Il colore della magia

Il fuoco divampava nella città gemella di Ankh-Morpork. Lambendo il Quartiere dei Maghi, le fiamme si fecero blu e verdi, coronate da scintille dell’ottavo colore, l’ottarino. Quando le lingue di fuoco attaccarono i serbatoi e i depositi di petrolio della Strada dei Mercanti, avanzarono in una serie di fontane ardenti e di esplosioni; nelle strade dei profumieri il fuoco bruciava con un aroma dolce; quando toccò i fasci di erbe secche e rare nei magazzini degli erboristi, gli uomini impazziti cominciarono a parlare con Dio.

Ormai tutto il centro di Morpork ardeva e i più stimati e ricchi cittadini di Ankh. sull’altra riva, affrontarono coraggiosi la situazione e demolirono febbrilmente i ponti. Ma già lungo i moli di Morpork le navi, cariche di granaglie, cotone, legname, con gli scafi incatramati, ardevano allegramente. E, gli ormeggi ridotti in cenere, scivolavano sul fiume Ankh. Spinte dal flusso della marea, appiccarono il fuoco ai palazzi e alle dimore lungo le sponde, simili a lucciole trascinate dalla corrente verso il mare. Le scintille trasportate dal vento lontano dal fiume ricadevano sui giardini nascosti e i granai remoti.

Una scena davvero impressionante vista dalla sommità di una scura collina distante qualche chilometro, dove due uomini la osservavano con grande interesse.

Il più alto dei due, appoggiato a una spada poco più bassa di un uomo normale, rosicchiava una coscia di pollo. Se non fosse stato per la sua aria di sveglia intelligenza, lo si sarebbe scambiato per un barbaro venuto dalle distese desertiche della Terra del Centro.

Il suo compagno, molto più basso, era avvolto da capo a piedi in uno scuro mantello. Più in là vedremo che è capace di muoversi leggero, agile come un gatto.

Durante gli ultimi venti minuti i due quasi non si erano scambiati parola, eccetto una breve e inconcludente discussione sull’origine di una esplosione particolarmente potente dovuta allo scoppio del deposito di petrolio o alla bottega di Kerible il Mago. C’era una scommessa di mezzo.

Adesso l’omone, finito di rosicchiare l’osso, lo buttò nell’erba con un sorriso malinconico. — Così spariscono tutti quei vicoletti — disse. — Mi piacevano.

— E tutte le gioiellerie — aggiunse il piccoletto. — Le gemme bruciano, mi domando? Si dice che siano simili al carbone.

— Tutto l’oro che si è fuso e scorre via nelle fogne — disse il grosso ignorandolo — e tutto il vino che ribolle nei tini.

— C’erano dei topi — osservò il compagno.

— Certo che c’erano.

— Di sicuro non era un luogo dove vivere nel pieno dell’estate.

— Hai ragione. Però non si può fare a meno di provare… un momentaneo… — L’uomo si interruppe, poi riprese con aria rasserenata: — Dovevamo al vecchio Fredor e a Crimson Leech, l’usuraio, otto pezzi d’argento.

L’altro annuì.

Rimasero zitti per un po’ mentre una nuova serie di esplosioni tracciava linee rosse in un settore fino a quel momento buio della più grande città del mondo. L’omone si scosse.

— Donnola?

— Sì?

— Mi domando chi l’ha appiccato.

Il piccolo spadaccino, conosciuto come Donnola, non disse nulla. Guardava la strada nel riverbero rosso delle fiamme. Quasi nessuno era venuto da quella parte, dato che la Porta Deosil era stata tra le prime a crollare in una pioggia di tizzoni ardenti. In quel momento però due persone si stavano avvicinando. Grazie alla sua vista particolarmente acuta nell’oscurità o nella penombra. Donnola distinse la figura di due uomini a cavallo, seguiti da quello che pareva un animale più piccolo. Indubbiamente si trattava di un ricco mercante che fuggiva con i tesori freneticamente salvati, disse Donnola al compagno, che sospirò.

— Il ruolo di briganti mal ci si addice — dichiarò il barbaro — ma, come hai detto, sono tempi duri e non abbiamo soffici letti per questa notte.

Mise mano alla spada e quando il primo cavaliere fu vicino, si fece avanti, con un braccio alzato e un sorriso stampato sul viso, inteso a rassicurare e minacciare al tempo stesso.

— Chiedo perdono, signore… — cominciò.

Il cavaliere frenò il cavallo e si tirò indietro il cappuccio. Aveva il viso chiazzato da bruciature superficiali e punteggiato da ciuffi di barba anneriti. Anche le sopracciglia non c’erano più.

— Levati di mezzo — esclamò. — Tu sei Bravd della Terra del Centro, non è vero?


Forse a questo punto la forma e la cosmologia del sistema del disco meritano una spiegazione.

Ovviamente nel disco vi sono due direzioni principali: Centripeta e Centrifuga. Ma poiché il disco ruota alla velocità di una volta ogni ottocento giorni (al fine di distribuire equamente il peso sui pachidermi che lo sostengono, secondo Reforgule di Krull), ci sono anche due direzioni minori che si chiamano Turnwise e Widdershins.

Dato che il minuscolo sole del disco segue un’orbita fissa mentre il maestoso disco gira lento al di sotto, si può facilmente dedurre che un anno del disco consiste non di quattro, ma di otto stagioni. Le estati sono determinate dal sorgere o tramontare del sole al punto più prossimo sull’Orlo e gli inverni quando albe e tramonti avvengono a circa novanta gradi sulla circonferenza.

Così, nelle terre intorno al Mare Circolare, l’anno inizia la Notte della Posta del Cinghiale, continua con Spring Prime fino al primo solstizio d’estate (Small Gods’ Eve), che è seguito da Autumn Prime e, passato Crueltide a metà anno, da Inverno Secondo (conosciuto anche come Inverno del Fuso, dato che in questa epoca il sole sorge nella direzione della rotazione). Quindi viene Primavera Seconda con Estate Ripetuta; i tre quarti dell’anno sono contrassegnati dalla notte, l’unica notte dell’anno, secondo la leggenda, in cui streghe e stregoni rimangono a letto. Poi le foglie svolazzanti e le gelide notti scorrono lente fino a Retroinverno del Fuso e un’altra Notte della Posta del Cinghiale, che si annida nel suo centro come un gioiello di ghiaccio.

Poiché il Centro non è mai riscaldato dal pallido sole, le sue terre sono perennemente strette nella morsa del ghiaccio. Al contrario l’Orlo è una regione di isole solatie e di dolci giornate.

Naturalmente la settimana del disco conta otto giorni e il suo spettro otto colori. Sul disco, otto è un numero dal significato occulto che non deve mai essere pronunciato da un mago.

La ragione per cui ciò dovrebbe essere così non è chiara, ma serve a spiegare in parte perché, sul disco, gli dei sono biasimati piuttosto che venerati.


Bravd si rese conto che la sua mossa era fallita.

— Vattene — gli intimò il cavaliere. — Non ho tempo da perdere con te, capito? — si guardò intorno e aggiunse: — Questo vale anche per il tuo compare che ama restare nell’ombra, dovunque si nasconda.

Donnola si avvicinò al cavallo e scrutò la figura lacera.

— Ma come, è Scuotivento il mago, non è vero? — esclamò con voce lieta e intanto s’imprimeva in mente le parole pronunciate dal mago nei suoi confronti e sì riprometteva di vendicarsene a tempo debito. — Mi pareva di riconoscere la voce.

Bravd sputò in terra e rinfoderò la spada. Raramente valeva la pena d’impelagarsi con i maghi, che di solito non possiedono tesori di valore.

— Parla con arroganza per essere un mago da strapazzo — borbottò.

— Tu non capisci niente — ribatté stancamente il mago. — Mi avete messo tanta paura che le gambe non mi reggono e in questo momento sono sopraffatto dal terrore. Voglio dire che quando l’avrò superato, avrò tempo di essere spaventato come si deve da voi due.

Donnola additò la città che bruciava. — Ti ci sei trovato in mezzo? — chiese.

Il mago si passò sugli occhi una mano dalla pelle ustionata. — Ero lì quando è cominciaro. Vedi quello? Là dietro? — Additò alle sue spalle la strada lungo la quale il suo compagno di viaggio stava ancora avanzando. Infatti, per cavalcare aveva adottato un metodo che consisteva nel cadere dalla sella a intervalli di pochi secondi.

— Allora? — domando Donnola.

— È lui che l’ha appiccato — rispose Scuotivento.

Bravd e Donnola guardarono l’uomo che saltellava per la strada con un piede preso nella staffa.

— È un incendiario? — disse alla fine Bravd.

— No. non esattamente. Diciamo soltanto che se si scatenasse il caos, lui sarebbe tipo da starsene in cima a una collina sotto l’uragano nella sua fradicia armatura di rame a urlare: "Tutti gli dei sono dei disgraziati". Avete da mangiare?

— C’è del pollo — disse Donnola. — In cambio di una storia.

— Lui come si chiama? — domandò Bravd che nella conversazione tendeva a restare indietro.

— Duefiori.

— Duefiori? Che nome buffo.

Scuotivento smontò da cavallo. — Non conosci nemmeno la metà della storia. Del pollo, hai detto?

— Stantio — asserì Donnola. Il mago emise un gemito.

— Questo mi ricorda — disse l’altro schioccando le dita — che c’è stata una grossa esplosione circa, oh, mezz’ora fa.

— È saltato in aria il deposito di petrolio — spiegò Scuotivento con un fremito al ricordo della pioggia di fuoco.

Donnola si girò con un sogghigno di aspettativa verso il suo compagno. Questi estrasse una moneta dal borsellino e gliela tese con un grugnito. In quel momento dalla strada venne un grido strozzato: Scuotivento non alzò gli occhi dal suo pollo.

— Una cosa che non è capace di fare: cavalcare — spiegò. Poi s’irrigidì come colpito da un pensiero improvviso, se ne uscì in un’esclamazione di terrore e si slanciò nell’oscurità. Quando tornò, l’essere chiamato Duefiori gli ciondolava sulla spalla. Era piccolo e spaurito, abbigliato in modo strano con un paio di brache fino al ginocchio e una camicia dai colori talmente stridenti da offendere perfino nella penombra l’occhio sensibile di Donnola.

— Pare che non abbia ossa rotte — annunciò Scuotivento, col respiro affannoso.

Bravd strizzò l’occhio a Donnola e andò a ispezionare quello che supponevano fosse una bestia da soma.

— Fareste meglio a scordarvelo — disse il mago senza smettere di esaminare Duefiori tuttora svenuto. — Credetemi. È protetto da un potere.

— Un incantesimo? — disse Donnola accovacciandosi.

— Nooo. Ma una magia, credo. Non del solito tipo. Voglio dire, una magia capace di trasformare in rame l’oro che però resta sempre oro; che arricchisce gli uomini distruggendo i loro beni: permette ai deboli di camminare senza paura in mezzo ai ladri: attraversa le porte più robuste per farne trapelare i tesori più protetti. Anche ora mi tiene prigioniero… così che devo seguire questo pazzo per amore o per forza e lo devo proteggere da ogni male. È una magia più forte di te, Bravd. E, credo, più astuta perfino di te. Donnola.

— Come si chiama dunque tale potente magia?

Scuotivento alzò le spalle. — Nella nostra lingua è chiamata suono-riflesso-di-spiriti-sotterranei. C’è del vino?

— Devi sapere che in fatto di magia io non ne sono sprovvisto — dichiarò Donnola. — Soltanto l’anno scorso, assistito dal mio amico qui, ho privato il famoso e potente Arcimago di Ymituri della sua bacchetta, della sua cintura di pietre lunari e della sua vita, pressappoco in quest’ordine. Non temo questo suono-riflesso-di-spiriti-sotterranei, di cui parli. Tuttavia — continuò — tu hai risvegliato il mio interesse. Forse non ti spiacerebbe dirmene di più.

Bravd guardò la sagoma per strada. Era più vicina ora e più chiara nella luce che precede l’alba. Sembrava esattamente una…

— Una cassa con le gambe? — chiese.

— Te ne parlerò — promise Scuotivento. — Ossia, se c’è del vino.

Giù nella vallata ci fu un rombo seguito da un sibilo. Qualcuno più previdente degli altri aveva ordinato di serrare le grandi chiuse del fiume nel punto in cui l’Ankh si lasciava dietro la città gemella. Impedito il suo sbocco naturale, il fiume aveva superato gli argini e si rovesciava per le strade devastate dall’incendio. Ben presto il continente di fiamme si tramutò in una serie di isole, che si fecero sempre più piccole via via che l’ondata cupa si gonfiava. Dalla città fumosa s’innalzò una nuvola ribollente di vapore a coprire le stelle. Donnola la paragonò in cuor suo a un fungo scuro.


La città gemella dell’orgogliosa Ankh e della pestilenziale Morpork, della quale tutte le altre città del tempo e dello spazio non sono che semplice riflesso, ha subito molti assalti nella sua lunga e intensa storia e sempre è risorta a nuova prosperità. Così l’incendio e l’inondazione che ne seguì e distrusse tutto ciò che era rimasto di non infiammabile aggravando i problemi dei sopravvissuti, non segnarono la sua fine. Si trattò piuttosto di un terribile segno d’interpunzione, una virgola di carbone o un punto e virgola d’amianto, in una storia ininterrotta.

Diversi giorni prima di questi avvenimenti, una nave risaliva l’Ankh con la marea mattutina e gettava l’ancora, tra molte altre, nel dedalo di moli e banchine sulla riva di Morpork. Trasportava un carico di perle rosa, noci di cocco, pomice, missive ufficiali per il Patrizio di Ankh, e poi c’era anche un uomo.

Fu proprio costui che attirò l’attenzione di Hugh il Cieco, uno dei mendicanti stazionati al molo delle Perle, che dette una gomitata nelle costole di Wa lo Zoppo e glielo indicò senza parlare.

Ritto sulla banchina, lo straniero osservava i marinai trasportare giù per la passerella un grosso baule cerchiato. Gli stava a fianco un altro uomo, evidentemente il capitano, con l’aria di uno che si aspetta di arricchirsi ben presto. Fu questo il messaggio trasmesso al cervello di Hugh il Cieco da ogni nervo del suo corpo, incline a vibrare in presenza anche di una piccola quantità di oro impuro a cinquanta passi.

Infatti, quando la cassa fu depositata sull’acciottolato, lo straniero infilò la mano in una borsa e si vide lo scintillio di una moneta. Parecchie monete. Oro. Hugh il Cieco, il corpo vibrante come una verga di nocciolo in prossimità dell’acqua, emise un sibilo tra sé e sé. Poi diede un’altra gomitata a Wa e lo spedì di fretta a zoppicare lungo il vicino viale fino al centro della città. Quando il capitano risalì sulla nave e lasciò sulla banchina il forestiero a guardarsi intorno, Hugh prese la sua ciotola da mendicante e gli si avvicinò con una smorfia accattivante. Alla sua vista, lo straniero si mise a frugare nella borsa.

— Una buona giornata per vedervi, signore — esordì Hugh che si trovò a fissare un volto con quattro occhi. Si girò per scappare.

— ! — disse lo straniero e lo afferrò per un braccio. Hugh era conscio delle sghignazzate dei marinai affacciati alla murata della nave. Ma allo stesso tempo i suoi nervi allenati percepivano l’odore irresistibile dei quattrini. S’immobilizzò. Lo straniero lo lasciò, prese a sfogliare rapido un libriccino nero sfilato dalla cintura e disse: — Salve.

— Cosa?

L’uomo lo guardò senza capire. — Salve — ripeté più forte del necessario, staccando le sillabe.

— Salve a voi — rispose Hugh.

Lo straniero fece un largo sorriso, frugò di nuovo nella borsa e questa volta tirò fuori una grossa moneta d’oro. Era leggermente più grande di una corona ankhiana da ottomila talleri, dal disegno sconosciuto ma che parlò alla mente di Hugh in una lingua che lui comprese perfettamente: "Il mio attuale padrone" diceva "ha bisogno di soccorso e di assistenza. Perché non darglieli così che tu e io possiamo andare da qualche parte a divertirci?"

Un sottile cambiamento nell’atteggiamento del mendicante mise maggiormente a suo agio lo straniero. Consultò di nuovo il libriccino.

— Desidero che m’indicate un albergo, taverna, camera d’affitto, pensione, ospizio, caravanserraglio — disse.

— Cosa? Tutti? — chiese Hugh stupito.

— ? — disse lo straniero.

Hugh si accorse che una piccola folla di pescivendole, raccoglitori di molluschi e perdigiorno li guardava con interesse.

— Sentite — disse. — Conosco una piccola taverna. Vi sta bene? — Rabbrividiva al pensiero che la moneta d’oro gli potesse sfuggire. Se la sarebbe tenuta anche se Ymor avesse confiscato tutto il resto. Secondo lui, anche la grossa cassa con gli averi del nuovo venuto doveva essere piena d’oro.

L’uomo dai quattro occhi consultò il libriccino. — Vorrei che m’indicaste un albergo, luogo di ristoro, taverna, una…

— Sì, va bene, venite — tagliò corto. Raccolse uno dei fagotti e si allontanò rapido, seguito, dopo un momento di esitazione, dallo straniero.

Un pensiero si affacciò alla mente di Hugh: portare tanto facilmente lo straniero al Tamburo Rotto era un colpo di fortuna che probabilmente gli sarebbe valso una ricompensa da parte di Ymor. Tuttavia, malgrado la sua nuova conoscenza si mostrasse assai mite, c’era in lui qualcosa che lo metteva a disagio, ma non sapeva dire cosa. Non si trattava dei due occhi supplementari, per quanto strani. C’era dell’altro. Si guardò indietro. L’ometto camminava in mezzo alla strada e girava lo sguardo intorno con espressione attenta.

Hugh vide un’altra cosa che quasi gli mozzò il fiato: la massiccia cassa di legno che aveva visto depositata sul molo, stava seguendo il suo proprietario a un’andatura appena oscillante. Lentamente, nel caso un movimento improvviso da parte sua potesse spezzare il suo fragile controllo sulle sue stesse gambe, Hugh si chinò a guardare sotto la cassa.

Vide una quantità di gambette.

Si voltò e prese a camminare con cautela verso il Tamburo Rotto.


— Strano — osservò Ymor.

— Lui aveva questa grossa cassa di legno — aggiunse Wa lo Zoppo.

— Doveva essere un mercante o una spia — disse Ymor.

Tirò via un pezzetto di carne dalla cotoletta che teneva in mano e lo gettò in aria. Non aveva ancora raggiunto l’apice della curva che una forma scura staccatasi dall’ombra nell’angolo della stanza calò rapida e afferrò il boccone a mezz’aria.

— Un mercante o una spia — ripeté Ymor. — Preferirei una spia. Una spia vale il doppio, perché c’è sempre una ricompensa da riscuotere quando la consegniamo. Che ne pensi, Giunco?

Seduto di fronte a Ymor, il secondo grande ladro di Ankh-Morpork socchiuse il suo unico occhio e alzò le spalle.

— Ho controllato la nave — rispose. — È un mercantile indipendente che ogni tanto fa la rotta delle Brown Islands. Lì gli abitanti sono soltanto dei selvaggi. Non ne sanno niente di spie e io credo che loro i mercanti se li mangino.

— Somigliava un po’ a un mercante — interloquì Wa. — Solo che non era grasso.

Si udì un fruscio d’ali alla finestra. Ymor si alzò pesantemente dalla seggiola per attraversare la stanza e ritornare con un grosso corvo. Gli staccò la capsula col messaggio fissata alla zampa e l’animale volò a raggiungere i suoi simili appollaiati sulle travi. Giunco lo guardò senza simpatia. La lealtà dei corvi di Ymor verso il loro padrone era risaputa. Infatti, malgrado lui fosse il suo braccio destro, l’unico tentativo fatto per promuoversi al rango di primo ladro di Ankh-Morpork gli era costato l’occhio sinistro. Comunque non ci aveva rimesso la vita. A Ymor non dispiaceva che un uomo avesse le sue ambizioni.

— B12 — disse Ymor, mettendo da parte la fialetta e svolgendo il minuscolo rotolino che conteneva.

— Gorrin il Gatto — disse automaticamente Giunco. — Di stazione nella torre del gong al Tempio dei Piccoli Dei.

— Dice che Hugh ha condotto il nostro straniero al Tamburo Rotto. Be’, non c’è male. Il Grosso è amico nostro, non è vero?

— Sì — confermò Giunco. — Se sa qual è il suo tornaconto.

— Tra i suoi avventori c’è stato il tuo Gorrin — continuò Ymor — perché scrive qui di una cassa con le gambe, se ho ietto correttamente questi scarabocchi. — Guardò Giunco al di sopra del foglietto.

Giunco distolse gli occhi. — Sarà punito — assicurò con voce piatta. Wa guardò l’uomo vestito di scuro appoggiato in posa indolente allo schienale della seggiola, simile a un puma su un ramo nella giungla della Terra dell’Orlo. E decise che Gorrin, in cima al Tempio dei Piccoli Dei. ben presto li avrebbe raggiunti nelle molteplici dimensioni dell’Aldilà. E doveva a Wa tre monete di rame.

Ymor appallottolò il foglietto e lo gettò in un angolo. — Penso che più tardi faremo un salto al Tamburo. Giunco. Forse assaggeremo anche quella birra che i tuoi uomini trovano tanto irresistibile.

Giunco rimase in silenzio. Essere il braccio destro di Ymor era come essere gentilmente flagellato a morte con stringhe profumate.


La città gemella di Ankh-Morpork, la prima di tutte le città che sorgono sulle rive del Mare Circolare, è naturalmente il rifugio di numerose bande, corporazioni ladresche, associazioni criminali e simili. È questa una delle ragioni delia sua ricchezza. Tra la povera gente che viveva sull’altra sponda del fiume, nel dedalo di vicoli di Morpork, moltissimi integravano le loro scarse risorse facendo qualche lavoretto per l’una o l’altra delle bande rivali. Fu così che, quando Hugh e Duefiori entrarono nel cortile del Tamburo Rotto, diversi caporioni già sapevano dell’arrivo in città di un tale che sembrava carico di ricchezze. I rapporti delle spie più attente riferivano di un libro che suggeriva allo straniero cosa dire, e di una cassa che camminava. Mai un mago capace di simili incantesimi si era avvicinato ai moli di Morpork.

Era ancora l’ora in cui la maggior parie dei cittadini si svegliava o stava per coricarsi e perciò erano in pochi al Tamburo a osservare Duefiori scendere le scale. Quando dietro a lui apparve il Bagaglio che prese a rollare disinvolto giù per i gradini, gli avventori, seduti ai rozzi tavoli di legno, come un sol uomo abbassarono sospettosi gli occhi sui loro bicchieri.

Il Grosso stava prendendo a male parole il nanetto che spazzava il bar quando il trio gli passò davanti. — Che diavolo è questo? — esclamò.

— Non parlarne — bisbigliò Hugh. Duefiori stava già sfogliando il suo libro.

— Che sta tacendo? — chiese il Grosso con le braccia penzoloni.

— Gli suggerisce cosa deve dire. So che sembra ridicolo.

— Come fa un libro a suggerire a un uomo cosa deve dire?

— Desidero trovare alloggio, una stanza, dimora, pensione, pensione completa, sono pulite le stanze, una camera con vista, qual è il prezzo per una notte? — recitò Duefiori tutto d’un fiato.

Il Grosso guardò Hugh. Il mendicante si strinse nelle spalle. — Ha un sacco di soldi — disse.

— Allora digli che fa tre monete di rame. E che quella Cosa dovrà sistemarsi nella stalla.

— ? — disse lo straniero. Il Grosso alzò tre tozze dita arrossate e il viso dell’uomo si rasserenò. Prese dal borsellino tre grosse monete d’oro e le mise in mano al taverniere.

Questi le contemplò. Rappresentavano almeno il quadruplo del valore del Tamburo Rotto, personale incluso. Guardò Hugh, ma non ne ricavò nulla. Guardò lo straniero. Deglutì.

— Sì — disse a voce troppo alta. — E poi naturalmente ci sono i pasti. Cibo. Voi mangiate. No? — Accompagnò le parole con i gesti.

— Citu? — chiese l’ometto.

— Sì. — Il Grosso cominciò a sudare. — Date un’occhiata al vostro libretto, ve lo consiglio.

L’altro aprì il libro e fece scorrere il dito su una pagina. Il Grosso, che se la cavava con la lettura, sbirciò al di sopra del volume. Cosa vide non aveva senso.

— Ciiibo — disse lo straniero. — Sì. Cotoletta, spezzatino, braciola, stufato, ragù, fricassea, carne tritata, fettina, soufflé, pallottole di pasta bollita, biancomangiare, sorbetto, dolci, gelatina, marmellata. Rigaglie. — Guardò raggiante il Grosso.

— Tutto? — chiese questi debolmente.

— È solo il suo modo di parlare — spiegò Hugh. — Non chiedermi perché. È così.

Nel locale tutti gli occhi erano puntati sullo straniero. Eccetto quelli di Scuotivcnto il Mago, seduto nell’angolo più buio con un piccolo boccale di birra.

Lui guardava il Bagaglio.

Osservate Scuotivento.

Guardatelo. Scarno, come quasi tutti i maghi, vestito di una palandrana rosso scuro con formule mistiche ricamate a lustrini ormai opachi. Certi l’avrebbero potuto scambiare per un semplice apprendista stregone fuggito dal suo maestro per sfida, noia, paura e una persistente inclinazione per l’eterosessualità. Eppure portava al collo una catena con l’ottagono di bronzo che lo rivelava alunno dell’Università Invisibile, l’alta scuola di magia il cui campus trascendente tempo-e-spazio non si trova mai precisamente Qui o Lì.

Di solito i suoi laureati sono destinati almeno alla magicità, ma Scuotivento, dopo uno sfortunato incidente, l’aveva lasciata con la conoscenza di un solo incantesimo. Sbarcava il lunario in città sfruttando il suo talento innato per le lingue. Di regola evitava il lavoro, ma aveva una mente sveglia che ricordava alle sue conoscenze un vivace roditore. E riconosceva il legno del pero sapiente, quando lo vedeva. Adesso lo stava vedendo e quasi non ci credeva.

Un arcimago, a prezzo di grande sforzo e spreco di tempo, riusciva alla fine a ottenere una piccola bacchetta ricavata dal legno del pero sapiente. Che cresceva soltanto nei luoghi dell’antica magia. C’erano probabilmente non più di due bacchette del genere in tutte le città del Mare Circolare. Una grossa cassa di quel legno… Scuotivento cercò di fare un rapido calcolo e decise che, anche se la cassa fosse stata zeppa di opali stellari e lingotti di auricolato, il contenuto non avrebbe uguagliato nemmeno un decimo del prezzo del contenitore. Una vena prese a pulsargli sulla fronte. Si alzò e si avvicinò al terzetto.

— Posso esservi di aiuto? — chiese.

— Fila, Scuotivento — ringhiò il Grosso.

— Pensavo soltanto che sarebbe stato utile rivolgersi a questo gentiluomo nella sua lingua — disse cortesemente il mago.

— Se la cava benissimo da solo — rispose l’albergatore, ma indietreggiò di qualche passo.

Scuotivento rivolse un sorriso cortese allo straniero e provò con qualche parola di chimerano. Era orgoglioso di parlarlo correntemente, ma l’altro lo guardò confuso.

— Non funziona — dichiarò Hugh. — È il libro, capisci. Gli suggerisce cosa dire. È magico.

Scuotivento tentò con l’alto borograviano, il vanglemesht, il sumtri e perfino l’oroogu nero, la lingua senza sostantivi e un solo aggettivo, che è osceno. Ogni suo tentativo incontrò un’educata incomprensione. Disperato, ricorse al pagano trob, e il viso dell’ometto si illuminò di un gran sorriso felice.

— Finalmente! — esclamò. — Mio buon signore! È davvero notevole! — (Benché nella lingua trob l’ultima parola in effetti diventasse: "Una cosa che può succedere una sola volta nella vita di una canoa ricavata diligentemente con l’accetta e il fuoco dal più alto albero di legno diamantifero che cresce nelle ben note foreste diamantifere alle pendici dei monte Awayawa, patria degli dei del fuoco o così si dice".)

— Che voleva dire? — domandò il Grosso sospettoso.

— Che ha detto l’albergatore? — chiese l’ometto.

Scuotivento deglutì. — Per piacere, Grosso, due boccali della tua birra migliore.

— Tu lo capisci?

— Oh, sicuro.

— Digli… digli che è il benvenuto. Digli che la prima colazione fa, uhm, una moneta d’oro. — Per un momento, dalla faccia del Grosso trasparì un violento conflitto interiore, poi lui aggiunse in un impeto di generosità: — Ci comprenderò anche la tua.

— Straniero — disse Scuotivento calmo — se rimanete qui, quando calerà il crepuscolo vi pugnaleranno o vi avveleneranno. Ma continuate a sorridere, oppure lo faranno a me.

— Oh, via — protestò lo straniero guardandosi intorno — questo mi sembra un posto delizioso. Una vera taverna morporkiana. Ho sentito parlare tanto di queste taverne, sapete. Tutte queste curiose vecchie travi. E anche prezzi così ragionevoli.

Scuotivento diede una rapida occhiata in giro, nel caso un incantesimo trapelato dal Quartiere dei Maghi al di là del fiume li avesse momentaneamente trasportati in un altro luogo. No… quello era ancora l’interno del Tamburo, con le pareti sporche di fumo, il pavimento un composto di paglia vecchia e insetti innominabili, la birra acida. Tentò di fare combaciare l’immagine con il termine "curioso" o piuttosto l’equivalente più approssimativo nella lingua trob, ossia: "Quel simpatico strano disegno che presentano le piccole case di corallo dei pigmei mangiatori di spugne nella penisola Orohai".

Lo sforzo gli fece girare la testa. Il visitatore continuò: — Mi chiamo Duefiori. — E gli tese la mano. Istintivamente gli altri tre abbassarono gli occhi a guardare se dentro c’era una moneta.

— Piacere di conoscervi — disse Scuotivento. — Io sono Scuotivento. Sentite, non scherzavo. Questo è un posto pericoloso.

— Bene! È ciò che volevo!

— Eh?

— Che è questa roba nei boccali?

— Questa? Birra. Grazie, Grosso. Sì, birra. Sapete, birra.

— Ah, la bevanda così tipica. Una monetina d’oro basterà per pagare, che ne dite? Non voglio arrecare offesa.

Aveva già tirato fuori a meta la moneta.

— Yarrt — gracchiò Scuotivento. — Voglio dire, no, non arrecherà offesa.

— Bene. Dite che questo è un posto pericoloso. Intendete frequentato da eroi e da avventurieri?

Scuotivento ci pensò su. — Sì — disse alla fine.

— Eccellente. Mi piacerebbe conoscerne qualcuno.

Al mago venne in mente una spiegazione. — Ah, siete venuto a ingaggiare dei mercenari ("guerrieri che combattono per la tribù che possiede più noci di cocco")?

— Oh no. Desidero semplicemente incontrarli. Così quando torno a casa posso raccontarlo.

Se Duefiori incontrava la clientela del Tamburo, pensò Scuotivento, non sarebbe più tornato a casa sua, a meno che questa si trovasse lungo il fiume e lui la superasse trascinato dalla corrente.

— Dov’è casa vostra? — domandò.

Il Grosso si era ritirato in qualche stanza sul retro, mentre Hugh li osservava sospettoso, seduto a un tavolo vicino.

— Avete sentito parlare della città di Bes Palargic?

— Be’, non sono rimasto a lungo a Trob. Sapete, ci sono soltanto passato.

— Oh no, non si trova a Trob. Parlo trob perché nei nostri porti ci sono tanti marinai trob. Bes Palargic è il porto più grande dell’Impero Agateo.

— Temo di non averlo mai sentito.

Duefiori sollevò un sopracciglio. — No? È molto grande. Si circumnavigano le Brown Islands e si viaggia per circa una settimana prima di arrivarci. State bene?

Girò in fretta intorno al tavolo per battere sulla schiena del mago.

A Scuotivento la birra era andata di traverso.

Il Continente Contrappeso!


Tre strade più in là, un vecchio lasciò cadere una moneta in una coppa colma d’acido, che girò con precauzione. Il Grosso attendeva impaziente, a disagio nella stanza resa rumorosa dai tini e dagli alambicchi ribollenti, con le pareti rivestite di scaffali contenenti forme indistinte che facevano pensare a teschi e misteriose creature impagliate.

— Allora? — domandò.

— Non si possono affrettare queste cose — rispose stizzosamente il vecchio alchimista. — Ci vuole tempo per le analisi. Ah! — Rimestò nella coppa dove la moneta giaceva in un vortice verde e fece dei calcoli su un pezzetto di pergamena: — Straordinariamente interessante — sillabò alla fine.

— È autentica?

Il vecchio spinse le labbra in fuori. — Dipende da come intendete il termine. Se volete dire: questa moneta ha lo stesso valore di… vediamo, un pezzo da cinquanta talleri, allora la risposta è no.

— Lo sapevo — gridò l’albergatore e si avviò alla porta.

— Non sono sicuro di essere stato chiaro — disse l’alchimista. Il Grosso si girò incollerito.

— Che volete dire?

— Be’, vedete, fra una cosa e l’altra, nel corso degli anni la nostra coniatura si è alquanto, diciamo, diluita. Il contenuto in oro della moneta ordinaria è soltanto un terzo del totaie, il resto è fatto d’argento, rame…

— Che vuol dire?

— Ho detto che questa moneta non è come le nostre. È oro puro.

Il Grosso se ne andò di corsa e l’alchimista rimase per un po’ a guardare il soffitto. Poi tirò fuori un sottile pezzetto di pergamena, frugò nel disordine del suo banco da lavoro per trovare una penna e scrisse un messaggio brevissimo. Andò quindi alle gabbie dove erano chiusi colombe bianche, galletti neri e altri animali da laboratorio. Tolse da una un ratto dal pelo lucente, arrotolò la pergamena nella fiala fissata a una delle zampe posteriori, e lo lasciò andare. Per un momento l’animale fiutò in giro e poi sparì in un buco nella parete di fondo.

Circa alla stessa ora una chiromante fino allora sfortunata, che viveva dall’altra parte dell’isolato, guardò per caso nella sua sfera di cristallo, e se ne uscì in un gridolino. Tempo un’ora aveva venduto i suoi gioielli, corredo magico, la maggior parte dei vestiti e quasi tutti gli altri suoi averi impossibili da trasportare sul cavallo più veloce che le riuscì di acquistare. Il fatto che più tardi, quando la sua casa crollò in fiamme, lei perì in una frana improvvisa nelle montagne Morpork dimostra che anche la Morte è dotata di senso dell’umorismo.

All’incirca allo stesso momento in cui il ratto scompariva nel labirinto di percorsi sotterranei, ubbidendo a un antico istinto, il Patrizio di Ankh-Morpork prendeva in mano le lettere consegnate quella mattina a mezzo di un albatro. Guardò pensieroso ancora una volta quella in cima al pacco e fece venire il capo delle spie.

Al Tamburo Rotto, Scuotivento ascoltava a bocca aperta il racconto di Duefiori.

— Così ho deciso di vedere da me — diceva l’ometto. — Mi è costato otto anni di risparmi. Ma ne è valsa la pena fino all’ultimo mezzo rhinu. Voglio dire, eccomi qua a Ankh-Morpork, famosa nelle ballate e nei racconti. Nelle vie che hanno conosciuto il passo di Hrun il Barbaro, e Bravd della Terra del Centro e Donnola… È tutto proprio come l’immaginavo, sapete.

Il viso di Scuotivento era una maschera di orrore affascinato.

— Proprio non sopportavo più di rimanere laggiù a Bes Palargic — continuò gaio Duefiori. — Tutto il giorno seduto a incolonnare cifre e alla fine aspettarsi soltanto la pensione… che cosa c’è di romantico in questo? Mi sono detto: Duefiori, adesso o mai più. Non devi soltanto ascoltare i racconti. Puoi andarci. È tempo di smettere di bighellonare per i moli a sentire i racconti dei marinai. Così ho compilato un dizionarietto e ho comprato un biglietto sulla prima nave diretta alle Brown Islands.

— Senza guardie? — mormorò il mago.

— No. Perché? Vale la pena di rubare ciò che ho?

Scuotivento tossì. — Voi avete, ehm, dell’oro.

— Solo duemila rhinu. Una somma appena sufficiente a mantenere un uomo più di un mese o due. A casa, cioè. Suppongo che qui durerebbe un po’ di più.

— Un rhinu sarebbe una di quelle grosse monete d’oro?

— Sì. — Duefiori guardò preoccupato il mago al di sopra delle sue strane lenti. — Credete che duemila basteranno?

— Yarrt — gracchiò Scuotivento. — Voglio dire, sì… bastano.

— Bene.

— Uhm. Sono tutti ricchi come voi nell’Impero Agateo?

— Io ricco? Benedetto, che cosa vi ha messo in testa una simile idea? Sono soltanto un povero impiegato! Secondo voi, ho pagato troppo l’albergatore? — aggiunse.

— Uh, si sarebbe accontentato di meno — concesse Scuotivento.

— Ah, la prossima volta mi regolerò meglio. Vedo che ho un sacco da imparare. Mi viene un’idea. Scuotivento, acconsentireste a essere impiegato come, non so, forse la parola "guida" è adatta alle circostanze? Penso di essere in grado di pagarvi un rhinu al giorno.

Scuotivento aprì la bocca per rispondere ma le parole gli si fermarono in gola, riluttanti a venire fuori in un mondo che stava rapidamente impazzendo. Duefiori arrossì.

— Vi ho offeso. È stato impertinente da parte mia rivolgere un simile invito a un professionista come voi. Senza dubbio avete molti progetti di cui occuparvi… opere di alta magia…

— No — rispose debolmente Scuotivento. — Non in questo momento. Un rhinu, avete detto? Uno al giorno? Tutti i giorni?

— Credo che, date le circostanze, dovrei fare un rhinu e mezzo al giorno. Più le spese correnti, naturalmente.

Il mago si mostrò all’altezza della situazione. — Andrà benissimo — assicurò. — Magnifico.

Duefiori cavò di tasca un grosso oggetto rotondo d’oro, lo guardò un attimo e lo ripose, senza lasciare a Scuotivento il tempo di dargli una buona occhiata.

— Credo che adesso mi piacerebbe riposarmi un po’ — disse. — La traversata è stata lunga. E poi forse sarete così gentile da tornare a mezzogiorno; potremo visitare la città.

— Sicuro.

— Allora, per piacere, chiedete all’albergatore di mostrarmi la mia camera.

Scuotivento ubbidì e guardò il Grosso arrivare al galoppo da una stanza sul retro per condurre l’ospite su per la scala dietro il bar. Pochi secondi dopo il Bagaglio si alzò e si avviò dietro a loro.

Il mago allora abbassò gli occhi sulle sei grosse monete che teneva in mano. Duefiori aveva insistito per pagargli in anticipo i primi quattro giorni.

Hugh gli fece un cenno con la testa e sorrise incoraggiante, ma in risposta non si ebbe che una smorfia minacciosa.

Come studente di magia Scuotivento non aveva mai preso buoni voti nella precognizione. Ma adesso nel cervello gli pulsavano circuiti insoliti ed era come se il futuro fosse impresso a vividi colori nelle sue pupille. Sentiva un prurito nelle scapole. La cosa ragionevole da farsi, lo sapeva, era comprare un cavallo. Sarebbe dovuto essere un animale veloce, costoso. Tra parentesi, nessuno dei mercanti di cavalli di sua conoscenza era abbastanza ricco da dare il resto di quasi un’oncia d’oro.

Le altre cinque monete gli avrebbero permesso di avviare una proficua professione a distanza di sicurezza, diciamo quattrocento chilometri. Questa sarebbe stata la cosa ragionevole da farsi.

Ma che sarebbe successo a Duefiori, tutto solo in una città dove perfino gli scarafaggi possedevano un istinto infallibile per l’oro?

Un uomo sarebbe dovuto essere un vero mascalzone per abbandonarlo.


Il Patrizio di Ankh-Morpork sorrise, ma solo con le labbra.

— La porta del Centro, hai detto? — mormorò.

Il capitano delle guardie si mise sull’attenti. — Sì, mio signore. Per fermarlo, abbiamo dovuto sparare al cavallo.

— Ciò che ti porta qui per direttissima — disse il Patrizio rivolto a Scuotivento. Cosa hai da dire a tua discolpa?

Correva voce che un’intera ala del palazzo del Patrizio fosse occupata da impiegati che trascorrevano le giornate a collazionare e aggiornare tutte le informazioni raccolte dal sistema spionistico estremamente sofisticato del loro padrone. Scuotivento non ne dubitava. Lancio un’occhiata alla balconata che correva lungo un lato della sala delle udienze. Una corsa improvvisa, un salto agile… una grandine di frecce di balestra. Rabbrividì.

Il Patrizio appoggiò il mento sulla mano inanellata e fissò il mago con i suoi occhi piccoli e duri come i grani di una collana.

— Vediamo — disse. — Spergiuro, furto di un cavallo, moneta falsa… Sì, credo che ti aspetti l’Arena. Scuotivento.

Questo era troppo.

— Non ho rubalo il cavallo. L’ho comprato onestamente.

— Ma con una moneta falsa. Tecnicamente, vedi, si tratta di furto.

— Ma quei rhinu sono di oro puro!

Rhinu? — Il Patrizio ne fece girare uno tra le sue dita tozze. — E così che si chiamano? interessante. Ma. come hai osservato tu stesso, non assomigliano molto ai talleri…

— Be’, naturalmente non sono…

— Ah, allora l’ammetti?

Scuotivento aprì la bocca per parlare, ci ripensò e la richiuse.

— Proprio così. E per di più c’è anche l’onta morale che accompagna il vigliacco tradimento di un visitatore nel nostro paese. Vergogna. Scuotivento.

Il Patrizio fece un gesto vago con la mano. Le guardie, alle spalle del mago, indietreggiarono e il capitano si spostò a destra di qualche passo. Scuotivento a un tratto si sentì molto solo.

Si dice che quando un mago è vicino a morire, la Morte stessa si faccia avanti a reclamarlo (invece di delegare il compito, come di solito, a un subordinato. Malattie o Fame). Scuotivento cercò nervosamente con gli occhi un’alta figura in nero (i maghi, anche quelli falliti, oltre alla bacchetta e al cappello a cono, hanno nelle pupille i minuscoli ottagoni che gli permettono di guardare dentro il distante ottarino, il colore base di cui tutti gli altri sono soltanto le pallide ombre che si riflettono nel normale spazio quadridimensionale. Si dice sia una specie di porpora fluorescente giallo-verdastro). Era un’ombra guizzante quella che vedeva nell’angolo?

— Naturalmente potrei mostrarmi misericordioso — dichiarò il Patrizio.

L’ombra scomparve. Scuotivento alzò lo sguardo, un’espressione di folle speranza sul volto.

— Sì? — disse.

Di nuovo il Patrizio fece un gesto. Le guardie lasciarono la sala.

— Avvicinati, Scuotivento — gli ordinò. Indicò una ciotola di cibi appetitosi su un basso tavolo di onice vicino al trono. — Gradiresti una medusa candita? No?

— Uhm, no — rispose Scuotivento.

— Ora voglio che ascolti molto attentamente ciò che sto per dirti — gli comunicò il Patrizio in tono amabile — altrimenti morirai. In modo interessante. E lento. Per piacere, smetti di agitarti. Dato che sei un mago, tu sai di certo che viviamo su un mondo a forma di disco? E che si dice esista, sul bordo esterno, un continente il quale, sebbene piccolo, eguaglia in peso tutte le altre grandi terre di questo emicerchio. E che, secondo un’antica leggenda, ciò è dovuto al fatto che sia composto in grande misura d’oro?

Scuotivento annuì. Chi non aveva sentito parlare del Continente Contrappeso? Certi marinai credevano perfino alle favole dell’infanzia e facevano vela alla sua ricerca. Naturalmente, tornavano a mani vuote o non tornavano affatto. Probabilmente erano stati divorati da tartarughe giganti, come sostenevano i marinai più seri. Perché di sicuro il Continente Contrappeso non era altro che un mito solare.

— Il Continente esiste, naturalmente — affermò il Patrizio. — Anche se non è fatto d’oro, è vero che lì l’oro è un metallo molto comune. La maggior parte della massa consiste di vasti e profondi giacimenti di ottironi sotto la crosta. Pertanto sarà chiaro a una mente penetrante come la tua che l’esistenza del Continente Contrappeso rappresenta una minaccia mortale per il nostro popolo… — Fece una pausa. Scuotivento l’ascoltava a bocca aperta. Sospirò e aggiunse: — Possibile mai che non mi capisci?

— Yarrg. — Scuotivento deglutì e si passò la lingua sulle labbra. — Voglio dire, no… Voglio dire… be’, l’oro…

— Capisco. Forse pensi che sarebbe magnifico andare al Continente Contrappeso e riportarne una nave carica d’oro?

Scuotivento sospettò che gli si stesse tendendo un tranello e azzardò: — Sì?

— E se ogni uomo sulle rive del Mare Circolare possedesse una montagna d’oro tutta sua? Sarebbe un bene? Cosa accadrebbe? Rifletti.

Scuotivento aggrottò la fronte. Pensava. — Saremmo tutti ricchi?

Il calo di temperatura che accolse la sua osservazione gli fece capire che non era quella giusta.

— Tanto vale che ti dica, Scuotivento, che esiste un certo contatto tra i Signori del Mare Circolare e l’imperatore dell’Impero Agateo, come è chiamato. Un contatto molto vago. Abbiamo poco in comune: noi non possediamo nulla che loro vogliono e loro non hanno nulla che noi possiamo permetterci. È un impero antico, Scuotivento. Antico, astuto, crudele e molto, molto ricco. Così ci scambiamo saluti fraterni con la posta a mezzo albatro. A intervalli non frequenti.

"Una di queste lettere è arrivata stamattina. Sembra che uno dei soggetti dell’impero si sia messo in testa di visitare la nostra città. Per guardarla. Soltanto un pazzo si sottometterebbe a tutte le privazioni di una traversata dell’oceano Turnwise per il semplice gusto di guardare qualcosa. Comunque… L’uomo è sbarcato stamattina. Avrebbe potuto incontrare un grande eroe o il più astuto dei ladri o un grande saggio. Ha incontrato te. Ti ha assunto come guida. Scuotivento, tu farai da guida a questo spettatore, a questo Duefiori. Baderai a che se ne torni a casa con un buon rapporto sulla nostra piccola patria. Che hai da dire in proposito?"

— Ehm. Grazie, mio signore — rispose Scuotivento avvilito.

— C’è anche un altro punto. Sarebbe una tragedia se al nostro piccolo visitatore accadesse qualcosa di spiacevole. Per esempio, sarebbe spaventoso se dovesse morire. Spaventoso per il paese tutto, perché l’Impero Agateo veglia sui suoi e potrebbe certamente annientarci con un cenno. Un semplice cenno. E questo sarebbe spaventoso per te, Scuotivento. Nelle settimane precedenti l’arrivo dell’imponente flotta mercenaria dell’Impero, certi miei servitori si occuperebbero della tua persona nella speranza che all’arrivo dei capitani assetati di vendetta, la loro collera si mitigasse alla vista del tuo corpo ancora vivo. Ci sono incantesimi che possono impedire alla vita di abbandonare un corpo, per quanto malridotto e… Vedo dalla tua espressione che cominci a capire?

— Yarrg.

— Prego?

— Sì, mio signore. Ci penserò, ehm, voglio dire cercherò di farlo. Voglio dire, be’, veglierò su di lui e baderò che non gli sia fatto del male. — "E dopo mi troverò un lavoro come giocoliere con le palle di neve all’inferno", aggiunse con amarezza nel segreto della sua mente.

— Splendido! So che tu e Duefiori siete già in ottimi termini. Un inizio eccellente. Quando tornerà sano e salvo in patria, non mi troverai ingrato. Probabilmente lascerò perfino cadere le accuse contro di te. Grazie, Scuotivento. Puoi andare.

Scuotivento decise che era preferibile non chiedere la restituzione dei suoi cinque rhinu. Indietreggiò con circospezione.

— Oh, un’altra cosa — esclamò il Patrizio mentre lui cercava a tastoni la maniglia della porta.

— Sì, mio signore? — Il mago si sentì mancare il cuore.

— Sono sicuro che non cercherai di sottrarti ai tuoi obblighi scappando dalla città. A mio giudizio, sei un cittadino nato e cresciuto. Ma puoi stare certo che al cader della notte i signori delle altre città saranno messi al corrente di queste condizioni.

— Vi assicuro, mio signore, che un simile pensiero non mi è mai passato per la mente.

— Davvero? Allora, se fossi in te, denuncerei la mia faccia per calunnia.


Scuotivento raggiunse di corsa il Tamburo Rotto, giusto in tempo per andare a sbattere contro un uomo che ne usciva all’indietro, a precipizio. La fretta dello straniero era in parte giustificata dalla lancia piantata nel suo petto. Con un rantolo cadde stecchito ai piedi del mago.

Scuotivento sbirciò dentro la soglia e si ritirò con un balzo mentre una pesante ascia gli passava accanto ronzando come una pernice. Probabilmente si era trattato di un lancio fortuito, come accertò il nostro amico con un’altra occhiata prudente. Nell’interno buio del Tamburo era in corso una rissa accanita e un bel numero di contendenti giaceva a pezzi in terra, come gli confermò una terza e più lunga occhiata. Scuotivento si tirò indietro mentre uno sgabello lanciato con violenza gli passava accanto per andare a sfasciarsi dall’altra parte della strada. Quindi il mago si tuffò nel locale.

Indossava una tunica scura, resa ancora più scura dal continuo uso e dalle lavature irregolari. Nella semiluce e nel calore della zuffa, nessuno notò l’ombra che si muoveva a fatica da un tavolo all’altro. A un certo punto uno dei combattenti barcollò all’indietro e calpestò quelle che gli sembrarono delle dita. Si sentì mordere la caviglia. Dette in uno strillo acuto e abbassò la guardia quel tanto da permettere a una spada, maneggiata da un avversario sorpreso, d’infilzarlo.

Scuotivento raggiunse la scala. Si succhiava la mano calpestata e correva in modo curioso, piegato in due. La freccia di una balestra si conficcò nella balaustra poco più in alto della sua testa e lui ebbe un gemito. Fece le scale tutte d’un fiato, aspettandosi di ricevere a ogni momento un altro colpo più preciso.

Giunto nel corridoio si fermò a riprendere fiato e vide che il pavimento davanti a lui era seminato di cadaveri. Un uomo grosso, con una barba nera e una spada insanguinata in mano, stava provando la maniglia di una porta.

— Ehi! — gridò Scuotivento. L’uomo si guardò intorno e poi, quasi automaticamente, si sfilò un coltello dalla bandoliera e lo lanciò. Scuotivento si abbassò. Con un urlo, l’uomo della balestra alle sue spalle che stava prendendo la mira, lasciò cadere l’arma e si portò le mani alla gola.

Intanto l’omaccione stava già afferrando un altro coltello. Scuotivento si guardò freneticamente intorno e poi, ricorrendo a un’improvvisazione disperata, assunse una posa da mago e, con la mano sollevata, pronunciò: — Asoniti! Kyorucha! Beazleblor!

L’uomo esitò, girando nervosamente lo sguardo a destra e a sinistra in attesa della magia. La conclusione che non ce ne sarebbe stata nessuna lo colpì nello stesso momento in cui Scuotivento si buttò in avanti e gli sferrò un calcio all’inguine.

Quello si piegò in due urlando e il mago spalancò la porta, balzò dentro, la richiuse e ci si appoggiò contro, con il respiro affannoso.

Dentro regnava la tranquillità. C’era Duefiori che dormiva pacifico sul letto basso. E lì, ai piedi del letto, c’era il Bagaglio.

Scuotivento fece qualche passo in avanti, spinto dalla cupidigia, come se scivolasse sulle rotelle. La cassa era aperta. Dentro c’erano delle borse e in una il mago scorse lo scintillio dell’oro. Per un momento l’avidità ebbe la meglio sulla prudenza e lui allungò la mano guardingo… ma a che scopo? Non sarebbe mai vissuto tanto da goderselo. Ritirò la mano a malincuore e vide esterrefatto un lieve tremore nel coperchio aperto della cassa. Non si era spostato leggermente, come mosso dal vento?

Scuotivento si guardò prima le dita e poi guardò il coperchio. Era pesante e cerchiato di ottone. Adesso non si muoveva.

Quale vento?

— Scuotivento!

Duefiori balzò giù dal letto. Il mago fece un salto indietro e si sforzò di sorridere.

— Mio caro, giusto in tempo! Faremo colazione e poi sono sicuro che avete preparato un magnifico programma per questo pomeriggio!

— Ehm…

— Splendido!

Scuotivento respirò a fondo.

— Sentite — cominciò disperato — andiamo a mangiare da un’altra parte. Dabbasso c’è stata una specie di battaglia.

— Una rissa da taverna? Perché non mi avete svegliato?

— Be’, vedete. Io… cosa?

— Credevo di essermi spiegato stamane. Scuotivento. Io voglio vedere la vera vita morporkiana, il mercato degli schiavi, le Fosse delle Baldracche, il Tempio dei Piccoli Dei, la corporazione dei mendicanti… e un’autentica rissa da taverna. — Nella voce di Duefiori si avvertì un accenno di sospetto. — Voi qui in città le avete queste cose, vero? Sapete, quelli che dondolano dai lampadari, duelli sui tavoli, quel genere di avventure che capitano sempre a Bravd il Barbaro e a Donnola. Sapete… eccitazione.

Scuotivento si sedette pesantemente sul letto. — Voi volete vedere un combattimento?

— Sì. Cosa c’è che non va?

— Tanto per cominciare, le persone si fanno male.

— Oh, non intendevo che noi si dovesse partecipare. Desidero soltanto vederne uno, ecco tutto. E certi dei vostri famosi eroi. Ne avete, non è vero? Non sono tutte chiacchiere di marinai? — Adesso, con sommo stupore del mago, Duefiori sembrava quasi supplichevole.

— Oh sì, ce li abbiamo — affermò Scuotivento. Se li raffigurò e rabbrividì al solo pensiero.

Prima o poi tutti gli eroi del Mare Circolare passavano sotto le porte di Ankh-Morpork. La maggior parte di loro proveniva dalle tribù barbare più vicine al Centro ghiacciato, che esercitava una specie di commercio esportando eroi. Quasi tutti possedevano spade dotate di magia elementare le cui irrepresse frequenze sul piano astrale rovinavano qualsiasi delicato esperimento di magia applicata per chilometri all’intorno. Ma Scuotivento non ce l’aveva con loro per questa ragione. Avendo abbandonato i suoi studi di magia, non gli importava che bastasse l’apparizione di un eroe alle porte della città per fare esplodere le storte e materializzare i demoni in tutto il Quartiere Magico. No, ciò che non gli piaceva degli eroi era che da sobri fossero sempre sull’orlo del suicidio e da sbronzi su quello dell’omicidio. E poi erano troppi. Alcuni dei terreni vicini alla città, più adatti all’avventura cavalieresca, durante la stagione diventavano una vera babele. Si parlava di organizzare dei turni.

Scuotivento si grattò il naso. I soli eroi di suo gradimento erano Bravd e Donnola, in quel momento fuori città, e Hrun il Barbaro. Quest’ultimo, per gli standard del Centro, era praticamente un letterato perché poteva pensare senza muovere le labbra. Si diceva che stesse vagando per Turnwise.

— Sentite — disse. — Avete mai conosciuto un barbaro?

Duefiori scosse la testa.

— Lo immaginavo — riprese Scuotivento. — Bene, sono…

Dalla strada venne un trapestio e nuove grida dal locale, seguite da una confusione per le scale. La porta fu spalancata prima che Scuotivento facesse in tempo a fuggire dalla finestra. Ma invece del pazzo accecato dalla sete dell’oro che si aspettava di vedere, si trovò davanti il rosso faccione rotondo di un sergente della Guardia. Respirò di nuovo. Naturale. La Guardia era sempre attenta a non intervenire troppo presto in una rissa, se le probabilità non erano decisamente favorevoli. Il mestiere comportava una pensione e pertanto attirava il tipo d’uomo cauto e previdente.

Il sergente lanciò un’occhiataccia a Scuotivento e si rivolse con interesse a Duefiori. — Tutto bene qui? — domandò.

— Benissimo — rispose Scuotivento. — Siete stato trattenuto?

Il sergente lo ignorò. — È questo lo straniero? — chiese.

— Stavamo giusto uscendo — dichiarò Scuotivento e soggiunse in trob: — Duefiori, penso che dovremmo pranzare altrove. Conosco diversi posti.

Uscì nel corridoio con aria indifferente. Duefiori lo seguì e pochi secondi dopo si udì un suono strozzato provenire dal sergente che aveva visto la cassa chiudere di colpo il coperchio, alzarsi, stiracchiarsi e incamminarsi dietro a loro.

Le guardie stavano trascinando fuori dal locale i cadaveri. I superstiti non c’erano. Ci aveva pensato la Guardia dando loro tutto il tempo di scappare dalla porta sul retro. Un compromesso tra prudenza e giustizia che conveniva a tutte le parti.

— Chi sono questi uomini? — domandò Duefiori.

— Oh, sapete, solo degli uomini — rispose Scuotivento. Senza pensarci, una parte del suo cervello che non aveva niente da fare, ebbe la meglio sulla bocca e aggiunse: — In effetti, sono eroi.

— Davvero?

Quando un piede è intrappolato nel Grigio Miasma di H’rull è molto più facile entrarci dentro e affondare piuttosto che prolungare la lotta. Scuotivento si lasciò andare.

— Sì, quello laggiù è Eric Braccioforte, l’altro è Black Zenell…

— È qui Hrun il Barbaro? — chiese Duefiori scrutando intorno a sé. Il mago prese fiato.

— È lì dietro a noi.

L’enormità della bugia era tale che le sue increspature si propagarono a uno dei piani astrali inferiori fino al Quartiere Magico al di là del fiume; lì acquistò una tremenda velocità dalla vasta onda di energia che sempre si librava sulla zona e rimbalzò violentemente attraverso il Mare Circolare.

Un ipertono raggiunse lo stesso Hrun, che in quel momento lottava contro una coppia di gnoll su un alto costone delle montagne Caderack, e gli causò un attimo d’inspiegabile disagio.

Nel frattempo Duefiori aveva aperto il coperchio del Bagaglio e si affrettava a tirare fuori un pesante cubo nero.

— È fantastico! — esclamò. — A casa non ci crederanno mai!

— Che va dicendo? — chiese dubbioso il sergente.

— È felice che ci abbiate salvato — rispose Scuotivento. Guardava con l’angolo dell’occhio la scatola nera, quasi si aspettasse di vederla esplodere o emettere strani motivi musicali.

— Ah — disse il sergente. Anche lui fissava la scatola.

Duefiori rivolse ai due un sorriso radioso. — Desidero fissare un ricordo dell’avvenimento — spiegò. — Per piacere, volete chiedere loro di andare vicino alla finestra? Ci vorrà un momento. E, ehm, Scuotivento?

— Sì?

Duefiori si alzò in punta di piedi e bisbigliò: — Sono sicuro che sapete che cosa è questa, vero?

Scuotivento abbassò gli occhi sulla scatola. Da un lato, sporgeva nel centro un occhio di vetro rotondo e dall’altro una levetta.

— Non proprio — confessò.

— È un arnese che permette di fissare rapidamente un’immagine. Si tratta di un’invenzione nuova. Ne vado piuttosto orgoglioso, ma vedete, non credo che questi signori… be’, voglio dire potrebbero… intimorirsi? Potreste spiegarglielo. Naturalmente li rimborserò per il loro tempo.

— Lui ha una scatola con un demone dentro che disegna le immagini — disse brusco Scuotivento. — Fate quello che vi dice questo matto e lui vi darà dell’oro.

La Guardia sorrise nervosamente.

— Scuotivento, vorrei anche voi nel quadro. Così va bene. — Duefiori tirò fuori il disco d’oro che il mago aveva già visto, lo esaminò un momento e borbottò: — Trenta secondi dovrebbero bastare. — Poi aggiunse a voce alta: — Sorridete, prego!

— Sorridete! — ripeté nervosamente Scuotivento. Dalla scatola venne un ronzio.

— Ecco fatto!


Il secondo albatro volò alto sopra il disco, così in alto che i suoi mobili occhietti gialli potevano vedere l’intero mondo e il vasto, scintillante, avvolgente Mare Circolare. A una delle sue zampe era fissata una capsula contenente un messaggio. Più in basso, celato dalle nuvole, l’uccello che aveva portato il primo messaggio al Patrizio di Ankh-Morpork faceva ritorno a casa battendo dolcemente le ali.


Scuotivento, stupefatto, guardò il quadratino di vetro. Eccolo lì, proprio lui, una figurina dai colori perfetti, in piedi davanti a un gruppo di guardie dalla facce congelate in una smorfia di terrore. Un mormorio di spavento si levò dagli uomini intorno a lui quando allungarono il collo per sbirciare al di sopra della sua spalla.

Con una smorfia divertita, Duefiori estrasse una manciata di monetine che Scuotivento riconosceva ormai come un quarto di rhinu. Strizzò l’occhio al mago.

— Ho avuto gli stessi problemi quando mi sono fermato alle Brown Islands — disse. — Credevano che l’iconografo rubasse un po’ delle loro anime. Ridicolo, no?

— Yarrg — disse Scuotivento e poi aggiunse, tanto per dire qualche cosa: — Però non credo che mi somigli molto.

Duefiori ignorò l’osservazione e dichiarò invece: — È facile da fare funzionare. Guardate, c’è solo da premere questo bottone. L’iconografo fa il resto. Adesso, mi metto lì in piedi vicino a Hrun, e voi potete scattare l’immagine.

Le monete calmarono l’agitazione degli uomini come solo l’oro sa fare. Mezzo minuto dopo, con grande stupore di Scuotivento, lui teneva in mano un piccolo ritratto su vetro di Duefiori che impugnava uno spadone dentellato e sorrideva come se tutti i suoi sogni si fossero avverati.


Pranzarono a una piccola trattoria vicino al ponte Brass, con il Bagaglio sistemato sotto il tavolo. Il cibo e il vino, assai superiori a quelli che normalmente si permetteva Scuotivento, contribuirono molto a rilassarlo. Decise che le prospettive non erano poi così malvage. Un pizzico d’inventiva e un po’ di cervello, ecco tutto ciò che era necessario.

Anche Duefiori sembrava riflettere. Fissando la sua coppa di vino disse: — Suppongo che da queste parti le risse da taverna siano piuttosto comuni?

— Oh, già.

— Senza dubbio gli impianti e il mobilio vengono danneggiati?

— Cosa?… Oh, capisco. Volete dire le panche e roba varia. Sì, suppongo di sì.

— Gli albergatori devono esserne sconvolti.

— In realtà non ci ho mai pensato. Ritengo che deve essere uno dei rischi del mestiere.

Duefiori lo fissò pensoso. — In questo caso potrei rendermi utile. Io mi occupo di rischi. Dico, questo cibo è un po’ unto, non vi pare?

— Avevate chiesto di gustare dei piatti tipici di Morpork — ribatté Scuotivento. — Che dicevate dei rischi?

— Oh, so tutto sui rischi. Sono il mio mestiere.

— È quanto avevate detto. Non ci ho creduto nemmeno la prima volta.

— Oh, io non corro rischi. Rovesciare dell’inchiostro è la cosa più eccellente che mi sia accaduta. Io valuto i rischi. Giorno dopo giorno. Sapete quante sono le probabilità che una casa prenda fuoco nel quartiere del Triangolo Rosso a Bes Palargic? Cinquecentotrentotto a uno. L’ho calcolato — affermò con una nota di orgoglio.

— A quale… — Scuotivento cercò di trattenere un rutto. — A quale scopo?

— Per… — Duefiori tacque. — Non sono capace di dirlo in trob. Non credo che i trob abbiano un vocabolo per esprimerlo. Nella mia lingua lo chiamano… — pronunciò una sfilza di sillabe bizzarre.

Assi-cura-zione - Scuotivento ripeté. È una parola strana. Che significa?

— Be’, supponete di avere una nave carica, diciamo, di lingotti d’oro. Potrebbe trovarsi in mezzo a un uragano o potrebbe essere catturata dai pirati. Voi non volete che accada, così stipulate una assi-cura-zione.

"Io calcolo le probabilità che il carico vada perso, basandomi sui bollettini meteorologici e gli atti di pirateria degli ultimi venti anni, poi ci aggiungo un tot, poi voi mi pagate una certa somma di denaro in base a quelle probabilità…"

— …e il tot — disse Scuotivento agitando un dito con aria solenne.

— …e poi, se il carico va perso, io vi rimborso.

— Rimborso?

— Vi pago il valore del carico — spiegò pazientemente Duefiori.

— Ci sono. È come una scommessa, vero?

— Un azzardo? In un certo senso, sì.

— E voi ci guadagnate su questo… come-si-chiama?

— Certo, si ricava un profitto sull’investimento.

Avviluppato dal calore del vino, Scuotivento si provò a tradurre il tutto in termini del Mare Circolare.

— Non credo di capirci — dichiarò alla fine, guardando pigramente il mondo girare. — La magia, invece. La magia la capisco.

Duefiori ridacchiò. — La magia è una cosa e il suono-riflesso-dispiriti-sotterranei è un’altra.

— Il che?

— Che cosa?

— Quella buffa parola che avete usato — disse impaziente Scuotivento.

Suono-riflesso-di-spiriti-sotterranei.

— Mai sentito.

Duefiori cercò di spiegarglielo.

Scuotivento cercò di capire.


Nel lungo pomeriggio visitarono la città. Duefiori andava avanti, portando al collo con una cinghia la strana scatola a immagini. Scuotivento si trascinava appresso: ogni tanto si lamentava e controllava se aveva ancora la testa sul collo.

Qualche cittadino li seguiva. In una città dove il ciclo quotidiano era punteggiato da esecuzioni pubbliche, duelli, combattimenti, rivalità tra maghi, gli abitanti avevano portato all’apice deila perfezione la professione di spettatore interessato. Tutti, senza eccezione, erano provetti guardoni. In ogni caso. Duefiori non si stancava di ritrarre la gente impegnata in attività tipiche (come le chiamava lui). E dato che un quarto di rhinu cambiava mano "per il loro disturbo", ben presto lo seguì una coda di attoniti e felici nouveaux riches, nel caso quel matto facesse venire giù una pioggia d’oro.

Al Tempio di Sek Settemani, i sacerdoti e gli artefici del trapianto rituale del cuore, riunitisi in fretta, convennero che la statua di Sek alta cento spanne era troppo sacra per farne un’immagine magica. Ma il pagamento di due rhinu li trovò sorprendentemente d’accordo sul fatto che forse Egli non era poi tanto sacro.

Una prolungata sessione alle Fosse delle Baldracche si concluse con una quantità di immagini pittoresche e istruttive. Scuotivento se ne nascose addosso un certo numero per potersele contemplare a suo agio in privato. Via via che il suo cervello si liberava dai fumi dell’alcol, il mago si mise seriamente a riflettere sul funzionamento dell’iconografo.

Anche un mago fallito sapeva che alcune sostanze sono sensibili alla luce. Forse le lastre di vetro erano trattate con un arcano procedimento che congelava la luce che le attraversava? Doveva essere qualcosa del genere. Spesso Scuotivento sospettava ci fosse qualcosa, da qualche parte, meglio della magia. E di solito rimaneva deluso.

Comunque, presto approfittò di ogni occasione per azionare la scatola. Duefiori glielo lasciava fare con grande piacere, perché così l’ometto compariva nelle immagini. Fu a questo punto che Scuotivento notò qualcosa di strano. Il possesso della scatola conferiva una sorta di potere a chi la maneggiava. Tutti, infatti, davanti a quell’ipnotico occhio di vetro, ubbidivano remissivi agli ordini anche i più perentori a proposito della posa e dell’espressione.

Il disastro si produsse mentre lui era così impegnato in Piazza delle Lune Rotte.

Duefiori si era messo in posa accanto a uno sbalordito venditore d’amuleti, sotto lo sguardo attento della folla dei suoi nuovi ammiratori in attesa di spassarsela per qualche sua lunatica manifestazione.

Scuotivento poggiò un ginocchio a terra per meglio inquadrare l’immagine e premette la levetta incantata.

La scatola disse: — Non serve. Ho finito il rosa.

Davanti ai suoi occhi si aprì uno sportello mai notato fino ad allora. Un piccolo umanoide, verde e orrendamente bitorzoluto, si sporse fuori, additò una tavolozza di colori che reggeva in una mano artigliata e gli gridò: — Niente rosa. Vedi? Non serve che continui a spingere la levetta quando non c’è più il rosa. Se volevi il rosa, non dovevi scattare tutte quelle immagini di fanciulle, no? D’ora in poi sarà solo monocromo. Va bene?

— Va bene. Sì. Certo — disse Scuotivento. Credette di vedere in un angolino scuro della scatola un cavalletto e un minuscolo letto sfatto. Avrebbe preferito non vederli.

— Mi auguro che ci siamo capiti — disse il diavoletto e chiuse la porta. A Scuotivento parve di udire un borbottio confuso e il rumore di uno sgabello trascinato sul pavimento.

— Duefiori… — cominciò e alzò gli occhi.

Duefiori era scomparso. Scuotivento fissò la folla mentre brividi di orrore gli correvano su per la spina dorsale. A un tratto si sentì pungere le reni.

— Girati senza fretta — disse una voce vellutata. — O di’ addio ai tuoi reni.

La folla l’osservava interessata. Si annunciava una giornata davvero memorabile.

Scuotivento si girò lentamente; sentiva la punta della spada grattargli le costole. All’estremità della lama riconobbe Stren Giunco: ladro, spadaccino crudele, concorrente insoddisfatto al titolo di uomo più cattivo del mondo.

— Salve — disse debolmente. Qualche passo più in là, due tizi dall’aspetto poco rassicurante avevano alzato il coperchio del Bagaglio e si indicavano eccitati le borse d’oro. Giunco sorrise. Sulla sua faccia solcata dalle cicatrici il sorriso ebbe un effetto sinistro.

— Ti conosco — disse. — Un mago da strapazzo. Che cos’è quella cosa?

Scuotivento si accorse che il coperchio del Bagaglio tremava leggermente, benché non ci fosse vento. E lui teneva ancora in mano la scatola a immagini.

— Questa? Serve a riprendere delle immagini — rispose in tono vivace. — Ehi, continua a sorridere, vuoi? — Indietreggiò rapido e puntò la scatola.

Giunco ebbe un attimo di esitazione. — Cosa?

— Bene così, non muoverti… — disse Scuotivento.

Il ladro rimase fermo, poi con un ringhio alzò la spada.

Ci fu uno snap e un duetto di grida tremende. Scuotivento non si guardò intorno per paura delle cose terribili che poteva vedere e quando Giunco lo cercò, lui era già dall’altro lato della piazza che se la dava a gambe.


L’albatro scendeva lentamente in larghi giri concentrici che terminarono in un arruffio di penne e un tonfo poco dignitosi quando atterrò pesantemente sulla sua piattaforma nel giardino degli uccelli del Patrizio.

Il custode degli uccelli sonnecchiava al sole; non si aspettava così presto un altro messaggio a lunga distanza dopo l’arrivo di quello del mattino. Saltò in piedi e sollevò lo sguardo.

Poco dopo si affrettava per i corridoi del palazzo; teneva in mano la capsula col messaggio e si succhiava la brutta ferita infertagli sul dorso dal becco dell’animale, ferita dovuta alla sua sbadataggine causata dalla sorpresa.

Scuotivento galoppava per il viale senza badare agli urli di rabbia provenienti dalla scatola; scavalcò un alto muro con la tunica sfilacciata che gli ondeggiava intorno come le piume arruffate di una cornacchia.

Atterrò nel cortile davanti a un negozio di tappeti, sparpagliando mercanzia e clientela, uscì a precipizio sul retro borbottando delle scuse, sfrecciò lungo un altro viale e si arrestò, barcollando pericolosamente, proprio mentre inavvertitamente stava per finire dentro l’Ankh.

Si dice ci siano dei fiumi mistici di cui una sola goccia si porta via la vita di un uomo. Dopo il suo torbido passaggio attraverso la città gemella, l’Ankh avrebbe potuto essere uno di questi.

A distanza gli urli di rabbia presero una nota stridula di terrore. Scuotivento si guardò disperatamente intorno in cerca di una barca o qualcosa a cui aggrapparsi sui ripidi muri da entrambi i lati.

Era in trappola.

L’Incantesimo si formò, spontaneo, nella sua mente. Forse era improprio dire che lui l’aveva appreso. Era vero il contrario. L’episodio aveva condotto alla sua espulsione dall’Università Invisibile perché, per una scommessa, lui aveva osato aprire le pagine dell’ultima copia rimasta dei libro del Creatore, l’Ottavo (mentre il bibliotecario dell’Università era occupato altrove). L’incantesimo era balzato fuori dalla pagina e gli si era introdotto nella mente, così a fondo che nemmeno gli sforzi combinati dei sapientoni della Facoltà di Medicina erano stati capaci di farlo venire fuori. Quale fosse di preciso, erano stati pure incapaci di accertare. Sapevano soltanto che era uno degli otto incantesimi basilari, indissolubilmente intrecciati con il tessuto stesso del tempo e dello spazio.

Da allora aveva mostrato la preoccupante tendenza a cercare di essere pronunciato ogni volta che Scuotivento si sentiva depresso o particolarmente minacciato.

Il mago strinse i denti ma la prima sillaba si fece strada a forza all’angolo della bocca. Senza volerlo, la sua mano sinistra si sollevò e, mentre la magica forza gli turbinava intorno, prese a mandare scintille di ottarino…

Il Bagaglio spuntò di corsa dall’angolo, con le centinaia di ginocchia in movimento come pistoni.

Scuotivento spalancò la bocca dalla sorpresa. L’incantesimo morì, impronunciato.

Non sembrava che la cassa fosse minimamente impacciata dal parato ornamentale spavaldamente drappeggiato su di lei, né dal ladro che penzolava con un braccio dal coperchio. Era, letteralmente, un peso morto. Più in là sul coperchio si scorgevano i resti di due dita, proprietario sconosciuto.

Il Bagaglio si fermò a qualche centimetro dal mago e ritrasse le gambe. Non pareva che fosse dotato di occhi, ma Scuotivento era sicuro che lo stava fissando. In attesa.

— Sciò! — esclamò lui debolmente. La cassa non si mosse, ma il coperchio si aprì con un cigolio e lasciò cadere a terra il ladro morto.

Scuotivento si ricordò dell’oro. Presumibilmente la cassa doveva avere un padrone. In assenza di Duefiori, lei lo aveva forse adottato?

La marea stava cambiando e, nella gialla luce pomeridiana, la corrente trascinava i rottami verso la Chiusa, a solo cento metri più giù. Ci volle un attimo perché il cadavere del ladro li raggiungesse. Anche se in seguito l’avessero trovato, non ci sarebbero stati commenti. E i pescecani dell’estuario erano usi a pasti solidi e regolari.

Scuotivento guardò il corpo scivolare via e rifletté alla sua prossima mossa. Probabilmente il Bagaglio avrebbe galleggiato. Non gli restava che attendere il crepuscolo e poi andarsene con la marea. Più a valle c’era una quantità di luoghi selvaggi dove approdare e poi… be’, se davvero il Patrizio aveva diramato un avviso sul suo conto, allora sarebbe bastato cambiarsi d’abito e radersi. In ogni caso, esistevano altri paesi e lui aveva facilità per le lingue. Bastava arrivare a Chimera o Gonim o Ecalpon e mezza dozzina di armate non avrebbero potuto riportarlo indietro. E poi… ricchezza, comodità, sicurezza…

Naturalmente sussisteva il problema di Duefiori. Scuotivento si lasciò andare a un attimo di tristezza.

"Poteva andare peggio" si disse a mo’ di addio. "’Potevo essere io".

Quando provò a muoversi, sentì la tunica impigliata in un ostacolo.

Allungò il collo e scoprì che l’orlo era saldamente trattenuto dal coperchio del Bagaglio.


— Ah, Gorphal — lo salutò benevolo il Patrizio. — Vieni. Siediti. Posso offrirti una medusa candita?

— Sono ai vostri ordini, padrone — rispose calmo il vecchio. — Salvo, forse, quando si tratta di echinodermi conservati.

Il Patrizio alzò le spalle e gli indicò il rotolo di pergamena sul tavolo. — Leggilo — gli disse.

Gorphal prese la pergamena e inarcò a malapena un sopracciglio quando vide i familiari ideogrammi dell’Impero Dorato. Lesse in silenzio per circa un minuto e poi girò il rotolo per esaminare attentamente il sigillo sul rovescio.

— Tu hai fama di conoscere a fondo gli affari dell’Impero — disse il Patrizio. — Puoi darmi una spiegazione?

— Per quanto riguarda l’Impero la conoscenza non sta tanto nel notare eventi particolari quanto nello studiare una certa forma mentis — dichiarò il vecchio diplomatico. — Il messaggio è curioso, sì, ma non sorprendente.

— Questa mattina l’Imperatore mi ha incaricato… - Il Patrizio si concesse il lusso di un cipiglio — … mi ha incaricato, Gorphal, di proteggere questo Duefiori. Adesso pare che io debba farlo uccidere. Tu non lo trovi sorprendente?

— No. L’imperatore è poco più di un ragazzo. È un… idealista. Intelligente. Un dio per il suo popolo. Mentre la lettera di questo pomeriggio, se non vado errato, proviene dal Gran Visir, Nove Specchi Girevoli, che è invecchiato al servizio di diversi imperatori. Che lui considera ingredienti necessari ma fastidiosi per il buon governo dell’Impero. Non gli piacciono le cose fuori posto. L’Impero non è stato costruito permettendo che ciò accada. Lui la pensa così.

— Comincio a capire… — disse il Patrizio.

— Perfetto — Gorphal sorrise nella barba. — Questo turista è una cosa fuori posto. Dopo avere ottemperato al desiderio del suo padrone, sono sicuro che Nove Specchi Girevoli avrà preso i necessari provvedimenti per assicurarsi che al viaggiatore non sia permesso tornare a casa portando, forse, il germe dell’insoddisfazione. All’Impero piace che le persone rimangano dove vengono messe. Pertanto, sarebbe molto più conveniente che questo Duefiori sparisca nelle terre barbare. Ossia qui, padrone.

— E qual è il tuo parere?

Gorphal si strinse nelle spalle.

— Semplicemente non fare nulla. Senza dubbio le cose si risolveranno da sole. Tuttavia — si grattò pensieroso un orecchio — forse la Corporazione degli Assassini…?

— Ah sì — disse il Patrizio. — La Corporazione degli Assassini. Chi è attualmente il presidente?

— Zlorf Flannelfoot, padrone.

— Digli una parolina, vuoi?

— Certamente, padrone.

Il Patrizio annuì. Anche per lui era un sollievo. Era d’accordo con Nove Specchi Girevoli… la vita era già abbastanza difficile. Le persone dovevano rimanere dove erano collocate.


Sul disco del mondo splendevano brillanti le costellazioni. Uno a uno i commercianti chiudevano i negozi. Uno a uno gli imbroglioni, i ladri, gli equilibristi sul filo, le prostitute, gli illusionisti, i pocodibuono, i ladri acrobati si svegliavano e facevano colazione. I maghi si dedicavano ai loro affari polidimensionali. Quella sera si sarebbe verificata la congiunzione di due potenti pianeti e già l’aria sopra il Quartiere Magico era annebbiata dai primi incantesimi.

— Ascolta — disse Scuotivento. — Così non combiniamo nulla. — Si spostò di lato. Il Bagaglio lo seguì fedelmente, con il coperchio semiaperto, minaccioso. Per un attimo Scuotivento prese in considerazione la possibilità di fare un salto disperato verso la salvezza. Il coperchio lo prevenne richiudendosi di colpo.

Qualunque tentativo facesse, si disse Scuotivento desolato, quella dannata cosa l’avrebbe seguito ancora. Si capiva dalla sua aria ostinata. Anche se fosse riuscito a procurarsi un cavallo, aveva lo sgradito sospetto che quella gli avrebbe tenuto dietro alla stessa andatura. All’infinito. Nuotando per fiumi e per oceani. Guadagnando lentamente terreno ogni notte, mentre lui doveva fermarsi per dormire. E poi, un giorno, dopo anni, in qualche città esotica, avrebbe udito lo scalpiccio di centinaia di piedini trotterellanti per la strada dietro di lui…

— Hai preso l’uomo sbagliato! — gemette. — Non è colpa mia! Non l’ho rapito io!

La cassa avanzò un poco. Adesso tra le calcagna di Scuotivento e il fiume non restava che una stretta striscia di banchina sporca. Un lampo di precognizione gli disse che la cassa sarebbe stata in grado di nuotare più in fretta di lui. Si sforzò di non pensare alla sensazione di affogare nell’Ankh.

— Non si fermerà finché non cederai, sai — disse una vocina in tono discorsivo.

Scuotivento abbassò gli occhi sull’iconografo che gli pendeva ancora dal collo. Lo sportellino era aperto e l’omuncolo, appoggiato allo stipite, fumava la pipa e osservava divertito la scena.

— Almeno ti porterò con me — disse Scuotivento a denti stretti.

Il diavoletto si tolse la pipa di bocca. — Cosa hai detto?

— Ho detto che ti porterò con me, accidenti!

— Accomodati. — L’esserino batté con gesto significativo sulla parete della scatola. — Vedremo chi affonda per primo.

Il Bagaglio sbadigliò e avanzò impercettibilmente.

— Oh, va bene — esclamò irritato Scuotivento. — Ma dovrai lasciarmi il tempo di riflettere.

Il Bagaglio si ritirò lentamente, Scuotivento fece qualche passo indietro fino a trovarsi su terreno sicuro e si sedette con la schiena appoggiata a un muro. Le luci della città di Ankh brillavano al di là del fiume.

— Sei un mago — disse il demonietto. — Escogiterai un modo per trovarlo.

— Non un granché come mago, temo.

— Puoi sempre saltare sulle persone e trasformarle in vermi — aggiunse l’altro in tono incoraggiante, senza tenere conto della sua osservazione.

— No. Trasformare in Animali è un incantesimo dell’Ottavo Livello. Io non ho mai completato la mia formazione. Conosco un solo incantesimo.

— Be’, basterà.

— Ne dubito. — Era sconsolato.

— Allora che cosa fai?

— Non posso dirtelo. Non mi va di parlarne. Ma francamente — aggiunse con un sospiro — nessun incantesimo serve a molto. Ci vogliono tre mesi per mandarne a mente anche uno solo, una volta usato, puff, non c’è più. Sai, è questa la stupidaggine di quest’affare della magia. Passi venti anni a imparare l’incantesimo che ti fa apparire in camera da letto delle vergini nude, e poi sei talmente intossicato dai fumi di mercurio e reso mezzo cieco per avere decifrato i vecchi libroni, che non riesci a ricordare che cosa accade dopo.

— Non avevo mai considerato la cosa in questo modo — disse il diavoletto.

— Ehi, senti.,. non va. Quando Duefiori ha detto che nell’Impero loro hanno un genere di magia migliore, io pensavo… pensavo…

L’omuncolo lo guardò in attesa. Scuotivento in cuor suo si maledisse.

— Be’, se vuoi proprio saperlo, pensavo che lui non intendesse la magia. Non come tale.

— Che altro c’è, allora?

Scuotivento cominciò a sentirsi veramente infelice. — Non lo so — confessò. — Un modo migliore di fare le cose, suppongo. Qualcosa con un po’ di logica. Come imbrigliare… imbrigliare il lampo o altro.

L’occhiata dell’esserino era cortese, ma compassionevole. — I lampi sono le lance scagliate dai giganti del tuono quando combattono — disse gentilmente. — Un fatto meteorologicamente stabilito. È impossibile imbrigliarli.

— Lo so — convenne Scuotivento. — È qui dove l’argomento fa acqua.

Il diavoletto annuì e scomparve nelle profondità dell’iconografo. Poco dopo si sentì il profumo del bacon che soffriggeva. Scuotivento attese finché il suo stomaco non ne poté più, e bussò sulla scatola. L’omuncolo riapparve.

Prima che Scuotivento potesse aprire bocca, l’altro dichiarò: — Ho pensato a quanto hai detto. E anche se potessi bardarlo, come riusciresti a fargli tirare un carro?

— Di che diavolo stai parlando?

— Del lampo. Che va soltanto su e giù, mentre servirebbe che andasse in avanti, non su e giù. E in ogni modo, probabilmente brucerebbe la bardatura.

— Non m’importa del lampo. Come posso pensare a stomaco vuoto?

— Allora mangia qualcosa. È logico.

— Come? Ogni volta che mi muovo quella dannata cassa mi azzanna con il suo coperchio!

Come se avesse ricevuto l’imbeccata, il Bagaglio spalancò il coperchio.

— Vedi?

— Non sta cercando di morderti — disse il diavoletto. — Dentro c’è del cibo. Se muori di fame, non gli sei di nessuna utilità.

Scuotivento scrutò negli scuri recessi del Bagaglio. Tra il caos di scatole e borse piene d’oro, c’erano in effetti diverse bottiglie e dei pacchetti avvolti in carta oleata. Con una risata cinica, il mago vagò per la banchina abbandonata finché trovò un pezzo di legno della lunghezza giusta, lo incastrò il più delicatamente possibile nell’apertura tra il coperchio e il bordo della cassa, e tirò fuori uno dei pacchetti piatti.

Dentro c’erano dei biscotti che si rivelarono duri come legno diamantifero.

— Accidentaccio — borbottò, toccandosi i denti.

— I Digestivi per viaggiatori del Capitano Eightpanther, si chiamano — annunciò il diavoletto dalla soglia della sua scatola. — Hanno salvato parecchie vite in mare, quelli.

— Oh, sicuro. Li usate come zattera oppure li buttate ai pescecani e li guardate affondare? Cosa c’è nelle bottiglie? Veleno?

— Acqua.

— Ma c’è acqua dappertutto! Perché Duefiori avrebbe dovuto portarsi dietro l’acqua?

— Fidati.

— Fidarmi?

— Sì. Lui non si è fidato dell’acqua di qui. Capisci?

Scuotivento aprì una bottiglia. Il liquido dentro poteva anche essere dell’acqua. Non la minima fragranza, né traccia di vita. — Né sapore né odore — brontolò il mago.

La sua attenzione fu attratta da un leggero scricchiolio proveniente dal Bagaglio, il quale con una mossa pigra piena di calcolata minaccia richiuse lentamente il coperchio e triturò come una foglia secca la zeppa di fortuna di Scuotivento.

— Va bene, va bene — disse lui. — Sto riflettendo.


Il quartier generale di Ymor si trovava nella Torre Pendente, all’incrocio di Rime Street e Frost Alley. A mezzanotte l’unica guardia che si teneva nell’ombra alzò gli occhi a guardare la congiunzione dei pianeti e si chiese oziosamente quali cambiamenti preannunziavano nelle sue fortune.

Si udì un suono appena percettibile, come lo sbadiglio di una zanzara.

La guardia lanciò un’occhiata alla strada deserta e vide il riflesso della luce lunare brillare su qualcosa che giaceva nel fango a qualche metro di distanza. La raccolse. Era oro. Tirò il fiato così rumorosamente che echeggiò per la via.

Di nuovo un suono lieve e un’altra moneta rotolò nel rigagnolo dal lato opposto della strada.

Non fece in tempo a raccoglierla che ne arrivò una terza ancora roteante. L’oro, ricordò, si credeva fosse formato dalla luce cristallizzata delle stelle. Fino a quel momento non ci aveva creduto, che una cosa pesante come l’oro potesse cadere naturalmente dal cielo.

Aveva appena raggiunto l’imboccatura della strada, che altre ne vennero giù. Nella borsa c’era ancora un’enorme quantità di pezzi d’oro e Scuotivento glieli rovesciò sulla testa.

Quando la guardia rinvenne si trovò davanti la faccia di un mago dagli occhi spiritati, che lo minacciava alla gola con una spada. Nell’oscurità qualcosa lo afferrava alla gamba. Una presa sconcertante: lasciava intendere che, volendo, chi lo teneva poteva aumentare di parecchio la stretta.

— Dove si trova il ricco straniero? — sibilò il mago. — Presto!

— Che cosa mi stringe la gamba? — Nella voce dell’uomo vibrava una nota di terrore. Tentò di divincolarsi e la pressione aumentò.

— Saperlo non ti piacerebbe — lo minacciò Scuotivento. — Fa attenzione, per piacere. Dov’è il forestiero?

— Non è qui! L’hanno portato dal Grosso. Tutti lo cercano! Tu sei Scuotivento, vero? La cassa… la cassa che azzanna la gente… ononono… ti preego…

Scuotivento non c’era più. La guardia sentì il suo assalitore allentare la presa… o, come cominciava a temere, la cosa allentare la presa. Cercò di rimettersi in piedi e si sentì investire nel buio da un oggetto grosso, pesante, squadrato che si buttò all’inseguimento del mago. Un oggetto con centinaia di piccoli piedi.


Duefiori si sforzava, con il solo ausilio del suo dizionarietto autarchico, di spiegare al Grosso i misteri della famosa formula che aveva già snocciolato a Scuotivento. Il grasso taverniere lo ascoltava attento, con gli occhietti neri scintillanti.

Seduto all’estremità del tavolo Ymor li osservava con blando divertimento e di tanto in tanto nutriva uno dei suoi corvi con gli avanzi del suo piatto. Accanto a lui, Giunco camminava su e giù.

— Ti agiti troppo — gli disse Ymor senza staccare gli occhi dai due uomini di fronte a lui. — Lo sento, Stren. Chi oserebbe attaccarci qui? E quel mago da strapazzo verrà. È troppo codardo per non farlo. E cercherà di mercanteggiare. E noi lo terremo in pugno. Lui e l’oro e la cassa.

L’unico occhio di Giunco mandò un lampo e lui si batté il pugno sul palmo della mano guantata di nero.

— Chi avrebbe immaginato che in tutto il disco ci fosse tanto legno del pero sapiente? — esclamò. — Come avremmo potuto saperlo?

— Ti agiti troppo, Stren — ripeté Ymor. — Sono sicuro che questa volta farai meglio.

Il suo luogotenente sbuffò dal disgusto e fece il giro del locale per strapazzare i suoi uomini. Ymor continuò a fissare il turista.

Era strano, ma l’ometto non pareva rendersi conto della gravità della sua situazione. Ymor l’aveva visto più volte guardarsi intorno con aria di profonda soddisfazione. Era anche un pezzo che parlava col Grosso e Ymor aveva visto un pezzo di carta cambiare di mano. E il Grosso aveva dato delle monete allo straniero. Era strano.

Quando il Grosso si alzò e passò accanto alla sua seggiola, il braccio del mastro ladrone scattò come una molla d’acciaio e trattenne il grassone per il grembiule.

— Che stavate facendo, amico? — gli chiese a voce bassa.

— N-niente, Ymor. Semplicemente degli affari privati, diciamo.

— Tra amici non ci sono segreti, Grosso.

— Già. Be’, non ne sono sicuro nemmeno io, davvero. È una specie di scommessa, capisci? — disse nervosamente l’albergatore. — Si chiama… assi-cura-zione. - È una specie di scommessa che il Tamburo Rotto non sarà distrutto da un incendio.

Ymor continuò a fissarlo finché il Grosso non si contorse dalla paura e dall’imbarazzo. Poi il mastro ladrone scoppiò a ridere.

— Questo ammasso di vecchie travi rose dai vermi? — disse. — Quell’uomo deve essere matto.

— Sì, ma un matto con i quattrini. Sostiene che adesso che ha ottenuto il… non posso ricordarmi la parola, comincia con una P, sarebbe quello che si chiama posta della scommessa, la gente per cui lui lavora nell’Impero Agateo pagherà. Se il Tamburo Rotto sarà distrutto dall’incendio. Non che io speri che lo sia. Bruciato. Il Tamburo Rotto, intendo. Voglio dire, per me è come una casa, il Tamburo…

— Non sei completamente stupido, vero? — disse Ymor e mandò via il taverniere.

La porta si spalancò e sbatté contro la parete.

— Ehi, quella è la mia porta! — urlò il Grosso. Scoprì chi era colui che si era fermato in cima alle scale, e si tuffò dietro un tavolo, appena in tempo prima che una corta freccia nera volasse attraverso il locale e si conficcasse nel legno.

Muovendosi con precauzione, Ymor si versò un’altra pinta di birra.

— Non vorresti farmi compagnia, Zlorf? — lo invitò senza scomporsi. — E tu, Stren, metti via quella spada. Zlorf Flannelfoot è amico nostro.

Il presidente della Corporazione degli Assassini roteò con destrezza la corta arma e la rinfoderò in un solo agile movimento.

— Stren! — lo richiamò Ymor.

Il ladro nerovestito fece un sibilo e rimise la spada nel fodero. Ma mantenne la mano sull’elsa e gli occhi sull’assassino.

Non gli fu facile. Nella Corporazione degli Assassini la promozione si otteneva grazie a un esame competitivo, di cui la parte più importante, anzi l’unica, consisteva nella prova pratica. Così la larga, onesta faccia di Zlorf era solcata da cicatrici, risultato di tanti scontri ravvicinati. Probabilmente non sarebbe stata mai molto piacevole da vedersi. Si diceva che Zlorf aveva scelto una professione nella quale cappucci scuri, mantelli e vagabondaggi notturni avevano una larga parte perché nel suo parentado c’era un ramo trollesco che temeva la luce del giorno.

Quelli che lo dicevano a portata d’orecchi di Zlorf, rischiavano di riportarsi a casa i loro nel cappello.

L’uomo scese le scale, seguito da un certo numero di assassini. Si piazzò davanti a Ymor e dichiarò: — Sono venuto per il turista.

— È una cosa che ti riguarda. Zlorf

— Sì. Grinjo. Urmond, prendetelo.

I due assassini si fecero avanti. Si trovarono di fronte a Stren: la sua spada pareva essersi materializzata a un centimetro dalla loro gola, senza che nemmeno se ne accorgessero.

— Possibile che potrei uccidere soltanto uno di voi — mormorò — ma vi suggerisco di chiedervi… quale?

— Guarda lassù, Zlorf — disse Ymor.

Una fila di pupille gialle, minacciose lo guardavano dall’oscurità tra le travi.

— Ancora un passo e te ne andrai con meno occhi di quando sei arrivato — affermò il mastro ladrone. — Così siediti e bevi qualcosa, Zlorf; parliamone da persone ragionevoli. Credevo che avessimo fatto un accordo: tu non rubi, io non ammazzo. Ossia, non a pagamento — aggiunse dopo una pausa.

Zlorf accettò la birra che gli veniva offerta.

— E allora? — disse. — Io l’ammazzo e poi tu lo derubi. È quel tipo buffo laggiù?

— Sì.

Zlorf fissò Duefiori, che gli rivolse un sorrisetto. L’assassino alzò le spalle. Raramente perdeva tempo a domandarsi perché certa gente voleva morta altra gente. Era semplicemente un modo di guadagnarsi da vivere.

— Posso chiedere chi è il tuo cliente? — domandò Ymor.

Zlorf sollevò una mano. — Per piacere! — protestò. — Etica professionale.

— Naturalmente. A proposito…

— Sì?

— Credo di avere fuori un paio di guardie…

— Avevi.

— E delle altre nel vano del portone sul marciapiede opposto.

— In passato.

— E due arcieri sul tetto.

Un fremito di dubbio passò sul viso di Zlorf, come l’ultimo raggio di sole su un campo malamente arato.

La porta si spalancò e andò a sbattere contro l’assassino in piedi lì accanto.

— Piantatela! — gridò il Grosso da sotto il tavolo.

Zlorf e Ymor alzarono gli occhi sul tipo fermo sulla soglia. Era basso, grasso e riccamente abbigliato. Sfarzosamente abbigliato. Dietro a lui s’intravedevano delle sagome alte e grosse. Sagome molto grosse, minacciose.

— Chi è quello? — chiese Zlorf.

— Io lo conosco — rispose Ymor. — Si chiama Rerpf. Dirige il Groaning Platter, la taverna vicino al ponte Brass. Stren, levalo di mezzo.

Rerpf alzò una mano inanellata. Stren Giunco esitò, a mezza strada dalla porta, vedendo diversi troll massicci chinarsi per entrare e mettersi ai lati del grassone, strizzando gli occhi alla luce. Dei muscoli delle dimensioni di un melone gonfiavano i bicipiti simili a sacchi di farina. Ogni troll teneva una bipenne. Tra il pollice e l’indice.

Il Grosso venne fuori dal suo nascondiglio, fumante di rabbia. — Fuori! — urlò. — Mandate fuori di qui quei troll!

Nessuno si mosse. Nel locale regnava una calma improvvisa. Il Grosso lanciò un’occhiata in giro. Soltanto allora capì quello che aveva detto e a chi l’aveva detto. Dalle labbra gli sfuggì un gemito.

Arrivò alla porta della cantina proprio quando uno dei troll, con un gesto appena percettibile di una delle sue mani grosse come un prosciutto, fece volare l’ascia attraverso la stanza. Il tonfo della porta e il legno spaccato dalla scure si fusero in un solo rumore.

— Che diavolo! — esclamò Zlorf Flannelfoot.

— Che volete? — domandò Ymor.

— Sono qui per conto della Corporazione dei Mercanti e Commercianti — rispose calmo Rerpf. — Per proteggere i vostri interessi, si potrebbe dire. Si tratta dell’ometto.

Ymor aggrottò la fronte. — Mi dispiace — disse. — Credevo che aveste detto la Corporazione dei Mercanti.

— E dei Commercianti — completò Rerpf. Dietro a lui, in aggiunta ad altri troll c’erano parecchi uomini che Ymor riconobbe vagamente. Li aveva visti, forse, dietro ai banchi dei negozi e dei bar. Simili a ombre, di solito, figure facilmente ignorate, facilmente dimenticate. Cominciò a preoccuparsi. Pensò a quello che poteva provare, diciamo, una volpe di fronte a una pecora arrabbiata. Una pecora, inoltre, che poteva permettersi d’impiegare dei lupi.

— Da quanto tempo esiste questa… Corporazione, se posso domandarlo?

— Da questo pomeriggio — dichiarò Rerpf. — Io sono il vicecapo corporazione incaricato del turismo, sapete.

— Che cos’è questo turismo di cui parlate?

— Uh… non ne siamo proprio sicuri… — cominciò Rerpf. Un vecchio barbuto sporse la testa al di sopra delle sue spalle e gracchiò: — Parlo a nome dei vinai di Morpork. Il Turismo significa Affari. Capito?

— Allora? — disse freddamente Ymor.

— Allora — ribatté Rerpf — noi proteggiamo i nostri interessi, come ho già detto.

— Fuori i ladri, fuori i ladri! — chiocciò il suo anziano compagno. Altri ripresero il canto. Zlorf sogghignò soddisfatto. — E gli assassini — cantò il vecchio. Zlorf grugnì.

— Ha ragione — asserì Rerpf. — Dappertutto ladri e assassini. Quale sarà l’impressione che ne riporteranno i visitatori? Uno viene da lontano per visitare la nostra bella città con i suoi luoghi d’interesse storico e civico e i suoi strani usi e costumi, e si risveglia morto in qualche vicolo o si ritrova a galleggiare giù per l’Ankh. Come fa a raccontare a tutti gli amici come se la sta spassando? Ammettiamolo, bisogna muoversi di pari passo con i tempi.

Zlorf e Ymor si scambiarono un’occhiata.

— Proprio così — disse Ymor.

— Allora muoviamoci, fratello — replicò Zlorf. Con un solo movimento si portò la cerbottana alla bocca e lanciò una freccia sibilante contro il gigante più vicino. Questi, con una piroetta, scagliò la bipenne che sorpassò ronzando la testa dell’assassino e si andò a conficcare in uno sfortunato ladro alle sue spalle.

Rerpf si abbassò e così permise a un troll alle sue spalle di sollevare la sua pesante balestra di ferro e colpire con una freccia lunga come una lancia il più vicino assassino. Quello fu l’inizio…


È stato già osservato come coloro che sono sensibili alle radiazioni del lontano ottarino, l’ottavo colore, il pigmento dell’Immaginazione, riescono a vedere cose che altri non vedono.

Fu così che Scuotivento, attraversando rapido i bazar affollati e scintillanti di luci di Morpork, con il Bagaglio che lo seguiva trotterellando, si scontrò con un’alta figura scura, si voltò per lanciarle un po’ di improperi, e si trovò davanti la Morte.

Doveva essere la Morte. Nessun altro se ne andava in giro con le orbite vuote, e poi la falce sopra la spalla era un altro indizio sicuro. Mentre la fissava terrorizzato, una coppia d’innamorati ridenti attraversò l’apparizione e proseguì, senza mostrare di accorgersene. Per quanto possibile in un volto privo di lineamenti mobili, la Morte sembrò sorpresa.

— Scuotivento? — chiamò la Morte in toni profondi e grevi come lo sbattere di porte di piombo, giù giù sottoterra.

— Uhm — disse Scuotivento che cercò di indietreggiare, allontanandosi da quello sguardo cieco.

— Ma perché sei qui? ("Bum bum" rintronarono i battenti della cripta nelle fortezze brulicanti di vermi sotto le antiche montagne…)

— Uhm, perché no? — rispose Scuotivento. — Comunque, sono sicuro che hai tanto da fare, quindi se soltanto…

— Mi ha sorpreso che tu mi abbia urtato, Scuotivento, perché ho appuntamento con te proprio questa notte.

— Oh no, non…

— Naturalmente, ciò che mi secca di questa faccenda è che mi aspettavo di incontrarti a Psephopololis.

— Ma si trova a quasi ottocento chilometri da qui!

— Non ho bisognò che tu me lo dica; tutto il sistema è di nuovo scombinato, vedo. Senti, non è possibile che tu…?

Scuotivento indietreggiò, con le mani tese per proteggersi. Dal banco vicino, il venditore di pesce secco osservava con interesse quel povero matto.

— Non è assolutamente possibile!

— Ti potrei prestare un cavallo molto veloce.

— No!

— Non sentirai nessun male.

— No! — Scuotivento si voltò e corse via. La morte lo guardò allontanarsi e scrollò le spalle amaramente.

— Va’ a farti fottere, allora — disse la Morte. Si girò e vide il pescivendolo. Con un sogghigno, la Morte allungò un dito ossuto e arrestò il cuore dell’uomo, ma non ne fu molto orgogliosa.

Poi la Morte si ricordò che cosa doveva accadere più tardi quella notte. Non sarebbe esatto dire che sorrise, perché per forza di cose i suoi lineamenti erano fissi in un sogghigno calcareo. Ma si mise a canterellare un motivetto, allegro come il segno lasciato da un bubbone; smise soltanto per togliere la vita a una effimera svolazzante e una delle sue nove a un gatto accovacciato sotto il banco del pescivendolo (tutti i gatti possono vedere nell’ottarino). Poi la Morte girò sui tacchi e si avviò al Tamburo Rotto.


La Viabreve, a Morpork, è di fatto una delle più lunghe della città. Via Filigrana la taglia all’estremità come la traversa di una T, e il Tamburo Rotto è situato in modo da avere l’intera visuale della strada.

In fondo a Viabreve, una sagoma scura e oblunga si alzò su centinaia di gambette e prese a correre. Da principio si muoveva al piccolo trotto ma poi, a metà strada, era veloce come una freccia.

Un’ombra più scura strisciava lungo un muro del Tamburo, a pochi metri dai due troll di guardia all’ingresso. Scuotivento stava sudando. Se quelli udivano il lieve tintinnio delle borse appese alla sua cintura…

Uno dei troll batté sulla spalla del suo collega, con un rumore simile a quello di due sassi percossi insieme, e puntò il dito verso la strada illuminata dalla luce delle stelle.

Scuotivento sfrecciò dal suo nascondiglio, girò e si catapultò attraverso la finestra più vicina del Tamburo.

Giunco la vide arrivare. La borsa descrisse un arco attraverso il locale, ondeggiando lenta nell’aria e si aprì sul bordo di un tavolo. Un attimo dopo le monete d’oro rotolavano sul pavimento, scintillanti.

Nella stanza cadde improvvisamente il silenzio, che era rotto soltanto dal tintinnio lieve dell’oro e dai lamenti dei feriti. Con un’imprecazione Giunco spacciò l’assassino con il quale si batteva. — È un trucco! — gridò. — Che nessuno si muova!

Una trentina di uomini e una dozzina di troll s’immobilizzarono.

Poi, per la terza volta, la porta si spalancò. Due troll entrarono a precipizio, la richiusero, l’assicurarono con una pesante sbarra e volarono giù per la scala.

Fuori risuonò un improvviso crescendo di passi di corsa. E la porta si apri per l’ultima volta. O. meglio, esplose: la grande sbarra di legno volò attraverso il locale e l’intelaiatura cedette.

Battente e intelaiatura finirono su un tavolo, che volò in pezzi. Fu allora che i combattenti esterrefatti notarono qualcos’altro nell’ammasso di legno. Era una cassa che si dimenava per liberarsi.

Scuotivento apparve sulla soglia e scagliò un’altra delle sue granate d’oro, che si schiantò contro una parete con una pioggia di monete.


Giù nella cantina il Grosso alzò gli occhi, borbottò tra sé e sé e si rimise al lavoro. La sua riserva di candele era già sparsa sul pavimento insieme alla sua scorta di legna da ardere. Adesso stava maneggiando un barilotto di olio per lampada.

Le parole che mormorava ripetevano l’incomprensibile formula pronunciata da Duefiori. L’olio sgorgò dal barilotto e si sparse sul pavimento.


Giunco, furente di rabbia, si precipitò innanzi. Scuotivento prese la mira e colse il ladro in pieno petto con una borsa d’oro.

Ma adesso Ymor si era messo a urlare e a puntare un dito accusatore. Un corvo volò giù dalla trave su cui era posato e si diresse in picchiata verso il mago, ad artigli spiegati, luccicanti.

Non ce la fece. Era a metà percorso quando il Bagaglio balzò fuori dall’ammasso di schegge, si aprì fulmineo a mezz’aria e si richiuse di scatto.

Ricadde più leggero. Scuotivento vide socchiudersi di nuovo il coperchio. Quel tanto da permettere a una lingua, larga come una foglia di palma e rossa come il mogano, di lappare qualche penna sparsa.

Nello stesso momento il gigantesco lampadario rotondo cadde dal soffitto e la stanza piombò nel buio. Scuotivento si rannicchiò come una molla, fece un salto e, afferrata una trave, si issò, con una forza che sorprese lui stesso, nella relativa sicurezza del tetto.

— Eccitante, no? — gli disse una voce all’orecchio.

In basso, ladri, assassini, troll e mercanti si resero conto, quasi contemporaneamente, di trovarsi in un locale dal pavimento che le monete d’oro rendevano pericolosamente scivoloso. Inoltre c’era qualcosa, tra le ombre fattesi d’improvviso minacciose nella semioscurità, di assolutamente orribile. Si precipitarono come un sol uomo verso la porta di cui, però, nessuno di loro ricordava la posizione esatta.

In alto al di sopra del caos, Scuotivento guardava Duefiori.

— Siete stato voi a far venire giù il lampadario?

— Si.

— Come mai siete quassù?

— Ho pensato fosse meglio togliermi di mezzo.

Scuotivento non sapeva cosa dire. Duefiori aggiunse: — Una autentica rissa! Meglio di qualunque cosa avevo immaginato! Credete che dovrei ringraziarli? Oppure siete voi che l’avete inscenata?

L’altro lo guardò attonito e disse cupo: — Penso che faremmo meglio a scendere adesso. Se ne sono andati tutti.

Trascinò Duefiori per il pavimento ingombro e su per la scala. Si ritrovarono fuori che la notte era quasi terminata. C’era ancora qualche stella ma la luna era tramontata e all’orizzonte baluginava un chiarore grigiastro. Ciò che importava di più, la strada era deserta.

Scuotivento annusò l’aria. — Sentite l’odore del petrolio? — chiese.

In quel momento Giunco uscì dall’ombra e gli fece lo sgambetto.


Il Grosso si inginocchiò in cima alla scala della cantina e frugò nella scatola contenente l’esca e l’acciarino. Era umida.

— Ammazzerò quel dannato gatto — brontolò, e cercò a tentoni la scatola di riserva che di solito stava su un ripiano vicino alla porta. Non c’era. Il Grosso disse una parolaccia.

Uno stoppino acceso comparve a mezz’aria.

Ecco, prendi questo.

— Grazie — disse il Grosso.

— Prego.

Il Grosso andò a gettare lo stoppino giù per la scala, ma la sua mano si arrestò a mezz’aria. Guardò lo stoppino e corrugò la fronte. Poi sì voltò e lo sollevò per illuminare la scena. Non che facesse molta luce, ma diede all’ombra una forma.

— Oh, no — sussurrò l’uomo.

— Ma sì — disse la Morte.

Scuotivento rotolò. Per un momento pensò che Giunco lo infilzasse lì a terra. Ma era peggio. Aspettava che lui si alzasse.

— Vedo che hai una spada, mago — gli disse a bassa voce. — Ti suggerisco di metterti in piedi e vedremo come la saprai usare.

Scuotivento si alzò il più lentamente possibile e si sfilò dalla cintura la corta spada che aveva tolto alla guardia poche ore prima. Gli sembravano cent’anni. Era un arnese corto e smussato, paragonato allo stocco di Giunco, sottile come un capello.

— Ma io non so usare una spada — gemette.

— Bene.

— Sai che è impossibile uccidere i maghi con armi taglienti? — disse ancora Scuotivento disperato.

Giunco sorrise freddamente. — Così ho sentito. Non vedo l’ora di provarlo. — E fece un affondo.

Scuotivento parò il colpo per mera fortuna, ritirò di scatto la mano, deviò la seconda stoccata per coincidenza e la terza gli trapassò la tunica all’altezza del cuore.

Si udì un tintinnio.

Il ringhio di trionfo di Giunco gli si strozzò in gola. Estrasse la spada e di nuovo si scagliò contro il mago, irrigidito dal terrore e dalla colpa. Ci fu un altro tintinnio e dall’orlo della tunica del mago cominciarono a cadere delle monete d’oro.

— Così perdi oro, eh? — sibilò Giunco. — Ma hai dell’oro nascosto in quella tua barba rada, tu piccolo…

Mentre tirava indietro la spada per infliggere l’ultimo colpo, il cupo bagliore che era andato aumentando all’ingresso del Tamburo Rotto guizzò, si affievolì e divampò in una ruggente palla di fuoco che fece oscillare in fuori i muri della taverna e scaraventò il tetto a una trentina di metri in aria prima di erompere in una massa di tegole arroventate.

Giunco, innervosito, guardava le fiamme divampanti. E Scuotivento balzò in avanti. Si chinò sotto il braccio del ladro che reggeva la spada e menò con la sua un fendente così maldestro che colpì l’uomo di piatto, ma anche a lui cadde di mano la spada. Piovevano scintille e goccioline di olio infiammato. Giunco afferrò Scuotivento per il collo con tutte e due le mani guantate spingendolo giù.

— Sei tu che hai fatto questo! — gridò. — Tu e la tua cassa di trucchi!

Trovò con il pollice la trachea del suo avversario "Ci siamo" pensò il mago. "Dovunque vada, non può essere peggio di qui…"

— Scusatemi — disse Duefiori.

Scuotivento sentì allentarsi la stretta. Ora Giunco si tirava su lentamente, sul viso un’espressione di puro odio.

Un tizzone cadde sul mago. Lui se ne liberò in fretta e si rimise in piedi.

Duefiori, alle spalle di Giunco, gli premeva nelle reni la punta della sua stessa spada. Scuotivento strinse gli occhi. Infilò la mano nella tunica e la ritirò chiusa a pugno.

— Non muoverti — ordinò.

— Va bene così? — chiese ansiosamente Duefiori.

— Dice che se ti muovi ti infilza il fegato — tradusse liberamente Scuotivento.

— Ne dubito — disse Giunco.

— Vuoi scommettere?

— No.

Mentre Giunco si preparava a rivoltarsi contro il turista, Scuotivento gli sferrò un pugno sulla mascella. Per un attimo l’altro lo guardò stupito, poi crollò nel fango.

Il mago aprì il pugno e il rotolo di monete d’oro gli scivolò tra le dita frementi. Abbassò gli occhi sul ladro piegato a terra.

— Soffri pure — ansimò.

Un altro tizzone gli cadde sul collo e lui urlò dal dolore. Le fiamme avvolgevano i tetti delle case sui due lati della strada. Tutto intorno la gente buttava i suoi averi dalle finestre e trascinava i cavalli fuori dalle stalle fumanti. Un’altra esplosione nel vulcano rovente che era diventato il Tamburo fece volare in aria un’intera mensola di marmo del caminetto.

— La Porta Widdershin è la più vicina — gridò Scuotivento per farsi sentire al di sopra del crepitio delle travi che crollavano. — Venite!

Afferrò per un braccio Duefiori riluttante a muoversi e lo trascinò giù per la strada.

— Il mio Bagaglio…

— Accidenti al vostro bagaglio! Rimanete ancora qui e andrete dove non c’è bisogno di bagaglio! — Venite! — ripeté.

Proseguirono in mezzo alla folla di gente spaventata che lasciava la zona. Il mago respirava a pieni polmoni l’aria fresca dell’alba. Era perplesso.

— Sono sicuro che tutte le candele si erano spente — disse. — Allora come mai il Tamburo è andato a fuoco?

— Non lo so- gemette Duefiori. — È terribile, Scuotivento. Tanto più che ci intendevamo tanto bene.

Vi intendevate bene?

— Sì, una compagnia simpaticissima. La lingua rappresentava un po’ un ostacolo, ma insistevano talmente perché mi unissi a loro, che non accettavano di sentirsi rispondere di no… davvero persone cordiali…

Scuotivento fece per correggerlo, ma si rese conto di non sapere come cominciare.

— Sarà un colpo per il vecchio Grosso — continuò Duefiori. — Era anche un tipo accorto. Ho ancora il rhinu che ha pagato come primo premio.

Scuotivento non conosceva il significato della parola premio, ma la sua mente lavorava in fretta.

— Avete assi-cura-to il Tamburo? Avete scommesso con il Grosso che non avrebbe preso fuoco?

— Oh sì. Gli ho fatto una stima standard, duecento rhinu. Perché me lo chiedete?

Scuotivento si girò a guardare le fiamme che avanzavano e si domandò quanto si potesse comprare di Morpork con duecento rhinu. Un gran bel pezzo, decise. Ma non ora, non al ritmo con cui si muoveva l’incendio.

Guardò l’ometto. — Voi… — cominciò e si sforzò di ricordarsi il peggiore impropero in lingua trob; ma il piccolo popolo felice dei Trob non sapeva imprecare a dovere.

— Voi — ripeté. Un’altra figura frettolosa lo urtò, mancandolo di un pelo con la lama che portava in spalla. Scuotivento si lasciò andare a uno scoppio di collera.

— Voi piccolo (uno che, con un anello di rame al naso, si bagna i piedi in cinta al monte Raruaruaha durante un violento temporale e grida che la Dea dei Lampi, Alohura, ha i lineamenti di una radice guasta di uloruaha).

— Faccio semplicemente il mio lavoro — disse la figura, allontanandosi.

Ogni parola cadde pesantemente come una lastra di marmo; inoltre Scuotivento era sicuro di averle udite soltanto lui. Afferrò di nuovo Duefiori.

— Andiamocene via! — lo esortò.


Uno degli effetti collaterali interessanti dell’incendio di Ankh-Morpork riguarda la polizza "assicurativa", che lasciò la città attraverso il tetto devastato del Tamburo Rotto, fu sospinta in alto dal calore su nell’atmosfera del disco e dopo parecchi giorni atterrò qualche migliaio di chilometri lontano su un cespuglio di uloruaha nelle isole Trob. Gli isolani, gente semplice e ridanciana, l’adorarono come un dio, con grande sollazzo dei loro vicini più sofisticati. Strano a dirsi, negli anni immediatamente successivi le piogge e il raccolto furono incredibilmente abbondanti. Ne conseguì che un gruppo di ricercatori fu inviato nelle isole dalla facoltà delle Religioni minori dell’Università Invisibile. Il loro verdetto fu che si trattava soltanto di una messa in scena.


Il fuoco, spinto dal vento, si propagò dal Tamburo così rapidamente che la struttura della Porta Widdcrshin era già in fiamme quando Scuotivento ci arrivò, con il viso arrossato e coperto di vesciche. Lui e Duefiori erano a cavallo. Non era stato troppo difficile procurarsi gli animali. Un astuto mercante aveva chiesto cinquanta volte il loro valore ed era rimasto a bocca aperta quando si era ritrovato in mano una somma di mille volte il prezzo reale.

I due fecero appena in tempo a passare: subito dopo, la prima delle grandi travi venne giù in un’esplosione di scintille. Ormai Morpork era un calderone di fiamme.

Mentre galoppavano per la strada illuminata dall’incendio Scuotivento lanciò un’occhiata al suo compagno di viaggio, che si sforzava d’imparare a cavalcare.

"Per l’inferno" pensò. "Lui è vivo. Anch’io. Chi l’avrebbe creduto? Che ci sia qualcosa in questo suono-riflesso-di-spiriti-sotterranei?" Una frase non facile da pronunciare. Scuotivento si sforzò di farlo nelle sillabe complicate della lingua di Duefiori.

Ecolirix? - provò. — Ecrognotico? Eco-gnomia?

Questo poteva andare. Suonava quasi bene.


Già lungo il fiume, a parecchie centinaia di metri di distanza dall’ultimo fumante sobborgo della città, uno strano oggetto rettangolare e grondante acqua toccò la riva fangosa. Immediatamente gli spuntarono numerose gambe e la cosa misteriosa cercò a tentoni un punto d’appoggio.

Il Bagaglio si issò sull’argine. Era zuppo, sporco di fuliggine e molto, molto arrabbiato. Si scrollò e si guardò intorno per orientarsi. Poi si allontanò a un trotto vivace; appollaiato sul coperchio l’omuncolo incredibilmente brutto osservava la scena con interesse.


Bravd guardò Donnola e inarcò un sopracciglio.

— E questo è quanto — concluse Scuotivento. — Il Bagaglio ci ha raggiunti, non chiedetemi come. C’è dell’altro vino?

Donnola prese l’otre. — Secondo me, per questa notte hai bevuto abbastanza.

Bravd corrugò la fronte. — L’oro è oro — sentenziò alla fine. — Come può un uomo che ha tanto oro considerarsi povero? Uno è povero o ricco. È questione di logica.

A Scuotivento venne il singhiozzo. Trovava alquanto difficile invocare la logica. — Be’ — disse — ecco ciò che penso, il punto è, be’, conoscete l’ottirone?

I due avventurieri annuirono. Nelle terre intorno al Mare Circolare lo strano metallo iridescente era tenuto in gran conto come il legno del pero sapiente, ed era quasi altrettanto raro. Un uomo in possesso di un ago fatto di ottirone non perdeva mai la strada, perché l’ago puntava sempre in direzione del Centro, del centro del disco, in quanto estremamente sensibile al suo campo magico; miracolosamente rammendava anche le calze.

— Be’, il mio ragionamento è, vedete, che anche l’oro possiede una sorta di campo magico. Una sorta di stregoneria finanziaria. Eco-gnomia. — Ridacchiò.

Donnola si alzò e si stirò. Il sole ormai era già alto e sotto di loro la città era ammantata di foschie e piena di vapori puzzolenti. Anche d’oro, concluse. In punto di morte, perfino un cittadino di Morpork avrebbe abbandonato il suo tesoro per salvarsi la pelle. Era tempo di muoversi.

L’ometto chiamato Duefiori si era addormentato. Donnola lo guardò e scosse la testa.

— La città ci aspetta — disse. — Grazie del piacevole racconto, mago. Che farete adesso? — Diede un’occhiata al Bagaglio, che immediatamente indietreggiò e gli aprì di colpo il coperchio in faccia.

— Be’, adesso non ci sono navi che lasciano la città — chiocciò Scuotivento. — Penso che prenderemo la strada costiera verso Chirm. Io devo badare a lui, vedete. Ma sentite. Non sono stato io…

— Certo, certo — lo calmò Donnola. Si voltò e balzò in sella al cavallo retto da Bravd. Poco dopo i due eroi s’intravedevano appena in una nuvola di polvere, diretti verso la città carbonizzata.

Scuotivento fissava, inebetito, il turista sdraiato in terra. Due turisti sdraiati. Nel suo stato di confusione, un pensiero vagante nelle dimensioni in cerca di una mente che lo albergasse, gli si insinuò nel cervello.

— Ecco un altro bel pasticcio in cui mi hai ficcato — gemette e si abbandonò all’indietro.

— È matto — asserì Donnola. Bravd, che galoppava a poca distanza da lui, annuì.

— Tutti i maghi diventano così. Sono i vapori di mercurio. Gli corrodono il cervello. È colpa anche dei funghi.

— Tuttavia… — disse l’altro. Tirò fuori dalla lunga giubba un disco d’oro con una corta catena. Bravd alzò le sopracciglia.

— Il mago ha detto che l’ometto aveva una specie di disco d’oro che gli diceva che ora era — spiegò Donnola.

— Ha risvegliato la tua cupidigia, amico? Sei sempre stato un ladro provetto. Donnola.

— Già — riconobbe quello con modestia. Toccò una piccola protuberanza sull’orlo del disco e questo si aprì.

Il minuscolo demone imprigionato all’interno alzò gli occhi dal suo piccolo abaco e disse arcigno:

— Mancano solo dieci minuti alle otto dell’orologio. — Il coperchio si richiuse di scatto e mancò poco che le dita di Donnola ci restassero dentro.

Con un’imprecazione l’uomo scagliò lontano nell’erica il misuratore del tempo che molto probabilmente urtò una pietra. In ogni modo, la cassa si spezzò: ci fu un vivido lampo di ottarino e una zaffata di zolfo e l’essere del tempo scomparì nella dimensione demoniaca, qualunque fosse, che era la sua casa.

— Perché l’hai fatto? — disse Bravd che non si era trovato abbastanza vicino da sentire le parole.

— Fatto cosa? — chiese Donnola. — Io non ho fatto niente. Non è accaduto nulla. Andiamo… stiamo perdendo delle buone occasioni!

Bravd annuì. Insieme, girarono le cavalcature e galopparono verso l’antica Ankh e gli onesti incantesimi.

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