Il potere dell’otto

La strada da Ankh-Morpork a Chirm è alta, bianca e tortuosa, un tratto di trenta leghe di buche e rocce affioranti. che si avvolge intorno alle montagne, affonda in fresche verdi vallate coperte di agrumeti, attraversa burroni folti di liane su scricchiolanti ponti di corde, e in genere è più pittoresca che utile.

Pittoresca. Era quella una parola nuova per Scuotivento il mago (studente fallito di magia. Università Invisibile). Era una delle tante scoperte da quando aveva lasciato le rovine carbonizzate di Ankh-Morpork. "Strano" era un’altra. "Pittoresco", decise dopo un’attenta osservazione dello scenario che aveva ispirato Duefiori a usare quel termine, voleva dire un paesaggio orrendamente ripido. "Strano", se usato per descrivere i villaggi di tanto in tanto attraversati, voleva dire malattie e rovina.

Duefiori era un turista, il primo mai visto nel mondo-disco. "Turista", aveva concluso Scuotivento. voleva dire "idiota".

Mentre cavalcavano tranquilli nell’aria profumata di timo e ronzante di api, Scuotivento rifletteva sulle esperienze degli ultimi giorni. Se il piccolo straniero era chiaramente pazzo, era però generoso e meno pericoloso di metà della gente incontrata in città. A Scuotivento era piuttosto simpatico. Il contrario sarebbe stato come prendere a calci un cucciolo.

Duefiori era solito mostrare un grande interesse per la teoria e la pratica della magia.

— Ma sembra tutto, be’, alquanto inutile — dichiarò. — Sapete, ho sempre pensato che un mago doveva semplicemente limitarsi a pronunciare le parole magiche. Senza tutto questo noioso impararsi a memoria.

Scuotivento, di malagrazia, si dichiarò d’accordo. Cercò di spiegare che una volta la magia era stata libera e senza norme, ma che al tempo dei tempi, era stata regolamentata dagli Antichi che l’avevano costretta a ubbidire, tra l’altro, alla Legge di Conservazione della Realtà. Secondo la quale lo sforzo necessario per raggiungere un fine doveva essere lo stesso, senza tener conto dei mezzi usati. In parole povere ciò significava che, ad esempio, creare l’illusione di un bicchiere di vino era relativamente facile, dato che comportava il semplice spostamento delle composizioni di luce. D’altro lato, sollevare di pochi centimetri in aria un bicchiere di vino vero richiedeva diverse ore di preparazione sistematica se il mago voleva impedire che il semplice potere di levitazione gli facesse schizzare il cervello fuori dalle orecchie. Aggiunse pure che si poteva ancora trovare un po’ dell’antica magia allo stato naturale riconoscibile, per gli iniziati, dall’ottava forma impressa alla struttura cristallina dello spazio-tempo. Così c’erano l’ottirone metallico e il gas ottogeno. Entrambi irradiavano pericolose quantità d’incantesimo puro.

— È tutto assai deprimente — concluse.

— Deprimente?

Scuotiventosi girò sulla sella a guardare il Bagaglio, che trotterellava adagio sulle sue zampette, di tanto in tanto aprendo e richiudendo il coperchio per acchiappare le farfalle. Sospirò.

— Scuotivento pensa che dovrebbe essere capace d’imbrigliare il lampo — annunciò il demonietto, che osservava il paesaggio stando sulla porticina della scatola appesa al collo di Duefiori. Aveva trascorso la mattinata a riprendere per il suo padrone vedute pittoresche e scene curiose, e gli era stato concesso di sospendere per farsi una pipata.

— Quando parlavo d’imbrigliare non volevo dire bardare — scattò Scuotivento. — Volevo dire, be’, volevo semplicemente dire… non so, non mi viene la parola giusta. Penso soltanto che il mondo dovrebbe essere in certo modo più organizzato.

— Questa è solo una fantasia — disse Duefiori.

— Lo so. Questo è il guaio. — Scuotivento sospirò di nuovo. Si poteva anche blaterare di logica pura e di come l’universo fosse governato dalla logica e dall’armonia dei numeri, ma la verità era che il disco stava chiaramente attraversando lo spazio sul dorso di una tartaruga gigante e che gli dei avevano l’abitudine di recarsi alle case degli atei a fracassarne le finestre.

Si udì un suono lieve, appena più forte del ronzio delle api nei ciuffi di rosmarino lungo la strada. Aveva uno strano timbro osseo, come di teschi rotolanti o di contenitori di dadi agitati. Scuotivento si guardò intorno. Vicino non c’era nessuno.

Per qualche ragione la cosa lo preoccupò.

Venne poi una brezza leggera, che crebbe e sparì nel giro di poche pulsazioni, lasciando il mondo immutato salvo per alcuni interessanti particolari.

Per esempio, in piedi in mezzo alla strada c’era adesso un troll dell’alta montagna, cinque metri. Ed era eccezionalmente incollerito. Ciò dipendeva in parte dal fatto che in genere i troll lo sono sempre; in questo caso, però, era esacerbato perché l’improvviso e istantaneo teletrasferimento dal suo rifugio nelle montagne Rammerorck, a quasi cinquemila chilometri di distanza, aveva fatto alzare la sua temperatura corporea a un livello pericoloso, secondo le leggi della conservazione dell’energia. Così scoprì le zanne e caricò.

— Che strana creatura — osservò Duefiori. — È pericolosa?

— Solo per le persone — gridò Scuotivento. Sfoderò la spada, fece un rapido affondo e mancò completamente il colpo. La lama si abbatté sull’erica al lato del sentiero. Vi fu un rumore quasi impercettibile, come di vecchi denti che battessero.

La spada colpì un masso nascosto nell’erica… nascosto, avrebbe detto un osservatore, così bene che un attimo prima pareva non ci fosse affatto. L’arma balzò su come un salmone che salta fuori dell’acqua e mentre ricadeva affondò nella nuca grigia del gigante.

La creatura emise un brontolio e con una zampata inferse una ferita nel fianco del cavallo di Duefiori; l’animale con un nitrito di dolore sfrecciò al riparo degli alberi che fiancheggiavano la strada. Il gigante girò su se stesso e si lanciò in avanti per afferrare Scuotivento.

Allora il suo tardo sistema nervoso gli comunicò che era morto. Per un attimo sembrò sorpreso, quindi crollò e si disintegrò in pietrisco (essendo i troll forme di vita silicee, i loro corpi, al momento della morte, si riconvertono immediatamente in pietra).

"Aargh" pensò Scuotivento quando il suo cavallo indietreggiò terrorizzato. Lui ci si aggrappò con tutte le sue forze mentre l’animale caracollava su due zampe poi, con un nitrito acuto, si voltava e galoppava dentro i boschi.

Il rumore dei suoi zoccoli svanì e nell’aria rimase soltanto il ronzio delle api e, di quando in quando, il fruscio delle ali delle farfalle. Si udiva anche qualcos’altro, un rumore strano per l’ora assolata del mezzogiorno.

Un rumore che ricordava quello dei dadi.


— Scuotivento?

La lunga navata fronzuta fece risuonare la voce di Duefiori da un lato all’altro e alla fine gliela rimandò indietro, inascoltata. Lui se dette su una roccia e cercò di riflettere.

Primo, si era perso. Sebbene irritante, la cosa non lo preoccupava troppo. La foresta si presentava molto interessante e probabilmente albergava elfi o gnomi, forse entrambi. In effetti, già due volte gli era parso di scorgere strane facce verdi sbirciarlo dai rami. Duefiori aveva sempre desiderato incontrare un elfo. In realtà quello che davvero desiderava incontrare era un dragone, ma si sarebbe accontentato anche di un elfo. O di un vero folletto.

Il suo Bagaglio era scomparso e questo era seccante. Aveva anche cominciato a piovere. Si agitò a disagio sulla pietra umida, sforzandosi di considerare la situazione dal lato meno pessimistico. Per esempio, durante la sua folle corsa, il suo cavallo aveva fatto irruzione in un folto di cespugli e aveva disturbato un’orsa con i suoi piccoli, ma aveva proseguito prima che la bestia potesse reagire. Poi d’improvviso si era trovato a galoppare sopra un grosso branco di lupi addormentati, ma di nuovo correva a una tale velocità che il loro furioso ululato ben presto era rimasto indietro. Ciò nondimeno il giorno stava per finire e Duefiori pensò che sarebbe stata una buona idea non restare all’aperto. Forse c’era una… Si lambiccò il cervello per ricordarsi quali rifugi offrivano le foreste, secondo le migliori tradizioni… Forse c’era una casetta fatta di pan di zenzero o che altro?

La roccia era davvero scomoda. Duefiori abbassò gli occhi e per la prima volta notò la strana scultura.

Sembrava un ragno. O era una seppia? Muschio e licheni non permettevano di distinguerne i dettagli. Ma non impedivano di distinguere i caratteri runici scolpiti in basso. Duefiori era in grado di leggerli chiaramente, e dicevano: "Viaggiatore, il tempio ospitale di Bel-Shamharoth si trova a mille passi da qui in direzione del Centro". Era davvero strano, pensò Duefiori: perché, sebbene fosse capace di leggere il messaggio, le lettere gli erano completamente sconosciute. Il messaggio gli arrivava in qualche modo al cervello senza la noiosa necessità di passare attraverso i suoi occhi.

L’ometto si alzò e slegò dall’alberello a cui era legato il suo cavallo divenuto ormai docile. Non era sicuro da che parte si trovasse il Centro, però scorgeva un vecchio sentiero che attraversava il bosco. Questo Bel-Shamharoth sembrava pronto ad aiutare i viaggiatori sperduti. In ogni caso, o il tempio o i lupi. Duefiori annuì risoluto.

È interessante notare come, diverse ore dopo, due lupi che seguivano la traccia di Duefiori, arrivarono alla radura. I loro occhi verdi caddero sulla strana incisione a otto zampe, che poteva essere un ragno o una piovra oppure anche qualcosa di più strano, e decisero immediatamente che non erano poi tanto affamati.


A circa sei chilometri di distanza un mago fallito si teneva appeso per le mani all’alto ramo di un faggio.

Era questo il risultato finale di un’attività frenetica. Prima, un’orsa arrabbiata era sbucata dal sottobosco e con una zampata aveva portato via la gola del suo cavallo. Poi, mentre scappava da quel macello, Scuotivento era incappato in un branco di lupi infuriati sparsi in una radura. I suoi istruttori dell’Università Invisibile, che si erano disperati per l’incapacità di Scuotivento di apprendere la levitazione, sarebbero rimasti sbalorditi nel vedere la velocità con la quale lui aveva raggiunto l’albero più vicino e ci si era arrampicato, senza apparentemente toccarlo.

— Perché sogghigni? — aveva domandato il mago alla figura sul ramo accanto.

— Non posso farne a meno — rispose la Morte. — Adesso saresti così gentile da lasciarti andare? Non posso restare nei paraggi tutto il giorno.

— Io posso — ribatté Scuotivento in tono di sfida.

I lupi ammassati ai piedi dell’albero fissavano interessati il loro prossimo pasto parlare da solo.

— Non farà male — disse la Morte. Se le parole avessero un peso, una sola frase pronunciata dalla Morte sarebbe stata sufficiente a ormeggiare una nave.

Le braccia di Scuotivento non ne potevano più. Lui guardò di traverso la figura leggermente trasparente, simile a un avvoltoio. — Non farà male? — ripeté — Essere fatto a pezzi dai lupi non farà male?

Notò un altro ramo che s’incrociava qualche centimetro più in là con il suo pericolosamente sottile. Se soltanto avesse potuto raggiungerlo…

Si sporse in avanti e allungò una mano.

Il ramo, già inclinato, non si ruppe. Fece soltanto un rumorino sordo e si torse.

Scuotivento si trovò appeso all’estremità di una lingua di corteccia e di fibra, che si andava allungando via via che si staccava dall’albero. Guardò giù e con una sorta di soddisfazione fatalistica vide che sarebbe atterrato proprio sul lupo più grosso.

Adesso si muoveva lentamente mentre la striscia di corteccia si andava sempre più allungando. Il serpente lo osservava pensieroso.

Ma la corteccia teneva. Scuotivento cominciava già a congratularsi con se stesso quando, alzando gli occhi, vide quello che fino allora non aveva notato. Proprio davanti a lui, pendeva dal ramo il più grosso nido di vespe che avesse mai visto.

Chiuse forte gli occhi.

"Perché il troll?" si chiedeva. "Tutto il resto rientra nella mia solita fortuna, ma perché il troll? Che diavolo succede’7"

Clic. Poteva essere un ramoscello che si spezzava, ma sembrava che il rumore si producesse nella testa del mago. Clic, clic. E un venticello che però non smuoveva nemmeno una foglia.

Passando, la striscia di corteccia strappò via dal ramo il nido di vespe, che sfrecciò accanto alla testa di Scuotivento. Lui lo vide rimpicciolire mentre piombava sul cerchio di musi alzati.

Il cerchio si chiuse d’improvviso.

D’improvviso il cerchio si allargò.

Un concerto di ululati di dolore echeggiò tra gli alberi mentre il branco di lupi cercava di sfuggire alla nuvola infuriata. Scuotivento ridacchiava in modo insensato.

Urtò con il gomito contro qualcosa. Era il tronco dell’albero. La striscia di corteccia lo aveva portato dritto all’estremità del ramo. Ma non c’erano altri rami. La superficie liscia accanto a lui non offriva nessuna presa.

Però offriva delle mani. Due spuntavano in quel momento dalla corteccia coperta di muschio: mani sottili, verdi come le foglie nuove. Poi seguì un braccio ben modellato e quindi l’amadriade si sporse, afferrò il mago sbalordito e, con quella forza vegetale che riesce a penetrare la roccia con le radici, lo tirò dentro l’albero. La solida corteccia si divise come nebbia, si richiuse come un’ostrica.

La Morte guardava impassibile.

Lanciò un’occhiata alla nuvola di effimere danzanti gioiose vicino al suo teschio. Schioccò le dita. Gli insetti piombarono giù. Ma in qualche modo, non era la stessa cosa.


Blind lo spinse sul tavolo la sua pila di gettoni, lanciò uno sguardo torvo con quelli dei suoi occhi che si trovavano nella stanza, e uscì. Alcuni semidei se ne uscirono in risolini soffocati. Almeno Offler aveva accolto la perdita di un troll in perfetto stato con buona grazia anche se un po’ servile.

L’ultimo avversario della Signora spostò la sua seggiola fino a trovarsi di fronte a lei davanti alla scacchiera.

— Signore — disse lei cortesemente.

— Signora — rispose lui. I loro occhi s’incontrarono.

Era un dio taciturno. Si diceva che fosse arrivato nel mondo-disco in seguito a un terribile e misterioso incidente in un’altra Eventualità. Naturalmente gli dei godono della prerogativa di controllare la loro forma esteriore anche nei confronti di altri dei. Il Fato del mondo-disco era un uomo cortese, più che di mezza età, con i capelli grigi ben pettinati e un viso che ispirava fiducia; un tipo, insomma, al quale una fanciulla avrebbe volentieri offerto un bicchiere di birra, se lui fosse apparso alla porta di servizio. Un tipo che un giovane garbato sarebbe stato lieto di aiutare a scendere le scale. Eccetto che per i suoi occhi, naturalmente.

Nessun dio può celare lo sguardo e la natura dei suoi occhi. La natura degli occhi del Fato era questa: mentre a un’occhiata superficiale apparivano semplicemente scuri, a un esame più attento si sarebbero rivelati, troppo tardi, soltanto due buchi che si aprivano su un’oscurità così remota, così profonda che l’osservatore si sarebbe sentito inesorabilmente attirato in quei due pozzi gemelli di notte senza fine e i loro terribili astri rotanti…

La Signora ebbe un piccolo colpo di tosse e mise sul tavolo ventuno gettoni bianchi. Poi ne estrasse dalla tunica un altro, argenteo e traslucente, grande il doppio. L’anima di un vero Eroe trova sempre un migliore corso di cambio ed è tenuta in gran conto dagli dei.

Il Fato inarcò un sopracciglio e disse: — Niente imbrogli, Signora.

— Ma chi potrebbe imbrogliare il Fato? — domandò lei. Lui scrollò le spalle.

— Nessuno. Eppure tutti ci provano.

— Eppure, credo di non sbagliare dicendo che mi avete prestato un po’ di assistenza contro gli altri?

— Ma certo. Perché la fine della partita potesse essere più dolce, Signora. E adesso…

Pescò dalla sua scatola da gioco un pezzo che depose sulla scacchiera con aria soddisfatta. Gli dei che stavano a guardare dettero un sospiro collettivo. Perfino la Signora per un momento parve sorpresa.

Era certamente brutto. La fattura era rozza, come se le mani dell’artigiano tremassero dal terrore della cosa che prendeva forma sotto le sue dita riluttanti. Sembrava fosse tutto ventose e tentacoli. E mandibole, osservò la Signora. E un unico grande occhio.

— Credevo che fosse morto al principio del Tempo — disse.

— Forse la nostra necrotica amica era restia perfino ad avvicinarlo — rise il Fato. Si stava divertendo.

— Non avrebbe mai dovuto essere generato.

— Cionondimeno — disse il Fato sentenziosamente. Vuotò i dadi nel loro insolito contenitore e alzò gli occhi sulla Signora.

— A meno che — aggiunse — desideriate ritirarvi…

Lei scosse la testa. — Giocate — disse.

— Potete uguagliare la mia posta?

Giocate.


Scuotivento sapeva cosa c’era dentro gli alberi: legno, linfa, possibilmente scoiattoli. Non un palazzo.

Eppure… i cuscini su cui sedeva erano senz’altro più morbidi del legno, il vino nella coppa di legno molto più gustoso della linfa, e non poteva assolutamente esserci paragone fra uno scoiattolo e la fanciulla che gli sedeva di fronte e lo guardava, con le mani intrecciate intorno alle ginocchia. A meno di fare menzione di certe tracce di pelosità.

La stanza era alta, vasta e illuminata da una morbida luce gialla proveniente da una fonte che Scuotivento non riusciva a identificare. Attraverso gli archi nodosi si vedono altre stanze e una grande scala a chiocciola. E dire che, dall’esterno, gli era sembrato un albero perfettamente normale.

La fanciulla era verde, la carne verde. Di questo Scuotivento era certissimo perché lei non portava altro che un medaglione intorno al collo. I suoi capelli avevano un aspetto vagamente muschioso. I suoi occhi, senza pupille, erano di un verde luminoso. Scuotivento rimpianse di non avere prestato la dovuta attenzione alle lezioni di antropologia all’Università.

Fino a quel momento lei era rimasta in silenzio. Oltre a indicargli il sedile e offrirgli il vino, si era limitata a restare seduta a osservarlo, strofinandosi di tanto in tanto uno sgraffio profondo sul braccio.

— Mi dispiace di quello — disse in fretta il mago. — È stato soltanto un incidente. Voglio dire, c’erano quei lupi e…

— Hai dovuto arrampicarti sul mio albero e io ti ho salvato — disse soavemente la driade. — È stata una fortuna per te. E per il tuo amico, forse?

— Amico?

— L’ometto con la cassa magica.

— Oh, certo, lui. Già. Spero che stia bene.

— Ha bisogno del tuo aiuto.

— Come sempre. Anche lui è finito su un albero?

— Lui è finito al Tempio di Bel-Shamharoth.

A Scuotivento il vino andò di traverso. Le orecchie tentarono di rientrargli nella testa dal terrore delle sillabe che avevano appena udite. Il Mangiatore di Anime! Prima che potesse fermarli, i ricordi ritornavano a frotte. Una volta, quand’era studente di magia all’Università Invisibile, si era infilato, per scommessa, nella stanzetta accanto alla biblioteca principale. La stanza dai muri ricoperti da pentagrammi protettivi di piombo, la stanza che a nessuno era permesso di occupare per più di quattro minuti e trentadue secondi, cifra alla quale si era arrivati dopo duecento anni di cauta sperimentazione…

Lui aveva aperto con precauzione il Libro, che era incatenato al piedistallo di ottirone in mezzo al pavimento cosparso di caratteri runici, non per paura che qualcuno lo rubasse, ma per timore che esso scappasse via. Perché era l’Ottavo, così pieno di magia da possedere una vaga sensibilità tutta sua. Infatti un incantesimo era balzato fuori dalle pagine fruscianti e si era insediato negli oscuri recessi del suo cervello. E. a parte il fatto di sapere che si trattava di uno degli Otto Grandi Incantesimi, nessuno scopriva qual era finché non lo pronunciava. Ciò valeva perfino per lo stesso Scuotivento. Ma a volte lo sentiva muoversi fuori vista dietro al suo Ego, aspettando l’occasione propizia…

Davanti all’Ottavo c’era stata un’immagine di Bel-Shamharoth. Non era il Male, perché perfino il Male aveva una certa vitalità. Bel-Shamharoth era il rovescio della medaglia di cui il Bene e il Male sono una sola faccia.

— Il Mangiatore di Anime. Il suo numero sta tra sette e nove; è due volte quattro — citò Scuotivento. terrorizzato. — Oh no! Dov’è il Tempio?

— In direzione del Centro, verso il centro della foresta — rispose la driade. — È molto antico.

— Ma chi sarebbe tanto stupido da venerare Bel… lui? Voglio dire, i demoni , ma lui è il Mangiatore di Anime…

— C’erano… certi vantaggi. E la razza che viveva in questi luoghi aveva strane nozioni.

— Cosa è accaduto, dopo?

— Ho detto che viveva in questi luoghi. — La driade si alzò e gli tese la mano. — Vieni. Io sono Druellae. Vieni con me a osservare il fato del tuo amico. Dovrebbe essere interessante.

— Non sono sicuro che… — cominciò Scuotivento.

La driade girò gli occhi verdi su di lui. — Credi di avere scelta? — chiese.


Una scala, larga come un’autostrada, saliva a spirale su per l’albero, con vaste stanze che si aprivano su ogni pianerottolo. Dappertutto la luce gialla che pareva non provenire da nessuna fonte. Si udiva anche un rumore; Scuotivento si concentrò per cercare d’identificarlo: era un rumore come di tuono lontano o di una cascata distante.

— È l’albero — spiegò la driade.

— Che sta facendo?

— Vive.

— Me lo chiedevo. Voglio dire, ci troviamo davvero in un albero? Sono rimpicciolito? All’esterno la pianta mi pareva così stretta da poterla circondare con le braccia.

— Infatti.

— Uhm, ma eccomi qui al suo interno.

— Infatti.

— Uhm — disse Scuotivento.

Druellae rise. — Posso leggerti nella mente, falso mago! Non sono forse una driade? Non sai che ciò che tu sminuisci col nome di albero, non è altro se non il corrispettivo quadridimensionale dell’intero universo multidimensionale che… No, vedo che non lo sai. Avrei dovuto capire che non eri un vero mago quando ho visto che non avevi una bacchetta.

— L’ho perduta in un incendio — dichiarò automaticamente Scuotivento.

— Né un cappello ricamato con i geroglifici magici.

— È volato via.

— Né un demone familiare.

— È morto. Senti, grazie per avermi salvato ma, se non ti dispiace, devo andare. Se vuoi mostrarmi la strada per uscire…

Qualcosa nella sua espressione lo fece voltare. Alle sue spalle c’erano tre driadi maschi. Nudi come la donna e disarmati. Tuttavia, quest’ultimo dettaglio era irrilevante. Non sembrava che avrebbero avuto bisogno di armi per combattere Scuotivento. Ma piuttosto che avrebbero potuto aprirsi una strada nella dura roccia e sconfiggere, per soprammercato, un reggimento di troll.

I tre bei giganti lo guardavano con aria di stolida minaccia. Sotto la pelle, del colore dei malli di noce, i muscoli si gonfiavano come sacchi di meloni.

Il mago si voltò di nuovo verso Druellae sorridendole debolmente. La vita cominciava a riassumere un aspetto familiare.

— Non sono liberato, vero? Sono catturato, giusto?

— Naturalmente.

— E tu non mi lasci andare. — Era una costatazione.

Druellae scosse la testa. — Hai fatto male all’Albero. Ma sei fortunato. Il tuo amico sta per incontrare Bel-Shamharoth. Tu morirai soltanto.

Da dietro, due mani gli afferrarono le spalle allo stesso modo in cui la radice di un vecchio albero si avvolge senza posa intorno a un ciottolo.

— Naturalmente, con certe formalità — continuò la driade. — Dopo che il Signore di Otto avrà finito con il tuo amico.

Tutto ciò che Scuotivento riuscì a dire fu: — Sai, non avevo mai immaginato che esistessero driadi maschi. Nemmeno dentro una quercia.

Uno dei giganti gli rivolse un sorrisetto malizioso.

Druellae sbuffò. — Stupido! Da dove credi che vengano le ghiande?

Cera un vasto spazio vuoto come un atrio, il soffitto celato dalla nebbia dorata. La scala, che pareva salire all’infinito, lo attraversava.

All’estremità dell’atrio erano raggruppate diverse centinaia di driadi, che si divisero rispettosamente all’arrivo di Druellae. I loro sguardi trapassavano Scuotivento, che veniva spinto avanti con fermezza.

Tra di loro si contavano alcuni maschi, immobili come statue gigantesche tra le piccole femmine intelligenti. "Insetti", pensò Scuotivento. "L’Albero è simile a un alveare."

Ma come mai c’erano le driadi? Per quanto ricordava, il popolo degli alberi si era estinto da secoli, soppiantato dagli umani, come la maggior parte degli altri Popoli del Crepuscolo. Solo gli elfi e i troll erano sopravvissuti all’arrivo dell’Uomo nel mondo-disco. Gli elfi perché di gran lunga più intelligenti e i troll perché sapevano, quanto gli umani, essere cattivi, vendicativi, avidi. Si supponeva invece che le driadi si fossero estinte, insieme agli gnomi e ai folletti.

Lì il rombo di fondo era più forte. Di tanto in tanto, un pulsante bagliore dorato correva su per le pareti traslucide e si perdeva nella nebbia sovrastante. Un qualche potere che aleggiava nell’aria la faceva vibrare.

— Oh mago incompetente! — esclamò Druellae. — Assisti a qualche magia. Non la vostra magia addomesticata, ma la magia delle radici e dei rami, l’antica magia. Magia allo stato naturale. Guarda.

Un gruppo di una cinquantina di driadi indietreggiò, tenendosi per mano, fino a formare la circonferenza di un largo cerchio. Le altre intonarono un canto basso. Poi, a un cenno di Druellae, il cerchio prese a girare in senso antiorario.

Via via che la velocità aumentava, saliva il ritmo complicato del canto. Scuotivento contemplava la scena, affascinato. All’Università aveva sentito parlare dell’Antica Magia, anche se ai maghi era proibita. Sapeva che quando il cerchio ruotava abbastanza rapido in senso inverso al campo magico fisso del mondo-disco nel suo lento ruotare, la conseguente frizione astrale avrebbe accumulato una grande differenza di potenziale e una conseguente scarica di Forza Magica Elementare.

Il cerchio ora si era fatto una macchia indistinta e le pareti dell’Albero risuonavano dell’eco del canto.

Scuotivento sentì il familiare formicolio nella cute della testa, rivelatore del formarsi di una forte carica di incantesimo puro nelle vicinanze. Così non fu troppo stupito quando, pochi secondi più tardi, un raggio di vivida luce di ottarino spuntò dall’invisibile soffitto e si concentrò, con un crepitio, nel centro del cerchio.

Lì formò l’immagine di una collina alberata e spazzata dal vento con un tempio sulla cima. L’occhio era ferito dalla forma di quell’edificio. Scuotivento sapeva che, se si trattava del tempio di Bel-Shamharoth, avrebbe avuto otto lati (Otto era anche il numero di Bel-Shamharoth) e per questa ragione, potendo evitarlo, un mago giudizioso non l’avrebbe mai pronunciato. "Oppure sarete ottati vivi" si ammonivano scherzosamente gli apprendisti. Bel-Shamharoth era specialmente attratto dai dilettanti nelle arti magiche, i quali essendo, per così dire, i rastrellatori delle spiagge del soprannaturale, erano già mezzo impigliati nelle sue reti. Il numero della camera di Scuotivento alla residenza dell’Università era stato 7a. Cosa che non lo aveva meravigliato.


La pioggia ruscellava sui muri neri del tempio. L’unico segno di vita era il cavallo legato fuori, e non era il cavallo di Duefiori. Tanto per cominciare, era troppo grosso. Era un destriero bianco con gli zoccoli grandi come un piatto di portata e i finimenti di cuoio luccicanti di vistosi ornamenti d’oro. L’animale si stava godendo la sua razione di foraggio col muso infilato nella sacchetta…

Nella scena c’era qualcosa di familiare. Scuotivento cercava di ricordarsi dove l’aveva vista prima.

A ogni modo, la bestia sembrava in grado di raggiungere una bella velocità e, una volta raggiunta, di mantenerla a lungo. Scuotivento doveva soltanto scrollarsi di dosso le guardie, lottare per aprirsi la strada e lasciare l’Albero, trovare il tempio e portare via il cavallo da sotto qualunque cosa Bel-Shamharoth usasse come naso.

— Il Signore di Otto ha due ospiti a cena, sembra — disse Druellae, fissando Scuotivento. — Di chi è quel corsiero, falso mago?

— Non ho idea.

— No? Be’, non importa. Lo vedremo subito.

Agitò una mano. Il centro dell’immagine si spostò verso l’interno, sfrecciò attraverso un grande arco ottagonale e continuò lungo il corridoio. Una figura strisciava con la schiena rasente al muro. Scuotivento vide il luccichio dell’oro e del bronzo.

Impossibile sbagliarsi su quella sagoma. L’aveva vista molte volte. Il largo torace, il collo simile al tronco di un albero, la testa sorprendentemente piccola sotto il casco arruffato di capelli neri, come un pomodoro su una bara… Poteva dare un nome alla figura strisciante. Il nome era quello di Hrun il Barbaro.

Nelle terre del Mare Circolare Hrun era uno degli eroi durati più a lungo: un combattente di dragoni, uno spogliatore di templi, una spada mercenaria, il centro di ogni rissa da strada. Poteva perfino, al contrario di molti eroi conosciuti da Scuotivento, pronunciare parole di più di due sillabe, se uno gliene dava il tempo e un suggerimento o due.

Scuotivento percepiva un rumore indistinto, come di teschi saltellanti giù per i gradini di un lontano dongione. Guardò con la coda dell’occhio le guardie per vedere se l’avevano udito.

Tutta la loro limitata attenzione era concentrata su Hrun, dalla corporatura somigliante alla loro. Le loro mani posavano leggermente sulle spalle del mago.

Scuotivento si chinò di scatto, balzò all’indietro come un acrobata e si raddrizzò correndo. Udì alle sue spalle Druellae che gridava e raddoppiò la velocità.

Il cappuccio della sua tunica s’impigliò da qualche parte e si lacerò. Un driade in attesa vicino alla scala allargò le braccia con un sogghigno inespressivo rivolto alla figura che gli si precipitava incontro.

Senza rallentare, Scuotivento si chinò di nuovo, così basso da toccarsi le ginocchia con il mento, mentre un pugno grosso come un ciocco gli passava vicino all’orecchio con un sibilo.

Davanti a lui lo attendeva un gruppetto di tre uomini. Il Mago fece una giravolta, evitò un altro colpo da parte della guardia stupefatta, e tornò di corsa verso il cerchio, superando i driadi che lo inseguivano e lasciandoli scompigliati come un gioco di birilli.

Ma davanti ce n’erano ancora altri, che si facevano strada in mezzo alla folla delle femmine, battendo i pugni sui palmi callosi delle mani in attesa della lotta imminente.

— Fermati, falso mago — gli ordinò Druellae facendo un passo in avanti. Alle sue spalle, le danzatrici rapite continuavano a girare; il centro dell’immagine adesso scivolava lungo un corridoio illuminato di luce violetta.

Scuotivento esplose. — Volete piantarla! Mettiamo le cose in chiaro, va bene? Io sono un vero mago! — Batté con petulanza un piede.

— Davvero? — disse la driade. — Allora vediamo se sai fare un incantesimo.

— Uh… — cominciò Scuotivento. Il fatto era che, da quando quell’antico e misterioso incantesimo gli si era insediato nella mente, lui non era più stato capace di ricordare nemmeno la più semplice formuletta per, diciamo, ammazzare gli scarafaggi o grattarsi la schiena senza usare le mani. I maghi dell’Università Invisibile avevano cercato di spiegare la cosa con la seguente teoria: avere involontariamente mandato a memoria l’incantesimo aveva, per così dire, bloccato tutte le sue cellule di mnemonica degli incantesimi. Scuotivento era giunto a una spiegazione tutta sua della ragione per cui anche le formule magiche minori rifiutavano di rimanergli in testa per più di pochi secondi.

Avevano paura.

— Uhm… — ripeté.

— Ne basterebbe anche uno piccolo — affermò Druellae, che lo guardava mordersi le labbra dalla collera e dall’imbarazzo. A un suo cenno, si avvicinarono due driadi maschi.

L’Incantesimo scelse quel momento per balzare nella sella, temporaneamente abbandonata, della conoscenza. Scuotivento si sentiva guardato da lui, con aria di sfida.

— Conosco un incantesimo.

— Sì? Sei pregato di pronunciarlo — ribatté Druellae.

Scuotivento era incerto se osare; benché l’Incantesimo cercasse d’impadronirsi della sua lingua, lui si opponeva. — Hai detto che potevi leggere nella mia mente — borbottò. — Allora leggi.

Lei avanzò, fissandolo negli occhi con espressione beffarda. Il sorriso le si gelò sulle labbra. Sollevò le mani a proteggersi e indietreggiò, rannicchiandosi. Dalla gola le uscì un suono di vero e proprio terrore.

Scuotivento si guardò intorno. Anche le altre driadi arretravano. Che aveva dunque fatto? Evidentemente, qualcosa di terribile.

Ma, per sua esperienza, era soltanto questione di tempo prima che l’universo ritrovasse il suo equilibrio e a lui succedessero le solite cose tremende. Si trasse indietro, si riparò tra le driadi che con il loro ruotare creavano il cerchio magico, e attese di vedere quale sarebbe stata la prossima mossa di Druellae.

— Prendetelo — gridò lei. — Portatelo lontano dall’Albero e uccidetelo!

Scuotivento si girò e si precipitò in avanti.

Attraverso il centro del cerchio.

Vi fu un vivido lampo.

Vi fu il buio improvviso.

Vi fu un’ombra violetta vagamente rassomigliante a Scuotivento, che si ridusse a un punto e si spense.

Non vi fu assolutamente più nulla.


Hrun il Barbaro scivolava silenziosamente lungo i corridoi, illuminati da una luce di un viola così intenso da essere quasi nero. Non si sentiva più confuso. Chiaramente quello era un tempio magico, e ciò spiegava tutto.

Spiegava perché quello stesso pomeriggio, mentre cavalcava nella foresta oscura, avesse scorto sul bordo del sentiero una cassa dall’aspetto invitante: il coperchio aperto metteva in mostra una grande quantità d’oro. Ma quando lui era balzato giù da cavallo per avvicinarsi, alla cassa erano spuntate le gambe ed era trottata via per fermarsi qualche metro più in là.

Adesso, dopo parecchie ore d’irritante inseguimento, l’aveva persa in quei tunnel dalla luce infernale. Tutto sommato, le sculture sgradevoli e, di tanto in tanto, gli scheletri smembrati davanti ai quali Hrun passava, non gli incutevano nessun timore. Questo era in parte dovuto al fatto che lui non era eccezionalmente sveglio mentre era allo stesso tempo eccezionalmente privo di immaginazione. E in parte perché sculture strane e tunnel perigliosi rientravano nel suo lavoro quotidiano. Trascorreva gran parte del suo tempo in situazioni simili, a cercare oro o demoni o vergini in pericolo e a liberarli rispettivamente dei proprietari, della vita o di almeno una delle cause delle loro angustie.

Osserva Hrun, mentre attraversa con un balzo felino l’imbocco di un tunnel sospetto. Anche in questa luce viola la sua pelle riluce come rame. C’è parecchio oro sulla sua persona, sotto forma di anelli per i polsi e le caviglie, ma altrimenti l’eroe è nudo a eccezione di un perizoma di pelle di leopardo. L’ha presa nelle umide foreste di Howondaland, dopo avere ammazzato il suo proprietario con i denti.

Nella destra regge Kring, la magica spada nera che è stata forgiata da un fulmine e ha un’anima, ma non sopporta il fodero. Hrun l’aveva rubata tre giorni prima dall’inespugnabile palazzo dell’Archimandrita di B’Ituni, e già cominciava a rimpiangerlo. Gli dava sui nervi.

— Ti dico che è andata in quell’ultimo corridoio a destra — sibilò Kring con una voce simile al raschio di una lama sulla pietra.

— Taci!

— Ho detto soltanto che…

— Chiudi il becco!


E Duefiori…

Si era perso, lo sapeva. O l’edificio era molto più grande di quanto sembrava, o lui si trovava ora in un vasto sotterraneo senza avere disceso una scala oppure, come cominciava a sospettare, le dimensioni interne, più grandi delle esterne, disobbedivano a una regola base dell’architettura. E perché tutte quelle luci strane? Erano ottagoni di cristallo incastrati a intervalli regolari nelle pareti e nel soffitto e spargevano un chiarore sgradevole che metteva in risalto le ombre invece di illuminare.

E chiunque fosse l’autore delle sculture sulle pareti, pensava caritatevole Duefiori, probabilmente aveva bevuto troppo. Per anni.

D’altro canto, si trattava di sicuro di un edificio affascinante. I suoi costruttori erano stati ossessionati dal numero otto. Il pavimento era un mosaico di piastrelle ottagonali: i muri e i soffitti erano disposti in modo che, loro inclusi, i corridoi risultavano di otto lati; inoltre, là dove parte dell’intonaco era caduta, Duefiori notò che anche le pietre avevano otto lati.

— Non mi piace — sentenziò l’omuncolo dalla sua scatola intorno al collo di Duefiori.

— Perché no? — chiese questi.

— È strano.

— Ma tu sei un demone e i demoni non possono chiamare strane le cose. Voglio dire, che cos’è strano per un demone?

— Oh, sai — rispose cauto il diavoletto, guardandosi intorno nervosamente e spostandosi da una zampa artigliata all’altra. — Cose. Roba.

Duefiori gli dette un’occhiata severa. — Quali cose?

Il demone tossì nervosamente. (I demoni non respirano; tuttavia, ogni essere intelligente, che respiri o no, tossisce nervosamente una volta o l’altra nella vita. E, per quanto riguardava il demone, questa era appunto una di quelle volte.)

— Oh, cose — disse con aria infelice. — Cose malvage. Cose di cui non parliamo; è questo il punto che sto cercando di farvi capire, padrone.

Duefiori scosse stancamente la testa. — Vorrei che Scuotivento fosse qui. Lui saprebbe senz’altro cosa fare.

Lui? — disse sprezzante il demone. — Non riesco a vedere un mago venire qui. Loro non possono avere niente a che fare col numero otto. — Si tappò la bocca con una mano, con aria colpevole.

Duefiori alzò gli occhi al soffitto. — Che è stato? — chiese. — Non hai sentito qualcosa?

— Io? Sentito? No! Niente! — Saltò dentro e sbatté la porta. Duefiori bussò. Si aprì uno spiraglio.

— Sembrava una pietra che si muovesse — spiegò. La porta si richiuse di colpo. Duefiori alzò le spalle.

— Probabilmente questo posto sta crollando — disse a se stesso e si alzò. — Ehi! — gridò. — C’è qualcuno là?

LA, La, la, risposero i tunnel oscuri.

— Salve? — provò di nuovo.

VE, Ve, ve.

— So che qui c’è qualcuno, vi ho appena sentito giocare a dadi!

ADI, Adi, adi.

— Sentite, ho appena…

Duefiori s’interruppe. Il motivo era il punto di luce brillante che si era materializzato a qualche centimetro dai suoi occhi. Crebbe rapidamente e dopo pochi secondi si era trasformato nella minuscola silhouette di un uomo. Cominciò allora a fare un rumore o, piuttosto, Duefiori cominciò a udire il rumore che era andato facendo tutto il tempo. Era come la vibrazione di un grido, prolungata per un lungo istante.

L’uomo iridescente adesso aveva le dimensioni di una bambola, una forma distorta, che planava lenta, sospesa a mezz’aria. Duefiori si chiedeva perché mai gli era venuta in mente la frase "la vibrazione di un grido" e avrebbe voluto non averci pensato.

La sagoma intanto prendeva l’aspetto di Scuotivento. La bocca del mago era spalancata e il suo volto era illuminato dalla luce di… che cosa? Di strani soli, si ritrovò a pensare Duefiori. Soli che gli uomini normalmente non vedono. Rabbrividì.

Adesso il mago, sempre piroettante in aria, aveva raggiunto metà della dimensione normale. La crescita si fece più rapida, vi fu un momento di grande tensione, un soffio d’aria e un’esplosione di suono. Con un urlo, Scuotivento precipitò dall’aria. Batté violentemente a terra, si strozzò, poi rotolò su se stesso, la testa nascosta nelle braccia e il corpo tutto raggomitolato.

Quando la polvere si fu depositata, Duefiori allungò con precauzione una mano e batté sulla spalla del mago. La palla umana si raggomitolò ancora di più.

— Sono io — disse Duefiori. Il mago si srotolò di un centimetro.

— Cosa?

— Io.

In un solo movimento Scuotivento si srotolò, saltò su davanti all’ometto e lo afferrò disperatamente per le spalle. Aveva gli occhi spalancati e lo sguardo folle.

— Non ditelo! — sibilò. — Non ditelo e così potremmo uscirne!

— Uscirne? Come ci siete entrato? Non sapete…

— Non ditelo!

Duefiori arretrò davanti a quel pazzo.

— Non ditelo!

— Non dire che cosa?

— Il numero!

— Numero? — ripeté Duefiori. — Ehi, Scuotivento…

— Sì, numero. Tra sette e nove. Quattro più quattro.

— Come, ot…

Le mani di Scuotivento gli tapparono la bocca. — Ditelo e siamo condannati. Non ci pensate, va bene? Fidatevi di me!

— Non capisco — si lamentò Duefiori. Scuotivento si rilassò un poco, vale a dire che. in confronto a lui, una corda di violino era come una ciotola di gelatina.

— Forza — disse. — Cerchiamo di uscire. Ci proverò e vi guiderò.


Dopo la prima Età della Magia, nel mondo-disco l’eliminazione degli zibaldoni divenne un serio problema. Un incantesimo è un incantesimo anche se imprigionato temporaneamente in pergamena e inchiostro. Esso ha efficacia. Ciò non rappresenta un problema finché il proprietario del libro resta in vita, ma alla sua morte esso diventa una fonte di potere incontrollato non facile da disinnescare.

In breve, i libri d’incantesimi lasciano uscire la magia. Si sono tentate varie soluzioni. I paesi vicini all’Orlo hanno semplicemente zavorrato i libri dei maghi morti con pentalfa di piombo e li hanno scaraventati giù dal Bordo. Vicino al Centro, le alternative possibili erano meno soddisfacenti. Una era quella d’infilare i libri in recipienti di ottirono sottoposto a polarizzazione negativa e affondarli nelle profondità incommensurabili del mare (la loro sepoltura nelle caverne terrestri era stata proibita dopo che alcune province si erano lamentate di alberi che camminavano e di gatti a cinque teste), ma non molto tempo dopo la magia ne trasudava e alla fine i pescatori si lamentavano di banchi di pesci invisibili o di molluschi immateriali.

Una soluzione temporanea fu la costruzione, in vari centri di tradizione magica, di grandi ambienti fatti di ottirone denaturato, inaccessibile alla maggior parte delle forme di magia. Lì era possibile immagazzinare i volumoni più critici finché la loro potenza si fosse attenuata.

Fu così che all’Università Invisibile si trovava l’Ottavo, il più grande di tutti, già di proprietà del Creatore dell’Universo. Era questo il libro che una volta Scuotivento aveva aperto per scommessa. Bastò che guardasse una pagina per un secondo per attivare i vari allarmi, ma fu sufficiente perché un incantesimo balzasse fuori e s’insediasse nella sua memoria come un rospo sotto una pietra.


— E allora? — chiese Duefiori.

— Oh, mi hanno trascinato fuori. Mi hanno picchiato, naturalmente.

— E nessuno conosce l’effetto dell’incantesimo?

Scuotivento scosse la testa. — È svanito dalla pagina — rispose. — Nessuno lo conoscerà finché non lo dirò io. O finché io muoia, naturalmente. Allora diciamo che uscirà da solo. Per quello che so, esso ferma l’universo o mette fine al Tempo, o qualcosa del genere.

Duefiori gli batté sulla spalla. — Inutile affliggersi — disse allegro. — Diamo un’altra occhiata per trovare il modo di uscire.

Scuotivento scosse la testa. Tutto il terrore era stato ormai consumato. Forse lui aveva oltrepassato la barriera del terrore e si trovava nella disposizione d’animo di calma assoluta esistente dall’altra parte. E comunque, aveva cessato di farfugliare parole insensate.

— Siamo condannati — dichiarò. — Abbiamo camminato in tondo tutta la notte. Parola mia, questo posto è una vera tela di ragno. Non importa da che parte ci dirigiamo, finiamo sempre nel centro.

— In ogni modo, è stato gentile da parte vostra venire a cercarmi — disse Duefiori. — Come avete fatto di preciso? Sono rimasto molto impressionato.

— Oh, be’ — cominciò il mago imbarazzato — ho semplicemente pensato "non posso lasciare là il vecchio Duefiori" e…

— Così non ci resta che trovare questo Bel-Shamharoth, spiegargli la situazione e forse ci lascerà uscire — suggerì Duefiori.

Scuotivento si grattò un orecchio. — Ci devono essere degli echi strani in questo posto. Mi è sembrato udirvi usare parole come trovare e spiegare.

— Infatti.

Il mago gli lanciò un’occhiataccia. — Trovare Ben-Shamharoth?

— Sì. Non dobbiamo lasciarci coinvolgere.

— Trovare il Mangiatore d’Anime e non essere coinvolti? Salutarlo semplicemente con un cenno della testa, suppongo, e chiedergli la via per uscire? Spiegare la situazione al Signore dell’Ott…

Scuotivento troncò la parola appena in tempo e concluse: — Siete matto! Ehi! Tornate indietro!

Si gettò all’inseguimento di Duefiori e dopo pochi secondi si fermò con un gemito.

La luce violetta lì era più intensa e conferiva a tutto colori nuovi e sgradevoli. Non si trovava in un corridoio ma in una vasta sala, con pareti di cui non osava contemplare il numero, dalla quale partivano ot… 7a corridoi.

Poco più in là, Scuotivento vide un altare basso con lo stesso numero di lati di quattro volte due. Però non era l’altare il centro della sala, ma un’enorme lastra di pietra con due volte i lati di un quadrato. In quella luce strana, la pietra massiccia appariva leggermente inclinata, poggiata di taglio sulle lastre che la circondavano.

Su di essa stava in piedi Duefiori.

— Ehi, Scuotivento! Guardate cosa c’è qui!

Il Bagaglio veniva avanti a passo incerto da uno dei corridoi che si irradiavano dalla sala.

— Magnifico — esclamò Scuotivento. — Bene. Ci può condurre fuori di qui. Ora.

Duefiori stava già frugando nella cassa. — Sì. Dopo che avrò scattato alcune immagini. Il tempo di trovare gli accessori…

— Ho detto adesso…

Scuotivento s’interruppe. In piedi all’estremità del corridoio proprio di fronte a lui, Hrun il Barbaro reggeva nella mano grossa come un prosciutto una grande spada nera.

— Tu? — disse incerto.

— Ahaha. Sì — rispose Scuotivento. — Hrun, non è vero? È un pezzo che non ti vedo. Cosa ti porta qui?

Hrun indicò il Bagaglio. — Quello. — Lo sforzo della.conversazione sembrò esaurirlo. Poi aggiunse, in un tono misto tra affermazione, pretesa, minaccia e ultimatum: — Mio.

— Appartiene a Duefiori qui — ribatté il mago. — Ecco una mancia. Non toccarlo.

Troppo tardi si accorse che quella era precisamente la cosa sbagliata da dire, ma Hrun aveva già scansato Duefiori e allungava la mano verso il Bagaglio…

…che, tirate fuori le gambe, indietreggiò e alzò minaccioso il coperchio. Nella luce incerta a Scuotivento parve di vedere le file di enormi zanne, bianche come rami di faggio secchi.

— Hrun — si affrettò a dire — c’è qualcosa che dovresti sapere.

Hrun si voltò verso di lui con aria irresoluta. — Cosa?

— Si tratta di numeri. Senti, sai che se sommi sette più uno, o tre più cinque, o sottrai due da dieci, ottieni un numero. Finché stai qui, non pronunciarlo e tutti noi potremmo avere la possibilità di uscire vivi da qui. Oppure di uscirne morti.

— Lui chi è? — chiese Duefiori. Reggeva in mano una gabbia, pescata dalle profondità del Bagaglio. Pareva piena di pigre lucertole rosa.

— Sono Hrun — rispose fiero Hrun. Poi guardò Scuotivento. — Cosa? — ripete.

— Semplicemente non dirlo. Sta bene? — gli raccomandò il mago. Guardò la spada in mano al barbaro. Era nera, del nero che non è tanto un colore quanto un cimitero di colori, e sulla lama aveva un’iscrizione in caratteri runici. Ancora più rimarchevole era il lieve alone di ottarino che la circondava. Anche la spada doveva essersi accorta di lui, perché d’un tratto si mise a parlare con una voce simile a un artiglio sfregato sul vetro.

— Strano — disse la voce. — Perché non può pronunciare otto?

Subito l’eco s’impadronì della parola. Dalle profondità della terra venne uno stridio appena percettibile.

E l’eco, sebbene più attenuata, rifiutò di spegnersi. Rimbalzò da parete a parete, incrociandosi e rincrociandosi, e la luce violetta oscillò a tempo con il suono.

— L’hai fatto! — urlò Scuotivento. — Ti avevo raccomandato di non dire otto!

Si fermò, sgomento. Ma ormai la parola era venuta fuori e si unì alle simili nel sussurro generale.

Scuotivento si voltò per scappare ma l’aria d’improvviso s’era fatta più densa della melassa. Si stava accumulando la carica magica più forte che lui avesse mai visto.

Quando si avviò, con lente faticose movenze, le sue membra si lasciarono dietro scintille dorate che tracciarono una scia nell’aria.

Alle sue spalle, ci fu un boato: la grossa lastra ottagonale si sollevò in aria, rimase per un attimo sospesa per uno spigolo e precipitò ai suolo.

Una cosa nera e sottile serpeggiò fuori dal cratere e gli si avvolse intorno alla caviglia. Lui si abbatté con un urlo sui lastroni. Il tentacolo prese a trascinarlo sul pavimento.

D’un tratto gli si parò davanti Duefiori. che cercava di afferrarlo per le mani. Scuotivento si aggrappò disperatamente alle braccia dell’ometto e i due si fissarono. Ma anche così, continuava a scivolare.

— Cosa vi trattiene? — chiese ansimante il mago.

— N-niente — disse Duefiori. — Che sta succedendo?

— Vengo trascinato in quella fossa, che credete?

— Oh Scuotivento, mi dispiace…

— Vi dispiace…

Si udì un rumore come di sega circolare e repentinamente cessò la pressione sulle gambe di Scuotivento. Girò la testa e vide Hrun accovacciato vicino al cratere, con la spada balenante che si abbatteva sui tentacoli che lo aggredivano.

Duefiori aiutò il mago ad alzarsi e i due si acquattarono dietro all’altare a guardare l’uomo che si accaniva contro le braccia che volevano afferrarlo.

— Non funzionerà — affermò Scuotivento. — Il Signore può far materializzare tutti i tentacoli che vuole. Che state facendo?

Duefiori stava febbrilmente attaccando la gabbia di lucertole alla scatola a immagini, che aveva montato su un treppiede. — Devo assolutamente fissare un’immagine di questo — borbottò. — È stupendo! Mi ascolti, diavoletto?

L’esserino aprì la sua porticina, diede una rapida occhiata alla scena vicino alla fossa e scomparì nella scatola. Scuotivento dette un balzo quando si sentì toccare la gamba e calpestò sotto il tallone il tentacolo che si era allungato fino a lui.

— Venite — disse. — È tempo di svignarcela. — Afferrò Duefiori per un braccio, ma quello resistette.

— Scappare e lasciare Hrun con quella cosa? — esclamò.

Il viso del mago era impassibile. — Perché no? È il suo mestiere.

— Ma lo ucciderà!

— Potrebbe andare peggio.

— Cosa?

— Potremmo essere noi - osservò ragionevolmente Scuotivento. — Venite!

— Ehi! — obiettò Duefiori con un dito puntato. — Ha preso il mio Bagaglio!

Prima che Scuotivento potesse trattenerlo, fece di corsa il giro del cratere per avvicinarsi alla cassa, che veniva trascinata via mentre cercava di azzannare il tentacolo che la teneva. L’ometto, infuriato, si mise a tempestarlo di calci.

In quel mentre un altro tentacolo schizzò fuori dalla mischia e si avvolse intorno alla vita di Hrun. diventato ormai una forma indistinta tra le spire che lo stringevano In preda al terrore. Scuotivento vide che la spada gli veniva strappata di mano e scagliata contro il muro.

— L’incantesimo! — gridò Duefiori.

Scuotivento non si mosse. Guardava la Cosa che usciva fuori dalla fossa. Era un occhio enorme e lo fissava. Dette un gemito quando un tentacolo gli si strinse intorno alla vita.

Le parole dell’incantesimo gli vennero spontanee alle labbra. Aprì come in sogno la bocca per pronunciare la prima sillaba barbarica.

Un altro tentacolo scattò fuori come una frusta e gli si avvolse intorno alla gola, strozzandolo. Fu trascinato via, barcollante e ansimante. Il braccio, mulinando, colse al volo la scatola a immagini di Duefiori. che scivolava via sul suo treppiede. Il mago l’afferrò istintivamente, così come i suoi antenati potevano avere afferrato una pietra quando si trovavano di fronte a una tigre affamata. Se soltanto avesse potuto disporre di spazio sufficiente per scagliarla contro l’Occhio…

…l’Occhio riempiva l’intero universo davanti a lui. Scuotivento sentiva la volontà sfuggirgli come acqua attraverso un setaccio.

Nella gabbia posata sopra la scatola a immagini, le torpide lucertole si mossero. Irrazionalmente, come un uomo che sta per essere decapitato nota ogni scalfittura e ogni macchia sul ceppo del carnefice, Scuotivento si accorse che avevano code estremamente larghe e azzurrognole, che cominciavano a vibrare.

Mentre era trascinato verso l’Occhio, alzò la scatola per proteggersi e contemporaneamente udì l’omuncolo dire: — Sono quasi mature ormai, non posso più trattenerle. Sorridete tutti, prego.

Ci fu un…

…lampo di luce così bianca e brillante…

…da non sembrare affatto una luce.

Bel-Shamharoth gridò, un suono che iniziò nel lontano ultrasonico e finì da qualche parte nelle viscere di Scuotivento. I tentacoli divennero rigidi come bastoni, scaraventarono per la stanza i loro vari carichi e finirono rinserrati in posizione di difesa davanti all’Occhio. L’intera massa sprofondò nel cratere e un attimo dopo la grossa lastra, afferrata da dozzine di braccia, fu rimessa a posto e richiusa di colpo; parecchi tentacoli che battevano l’aria, rimasero incastrati nei bordi.

Hrun atterrò rotolando, rimbalzò su una parete e si rimise in piedi. Trovò la sua spada e si mise a troncare metodicamente i tentacoli senza più scampo. Steso a terra, Scuotivento si concentrava nello sforzo di non diventare matto. Voltò la testa nell’udire un rumore sordo.

Il Bagaglio era atterrato sul suo coperchio ricurvo e adesso si dondolava rabbiosamente e scalciava in aria con le sue gambette.

Scuotivento si guardò cautamente intorno in cerca di Duefiori. L’ometto sembrava un mucchio senza vita accanto al muro, ma almeno gemeva.

Il mago si trascinò faticosamente sul pavimento e bisbigliò: — Che diavolo è stato?

— Perché erano così brillanti? — borbottò Duefiori. — Dio, la mia testa…

— Troppo brillanti? — Scuotivento guardò la gabbia sulla scatola a immagini. Le lucertole, ora notevolmente più sottili, lo osservavano con interesse.

— Le salamandre — si lamentò Duefiori. — L’immagine sarà sovraesposta lo so…

— Sono salamandre? — chiese Scuotivento incredulo.

— Certo. Un accessorio standard.

Barcollando, Scuotivento andò a prendere la scatola. Aveva già visto delle salamandre, naturalmente, ma sempre piccoli esemplari e galleggiavano in un vaso di salamoia nel museo di rarità biologiche allestito nelle cantine dell’Università Invisìbile, dato che intorno al Mare Circolare le salamandre vive si erano estinte.

Cercò di ricordarsi il poco che sapeva di loro. Erano creature magiche. Inoltre non avevano bocca, dato che sussistevano interamente grazie alla quantità nutritiva della lunghezza d’onda dell’ottarino nella luce solare del mondo-disco, che esse assorbivano attraverso la pelle. Naturalmente assorbivano pure il resto della luce solare, immagazzinandola in un sacchetto speciale fino a espellerla per via normale. Un deserto abitato dalle salamandre del mondoDisco diventava a notte un vero e proprio faro.

Scuotivento le mise giù con una smorfia sardonica. Con tutta la luce di ottarino di quel posto magico, le creature si erano abbuffate e poi la natura aveva seguito il suo corso.

La scatola a immagini si allontanò di sbieco sul suo treppiede. Scuotivento volle sferrarle un calcio e la mancò. Il legno del pero sapiente cominciava a non piacergli più. Si sentì pungere una guancia da qualcosa e la scacciò via irritato con la mano.

Si voltò nell’udire un raschio e una voce come di trinciante che taglia la seta disse: — Questo è molto poco dignitoso.

— Chiudi il becco — ribatté Hrun, che stava usando Kring come una leva per sollevare la parte superiore dell’altare. Alzò gli occhi su Scuotivento e fece un sorrisetto. Scuotivento sperò che quella smorfia simile a un rictus fosse intesa come un sorrisetto.

— Grande magia — commentò il barbaro spingendo la lama che protestava con una mano delle dimensioni di un prosciutto. — Adesso ci dividiamo il tesoro, eh?

Un oggetto piccolo e duro lo colpì sull’orecchio e Scuotivento brontolò. Seguì un colpo di vento, quasi impercettibile.

— Come sai che qui c’è un tesoro? — chiese.

Hrun alzò la pietra e riuscì a inserirci sotto le dita. — Uno trova le mele sotto un melo — rispose. — E trova un tesoro sotto gli altari. Logico.

Arrotò i denti. La pietra si sollevò e finì pesantemente a terra.

Questa volta qualcosa di pesante colpì la mano di Scuotivento. Lui l’agguantò a mezz’aria e guardò che cosa aveva preso. Era una pietra con tre-più-cinque lati. Guardò il soffitto. Era regolare che si curvasse al centro in quel modo?

Canticchiando, Hrun cominciò a togliere i calcinacci dall’altare dissacrato. Vi fu nell’aria un crepitio, una fluorescenza, un mormorio. Venti impalpabili afferrarono la tunica del mago e la fecero ondeggiare in un turbine di scintille azzurre e verdi. Folli spiriti informi ululavano ed emettevano suoni indistinti intorno alla testa di Scuotivento, mentre erano risucchiati via.

Lui provò ad alzare una mano. Che fu immediatamente circondata da una brillante aureola di ottarino al passaggio del soffio magico. La brezza spazzava la stanza senza alzare un granello di polvere eppure faceva rivoltare le palpebre di Scuotivento; s’ingolfava nei tunnel e il suo lugubre lamento si ripercuoteva follemente da una parete all’altra.

Duefiori si raddrizzò barcollante e si piegò in due preso nella morsa del soffio astrale.

— Che diavolo è questo? — urlò.

Scuotivento fece per voltarsi e immediatamente fu afferrato e quasi travolto dal vento ululante, mentre poltergeist turbinanti nell’aria lo ghermivano per i piedi.

Hrun allungò un braccio per trattenerlo. Un momento più tardi lui e Duefiori erano stati trascinati nel rifugio dell’altare devastato e giacevano al suolo ansimanti. Accanto a loro splendeva la spada parlante, Kring. il suo campo magico reso cento volte più intenso dalla bufera.

— Reggetevi forte! — gridò Scuotivento.

— Il vento! — gridò di rimando Duefiori. — Da dove viene? E dove va? — Fissando il volto di Scuotivento, ridotto a una pura maschera di terrore, raddoppiò la sua stretta sulla pietra alla quale si teneva aggrappato.

— Siamo condannati — mormorò Scuotivento, mentre sulle loro teste il tetto scricchiolava e si muoveva. — Da dove vengono le ombre? È là che soffia il vento!

Ciò che in effetti stava accadendo, come sapeva il mago, era che lo spirito offeso di Bel-Shamharoth s’inabissava negli strati ctonici più profondi, il suo spirito meditabondo era risucchiato fuori dalle pietre nella regione situata, secondo i sacerdoti più accreditati del mondo-disco, sottoterra e Altrove. Pertanto il suo tempio veniva abbandonato alle devastazioni del Tempo, il quale per migliaia di anni era stato riluttante ad avvicinarlo. Adesso il peso accumulato di tutti quei secondi, improvvisamente liberato, gravava ponderosamente sulle pietre sconnesse.

Hrun guardò le fessure che si andavano allargando e sospirò. Poi si mise due dita in bocca e fischiò.

Stranamente il suono reale risuonò con forza sullo pseudosuono del vortice astrale che si formava al centro della grande lastra ottagonale. Fu seguito da un’eco smorzata curiosamente simile al rimbalzare di strane ossa. E quindi da un suono che non aveva nulla di strano. Era il rumore sordo di zoccoli.

Il cavallo da battaglia di Hrun trotterellò sotto un arco scricchiolante e si fermò vicino al padrone, la criniera ondeggiante al vento. Il barbaro si rizzò in piedi, ripose le sue borse con il tesoro in un sacco appeso alla sella e poi si issò in groppa all’animale. Si chinò ad afferrare Duefiori per la collottola e se lo mise di traverso sulla sella.

Mentre il cavallo si girava Scuotivento, con un salto disperato, si assestò dietro a Hrun, che non fece obiezioni.

Il cavallo percorreva i tunnel con andatura sicura, saltava i mucchi di macerie ed evitava con destrezza le grosse pietre che precipitavano dal tetto. Tenendosi stretto con tutte le sue forze, Scuotivento si guardò indietro.

Non c’era da meravigliarsi se il cavallo avanzava così speditamente. Erano seguiti a ruota, nella ammiccante luce violetta, da una grossa cassa dall’aria minacciosa e da una scatola a immagini che avanzava saltellando pericolosamente sulle sue tre gambe. Così grande era l’abilità del legno del pero sapiente di seguire ovunque il suo padrone, che le bare degli imperatori morti erano tradizionalmente fatte proprio di quel legno…

I fuggiaschi si ritrovarono all’aperto giusto un attimo prima che l’arco ottagonale finalmente si spezzasse e si riducesse in frammenti.

Il sole stava sorgendo. Una colonna di polvere s’innalzò alle loro spalle quando il tempio rovinò al suolo, ma loro non si guardarono alle spalle. Fu un peccato, perché Duefiori avrebbe potuto ritrarre delle immagini insolite perfino per gli standard del mondoDisco.

Nelle rovine fumanti si produsse un movimento. Sembrava che da loro spuntasse un verde tappeto. Poi proruppe una quercia che si ramificò con la velocità di un razzo verde che esplodesse fino a formare un boschetto venerando anche prima che le cime dei suoi vecchi rami avessero smesso di fremere… Un faggio spuntò come un fungo, maturò, marcì e cadde in una nuvola di polvere di legno in mezzo ai giovani germogli che lottavano per venire fuori. Già il tempio era un cumulo mezzo sepolto di pietre muschiate.

Ma il Tempo si accingeva ora a completare il lavoro iniziato. L’interfaccia ribollente tra la magia declinante e l’entropia ascendente si precipitò rombando giù per la collina e raggiunse il cavallo galoppante. I cavalieri, creature del Tempo, non se ne accorsero. Ma esso sferzava la foresta incantata con la frusta dei secoli.

— Impressionante, vero? — osservò una voce vicino al ginocchio di Scuotivento mentre il cavallo caracollava attraverso un sipario di legname marcito e di foglie cadenti.

Nella voce vibrava una strana nota metallica. Scuotivento abbassò lo sguardo su Kring la spada… Nel pomo erano incastonati due rubini. Gli parve che lo fissassero.

Dalla brughiera ai margini del bosco contemplarono la battaglia tra gli alberi e il Tempo: la fine non poteva essere che una sola. La sosta fu quasi per intero spesa nel consumare buona parte dell’orso incautamente venuto a tiro dell’arco di Hrun.

Scuotivento lo osservava al di sopra del suo pezzo di carne unta di grasso. Come eroe. Hrun era ben diverso dal Hrun tutto preso dal bere e gozzovigliare che ogni tanto capitava a Ankh-Morpork. Era cauto come un gatto, agile come una pantera e completamente a suo agio.

"E sono sopravvissuto a Bel-Shamharoth" si disse Scuotivento. "Fantastico."

Duefiori aiutava l’eroe a ispezionare il tesoro rubato dal tempio. Erano per la maggior parte pezzi d’argento ornati di brutte pietre color porpora e raffiguravano ragni, piovre e octarsieri che vivono sugli alberi nelle distese desertiche delle zone centrali.

Scuotivento cercò di non ascoltare la voce rasposa. Ma inutilmente.

— …e poi sono appartenuta al Pascià di Re’durat e ho avuto una parte molto importante nella battaglia del Grande Nef dove ho ricevuto la leggera intaccatura che forse avrai notato a circa due terzi della mia lama — diceva Kring, temporaneamente albergata in un ciuffo d’erba. — Un infedele portava un collare di ottirone, cosa assai poco sportiva da parte sua, e naturalmente a quel tempo ero molto più affilata e il mio padrone mi usava per tagliare fazzoletti di seta a mezz’aria e… ti sto annoiando?

— Eh? Oh no, no, niente affatto. È tutto molto interessante — rispose Scuotivento senza smettere di fissare Hrun. Fino a che punto ci si poteva fidare di lui? Loro si trovavano lì, in quella solitudine, in giro c’erano i troll.

— Ho visto subito che eri una persona colta — continuò Kring. — Mi capita così di rado d’incontrare persone veramente interessanti, almeno per un po’ di tempo. Ciò che mi piacerebbe davvero sarebbe una bella mensola di caminetto sopra la quale stare appesa, in un posticino grazioso e tranquillo. Una volta ho trascorso duecento anni in fondo a un lago.

— Deve essere stato divertente — disse il mago a casaccio.

— Non proprio.

— No, suppongo di no.

— Ciò che davvero mi piacerebbe sarebbe di essere un aratro. Non so che cos’è, ma mi sembra un’esistenza che valga la pena di essere vissuta.

Duefiori si accostò di fretta al mago. — Ho avuto una grande idea — sbottò.

— Già — disse stancamente Scuotivento. — Perché non persuadiamo Hrun ad accompagnarci a Chirm?

— Come lo sapevate? — chiese stupefatto l’ometto.

— L’ho semplicemente immaginato.

Hrun smise d’inzeppare le sue sacche da sella con gli oggetti d’argento e rivolse ai due un sogghigno d’incoraggiamento. Poi riportò lo sguardo sul Bagaglio.

— Se l’avessimo con noi, chi ci attaccherebbe? — disse Duefiori.

Scuotivento si grattò il mento. — Hrun? — suggerì.

— Ma gli abbiamo salvato la vita nel Tempio!

— Be’, se dicendo attaccare intendete uccidere — ribatté Scuotivento — non credo che lo farebbe. Non è il tipo. Lui si limiterebbe a derubarci, a legarci e ad abbandonarci ai lupi, temo.

— Oh, via!

— Sentite, questa è la vera vita — scattò Scuotivento. — Voglio dire, eccovi lì a portare in giro una cassa piena d’oro; non credete che chiunque sia sano di mente non salterebbe sull’occasione di prenderselo? — "Io lo farei", aggiunse mentalmente "se non avessi visto cosa fa il Bagaglio alle dita indiscrete."

Poi gli venne in mente la risposta. Spostò lo sguardo da Hrun alla scatola a immagini. Il diavoletto faceva il bucato in una minuscola bacinella, mentre le salamandre sonnecchiavano nella gabbia.

— Ho un’idea — esclamò. — Voglio dire, cos’è che realmente vogliono gli eroi?

— Oro? — suggerì Duefiori.

— No. Intendo vogliono veramente.

Duefiori aggrottò la fronte e disse: — Non capisco bene.

Scuotivento prese in mano la scatola a immagini e chiamò: — Hrun, vieni qui, vuoi?


I giorni passavano tranquilli. Vero, una volta una piccola banda di troll provò a tendere loro un agguato e una notte un gruppo di briganti quasi li colse di sorpresa (ma, incauti, prima di ammazzare i dormienti cercarono di frugare nel Bagaglio). Hrun richiese, e ottenne, doppia paga in entrambe le occasioni.

— Se ci succede qualcosa — disse Scuotivento — allora non ci sarà nessuno per fare funzionare la scatola magica. Niente più ritratti di Hrun, capisci?

Hrun annuì, gli occhi fissi sull’ultima immagine che lo ritraeva in posa eroica, un piede su un mucchio di troll trucidati.

— Io, te e il nostro piccolo amico Duefiori, ce la intendiamo bene — dichiarò. — Così, domani, possiamo farne una di profilo, va bene?

Avvolse con cura il ritratto nella pelle di troll e lo ripose, insieme agli altri, nella sacca da sella; quindi cavalcò avanti a ispezionare la strada.

— Pare che funzioni — osservò Duefiori, colmo di ammirazione.

— Certo — disse Scuotivento. — Ciò che piace più di tutto agli eroi sono loro stessi.

— Sapete, state diventando proprio bravo a usare la scatola.

— Già.

— Allora forse vi piacerebbe avere questa. — Duefiori gli tese una immagine.

— Che cos’è?

— Oh, solo l’immagine che avete ritratta nel tempio.

Scuotivento la guardò inorridito. Era l’immagine confusa di un grosso pollice calloso e macchiato di pozioni, incorniciato da pochi brandelli di tentacoli.

— Quella è la storia della mia vita — disse stancamente.


— Hai vinto — disse il Fato, spingendo il mucchio di anime sul tavolo da gioco. Gli dei riuniti lì intorno si rilassarono. — Ci saranno altre partite — aggiunse.

La Signora sorrise guardando negli occhi che erano come due buchi nell’universo.

E poi non vi fu altro che una nuvola di polvere all’orizzonte, trascinata via dalla brezza e le rovine delle foreste. E, seduta su una pietra miliare corrosa e ricoperta di muschio, una figura nera e lacera. Aveva l’aria di una che è ingiustamente maltrattata, paventata e temuta, e che pure è l’unica amica del povero e il miglior dottore per colui che è mortalmente ferito.

Sebbene naturalmente priva di occhi, la Morte osservava scomparire Scuotivento con quello che sarebbe stato un cipiglio, se il suo volto avesse posseduto una qualche mobilità. Benché fosse sempre straordinariamente affaccendata, la Morte decise che ora aveva un hobby. C’era qualcosa nel mago che la irritava oltre misura. Tanto per cominciare, lui non rispettava gli appuntamenti.

— Eppure ti avrò, amico — disse la Morte con voce simile al tonfo del coperchio di una bara di piombo. — Vedrai che ci riuscirò.

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