La lusinga del Wyrm

Era chiamato il Wyrmberg e si ergeva a un’altezza di quasi mille metri al di sopra della verde vallata: un monte imponente, grigio e capovolto.

Alla base misurava soltanto una ventina di metri, poi s’innalzava attraverso una coltre di nubi, si curvava graziosamente come una tromba volta verso l’aito finché era troncato da un altopiano largo una quarantina di metri. Lassù c’era una piccola foresta che sporgeva i suoi rami verdi oltre il bordo. C’erano delle case e c’era perfino un torrente che formava una cascata spumeggiante che il vento sferzava così da farla ricadere a terra sotto forma di pioggia.

Pochi metri sotto l’altopiano si aprivano a intervalli regolari delle caverne che parevano rozzamente scolpite, così che in quel fresco mattino autunnale il Wyrmberg svettava sopra le nubi come una gigantesca colombaia.

In questo caso le "colombe" avrebbero avuto un’apertura alare di un po’ più di quaranta metri.

— Lo sapevo — esclamò Scuotivento. — Ci troviamo in un forte campo magico.

Duefiori e Hrun diedero un’occhiata alla piccola conca dove avevano fatto una sosta per mezzogiorno, poi si guardarono.

I cavalli brucavano l’erba rigogliosa sulle rive del torrente. Farfalle gialle svolazzavano tra i folti cespugli. C’era odore di timo e un ronzio di api. I cinghiali allo spiedo mandavano uno sfrigolio leggero.

Hrun alzò le spalle e si rimise a oliarsi i bicipiti. Che brillavano. — A me sembra normale — disse.

— Prova a gettare in aria una moneta — gli consigliò Scuotivento.

— Cosa?

— Forza, getta una moneta.

— Va bene. Se ti fa piacere. — Hrun estrasse dalla borsa una manciata di monete rapinate da decine di reami. Scelse con cura uno Zchloty di piombo da un quarto e lo soppesò sull’unghia.

— Scegli tu — disse. — Testa o… — Esaminò il rovescio con aria d’intensa concentrazione. — Una specie di pesce con le zampe.

— Quando è in aria — disse Scuotivento. Hrun sogghignò e diede una schicchera col pollice.

La moneta roteò in alto.

— Di taglio — affermò Scuotivento senza guardarla.


La magia non muore mai. Svanisce soltanto.

In nessun luogo ciò era più evidente, nella vasta distesa azzurra del mondo-disco, come nelle zone che erano state la scena delle grandi battaglie delle Guerre dei Magi, poco dopo la Creazione. In quei giorni la magia, allo stato naturale era stata largamente accessibile e se ne erano avvalsi i Primi Uomini nella loro guerra contro gli Dei.

Le esatte origini delle Guerre dei Magi si sono perse nelle nebbie del Tempo, ma i filosofi del disco si trovano d’accordo nel giudicare che i Primi Uomini, poco dopo la loro creazione, a ragione andarono in collera. E grandi e pirotecniche furono le battaglie che ne seguirono: il sole veleggiò nel cielo, i mari ribollirono, uragani spaventosi devastarono la terra, piccoli bianchi piccioni apparvero misteriosamente negli indumenti della gente e fu minacciata la stabilita stessa del disco (trasportato nello spazio sul dorso di quattro giganteschi elefanti a cavallo della tartaruga). Fu così che seri provvedimenti furono presi dai Grandi Vecchi ai quali perfino gli Dei devono rendere conto. Gli Dei furono esiliati in alti luoghi, gli uomini furono ricreati molto più piccoli e gran parte dell’antica libera magia venne risucchiata via dalla terra.

Tutto questo però non risolse il problema delle zone del disco le quali, durante le guerre, erano state direttamente colpite da un incantesimo. La magia svanì… lentamente, nel corso dei millenni e liberò durante il processo miriadi di particelle sub-astrali che stravolsero la realtà circostante…


Scuotivento, Duefiori e Hrun guardavano la moneta.

— È di taglio — disse Hrun. — Bene, sei un mago. E allora?

— Io non faccio… questo tipo d’incantesimo.

— Vuoi dire che non ci riesci.

Scuotivento ignorò la battuta, perché era la verità. — Riprovaci — suggerì.

Hrun tirò fuori una manciata di monete.

Le prime due ricaddero nella solita maniera. E così la quarta. La terza, invece, ricadde di taglio e lì rimase a ondeggiare. La quinta si trasformò in un piccolo bruco giallo e strisciò via. La sesta, raggiunto il suo zenit, svanì con un acuto "spang"! Un momento più tardi risuonò un breve scoppio di tuono.

— Ehi, quella d’argento — esclamò Hrun, saltando in piedi e guardando in su. — Riportala qui!

— Non so dove è andata — disse stancamente Scuotivento. — Probabilmente sta ancora aumentando di velocità. Comunque, quelle con cui ho provato stamane non sono tornate giù.

Hrun continuava a fissare il cielo.

— Cosa? — chiese Duefiori.

Scuotivento sospirò. Ecco il momento che aveva temuto. — Ci siamo persi in una zona con alto quoziente magico. Non chiedetemi come. Qui una volta deve avere avuto origine un campo magico veramente potente, e noi ne risentiamo gli effetti.

— Esatto — confermò un cespuglio che passava in quel momento.

Hrun abbassò di scatto la testa. — Vuoi dire che questo è uno di quei luoghi? Andiamocene!

— Giusto — disse Scuotivento. — Se torniamo sui nostri passi potremmo farcela. Possiamo fermarci pressappoco a ogni chilometro e gettare in aria una moneta.

Si alzò in fretta e prese a riporre le sue cose nelle sacche da sella.

— Cosa? — ripeté Duefiori.

Il mago si fermò. — Sentite — gli disse brusco. — Non discutete. Venite.

— A me questo posto mi sta bene — protestò Duefiori. — Giusto un po’ spopolato, ecco tutto…

— Già. Curioso, no? Andiamo!

In alto sulle loro teste si produsse un rumore simile a quello di una correggia sbattuta su una roccia bagnata, e una forma indistinta e trasparente passò sulla testa di Scuotivento, fece alzare una nuvola di ceneri dal fuoco e la carcassa del porco schizzò via dallo spiedo e sfrecciò su nel cielo. Virò per evitare un folto d’alberi, si raddrizzò, tracciò un cerchio angusto e si diresse verso il centro, lasciando dietro di sé una scia di goccioline di grasso di porco.


— Che stanno facendo adesso? — chiese il vecchio.

La giovane donna guardò nella sfera di cristallo. — Si dirigono velocemente verso il bordo del cerchio. A proposito, hanno ancora quella cassa che cammina.

Il secchio ridacchiò, un suono che sembrò turbare il silenzio della buia cripta polverosa. — Legno del pero sapiente — disse. — Interessante. Sì, credo che ce lo prenderemo. Pensaci tu, mia cara, prima forse che oltrepassino la sfera del tuo potere.

— Silenzio! O…

— O che cosa. Liessa? — chiese il vecchio (nella luce fioca, c’era qualcosa di strano nel modo in cui era accasciato sulla sedia). — Mi hai già ucciso una volta, ricordi?

Lei sbuffò e si alzò in piedi, gettando indietro i capelli con gesto sprezzante. Erano rossi, spruzzati d"oro. Eretta, Liessa Wyrmbidder era una visione magnifica. Era anche praticamente nuda, salvo due ridottissimi lembi di sottile maglia di ferro e gli stivali da cavallo di pelle iridescente di drago. In uno era infilato un frustino, di foggia insolita perché lungo quanto una lancia e ornato sulla punta da minuscoli pungiglioni d’acciaio.

— Il mio potere sarà ampiamente sufficiente — rispose in tono freddo.

La figura indistinta annuì o almeno dondolò la testa. — Come continui ad assicurarmi — disse.

Liessa sbuffò di nuovo e lasciò la sala con passo deciso.

Suo padre non si curò di guardarla andar via. Primo perché, naturalmente, essendo morto da tre mesi i suoi occhi non erano nella migliore delle condizioni. Secondo perché essendo lui un mago, anche se un mago defunto del quindicesimo grado, i suoi nervi ottici da un pezzo erano avvezzi a guardare in livelli e dimensioni molto lontani dalla comune realtà e pertanto erano piuttosto inadatti a osservare le cose puramente terrene. (Quando era in vita, agli altri i suoi occhi erano sembrati dotati di otto sfaccettature e stranamente simili a quelli degli insetti.) Inoltre, dato che adesso egli era sospeso nel ristretto spazio tra il mondo dei viventi e il buio mondo umbratile della Morte, era in grado di contemplare l’intera sfera della Causalità. Ecco perché a parte una vaga speranza che questa volta la sua disgraziata figlia si facesse ammazzare, non concentrava i suoi notevoli poteri a saperne di più sui tre viaggiatori che stavano disperatamente galoppando per uscire dal suo regno.


A parecchie centinaia di chilometri di distanza, Liessa era di umore strano mentre scendeva i gradini consunti che portavano al centro del Wyrmberg, seguita da mezza dozzina di Cavalieri. Sarebbe stata quella l’occasione che aspettava? Forse era quella la chiave per superare il punto morto, la chiave al trono del Wyrmberg. Certo esso era suo di diritto, ma la tradizione diceva che soltanto un uomo poteva governarlo. Questo la irritava sommamente e quando Liessa era in collera, il Potere fluiva più forte e i dragoni erano particolarmente grossi e crudeli.

Se avesse avuto un uomo, le cose sarebbero andate diversamente. Qualcuno grande e grosso ma corto di cervello. Qualcuno che facesse ciò che gli si diceva.

Il più grosso dei tre che stavano fuggendo dalla terra dei dragoni poteva fare al caso suo. E, qualora si rivelasse diverso da come se lo aspettava, i dragoni erano sempre affamati e avevano bisogno di essere nutriti regolarmente. Farli diventare crudeli sarebbe stato affar suo.

E comunque, più crudeli del solito.

La scalinata passava sotto un arco di pietra e terminava in una stretta piattaforma vicina al tetto della grande caverna dove stavano appollaiati i Wyrm.

I raggi del sole che penetravano dalle miriadi di aperture nei muri della caverna intersecavano l’oscurità polverosa come bacchette d’ambra contenenti un milione d’insetti dorati. Sotto, non rivelavano altro che una tenue caligine. Sopra…

Gli anelli che servivano per spostarsi cominciavano così vicino alla testa di Liessa che lei, allungando una mano, poteva toccarne uno. Si stendevano a migliaia da una parte all’altra del tetto della caverna. Per fissare alle pareti le caviglie di supporto ci erano voluti una ventina di muratori che avevano lavorato per una ventina di anni, appesi alla loro opera via via che avanzavano. Eppure non erano nulla paragonati agli ottantotto grossi anelli raccolti intorno all’apice della cupola. Altri cinquanta erano andati persi nei vecchi tempi, mentre erano messi in opera da squadre di schiavi (e nei primi giorni del Potere, c’erano stati schiavi in quantità); i grandi anelli erano sprofondati, trascinando con loro gii sfortunati operai.

Ma ottantotto erano stati installati, maestosi come arcobaleni, rosseggiami come sangue. Da essi…


I draghi sentono la presenza di Liessa. L’aria fischia nella caverna mentre ottantotto paia di ali si dispiegano come un puzzle complicato. Le grandi teste con i loro occhi verdi sfaccettati si chinano a guardarla.

Le bestie sono tuttora vagamente trasparenti. Intanto gli uomini intorno a lei prendono dalla rastrelliera i loro stivali muniti di ganci. Liessa è intenta a scrutare la scena: sopra di lei, nell’aria stantia, i draghi sono adesso chiaramente visibili, con le loro squame bronzee che riflettono i raggi del sole. La mente di lei vibra, ma ora che sente fluire pienamente il Potere, può pensare ad altre cose con appena un minimo di concentrazione.

Ora anche lei si allaccia gli stivali speciali, compie una rotazione aggraziata e, con un leggero suono metallico, aggancia gli uncini a un paio di anelli che pendono dal soffitto.

Solo che adesso questo è diventato il pavimento. Il mondo è cambiato. Lei si tiene ritta in piedi sull’orlo di una profonda cavità o cratere, pavimentato di piccoli anelli sui quali i cavalieri già si spostano con un’andatura oscillante. Nel centro della cavità, in mezzo al branco, li attendono le loro grosse cavalcature. In alto si intravedono le rocce che formano il pavimento della caverna, scolorato da secoli di escrementi di drago.

Muovendosi con passo scivolato, che per lei è una seconda natura, Liessa si dirige verso il suo drago, Laolith, che gira verso di lei la sua grossa testa cavallina. Ha le mascelle unte di grasso di porco.

— Era eccellente — le comunica mentalmente.

— Mi pareva di avere detto che non ci dovevano essere voli non accompagnati — scatta lei.

— Avevo fame, Liessa.

— Modera la tua fame. Presto ci saranno da mangiare cavalli.

— Le redini ci si incollano ai denti. Ci sono dei guerrieri? I guerrieri ci piacciono.

Liessa tira giù la scaletta e si issa in groppa, con le gambe serrate intorno al collo coriaceo di Laolith.

— Il guerriero è mio. Puoi avere gli altri due. Sembra che uno sia una specie di mago — aggiunge per incoraggiarlo.

— Oh, sai com’è con i maghi. Dopo mezz’ora potresti fartene un altro — brontola il drago.

Spiega le ali e si lancia giù.


— Stanno guadagnando terreno! — gridò Scuotivento. Si chinò ancora di più sul collo del suo cavallo e gemette. Duefiori si sforzava di tenere il passo e allo stesso tempo di allungare il collo per girarsi a guardare le bestie volanti.

— Voi non capite! — gridò, al di sopra del rumore terribile delle ali.

— È tutta la vita che desidero vedere i draghi.

— Dall’interno? — gridò a sua volta il mago. — Chiudi il becco e cavalca — ordinò, passando al tu. Frustò il cavallo con le redini e fissò il bosco davanti, cercando di farlo avvicinare con la semplice forza di volontà. Sotto gli alberi sarebbero stati salvi. Sotto quegli alberi i draghi non potevano volare…

Udì il battito delle ali prima che la loro ombra lo avvolgesse. Istintivamente si appiattì sulla sella e sentì una fitta rovente di dolore quando qualcosa di tagliente gli strisciò tra le spalle.

Dietro a lui Hrun urlò, ma sembrò più un ululato di rabbia che un grido di dolore. Con un volteggio il barbaro era atterrato tra l’erica e aveva sfoderato la spada nera, Kring. La brandì e urlò: — Nessuna dannata lucertola può farmi una cosa simile! — Intanto uno dei draghi si era girato per sferrare un altro attacco.

Scuotivento si sporse ad afferrare le redini di Duefiori. — Vieni via! — sibilò.

— Ma i draghi… — protestò Duefiori, incantato.

— Al diavolo i… — cominciò il mago e s’interruppe di botto. Un altro drago, staccatosi dai piccoli punti volteggianti in alto, stava planando verso di loro. Scuotivento lasciò andare il cavallo di Duefiori, imprecò con violenza, e spronò la sua cavalcatura dirigendosi, solo, verso gli alberi. Non si guardò alle spalle all’udire un improvviso tumulto e quando un’ombra lo sorvolò, si limitò a gemere piano, cercando di nascondersi nella criniera del cavallo.

Poi, invece del dolore lacerante che si era aspettato, ci fu una serie di colpi pungenti mentre l’animale terrorizzato passava sotto la volta del bosco. Il mago cercò di reggersi ma un ramo basso, più robusto degli altri, lo sbalzò di sella. L’ultima cosa che udì prima di essere ingoiato dalle luci azzurre e perdere i sensi fu un acuto grido di frustrazione del rettile e lo sferzare dei suoi talloni sulle cime degli alberi.


Quando rinvenne, un drago lo stava fissando. O almeno guardava nella sua direzione. Con un gemito, Scuotivento cercò di infilarsi nel folto tappeto di muschio facendo forza sulle scapole, ma trattenne il respiro dal dolore acuto.

Girò la testa a guardare il drago, in mezzo alla nebbia provocata dal dolore e dalla paura.

La creatura penzolava da un ramo di una grossa quercia morta, diversi metri più in là. Le sue ali di bronzo dorato gli aderivano strettamente al corpo, ma la lunga testa equina si voltava di qua e di là all’estremità di un collo straordinariamente prensile, per scrutare la foresta.

Era anche semitrasparente. Sebbene il sole brillasse sulle sue squame, Scuotivento scorgeva chiaramente la sagoma attraverso il contorno dei rami.

Su uno di essi sedeva un uomo, rimpicciolito dal confronto con il rettile. Era nudo a eccezione di un paio di alti stivali, un piccolo perizoma di pelle che gli copriva i genitali e un elmo dall’alto cimiero. Faceva dondolare oziosamente una corta spada e fissava in alto le cime degli alberi con l’aria di uno che assolve un incarico tedioso e senza gloria.

Un coleottero cominciò ad arrampicarsi faticosamente sulla gamba di Scuotivento.

Il mago si chiese quanto potesse essere pericoloso un drago ridotto a metà della sua potenza. Lo avrebbe ammazzato soltanto a meta? Decise di non restare a scoprirlo.

Aiutandosi con i calcagni, le punte delle dita e i muscoli delle spalle, si contorse spostandosi di lato fino a che il fogliame mascherò la quercia e i suoi occupanti. Quindi si rimise in piedi e se la dette a gambe tra gli alberi.

Non aveva in mente una meta, non disponeva di provviste né di un cavallo. Ma finché aveva ancora le gambe poteva correre. Felci e rami lo sferzavano, ma lui non li sentiva.

Quando ebbe messo circa due chilometri tra lui e il drago, si fermò e si appoggiò esausto a un albero, che gli rivolse la parola.

— Psst — lo chiamò.

Terrorizzato da ciò che avrebbe potuto vedere, Scuotivento alzò lo sguardo. I suoi occhi cercarono di fissarsi sulle foglie e su innocui pezzetti di corteccia, ma la curiosità li costrinse a staccarsene. Finalmente si posarono su una nera spada infilzata proprio nel ramo sopra la sua testa.

— Non stare lì impalato — disse la spada (con voce simile al suono di un dito passato sull’orlo di un largo bicchiere di vino vuoto). — Tirami fuori.

— Cosa? — chiese Scuotivento, ancora con il respiro affannoso.

— Tirami fuori — ripeté Kring. — Oppure dovrò trascorrere il prossimo milione di anni in uno strato di carbone. Ti ho mai raccontato di quella volta che mi buttarono in un lago lassù nel…

— Che è successo agli altri? — chiese Scuotivento, sempre aggrappato al tronco dell’albero.

— Oh, i draghi li hanno presi. E i cavalli. E quella buffa cassa. Anche me, solo che Hrun mi ha lasciato cadere. Che colpo di fortuna hai avuto.

— Be’… — cominciò Scuotivento. ma Kring lo ignorò.

— Sono certo che avrai fretta di salvarli — aggiunse.

— Sì, be’…

— Quindi, se mi tiri fuori, possiamo muoverci.

Scuotivento lanciò un’occhiata in tralice alla spada. Se certe speculazioni avanzate sulla natura e la forma della molteplicità multidimensionaie dell’universo erano esatte, un tentativo di recupero, fino allora relegato in un angolo remoto della sua mente, era invece in cima ai suoi pensieri. E una spada magica era un ausilio prezioso…

E lungo sarebbe stato il cammino per tornare a casa, ovunque essa fosse…

Si arrampicò sull’albero e cominciò a strisciare lungo il ramo. Kring era saldamente piantata nel legno. Lui afferrò il pomo e tirò fino a farsi venire dei lampi luminosi davanti agli occhi.

— Riprova — lo incoraggiò la spada.

Scuotivento gemette e strinse i denti.

— Potrebbe essere peggio — disse Kring. — Sarebbe potuta essere un’incudine.

— Yaargh — sibilò il mago, che temeva il futuro del suo inguine.

— Io ho un’esistenza multidimensionale — affermò la spada.

— Ungh?

— Ho avuto molti nomi, sai.

— Incredibile — disse Scuotivento, che barcollò all’indietro mentre la lama scivolava fuori.

Di nuovo a terra, decise che era venuto il momento di dare la notizia. — In realtà, non credo che andare a liberarli sia una buona idea. Penso che faremmo meglio a tornare in una città. Sai, per organizzare una squadra di ricerca.

— I draghi erano diretti verso il centro — disse Kring. — Comunque, suggerisco di cominciare con quello lassù negli alberi.

— Spiacente, ma…

— Non puoi abbandonarli al loro fato!

— Non posso? — disse Scuotivento sorpreso.

— No. non puoi. Senti, sarò franca. Ho lavorato con materiale migliore di quanto sei tu, ma o mi contento o… hai mai trascorso un milione di anni in uno strato di carbone?

— Senti, io…

— Perciò se non la pianti di discutere, ti taglio la testa.

Scuotivento vide il proprio braccio sollevarsi finché la lama lucente gli sibilò a un centimetro dalla gola. Cercò di costringere le sue dita ad aprirsi. Niente da fare.

— Io non so fare l’eroe! — gridò.

— Mi offro di insegnarti.


Il bronzeo Psepha emise un profondo brontolio.

K!sdra, il suo cavaliere, si chinò in avanti a scrutare la radura. — Lo vedo — esclamò. Si calò agilmente dai rami, atterrò leggero sui ciuffi d’erba e sfoderò la spada.

Dette una buona occhiata all’uomo che si avvicinava, chiaramente riluttante ad abbandonare il riparo degli alberi. Era armato ma il suo modo di reggere la spada, a braccio teso di fronte a sé, era curioso, come se lo imbarazzasse essere visto in sua compagnia.

K!sdra sollevò la propria spada, con un largo sorriso sarcastico alla vista del mago che avanzava goffo. Poi balzò in avanti.

Più tardi ricordò soltanto due cose del combattimento. Ricordò il modo inquietante in cui la spada del mago si curvava all’insù e si abbatteva sulla sua con tanta violenza da fargliela schizzare via di mano. L’altra cosa che, si giustificava, aveva causato la sua sconfitta, era che il mago gli copriva gli occhi con una mano.

K!sdra fece un salto indietro per evitare un altro colpo e finì lungo disteso a terra. Con un ringhio Psepha spiegò le sue grandi ali e si lanciò giù dall’albero.

Un momento più tardi il mago, in piedi sopra di lui, gridava: — Digli che se soltanto mi sfiora, do via libera alla spada. Lo farò! Così diglielo! — La punta della spada nera minacciava la gola di K!sdra. Lo strano era che il mago lottava con lei, mentre quella pareva canticchiare tra sé e sé.

— Psepha! — urlò K!sdra.

Il dragone ruggì in tono di sfida, ma si astenne dal completare la picchiata che avrebbe portato via la testa di Scuotivento e, battendo le ali poderose, tornò al suo albero.

— Parla! — gridò Scuotivento.

K!sdra lo guardò seguendo con gli occhi il filo della spada. — Cosa vorresti che dicessi? — chiese.

— Cosa?

— Ho detto cosa vorresti che ti dicessi?

— Dove sono i miei amici? Intendo il barbaro e l’ometto.

— Credo che li abbiano riportati al Wyrmberg.

Con strattoni frenetici Scuotivento cercava di frenare l’irruenza della spada e di non prestare attenzione al suo ronzio assetato di sangue.

— Che cos’è un Wyrmberg?

Il Wyrmberg. Ce n’è uno solo. È la casa dei Dragoni.

— E suppongo che voi aspettavate per condurmici, eh?

K!sdra se ne uscì in un gridolino involontario quando la punta della spada gli fece uscire una goccia di sangue dal pomo d’Adamo.

— Non volete che la gente sappia che qui ci sono i dragoni, eh? — ringhiò il mago. Il cavaliere annuì senza pensarci e fu a un centimetro dal tagliarsi la gola.

Scuotivento lo guardò con un sorrisetto. O piuttosto con una smorfia che non aveva nulla di allegro, un vero e proprio rictus. Del genere normalmente accompagnato da uccellini rivieraschi che svolazzano dentro e fuori e becchettano i rimasugli dai denti.

— Vivo andrà bene — disse. — Se parliamo di qualcuno che è morto, ricordati di chi è questa spada e in mano di chi.

— Se mi uccidi nulla impedirà a Psepha di ammazzarti — urlò il cavaliere.

— Allora ecco che farò, ti taglierà a pezzetti. — Il mago provò di nuovo l’effetto della smorfia.

— Oh, va bene — esclamò K!sdra imbronciato. — Pensi che io non abbia immaginazione?

Si contorse fino a togliersi da sotto la spada e fece cenno al drago, che volò giù verso di loro. Scuotivento deglutì.

— Vuoi dire che dobbiamo andare su quel coso?

L’altro lo guardò sprezzante, con la punta di Kring sempre diretta al suo collo. — Come altro si arriverebbe al Wyrmberg?

— Non lo so. Come?

— Voglio dire, non c’è altro modo. O si vola o niente.

Scuotivento dette un’ultima occhiata al dragone che gli stava davanti. Distingueva chiaramente attraverso il corpo dell’animale l’erba calpestata sulla quale giaceva, ma quando gli toccò con precauzione una squama che appariva un semplice bagliore dorato, la sentì abbastanza solida. Pensò: "O i draghi dovrebbero esistere compiutamente o non dovrebbero esistere affatto. Un drago che esiste soltanto a metà è ancor peggio dei due estremi".

— Non sapevo si potesse vedere attraverso i draghi — osservò.

Klsdra alzò le spalle. — Non lo sapevi? — Si issò in groppa al dragone un po’ goffamente, perché Scuotivento si teneva aggrappato alla sua cintura. Una volta sistemato piuttosto scomodamente, il mago si afferrò a un pezzo della bardatura per reggersi meglio e punzecchiò leggermente K!sdra con la spada.

— Hai mai volato prima? — gli chiese il cavaliere senza voltarsi.

— Così, no.

— Vuoi qualcosa da succhiare?

Scuotivento guardò il sacchetto di dolci rossi e gialli che l’altro gli offriva. — È necessario?

— È una tradizione. Serviti pure.

Il drago si drizzò, si mosse pesantemente attraverso la radura e si levò in aria.

Scuotivento aveva un incubo ricorrente: si trovava barcollante su un luogo intangibile ma tremendamente alto e vedeva scorrergli sotto un paesaggio punteggiato da nuvole, reso cilestrino dalla distanza. (Di solito si svegliava dal sogno con le caviglie sudate; quanto si sarebbe maggiormente preoccupato se avesse saputo che l’incubo non era causato dalla solita vertigine del mondo-disco. Invece era il ricordo di un evento del suo futuro così terrificante da generare ipertoni di paura lungo tutta la linea della sua vita.)

L’attuale non era quell’evento, ma ne costituiva una buona preparazione.

Psepha avanzava con una serie di balzi da sconquassare le vertebre. All’apice dell’ultimo balzo, le bianche ali si aprirono con uno scatto e si spiegarono con un tonfo che fece tremare gli alberi.

Adesso si erano alzati da terra e Psepha saliva con un movimento pieno di grazia; i raggi del sole pomeridiano brillavano sulle sue ali, tuttora simili a un velo dorato. Scuotivento fece lo sbaglio di guardare in giù e scorse attraverso il corpo del dragone le cime degli alberi in basso. Molto in basso. Lo stomaco gli si contrasse alla vista.

Né era molto meglio chiudere gii occhi, perché così la sua immaginazione si metteva a galoppare. Giunse a un compromesso: tenere lo sguardo fisso a media distanza, dove brughiera e foresta scorrevano via ed era possibile contemplarle di quando in quando.

Si sentì ghermire dal vento. K!sdra si girò a metà e gli urlò nell’orecchio: — Guarda il Wyrmberg!

Scuotivento voltò piano la testa, badando a tenere Kring leggermente poggiata sulla schiena del drago. Con gli occhi che il vento faceva lagrimare, vide la montagna capovolta in modo impossibile levarsi dalla vallata ricoperta di foreste, come una tromba da un tino pieno di muschio. Perfino da quella distanza scorgeva nell’aria il tenue bagliore dell’ottarino che stava a indicare un’aura magica stabile di almeno (gli mancò il respiro) diversi milliPrimi? Almeno!

— Oh no! — esclamò.

Guardare giù alla terra era sempre meglio di quello. Distolse in fretta lo sguardo e si accorse di non potere più vedere attraverso il drago. Mentre compivano un largo giro verso il Wyrmberg, la creatura stava decisamente assumendo una forma più solida, come se il suo corpo si riempisse di nebbia dorata. Nel momento in cui si trovarono di fronte il Wyrmberg. svettante nel cielo, il drago era diventato reale come una roccia.

Parve a Scuotivento di vedere nell’aria una sottile striscia, come se la montagna si fosse protesa a toccare la bestia. Gli sembrò, stranamente, che così il drago diventasse più autentico.

Di fronte a loro, il Wyrmberg si trasformò da giocattolo distante diversi miliardi di tonnellate di roccia in equilibrio tra cielo e terra. Sì scorgevano piccoli campi, boschi e, verso la cima, un lago e dal lago sgorgava un fiume che precipitava oltre il bordo…

Scuotivento fece l’errore di seguire con l’occhio la traccia d’acqua spumeggiante e si ritirò indietro di scatto, giusto in tempo.

La cima svasata della montagna capovolta veniva loro incontro. Il drago nemmeno rallentò.

Via via che la montagna incombeva su di lui, simile al più grosso scacciamosche dell’universo, Scuotivento scorse l’imboccatura di una caverna, verso la quale si diresse Psepha.

Avvolto a un tratto dall’oscurità, il mago diede un grido. Una rapida visione di rocce trascorrenti, resa confusa dalla velocità, poi il drago fu di nuovo all’aperto.

Si trovavano dentro una caverna, più grande di quanto sarebbe lecito aspettarsi da qualsiasi caverna. Il drago, che scivolava attraverso quell’enorme vuoto, era una semplice mosca dorata in una sala dei banchetti. Nell’aria illuminata dai raggi del sole altri draghi, dorati, argentei, neri, bianchi volteggiavano per i loro propri scopi o erano appollaiati su spunzoni di roccia. In alto nel tetto a cupola della caverna decine di altri pendevano da grossi anelli. Lassù c’erano anche degli uomini. Vedendoli, Scuotivento fu allibito perché quelli camminavano sulla vasta superficie del soffitto come mosche. Poi scorse le migliaia di piccoli anelli che lo costellavano. Alcuni uomini a testa in giù osservavano interessati il volo di Psepha. Scuotivento fu ancora più esterrefatto. Non riusciva a pensare a cosa doveva fare, ne fosse andato della sua vita.

— Allora? — bisbigliò. — Qualche suggerimento?

— Naturalmente tu attacchi — rispose sprezzante Kring.

— Come mai non ci ho pensato? Forse perché sono tutti muniti di balestra.

— Sei un disfattista.

— Disfattista! Questo perché sto per essere sconfitto!

— Scuotivento, tu sei il tuo peggiore nemico — sentenziò la spada.

Scuotivento guardò gli uomini sogghignanti.

— Vuoi scommettere? — disse stancamente.

Prima che Kring potesse rispondergli, Psepha s’impennò a mezz’aria e si posò su uno dei grossi anelli che dondolò pericolosamente.

— Preferisci morire ora o prima ti arrendi? — gli domandò con calma K!sdra.

Degli uomini si dirigevano verso l’anello da tutte le direzioni; camminavano con andatura ondeggiante, poggiando gli stivali uncinati sugli anelli pendenti dal soffitto.

Altri stivali erano disposti su una rastrelliera appesa in una piccola piattaforma costruita di fianco al grosso anello. Prima che Scuotivento potesse fermarlo, il cavaliere era balzato giù dalla groppa del dragone ed era atterrato sulla piattaforma, con un sorriso di scherno per la sconfitta del mago.

Si udì il rumore lieve delle balestre che venivano armate. Scuotivento levò lo sguardo verso le facce capovolte che lo fissavano impassibili. L’abbigliamento del popolo dei draghi non dimostrava una grande immaginazione: finimenti di cuoio con ornamenti di bronzo; coltelli e foderi di spade portate a rovescio. Quelli senza elmetto lasciavano pendere i capelli, che fluttuavano come alghe nell’aria smossa dalla ventilazione vicino al tetto. Tra di loro c’erano parecchie donne. La positura invertita aveva uno strano effetto sulla loro anatomia.

— Arrenditi — ripeté K!sdra.

Scuotivento aprì la bocca per farlo. Con un ronzio Kring lo ammonì e lui sentì su per il braccio ondate di un dolore acuto. — Mai — disse con voce stridula e il dolore cessò.

— Naturale che non lo farà — esclamò dietro di lui una voce rimbombante. — È un eroe, no?

Scuotivento si voltò e si trovò davanti un paio di narici pelose. Appartenevano a un giovane assai robusto, appeso disinvoltamente al soffitto con gli stivali.

— Come ti chiami, eroe? — gli chiese. — Così sappiamo chi sei.

Un dolore atroce saettò nel braccio di Scuotivento. — Io… io sono Scuotivento di Ankh — ansimò.

— E io sono Lio!rt, il signore dei Draghi — disse l’altro con una profonda voce di gola. — Sei venuto a sfidarmi in duello mortale?

— Be’, no, io non…

— Ti sbagli. K!sdra, dai al nostro eroe un paio di stivali. Sono sicuro che è impaziente d’iniziare.

— No, senti, sono venuto qui solo per trovare i miei amici. Sono sicuro che non… — cominciò Scuotivento, mentre il cavaliere lo guidava deciso sulla piattaforma, lo costringeva a sedersi e gli allacciava gli stivali ai piedi.

— Sbrigati, K!sdra. Non possiamo ritardare l’incontro del nostro eroe con il suo destino — disse Lio!rt.

— Senti, sono sicuro che i miei amici si trovano bene qui, quindi se tu potessi, sai, depositarmi da qualche parte…

— Vedrai quanto prima i tuoi amici — promise il signore dei dragoni. — Se sei religioso, intendo. Nessuno che entra nel Wyrmberg ne esce più. Salvo in senso metaforico, naturalmente. Mostragli come raggiungere gli anelli, K!sdra.

— Guarda in che cosa mi hai cacciato! — sibilò Scuotivento.

Kring gli vibrò nella mano. — Ricordati che sono una spada magica.

— Come potrei dimenticarlo?

— Arrampicati sulla scala e afferra un anello — disse il cavaliere — quindi solleva i piedi finché l’uncino si aggancia. — Aiutò il mago recalcitrante a salire finché rimase appeso a testa in giù, con la tunica infilata nelle brache e Kring penzolante da una mano. Visto da quell’angolatura, il popolo dei dragoni sembrava abbastanza sopportabile, ma gli animali, sospesi dai loro posatoi, incombevano sulla scena come immensi mascheroni, con occhi accesi d’interesse.

— Attenzione, prego — disse Lio!rt. Uno dei cavalieri gli porse una forma oblunga, avvolta in seta rossa.

— Combattiamo fino alla morte — dichiarò. — La tua.

— Suppongo che se vinco mi guadagno la libertà? — chiese Scuotivento, senza molta speranza.

Con un cenno della testa Lio!rt gli indicò gli altri cavalieri. — Non essere ingenuo.

Scuotivento respirò a fondo. — Credo di doverti avvisare — disse con voce ferma. — Questa è una spada magica.

Lio!rt lasciò cadere il drappo di seta rossa roteò una lama nera come la pece, sulla cui superficie brillavano dei caratteri runici.

— Che coincidenza — disse con una rapida stoccata.

Il mago s’irrigidì dalla paura, ma il braccio gli scattò in avanti, seguendo l’impeto di Kring. Le due lame s’incrociarono in un’esplosione di lampi di ottarino.

Lio!rt fece un balzo indietro, stringendo gli occhi. Superando la sua guardia, Kring menò un affondo e sebbene la spada del cavaliere si sollevasse a parare la violenza del colpo, il risultato fu una sottile linea rossa che attraversò il torace del suo padrone.

Con un ringhio questi si scagliò contro il mago, con gli stivali che tintinnavano mentre scivolava da un anello all’altro. Le due spade s’incrociarono di nuovo con una violenta scarica di magia e, allo stesso tempo, Lio!rt abbatté l’altra mano sulla testa di Scuotivento, facendogli perdere l’equilibrio così che un piede perse il contatto con l’anello e rimase penzoloni nel vuoto.

Scuotivento sapeva di essere quasi certamente il mago più scadente del mondo-disco, dato che conosceva un solo incantesimo. Ciò nonostante era pur sempre un mago e così, per le inesorabili leggi della magia, alla sua dipartita sarebbe apparsa la Morte stessa a reclamarlo (invece di mandare uno dei suoi numerosi servi, com’è di solito il caso).

Fu così che, mentre con un sogghigno Lio!rt faceva lentamente descrivere un arco alla sua spada, agli occhi di Scuotivento il mondo fu a un tratto illuminato da una vacillante luce di ottarino, tinta di violetto per l’impatto dei fotoni sull’aura magica. Al suo interno il cavaliere era mutato in una statua fantomatica e la sua spada si muoveva con la lentezza di una lumaca.

Oltre a Lio!rt c’era un’altra figura, visibile soltanto a coloro capaci di vedere nelle quattro dimensioni extra della magia. Era alta e nera e sottile e faceva ondeggiare a due mani, contro una notte subitanea di gelide stelle, una falce dalla lama proverbialmente tagliente…

Scuotivento si abbassò di scatto. La lama gli passò sibilando accanto alla testa e penetrò senza rallentare nel tetto di roccia della caverna. La Morte gridò un’imprecazione nella sua fredda voce cavernosa. La scena svanì. Ciò che nel mondo-disco passava per realtà si riaffermò rumorosamente. Lio!rt era rimasto senza fiato per la rapidità con la quale il mago aveva evitato il suo colpo letale, mentre quest’ultimo, con la disperazione di chi è veramente terrorizzato, aveva preso lo slancio e gli si era scagliato contro, attraverso lo spazio che li separava. Afferrate con entrambe le mani il braccio armato del cavaliere, lo torceva con tutta la forza di cui era capace.

Fu in quel momento che l’unico anello che restava a Scuotivento, già sovraccarico, si staccò con un piccolo rumore metallico dalla roccia nella quale era infisso.

Lui precipitò, ondeggiando paurosamente, e rimase penzolante sull’abisso, aggrappato così disperatamente al braccio del cavaliere che questi gridò di dolore.

Lio!rt guardò in alto ai suoi piedi. Schegge di roccia cadevano dal tetto intorno alle caviglie che reggevano gli anelli.

— Lascia la presa, maledetto! — urlò. — O moriremo entrambi.

Scuotivento non disse nulla, concentrato unicamente a mantenere la presa e a scacciare dalla mente le immagini incalzanti del fato che l’attendeva sulle rocce sottostanti.

— Colpitelo! — urlò Lio!rt.

Scuotivento vide, con l’angolo dell’occhio, diverse balestre puntate contro di lui. Lio!rt scelse quel momento per battere l’aria con la mano libera e una manciata di anelli colpì le dita del mago.

Lui lasciò la presa.


Duefiori afferrò le sbarre e si issò.

— Vedi niente? — chiese Hrun. all’altezza dei suoi piedi.

— Soltanto nuvole.

Hrun lo rimise a terra e sedette sul bordo di uno dei tetti di legno che costituivano l’unico mobilio della cella. — Accidentaccio — esclamò.

— Non disperare — lo incoraggiò Duefiori.

— Io non mi dispero.

— Penso che sì tratti di un malinteso. E che presto ci libereranno. Mi sembrano molto civili.

Hrun lo guardò da sotto le sopracciglia cespugliose. Fece per parlare e ci ripensò, limitandosi a sospirare.

— E quando torniamo, possiamo raccontare di avere visto i draghi! — continuò Duefiori. — Che ne dici, eh?

— I draghi non esistono — affermò Hrun. — Codice di Chimeria ha ucciso l’ultimo duecento anni fa. Non so che cosa vediamo, ma non sono draghi.

— Ma ci hanno portato nell’aria! In quella sala dovevano essercene a centinaia…

— Suppongo che fosse semplicemente una magia — dichiarò il barbaro.

— Be’, a vederli sembravano draghi — ribatté Duefiori con tono di sfida. — Ho sempre desiderato vederli, fin da quando ero bambino. Dragoni che volano nel cielo, soffiando fiamme…

Erano soliti strascinarsi nelle paludi e simili e il loro fiato puzzava. Non erano nemmeno molto grandi. E raccoglievano legna da ardere.

Io ho sentito che raccoglievano tesori — obiettò Duefiori.

E legna da ardere. Ehi — aggiunse Hrun animandosi — hai notato tutte quelle sale che ci hanno fatto attraversare? Davvero suggestive. C’erano un sacco di oggetti d’oro e inoltre certi di quegli arazzi devono valere una fortuna… — Si grattò il mento con aria pensierosa e il rumore di un porcospino attraversò un ciuffo di ginestra spinosa.

— E adesso che succede? — chiese Duefiori.

Hrun si stuzzicò l’orecchio con un dito che guardò poi meditabondo. — Oh, mi aspetto che fra un minuto apriranno la porta e mi trascineranno nell’arena di un tempio dove lotterò forse contro due ragni giganti e uno schiavo di due metri proveniente dalla giungla di Klatch e poi libererò una principessa legata all’altare e ammazzerò un po’ di guardie o roba del genere e poi la fanciulla mi mostrerà il passaggio segreto per andare via da quel luogo e libereremo due cavalli e scapperemo via con il tesoro. — Hrun appoggiò la testa sulle mani intrecciate guardò il soffitto, fischiettando piano.

— Tutto questo? — domandò Duefiori.

— Di solito.

Duefiori sedette sul lettuccio e cercò di riflettere. Compito difficile, perché aveva la mente tutta presa dai draghi.

Dragoni!

Sin da quando aveva due anni era stato affascinato dalle figure di quei fieri animali nel Libro di Tavole dell’Ottarino. Sua sorella gli aveva detto che in realtà non esistevano e ricordava com’era stato amaramente deluso. Se il mondo non conteneva quelle belle creature, voleva dire che era un mondo assai imperfetto, aveva deciso. Più tardi, aveva fatto il suo apprendistato con Ninereeds il Mastrocontabile, che nel suo grigiore era tutto ciò che i draghi non erano, e non c’era più stato tempo per sognare.

Però in questi draghi qualcosa non andava: erano troppo piccoli e lustri, paragonati a quelli che lui vedeva con l’occhio della mente. I draghi avrebbero dovuto essere grossi e verdi e muniti di artigli e esotici e sprizzanti fiamme… grossi e verdi con lunghe acuminate…

Qualcosa si mosse nell’angolo più lontano e buio del torrione. Svanì quando lui girò la testa, ma gli era parso di udire un rumore lievissimo come di artigli che grattassero la pietra.

— Hrun? — chiamò.

Dall’altro giaciglio venne un ronfo.

Duefiori si spostò nell’angolo e tastò con precauzione le pietre in cerca di un pannello segreto. In quel momento la porta si spalancò e sbatté contro il muro. Una mezza dozzina di guardie si precipitarono dentro, si disposero ad ala e piegarono un ginocchio, con le armi puntate esclusivamente su Hrun. Ripensandoci più tardi, Duefiori se ne sentiva offeso.

Hrun russava.

Una donna entrò nella cella a grandi passi. Non molte donne sono capaci di farlo in maniera convincente, ma lei ci riuscì. Diede una rapida occhiata a Duefiori, come si guarda un mobile, poi fissò l’uomo steso sul letto.

La donna indossava la stessa bardatura dei cavalieri, ma nel suo caso molto più ridotta. Questa e la magnifica criniera di capelli rossi che le arrivava alla vita erano la sua unica concessione a quella che perfino nel mondo-disco passava per decenza. Aveva anche un’espressione pensierosa.

Con un ronfo. Hrun si girò supino e continuò a dormire.

La donna estrasse dalla cintura con precauzione, come se maneggiasse uno strumento di rara delicatezza, un sottile pugnale nero, e lo abbassò.

Prima che la lama fosse a metà del suo arco, la mano destra di Hrun si mosse così rapida che sembrò viaggiare tra due punti nello spazio senza nemmeno spostarsi nell’aria, e si chiuse di scatto sul polso della donna. L’altra mano tastava febbrilmente in cerca di una spada che non c’era…

Hrun si svegliò.

— Gngh? — e guardò la donna con cipiglio perplesso. Poi scorse gli arcieri.

— Lasciami andare — disse la donna. La sua voce era calma, tranquilla, cristallina. Hrun aprì lentamente il pugno.

Lei indietreggiò. Si massaggiava il polso e fissava Hrun come un gatto fissa la tana del topo.

— Così — disse alla fine — hai superato la tua prima prova. Come ti chiami, barbaro?

— Chi chiami barbaro? — ringhiò Hrun.

— È ciò che voglio sapere.

Hrun contò lentamente gli arcieri e i muscoli delle sue spalle si rilassarono. — Io sono Hrun di Chimeria. E tu?

— Liessa la Signora dei draghi.

— Sei tu che domini in questo posto?

— Questo è da vedere. Hai l’aria di un mercenario, Hrun di Chimeria. Potrei servirmi di te, se superi le prove, naturalmente. Ce ne sono tre. Hai superato la prima.

— Come sono le altre… — Hrun s’interruppe; le sue labbra si muovevano senza che ne uscisse alcun suono. Infine azzardò: — …due?

— Pericolose.

— E la mercede?

— Sostanziosa.

— Scusatemi — disse Duefiori.

— E se non supero queste prove? — proseguì Hrun, ignorandolo Tra Hrun e Liessa l’aria crepitava con piccole esplosioni di carisma mentre si fissavano.

— Se avessi fallito la prima, adesso saresti morto. È la penalità da pagare.

— Uhm, sentite — cominciò Duefiori. Liessa gli diede un’occhiata e sembrò notarlo per la prima volta.

— Portatelo via — disse con calma e si voltò di nuovo verso Hrun. Due delle guardie si misero l’arco in spalla, afferrarono Duefiori per i gomiti, lo sollevarono da terra e uscirono al trotto.

— Ehi — disse Duefiori, mentre quelli si affrettavano per il corridoio — dove — (mentre si fermavano davanti a un’altra porta) è il mio (mentre l’aprivano) — Bagaglio? — Atterrò su un mucchio di paglia. La porta si richiuse con un tonfo e il rumore dei chiavistelli che venivano tirati ne sottolineò l’eco.

Hrun, nell’altra cella, non aveva battuto ciglio. — Okay, qual è la seconda prova?

— Devi uccidere i miei due fratelli.

Hrun ci pensò su. — Tutti e due allo stesso tempo o uno dopo l’altro?

— Consecutivamente o simultaneamente.

— Cosa?

— Uccidili e basta — rispose lei con voce tagliente.

— Sono bravi combattenti?

— Rinomati.

— Così in compenso…

— Mi sposerai e diventerai Signore del Wyrmberg.

Seguì una lunga pausa. Hrun aggrottò le sopracciglia nello sforzo, insolito per lui, di riflettere.

— Avrò te e questa montagna? — chiese finalmente.

— Sì. — Lei lo guardò dritto negli occhi e le sue labbra fremettero. — La mercede ne vale la pena, te lo assicuro.

Hrun abbassò gli occhi sugli anelli che le ornavano le dita. Le pietre erano grandi, diamanti di un azzurro lattiginoso incredibilmente rari, dai giacimenti di argilla di Mithos. Quando riuscì a staccarne lo sguardo, Liessa lo fissava furente.

— Tanto calcolatore — esclamò con voce stridente. — Hrun il Barbaro, il coraggioso che si avventurerebbe nelle fauci stesse della Morte!

Hrun alzò le spalle. — Sicuro — disse. — Per la sola ragione che così si potrebbero rubare i suoi denti d’oro. — Allungò un braccio, brandì il lettino di legno e lo scagliò contro gli arcieri; quindi si slanciò baldamente anche lui, abbatté un uomo con un colpo e all’altro strappò via l’arma. Un momento dopo era tutto finito.

Liessa non si era mossa.

— Allora? — disse.

— Allora cosa?

— Intendi uccidermi?

— Che? Oh no. No. Per me, sai, è una specie di abitudine. Giusto per tenermi in esercizio. Allora dove sono questi fratelli? — Sogghignò.


Seduto sulla paglia, Duefiori contemplava il buio e si chiedeva da quanto tempo si trovava lì. Ore, almeno. Giorni, probabilmente. Forse anni, e lui semplicemente l’aveva dimenticato.

No, pensieri del genere erano inutili. Cercò di pensare ad altro: erba, alberi, aria fresca, draghi. Draghi…

Si udì nell’oscurità un leggerissimo sfregamento. La fronte di Duefiori s’imperlò di sudore.

Insieme a lui nella cella c’era qualcosa. Qualcosa che emetteva un fruscio eppure dava l’impressione di una grandezza smisurata. Sentì l’aria smuoversi. Alzò un braccio. Vi fu una leggera cascata di scintille che annunciavano la presenza di un campo magico. Duefiori desiderò ardentemente che ci fosse una luce.

Una goccia di fiamma gli passò sulla testa e andò a colpire la parete opposta; le rocce riverberarono un calore da fornace e lui si trovò di fronte un dragone che occupava oltre la metà della cella.

— Ubbidisco, signore — disse una voce nella sua testa.

Al riverbero della pietra che crepitava e lanciava scintille, Duefiori vide la sua immagine riflessa in due enormi occhi verdi. Il dragone era una creatura multicolore, dotata di corna e di aculei e agile come quello presente nel suo ricordo. Un vero dragone. Le sue ali ripiegate erano ciò nondimeno abbastanza larghe da sfiorare le pareti della stanza e lui giaceva in mezzo ai suoi talloni.

— Ubbidire? — disse l’ometto con voce in cui vibravano terrore e diletto.

— Naturalmente, signore.

Il chiarore svanì. Duefiori puntò un dito tremante verso il punto in cui ricordava esserci la porta e ordinò: — Aprila!

Il drago sollevò l’enorme testa. Di nuovo emise una palla di fuoco ma questa volta, mentre i muscoli del collo gii si contraevano, il colore della fiamma passò dall’arancione al giallo, dal giallo al bianco e finalmente all’azzurro pallidissimo: a questo punto era diventata anche assai tenue e dove toccava la parete, la roccia si sgretolava; quando raggiunse la porta, il metallo esplose in una pioggia di scintille infuocate.

Sulle pareti si disegnarono guizzanti ombre nere. Per un attimo il metallo incandescente ribollì e poi la porta cadde in due pezzi nel corridoio. La fiamma si spense con una rapidità sconcertante quasi quanto la sua apparizione.

Duefiori passò con precauzione sulla porta che si andava raffreddando e scrutò i! corridoio nei due sensi. Era vuoto.

Il drago lo seguì. Il pesante telaio della porta gli causò qualche difficoltà che lui superò con una spallata che spaccò il legno e lo buttò da una parte. La creatura attendeva, gli occhi fissi su Duefiori, la pelle increspata e guizzante mentre tentava di aprire le ali nello stretto corridoio.

— Come sei arrivato qui? — gli domandò Duefiori.

— Mi hai chiamato tu, padrone.

— Non ricordo di averlo fatto.

— Nella tua mente. Mi hai chiamato nella tua mente — rispose il drago pazientemente.

— Vuoi dire che io ti ho pensato ed eccoti lì?

— Sì.

— Era magia?

— Sì.

— Ma ho pensato ai draghi tutta la mia vita!

— In questo luogo la frontiera tra il pensiero e la realtà probabilmente è un po’ confusa. So soltanto che una volta non esistevo e poi tu mi hai pensato ed ero lì. Dunque, naturalmente, sono ai tuoi ordini.

— Splendido!

Una mezza dozzina di guardie scelsero quel momento per girare l’angolo del corridoio. Si fermarono, a bocca aperta. Poi una si riprese quel tanto da imbracciare la sua balestra e tirare.

Il petto del drago si gonfiò e la freccia esplose a mezz’aria in frammenti fiammeggianti. Le guardie se la diedero a gambe. Una fiammata spazzò le pietre sulle quali si trovavano un attimo prima.

Duefiori guardò ammirato l’animale. — Sai anche volare?

— Naturalmente.

Dopo avere dato un’occhiata su e giù per il corridoio, Duefiori decise di non seguire le guardie. Sapeva di essersi già totalmente perso e quindi qualsiasi direzione andava bene. Sgusciò accanto al drago e si allontanò rapido, mentre l’enorme bestia si girava con difficoltà per seguirlo.

Proseguirono per una serie di corridoi che s’incrociavano come un labirinto. A un certo momento a Duefiori sembrò di udire delle grida in lontananza alle loro spalle, ma presto svanirono. A volte nell’oscurità si intravedeva l’arco scuro di un portale diroccato. Qua e là, la luce filtrava fioca attraverso le fessure, riflessa dai grandi specchi incastrati negli angoli del corridoio. Altre volte, invece, da una fonte lontana di luce veniva un chiarore più brillante.

Mentre scendeva una scalinata sollevando nuvole di polvere argentea, Duefiori trovò strano che lì i tunnel fossero molto più larghi e anche meglio costruiti. Nelle nicchie delle pareti c’erano delle statue e qua e là erano appesi arazzi sbiaditi ma interessanti. Rappresentavano soprattutto draghi, draghi a centinaia, in volo o appollaiati sugli anelli, draghi cavalcati da uomini che cacciavano il cervo e talora altri uomini. Duefiori toccò con precauzione uno degli arazzi. Il tessuto si sbriciolò immediatamente nell’aria asciutta e calda; restarono soltanto brandelli penzolanti con la trama intessuta di fili d’oro.

— Mi domando perché hanno lasciato tutto questo? — disse.

— Non lo so — rispose cortesemente una voce nella sua testa. L’ometto si voltò a guardare il muso cavallino e squamoso. — Come ti chiami, drago? — gli chiese.

— Non lo so.

— Ti chiamerò Ninereeds.

— Allora questo è il mio nome.

Passarono attraverso la polvere che tutto invadeva in una serie di enormi sale scure ricavate dalla roccia. E con molta perizia: dal pavimento al soffitto le pareti erano una massa di statue, mascheroni, bassorilievi e snelle colonne, che proiettavano ombre semoventi quando, su richiesta di Duefiori, il drago compiacente le illuminava. Dappertutto c’era uno strato di soffice polvere. Nessuno da secoli veniva in quelle morte caverne.

Poi Duefiori vide il sentiero che conduceva a un ennesimo tunnel scuro. Qualcuno lo usava regolarmente e di recente. Era una pista stretta nel grigio lenzuolo.

Duefiori la seguì. Conduceva attraverso altre sale spaziose e corridoi tortuosi, larghi abbastanza per un dragone (e sembrava che un tempo i draghi fossero passati di lì: c’era una stanza piena di finimenti corrosi, a dimensione di draghi, e un’altra con piastre e cotte di maglia abbastanza grandi per un elefante). Alla fine si trovarono davanti a due porte di bronzo, tanto alte da scomparire nella semioscurità. Davanti a Duefiori, all’altezza del petto, c’era una piccola maniglia in forma di drago.

La toccò e le porte si aprirono istantaneamente e, cosa sconcertante, senza il minimo rumore.

All’istante delle scintille crepitarono nei capelli di Duefiori e vi fu un soffio improvviso di vento caldo e asciutto che non disturbò la polvere come avrebbe fatto un vento ordinario. Ma la sferzò per un momento e ne ricavò delle sconvolgenti forme semiumane, prima di depositarsi di nuovo a terra. Nelle orecchie di Duefiori si produsse lo strano e penetrante battito delle Cose imprigionate nella cella lontana delle Dimensioni, al di là del fragile schermo del tempo e dello spazio. Apparvero ombre là dove non c’era nulla per produrle. L’aria ronzava come un alveare.

Per farla breve, intorno a lui vibrava una forte scarica di magia.

La camera al di là della porta era illuminata da un pallido chiarore verde. Ammucchiate lungo le pareti, ognuna sulla sua mensola di marmo, c’erano file su file di bare. Nel centro della sala, su una pedana, c’era una poltrona di pietra sulla quale era accasciata una figura che non si mosse, ma disse con voce vecchia e fragile: — Entra, giovanotto.

Duefiori si fece avanti. La figura sullo scanno era umana, per quanto era possibile giudicare in quella luce tetra, ma c’era qualcosa nella sua positura sgraziata per cui l’ometto era contento di non distinguerla meglio.

— Sono morto, sai — annunciò in tono discorsivo una voce proveniente da quella che Duefiori sperava ardentemente fosse una testa. — Suppongo che te ne sei accorto.

— Uhm… Sì. — disse Duefiori e cominciò ad arretrare.

— È evidente, vero? — continuò la voce. — Tu devi essere Duefiori, non è così? Oppure questo è più tardi?

— Più tardi? Più tardi di che?

— Be’, vedi, uno dei vantaggi di essere morti è che si è, per così dire, liberi dai vincoli del tempo. Quindi io posso vedere tutto ciò che è accaduto o che accadrà, tutto allo stesso tempo. Solo che, naturalmente, adesso so che, a tutti gli effetti pratici, il Tempo non esiste.

— Questo non mi sembra uno svantaggio — osservò Duefiori.

— Non lo credi? Immagina di essere nello stesso istante un ricordo lontano e una brutta sorpresa e vedrai ciò che voglio dire. Comunque sia, adesso ricordo che cosa sto per dirti. Oppure l’ho già fatto? A proposito, quello è un bel drago. Oppure l’ho già detto?

— Lui è davvero bravo. È saltato fuori all’improvviso — spiegò Duefiori.

— È saltato fuori? L’hai chiamato tu!

— Sì, be’, io…

— Tu hai il Potere!

— Io mi sono limitato a pensarlo.

— In questo consiste il Potere! Ti ho già detto di essere Greicha Primo? Oppure il prossimo? Scusami, ma non ho avuto una grande esperienza in fatto di trascendenza. Comunque, sì… il Potere. Evoca i draghi, sai.

— Mi pare che me l’abbiate già detto.

— Davvero? È certamente ciò che intendevo — disse il morto.

— Ma come è possibile? Ho pensato ai draghi per tutta la vita, ma questa è la prima volta che uno si è materializzato.

— Oh be’, vedi, la verità è che i draghi non sono mai esistiti nel senso che tu e io, finché non sono stato avvelenato tre mesi fa, intendiamo l’esistenza. Sto parlando dell’autentico drago, draconis nobilis, capisci; il drago delle paludi, draconis vulgaris, è una creatura vile, indegna della nostra attenzione. Il drago autentico, d’altro lato, è una creatura dallo spirito così squisito che può materializzarsi in questo mondo solo se concepita dall’immaginazione più ingegnosa. E anche allora tale immaginazione deve trovarsi in un luogo profondamente impregnato di magia, che aiuta ad abbattere il muro che separa il mondo visibile dall’invisibile. Allora i draghi ci saltano attraverso, diciamo, e imprimono la loro forma sulla matrice della possibilità di questo mondo. Quando ero vivo, ero molto bravo. Potevo immaginare fino a, oh! cinquecento draghi alla volta. Ora Liessa, la più dotata dei miei figli, può soltanto immaginare cinquanta creature alquanto insignificanti. Ecco il risultato dell’educazione progressista. Lei non crede veramente in loro. Ecco perché i suoi draghi sono piuttosto noiosi, mentre il tuo è quasi all’altezza di certi dei miei. Una vista che rallegra gli occhi, non che io adesso di occhi ne abbia.

Duefiori disse in fretta: — Voi continuate a dire di essere morto…

— Ebbene?

— Ebbene i morti, ehm, loro, sapete, non parlano molto. Di regola.

— Io ero un mago eccezionalmente potente. Naturalmente, mia figlia mi ha avvelenato. È questo il metodo di successione generalmente accettato nella nostra famiglia, ma… — Il cadavere sospirò o almeno un sospiro provenne dall’aria a qualche centimetro al di sopra. — Si è subito visto che nessuno dei miei tre figli è abbastanza potente da strappare agli altri due la signoria del Wyrmberg. Una situazione altamente insoddisfacente. Un regno come il nostro deve avere un solo governante. Così ho deciso di restare vivo in via ufficiosa, ciò che, com’è naturale, irrita enormemente tutti loro. Non darò ai miei figli la soddisfazione di seppellirmi fintanto che non resterà soltanto uno di loro a sbrigare la cerimonia. — Ci fu uno sgradevole rumore sibilante che, nelle intenzioni del morto, avrebbe dovuto essere una risatina.

— Allora è stato uno di loro che ci ha rapiti? — chiese Duefiori.

— Liessa. Mia figlia. Sai, il suo potere è più forte. I dragoni dei miei figli sono incapaci di volare più di qualche chilometro prima di scomparire.

— Svanire? Ho notato che potevamo vedere attraverso quello che ci ha portato qui. L’ho giudicato un po’ curioso.

— Naturale — disse Greicha. — Il Potere agisce soltanto vicino al Wyrmberg. È la legge inversa del quadrato, sai. O almeno, lo credo. Via via che i draghi volano più lontano, cominciano a deperire. Altrimenti a quest’ora la mia piccola Liessa governerebbe il mondo intero. Ma capisci che non devo trattenerti. Suppongo che desideri liberare i tuoi amici.

Duefiori restò a bocca aperta. — Hrun?

— Lui no. Il mago magrolino. Mio figlio Lio!rt sta cercando di farlo a pezzi. Ho ammirato il modo in cui lo hai liberato. Lo libererai, voglio dire.

Duefiori si raddrizzò in tutta la sua altezza, il che era un compito facile. — Dov’è? — chiese avviandosi deciso alla porta con passo che sperava eroico.

— Segui la traccia nella polvere — disse la voce. — Qualche volta Liessa viene a vedermi. Viene ancora a vedere il suo vecchio papà, la mia bambina. Lei era la sola dotata della forza di carattere per assassinarmi. Una figlia che somiglia al padre. A proposito, buona fortuna, mi pare di ricordarmi di averlo detto. Voglio dire, che lo dirò.

La voce si perse incoerente in un labirinto di forme verbali, mentre Duefiori correva per i tunnel deserti, seguito a ruota dal drago. Ma presto si appoggiò, senza più fiato, a un pilastro. Gli sembrava che fossero passati secoli da quando aveva mangiato l’ultima volta.

— Perché non voli? — gli disse Ninereeds dentro la testa. Il drago spiegò le ali, le agitò per saggiarne la capacità e si sollevò dal suolo. Duefiori lo guardò per un momento, poi corse ad arrampicarsi sul collo della bestia. Ben presto volavano a qualche centimetro da terra, lasciandosi dietro una scia di polvere volteggiante.

Duefiori si teneva aggrappato come meglio poteva a Ninereeds mentre la bestia superava un seguito di caverne e si librava lungo una scala a chiocciola che avrebbe potuto facilmente ospitare un esercito in ritirata. Arrivati in cima, emersero nella zona più abitata, gli specchi all’angolo dei corridoi erano tersi e riflettevano una luce pallida.

— Sento l’odore di altri draghi.

Il battito delle ali divenne frenetico e Duefiori fu sbalzato all’indietro quando il dragone virò e sfrecciò giù per un corridoio laterale come un rondone impazzito. Con un’altra svolta ad angolo acuto sboccarono dal tunnel nella parete laterale di una vasta caverna. Molto più in basso si scorgevano delle rocce e dall’alto piovevano raggi di luce da grandi buchi vicini al tetto. A mano a mano che Ninereeds s’innalzava, battendo l’aria con le sue grandi ali, sul soffitto si notava anche una grande operosità. Duefiori scorgeva le sagome di bestie appollaiate e di uomini simili a minuscoli puntini che in qualche modo camminavano a testa all’ingiù.

— Questa è una uccelliera — disse il drago in tono soddisfatto.

In quel momento, sotto gli occhi di Duefiori, una delle sagome si staccò dal tetto e a poco a poco diventò più grande…


Scuotivento fissava il pallido viso di Lio!rt allontanarsi. "È buffo" pensò "perché sto salendo’?

Poi cominciò a precipitare nell’aria e si rese conto della situazione: stava piombando giù verso le rocce macchiate di guano.

Al pensiero, la testa gli girava. Le parole dell’Incantesimo scelsero proprio quel momento per emergere dai recessi della sua mente, come sempre in tempi di crisi. "Perché non pronunciarci" sembravano incalzarlo. "Cos’hai da perdere?"

Scuotivento agitò una mano nella corrente d’aria sempre più intensa.

— Ashonai — gridò. La parola si formò davanti a lui in una fredda fiamma azzurra fluttuante nel vento.

Lui agitò l’altra mano, ebbro di terrore e di magia.

— Ebiris — intonò. Il suono si concretizzò in una parola arancione che rimase sospesa ondeggiando accanto alla sua compagna.

— Urshoring, Kvanti, Pythan, N’Gurad, Feringomalee. — Le parole sfavillavano intorno a lui nei colori dell’arcobaleno. Il mago gettò indietro le mani e si preparò a pronunciare l’ottava e ultima parola, che sarebbe apparsa in corrusco ottarino e avrebbe sigillato l’incantesimo. Le rocce sottostanti erano dimenticate.

— … — cominciò.

Gli mancò il respiro e l’incantesimo si disperse e si spense. Un paio di braccia gli serrarono la vita e il mondo intero sembrò sussultare, quando il drago si sollevò dalla sua lunga picchiata, con gli artigli che grattarono solo per un attimo la roccia più alta sul rumoroso pavimento del Wyrmberg.

Due fiori rise trionfante. — L’ho preso!

Giunto in cima, il drago descrisse una curva leggiadra e con un pigro battito d’ali volò fuori da una delle aperture della caverna nell’aria del mattino


A mezzogiorno i draghi e i loro cavalieri formavano un largo circolo sulla vasta spianata verde del rigoglioso altopiano in cima al Wyrmberg, la montagna dall’equilibrio impossibile. Oltre a loro, c’era posto anche per numerosi servitori, schiavi e altri che s’industriavano a vivere lì sul tetto del mondo. E tutti osservavano le figure raggruppate nel centro dell’arena erbosa.

Il gruppo conteneva diversi signori dei draghi e fra loro Lio!rt e suo fratello Liartes. Il primo stava ancora massaggiandosi le gambe, con una smorfia di dolore. Liessa e Hrun. insieme ad alcuni seguaci della donna, si tenevano leggermente in disparte. Tra le due fazioni stava colui che deteneva la carica ereditaria di Custode della Tradizione del Wyrmberg.

— Come sapete — cominciò in tono incerto — il non del tutto defunto Signore del Wyrmberg, Greicha Primo, ha decretato che non ci sarà successione finché uno dei suoi figli non stima che lui o lei, secondo il caso, è abbastanza potente da sfidare e sconfiggere gli altri in combattimento mortale.

— Sì, sì, lo sappiamo. Va avanti — disse una voce sottile e petulante che si fece udire nell’aria accanto a lui.

Il Custode della Tradizione deglutì. Non si era mai rassegnato all’incapacità del suo ex padrone di spirare completamente. "È morto o no quello stupido vecchio?" si chiese.

— Non è certo — proseguì con voce tremula — se è possibile lanciare una sfida per procura…

— Lo è, lo è — affermò aspra la voce disincarnata di Greicha. — Dimostra intelligenza. Non ci mettere tutto il giorno.

— Io vi sfido — esclamò Hrun con uno sguardo torvo ai fratelli — tutti e due allo stesso tempo.

Lio!rt e Liartes si scambiarono un’occhiata.

— Ti batterai contro noi due insieme? — chiese Liartes, un uomo alto e robusto con lunghi capelli neri.

— Già.

— In questo modo le probabilità sono impari, no?

— Già. Io solo conto come voi due.

Lio!rt gli diede un’occhiataccia. — Tu, barbaro arrogante…

— Basta così! — ringhiò Hrun. — Io…

Il Custode della Tradizione lo frenò con un gesto della mano dalle grosse vene azzurre. — È proibito battersi sul Terreno Mortifero — disse e si fermò a riflettere sul senso delle sue parole. Alla fine si arrese. — Comunque, sapete ciò che intendo — aggiunse: — La scelta delle armi spetta ai miei signori Lio!rt e Liartes, che sono stati sfidati.

— Draghi — dissero insieme i due. Liessa sbuffò sprezzante.

— I draghi si possono usare come mezzo di offesa e dunque essi sono delle armi — dichiarò Lio!rt. — Se non siete d’accordo, possiamo batterci in groppa a loro.

— Già — disse suo fratello, con un cenno della testa rivolto a Hrun.

Il Custode della Tradizione si sentì toccare il petto da un dito spettrale.

— Non startene lì a bocca aperta — disse con la voce d’oltretomba di Greicha. — Sbrigati, vuoi?

Hrun indietreggiò e scosse la testa. — Oh, no. Una volta mi è bastata. Preferirei morire che combattere su una di quelle cose.

— Muori, allora — disse il Custode, nel tono più gentile che gli fu possibile.

Lio!rt e Liartes già si avviavano verso i loro servitori che li attendevano con le cavalcature. Hrun si voltò a guardare Liessa. Lei alzò le spalle.

— Non posso nemmeno avere una spada? — la supplicò lui. — Nemmeno un coltello?

— No — rispose la donna. — Non mi aspettavo questo. — Sembrò d’un tratto farsi più piccola, senza più il suo atteggiamento insolente. — Mi dispiace.

Ti dispiace?

— Sì. Mi dispiace.

— Già. Mi pareva che avessi detto che ti dispiace.

— Non mi guardare a quel modo! Posso immaginare per te il miglior drago da cavalcare…

— No!

Il Custode della Tradizione si asciugò il naso su un fazzoletto, tenne sollevato per un momento il quadratino di seta, poi lo lasciò cadere.

Hrun si voltò di scatto nell’udire un rombo di ali. Il drago di Lio!rt si era già alzato in aria e volteggiava verso di loro. Si abbassò sul campo e sputò una lingua di fuoco che tracciò una striscia nera e bruciacchiata nell’erba in direzione di Hrun.

Lui spinse via Liessa all’ultimo minuto e si tuffò per cercare scampo, con un dolore acuto dove la fiamma gli aveva sfiorato il braccio. Rotolò a terra e si rimise in piedi, volgendo gli occhi frenetico in cerca dell’altro drago.

Questi arrivò da un lato e lui fu costretto a fare un salto in aria per sfuggire alla fiammata. Mentre passava, la coda del drago diede una sferzata e lo colse sulla fronte. Hrun si drizzò e scosse la testa per mandare via le stelle che gli danzavano davanti agli occhi. La bruciatura sulla schiena gli faceva un male atroce.

Lio!rt si preparò a lanciare un secondo attacco, ma più lentamente questa volta, data l’inaspettata agilità dell’omone. Il terreno era vicino ormai e scorse il barbaro immobile, col respiro affannoso e le braccia tremanti lungo i fianchi. Un facile bersaglio.

Mentre il suo drago si allontanava, Lio!rt girò la testa. Si aspettava di vedere una torcia umana.

Non c’era nulla. Lio!rt si rigirò, perplesso.

Si trovò davanti Hrun che si issava aggrappandosi con una mano alla spalla squamosa del drago mentre con l’altra cercava di spegnere il fuoco che gli bruciava i capelli. La mano del cavaliere corse al suo pugnale. Ma il dolore aveva reso più acuti i riflessi sempre eccellenti di Hrun. Un colpo si abbatté come un maglio sul polso di Lio!rt e fece schizzare via il pugnale, e un altro prese l’uomo in pieno sul mento.

Gravato dal peso dei due uomini, il drago si era sollevato solo di pochi metri da terra. Fu una fortuna perché, nel momento stesso in cui Lio!rt perdeva conoscenza, la vita del drago si spegneva.

Liessa si avvicino di corsa per aiutare Hrun a rimettersi in piedi.

— Che è accaduto? Che è accaduto? — chiese lui con voce spessa, sbattendo le palpebre.

— È stato fantastico! — esclamò lei. — Il tuo volteggio a mezz’aria e tutto!

— Già, ma che è accaduto’?

— È piuttosto difficile da spiegare…

Hrun guardò il cielo. Liartes, di gran lunga il più prudente dei due fratelli, volteggiava in alto sulle loro teste.

— Be’, hai circa dieci secondi per provarci — le disse.

— I draghi…

— Sì?

— Sono immaginari.

— Vuoi dire, come tutte queste immaginarie bruciature sul mio braccio?

— Sì. No! — Scosse violentemente la testa. — Dovrò spiegartelo più tardi.

— Bene, se riesci a trovarne il modo. — Hrun lanciò un’occhiataccia a Liartes che aveva iniziato la discesa in larghi giri.

— Ascolta, puoi? Il drago può esistere soltanto se mio fratello è cosciente, altrimenti…

— Corri! — urlò il barbaro.

La spinse via e si buttò a terra mentre il drago di Liartes li superava con un rombo e lasciava sull’erba un’altra cicatrice fumante.

Mentre la creatura volava alta per prepararsi a piombare giù di nuovo, Hrun si rimise in piedi e si diresse di corsa verso i boschi all’estremità dell’arena. Non erano fitti, poco più di una larga barriera di vegetazione rigogliosa, ma almeno nessun drago sarebbe stato in grado di attraversarli a volo.

Infatti il drago di Liartes non ci provò e il suo cavaliere lo portò ad atterrare sulla radura pochi metri più in là e smontò. Il drago ripiegò le ali e spinse la testa tra il verde, mentre il suo padrone, appoggiato a un albero, fischiettava piano.

— Posso bruciarti — disse Liartes.

I cespugli rimasero immobili.

— Forse ti nascondi in quel cespuglio di agrifoglio laggiù?

Il cespuglio di agrifoglio diventò una palla di fuoco.

— Sono sicuro di vedere del movimento in quelle felci. Le felci si mutarono in scheletri di bianca cenere.

— La stai solo tirando in lungo, barbaro. Perché non arrenderti adesso? Ho bruciato un sacco di gente. Non fa male nemmeno un po’ — dichiarò Liartes scrutando i cespugli.

Il drago continuava ad avanzare nel sottobosco, bruciando ogni cespuglio e ciuffo di felci. Liartes tirò fuori le spade e attese.

Hrun saltò giù da un albero e si mise a correre. Alle sue spalle il drago avanzava ruggendo e abbattendo i cespugli mentre cercava di girare, ma Hrun correva e correva, lo sguardo fisso su Liartes, un ramo morto nelle mani.

È un fatto poco conosciuto ma vero che di solito un bipede può battere un quadrupede su un percorso breve, semplicemente per il tempo che quest’ultimo impiega a districare le zampe. Hrun udì alle sue spalle lo sfregamento degli artigli e poi un rumore sordo minaccioso. Aperte le ali a metà, il drago stava tentando di volare.

Hrun si precipitò contro il signore dei draghi; la spada di Liartes scattò in alto, ma urtò contro il ramo. Allora il barbaro si scagliò in avanti a testa bassa e i due uomini rotolarono a terra.

Il drago ruggiva.

Hrun sferrò una ginocchiata con precisione anatomica e Liartes urlò, ma riuscì ad assestargli un colpo che ruppe di nuovo il naso del barbaro.

Hrun si liberò e si rimise in piedi per trovarsi davanti il muso cavallino del drago dalle narici dilatate. Allungò un calcio a Liartes, che stava tentando di drizzarsi, e lo colse sulla tempia. L’uomo si accasciò.

Il drago svanì. La palla di fuoco che stava fluttuando verso Hrun scolorò finché, quando lo raggiunse, non era più che un soffio di aria calda. Il silenzio intorno era rotto soltanto dal crepitio dei cespugli che ardevano.

Hrun si caricò in spalla il signore dei dragoni svenuto e ritornò al trotto all’arena. A metà strada trovò Lio!rt sdraiato sul terreno, con una gamba piegata a un angolo innaturale. Si chinò e con un grugnito se lo mise sulla spalla libera.

Liessa e il Custode della Tradizione attendevano su una piattaforma eretta in fondo alla radura. La donna si era completamente ripresa e guardò senza scomporsi Hrun che gettava i due uomini sui gradini davanti a lei. La gente intorno osservava la scena in posa deferente, come una corte.

— Uccidili — ordinò lei.

— Uccido quando mi garba — ribatté lui. — In ogni caso, non è giusto uccidere le persone quando sono svenute.

— Non riesco a pensare a un momento più adatto — dichiarò il Custode. Liessa emise un suono sprezzante.

— Allora li manderò in esilio — disse. — Una volta fuori portata dalla magia del Wyrmberg, non avranno più il Potere. Saranno dei semplici briganti. Ti sta bene?

— Sì.

— Mi sorprende che tu sia così misericordioso, ba… Hrun.

Lui alzò le spalle. — Un uomo nella mia posizione non può essere altro, deve considerare la propria immagine. — Si guardò intorno. — Allora, dov’è la prossima prova?

— Ti avverto che è pericolosa. Se vuoi, puoi rinunciare ora. Tuttavia, se superi la prova, diventerai Signore del Wyrmberg e, naturalmente, mio legittimo consorte.

Hrun incontrò il suo sguardo. Pensò a quella che era stata la sua vita fino a quel momento. All’improvviso gli parve che fosse stata piena di lunghe notti umide passate a dormire sotto le stelle, di combattimenti disperati con troll, guardie, un numero infinito di banditi e cattivi sacerdoti e, almeno in tre occasioni, veri e propri semidei… e per che cosa? Be’, per un bottino considerevole, doveva ammettere, ma dov’era andato? Liberare le fanciulle prigioniere procurava una certa passeggera ricompensa ma, di regola, lui aveva finito per sistemarle da qualche parte in una città con una bella dote. Dopo un po’, infatti, le più deliziose ex donzelle diventavano possessive e nutrivano poca simpatia nei confronti dei suoi sforzi per liberare le loro sorelle in difficoltà.

In breve, in realtà la vita lo aveva lasciato con poco più della sua reputazione e una rete di cicatrici. Governare poteva essere divertente. Hrun sogghignò. Con una base come quella, tutti quei draghi e una buona schiera di combattenti, un uomo poteva diventare un vero contendente.

Inoltre, la ragazza non era male.

— La terza prova? — disse Liessa.

— Devo di nuovo essere disarmato?

La donna sollevò le mani a togliersi l’elmo e liberò una cascata di rossi capelli inanellati. Poi aprì la spilla che le tratteneva la tunica. Sotto, era nuda.

Hrun lasciò vagare lo sguardo sul corpo di lei e intanto due macchine calcolatrici immaginarie si mettevano in moto nella sua mente. Una valutava l’oro dei bracciali, i grossi rubini che adornavano gli anelli delle dita dei piedi, il diamante incastonato nell’ombelico e le due trottoline d’argento filigranato. L’altra era inserita direttamente nella sua libidine. Entrambe producevano dei talloncini che gli piacevano enormemente.

La donna gli offrì un bicchiere di vino e disse con un sorriso: — Non credo.


— Non ha tentato di liberarti — gli fece notare Scuotivento come ultima risorsa.

Si teneva aggrappato alla vita di Duefiori mentre il drago compiva lenti giri e il mondo sembrava inclinarsi a un angolo pericoloso. Avere appreso che il dorso squamoso che lui cavalcava esisteva soltanto come una sorta di sogno tridimensionale ad occhi aperti non diminuiva in nulla, si era presto convinto, il suo tremendo senso di vertigine. Senza volerlo, continuava a pensare ai possibili risultati di una distrazione da parte di Duefiori.

— Nemmeno Hrun ce l’avrebbe fatta contro quelle balestre — affermò altezzoso l’ometto.

Il drago volava alto sul bosco dove loro tre avevano trascorso la notte umida e scomoda e intanto il sole sorgeva all’orizzonte del disco. All’istante, le ombre grigie e blu che precedono l’alba si trasformarono in un brillante fiume bronzeo che scorreva sul mondo e si tramutava in oro là dove toccava il ghiaccio o l’acqua o una diga luminosa. (A causa della densità del campo magico che circondava il disco, la luce si muoveva a velocità subsonica. Tale interessante proprietà, per esempio, era bene utilizzata dal popolo Sorca del Grande Nef il quale, nel corso dei secoli, aveva costruito delle dighe intricate ed estremamente accurate e vallate dai fianchi ricoperti di lucente silicio per catturare la luce del sole e in qualche modo immagazzinarla. Gli scintillanti bacini del Nef, straripanti dopo diverse settimane d’ininterrotto bel tempo, visti dall’alto costituivano una visione veramente magnifica ed è quindi un peccato che Scuotivento e Duefiori non guardassero in quella direzione.)

Di fronte a loro il trionfo dell’impossibile, il magico Wyrmberg, si stagliava contro il cielo. Una vista niente male, finché Scuotivento non voltò la testa e non vide l’ombra della montagna stendersi lentamente sulla distesa di nuvole del mondo…

— Che cosa vedi? — domandò Duefiori al dragone.

— Vedo combattere in cima alla montagna.

Duefiori si rivolse al compagno: — Vedi? Probabilmente in questo preciso momento Hrun sta combattendo per salvarsi la vita.

Scuotivento non rispose. Dopo un po’ l’ometto si voltò a guardarlo. Il mago aveva lo sguardo perduto nel vuoto e muoveva in silenzio le labbra.

— Scuotivento?

Gli rispose un leggero brontolio.

— Scusami, cosa hai detto? — chiese Duefiori.

— …fino in fondo… la grande cascata… — borbottava Scuotivento. I suoi occhi misero a fuoco la scena, ebbero un’espressione sconcertata, poi si spalancarono terrorizzati. Aveva fatto l’errore di guardare giù.

— Aargh — esclamò e cominciò a scivolare. Duefiori lo afferrò.

— Che cosa c’è?

Scuotivento si sforzò di chiudere gli occhi, ma la sua immagine non poteva celarsi dietro le palpebre e continuò a guardare.

— Tu non hai paura dell’altezza? — riuscì a dire.

Duefiori abbassò lo sguardo sul paesaggio che appariva minuscolo, screziato dall’ombra delle nuvole. — No, perché dovrei? — rispose. Il pensiero della paura non lo aveva sfiorato. — Si muore cadendo da dieci metri come da seimila, dico io.

Scuotivento si sforzò di considerare obiettivamente quel ragionamento, ma non ne vide la logica. Non si trattava tanto di cadere, quanto dell’impatto…

Duefiori lo afferrò appena in tempo. — Reggiti — lo incoraggiò allegramente. — Siamo quasi arrivati.

— Vorrei trovarmi nella città — si lamentò il mago. — Vorrei ritrovarmi sul terreno!

— Mi domando se i dragoni sono in grado di volare fino alle stelle — fantasticava Duefiori. — Quello sì che sarebbe qualcosa…

— Sei matto — disse, seccamente Scuotivento. L’amico non rispose e il mago lo vide con raccapriccio fissare le pallide stelle con un curioso sorriso.

— Non azzardarti a pensarci — lo minacciò.

— L’uomo che cerchi sta parlando con la signora dei draghi — disse il dragone.

— Uhm. — Duefiori non smise di fissare le pallide stelle.

— Cosa? — chiese ansioso Scuotivento.

— Ah, già. Hrun — disse l’ometto. — Spero che siamo in tempo. Abbassati adesso! Vola basso!

Il vento si mutò in un turbine sibilante, che impediva a Scuotivento di chiudere gli occhi.

La sommità piatta del Wyrmberg venne loro incontro, ondeggiò in maniera allarmante, poi si tramutò in una macchia verde che scorreva via rapida su entrambi i lati. Boschi e campi minuscoli si confusero in una macchia multicolore. Un breve lampo argenteo nel paesaggio poteva essere il fiumicello che si precipitava giù dall’orlo dell’altopiano. Scuotivento cercò di scacciare il ricordo dalla sua mente, ma quello si divertiva, terrorizzando gli altri occupanti e prendendo a calci la mobilia.


— Non credo — disse Liessa.

Hrun prese la coppa di vino, lentamente, con una risatina sciocca.

I dragoni, intorno all’arena, si misero a latrare. I loro cavalieri alzarono gli occhi. Una sorta di macchia verde sfrecciò attraverso l’arena, e Hrun non c’era più.

La coppa di vino rimase per un attimo sospesa nell’aria e poi rotolò sui gradini. Soltanto allora se ne versò un’unica goccia. Questo perché, nell’istante in cui avviluppava delicatamente Hrun nei suoi artigli, Ninereeds il drago aveva per un momento sincronizzato il ritmo dei loro corpi. Dato che l’immaginazione ha una dimensione molto più complessa di quelle del tempo e dello spazio, che sono invero dimensioni molto recenti, l’effetto fu quello di trasformare in un baleno un Hrun fermo e priapico in un Hrun che si spostava lateralmente a centoventi chilometri l’ora, senz’altro inconveniente se non quello di avere sprecato pochi sorsi di vino. Un altro effetto fu che Liessa gridò dalla rabbia e fece venire il suo drago. La bestia dorata si materializzò davanti a lei. che gli si mise a cavalcioni, ancora nuda, e ghermì una balestra da una delle guardie. Quindi si sollevò in aria mentre gli altri cavalieri correvano verso le loro bestie.

In quel momento, dal pilastro dietro al quale si era prudentemente nascosto a osservare il parapiglia, il Custode della Tradizione colse per caso gli echi incrociati di una teoria che nello stesso istante si andava delineando nella mente di uno psichiatra mattiniero in un universo adiacente. Ciò forse perché l’eco fluiva in entrambi i sensi; così per un attimo lo psichiatra vide la fanciulla sul drago. Il Custode sorrise.

— Ci vuoi scommettere che lei non lo prenderà? — gli disse nell’orecchio la voce di Greicha, una voce di vermi e di sepolcri.

Il Custode chiuse gli occhi e deglutì con forza. — Credevo che il mio Signore risiedesse ormai nella Terra Temuta — riuscì a dire.

— Sono un mago — rispose Greicha. — La Morte in persona deve reclamare un mago. Ah! Ah! Non sembra che si trovi nelle vicinanze…

— Andiamo? — chiese la Morte.

Era in groppa a un bianco destriero, un animale in carne e ossa, ma con le pupille rosse e le nari di fuoco. Stese una mano ossuta, afferrò l’anima di Greicha, la roteò fino a farla diventare un punto luminoso e l’ingoiò.

Quindi spronò il cavallo, che balzò nell’aria, lanciando scintille corrusche dagli zoccoli.

— Greicha mio Signore! — bisbigliò il vecchio Custode della Tradizione, mentre il mondo gli ondeggiava intorno.

— È stato uno scherzo di cattivo gusto — pronunciò la voce del mago, un flebile suono dileguantesi nelle dimensioni nere e infinite.

— Mio Signore… com’è la Morte? — gridò tremula la voce del vecchio.

— Te lo farò sapere quando l’avrò esplorata a fondo — fu la risposta, appena un fremito della brezza.

— Sì — mormorò il Custode. Fu colpito da un pensiero e aggiunse: — Durante il giorno, per piacere.


— Siete dei buffoni — gridò Hrun, appollaiato sulle zampe anteriori di Ninereeds.

— Che ha detto? — domandò Scuotivento, mentre il drago fendeva l’aria nella sua corsa verso l’alto.

— Non ho udito! — gridò a sua volta Duefiori, ma la sua voce fu portata via dal vento impetuoso. Il drago fece una leggera virata e lui guardò giù alla cima del potente Wyrmberg, un mero giocattolo da quell’altezza, e vide lo stormo delle creature che si alzavano per inseguirli. Con un battito energico delle ali, Ninereeds spostava sprezzante l’aria. Aria più fina. Per la terza volta Duefiori sentì nell’orecchio uno schiocco.

Davanti allo stormo, notò, c’era un drago dorato. E qualcuno lo cavalcava.

— Ehi, stai bene? — domandò ansioso Scuotivento, costretto a mandare giù diverse boccate di quell’aria stranamente distillata per potere tirare fuori le parole.

— Avrei potuto essere un sovrano e voi buffoni siete arrivati e… — Hrun restò senza fiato. Quella sottile aria asciutta portava via la vita persino al suo torace possente.

— Che succede all’aria? — farfugliò Scuotivento. Luci blu gli passavano davanti agli occhi.

— Unk — disse Duefiori e svenne. Il drago svanì.

I tre uomini continuarono a salire per qualche secondo ancora. Duefiori e il mago, a cavalcioni l’uno di fronte all’altro di qualcosa che non c’era, presentavano uno spettacolo curioso. Poi, ciò che sul Disco passava per la forza di gravità, si riebbe dalla sorpresa e li reclamò. In quel momento il drago di Liessa passò sfrecciando accanto e Hrun atterrò pesantemente sul suo collo. Liessa si chinò a baciarlo.

Il dettaglio sfuggì a Scuotivento che stava precipitando, con le braccia sempre strette intorno alla vita di Duefiori. Il Disco era una piccola lente appuntata sul cielo. Non sembrava si muovesse, ma Scuotivento lo sapeva. Il mondo gli stava venendo incontro come una gigantesca torta di crema.

— Svegliati! — urlò per vincere il frastuono del vento. — I draghi! Pensa ai draghi!

Ci fu un fruscio di ali quando piombarono in mezzo alla schiera delle creature incalzanti, che si divise. I draghi gridarono e si allontanarono.

Nessuna risposta da Duefiori. Spinta dal vento, la tunica di Scuotivento lo flagellava, ma lui non si svegliò.

Draghi, pensava Scuotivento preso dal panico. Cercava di concentrarsi, d’immaginarsi un drago veramente realistico. Se lui può farlo, pensava, posso farlo anch’io. Ma non accadde nulla.

Il Disco adesso era più grande, un cerchio solcato da nuvole che si levava sotto di loro.

Scuotivento provò di nuovo, occhi stretti e ogni nervo del corpo teso. Un drago. La sua immaginazione, organo logoro e superusato, si proiettò alla ricerca di un drago… qualsiasi drago.

— Non funzionerà — rise una voce simile al rintocco di una campana funebre. — Tu non ci credi.

Scuotivento guardò la terribile apparizione a cavallo, che lo fissava con un ghigno, e la sua mente vacillò dallo spavento.

Un lampo brillante.

L’oscurità totale.

Scuotivento sentì sotto i piedi una morbida superficie, si vide circondato da una luce rosea e udì le grida improvvise di molte persone.

Si guardò intorno spaventato. Era in piedi in una sorta di tunnel, pieno di sedili ai quali erano state legate delle persone in costumi bizzarri. E tutte urlavano alla sua volta.

— Svegliati! — sibilò. — Aiutami!

Trascinando il turista sempre svenuto, rinculò lontano dalla folla finché con la mano libera non trovò una maniglia dalla forma strana. La girò, oltrepassò la soglia poi richiuse la porta con un tonfo.

Diede un’occhiata rapida alla stanza nella quale si trovava e incontrò lo sguardo terrorizzato di una giovane donna che lasciò cadere con un urlo il vassoio che reggeva in mano.

Era quel genere di urlo capace di richiamare un aiuto immediato. Scuotivento sentì scorrere nelle vene una scarica di adrenalina distillata dalla paura; si girò e filò via. Anche qui c’erano dei sedili e la gente seduta sopra si chinò timorosa mentre lui trascinava Duefiori lungo il passaggio centrale. Al di là dei sedili, c’erano delle finestrelle. Al di là delle finestre, contro uno schermo di nuvole vaganti, c’era l’ala di un drago. Era argentea.

"Sono stato mangiato da un drago" pensò. "È ridicolo" rifletté. "Non potrei vedere all’interno di un drago." Poi urtò con la spada la porta all’estremità del tunnel e si trovò in una stanza a forma di cono, ancora più strana del tunnel stesso.

Era piena di minuscole luci brillanti. Tra queste, assisi in poltrone dallo schienale rotondo, quattro uomini lo guardavano a bocca aperta. Lui li fissò a sua volta e quelli distolsero gli occhi.

Scuotivento si voltò lentamente. Accanto gli stava un quinto uomo, abbastanza giovane, barbuto, dalla carnagione scura come il popolo nomade del Grande Nef.

— Dove sono? — domandò il mago. — Nel ventre di un drago? Il giovane si accovacciò e gli spinse sotto il naso una piccola scatola nera. Gli altri quattro si abbassarono.

— Che cos’è? — disse Scuotivento. — Una scatola a immagini? — Allungò una mano e la prese, con una mossa che sembrò sorprendere l’altro il quale gridò e cercò di strappargliela. Risuonò un altro grido, questa volta da uno degli uomini seduti. Solo che ora non era seduto, ma in piedi e puntava contro il giovane un piccolo oggetto metallico.

L’effetto fu sorprendente. L’uomo arretrò, con le mani alzate.

— Per piacere datemi la bomba, signore — disse l’uomo dall’oggetto metallico. — Con cautela, prego.

— Questo coso? Eccovelo! lo non lo voglio! — L’uomo lo prese con la massima precauzione e lo depose a terra. Gli altri tre si rilassarono e uno di loro cominciò a parlare con il muro in toni concitati. Il mago, sbalordito, lo contemplava.

— Non muovetevi! — scattò l’uomo dall’ogget… Un amuleto, decise Scuotivento, doveva essere un amuleto. L’uomo dalla carnagione scura si spostò in un angolo.

— È stato molto coraggioso da parte vostra — disse a Scuotivento il Detentore dell’Amuleto. — Lo sapete?

— Cosa?

— Che cos’ha il vostro amico?

— Amico?

Duefiori stava ancora dormendo tranquillo. Questa non era una sorpresa. Ciò che era realmente sorprendente era che indossava vestiti nuovi. Vestiti strani. Le brache gli arrivavano sopra le ginocchia e portava una specie di camiciola a righe vivaci; sulla testa un ridicolo cappeliuccio di paglia. Con una piuma.

Una strana sensazione a livello delle ginocchia fece abbassare gli occhi a Scuotivento. Anche i suoi vestiti erano cambiati. Invece della vecchia e comoda tunica, così meravigliosamente adatta all’azione veloce in ogni possibile circostanza, le sue gambe erano paludate in due tubi di stoffa. Indossava una giacchetta dello stesso tessuto grigio…

Fino a quel momento non aveva mai udito il linguaggio usato dall’uomo con l’amuleto. Era rozzo e ricordava vagamente quello della regione centrale, l’hublandico… quindi, come mai adesso ne capiva ogni parola?

Vediamo, erano improvvisamente apparsi in questo drago, si erano materializzati in questo dra… improvv… loro… loro… avevano intrecciato una conversazione nell’aeroporto così naturalmente che avevano deciso di sedere vicino nell’aeroplano, e lui aveva promesso di fare da cicerone a Jack Duefiori quando fossero tornati negli Stati Uniti. Sì, era proprio così. E poi Jack si era sentito male e lui si era messo paura ed era arrivato lì e aveva sorpreso il dirottatore. Naturalmente. Che diavolo mai era "Hublandico"?

Il dottore Rjinswand si stropicciò la fronte. Bere qualcosa gli avrebbe fatto bene.


Nel mare della causalità si allargarono le increspature del paradosso.

Forse il punto più importante che chiunque al di fuori della globalità del multiverso doveva tenere a mente, era il seguente: sebbene il mago e il turista fossero apparsi soltanto di recente in un aereo in volo, nello stesso preciso momento essi avevano viaggiato su quell’apparecchio ne! corso normale delle cose. E cioè: mentre era vero che essi erano appena apparsi in quel particolare insieme di dimensioni, era anche vero che ci erano vissuti da sempre. E a questo punto che il linguaggio normale si arrende, e va a bersi qualcosa.

Il punto è che si erano appena materializzati diversi quintilioni di atomi (tuttavia, così non era. Vedi più sotto) in un universo dove non avrebbero dovuto trovarsi. Normalmente ne risulta una grossa esplosione ma, dato che gli universi sono molto elastici, quel particolare universo si era salvato srotolando istantaneamente la sua sequenza spazio-tempo fin quando gli atomi eccedenti potevano essere sistemati senza pericolo, riavvolgendola poi rapidamente fino a quel cerchio luminoso che, per mancanza di un termine migliore, i suoi abitanti erano soliti chiamare il Presente. Ciò naturalmente aveva cambiato la storia: c’erano stati qualche guerra di meno, qualche dinosauro in più e così via… Ma, nell’insieme, l’episodio era trascorso molto tranquillamente.

Fuori di quel particolare universo, tuttavia, le ripercussioni dell’improvvisa reazione ritardata rimbalzarono avanti e indietro sulla superficie della Somma delle Cose, piegando intere dimensioni e affondando galassie senza lasciare traccia.

Tutto questo, comunque, era totalmente estraneo al Dottor Rjinswand, trentatré anni, scapolo, nato in Svezia, cresciuto nel New Jersey, specialista dei fenomeni di ossidazione da scollamento di certi reattori nucleari. In ogni modo, probabilmente lui non ne avrebbe creduto una parola.

Duefiori era ancora senza conoscenza. La hostess, che aveva accompagnato Rjinswand al suo posto tra gli applausi degli altri passeggeri, era china ansiosamente su di lui.

— Abbiamo comunicato via radio — informò Rjinswand. — Un’ambulanza ri aspetterà all’atterraggio. Sulla lista dei passeggeri figurate come un dottore…

— Non so cosa abbia — si affrettò a rispondere Rjinswand. — Certo, sarebbe diverso se lui fosse un reattore Magnox. Si tratta di uno shock?

— Io non ho mai…

La sua frase terminò in un tremendo fragore proveniente dal fondo dell’aereo. Alcuni passeggeri gridarono. Un improvviso soffio d’aria fece turbinare nella corsia giornali e riviste.

Qualcos’altro avanzava nel passaggio. Un oggetto grosso oblungo di legno cerchiato d’ottone. Aveva centinaia di gambette. Ed era ciò che sembrava. Una cassa che si muoveva, del tipo che compare nelle storie di pirati, zeppa di oro e gioielli guadagnati illecitamente… Poi, ciò che avrebbe dovuto essere il coperchio si spalancò d’improvviso.

Non c’erano gioielli. Ma c’era una quantità di grossi denti quadrati, bianchi come il sicomoro, e una lingua palpitante, rossa come il mogano.

Un vecchio bagaglio stava venendo a mangiarlo.

Rjinswand si strinse all’ignaro Duefiori per trovare conforto. Desiderò fervidamente di trovarsi altrove…

Una repentina oscurità.

Un lampo brillante.

L’improvvisa partenza di diversi quintilioni di atomi da un universo dove non avevano alcun diritto di essere causò un violento squilibrio nell’armonia della Globalità che essa cercò freneticamente di ristabilire e, così facendo, cancellò un certo numero di subrealtà. Ondate enormi di magia allo stato puro ribollirono incontrollate intorno alle fondamenta stesse del multiverso e fuoriuscirono da ogni crepaccio nelle dimensioni fino allora pacifiche, causando nove, supernove, collisioni stellari, voli impazziti di oche e l’affondamento di continenti immaginari. Mondi lontani quanto l’altro termine del tempo videro brillanti tramonti di corrusco ottarino mentre volteggiavano nell’atmosfera particelle cariche di magia. Nell’alone cometario che circonda il favoloso Sistema Ghiacciato di Zeret una nobile cometa si spegneva mentre un principe fiammeggiava nel cielo.

Tutto questo, però, andò perduto per Scuotivento: tenendo stretto alla vita l’inerte Duefiori, il mago precipitava verso il mare del Disco a parecchie centinaia di metri più in basso. Neppure le convulsioni di tutte le dimensioni potevano infrangere la ferrea Legge della Conservazione dell’Energia, e il breve viaggio in aereo di Rjinswand era bastato per trasportarlo di parecchie centinaia di chilometri in linea orizzontale e di oltre duemila in linea verticale.

La parola "aereo" risplendette e si spense nella mente di Scuotivento.

Era una nave quella laggiù?

Le fredde acque del Mare Circolare gli balzarono incontro e lo risucchiarono nel loro verde abbraccio soffocante. Un attimo dopo vi fu un altro tonfo e il bagagliaio, con ancora l’etichetta dalla potente scritta runica TWA, sprofondò anch’esso nel mare.

Più tardi, lo usarono come zattera.

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