Quattro giorni dopo seguimmo il consiglio di Patrice. Scendemmo fino a Pordand e poi ci dirigemmo verso ovest sulla Route 6. Piovve lungo tutto il tragitto fino a Washington e continuava a piovere anche quando, per arrivare sulla costa, attraversammo la Tillamook State Forest. È una bella foresta, piena di alberi, come non lo è mai stata prima. Era stata oggetto di disboscamento per molti anni fino a quando, nel 1933, un gigantesco incendio aveva lasciato una zona devastata proprio nel cuore della foresta. Quando le fiamme si estinsero, più di trecentomila acri di bosco erano andati in fumo e c’è chi dice che le ceneri incandescenti ricaddero su navi a quasi mille chilometri di distanza. Ma alla fine l’incendio fu spento, e vennero piantati nuovi alberi. Per qualche strano scherzo del destino ci furono altri tre incendi nel 1939, nel 1945 e nel 1951, come se fossero una maledizione che si ripeteva ogni sei anni. Cosi la gente piantò altri semi: associazioni di giardinaggio, scout, gruppi civici venivano a passare i weekend lì per migliorare le cose. Oggi sembra una foresta come tante altre. Se non si conosce tutta la storia, si potrebbe pensare che la foresta sia sempre stata così.
A nessuno di noi due venne in mente di accostare e andare a fare una passeggiata. E sarebbe stato lo stesso anche se non avesse piovuto. Avevamo fatto indigestione di alberi.
Nina non mi permise di sparargli.
Lo stavo per fare, sul serio. Non vedevo un’altra soluzione: era l’uomo che aveva ucciso i miei genitori e distrutto la mia vita; aveva ucciso la figlia dell’uomo che giaceva dall’altra parte della gola e che mi trafiggeva le spalle con lo sguardo; aveva ucciso persone il cui nome non avrei mai saputo e le cui morti sarebbero potute rimanere per sempre ignote. Non sapevo se John aveva ragione a odiarmi per aver fatto cilecca l’ultima volta, ma mi rendevo conto che l’avrebbe avuta se avessi fatto lo stesso errore.
Nina si mise alle mie spalle. Non disse nulla, né tentò di prendere la mia mano. Avvertii solo la sua presenza lì, abbastanza vicina da sentire il calore del suo respiro sul mio collo. Osservai l’uomo ai miei piedi che cercava di muoversi, le mani che scivolavano fiaccamente sulle rocce, come piccole creature pallide ormai vicine al termine della loro vita. Non so come vadano le cose con i pazzi, ma sicuramente hanno forza di volontà. Probabilmente dipende dal fatto di non avere i freni inibitori che invece abbiamo noi, ma può anche darsi che mi sbagli; forse le loro menti sono semplicemente più lucide, non offuscate dalle angosce e dalla moralità che ostacolano noi. Forse hanno il coraggio di rivolgere il loro magico pensiero in alto, alle stelle. A ogni modo, la forza di volontà non era sufficiente per lui in quel momento. Non poteva muoversi, non aveva pistola e non era in grado di nuocere a nessuno.
Potevo sparargli, lo sapevo. Nessuno me l’avrebbe rinfacciato. Connelly osservava la scena dall’alto della gola. Aveva il volto teso e riuscivo a sentire il suo ansimare, ma la canna del suo fucile era sempre puntata su Paul. Sembrava in grado di sparare ancora una volta, al posto mio. Sapevo cosa John desiderava. Phil, invece, era un mistero in quel momento: sembrava un tipo a modo e poco incline a fare del male alle persone, ma — dato che l’Homo Erectus gli aveva sparato nella gamba e lo aveva battezzato tenendolo con la testa sott’acqua — ho il sospetto che sarebbe stato dalla parte dei falchi.
Alla fine, abbassai il braccio.
«Fottuto buono a nulla,» mormorò John. Nina andò da lui, si accovacciò e gli disse qualcosa sottovoce, nell’orecchio. Parlò per un po’, poi prese dalle sue mani la pistola.
Avanzò tenendola puntata sull’Homo Erectus mentre io aiutavo Connelly a scendere nella gola. Aveva un aspetto terribile, ma non peggiore del mio. Un uomo in grado di arrivare da solo in cima alla gola partendo da dove lo avevano lasciato, non avrebbe tirato le cuoia tanto facilmente.
Zoppicò insieme a me fino al punto in cui, stando alle parole di Nina, si trovava Phil. Cercò di dare una mano, ma alla fine fui io che sorressi il suo vice per portarlo dove si trovavano gli altri. Facemmo molto rumore. Poi lo feci appoggiare contro la parete più lontana, proprio di fronte a Paul. Connelly si abbassò per sedersi accanto a Phil, mantenendo sempre il fucile puntato su Paul.
Non sapevo cosa sarebbe successo. Stava ancora nevicando. La neve era un po’ diminuita di intensità, ma non sembrava intenzionata a smettere. Eravamo nel bel mezzo del nulla. Né Phil né Connelly erano in grado di tornare a casa sulle proprie gambe, e la radio dello sceriffo non aveva segnale. John appariva messo meglio: a giudicare dalle condizioni del suo cappotto, il colpo di Nina non aveva fatto molto di più che asportargli un pezzo di carne del braccio. Non aveva nessuna intenzione di parlare con me, né di guardarmi negli occhi.
Nina andò a recuperare Patrice Anders. Non mi ero nemmeno accorto della sua presenza. Sembrava così infreddolita come credo avrebbe potuto essere qualcuno scoperto sotto il permafrost a cavalcioni di un peloso mammut. Le due donne scambiarono qualche parola e poi Nina andò da Connelly e gli chiese il GPS.
«Non ce ne sarà bisogno,» disse la donna. «Conosco la strada.»
Nina se lo mise comunque in tasca. Venne da me, mi sfregò il braccio per un secondo, poi si tolse il cappotto e me lo diede.
A quel punto le due donne cominciarono a risalire il fiume.
«Verrò con voi,» disse John, e si rimise in piedi.
«Stiamo bene, grazie,» disse Nina.
«Forse. Ma ci sono orsi qui intorno. Prima ne ho visto uno, o qualcosa di simile.»
Nina mi guardò. Io scrollai le spalle. Mi sistemai su una grande roccia piatta a un paio di metri da Paul e le guardai allontanarsi.
Durante quella notte accaddero due fatti per me incomprensibili.
Il primo era di minore importanza: mi resi conto che Phil e Connelly stavano parlando a voce bassa, e mi misi ad ascoltare.
Sentii Phil che diceva: «Lo ha sempre saputo, vero?»
«Ero con tuo zio quella notte,» rispose lo sceriffo. Sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, ma guardò nella mia direzione e si accorse che li stavo ascoltando.
Fece un cenno a Phil e scosse la testa. Dopo non ne parlarono più.
Dopo circa un’ora si addormentarono. Non sapevo se fosse una buona idea, ma si erano sdraiati vicini, come per tenersi reciprocamente caldo. Non potevo tenerli entrambi svegli per tutta la notte. Ero così stanco che non sapevo neanche se sarei riuscito a resistere io. Tutti e due russavano, quindi potevo limitarmi a controllare questo.
Mi sentivo come se nella testa avessi avuto una pietra tenuta in equilibrio da un’altra pietra. Avevo l’impressione di aver corso per tre mesi e di essere arrivato alla fine della pista per scoprire che non c’era nessuna linea d’arrivo. Paul sembrava privo di conoscenza, ma tremava vistosamente. Mi accorsi che impugnavo ancora una pistola. Mi sembrò improbabile che Nina sapesse esattamente quante pallottole lui aveva in corpo. Una in più sarebbe passata inosservata. Forse la chiave per superare quella linea d’arrivo era nella mia mano destra. Forse uccidere Paul sarebbe stato l’unico gesto che avrebbe avuto il significato di una fine per me.
Mi mossi silenziosamente e mi avvicinai a lui.
Un colpo solo.
Gli altri si sarebbero svegliati, ma avrei potuto dire che si era mosso.
Sapevo perché Nina mi aveva trattenuto. Non voleva che io commettessi un omicidio a sangue freddo. Credo anche che ritenesse che le famiglie delle persone uccise dall’Homo Erectus — le famiglie delle ragazze che erano scomparse due anni prima a Los Angeles, e tutte le altre cui poteva essere collegato — avessero il diritto a qualcosa di più della semplice notizia di un’esecuzione sommaria avvenuta in mezzo ai boschi a mille miglia di distanza, quasi in disparte. Sapevo che era stata soprattutto questa convinzione ad averla spinta a continuare il proprio lavoro nel corso degli anni, e a cercare di eliminare quegli individui, nonostante ne spuntassero fuori degli altri per prendere il loro posto. D’accordo, avevamo mantenuto il segreto su The Halls, ma non avevamo fatto nessun prigioniero.
Alla fine, non fu nulla di tutto questo a farmi riporre la pistola. Ad essere sincero, non so cosa mi abbia convinto a farlo.
Mi alzai, scrollandomi di dosso il cappotto di Nina. Lo stesi sul corpo di Paul e lo rimboccai ai lati. Il suo viso era livido e le labbra tendevano al blu.
Mi resi conto che stavo piangendo.
Mi sedetti vicino alla sua testa, la posai sulle mie ginocchia, dove sarebbe stata più al caldo, e passai il mio braccio attorno alle sue spalle.
Non so perché lo feci. Sapevo quante persone aveva ucciso, e sapevo anche che avrebbe fatto lo stesso con Nina, John e me. Ma non potei impedirmi di farlo.
Connelly si svegliò per un breve momento, ma non disse nulla. Poi mi addormentai, appoggiato malamente alla parete rocciosa, un sonno costellato di fitte dolorose. Fui svegliato da un rumore che proveniva da sopra di me e da un vento diverso.
Aprii gli occhi e vidi Connelly e Phil che si alzavano aiutandosi a vicenda; erano immersi in una luce bianca e guardavano verso il cielo mentre la fune veniva calata lentamente da un elicottero.
Fui l’ultimo a essere recuperato, l’ultimo a lasciare quel posto gelido. Avevo un mal di testa feroce ed ero così stanco che riuscivo a stento a tenere gli occhi aperti, mentre venivo sollevato tra il rumore, il vento e la neve fluttuante.
A un certo punto guardai in basso, e per uno strano istante, in un lampo di luce, mi sembrò di vedere alcune figure nella gola, che mi osservavano mentre venivo sollevato verso il cielo. Battei le palpebre per cercare di vedere meglio, ma erano sparite.
Poi una folata di neve nascose il terreno alla vista, e sentii delle mani che mi issavano nella macchina volante.
Quando raggiungemmo l’oceano, svoltammo a destra percorrendo la strada costiera verso nord. In Oregon è vietato lottizzare la costa e quindi essa appare selvaggia e antica, un posto dove possono accadere strane cose. In passato poteva capitare di trovare blocchi di cera d’api nella sabbia e all’interno delle terre; alcuni sembravano riportare dei simboli, e qualcuno di questi avrebbe potuto essere cinese antico. Sapevo che, tra le cose raccontate da Zandt, almeno questa era vera, anche se continuavo a non credere molto al resto. Un disegno è un disegno, e basta. Non deve necessariamente descrivere qualcosa di reale.
Non sapevamo dove si trovasse John. Quella notte aveva zoppicato per gran parte del percorso assieme a Nina e Patrice, senza aprire bocca. Credo che le abbia aiutate, coprendo loro le spalle. Una sorta di penitenza o qualcosa del genere. Ma quando erano arrivati in prossimità delle abitazioni, era scomparso. Nina lo aveva chiamato per dieci minuti, senza ricevere risposta.
Il problema di quell’uomo, come disse Nina più tardi, è proprio questo: non risponderà mai alle tue chiamate.
Non le dissi quello che l’uomo con gli occhiali rotondi mi aveva raccontato su John e su ciò che aveva fatto. Probabilmente era la verità, ma non cambiava granché le cose. Ritenevo altrettanto probabile che Dravecky avrebbe presto ricevuto un’altra visita da parte sua. Resto dell’idea che John non avrebbe mai dovuto uccidere Ferillo. Facendolo, aveva superato un limite e non sarebbe mai ritornato dalla nostra parte.
Il resto del viaggio richiese circa quaranta minuti. Per la maggior parte del tempo Nina tenne i piedi sul cruscotto, intenta a guardare il mare. Eravamo appena usciti da Nehalem quando il suo telefono squillò. Guardò lo schermo e prese la chiamata.
«Era Doug,» disse una volta terminata la conversazione.
«E?»
«Non è morto.»
«Chi?»
«Nessuno dei due. L’eroico Charles Monroe, a quanto dicono, sta facendo passi da gigante. Mi ero proprio sbagliata nel giudicare quell’uomo.»
«No, affatto,» dissi. «Semplicemente per lui non era ancora arrivato il momento di uscire definitivamente di scena.»
In ogni caso, questa era una bella notizia. Tra Monroe e Doug le cose potevano essere sistemate, più o meno. Nina si era incazzata a morte nello scoprire che Doug aveva tramato con Zandt alle sue spalle, ma quello era una sciocchezza se paragonato ai vantaggi che la sua collaborazione ci aveva fruttato. Eravamo già stati cancellati dagli eventi verificatisi nella foresta a nord di Sheffer. Connelly era riuscito a sistemare tutto prima che qualcun altro si immischiasse della faccenda. Agli occhi della legge noi avevamo lasciato la città non appena la dottoressa ebbe curato la mia spalla. Nella foresta si recarono solo Connelly e il suo vice. Uno dei tizi dell’elicottero era nipote dello sceriffo, quindi sarebbero stati al gioco. Connelly aveva trattenuto le nostre pistole per eseguire le perizie balistiche sui killer uccisi e su Paul. Una pistola ritrovata nella macchina dei cecchini mandati dagli Uomini di Paglia avrebbe probabilmente collegato l’assassino occhialuto con il ferimento di Charles Monroe. Patrice Anders avrebbe confermato la versione di Connelly. Quella donna aveva la pelle dura. Ebbi la sensazione che lei e lo sceriffo avessero preso un’iniziativa non precisamente ufficiale, di cui solo loro si sarebbero assunti la responsabilità. Mi domando anche come facesse a sapere esattamente dove dirigersi nella foresta. Comunque sia, lasciamo pure a ognuno i suoi segreti.
«Dov’è Paul?»
«In un ospedale di Los Angeles, sotto stretta sorveglianza. I medici si stanno ancora chiedendo come diavolo ha fatto a sopravvivere.»
Me lo sentivo che era ancora vivo e che forse sarebbe sopravvissuto. «Dio si prende cura dei bambini, degli ubriaconi e dei pazzi criminali.»
Nina sorrise. «Credo che ciò che sta veramente guarendo Monroe sia il fatto di sapere che l’uomo che lui ritiene essere il Ragazzo delle Consegne è ridotto a un colabrodo e rinchiuso in un ospedale con guardie armate ovunque. Charles è riuscito a risolvere il suo caso e alla fine i suoi problemi si dissolveranno come neve al sole.»
«Quindi la cosa vale anche per te, no?»
«Vedremo.»
La sua voce era tranquilla. Controllai la strada poi mi girai verso di lei. «Cosa c’è?» domandai. «Cosa c’è che non va?»
Scosse la testa. «In realtà nulla. Doug mi ha appena detto una cosa su una ragazza di nome Jean che ho interrogato la settimana scorsa. Due notti fa è andata a un party in una grande villa su Mulholland Drive. Ora è in ospedale con la mascella rotta e bruciature di sigaretta sul corpo.»
Fissò la strada davanti a noi, con aria stanca e triste. «Perché siamo così?»
Non avevo una risposta.
Arrivammo a Connon Beach poco prima delle cinque. Attraversammo lentamente la città, che era praticamente costituita solo da due o tre file di graziose case estive in legno, una strada principale con un supermercato e qualche pretenzioso negozietto di artigianato. Era buio e continuava a piovere, e c’era la tranquillità tipica del fuori-stagione. Nella parte nord della città trovammo comunque un albergo chiamato «Dunes» che sembrava fare al caso nostro. C’era un’insegna «Camere libere» illuminata, il che era la cosa più importante. A giudicare dalla desolazione del parcheggio l’hotel era praticamente tutto per noi.
Prendemmo due stanze e ci sistemammo.
La mia era al terzo piano: era grande e aveva un camino su un lato. L’intera parete di fondo era in vetro e dava sul mare. Non riuscii a scorgere nulla se non l’oscurità, ma rimasi comunque seduto lì a guardare mentre bevevo una birra. D’impulso, tirai fuori il portatile — quello di Bobby — e infilai il cavo nella presa telefonica a muro. Mi ritrovai a lanciare un browser e a digitare un indirizzo web.
Pochi secondi dopo il sito di Jessica comparve sul mio schermo. Evidentemente il webmaster non si era preoccupato di rimuoverlo. Avrebbe potuto non farlo mai: chi avrebbe mai notato quei megabyte in più su un server sperduto? Si sarebbe aggiunto a tutto il resto, alle memorie effimere, alle parole e alle immagini della rete. Era questa l’immortalità? No. Come aveva detto qualcuno l’immortalità è non morire. Era qualcosa al tempo stesso migliore e peggiore del nulla.
C’era una pagina iniziale con il volto luminóso e sorridente di Jessica. Il link alla pagina della webcam era inattivo. C’era un’altra pagina dove lei aveva descritto i suoi hobby — comporre canzoni, la qual cosa spiegava la presenza della chitarra — e qualche foto. Solo una di queste la ritraeva seminuda, ma non mi soffermai. Erano le altre a essere più eloquenti. Immagini di una ragazza che conduceva la sua vita, che guardava la televisione e leggeva delle riviste. Lì c’era il suo modo d’essere, qualcosa di più del corpo freddo in una cella dell’obitorio di Los Angeles. Non riuscivo ancora a togliermi dalla testa l’idea di avere visto Jessica nella foresta, anche se sapevo che era stata un’allucinazione.
Con qualcuno dei tipici trucchetti da hacker riuscii a entrare nel server. Copiai il contenuto sul mio disco fisso, nel caso in cui il tizio prima o poi si fosse deciso a fare pulizia. Quando ebbi finito mi accorsi che tra i file ce n’era uno di testo. Lo aprii. Conteneva brevi stralci di diario che lei evidentemente aveva deciso di non mettere on line. I federali sicuramente li avevano già scovati e dovevano già avere appurato che non contenevano nulla di utile. L’ultimo brano risaliva a tre giorni prima della sua morte, e parlava di un certo Don, qualcuno a cui lei credeva di piacere e a cui pensava di telefonare un giorno o l’altro.
Chiusi il portatile di Bobby e pensai un po’ a lui, in un angolo segreto della mia mente. È lì dove vanno tutti: nei cimiteri delle nostre menti; sono lì, dietro i nostri occhi, dove non li puoi vedere. Ma ciò che quelle persone a te care hanno fatto, quello che sono state, continua a esistere. Non è un posto isolato, puoi andare a visitarlo di tanto in tanto.
La mattina dopo mi alzai tardi. Aveva smesso di piovere, ma il vento aveva ripreso vigore. Fuori dalla mia finestra ora riuscivo a scorgere tra le scogliere a picco un lungo tratto di spiaggia, sabbia grigia, acqua grigia, cielo grigio.
Poco tempo dopo Nina bussò. «Vuoi fare una passeggiata?»
«Perché? È una bella giornata?»
Vagammo per le strade vuote, bevemmo un paio di caffè, ridacchiammo dell’arte scadente. Passammo un paio d’ore sulla spiaggia, isolati dal mondo, in alcuni momenti l’uno accanto all’altra, in altri ognuno per conto suo. Osservammo le onde gigantesche che si frangevano sugli scogli, salutammo gli uccelli temerari che volteggiavano frenetici nel vorticoso caos sopra di noi. A metà pomeriggio il vento divenne così forte che potevi allungare le braccia e lasciarti andare, sicuro che ti avrebbe sorretto. Ed è quello che facemmo anche noi, mentre la sabbia ci turbinava intorno e il mondo girava.
Quando ricominciò a piovere trovammo riparo ai piedi di un’altra roccia e rimanemmo seduti a una breve distanza l’uno dall’altra, a contemplare il mare. Mi resi conto in quel momento del perché siamo sensibili al rumore delle onde, alla pioggia che cade e al vento tra gli alberi. Perché non hanno significato. Non hanno nulla a che fare con noi. Sfuggono al nostro controllo. Ci ricordano un tempo lontano, agli albori della nostra esistenza, quando non comprendevamo i rumori intorno a noi, ma li accettavamo; e loro ci confortavano, consolandoci per i nostri continui tentativi di cambiare il mondo mediante atti di magia o pensieri senza fine. Un suono senza significato, che amiamo in contrapposizione all’angoscia dell’azione, del bisogno di creare dei modelli, dello sforzo di comprendere e cambiare le cose. Non appena cominciammo a fabbricare qualcosa e a usarlo per uno scopo ben preciso, fummo beati e dannati al tempo stesso. La capacità di creare utensili ci ha dato il mondo, ma ci ha fatto perdere il senno.
Non facemmo nulla per un’ora; eravamo due persone ai margini di un mondo a cui volgevamo le spalle. Quando divenne buio, tornammo in albergo. Mi feci una doccia, mi cambiai e poi percorsi la passerella di legno per andare a bussare alla porta di Nina.
«Ehi,» disse.
«Ti va un drink?»
Sollevò un sopracciglio. «È una specie di appuntamento, o qualcosa di simile?»
«No,» risposi. «Niente di tutto questo.»
A qualche strada di distanza trovammo un posto chiamato Red’s Tavern, dove si potevano bere le birre che venivano fatte al piano di sopra. Dopo un po’ il locale si riempì di gente del posto e alla fine una band scalcinata si materializzò in fondo al locale: un paio di chitarre, un lap-steel, un violino, un washboard. Suonarono per un po’, andando e venendo a seconda dell’ispirazione. Le luci erano basse e calde e per la prima volta mi resi conto che la donna seduta di fronte a me aveva dei riflessi ramati nei capelli. Ascoltammo la musica, battemmo le mani e cantammo come tutti gli altri, guardammo le bariste ballare e ridere dietro il bancone mentre riempivano i bicchieri di una birra così chiara da sembrare acqua di sorgente. Alla fine mi presi una porzione di chili che non era affatto male.
Quando ce ne andammo la band stava ancora suonando. Tornando in albergo, comprammo una bottiglia di vino in un negozio lungo la strada. Accendemmo il camino nella mia camera e aprimmo un po’ la finestra, così da poter sentire contemporaneamente il rumore delle onde e lo schioppettare del legno. Sedemmo per terra con la schiena appoggiata all’estremità del letto e parlammo a lungo, fino a tarda notte, senza accorgercene.
Continuammo a mettere legna nel camino perché non volevamo che il fuoco si spegnesse, ma alla fine la camera fu immersa nell’oscurità e divenne abbastanza calda perché non ci fosse più bisogno di parole.
Fu lei a fare la prima mossa.
Lei è fatta così.