad altri mondi, mi sgelavo. Ce n’era uno… Credo fosse quello che mi era sembrato circondato da montagne e che invece si rivelò essere il più grosso drago che potreste mai immaginare: coperto di neve e di ghiacciai, con la coda in bocca… Be’, ci sono arrivato a pochi chilometri di distanza (in effetti passavo con la velocità di una cometa) e poi mi sono allontanato di nuovo. Poi a un certo punto mi sono svegliato e il vostro mondo mi veniva incontro come una torta di crema lanciata dal Creatore e, be’, finii in mare non lontano dalla Circonferenza, nella direzione opposta a Krull. Ogni sorta di creature erano spinte dal mare contro la Palizzata e all’epoca stavano cercando gli schiavi per presidiare le varie stazioni, e io sono finito qui. — Si fermò e fissò Scuotivento. — Ogni notte vengo qui e guardo giù — riprese — e non salto mai. Il coraggio è una merce difficile, qui sul Bordo.

Il mago prese a strisciare risoluto verso la capanna e si mise a gridare quando il troll lo raccolse con garbo e lo rimise in piedi.

— Straordinario — esclamò Duefiori, sporgendosi per guardare in basso.

— Ci sono un sacco di altri mondi laggiù?

— Parecchi, immagino.

— Suppongo che si potrebbe escogitare una specie di… Non so, una cosa per ripararsi dal freddo — disse l’ometto pensieroso. — Una qualche nave per veleggiare al di là del Bordo e anche verso mondi lontani. Mi chiedo…

— Non ci pensare nemmeno! — gemette Scuotivento. — Smettila di parlare così, mi senti?

— A Krull parlano tutti così — affermò Tethis.

— Naturalmente quelli che hanno una lingua — aggiunse.

— Sei sveglio?

Duefiori continuò a russare e Scuotivento lo colpì malignamente nelle costole.

— Ho detto: sei sveglio?

— Scrdfngh…

— Dobbiamo andarcene da qui prima dell’arrivo di questa flotta di salvataggio!

La luce smorta dell’alba filtrò attraverso l’unica finestra della capanna e strisciò sulle pile di casse salvate dai naufragi e sulle balle sparse all’interno. Duefiori grugnì di nuovo e cercò di sprofondare nella pila di pellicce e coperte che Tethis aveva dato loro.

— Guarda, qui dentro c’è ogni sorta di armi e di materiale — disse Scuotivento. — Lui è andato da qualche parte. Quando torna potremo sopraffarlo e… be’, poi possiamo pensare a una soluzione. Che ne dici?

— Che non mi sembra una buona idea. In ogni modo è un po’ scortese, no?

— Accidenti! — esclamò irritato Scuotivento. — Questo è un universo scomodo.

Frugò tra le pile ammucchiate lungo le pareti e scelse una pesante scimitarra ricurva, che probabilmente aveva fatto la gioia e l’orgoglio di qualche pirata. Era il tipo d’arma che per arrecare danno conta tanto sul peso che sul filo della lama. La sollevò goffamente.

— Il troll lascerebbe in giro un oggetto simile se potesse fargli del male? — si chiese ad alta voce Duefiori.

Scuotivento non gli badò e si appostò dietro la porta. Quando questa si aprì, una decina di minuti dopo, si mosse senza esitare e roteò l’arma a quella che giudicava dovesse essere l’altezza della testa del troll. La lama sibilò attraverso il nulla e andò a colpire lo stipite della porta, facendogli perdere l’equilibrio e mandandolo a finire in terra.

Udì un sospiro e alzò gli occhi sul viso di Tethis, che scuoteva triste la testa.

— Non mi avrebbe fatto male — disse il troll — e tuttavia mi hai ferito. Profondamente ferito. — Allungò una mano e sfilò la spada dal legno. Senza sforzo apparente piegò la lama fino a ridurla a un circolo e la scaraventò sulle rocce dove rimbalzò fino a che urtò una pietra, scattò in aria, sempre roteando, e descrisse un arco d’argento che finì nella foschia che si formava sopra il Rimfall.

— Ferito molto profondamente — concluse. Pescò un sacco accanto alla porta e lo gettò a Scuotivento. — È la carcassa di un cervo frollato al punto che piace a voi umani, qualche aragosta e un salmone. La Circonferenza ci rifornisce.

Fissò intento il turista e di nuovo Scuotivento, sempre a terra. — Che stai guardando? — chiese.

— È solo che… — cominciò Duefiori.

— …paragonato alla notte scorsa… — aggiunse Scuotivento.

— Sei cosi piccolo - finì Duefiori.

— Capisco — ammise il troll. — Adesso siamo alle osservazioni personali. — Si drizzò in tutta la sua altezza, normalmente un metro e venti circa. — Solo perché sono fatto di acqua non significa che sono fatto di legno, sapete.

— Scusami — disse Duefiori, uscendo in fretta dalle sue pellicce.

— Voi siete fatti di sudiciume, ma io non ho fatto commenti a proposito di cose per cui non potete farci niente. Oh no, noi non possiamo fare nulla per il modo in cui il Creatore ci ha fatti, è questa la mia opinione. Ma, se proprio volete saperlo, la vostra luna qui è parecchio più potente di quelle intorno al mio mondo.

— La luna? — disse Duefiori. — Non ca…

— Mi obblighi a mettere i puntini sulle i — replicò stizzoso il troll. — Soffro di maree croniche.

Nell’oscurità della capanna trillò un campanello. Tethis attraversò il pavimento scricchiolante per avvicinarsi al complicato congegno di leve, corde e campanelli montato sul cavo più alto della Circonferenza che passava nella capanna.

Il campanello suonò di nuovo e poi iniziò uno strano ritmo sussultante che durò parecchi minuti. Il troll lo ascoltava attento, tenendoci l’orecchio pigiato. Quando il suono cessò, si voltò lentamente a guardare i due uomini, con espressione preoccupata.

— Siete più importanti di quanto pensassi — annunciò. — Non dovrete attendere la flotta di salvataggio. Verrà a prendervi un apparecchio volante. È ciò che dicono a Krull. — Scrollò le spalle. — E ancora non avevo nemmeno inviato un messaggio che eravate qui. Qualcuno ha bevuto ancora vino della noce vul.

Prese un grosso mazzuolo appeso a un pilastro vicino al campanello e se ne servì per scandire un breve carillon. — Passerà da un guardiano all’altro e arriverà fino a Krull — annunciò. — È meraviglioso, vero?


Arrivò veloce sul mare, galleggiando sulla superficie a altezza d’uomo ma lasciando una scia spumeggiante, mentre la forza che lo sosteneva schiaffeggiava brutalmente l’acqua. Scuotivento sapeva qual era quella forza. Lui, per primo lo ammetteva, era un vigliacco, un incompetente, un fallito e, in questo, nemmeno tanto bravo. Ma era pur sempre un mago, conosceva uno degli Otto Grandi Incantesimi, quando moriva lo avrebbe reclamato la Morte stessa, ed era in grado di riconoscere una buona magia sofisticata quando la vedeva.

La lente, che sfiorava l’acqua diretta verso l’isola, distava forse sette metri ed era assolutamente trasparente. Seduti in giro si vedevano numerosi uomini vestiti di nero, ognuno assicurato al disco da una correggia di cuoio. E ognuno fissava le onde con un’espressione così tormentata che il disco trasparente sembrava contornato da mascheroni.

Scuotivento sospirò di sollievo. Un suono così insolito che indusse Duefiori a distogliere gli occhi dal disco e a guardarlo.

— Siamo importanti, non era una bugia — gli spiegò Scuotivento. — Non sprecherebbero tutta quella magia su un paio di semplici schiavi — sogghignò.

— Che cos’è? — chiese l’ometto.

— Il disco deve essere stato creato dal Meraviglioso Concentratore di Fresnel — affermò Scuotivento sicuro di sé. — Ci vogliono molti ingredienti rari e instabili, come l’alito di un demone e così via, e l’applicazione di almeno otto maghi del quarto grado alla settimana. Poi ci sono quei maghi che ci viaggiano e che devono essere tutti idrofobi…

— Vuoi dire che odiano l’acqua? — domandò Duefiori.

— No, non funzionerebbe. L’odio è una forza che attira, come l’amore. Loro l’aborrono, la sola idea li rivolta. Un idrofobo veramente bravo deve essere addestrato fin dalla nascita con acqua disidratata. E, solo di magia, costa una fortuna. Ma diventano grandi maghi del tempo: le nuvole cariche di pioggia rinunciano e se ne vanno.

— Terribile — commentò il troll marino.

Scuotivento non gli prestò attenzione. — E tutti muoiono giovani. Non riescono a vivere con loro stessi.

— Certe volte penso che un uomo potrebbe viaggiare tutta la vita nel Disco e non vedere tutto quello che c’è da vedere — osservò Duefiori. — E adesso sembra che ci sia anche una quantità di altri mondi. Quando penso che potrei morire senza vedere la centesima parte di quello che c’è da vedere, mi sento… — s’interruppe e quindi aggiunse: — Umile, direi. E naturalmente arrabbiato.

L’apparecchio volante si arrestò con un alto spruzzo di spuma a pochi metri di distanza, in direzione del centro dell’isola, e rimase sospeso, rotando lentamente. Una figura incappucciata, in piedi vicino al robusto pilastro esattamente al centro della lente, fece loro cenno di avvicinarsi.

— Fareste meglio ad andare a guado — consigliò il troll. — Non è prudente farli attendere. Conoscervi è stato un piacere. — Diede a entrambi una stretta di mano umida. Li accompagnò per un tratto e i due occupanti più vicini della lente si allontanarono con un’espressione d’intenso disgusto.

La figura incappucciata calò una scala di corda. Nell’altra mano teneva una mazza d’argento chiaramente concepita per uccidere. La prima impressione di Scuotivento si rafforzò vedendo la figura alzare il bastone e scuoterlo in direzione della spiaggia. Una porzione di roccia scomparve e al suo posto rimase soltanto una nebbiolina grigia di nulla.

— Questo perché non pensi che avrei paura a usarla — disse la figura.

— Non penso che voi avete paura! — esclamò Scuotivento. La figura sbuffò.

— Sappiamo tutto di te, Scuotivento il mago. Tu sei un uomo di grande astuzia e artificio. Ridi in faccia alla Morte. La tua finta aria di codardia non mi inganna.

— Io… — cominciò Scuotivento interdetto, e impallidì quando l’altro voltò verso di lui il bastone del nulla. — Io… vedo che sai tutto di me — concluse con voce debole e si sedette pesantemente sulla superficie sdrucciolevole. Seguendo le istruzioni del comandante incappucciato, lui e Duefiori si legarono con cinghie agli anelli infissi nel disco trasparente.

— Se accenni minimamente a lanciare un incantesimo, sei morto — lo minacciò la voce sotto il cappuccio. — Terzo quadrante, regolare; nono quadrante, raddoppiare; avanti tutta!

Un muro d’acqua si levò nell’aria dietro a Scuotivento e il disco sobbalzò. La spaventevole presenza del troll marino probabilmente aveva accresciuto la concentrazione della mente degli idrofobi, perché la lente s’impennò e non iniziò il suo volo regolare se non quando fu a diverse braccia sopra il livello del mare. Scuotivento guardò giù attraverso la superficie trasparente e desiderò non averlo fatto.

— Bene, di nuovo partenza — esclamò allegro Duefiori. Si girò a salutare con la mano Tethis, ridotto a una macchiolina sul confine del mondo.

Scuotivento gli lanciò un’occhiataccia. — Non c’è mai nulla che ti preoccupi?

— Siamo ancora vivi, no? E tu stesso hai detto che loro non si darebbero tanta pena solo per farci schiavi. Credo che Tethis esagerasse. Credo che sia tutto un malinteso. E che ci manderanno a casa. Dopo avere visto Krull, naturalmente. E devo dire che tutto questo sembra affascinante.

— Oh sì, affascinante — gli fece eco il mago con voce cupa. — Pensò: "Ho visto l’eccitazione e ho visto la noia. E la noia era meglio".

Se in quel momento uno di loro due avesse guardato in giù, avrebbe notato sorgere dall’acqua, molto al di sotto di loro, una strana onda a forma di V, con l’apice puntato dritto sull’isola di Tethis. Ma non stavano guardando. I ventiquattro maghi idrofobi stavano guardando, ma per loro si trattava soltanto di un altro frammento di orrore, non dissimile dal liquido orrore tutto intorno. E probabilmente avevano ragione.


Qualche tempo prima di questi avvenimenti, la nave pirata in fiamme si era immersa nelle onde e aveva cominciato la sua lunga e lenta scivolata verso il fondo distante. Era più distante del normale perché proprio sotto la chiglia sfondata si trovava la Gorunna Trench, una spaccatura nella superficie del Disco, così nera, così profonda e così perigliosa che perfino i mostri marini ci si avventuravano con timore e in coppia. Nei baratri meno rischiosi i pesci giravano con le luci accese sulla testa e, tutto sommato, se la cavavano benone. Nella Gorunna, lasciavano spente le luci e strisciavano, per quanto sia possibile strisciare a una creatura priva di gambe. E tendevano a andare a sbattere contro le cose. Cose orribili.

Intorno alla nave l’acqua passò dal verde al porpora, dal porpora al nero, dal nero a un’oscurità così totale che al confronto il nero sembrava soltanto grigio. Sotto l’enorme pressione quasi tutto il fasciame della nave era stato ridotto in schegge.

Il relitto oltrepassò roteando ammassi di polpi da incubo e foreste oscillanti di alghe, che brillavano di colori tenui, malsani. Delle Cose lo sfioravano con i morbidi, freddi tentacoli mentre sfrecciavano via nel silenzio gelido.

Qualcosa spuntò da! fango e se lo mangiò in un boccone.

Più tardi gli isolani di un piccolo atollo non troppo distante dal Bordo, scoprirono con stupore, nella loro piccola laguna, il cadavere straziato dalle rocce di un orribile mostro marino, tutto becchi, occhi e tentacoli. Ciò che più li stupì fu la sua mole, perché era parecchio più grande del loro villaggio. Ma la loro sorpresa era nulla paragonata all’espressione atterrita sul muso del mostro, che sembrava fosse stato calpestato a morte.

A poca distanza dall’atollo due piccole barche, che calavano una rete per la pesca delle ostriche, della specie aggressiva che nuota liberamente nell’acqua e che abbonda in quei mari, presero qualcosa che le trascinò per diversi chilometri prima che uno dei capitani avesse la presenza di spirito di tagliare i fili.

Ma anche il suo sbalordimento fu nulla paragonato a quello degli abitanti dell’ultimo atollo dell’arcipelago. Nella notte seguente furono risvegliati da un terribile strepito proveniente dalla loro minuscola giungla. Al mattino, quando i più audaci andarono a indagare, scoprirono che gli alberi erano stati divelti in una larga fascia che dall’interno puntava precisamente verso il bordo dell’atollo ed era ricoperta di liane spezzate, cespugli abbattuti e qualche ostrica sbalordita e arrabbiata.


Adesso erano abbastanza alti per scorgere la larga curva dell’Orlo allontanarsi, lambita dalle nuvole vaporose che pietosamente nascondevano la cascata. Da quell’altezza il mare, di un azzurro profondo striato dall’ombra delle nuvole vaganti, sembrava quasi invitante. Scuotivento rabbrividì.

— Scusatemi — disse. La figura incappucciata si strappò dalla contemplazione della lontana foschia e sollevò minacciosa la sua verga.

— Non voglio usarla — disse.

— No? — disse Scuotivento.

— Che cos’è comunque? — chiese Duefiori.

— È la verga della Totale Negatività di Ajandurah — rispose Scuotivento. — Vorrei che smettesse di agitarla. Potrebbe mettersi a funzionare — aggiunse con un cenno alla punta lucente del bastone. — Voglio dire, è molto lusinghiera tutta questa magia che viene usata a nostro beneficio, ma non occorre arrivare fino a questo punto. E…

Chiudi il becco. - La figura si tirò indietro il cappuccio e si rivelò per una giovane dalle tinte assai insolite: la pelle era nera. Non scura come quella degli Urabewe o del lucente nero bluastro della gente di Klatch. la terra dei monsoni, ma del nero intenso della mezzanotte in fondo a una caverna. I capelli e le sopracciglia erano del colore del chiaro di luna. Intorno alle labbra la stessa pallida lucentezza. Sembrava avere all’incirca quindici anni ed essere molto spaventata.

Scuotivento notò che la mano che teneva la verga tremava. E ciò perché è difficile non accorgersi di un oggetto di morte che vi oscilla a pochi centimetri dal naso. Cominciò a rendersi conto molto lentamente, perché era una sensazione del tutto nuova, che qualcuno al mondo aveva paura di lui. Gli accadeva così spesso il contrario che lui aveva finito per considerarlo una sorta di legge naturale.

— Come ti chiami? — le chiese in un tono che si sforzò di rendere rassicurante. La fanciulla poteva pure essere spaventata, ma aveva la verga. "Se avessi io una verga del genere" pensò "non avrei paura di niente. Quindi che mai s’immagina che potrei fare?"

— Il mio nome è immateriale — disse lei.

— È un nome grazioso. Dove ci stai portando e perché? Non mi piace che ci sia nulla di male a dircelo.

— Vi stiamo portando a Krull. E non prenderti gioco di me, Hublander. altrimenti userò la verga. Devo ricondurvi vivi, ma nessuno ha detto che dovrete essere interi. Mi chiamo Marchesa e sono una maga del quinto grado. Mi capisci?

— Bene, allora dato che sai tutto di me. saprai pure che io non ho nemmeno conseguito quello di Neofita. In realtà, non sono nemmeno un mago. — Notò l’espressione attonita di Duefiori e aggiunse in fretta: — Solo un mago di mediocre qualità.

— Tu non puoi fare magie perché uno degli Otto Grandi Incantesimi è indelebilmente impresso nella tua mente — disse Marchesa, riacquistando l’equilibrio con grazia quando la grande lente descrisse un ampio arco sul mare. — Ecco perché sei stato espulso dall’Università Invisibile. Lo sappiamo.

— Ma hai appena detto che lui era un mago di grande astuzia e artificio — protestò Duefiori.

— Sì, perché chiunque sia sopravvissuto alle sue vicende, di cui la maggior parte se le è causate da solo con la sua tendenza a considerarsi un mago, be’, deve essere in qualche modo un incantatore — disse Marchesa. — Ti avverto, Scuotivento. Se ho il minimo sospetto che tu intoni il Grande Incantesimo, ti ucciderò davvero. — Lo guardò nervosamente.

— Mi sembra che la cosa migliore sarebbe depositarci da qualche parte — disse Scuotivento. — Cioè, grazie per averci liberati e tutto, così se tu ci lasciassi vivere la nostra vita, sono sicuro che noi tutti…

— Spero che non ti riprometti di farci schiavi — interloquì Duefiori.

Marchesa parve sinceramente scioccata. — Certamente no! Cosa mai può avervi suggerito un’idea del genere? La vostra vita a Krull sarà ricca, piena, confortevole…

— Oh, bene! — esclamò Scuotivento.

— …solo non molto lunga.


Krull si rivelò un’isola grande, montagnosa e fittamente boschiva, con graziosi edifici bianchi visibili qua e là tra gli alberi. Il terreno digradava dolcemente verso il bordo, così che il punto più alto di Krull in effetti lo sovrastava di poco. Là i krulliani avevano costruito la loro città principale, chiamata pure Krull e, dato che tanta parte del materiale edilizio era stato recuperato dalla Circonferenza, le case di Krull erano di tipo decisamente nautico.

Per dirla tutta, intere navi erano state saldate insieme con grande maestria e trasformate in edifici. Triremi, sambuchi e caravelle sporgevano a strani angoli dal caos di legno generale. Polene dipinte e hublandiche prue a forma di dragone ricordavano ai cittadini di Krull che la loro buona sorte gli veniva dal mare; golette e galeoni conferivano un carattere particolare agli edifici più grandi. E così la città si stendeva, file su file di case, tra l’oceano verde-azzurro del Disco e il mare del Bordo, velato da soffici vapori, gli otto colori del Rimbow riflessi in ogni finestra e nelle lenti dei telescopi dei numerosi astronomi.

— È assolutamente terribile — esclamò Scuotivento in tono lugubre.

La lente costeggiava il margine della cascata. Avvicinandosi al Bordo, non soltanto l’isola si faceva più alta; si faceva anche più stretta, così che la lente poté rimanere sopra l’acqua finché fu vicinissima alla città. Il parapetto che correva lungo lo strapiombo era punteggiato da cavalietti protesi nel nulla. La lente scivolò verso uno di loro e vi si agganciò con la stessa facilità con cui un’imbarcazione attracca al molo. Li aspettavano quattro guardie con gli stessi capelli lunari e volti neri come la notte di Marchesa. Non sembravano armate; però, quando Scuotivento e Duefiori misero piede sul parapetto, vennero afferrati per le braccia e tenuti saldamente così da allontanare istantaneamente ogni pensiero di fuga.

Marchesa e i maghi idrofobi restarono indietro e le guardie con i prigionieri si avviarono di buon passo per un sentiero tortuoso tra le case-navi. Ben presto la strada in discesa li portò in una specie di palazzo, mezzo scavato nella roccia dello strapiombo. C’erano gallerie vivacemente illuminate e cortili sotto il cielo distante. Alcuni uomini anziani, dalle vesti coperte di simboli misteriosi, guardarono passare il sestetto. Più volte Scuotivento notò degli idrofobi (la loro innata espressione di disgusto per i propri fluidi corporei era inequivocabile) e qua e là uomini che camminavano faticosamente, certo degli schiavi. Non ebbe tempo di riflettere sul fatto, perché davanti a loro si aprì una porta ed essi furono spinti, con gentile fermezza, in una sala. Poi la porta si richiuse alle loro spalle.

Riacquistato l’equilibrio, i due si guardarono intorno.

— Oddio — esclamò Duefiori alla fine, dopo aver cercato inutilmente di trovare un’espressione migliore.

— È la cella di una prigione? — si domandò ad alta voce il mago.

— Tutto quest’oro e queste sete e questa roba — aggiunse l’ometto. — Non ho mai visto nulla del genere!

Al centro della stanza riccamente decorata, su un tappeto così folto che Scuotivento lo calpestava con precauzione per timore fosse un qualche animale irsuto il quale amasse stendersi sul pavimento, c’era un lungo tavolo lucente carico di cibo. Per la maggior parte erano piatti di pesce, inclusa l’aragosta più grossa e più elaboratamente preparata che lui avesse mai visto; ma c’era anche una quantità di ciotole e piatti grandi ricolmi di strane creazioni mai viste. Il mago prese con cautela una specie di frutto color porpora cosparso di cristalli verdi.

— Ricci di mare canditi — disse una voce gracchiante e allegra alle sue spalle. — Una grande leccornia.

Lui la pose giù in fretta e si voltò. Un vecchio era spuntato fuori dalle pesanti cortine. Era alto e magro, dall’aspetto quasi benevolo paragonato a certi visi che Scuotivento aveva visto di recente.

— Anche la purea di oloturie è buonissima — proseguì l’altro. — Quei pezzetti verdi sono giovani stelle di mare.

— Grazie di avermelo detto — disse debolmente Scuotivento.

— In realtà, sono piuttosto buone — assicurò Duefiori, a bocca piena. — Credevo ti piacessero i frutti di mare.

— Sì, lo credevo anch’io. Questo vino cos’è, occhi di polpo pigiati?

— Uva di mare — lo informò il vecchio.

— Magnifico. — Scuotivento ne mandò giù un bicchiere. — Un po’ salato, forse.

— L’uva di mare è una specie di piccola medusa — spiegò lo straniero. — Adesso penso sia ora di presentarmi. Perché il tuo amico è diventato di quello strano colore?

— Shock culturale, immagino — rispose Duefiori. — Come hai detto di chiamarti?

— Non l’ho detto. Mi chiamo Garhartra. Vedi, io sono preposto agli ospiti: ho il gradito compito di assicurarmi che il vostro soggiorno qui sia il più piacevole possibile. — Fece un inchino. — Se c"è qualcosa che desiderate, non avete che da dirlo.

Duefiori si sedette su una bella poltrona di madreperla con un bicchiere di vino oleoso in una mano e una seppia cristallizzata nell’altra. Aggrottò le sopracciglia. — Credo mi sia sfuggita qualcosa — disse. — Prima ci hanno detto che saremmo diventati degli schiavi.

— Una vile bugia — lo interruppe Garhartra.

Dal fondo del lungo tavolo venne la voce di Scuotivento: — Credi che questi biscotti siano fatti di un ingrediente nauseante?

— …e poi siamo stati liberati con grande dispendio di magia…

— Sono fatti di alghe pressate — rispose il vecchio in tono seccato.

— …ma in seguito siamo stati minacciati, pure con grande dispendio di magia…

— Sì, lo pensavo anch’io — dichiarò il mago. — Certo hanno il sapore delle alghe… se uno fosse tanto masochista da mangiarne.

— …e poi siamo stati presi dalle guardie senza tante cerimonie e buttati qui dentro…

— Spinti gentilmente — lo corresse Garhartra.

— …che si è rivelato essere questa sala incredibilmente ricca con tutto questo cibo e un uomo che ci dice che si dedica a farci felici — concluse Duefiori. — C’è una mancanza di logica in tutto questo.

— Già — disse Scuotivento. — Lui vuole sapere se ricomincerete a essere antipatici con noi. Questa è soltanto una pausa per la colazione?

Garhartra alzò le mani con un gesto rassicurante. — Prego, prego — protestò. — Era necessario portarvi qui il più presto possibile. Certamente non abbiamo intenzione di farvi schiavi. Vi prego di tranquillizzarvi su questo punto.

— Ottimo — disse Scuotivento.

— Sì, infatti sarete sacrificati — continuò l’altro placidamente.

Sacrificati? Ci ucciderete? — gridò il mago.

— Uccidervi? Sì, naturale. Certamente! Non sarebbe un sacrificio se non lo facessimo, non ti pare? Ma non preoccuparti, sarà relativamente indolore.

— Relativamente? Relativamente rispetto a che cosa? — Scuotivento prese in mano un’altra bottiglia verde piena di vino di medusa e la scagliò contro Garhartra. Questi alzò una mano come per proteggersi.

Dalle sue dita si sprigionò una fiamma di ottarino e l’aria si fece improvvisamente spessa e untuosa al tatto, cosa che indicava una potente scarica di magia. La bottiglia rallentò e rimase a ruotare a mezz’aria.

Al tempo stesso una forza invisibile afferrò Scuotivento e lo scaraventò lontano, inchiodandolo senza respiro alla parete di fondo, dove rimase appeso a bocca aperta dalla rabbia e dallo stupore.

Garhartra abbassò la mano e se la passò lentamente sulla veste. — Sai, non mi è piaciuto trattarti così.

— Me ne sono accorto — borbottò Scuotivento.

— Ma perché volete sacrificarci? — domandò Duefiori. — Ci conoscete appena!

— È proprio questo il punto, no? Non è molto educato sacrificare un amico. Inoltre, siete stati indicati con precisione. Non ne so molto del dio in questione, ma Egli è stato molto chiaro su quel punto. Sentite, devo andare, adesso. Ho tante cose da organizzare, sapete com’è. — Il vecchio aprì la porta e si voltò con un’ultima occhiata. — Vi prego di mettervi comodi e di non preoccuparvi.

— Ma in realtà non ci hai detto nulla! — si lamentò Duefiori.

— Non ne vale la pena, no? Dato che sarete sacrificati in mattinata, diventa inutile sapere, davvero. Dormite bene. Relativamente bene, comunque.

Chiuse la porta. Intorno a essa balenò una scintilla di ottarino: stava a indicare che adesso per aprirla a nulla sarebbe valsa la perizia di un fabbro terreno.


Gling, clang, tang, facevano i campanelli lungo la Circonferenza nella notte illuminata dalla luna ed echeggiante del rombo della cascata.

Terton il guardiano della quarantacinquesima Lunghezza, non aveva udito un clangore simile dalla notte, cinque anni prima, in cui un mostro marino gigante era stato spinto all’interno della Palizzata. Si sporse fuori dalla sua capanna a scrutare l’oscurità. Per mancanza di un isolotto adatto in quel tratto della Circonferenza, la capanna era costruita su palafitte di legno, infisse nel fondale marino. Una volta o due gli parve distinguere un movimento, a grande distanza. Di fatto, avrebbe dovuto uscire in mare per scoprire la causa di tutto quello strepito. Ma lì, nell’umida oscurità, questa non sembrava un’idea molto allettante, così lui richiuse la porta, avvolse dei sacchi intorno ai campanelli impazziti e cercò di riaddormentarsi.

Ma non funzionò, perché adesso anche la Palizzata tambureggiava, come ci rimbalzasse contro qualcosa di grosso e pesante. Dopo avere contemplato per qualche minuto il soffitto ed essersi sforzato di non pensare a grossi, lunghi tentacoli e occhi larghi come uno stagno, Trenton soffiò sulla lanterna e socchiuse la porta.

Qualcosa stava venendo lungo la Palizzata, a balzi di qualche metro alla volta. Quel qualcosa gli si parò davanti e per un attimo Trenton scorse una sagoma rettangolare, dalle molte gambe, ricoperta di alghe e molto incollerita… benché mancasse assolutamente di lineamenti dai quali lui poteva dedurlo.

Il mostro investì la capanna che andò in frantumi. Trenton si salvò la vita aggrappandosi alla Circonferenza: qualche settimana dopo fu raccolto da una flotta di salvataggio che tornava alla base; in seguito scappò da Krull dopo avere dirottato una lente (avendo sviluppato l’idrofobia a un grado incredibile) e dopo un certo numero di avventure arrivò al Grande Net, una zona del Disco tanto asciutta da avere piovosità negativa, e che pure lui riteneva fastidiosamente umida.


— Hai provato la porta?

— Sì — rispose Duefiori. — Ed è sempre chiusa come l’ultima volta che me lo hai chiesto. Però c’è la finestra.

— Una bella via di fuga — borbottò Scuotivento, sempre appollaiato a metà parete. — Hai detto che da sul Bordo. Basta fare un passo, eh, tuffarsi nello spazio e forse gelare o finire a incredibile velocità su un altro mondo oppure sprofondare nel cuore fiammeggiante di un sole?

— Vale la pena di provare — disse l’ometto. — Vuoi un biscotto?

— No!

— Quando scendi giù?

Scuotivento brontolò, in parte per l’imbarazzo. L’incantesimo di Garhartra era stato il Rovesciamento della Gravità Personale di Atavarr, un incantesimo poco usato e difficile da padroneggiare. Così in pratica, finché esso non si esauriva, il corpo di Scuotivento era convinto che "giù" si trovasse a novanta gradi dalla direzione normalmente considerata come tale dagli abitanti del Disco. Di fatto lui stava sul muro.

Nel frattempo la bottiglia che aveva lanciato era sospesa nell’aria a qualche metro di distanza. Nel suo caso il tempo era stato… be’, non esattamente fermato, ma rallentato di diversi ordini di grandezza e fino a quel momento la sua traiettoria aveva impiegato diverse ore, ma appena cinque centimetri agli occhi di Scuotivento e Duefiori. Il vetro brillava nella luce lunare. Il mago sospirò e cercò di mettersi comodo sul muro.

— Perché tu non ti preoccupi mai? — esclamò in tono petulante. — Eccoci qui, pronti a essere sacrificati domattina a un qualche dio, e te ne stai lì seduto a mangiare canapés di crostacei.

— Mi aspetto che succeda qualcosa.

— Voglio dire, nemmeno sappiamo perché saremo uccisi — insisté il mago.

— Vorresti saperlo, vero?

— Sei tu che l’hai detto? — domandò Scuotivento.

— Detto cosa?

— Sei tu che senti delle cose — disse la voce nella testa di Scuotivento.

Lui scattò a sedere di sghembo. — Chi sei? — chiese.

Duefiori gli diede un’occhiata preoccupante. — Di sicuro te lo ricordi?

L’amico si prese la testa nelle mani e gemette: — È successo alla fine. Sto andando fuori di testa.

— Buona idea — disse la voce. — Qui dentro si sta facendo affollato.

L’incantesimo che teneva Scuotivento inchiodato al muro svanì con un debole pop. Lui cadde in avanti e finì in un mucchio a terra.

— Attento… mi hai quasi schiacciato.

Scuotivento si puntò sui gomiti e si frugò in tasca. Ne ritrasse la mano con dentro una ranocchia verde, gli occhi stranamente luminosi nella semiluce.

— Tu? — disse il mago.

— Mettimi a terra e allontanati. — La rana ammiccò.

Lui ubbidì e tirò via con sé lo stupefatto Duefiori.

La sala si fece buia e si udì un rumore come il rombo di vento. Dal nulla apparvero spirali di vapori verdi, porpora e ottarino che si misero a turbinare, sprizzando piccoli lampi, verso l’anfibio immobile. Ben presto esso scomparve in una nebbia dorata che si allungò verso l’alto e riempì la stanza di una calda luce gialla. Al suo interno, una forma indistinta che oscillava e si trasformava sotto i loro occhi. Tutto il tempo echeggiava il suono acuto, agghiacciante di un gigantesco campo magico…

Con la stessa rapidità con cui era apparso, il campo magico svanì. E lì nello spazio che era stato occupato dalla rana, c’era una rana.

— Fantastico — esclamò Scuotivento.

Il ranocchio gli diede un’occhiata di rimprovero.

— Davvero incredibile — commentò acido Duefiori. — Una rana trasformata per magia in una rana. Portentoso.

— Voltatevi — disse una voce dietro di loro. Era una morbida voce femminile, quasi invitante, il genere di voce con la quale vi piacerebbe bere qualcosa, ma veniva da un punto dove non avrebbe dovuto esserci una voce. I due si voltarono senza spostarsi, come statue che girassero sullo zoccolo.

Nella luce che precede l’alba si scorgeva una donna. Sembrava… era… aveva… in realtà lei…

In seguito Scuotivento e Duefiori non si trovarono d’accordo in nulla sul suo conto, salvo che lei era bella (senza potere precisare quali caratteristiche fisiche la facessero bella) e che aveva occhi verdi. Non il verde pallido degli occhi normali; i suoi erano verdi come smeraldi e iridescenti come libellule. E uno dei pochi fatti magici conosciuti da Scuotivento era che a nessun dio o dea, per quanto diversi e mutevoli sotto tutti gli altri aspetti, era possibile cambiare il colore e la natura dei loro occhi…

— L… — cominciò. Lei alzò una mano.

— Sai che se pronunci il mio nome devo andarmene — sibilò. — Tu sai di sicuro che sono l’unica dea che viene soltanto quando non è invocata?

— Uh. Sì. Suppongo di sì. — Il mago cercava di non guardarle gli occhi. — Tu sei quella che chiamano la Signora?

— Sì.

— Allora sei una dea? — Duefiori era eccitato. — Ho sempre desiderato incontrarne una.

Scuotivento si fece teso, temendo un’esplosione di rabbia. Invece la Signora si limitò a sorridere. — Il tuo amico mago dovrebbe presentarci — disse.

Scuotivento tossì. — Uh, già. Questo è Duefiori. Signora, lui è un turista.

— L’ho assistito in diverse occasioni…

— …e, Duefiori, questa è la Signora. Soltanto la Signora, capito? Niente altro. Non cercare di darle un altro nome, va bene? — proseguì ansioso. E intanto lanciava occhiate d’intesa di cui l’ometto non si accorgeva affatto.

Scuotivento rabbrividì. Naturalmente lui non era ateo; sul Disco gli dei trattavano severamente gli atei. Le poche volte in cui disponeva di spiccioli, lui aveva sempre badato a lasciar cadere delle monete nelle casse del tempio, basandosi sul principio che un uomo aveva bisogno di tutti gli amici possibili. Ma di solito lui non importunava gli dei e sperava di non esserne importunato a sua volta. La vita era giù abbastanza complicata.

Tuttavia, c’erano due dei veramente terrificanti. Gli altri somigliavano agli umani, solo più in grande, amanti del vino, della guerra, delle puttane. Ma il Fato e la Signora erano agghiaccianti.

A Ankh-Morpork, nel Quartiere degli Dei, il Fato aveva un tempietto di piombo, greve, dove i fedeli, sparuti e dagli occhi infossati, si radunavano nelle notti buie per compiere i loro riti, predestinati e inutili. Invece non esistevano templi dedicati alla Signora, benché ella fosse la dea più potente di tutta la storia della Creazione. Alcuni membri più audaci della Corporazione dei Giocatori una volta avevano tentato una forma di culto, nelle cantine più profonde della sede della Corporazione. E, tempo una settimana, erano tutti morti: vittime della miseria, di assassinio, o semplicemente della Morte.

Ella era la Dea Che Non Deve Essere Nominata. Coloro che la cercavano non la trovavano mai, eppure si sapeva che ella soccorreva quelli che si trovavano nel bisogno estremo. Però, a volte, non lo faceva. Era fatta così. Non le piaceva il tintinnio dei rosari, ma era attratta dal rumore dei dadi. Nessuno conosceva il suo aspetto, sebbene molte volte l’uomo che rischiava la vita al gioco, prendendo la sua mano di carte, si trovava a fissarLa dritto in faccia. Di tutti gli dei, Ella era al tempo stesso la più corteggiata e la più maledetta.

— Dalle mie parti non abbiamo dei — affermò Duefiori.

— Non è vero, sai — ribatté la Signora. — Tutti hanno gli dei. Solo non credete che siano tali.

Scuotivento si scosse. — Sentite — disse. — Non voglio sembrarvi impaziente, ma tra pochi minuti entreranno da quella porta e ci porteranno via per ucciderci.

— Sì — confermò la Signora.

— Suppongo che non vorresti dirci perché? — chiese Duefiori.

— Sì — rispose la Signora. — I Krulliam intendono lanciare un vascello di bronzo al di là dei bordo del Disco. Il loro intento principale è conoscere il sesso di A’Tuin. la Tartaruga del Mondo.

— Sembra alquanto inutile — osservò Scuotivento.

— No. Rifletti. Un giorno la Grande A’Tuin può incontrare un altro membro della specie chelys galactica, da qualche parte nella vasta notte in cui ci muoviamo. Combatteranno? Si accoppieranno? Con un po’ d’immaginazione vedrai che il sesso della Grande A’Tuin potrebbe essere molto importante per noi. O almeno, così sostengono i Krulliani.

Scuotivento si sforzò di non pensare all’accoppiamento delle Tartarughe del Mondo. Ma non era facile.

— Quindi — continuò la dea — loro intendono lanciare questa nave spaziale, con due uomini a bordo. Sarà il momento culminante di decenni di ricerche. Sarà anche molto pericoloso per i viaggiatori. Così, nel tentativo di ridurre i rischi, l’Arciastronomo di Krull ha pattuito con il Fato di sacrificare due uomini al momento del lancio. In cambio, il Fato si è impegnato a sorridere alla nave spaziale. Un baratto in piena regola, no?

— E noi siamo i sacrifici — disse Scuotivento.

— Sì.

— Credevo che il Fato non si adattasse a questa specie di transazione. Credevo che il Fato fosse implacabile.

— Normalmente, sì. Ma da qualche tempo siete stati per lui una spina nel fianco. Ha decretato che dovevate essere voi le vittime del sacrificio. Vi ha permesso di sfuggire ai pirati. Vi ha permesso di essere trasportati nella Circonferenza. A volte il Fato può essere un dio meschino.

Seguì una pausa. La rana sospirò e se ne andò sotto il tavolo.

— Ma tu ci puoi aiutare? — la incalzò Duefiori.

— Voi mi divertite — rispose la Signora. — Ho una vena sentimentale. Se foste giocatori, lo sapreste. Così per un po’ ho viaggiato nella mente di un ranocchio e voi gentilmente mi avete salvato perché, come sappiamo tutti, a nessuno piace veder morire creature patetiche e inermi.

— Ti ringrazio — disse Scuotivento.

— La mente del Fato è tutta concentrata contro di voi — proseguì la Signora. — Ma tutto ciò che posso fare è darvi una possibilità. Un’unica, piccola possibilità. Il resto spetta a voi.

Così detto, svanì.

— Oddio — esclamò dopo un po’ Duefiori. — È la prima volta che vedo una dea.

La porta si spalancò e Garhartra entrò con in mano una verga. Dietro a lui erano due guardie, armate più convenzionalmente di spade. — Ah, vedo che siete pronti — disse in tono discorsivo.

"Pronti", disse una voce nella testa di Scuotivento.

La bottiglia che lui aveva scagliato circa otto ore prima era rimasta sospesa in aria, imprigionata per magia nel suo personale campo temporale. Ma durante tutte quelle ore il mana originale dell’incantesimo era lentamente evaporato finché l’energia magica non bastava più a difenderlo dal possente campo di normalità dell’Universo. E quando ciò accadde, ci vollero pochi microsecondi perché la Realtà riprendesse il sopravvento. L’effetto visibile fu che la bottiglia completò d’improvviso l’ultimo tratto della sua parabola e andò a infrangersi contro la tempia del vecchio, inondando le guardie con una pioggia di pezzi di vetro e vino di medusa.

Scuotivento afferrò Duefiori per un braccio, sferrò un calcio nei genitali alla guardia più vicina e trascinò l’amico sbalordito nel corridoio. Prima che Garhartra piombasse al suolo, i suoi due ospiti erano già lontani.

Scuotivento svoltò un angolo di volata e si trovò su un balcone che correva lungo i quattro lati di un cortile, occupato quasi per intero da una vasca nella quale delle tartarughe acquatiche prendevano il sole tra le foglie di ninfea.

Di fronte a Scuotivento si pararono due maghi oltremodo sorpresi, che indossavano le vesti blu cupo e nero dei provetti idrofobi. Uno di loro, più svelto del compagno, sollevò una mano e iniziò a pronunciare le prime parole di un incantesimo.

Si udì un piccolo rumore secco. Duefiori aveva sputato. L’idrofobo strillò e lasciò ricadere la mano come se lo avessero punto.

L’altro non ebbe il tempo di muoversi: Scuotivento gli fu sopra menando una scarica di pugni. Uno, reso pesante dal terrore, arrivò particolarmente a segno e scaraventò l’uomo dal balcone nella vasca. L’effetto fu strano: l’acqua si divise come se vi fosse stato gettato un grosso pallone e l’idrofobo urlante rimase sospeso nel suo stesso campo di rifiuto verso quell’elemento.

Duefiori era rimasto a guardare allibito finché l’amico lo toccò sulla spalla per indicargli un altro corridoio. Lo imboccarono di corsa e lasciarono il secondo idrofobo a contorcersi sul pavimento e strofinarsi con forza la mano bagnata. Per un po’ sentirono gridare alle loro spalle, ma infilarono un corridoio trasversale e poi un altro cortile e presto si lasciarono dietro i rumori dell’inseguimento. Scuotivento aprì una porta, si sporse a guardare, trovò la stanza vuota, trascinò dentro Duefiori e richiuse la porta. Poi ci si appoggiò, lamentandosi.

— Ci siamo persi in un palazzo su un’isola senza speranza di lasciarla — disse ansante. — E per di più, noi… ehi! — finì, quando si rese conto del contenuto della stanza.

Duefiori stava già osservando le pareti.

Perché lo strano era che la stanza conteneva l’intero Universo.

La Morte sedeva nel suo giardino e affilava su una pietra apposita la lama della sua falce. Era già così tagliente che se una brezza ci soffiava sopra, era immediatamente trinciata in due zeffiri, anche se nel giardino silenzioso della Morte la brezza era davvero cosa rara. Il giardino era situato su un altopiano recluso dal quale si vedevano le complesse dimensioni del mondo-disco; dietro s’innalzavano le fredde, immote montagne dell’Eternità, immensamente alte e cogitabonde. La pietra sibilava. E la Morte cantarellava un inno funebre e batteva il piede ossuto sulle pietre ghiacciate.

Qualcuno si avvicinava dal frutteto oscuro dove crescevano le mele notturne, e ne venne l’odore dolciastro dei gigli calpestati. Incollerita, la Morte alzò la testa e si trovò a fissare gli occhi, neri come la natura segreta di un gatto e pieni di stelle remote che non avevano l’equivalente nelle costellazioni familiari dell’universo del Tempo Reale.

La Morte e il Fato si guardarono. La Morte sogghignò; del resto, essendo fatta inesorabilmente di sole ossa, altro non poteva fare. La pietra cantava ritmicamente lungo la lama mentre Essa continuava la sua bisogna.

— Ho un compito per te — disse il Fato. Le parole scivolarono sulla falce e si spaccarono nette in due nastri di consonanti e vocali.

— Attualmente ho compiti a sufficienza — rispose la Morte con voce pesante come il neutronio. — La tubercolosi imperversa a Pseudopolis e io devo recarmi là a strappare molti cittadini dalla sua stretta. Una epidemia simile non si è vista da cento anni e io sono tenuta a perlustrare le strade, come è mio dovere.

— Mi riferisco al piccolo viandante e al mago ribaldo — disse il Fato in tono sommesso. Si sedette accanto alla forma della Morte, avvolta nella nera veste, e fissò in distanza l’universo del Disco, simile a un gioiello sfaccettato visto da quell’osservatorio extra-dimensionale.

La falce interruppe la sua canzone.

— I due moriranno tra poche ore — annunciò il Fato. — È stabilito.

La Morte si mosse e la pietra ricominciò ad andare su e giù.

— Credevo ti avrebbe fatto piacere — aggiunse il Fato.

La Morte alzò le spalle, gesto particolarmente espressivo per una la cui forma visibile era quella di uno scheletro. — In effetti li ho davvero perseguitati — disse. — Ma alla fine ho pensato che presto o tardi tutti gli uomini devono morire. Tutto muore alla fine. Posso venire derubata, ma rifiutata mai. Mi sono detta, perché preoccuparmi?

— Anch’io non posso essere imbrogliato — disse seccamente il Fato.

"Così ho sentito." La Morte sogghignava sempre.

— Basta! — gridò il Fato e balzò in piedi. — Moriranno! — Svanì in un alone di fuoco azzurro.

la Morte annuì e continuò il suo lavoro. Dopo qualche minuto sembrò soddisfatta del filo della lama. Si alzò, puntò la falce alla grossa candela che bruciava sul bordo della panca e. con due rapidi movimenti, tagliò la fiamma in tre frammenti brillanti. La Morte sogghignò.

Poco dopo sellò lo stallone bianco che teneva nella stalla dietro il suo cottage. L’animale le diede un’annusatina amichevole. Benché avesse gli occhi rosso fuoco e i fianchi come seta lucente, era un cavallo in carne e ossa e, molto probabilmente, era trattato meglio di molti animali da soma che vivevano sul Disco. La Morte non era una cattiva padrona. Pesava pochissimo e, sebbene spesso tornasse con le sacche da sella rigonfie, queste non pesavano nulla.


— Tutti quei mondi! — esclamò Duefiori. — È fantastico!

Scuotivento grugnì e continuò a curiosare stancamente nella sala piena di stelle. L’amico si avvicinò a un complicato astrolabio, che aveva al centro, inciso nell’ottone e ornato da minuscoli gioielli, l’intero sistema Grande A’Tuin-Elefante-Disco. Stelle e pianeti gli ruotavano intorno su delicati fili d’argento.

— Fantastico! — ripeté. Tutt’intorno sulle pareti, delle costellazioni fatte di piccole perle fosforescenti risaltavano su grandi tappezzerie di velluto rerissimo e davano agli occupanti della sala l’impressione di galleggiare nel golfo interstellare. Su diversi cavalietti erano disposti schizzi della Grande A’Tuin. vista da varie parti della Circonferenza, ogni sua poderosa scaglia e cratere meticolosamente raffigurati. Duefiori si guardava intorno con sguardo sognante.

Scuotivento era profondamente turbato. Ciò che lo turbava di più erano due vestiti appesi nel centro della sala. Ci girava intorno a disagio.

Sembravano confezionati in pregiata pelle bianca, ornati di cinghie e tubicini di ottone e altri congegni sconosciuti e assai sospetti. Le gambe finivano in stivali alti e dalla suola spessa e le braccia erano infilate in grossi guanti morbidi. La cosa più strana erano i grandi caschi di rame da fissarsi evidentemente sui pesanti collari intorno allo scollo degli indumenti. Quasi certamente i caschi non servivano a proteggere; infatti una spada leggera non avrebbe avuto difficoltà a spaccarli, anche se non avesse colpito la ridicola finestrella sul davanti. Ogni elmo aveva in cima un pennacchio di piume bianche, che non ne migliorava certo l’aspetto generale.

Scuotivento cominciava ad avere un vago sospetto a proposito dei due vestiti.

Davanti ad essi stava un tavolo sul quale erano sparpagliate carte del cielo e pergamene coperte di numeri. Chi avesse indossato quegli indumenti, decise il mago, si proponeva con sprezzante audacia di andare dove nessun uomo (eccetto eventualmente uno sfortunato marinaio, che in realtà non contava) era andato prima. E lui adesso cominciava a nutrire non un semplice sospetto, ma un’orribile premonizione.

Si voltò e si vide osservato da Duefiori con aria meditabonda.

— No… — cominciò. L’altro lo ignorò.

— La dea ha detto che due uomini sarebbero stati inviati al di là del Bordo — disse, con gli occhi che gli brillavano. — E, ricordi, Tethis il troll ha detto che avrebbero avuto bisogno di protezione? I krulliani ci sono riusciti. Queste sono divise spaziali.

— Non mi sembrano molto comode — si affrettò a dire Scuotivento, che afferrò il turista per un braccio. — Quindi, se vogliamo andare, non c’è scopo a restare qui…

— Perché devi sempre avere paura? — La voce dell’amico era petulante.

— Perché ho visto passare davanti ai miei occhi tutta la mia vita, e non ci è voluto molto. Se non vuoi muoverti, me ne andrò senza di te perché sei capace, con ogni secondo che passa, di propormi di indossare…

La porta si aprì.

Due giovani robusti entrarono nella stanza. Indossavano soltanto un paio di brache di lana. Uno di loro si stava ancora asciugando vigorosamente. Entrambi salutarono i due fuggiaschi con un cenno del capo senza mostrare sorpresa.

Il più alto dei due si sedette su una panca davanti alle poltrone e disse: — ? TvØ yur âte hØ sooten gâtrunen?

Anche se Scuotivento si considerava un esperto nella maggior parte delle lingue delle zone occidentali del Disco, era la prima volta che si rivolgevano a lui in kruliiano, e non ne capiva una parola. Lo stesso valeva per Duefiori; ciò tuttavia non gli impedì di farsi avanti e prendere fiato.

In un’aura magica quale quella che circondava il Disco la luce viaggiava a velocità assai ridotta, non molto più rapida della velocità del suono in universi meno sintonizzati, ma era pur sempre la cosa più veloce che ci fosse in giro. A eccezione, in momenti come quello, della mente di Scuotivento.

In un attimo si rese conto che il turista si accingeva a sperimentare la sua specialità linguistica, ossia parlare nella sua lingua a voce alta e lentamente.

Il gomito del mago scattò lasciando il povero Duefiori senza fiato. Questi sbalordito e dolorante alzò gli occhi; l’amico colse il suo sguardo, tirò fuori una lingua immaginaria e la tagliò con un paio di forbici immaginarie.

Il secondo chelonauta (perché tale era la professione dei due uomini destinati ben presto a compiere il viaggio verso la Grande A’Tuin) alzò gli occhi dal tavolo delle carte, con l’ampia fronte aggrottata nello sforzo di parlare.

— ? HoØr yu latruin nØr u? — disse.

Scuotivento annuì con un sorriso e spìnse Duefiori nella sua direzione. Sospirò di sollievo dentro di sé quando l’amico si mise a osservare un grande telescopio di ottone posato sul tavolo.

— ! Sooten u! — comandò il chelonauta seduto. Scuotivento annuì, sorrise, prese dalla rastrelliera uno dei grossi elmetti di rame e lo calò sulla testa dell’uomo con tutte le sue forze. Quello si piegò in avanti con un gemito soffocato.

Il suo compagno fece un passo avanti, ma Duefiori gli sferrò con il telescopio un colpo da dilettante, ma efficace. L’uomo si abbatté sopra l’altro chelonauta.

Scuotivento e Duefiori si scambiarono uno sguardo.

— Va bene! — esclamò il mago, consapevole di avere perso una gara senza sapere esattamente quale. — Risparmiati il fiato. Qualcuno là fuori si aspetta che tra un minuto questi due tizi escano indossando i vestiti. Suppongo ci credessero degli schiavi. Aiutami a nasconderli dietro la tappezzeria e poi, e poi…

— …faremo meglio a vestirci — completò Duefiori, prendendo il secondo casco.

— Sì — disse Scuotivento. — Sai, appena ho visto i vestiti, ho saputo che avrei finito per indossarne uno. Non chiedermi come facevo a saperlo… forse perché era la cosa peggiore che poteva accadere.

— Bene, tu stesso hai detto che non avevamo una via di scampo. — L’ometto si stava passando dalla testa uno dei due vestiti e la sua voce veniva smorzata. — Qualsiasi cosa è meglio che venire sacrificati.

— Appena si presenta una possibilità, la cogliamo al volo. Non farti delle idee — gli disse l’amico.

Ficcò di furia un braccio nel vestito e batté la testa contro l’elmo. Qualcuno lassù lo osservava: questo fu il pensiero che gli attraversò la mente. — Mille grazie — esclamò amaramente.


Al confine della città e del paese di Krull c’era un vasto anfiteatro semicircolare, capace di ospitare diverse decine di migliaia di persone. La sua forma semicircolare era dovuta al fatto che l’arena si affacciava sul mare ribollente dalla cascata, molto più in basso. Adesso ogni posto era occupato e la folla si faceva irrequieta. Era venuta per assistere a un doppio sacrificio e anche al lancio della grande nave spaziale di bronzo. Nessuno dei due avvenimenti si era ancora prodotto.

L’Arciastronomo chiamò a sé il Capo controllore del lancio. — Allora? — chiese e in quelle poche lettere c’era un condensato di collera e di minaccia.

Il Capo controllore del lancio impallidì. — Nessuna notizia, mio signore. — E aggiunse, con forzata vivacità: — Solo che Vostra preminenza sarà lieto di sentire che Garhartra è guarito.

— Un fatto che potrebbe rimpiangere — affermò l’Arciastronomo.

— Sì, mio signore.

— Quanto tempo ci rimane?

Il Capo controllore diede un’occhiata al sole che saliva rapidamente nel cielo. — Trenta minuti. Vostra preminenza. Dopo questo termine, Krull avrà ruotato lontano dalla coda della Grande A’Tuin e il Possente Viaggiatore sarà condannato a finire nel golfo interterracqueo. Ho già posizionato i controlli automatici, così…

— Va bene, va bene — lo interruppe con un gesto l’Arciastronomo. — Il lancio deve avere luogo. Naturalmente, continuate a sorvegliare il porto. Quando quei due sciagurati saranno presi, sarà con grande piacere che li giustizierò io stesso.

— Sì, mio signore. Ehm…

L’Arciastronomo si accigliò. — Che altro hai da dire, uomo?

Il Capo controllore deglutì. Non era giusto: lui era un perito mago più che un diplomatico, e proprio per questa ragione dei cervelloni avevano disposto che toccasse a lui comunicare le notizie.

— Un mostro è uscito dal mare e attacca le navi nel porto. È appena arrivato un messaggero.

— Un mostro grande?

— Non particolarmente, ma si dice che sia eccezionalmente feroce, signore.

Dopo un attimo di riflessione, il reggente di Krull e della Circonferenza scrollò le spalle. — Il mare è pieno di mostri. È uno dei suoi principali attributi. Occupatene tu. E… Capo controllore del lancio?

— Mio signore?

— Se vengo ulteriormente contrariato, ricorderai che due persone devono essere sacrificate. Posso sentirmi in vena di generosità e aumentare il numero.

— Sì, mio signore. — Il Capo controllore filò via, sollevato di non trovarsi più sotto gli occhi dell’autocrate.

Il Possente Viaggiatore, non più il vuoto guscio di bronzo liberato dalla forma pochi giorni prima, aspettava nella sua culla in cima a una torre di legno al centro dell’arena. Di fronte ad essa un binario scendeva verso il Bordo dove, per un tratto di pochi metri, s’impennava subitamente.

Il defunto Dactylos Occhidoro, che aveva disegnato la rampa di lancio nonché il Possente Viaggiatore, aveva affermato che quell’ultimo tocco era semplicemente voluto perché il vascello non urtasse contro qualche roccia mentre iniziava la lunga discesa. Forse era pura coincidenza se, a causa di quella piccola elevazione, esso sarebbe pure saltato come un salmone e avrebbe brillato teatralmente nel sole prima di sparire nel mare caliginoso.

All’estremità dell’arena risuonò una fanfara di trombe e, tra le grida entusiaste della folla, apparve la guardia d’onore dei chelonauti. Quindi avanzarono nella luce i biancovestiti esploratori.

L’Arciastronomo subodorò subito che qualcosa non andava. Per esempio, gli eroi camminano sempre in un certo modo. Di sicuro non con un’andatura ondeggiante come quella di uno dei chelonauti.

Le urla dei cittadini di Krull erano assordanti. L’Arciastronomo guardava accigliato i chelonauti e le guardie attraversare l’arena, passando tra i numerosi altari elevati per i vari maghi e sacerdoti delle molte sette esistenti a Krull, onde assicurare il successo del lancio. Quando il gruppo fu a metà strada, lui era giunto a una conclusione. Quando i chelonauti arrivarono ai piedi della scala che portava al vascello (non rivelavano forse una certa riluttanza?), l’Arciastronomo si alzò in piedi e le sue parole si persero nel clamore della folla. Fece scattare in avanti le braccia e le riportò indietro, le dita aperte e tese drammaticamente nella posizione richiesta per gettare un incantesimo. Chiunque fosse passato, capace di leggere il movimento delle labbra e ferrato sui testi standard della magia, avrebbe riconosciuto le parole iniziali della Maledizione Fluttuante di Vestlake e prudentemente sarebbe filato via.

Tuttavia le parole finali non furono pronunciate. L’Arciastronomo si girò sorpreso al tumulto che si era levato intorno al grande arco d’ingresso all’arena. Le guardie entrarono di corsa e gettarono le armi mentre fuggivano tra gli altari o saltavano il parapetto per rifugiarsi nelle tribune.

Qualcosa emerse alle loro spalle. La folla, cessate le sue acclamazioni, si disperse nel silenzio.

Il qualcosa, una struttura bassa di alghe a forma di cupola, si muoveva lentamente ma con sinistra determinazione. Vincendo il suo orrore, una guardia gli sbarrò la strada e gli scagliò contro la lancia, che si infisse tra le alghe. La folla ruppe in evviva… poi si fece mortalmente silenziosa quando la cosa balzò in avanti e inghiottì l’uomo.

L’Arciastronomo, con un gesto brusco della mano, congedò la famosa Maledizione di Vestlake e si affrettò a pronunciare le parole di uno degli incantesimi più potenti del suo repertorio: l’Enigma della Combustione Infernale.

Fiammelle di ottarino guizzarono tra e intorno le sue dita mentre lui tracciava in aria i complessi caratteri runici dell’incantesimo e lo spediva, strillante e con una scia di fumo azzurro, verso la forma.

Seguì un’esplosione gratificante e una lingua di fiamme s’innalzò nel limpido cielo mattutino, spargendo falde di alghe ardenti. Una nuvola di fumo e vapore nascose per diversi minuti il mostro; quando si disperse, quello era completamente sparito. Sul lastricato, tuttavia, si vedeva un largo circolo bruciacchiato nel quale ancora fumavano ciuffi di alghe.

In mezzo al cerchio c’era un baule di legno, perfettamente comune anche se piuttosto grande. Non era nemmeno strinato. Qualcuno all’altro capo dell’arena si mise a ridere, ma il suono cessò di colpo quando il baule si alzò su dozzine di gambette e si voltò a fronteggiare l’Arciastronomo. Naturalmente un baule di legno, perfettamente comune anche se piuttosto grande, non ha una fronte con la quale affrontare. Ma quello decisamente lo fronteggiava. L’Arciastronomo, non soltanto lo capiva, ma con suo grande orrore si rendeva anche conto che quella cassa perfettamente normale, in qualche modo indefinibile, stringeva gli occhi.

Il baule prese a muoversi risolutamente verso di lui. Che rabbrividì.

— I maghi! — gridò. — Dove sono i miei maghi?

Tutto intorno all’arena, uomini dalla faccia pallida sbirciavano da dietro gli altari e da sotto le panche. Uno dei più audaci, vista l’espressione sul viso dell’Arciastronomo. sollevò un braccio tremante e provò a lanciare frettolosamente un fulmine. Che si scagliò sibilando verso il baule e lo centrò in una pioggia di bianche scintille.

Fu quello il segnale: ogni mago, incantatore e taumaturgo di Krull balzò su, e sotto lo sguardo atterrito del loro capo, lanciò il primo incantesimo che a ciascuno venne in mente nella disperazione. Gli incantesimi vorticavano e fischiavano nell’aria.

Ben presto il baule fu nascosto alla vista da una nuvola sempre più estesa di particelle magiche, che fluttuarono e si contrassero a comporre forme contorte e inquietanti. Nel tumulto volavano senza posa gli incantesimi. Fiamme e lampi di tutti gli otto colori scaturivano dalla cosa ribollente che adesso occupava lo spazio dov’era stato il baule.

Sin dalle Guerre dei Maghi non si era più vista una tale concentrazione di magia in uno spazio così ristretto. L’aria stessa ondeggiava e brillava. Gli incantesimi rimbalzavano gli uni sugli altri, creando nuovi incantesimi di breve durata, selvaggiamente incontrollabili. Sotto il loro impatto le pietre cominciarono a piegarsi e spezzarsi. Una di loro in effetti si tramutò in qualcosa di cui è meglio tacere e se ne fuggì in qualche lugubre dimensione. Altri strani effetti collaterali presero a manifestarsi: dalla tempesta venne giù una pioggia di cubetti di piombo rotolanti: farfuglianti forme spaventevoli gesticolavano oscenamente; triangoli quadrilateri e circonferenze a doppia fronte duravano un attimo prima d’immergersi di nuovo nella rombante colonna di magia pura che s’innalzava dal lastricato fuso e si spargeva sopra Krull.

Il fatto che i maghi avessero cessato di gettare incantesimi e fossero fuggiti non aveva più importanza. La cosa ora si nutriva della corrente di particelle di ottarino, solitamente più dense vicino al Bordo del Disco. Nessuna attività magica poté compiersi in tutta l’isola di Krull, perché tutto il mana disponibile nella zona era risucchiato nella nuvola, che s’innalzava per più di ottocento metri e si spandeva in forme terrificanti. Gli idrofobi, nelle loro lenti che sfioravano il mare, precipitarono urlando nelle onde. Nelle fiale le pozioni magiche si cambiarono in acqua impura. Le spade magiche si fusero e gocciolarono dal loro fodero.

Ma nulla di tutto ciò impedì alla cosa, rimasta alla base della nuvola brillante come uno specchio nell’intensità della tempesta magica che la circondava, di dirigersi con passo fermo verso l’Arciastronomo.

Scuotivento e Duefiori contemplavano la scena con timore reverenziale dal loro rifugio della torre di lancio del Possente Viaggiatore. La guardia d’onore si era dileguata da tempo e aveva lasciato le sue armi sparse a terra.

— Be’ — sospirò alla fine Duefiori. — Addio al Bagaglio. — E giù un altro sospiro.

— Non devi crederlo — disse Scuotivento. — Il legno del pero sapiente è totalmente inaccessibile a qualsiasi forma conosciuta di magia. È stato costruito per seguirti ovunque. Voglio dire, quando muori, se vai in cielo, almeno disporrai di un paio di calzini puliti nell’aldilà. Ma io non intendo morire ancora, così muoviamoci, vuoi?

— Dove?

Scuotivento raccolse una balestra e una manciata di frecce. — Ovunque meno che qui.

— E il Bagaglio?

— Non ti preoccupare. Quando la tempesta avrà esaurito tutta la magia che c’è in giro, cesserà.

Questo infatti si stava avverando. La nuvola ancora saliva fluttuando, ma era diventata più pallida e non incuteva più paura. Mentre Duefiori la fissava, prese a guizzare incerta e ben presto divenne un pallido fantasma.

Adesso il Bagaglio si era fatto visibile in mezzo alle fiamme invisibili; le pietre intorno a lui si andavano rapidamente raffreddando con un crepitio.

Duefiori chiamò piano il suo Bagaglio. Quello si arrestò e sembrò ascoltare attento; poi, muovendo i suoi molteplici piedini in un’andatura complicata, si girò e si diresse verso il Possente Viaggiatore… Scuotivento lo guardava irritato. Il Bagaglio aveva una natura elementare, niente cervello e un atteggiamento omicida verso tutto ciò che minacciasse il suo padrone; il mago non era sicuro che il suo interno occupasse la stessa struttura spazio-temporale del suo esterno.

La cassa si arrestò davanti a Duefiori. — Non ha nemmeno un graffio — disse questi allegramente. Aprì il coperchio.

— È propria il momento adatto per cambiarti la biancheria — osservò sarcastico Scuotivento. — Tra un minuto le guardie e i sacerdoti saranno di ritorno e saranno sconvolti, amico mio!

— Acqua — mormorò l’ometto. — Tutta la cassa è piena d’acqua.

Scuotivento guardò al di sopra della sua spalla. Non c’era traccia di indumenti, sacche con il denaro o altri beni del turista. Tutta la cassa era piena d’acqua.

Un’onda nacque dal nulla e sciabordò oltre l’orlo. Lambì le pietre ma, invece di allargarsi, cominciò a prendere la forma di un piede. Seguirono un altro piede e la metà inferiore di un paio di gambe via via che l’acqua scorreva come riempiendo uno stampo invisibile. Un attimo dopo, davanti a loro, ammiccante, apparve Tethis, il troll marino.

— Capisco — disse alla fine. — Voi due. Suppongo che non dovrei sorprendermi. — Si guardò intorno, senza badare alla loro espressione attonita. — Sedevo fuori dalla mia capanna a guardare il tramonto — continuò — quando questa cosa è venuta fuori dall’acqua ruggendo e mi ha inghiottito. Mi è sembrato piuttosto strano. Dove si trova questo posto?

— Krull — rispose il mago, con un’occhiata dura al Bagaglio che esibiva un’espressione soddisfatta. Inghiottire persone era una cosa che faceva di frequente ma sempre, quando si apriva il coperchio, dentro non c’era altro che la biancheria di Duefiori. Spalancò di furia il coperchio. Dentro non c’era altro che la biancheria di Duefiori. E l’interno era perfettamente asciutto.

— Bene, bene — disse Tethis. Alzò gli occhi. — Ehi! Non è questo il vascello che vogliono mandare oltre il Bordo? È vero, deve essere lui!

Una freccia gli attraversò il petto, causando una leggera increspatura. Lui non sembrò accorgersene, ma Scuotivento sì. All’estremità dell’arena erano apparsi diversi soldati e alcuni controllavano gli ingressi.

Un’altra freccia scagliata dalla torre rimbalzò dietro Duefiori. Da quella distanza i tiri non avevano molta forza, ma sarebbe stata soltanto questione di tempo…

— Presto! — disse Duefiori. — Dentro il vascello! Quelli non oseranno attaccarlo!

Sapevo che avresti suggerito una cosa simile — gemette il mago. — Lo sapevo.

Sferrò un calcio al Bagaglio, che indietreggiò di qualche centimetro e aprì minacciosamente il coperchio.

Una lancia descrisse un arco nell’aria e si fermò vibrando nel legno vicino all’orecchio del mago. Con un grido lui si arrampicò sulla scala dietro gli altri.

Quando giunsero alla stretta passerella che correva lungo il dorso del Possente Viaggiatore, intorno a loro fischiavano le frecce. Duefiori era in testa, con un passo baldanzoso che per Scuotivento era segno rivelatore di un eccessivo entusiasmo represso. Al centro del vascello, in cima, c’era un largo portello rotondo di bronzo, chiuso da una cerniera. Il troll e il turista si inginocchiarono e si misero al lavoro per aprirla.


Nel cuore del Possente Viaggiatore da diverse ore della sabbia fine si era lentamente riversata in una coppa attentamente disegnata allo scopo. Adesso la coppa era piena della esatta quantità necessaria per farla rovesciare e capovolgere un peso accuratamente bilanciato. Il peso oscillò e fece uscire un perno da un piccolo meccanismo complicato. Una catena prese a muoversi. Un tonfo sordo…

Che cosa è stato? - domandò Scuotivento allarmato e guardò in giù.


La pioggia di frecce era finita. Sacerdoti e soldati, immobili, fissavano il vascello. Un ometto preoccupato si fece largo in mezzo a loro e si mise a urlare qualcosa.

— Che è stato? — chiese Duefiori, occupato a svitare un dado.

— Mi sembrava di avere sentito qualcosa — rispose Scuotivento. — Ascolta, li minacceremo di danneggiare questo aggeggio se non ci lasciano andare, giusto? È questo che ci limiteremo a fare, giusto?

— Già — disse Duefiori in tono vago. Si accovacciò sui calcagni. — Ecco fatto. Adesso dovrebbe alzarsi.

Parecchi tipi muscolosi si stavano arrampicando sulla scaletta; fra di loro c’erano anche i due chelonauti. Erano armati di spade.

— Io… — cominciò il mago.

Il vascello ondeggiò. Poi. con lentezza infinita, prese a muoversi sul binario.

Duefiori e il troll erano riusciti a aprire il portello. Una scaletta metallica conduceva alla cabina in basso. Il troll spari.

— Dobbiamo andarcene — bisbigliò Scuotivento. Duefiori lo guardò, con uno strano sorriso sul volto.

— Stelle — esclamo. — Mondi. L’intero cielo pieno di mondi. Luoghi che nessuno vedrà mai. Eccetto me. — E s’infilò nel portello.

— Sei completamente pazzo — gli gridò con voce roca Scuotivento, mentre cercava di tenersi in equilibrio a mano a mano che il va scello acquistava velocità. Si girò. Uno dei chelonauti cercò di superare con un balzo la distanza tra il Viaggiatore e la torre, atterrò sul fianco ricurvo del vascello, si dimenò un istante in cerca di una presa, non ne trovò e precipitò con un grido acuto.

Ormai il Viaggiatore si muoveva rapidamente. Scuotivento scorgeva la distesa d’acqua illuminata dal sole e l’incredibile Rimbow. che balenava allettante al di là, e invitava i folli ad avventurarsi troppo lontano… Vide anche un gruppo di uomini che si arrampicavano disperatamente sui pendii della rampa di lancio e manovravano un grosso tronco squadrato nel tentativo frenetico di fare deragliare il vascello prima che svanisse oltre il Bordo. Le ruote ci sbatterono contro, con il solo effetto che la nave ondeggiò, Duefiori perse la presa sulla scala e cadde nella cabina e il portello si richiuse con fracasso. Scuotivento si tuffò in avanti, gemendo, e tentò di aprirlo.

Ormai il mare coperto di bruma era molto più vicino. E il Bordo, che costituiva il perimetro roccioso dell’arena, era anch’esso minacciosamente prossimo.

Scuotivento si rialzò. Non c’era più che una cosa da fare, e lui la fece. Fu colto dal panico quando i carrelli, venuti a contatto con la leggera salita del binario, sbalzarono il vascello, simile a un salmone scintillante, in aria e oltre il Bordo.

Pochi secondi dopo, accompagnato dal rumore di dozzine di piedini, il Bagaglio superò l’orlo del mondo, con le gambe che seguitavano a pedalare con lena, e sprofondò nell’Universo.

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