Parte I Freddi rifugi

Sono convinto

Anche se non le ho trovate

Che ci possano essere

Parole che sono cose.

Lord Byron, Il pellegrinaggio di Childe Harold

Capitolo uno

Non c’è mai verso di trovare un parcheggio quando ne hai bisogno. Stai andando a tutta velocità, solo foresta da ambo i lati della strada, avendo facilmente la meglio di piccoli avvallamenti e discese ripide, file di betulle che incorniciano una serie di immagini tremolanti così splendide nel loro candido biancore da non riuscire nemmeno a vederle. Continui a pensare che dietro la prossima curva troverai pure un posto dove fermarsi e parcheggiare, ma per qualche strana ragione non c’è mai. È un nuvoloso martedì pomeriggio di metà gennaio, un fatto che di per sé ti è già parso bizzarro, è un periodo strano per fare quello che stai facendo, e tu hai la strada tutta per te per forse dieci chilometri in entrambe le direzioni. Potresti semplicemente lasciare la macchina sul ciglio della strada, ma non ti sembra la cosa corretta da fare. Sebbene sia un’auto a noleggio e non abbia con te alcun legame se non quello di essere l’ultima macchina che guiderai, non ti va di abbandonarla così. Non è una questione di sentimentalismo, non pensi si tratti di questo. Non è nemmeno il voler «evitare che qualcuno la veda, che si chieda se stia accadendo qualcosa di spiacevole e cominci a indagare — anche se in realtà non vuoi che accada. È solo una questione di precisione: vuoi che la macchina sia parcheggiata. Ferma in un posto. Proprio in questo momento ti sembra un elemento fondamentale, ma non c’è mai un’area dove fermarsi. Improvvisamente ti rendi conto che è questo il problema: vivere in un dannato guscio di noce. Mai un posto dove fermarsi, nemmeno quando ne hai bisogno veramente. A volte non si tratta di cercare un belvedere, vuoi solo avere la possibilità di…

Cazzo — eccone uno.

Tom abbassò il piede tre secondi in ritardo e troppo violentemente. L’auto sbandò per una decina di metri, sculettando graziosamente fino a che non si fermò a cavallo delle due corsie, come se vi fosse stata messa da una mano gigante. L’uomo rimase immobile per un attimo, con il collo che formicolava. Attraverso il finestrino penetrava l’aria fredda e il suono di un uccello che gracchiava con insistenza maniacale. A perte questo, tutto era silenzio, grazie a Dio. Se ci fosse stato qualcun altro sulla strada sarebbe finita male, il che sarebbe stato dannatamente ironico, ma ancora una volta, sarebbe stato un evento non voluto. Era già abbastanza mal sopportato così.

Manovrò l’auto fino a riportarla nella giusta direzione e poi fece un po’ di retromarcia fino alla piazzola. Sarah sarebbe stata in grado di infilarcisi direttamente, lui no. Perlomeno, non si sentiva sicuro di saper fare una cosa del genere, e quindi non ci provò nemmeno. Quello era sempre stato il suo modo di fare: nascondere i propri difetti, custodire i propri segreti. Non correre mai il rischio di apparire un imbecille, anche se questo significava sembrare un codardo imbecille.

Svoltò nella piccola area di parcheggio, facendo scricchiolare la striscia di dieci centimetri di neve spazzata via dalla carreggiata. Lo spiazzo faceva evidentemente parte dell’inizio di un qualche sentiero poco conosciuto, sicuramente chiuso per il fuori stagione. Solo quando la macchina fu ferma Tom si accorse che le sue mani stavano tremando vistosamente. Si allungò sul sedile del passeggero per raggiungere la bottiglia e bevve un lungo sorso. Guardò per un po’ nello specchietto retrovisore, ma non vide nulla se non il volto pallido, i capelli castani, gli occhi segnati e quel principio di doppio mento che si aspettava. La maschera tipica della persona di mezza età.

Aprì la portiera e lasciò cadere le chiavi nella tasca laterale. Non aveva senso rendere tutto troppo ovvio. Si trascinò fuori dall’auto e scivolò immediatamente su un sasso, finendo lungo disteso per terra.

Quando si sollevò sulle ginocchia vide che c’erano dei piccoli tagli bagnati su uno dei palmi, e anche la fronte e la guancia destra sembravano sanguinare. Il dolore alla caviglia e il fastidio al viso provocato dai frammenti di selciato gli fecero capire, in un attimo di lucidità, che quello che stava facendo era la cosa giusta.

Prese il suo zaino dal portabagagli e lo chiuse: l’irrevocabilità del rumore prodotto gli fece comprendere che in fin dei conti provava qualcosa nei confronti di quel veicolo. Si assicurò che l’auto fosse chiusa, poi superò la bassa barriera fatta di tronchi e si mise in cammino tra gli alberi, avendo cura di andare in direzione opposta al sentiero.

L’uccello, o una creatura molto molto simile, stava ancora producendo quel suo fastidioso gracchiare. Tom provò a farlo tacere, prima a parole poi con dei semplici rumori. In un primo tempo l’uccello sembrò zittirsi, ma ben presto ricominciò la sua litania. Tom comprese il messaggio: in quel frangente lui era semplicemente un altro animale rumoroso e non occupava alcuna posizione che gli desse il diritto di dare ordini.

Lasciò perdere l’uccello e si concentrò per rimanere in piedi.

Il percorso era duro e ripido, e ben presto si rese conto del perché non ci fossero aree di sosta: quella foresta non aveva nulla di ameno e piacevole. Non era lì per il piacere di qualcuno: non c’erano percorsi con le corde, bivacchi o piazzole per un picnic, nessuna delle tradizionali vie di mezzo tra un pasto cucinato e uno crudo. La cosa non lo disturbava. Quel poco di cibo di cui aveva bisogno l’aveva con sé già pronto. Nello zaino non c’era praticamente nulla se non dell’alcool, e Tom si era fermato per risistemare il contenuto in modo che le bottiglie non urtassero fra loro. In corpo non aveva niente se non alcool. Cominciava già a dubitare della vodka come filosofia di vita. Ad ogni modo, non era fatta per i codardi. Ci voleva un elevato livello di tolleranza per sentirsi una merda. Lui non era ancora arrivato a quello stadio, ma affrontava la cosa abbastanza coraggiosamente.

Dopo due ore stimò di aver percorso appena cinque chilometri, nonostante si fosse inerpicato abbastanza da lasciarsi indietro le betulle e le sanguinelle e da rimanere da solo con abeti e cedri. Su in alto il terreno era sgombro dalla neve, ma era ricoperto di rami caduti e di cespugli che aggredivano i suoi jeans e la sua giacca. Gli alberi erano alti e silenziosi, e crescevano un po’ dove cavolo volevano. Ogni tanto si imbatteva in un torrente. Le prime volte li superava con un semplice salto, ma quando la caviglia cominciò a fargli più male fu costretto a deviare alla ricerca di quei punti dove fosse più facile attraversare. A volte borbottava tra sé, ma per lo più rimaneva in silenzio, risparmiando il fiato. Più procedeva veloce e meno doveva essere accorto. Quando finì la bottiglia, l’abbandonò e proseguì. Dopo un centinaio di metri si rese conto che si era comportato da bestia e tornò indietro per cercarla. Non riuscì a trovarla, e questo fatto gli fece capire che stava facendo le cose nel verso giusto. Via via che aumentava il suo stato di ebbrezza, cresceva anche la sensazione di essersi perduto. Continuava a procedere di buona lena nel folto della foresta. Il tempo speso a consultare le mappe dei Green Trails gli aveva mostrato come in quell’area scarseggiassero perfino le piste per il trasporto del legname, ma sapeva, per l’esperienza fatta in città, che il suo senso dell’orientamento era piuttosto buono. Ma sapeva anche quanto fosse debole, come potesse essere facilmente preda di un impulso capace di condurlo per mano in posti dove non desiderava andare, salvo poi svanire improvvisamente, lasciandolo con le mani sporche di sangue. Ecco perché l’elemento fondamentale era perdersi, perché altrimenti avrebbe cambiato idea. Si sarebbe tirato indietro, avrebbe tergiversato per poi rinunciare e non v’è dubbio che non c’è nulla di più patetico che mandare a puttane il proprio suicidio.

Tom Kozelek era venuto nel Nord-ovest senza altro piano preciso che non fosse il desiderio di essere in un qualunque posto lontano da Los Angeles. Si era trovato, leggermente ubriaco, all’aeroporto di Los Angeles e aveva scelto Seattle perché vi si era recato non molto tempo prima per lavoro e vi conosceva un buon hotel. Ci rimase solo una notte e poi si diresse a est, verso le Cascade Mountains. È una strana regione. Ci sono cime e valli vertiginose, rocce frastagliate che mostrano ogni sfumatura di grigio. Possiede anche un po’ di storia, del tipo: «E poi tagliarono ancora molti e molti alberi». Ma non ci sono molte strade e le montagne sembrerebbero custodire per se stesse ciò che sono: a meno che non si abbia bene in mente dove andare — e non era questo il caso di Tom — si potrebbe facilmente pensare che laggiù non ci sia proprio un posto dove andare. Per due giorni aveva vagato incerto tra piccole e fredde città, passando le serate nelle stanze dei motel con la televisione spenta. Aveva telefonato a quella che un tempo era stata casa sua. E la cosa peggiore è che dall’altra parte avevano risposto. La conversazione con sua moglie e i suoi figli era stata breve e non era degenerata in urla, ma in qualcosa di peggio. Ci sono momenti in cui la ragionevolezza è il colpo peggiore, perché se tutti si comportano da persone adulte e tuttavia il mondo è ancora a pezzi, dove potrai mai andare?

Alla fine trovò un villaggio chiamato Sheffer e ci si sistemò. Sheffer era poco più di una strada principale e cinque traverse che andavano rapidamente a perdersi in mezzo a ripide colline pedemontane soffocate dagli abeti; ma un paio di presuntuosi bed breakfast e una tavola calda hippy con dei buoni biscotti di farina d’avena e cinque copie pressoché intatte de I ponti di Madison County lasciavano intuire che la gente andasse lì di proposito. Lungo la strada principale c’era un piccolo museo della ferrovia chiuso e un tratto di binari in disuso, riconvertito ad asilo per vecchie carcasse di materiale rotabile pittorescamente arrugginito. Era fuori stagione, la città era in letargo e la gente del posto usciva dallo sfondo, togliendosi la muffa dai capelli col pettine.

Quattro giorni prima della sua escursione nei boschi Tom sedeva al bancone del Big Frank’s, il meno anodino dei tre bar del luogo, e osservava la telecronaca di uno sport straniero di cui non capiva le regole. Si sentiva a un tempo agitato e rilassato, perduto com’era all’interno del territorio degli indiani Injun. Aveva quarantatré anni, le sue belle carte di credito e una macchina a disposizione. Non era limitato dalle aspettative o dalla precedente conoscenza di qualcuno: se voleva poteva far finta di chiamarsi Lance e spacciarsi per un ex pilota di caccia diventato milionario con l’e-business; oppure di essere un coreografo jazz-fusion di culto di nome Bewildergob. Nessuno avrebbe mai potuto contraddirlo o preoccuparsi di farlo. Poteva fare qualsiasi cosa desiderasse, ma con ciò arrivò la consapevolezza che non c’era niente che volesse fare. Niente di niente.

Ormai nulla avrebbe potuto fare la differenza: aveva superato il punto di non ritorno.

Bevve fino a che il suo cervello divenne vuoto e freddo. L’idea gli balenò nella testa come se fosse stata una freccia scagliata da un arciere lontano. Si rese conto che c’era un modo per rendere le cose accettabili, se non migliori, per eliminare i problemi. Prese un’altra birra e se la portò a un tavolo in un angolo buio dove valutare più attentamente l’idea che gli era balenata.

Come molte altre persone, aveva già pensato al suicidio in precedenza. Mai seriamente, però: si era sempre trattato più che altro di un’occhiata fugace per rendersi conto che l’idea rimaneva sempre ridicola. Questa volta era differente, non si trattava di un gesto puro e semplice, ma di qualcosa di perfettamente razionale. Dopo tutto la sua situazione non era ancora irrimediabile. Il suo matrimonio era finito, ma non tutte le sue amicizie. Poteva trovarsi un nuovo lavoro, progettare siti web aziendali per qualcun altro, affittare un appartamento, farsi il bucato, comprare un forno a microonde che fosse tutto suo. Nel giro di un anno ogni cosa avrebbe potuto apparirgli del tutto diversa. E allora? Lui sarebbe sempre stato il solito Tom, un eterno procrastinatore privo di qualsiasi talento, lentamente ingrossatosi a causa della metabolica pompa a pedali dell’età. Sarebbe comunque rimasto la persona che lo aveva portato fin lì. La vita faceva già abbastanza schifo così — cosa sarebbe successo se avessero scoperto il resto? Le scelte che desiderava prendere esistevano solamente nel passato.

Allora perché non piantarla? Tracciare la linea di confine. Assorbire la perdita. Sperare che la reincarnazione esista e che le cose vadano meglio la prossima volta.

Perché no? Dopo tutto — perché no?

Continuò a bere fino alla chiusura del bar, poi cercò di fare quattro chiacchiere con i due giovani baristi che lo stavano accompagnando con modi poco garbati verso la porta. Uno dei due ostentava solo noia, l’altro un disgusto appena dissimulato. Tom si rese conto di essere probabilmente non molto più giovane dei loro padri, quasi sicuramente dei montanari dalla mascella quadrata che bevevano un sorso di bourbon o di sour mash, o di chissà che cazzo altro, una volta al mese. La porta fu sprangata alle sue spalle. Mentre barcollava fino al suo motel gli venne in mente che non avrebbe più dovuto preoccuparsi di ciò che gli altri pensavano di lui. Il suo nuovo progetto lo poneva su un livello superiore. Poteva fregarsene tranquillamente. La rabbia gli montò a tal punto che si trascinò di nuovo verso il bar, con l’intenzione di spiegare a quei due figuri che sebbene questo fosse un periodo fantastico per i ragazzi di vent’anni, gli uomini di mezza età non se la passavano poi tanto bene; che un giorno i loro addominali avrebbero potuto cedere, che avrebbero dimenticato come si fa ad amare e che non avrebbero avuto la minima idea di chi fossero. Sentì che questa sarebbe stata una preziosa chiave di lettura per loro. A ogni modo, era l’unica che aveva e desiderava condividerla. Quando arrivò al locale le luci erano spente e la porta chiusa. Bussò per un po’ alla porta, dicendosi che avrebbero potuto essere ancora dentro, ma principalmente perché aveva voglia di qualcosa su cui picchiare. Non passarono più di cinque minuti, e Tom si trovò improvvisamente investito da un fascio di luce. Si voltò e vide un’auto della polizia locale parcheggiata nella strada alle sue spalle. Un tizio dall’aria giovanile e in uniforme era appoggiato al parafango, con le braccia conserte.

«Credo che sia chiuso, signore» disse.

Tom aprì la bocca ma si rese conto che c’era troppo da dire e nulla che avrebbe avuto un senso. Alzò le braccia, ma non in segno di resa, quanto piuttosto in una sorta di muta supplica. Stranamente, il vice sceriffo sembrò comprendere. Annuì dicendo: «Mai più», entrò in macchina e si allontanò. Tom camminò fino al motel, muovendosi a passi felpati nel mezzo della strada principale, superando il lampeggiare risoluto e meditativo di semafori che non avevano auto cui dare indicazioni.

Il mattino dopo considerò a fondo la cosa. Le sue opzioni erano limitate: non c’era un negozio di armi in città e non voleva andare a cercarne uno in macchina. E anche ammettendo che gliene avessero fatta acquistare una, le armi da fuoco, comunque, facevano sempre un po’ paura. Anche gettarsi da una rupe, supponendo che fosse riuscito a trovarne una, era da scartare. L’idea era in sé e per sé controrivoluzionaria. Dando per scontato che la sua mente fosse determinata a compiere quel gesto, c’era comunque la possibilità che il suo corpo semplicemente si ribellasse — nel qual caso avrebbe dovuto ritornare a piedi alla macchina sentendosi l’uomo più idiota del mondo. «Sì, è vero, avevo intenzione di buttarmi di sotto. No, non l’ho fatto, mi dispiace. C’era una bella vista, però. Attenzione solo a dove mettete i piedi.» Tom non aveva alcuna intenzione di finire come un qualcosa di gonfio o spiaccicato, qualcosa da trovare, fotografare e poi spedire a casa. Non voleva finire in pezzi, desiderava essere cancellato.

Una domenica, mentre stava dando l’assalto a un’insalata Reuben da Henry’s, il ristorante più accogliente della città, sentì una cosa che mise l’ultimo tassello al posto giusto. Un veterano del luogo si stava dilettando a tormentare una coppia di pensionati della tribù dei Winnebago circa la vastità e l’impenetrabilità dei boschi. L’attenzione di Tom fu attirata dalla ripetizione di un numero: settantatré. Il veterano lo ripeté un certo numero di volte in fila: settantatré.

I suoi interlocutori si guardarono annuendo come se fossero rimasti piuttosto colpiti. Quindi l’uomo si rivolse al veterano con l’aria di chi ha individuato un punto debole nelle argomentazioni di un altro.

«Grandi o piccoli?» domandò. «Gli aerei — di che dimensioni erano?»

Sua moglie annuì. Suo marito non era mica nato ieri, l’aveva sempre detto.

«Di tutte le dimensioni,» disse il vecchio bislacco, un po’ stizzosamente. «Grandi, piccoli, civili, militari. Gli aerei precipitano in continuazione — in realtà, molti di più di quelli che sono stati rinvenuti qui intorno. Quello che voglio dire è che di tutti gli aerei che sono precipitati nel Nord-ovest del Pacifico dalla guerra in poi, settantatré non sono mai stati ritrovati.»

Sarà vero?, pensò Tom.

Allontanò il suo panino, pagò il conto e andò a comprare tanto alcool quanto riuscì a trasportarne.


Non era preparato alla rapidità con cui scese l’oscurità. Più che camminare incespicava, e i muscoli delle cosce e dei polpacci stavano diventando di piombo. Aveva percorso forse solo una decina di chilometri, al massimo quindici, ma era esausto. Gli venne in mente che se avesse passato più tempo in palestra sarebbe stato in una forma fisica migliore per morire. Questo lo fece ridere fino a che la bocca non gli si riempì di saliva calda, costringendolo a fermarsi per consentirgli di respirare molto profondamente ed evitare così di vomitare.

In quel momento era ubriaco come non era mai stato. Mentre si riposava, chinandosi in avanti con le mani poggiate sulle ginocchia e osservando le macchie che danzavano davanti ai suoi occhi, valutò il da farsi. Si era già perso a sufficienza. Perdersi poteva essere quindi cancellato dall’elenco delle opzioni. Col procedere del pomeriggio il terreno era diventato più montagnoso, ripido, scivoloso e infido. Al calare della notte, sarebbe stato molto buio, proprio quel tipo di oscurità in grado di inghiottire e assordare una persona di città. Si tolse lo zaino dalle spalle e si mise a frugare all’interno alla ricerca della torcia. Quando l’accese si rese conto che non era solo la qualità della luce che stava cambiando: stava calando la nebbia e faceva anche un freddo cane. Per il momento si trattava solo di sudore che si trasformava in acqua gelida sulla pelle, ma quando fosse penetrato fino alle ossa sarebbe stato duro da sopportare. Il che significava che doveva continuare a muoversi.

Ruotò le caviglie per scaldarle un po’, fece una piccola svolta e proseguì. La foresta adesso era immersa nel silenzio più assoluto, gli uccelli si erano sfogati a sufficienza ed erano tornati ad appollaiarsi nei loro nidi. Tom non era altrettanto sicuro che gli altri animali avessero fatto lo stesso, e aveva già speso un po’ del suo tempo a non pensare agli orsi. Tom non credeva di apparire come una minaccia a qualsiasi grande mammifero gli potesse capitare di incontrare, e per di più non aveva nessun cibo per attirarli, ma forse queste erano tutte cazzate. Forse quelle bestie se ne stavano in attesa e attaccavano le persone solo per il divertimento di farlo. A ogni modo non voleva pensare al problema, quindi non lo fece. E continuò a non pensarci a intervalli regolari. La torcia aveva due impostazioni, una a luminosità piena e una a luminosità attenuata, e Tom scelse ben presto quest’ultima. Man mano che la nebbia si infittiva, la luce gli si rifletteva sempre di più in faccia dandogli le vertigini. Inoltre, la luce rendeva le ombre ancora più minacciose. Di giorno le foreste sono posti accoglienti. Ti fanno venire in mente le passeggiate domenicali, lo stormire delle foghe, la grande e calda mano di un genitore da tenere nella tua. Di notte invece si tolgono i guanti e ti ricordano per quali ragioni al buio diventi nervoso. Di notte le foreste ti dicono: «Vatti a cercare un riparo, uomo-scimmia, questo posto non fa per te.»

E così Tom rimase in uno stato di cecità causato dalla nebbia, continuando a stordirsi con la vodka e a camminare. Era sicuro che tutti gli scricchiolii e i fruscii che sentiva fossero prodotti da lui stesso. Non c’erano figure immerse nella nebbia, solo il movimento della stessa foschia — anche di questo era certo. Poteva continuare a camminare in tutta sicurezza e con appena un moderato sconforto: camminare finché non fosse totalmente buio e il tempo stesso sembrasse annullarsi, fino a che ogni pensiero non diventasse indistinguibile dal successivo, fino a che la paura non si ripiegasse su se stessa per poi espandersi di nuovo, e lui cominciasse a muoversi sempre più veloce per scappare da qualcosa che portava dentro di sé.


Non ebbe nessuna avvisaglia del precipizio. Si stava facendo strada aggredendo una lunga fila di arbusti di media altezza, e arrendendosi a un terzo attacco di violenti singhiozzi, quando tutto a un tratto il piede d’appoggio non trovò più nulla. Il suo corpo fu proiettato in avanti, impossibilitato a mantenere l’equilibrio.

Si ritrovò immediatamente a scivolare lungo un pendio ripido, con le gambe divaricate e le braccia che sbattevano ovunque. La fase di accelerazione si interruppe quando il corpo andò a sbattere contro un piccolo albero. In quella circostanza Tom perse la torcia e la bottiglia, e ruotò su un fianco per continuare a scivolare rovinando su ogni roccia che si trovava sul terreno. La discesa fu fulminea e la conclusione fu un atterraggio a faccia in giù con un colpo che gli tolse quel poco di aria che gli rimaneva nei polmoni.

Emise un gemito fioco e disperato. Quando ne fu in grado si scrollò di dosso lo zaino e rotolò sulla schiena. Il dolore al petto era così intenso che gli fece emettere un fischio involontario. Questa caduta gli aveva fatto molto più male di quella fuori dalla macchina. Si sentiva come se qualcuno avesse infilato una lancia nel lato destro del suo corpo e stesse incoraggiando un bambino a estrarne l’estremità. Anche i testicoli gli facevano male e il dolore saliva a una piccola cavità incandescente nella parte bassa dell’addome.

Dopo un altro po’ si mise a sedere. Senza guardare, fece scorrere una mano indagatrice lungo il fianco, per scaramanzia, ma non trovò niente che spuntasse. Vide a tre metri di distanza la torcia che emetteva la sua luce fioca tra il sottobosco e si mosse carponi nel fango gelido per recuperarla. Aveva la vista leggermente sdoppiata, ma più o meno come nelle due ore precedenti, e quindi non se ne preoccupò eccessivamente.

Recuperare la sua fonte di luce gli sembrava un passo compiuto nella giusta direzione. Aveva l’impressione di essere precipitato in una vasta gola rocciosa, destinata ad accogliere un torrente generato dal disgelo primaverile, ma che ora ospitava solo uno striminzito ruscello che riuscì a sentire a pochi metri di distanza. A eccezione di questo, il resto era silenzio. Silenzio e gelo.

Decise che si era spinto abbastanza lontano. Per questa notte bastava, e dopo tutto per lui non doveva esserci alcun domani. La scuola era solo finita un po’ prima del previsto, tutto qui.

Si spinse indietro fino ad appoggiare la schiena contro la roccia. Poi si portò lo zaino tra le ginocchia e lo aprì. Almeno una delle bottiglie rimaste si era rotta — il fondo della borsa era zuppo e pieno di schegge, e l’odore dell’alcool gli investì il viso. Fece luce e vide che non c’era modo di infilarci la mano dentro. Così capovolse lo zaino facendo cadere a terra la maggior parte del contenuto. Ci volle un po’, ma trovò le scatolette dei sonniferi.

Mentre estraeva laboriosamente le pillole dalle confezioni per raccoglierle in un mucchietto su una foglia vicina, percorse una sorta di check list interiore.

Doveva perdersi: fatto. Ubriacarsi: fatto. Cristo se l’ho fatto. Mettiamoci una bella croce rossa, grande.

C’era da pagare il motel, accennando di sfuggita al ritorno a Seattle: fatto.

«Per fare un’escursione con quel freddo bisogna essere fottutamente pazzi e poi siamo a metà settimana, fuori stagione, e si è allontanato dai sentieri conosciuti»: fatto.

Una pressione, un’altra pillola. Una pressione, un’altra pillola. Diede un’occhiata al mucchietto. Erano abbastanza? Meglio essere sicuri. Continuò a premere. Fatta in quel modo non sarebbe stata un’overdose blanda, ma virile.

Con ogni probabilità la macchina sarebbe stata individuata l’indomani, e nel giro di un giorno o due qualcuno avrebbe investigato. Non a piedi, ma molto probabilmente dal cielo, con un sorvolo casuale. Nel suo ultimo giorno a Sheffer, Tom aveva comprato vestiti e zaino con colori autunnali, per rendere ancora più difficile la sua individuazione da un aereo o un elicottero in perlustrazione. Se avesse sborsato qualche soldo in più anche per comprarsi degli scarponi da trekking adeguati, ora la caviglia non gli farebbe così male, ma allora non gli era sembrato che ne valesse la pena. Come volevasi dimostrare: bisogna sempre avere l’attrezzatura adatta.

A ogni modo, check list generale: fatto.

Man mano che il mucchio di pillole cresceva, si sorprese di non sentirsi spaventato. Aveva creduto che lo sarebbe stato, che l’imminenza del gesto avrebbe potuto gettarlo nel panico, che avrebbe cercato di combattere la morte. Invece si sentiva semplicemente stanchissimo. In un punto qualunque durante il tragitto tra la macchina e questa gola trovata per caso aveva perso ogni rimanente sensazione della sua vita intesa come un processo. Era diventata semplicemente un evento singolo, questo evento, in questo posto, ora. Era buio e si stava facendo tardi. Tutto era perfetto. Tutto era a posto.

Sentiva già molto freddo, e le sue dita erano come smagrite e ingovernabili. Cominciò a prendere le pillole, un paio alla volta, ingoiandole con altro alcool. Ne fece cadere alcune, ma ce n’erano a volontà. Ne prese una quantità enorme, mentre borbottava qualcosa nell’oscurità. Addio Sarah, trovati qualcun altro. Addio William, addio Lucy. Mi odierete per questo, lo so, ma mi avreste odiato comunque tra non molto.

A un certo punto sembrò accettare il fatto di essere entrato nel regno della dose letale, al di là della quale ogni cosa diventava più semplice. In effetti tutto sembrava semplice. Persino la foresta sembrava diventata un po’ più calda, anche se era possibile che in realtà fosse Tom a non sentire più le proprie estremità. Tutto diventò confuso e liquido mentre stava seduto e scivolava nella perfetta oscurità. Sentiva freddo e non lo sentiva, era stanco morto e al tempo stesso perfettamente lucido. La paura si aggirava nel sottobosco, ma si teneva fuori dalla sua portata, fino a quando Tom non si rese più conto di niente e non si preoccupò più di infilarsi altre pillole in bocca. Sospirò brevemente, poi non fu più in grado di ricordarsi a cosa stesse pensando. Cercare di seguire i pensieri era come camminare da soli lungo una strada deserta nella quale i negozi stanno chiudendo uno dopo l’altro.

Quando le palpebre cominciarono a battere, cercò di tenerle aperte, senza il minimo senso di disperazione, ma come un bambino che cerca di tenere lontano il sonno che sa di non poter combattere. Quando alla fine si chiusero, sentì per un attimo la testa leggera, poi tutto cominciò a sfumare in un grigio ardesia. Si aspettava, per quanto potessero rimanere in lui aspettative, che questo processo sarebbe continuato fino a che tutto fosse diventato nero e silenzioso. Un breve momento sognante, come una lenta rotazione all’indietro, e poi nemmeno quello. Addio.

Non si aspettava di svegliarsi nel mezzo della notte, ancora ubriaco, tormentato da brividi in tutto il corpo. Non si aspettava di essere vivo e in preda a ogni sorta di dolore. E certamente non si aspettava di vedere qualcosa stagliarsi al di sopra di lui, qualcosa di enorme, qualcosa che aveva un odore che ricordava la puzza di carne marcia trasportata da un vento gelido.

Capitolo due

Il ristorante era costituito da una grande sala suddivisa in due aree ben differenziate, una parte centrale con dei tavoli, e una serie di séparé sui tre lati. All’ingresso di ogni séparé pendevano delle piccole lanterne, nessuna delle quali però funzionava. Le pareti erano coperte da grandi murales stile rétro: dominavano i blu accesi, i rosa pallido e linee scarabocchiate in nero. All’ingresso, le alte finestre lasciavano intravedere un parcheggio intristito dalle foglie secche che lo ricoprivano, e osservai mentre un vento freddo giocava con loro. Ero al mio solito posto, uno dei séparé sul fondo della sala. Mi piaceva stare lì. La panca non era troppo accostata al tavolo, e così non ti sentivi troppo stretto. Il menu era infarcito di astuti giochi di parole ed era pieno di roba tipo hamburger, burritos, le buone vecchie insalate dello chef, e chili (alla Cincinnati, alla texana e in mille altri modi): in poche parole, proprio quello che faceva per me.

Tutto sommato era un posto perfetto per mangiare, eccettuato per un particolare: il servizio faceva schifo. Stavo ormai aspettando da un bel pezzo e non era ancora venuto nessuno a darmi il benvenuto, né ad assicurarmi che ero stato inserito nel meccanismo o a portarmi dell’acqua gelata che non avrei bevuto. E, a dirla tutta, non era solo il personale ai tavoli che batteva la fiacca. Appena arrivato, avevo notato che qualcuno aveva rovesciato la maggior parte delle sedie nella zona centrale della sala, che appariva in disordine. Le avevo risistemate, mettendole diligentemente sotto i tavoli, anche se quello non era mio compito. Non spettava a me nemmeno cambiare le lampadine. Presi in considerazione l’idea di andare in cucina, ma sapevo che non avrebbe portato a nulla. Là dentro tutto era ancora più silenzioso e buio.

Mi chinai sul tavolo riflettendo su cosa diavolo facessi in un posto come quello. Tre giorni sono un periodo di attesa troppo lungo per una ciotola di chili, indipendentemente da quanto sia buono. Mi sentivo perfino pronto a dire addio a Relent, Idaho.


Sapevo molte cose su città come Relent perché era in posti come quello che avevo passato la maggior parte del mio tempo negli ultimi mesi. Avevo vagato senza meta attraverso centinaia di chilometri di regioni boschive isolate e praterie negli stati meno attraenti del paese. Inizialmente soggiornavo nei motel, poi un giorno ero andato a un bancomat e avevo scoperto di essere al verde. È straordinaria l’influenza che un piccolo rettangolo colorato può avere sul tuo benessere, sul tuo senso di identità e di appartenenza. Capisci l’importanza delle carte di credito solo quando la macchina te le sputa indietro dicendo «No», e quella parola significa né ora, né dopo, né mai; è in quel momento che ti rendi conto che la tua carta non è mai stata una sorta di bacchetta magica che produceva dell’oro, ma solo un pezzo di plastica che non possedevi nemmeno legalmente. Fu così che mi ritrovai in un parcheggio nel New Jersey girandomi la carta tra le mani fino a che una donna con un 4x4 e tre bambini ciccioni mi disse di togliermi dai piedi. Aveva la sua carta pronta ed era sicura che avrebbe fatto il suo dovere. La invidiai per questo, ma non per i figli, che erano brutti come il peccato.

Camminai verso la mia auto e vi entrai. Rimasi seduto per un po’ a fissare fuori dal parabrezza. In tasca avevo diciotto dollari e qualche spicciolo, e meno di mezzo serbatoio di benzina. Nient’altro, zero.

«Allora, Bobby, che cosa facciamo adesso?»

Ma Bobby non poteva rispondermi, perché era morto. Era stato il mio migliore amico, una delle poche persone il cui destino mi sia sempre stato a cuore. Era morto in un posto chiamato The Halls, quando tentammo di catturare uno psicopatico che si faceva chiamare l’Homo Erectus e che, guarda caso, era mio fratello. The Halls era stato distrutto da un’esplosione che aveva polverizzato anche il corpo di Bobby. Da quel momento il mio amico è diventato un imprevedibile interlocutore. A volte mi diceva quello che avevo bisogno di sentirmi dire, frasi come: «Sì, Ward, forse questa città va bene per passarci la notte», oppure: «Sì, ho proprio bisogno di un’altra birra» — o ancora mi consolava dicendomi che naturalmente avevamo fatto tutto il possibile per trovare le persone che avevano ucciso i miei genitori e che sarebbe stato inutile da parte mia sentirmi in colpa per qualcosa che era andato storto, compreso il fatto che lui era morto.

Poi se ne restava zitto per un bel po’ di settimane. Non so dove andasse in questi periodi, o meglio cosa cambiasse nella mia mente per far sì che io avessi la sensazione di non sentirlo. Perché lo sapevo bene che era solo nella mia testa che lo sentivo. Che in effetti non era realmente presente.

Alla fine uscii dal parcheggio della banca e mi fermai a tre città di distanza, dove mi trovai un lavoro lavando i piatti e tagliando le patate. Il cuoco ecuadoregno mi permise di dormire sul pavimento per due giorni, dopo i quali ebbi abbastanza contante per prendermi una camera tutta mia, a patto naturalmente che non mi desse fastidio dividerla con scarafaggi, polvere e rumore, e che rinunciassi a mangiare. Lavorare in cucina è un’ottima cosa per persone in una situazione come la mia, benché poi si diventi insofferenti per le catene di ristorazione a basso prezzo. I rapporti tra me e l’ecuadoregno si interruppero una settimana più tardi, quando cercai di convincerlo a spartire con me il piccolo traffico di cocaina che aveva messo su tra il resto del personale e alcuni abitanti del luogo, giovani e meno giovani, che di tanto in tanto la sera si presentavano dalla porta di servizio. Finii per scappare in fretta e furia dalla città nel cuore della notte, sanguinando copiosamente e sentendomi un idiota.

Il mattino dopo mi stavo riposando sulla terrazza di un Burger King della parte occidentale della Virginia, ancora sanguinante, anche se meno intensamente, quando sentii nella testa una voce che rispondeva a una mia domanda di nove giorni prima. Mi diedi una ripulita nella toilette del Burger, mi sottoposi al supplizio di una colazione globalizzata a base di materie simil-commestibili e feci una tirata fino in Arizona. Una volta laggiù mi misi alla ricerca di un residence a Flagstaff, il che richiese un po’ di tempo perché c’ero stato solo una volta prima, leggermente ubriaco, e da allora avevo perso l’indirizzo. Osservai il posto attentamente per ventiquattro ore prima di tirar fuori il mio rettangolo di plastica altrimenti inutile e usarlo per entrare.

E fu così che per cinque giorni vissi nella casa di Bobby Nygard.


La prima cosa che feci, una volta data un’occhiata approfondita in giro e stabilito che se qualcuno era venuto a ripulire quel posto lo aveva fatto in maniera molto composta e senza farsi tentare dalle decine di migliaia di dollari di valore dei computer e dell’impianto di sorveglianza, fu di connettermi in rete. Era un po’ di tempo che non lo facevo: ero quasi certo che ogni tentativo di trovare informazioni sarebbe stato notato da qualche parte e avrebbe fatto sì che qualcuno si mettesse sulle mie tracce. Una delle cose nelle quali Bobby era stato un esperto era l’occultamento delle tracce su Internet. Sapevo che se avessi usato il suo sistema di casa sarei stato al sicuro, almeno per un po’.

La prima tappa furono i miei conti bancari. Scoprii presto che il mio conto principale era stato chiuso e il suo contenuto si era volatilizzato. Non chiuso, ma vuoto, era invece un altro conto in una banca diversa, dove era stato trasferito il denaro proveniente dal patrimonio dei miei genitori. Qualcuno lo aveva ripulito, lasciando un credito di un solo cent.

Uscii dalla rete e mi appoggiai allo schienale, come intontito. Non ero sorpreso, ma si trattava comunque di una pessima notizia e quel deposito residuo di una monetina mi faceva venir voglia di trovare qualcuno e rompergli il muso. Andai in cucina, trovai un piatto da usare come posacenere e rimasi fermo a osservare la strada. E fu proprio allora che sentii la voce di Bobby. Aveva sempre cercato di farmi smettere di fumare e nella mia testa, evidentemente, era rimasta questa idea. In ogni caso finii la sigaretta. Ma era comunque bello sentire la voce di qualcuno, anche se mi stava scocciando e anche se era la mia.

Rimasi in quella casa. Mi sembrava un posto sicuro ed ero stanco di spostarmi. Mi nutrii attingendo ai barattoli di cibo nelle credenze, in modo da non essere costretto a uscire. Passai un sacco di tempo a leggere gli appunti e i manuali di Bobby e setacciai la casa da cima a fondo il più rispettosamente che potei. Trovai un nascondiglio dov’erano custoditi documenti di identità falsi e li presi, sapendo che Bobby li aveva comprati da qualcuno di cui si fidava. Trovai anche poco meno di seimila dollari in contanti, nascosti in una scatola di computer nel seminterrato. Mi sedetti e li guardai per un po’ sentendomi una merda per averli trovati e per quello che stavo per fare. Bobby aveva una madre. L’avevo rintracciata un mese prima per comunicarle la notizia della morte del figlio. Era ubriaca quella volta e mi aveva tirato addosso degli oggetti, anche se non avevo capito se quella fosse una reazione alla notizia — fra loro non c’erano rapporti molto stretti — o solo un modo di fare abituale. Forse il denaro sarebbe dovuto andare a lei, ma non sarebbe stato così. Era molto probabile che fosse sporco ed ero profondamente convinto che Bobby avrebbe approvato il mio gesto. E comunque questo sarebbe successo, in ogni caso.

Pochi giorni dopo lasciai la casa di Bobby indossando alcuni suoi vestiti che mi andavano più o meno bene e portando una piccola borsa con i soldi. Avevo preso anche uno dei suoi portatili, avendo dato il mio in pegno un po’ di tempo prima. Giunto in mezzo alla strada, mi voltai per guardare la proprietà, chiedendomi per quanto tempo una casa potesse andare avanti senza che nessuno ci vivesse. Settimane, sicuramente. E probabilmente molto più a lungo, almeno fino a quando le bollette venivano pagate direttamente e qualcosa non scoppiava o bruciava appiccando un incendio. Mi chiesi quante stanze e abitazioni in tutto il paese fossero così — persone scomparse e macchine ancora in funzione senza nessuno che le controlli.

Da quel momento mi fermai solo in posti simili. Di tanto in tanto attingevo al gruzzolo nascosto da Bobby per fermarmi in un posto che mi ricordasse che una volta avevo avuto una vita, in uno di quegli alberghi nel centro di qualche grande città appartenenti a una catena, dove alla mattina dovevi telefonare alla reception per farti ricordare in che stato ti trovavi. Altrimenti prendevo quel che capitava. Motel rattoppati con assi di legno proprio fuori i confini delle città, o, nelle zone commerciali, uffici dove i vetri erano diventati grigi; insomma, qualsiasi posto dimenticato e trascurato che avesse il cartello con la scritta «Vietato l’accesso», perché normalmente quelle parole erano l’unico deterrente del luogo, a parte la paura di imbattersi in uno di quei tipi che avrebbero potuto cercare di ricorrere alla violenza per difendere la loro dimora temporanea. Fortunatamente ero anch’io uno di loro, quindi quell’idea non mi preoccupava troppo. Ci furono alcuni scontri, ma le persone che non hanno nulla si intimoriscono presto, ammesso che tu sappia tenere i nervi saldi e continuare a fingere di essere in qualche modo diverso. È sorprendente quanto spazio abbandonato ci sia.

Anche John Zandt era sopravvissuto a The Halls. Una notte mi aveva telefonato e ci eravamo recati entrambi a Yakima. La nostra amica Nina fece un rapporto interno su ciò che avevamo trovato e mise in all’erta la sezione di Yakima, ma l’iniziativa sembrò morire non appena lasciata la sua scrivania. Fu in quel momento che ci rendemmo conto di essere da soli in un territorio selvaggio, e che la cospirazione che avevamo scoperto aveva tentacoli più lunghi di quanto avessimo pensato.

Dopo quell’episodio persi l’entusiasmo. La mia carriera, se così si può dire, progredì sempre più lentamente fino a che non finii a lavare i piatti a Relent. Avevo un telefono cellulare registrato sotto falso nome. Avevo il portatile di un uomo morto e una scorta di denaro sporco che si stava esaurendo. Le costole mi facevano ancora male per la coltellata rifilatami da uno spacciatore.

I miei genitori sarebbero stati fieri di me.

Alla fine lasciai il ristorante abbandonato e mi incamminai su quella che era considerata la strada principale di Relent. Le promesse del menu mi avevano fatto venire fame e tutto quello che avevo in tasca erano dei bastoncini di manzo teriyaki dell’anteguerra che non mi ricordavo nemmeno di avere comprato. Trovai un bar chiamato Cambridge, gestito da un’affabile coppia di mezza età. Ma a ogni buon conto il menu era meno allettante di quello offerto dal ristorante fantasma, e così finii per concentrarmi sullo scotch e su qualche birra locale che sembrava essere stata estratta dai muri di vecchi edifici, ma che non sembrava poi così male dopo il terzo o il quarto bicchiere. Ero sempre risoluto ad andarmene, ma fuori cominciò a piovere, un acquazzone che sbatteva contro i vetri della facciata del bar come se qualcuno stesse gettando manciate di ghiaia. Così rimasi seduto, accasciato su un sedile a mangiare olive a un ritmo lento ma costante fino a quando non cominciai a sentire acidità di stomaco e le dita mi erano diventate leggermente verdi.

Verso le nove ero già ubriaco fradicio e un’ora dopo non c’era stato alcun miglioramento. Una giovane donna dai capelli ricci era seduta su un palchetto e cantava con grande concentrazione canzoni di cui non riuscivo a seguire il significato. Mi parve di capire che il mondo le aveva fatto del male ed entro certi limiti mi sentivo solidale con lei, ma la sua voce mi faceva venire mal di testa. Era giunto il momento di andare da qualche altra parte, ma non c’era nessun posto in particolare e fuori pioveva ancora. Ogni tanto qualcuno entrava nel bar con l’aria di chi fosse appena uscito completamente vestito dall’oceano.

Dopo un po’ una di queste persone catturò il mio sguardo. Era un uomo alto e magro e andò a sedersi da solo a un tavolo sul fondo. Mi ritrovai a tenere d’occhio l’immagine del suo tavolo riflessa nello specchio dietro il bar. L’illuminazione del Cambridge era attenuata fino quasi all’oscurità e non riuscii a vedere bene il volto del tizio, ma un formicolio alla testa mi diceva che stava guardando nella mia direzione più spesso di quanto potesse dipendere dal caso. Mi alzai e feci una puntata non necessaria alla toilette, ma quando passai vicino a quell’estremità della stanza la testa dell’uomo era girata, apparentemente per guardare fuori nella notte.

Al cesso feci scorrere l’acqua fino a che non fu fredda e mi sciacquai il viso. Sapevo che qualcosa non andava, ma non ero certo sul da farsi. Poteva darsi che quel tizio stesse semplicemente osservando un forestiero, ma avevo la precisa sensazione che fosse più di quello. C’era una finestra in alto sul lato della stanza, ma nulla su cui salire eccetto un lavandino che non dava l’impressione di poter reggere il peso, e c’erano poche speranze che le mie spalle ci sarebbero passate.

Decisi che lo avrei affrontato. Se doveva accadere qualcosa, allora era meglio che accadesse in un luogo pubblico.

Quando uscii dal bagno il tavolo era vuoto.

Maledicendomi per le mie paranoie, tornai al bar e presi una sorsata da una birra che stava diventando calda. La cantante era stata raggiunta da un’amica i cui capelli erano ancora peggio dei suoi. Le loro voci all’unisono mi facevano tremare le vene delle gambe. Feci un cenno al barman e il proprietario mi portò un conto che mi parve estremamente contenuto. Feci quattro chiacchiere con lui per qualche minuto e lasciai una bella mancia. Mio padre mi aveva educato bene.

Quando uscii faceva più freddo di quanto mi aspettassi. Fui tentato di voltarmi immediatamente indietro e vedere se fossero disposti ad adottarmi o a farmi dormire al bar, ma una volta che una porta si chiude alle mie spalle non ho mai l’impressione di poter tornare indietro. Mi incamminai lungo la strada, mantenendomi vicino alle facciate dei negozi, cercando di evitare la pioggia. La strada era deserta. Avrei potuto tornare alla macchina a occhi chiusi senza mettere in pericolo nessuno eccetto me stesso.

Mi ci volle un minuto o due per rendermi conto che una sensazione lungo la schiena stava cercando di dirmi qualcosa.

Mi fermai e mi voltai. Non era facile guardare in fondo alla strada, ma riuscii a scorgere qualcuno fermo sulla soglia circa a metà strada verso il bar. Non riuscivo ancora a distinguere i suoi lineamenti e il tizio non si mosse, ma nessuno se ne sarebbe andato in giro in una notte come quella solo per contemplare il panorama.

«Posso aiutarla?»

Non ci fu risposta. Infilai una mano nel cappotto e naturalmente mi accorsi di aver lasciato la pistola in macchina. Chi può aver bisogno di una pistola a Relent, Idaho?

«Chi ti manda?»

L’uomo uscì allo scoperto e si fermò sul selciato. Disse anche qualcosa, ma la pioggia inghiottì le sue parole.

Ero stanco, ubriaco e spaventato. Ogni cosa mi diceva di voltarmi e svignarmela, ma non lo feci. Se mi avevano trovato qui, mi avrebbero trovato ovunque. Ecco cosa era diventata la mia vita ormai. Era qualcosa che prima o poi, in un posto o in un altro, doveva succedere. Improvvisamente tutto ciò che non avevo e che non conoscevo era di fronte a me e io mi sentii confuso e gelato dentro.

Cominciai a correre verso di lui.

L’uomo arretrò precipitosamente di qualche passo, ma non abbastanza velocemente. Gli fui addosso prima che si rendesse conto di cosa stava succedendo e cominciai a colpirlo. Sapevo che mi sarei dovuto fermare, che poteva sapere cose che avrei dovuto conoscere, ma me ne infischiai. Usai entrambe le mani e la testa e cademmo entrambi in mezzo alla strada. Lo allontanai per alzarmi, gli diedi un calcio e poi mi piegai per afferrargli la testa, sollevarla e colpirla in su e in giù fino a che non fosse tutto finito. Fui vagamente consapevole di un rumore alle mie spalle, ma non lo misi in rapporto con quanto stava accadendo fino a quando non cominciai a essere tirato all’indietro, e solo allora capii quanto fossi stato stupido a pensare che avessero mandato qualcuno da solo. L’unica cosa di cui potevo ancora stupirmi era che uno di loro non mi sparasse semplicemente e la facesse finita.

Qualcuno mi afferrò, venni trattenuto, con entrambe le braccia bloccate. Qualcuno si stava inginocchiando vicino all’uomo che avevo colpito, cercando di tenere la sua testa lontano dalla strada bagnata. La faccia era coperta di sangue, ma potei comunque vedere che era parecchio più giovane di quanto avessi pensato, venticinque anni al massimo. Mi resi conto che la persona con lui era una donna. Alzò lo sguardo su di me e riconobbi che era la donna che gestiva il Cambridge.

«Brutto stronzo,» disse.

«Ti senti un duro, vero?» Questa voce venne da dietro il mio orecchio destro e girando la testa vidi che era stato il marito della donna a parlare.

«Ma che cazzo volete?» dissi, rivolto a due tizi del bar che nel frattempo mi avevano circondato. «Mi stava fissando già al bar. Era fermo qui fuori ad aspettarmi.»

La donna si tirò su. «Ricky è gay,» disse.

Ero senza fiato, il viso in fiamme. «Cosa?»

Il marito lasciò andare il mio braccio. «Pensi di avergli dato una bella lezione? Hai qualche problema con le persone come Ricky?» Si allontanò da me come se fossi infetto.

«Statemi a sentire,» dissi, pur sapendo che non era questa la loro intenzione. Le cantanti permanentate avevano aiutato il ragazzo a rialzarsi e lo stavano riportando al bar. La donna mi lanciò un’altra occhiataccia, cominciò a dire qualcosa e poi scosse semplicemente la testa. Nessuna donna tra quelle con cui avevo dormito mi aveva fatto sentire così insignificante. Tornò al bar insieme agli altri, tenendo una mano sulla schiena del ragazzo, come segno di protezione, e capii troppo tardi che Ricky era suo figlio.

Quindi rimasi da solo con suo marito.

«Non lo sapevo,» dissi.

«Avresti potuto chiederglielo.»

«Lei non ha idea di come sia la mia vita.»

«No,» disse scuotendo la testa. «È vero. Ma non mi interessa, non voglio nemmeno sapere dove alloggi. Ti conviene sparire dalla circolazione, non sei il benvenuto qui.»

Poi si incamminò verso il bar. Quando aprì la porta si voltò. «Sarei sorpreso di saperti benvenuto in qualsiasi posto.»

Il rumore della porta che si richiudeva dietro di lui lasciò solo la pioggia.


Nietzsche ha detto che gli uomini e le donne di carattere hanno esperienze tipiche, sono protagonisti di avvenimenti che sembrano destinati a vivere ripetutamente: cose che ti fanno dire: «Sì, io sono così.» Perlomeno, credo che l’abbia detto lui; ma potrebbe anche averlo detto Homer Simpson. A ogni modo, chiunque sia stato a dirlo, certo aveva in mente qualcosa di più positivo delle risse in posti di cui nessuno ha mai sentito parlare, e in cui si riversano le proprie paranoie su persone che non lo meritano. È incredibile, ma mi ero comportato nello stesso modo la notte del funerale dei miei genitori, quando avevo tirato fuori la pistola nel bar di un hotel e avevo spaventato un gruppo di manager e me stesso.

Relent alla fine mi dimostrò che questo non era un modo di vivere. Come una ragazzina mi aveva detto tre mesi prima — una ragazzina che aveva avuto un’esperienza diretta di ciò di cui era capace l’Homo Erectus — c’era solo una persona che poteva portare a termine il mio compito. Dovevo smetterla di scappare. Dovevo fermarmi e partire all’inseguimento.

Alle quattro del giorno dopo mi trovavo a San Francisco, e verso la fine della serata avevo finalmente una traccia.

Capitolo tre

L’alba colse Tom ranicchiato ai piedi di un albero, con gli occhi spalancati e rigido come un pezzo di ghiaccio. Lo trovò e cercò di riportarlo indietro, ma lui era sveglio e non poteva tornare indietro. Non gli sarebbe stata negata una nuova mattina, anche se era quella di un giorno che lui non si aspettava di vedere.

Quando si era svegliato nella notte era accaduto tutto in fretta: la sua mente aveva trovato il pedale della fuga e lo aveva pigiato con tutte le forze. Ma questo presupponeva che le altre zone del corpo funzionassero bene, e Tom cadde ancora prima di rimettersi in piedi. Una volta recuperata la lucidità, arrivò la terribile consapevolezza delle sue pessime condizioni, ma poi quell’odore tornò di nuovo e l’area del suo cervello preposta alla comunicazione si risvegliò come una sirena — UN ORSO! UN ORSO! UN ORSO! — e l’uomo cominciò a muoversi.

All’inizio si mosse poggiando più sulle mani e sulle ginocchia che sui piedi, ma la paura degli artigli lo fece ben presto mettere in posizione eretta. Si ritrasse allontanandosi dalle pareti della gola fino a che non raggiunse il folto della foresta, poi si arrampicò sul ciglio fangoso e fu in grado di andarsene. Si allontanò.

Era facile non guardare indietro, perché non voleva vedere cosa c’era dietro di lui. Nel frattempo raccoglieva i rapporti che gli giungevano dagli avamposti delle sue estremità — la testa confusa, la caviglia in fiamme, la perdita della torcia — ma non li ascoltò e continuò a vagare nell’oscurità. Tutti i dolori e i dispiaceri erano ben poca cosa se confrontati all’essere divorati da un orso! E corse in un modo che mandò in corto circuito tutto ciò che la sua specie aveva imparato a partire dalla penultima era glaciale. Corse come un animale, guidato da una semplice magia corporale. Corse come per un attacco di convulsioni, di diarrea. Rimbalzò tra i cespugli e i tronchi, incespicando e correndo, e finendo per spuntare in un’area dove gli alberi erano maggiormente distanziati.

Si rese conto che aveva nuovamente nevicato mentre si arrampicava per raggiungere l’altura, molto tempo dopo che l’informazione gli era arrivata dal rumoroso crocchiare dei suoi passi. Quel fatto, combinato con lo spezzarsi dei rami sottili e il lamento dei suoi polmoni, componeva una tale cacofonia di panico che gli ci volle un po’ per capire che quelli erano gli unici suoni che riusciva a sentire. Scivolò, cadendo sulle mani e su un ginocchio. Tentò di rialzarsi ma scivolò di nuovo. Si fermò e si voltò. Era vicino alla sommità di un piccolo rialzo del terreno nella foresta ed era pronto a correre ancora o a morire, a seconda di cosa arrivava per primo.

Nessun orso in vista.

Diede una rapida occhiata per tutta la bassa collina. C’era un leggero chiarore lunare, riflessi bianchi e blu, nessuna profondità di campo. Non riusciva a vedere e nemmeno a sentire nulla anche quando trattenne il fiato per smettere di ansimare. Il suo petto sembrò andare a fuoco.

Indietreggiò un po’ avvicinandosi a un grande albero. Sapeva che tentare di arrampicarsi non sarebbe servito a nulla: l’orso sarebbe stato molto più bravo di lui, non da ultimo per il fatto che non era come lui sul punto di perdere i sensi. Ma il fatto di essere vicino all’albero lo fece sentire meglio.

Aspettò. Tutto era tranquillo.

Poi gli parve di udire qualcosa più sotto, ai piedi della collina, immerso nell’oscurità e nelle ombre ghiacciate. Un rumore di ramoscelli spezzati.

Il suo corpo si gelò dalla disperazione, ma non riuscì a muoversi. Aveva esaurito il panico e gli era rimasto solo un terrore che non sapeva come far funzionare le membra.

Tom rimase semplicemente fermo, completamente immobile, ma non sentì il rumore una seconda volta.

Alla fine girò su se stesso, scrutando e ascoltando. Niente. Tutto ciò che riusciva a vedere erano ombre e neve. Tutto quello che sentiva erano gocciolìi e un leggero whoosh poco distante come se una manciata di neve fosse caduta da un ramo. Non sapeva cosa fare.

Così rimase dove si trovava.


Verso le sei del mattino si sentiva uno schifo. In confronto, tutte le sbornie che aveva preso non erano neanche lontanamente paragonabili a questa. Un bernoccolo sulla tempia destra — presumibilmente un risultato della seconda caduta — aggiungeva un senso di vertigini. Alcune parti del suo corpo producevano dolori lancinanti ogniqualvolta Tom si spostava con tutto il peso del suo corpo: le costole del fianco destro gli facevano un male terribile, sia che si muovesse oppure no. Il freddo elevava il tutto all’ennesima potenza. Si rese conto di non aver mai sentito realmente freddo prima di allora e che avrebbe preferito che le cose rimanessero così. A un certo punto della notte era arrivato in uno stato tale che si sentiva come se ogni centimetro del suo corpo fosse coperto di insetti, e aveva passato la gran parte delle rimanenti ore a muoversi, spostandosi silenziosamente e in un modo che sperava il più invisibile possibile. Mosse le dita dei piedi, o almeno ci provò. Il risultato era sempre più difficile da valutare. Tenne le mani infilate sotto le ascelle, muovendole occasionalmente per poi distribuire il calore sul viso e sulle orecchie. Sonnecchiò in alcioni momenti, ma mai a lungo. Era in uno stato di panico doloroso troppo acuto per rendersi conto che a un certo momento aveva smesso di cercare di uccidersi.

Aveva anche la nausea, con conati di vomito, e lo assalivano brandelli di memoria sul fatto che i suicidi falliti con i farmaci ti sputtanavano qualche parte vitale del corpo. Era il fegato? I reni? Non riusciva a ricordare. In entrambi i casi non sembrava una bella faccenda. Fin dai primi attimi della sua veglia aveva cercato di capire la ragione per cui era ancora vivo, e la trovò appiccicata al suo cappotto: una sostanza ghiacciata con depositi solidi a forma di pillole. Doveva aver vomitato nel sonno perché alla resa dei conti si era ubriacato troppo. Il suo corpo aveva rigettato parte di ciò che lo stava affliggendo, e un sacco di pillole erano risalite prima che fossero riuscite a fare effetto. La posizione eretta aveva impedito che Tom soffocasse in quel processo. Forse la nausea aveva impedito ai medicinali di avere abbastanza tempo per procurargli dei danni. Forse.

Mentre l’aria intorno a lui sembrava diventare gradualmente più profonda, per permettere che le ombre colorate ritrovassero il loro spazio nella monotona piattezza della notte, Tom cominciò a poco a poco ad accettare il fatto che sarebbe vissuto un altro giorno. Dopo, non sapeva cosa sarebbe accaduto. Era impaurito, incazzato con se stesso, con la vita, e più di tutto era monumentalmente incazzato con quel vecchio idiota che aveva incontrato da Henry’s. Se tu volessi impaurire delle persone, sicuramente menzioneresti gli orsi, no? Qual è quello schifoso allarmista che non menzionerebbe gli orsi? Le foreste impenetrabili sono una cosa, ma le stesse foreste con in più enormi carnivori famosi per la loro intrattabilità sono tutta un’altra storia. È un dovere che si ha nei confronti dei propri ascoltatori, specialmente dei suicidi, di citare quei cazzo di orsi.

Mentre si allontanava barcollando dall’albero, Tom si rese conto di una cosa, e cioè che l’idea di tornare indietro e prendere a sberle il vegliardo era la prima che lo eccitasse da lungo tempo.


La neve non era spessa, ma fu semplice ritornare sui suoi passi e scendere lungo la collina. Arrivato in fondo, si trovò alle prese con un groviglio di cespugli ghiacciati. Si girò facendo attenzione a non sollecitare la caviglia gonfia e guardò in alto in direzione del pendio. Si ricordava vagamente di aver svoltato a destra per salire, quindi ora doveva andare a sinistra. Questo lo avrebbe portato in mezzo alla zona più fitta di sottobosco. No, grazie. Fece invece una deviazione aggirando il terreno rialzato, camminando sulle rocce e arrampicandosi con passo incerto su piccoli tronchi, fino a che non ritrovò la direzione giusta.

Non aveva la più pallida idea di quanto lontano si fosse spinto. Nella fredda e splendida luce del «Giorno Perfetto per Morire +1», non era nemmeno sicuro della ragione che lo spingeva a tornare indietro. Camminare scaldava di più rispetto allo stare fermi, e se doveva camminare, era più rassicurante avere una direzione: ma stavolta una vera, non il posto oscuro e vago verso cui si era diretto il giorno precedente. Quel posto era ancora li da qualche parte e probabilmente dentro il suo zaino c’era rimasto abbastanza per potervi ritornare facilmente. Non era più sicuro dei propri sentimenti a questo proposito, ma non v’era dubbio che doveva ritrovare lo zaino.

Camminò per una ventina di minuti. Il freddo aiutò a fondere la miriade di dolori in un’unica sofferenza gigantesca, un disagio umanoide che si trascinava in mezzo agli alberi. Parte del tempo la passò a mormorare a se stesso quanto facesse freddo, il che era perfettamente inutile ma stranamente confortante. Si fermò spesso, girando la testa nella speranza di riconoscere qualcosa e per rassicurarsi che nell’ambiente circostante non vi fosse traccia di orsi. Era quasi giunto sul punto di rinunciare quando sentì qualcosa che somigliava al rumore dello scorrere dell’acqua.

Abbandonò allora il sentiero meno faticoso e si gettò nel sottobosco, con molta cautela. Se fosse caduto di nuovo non avrebbe più camminato da nessuna parte.

Dall’altra parte dei cespugli c’era una zona più aperta e poi una gola. Lui sperava che fosse quella gola, anche se non somigliava affatto a come se la ricordava. Certo, c’era stato quando era completamente buio e non aveva avuto il tempo di osservare l’aspetto del posto prima di trovarsi sul fondo. A ogni buon conto, le occhiate che aveva potuto dare alla luce della torcia gliel’avevano mostrata piuttosto ampia, comunque, e profonda all’incirca quattro metri e mezzo nel punto dove era caduto. Quella che si trovava di fronte a lui poteva essere solo tre metri e mezzo in larghezza, ma era in compenso molto più profonda. Le pareti erano estremamente ripide, decisamente troppo scoscese e rocciose perché lui prendesse in considerazione di discenderle.

Doveva aver oltrepassato la sua posizione della notte prima.

Guardò a destra, nella direzione in cui doveva andare. Alberi e cespugli dall’aspetto arcigno crescevano proprio sul fianco dello strapiombo. Poteva fare ritorno, ma la strada da fare era molto lunga. Il lato sinistro appariva più sgombro, ma era nella direzione sbagliata ed era ripido.

Cristo, pensò stancamente. Si sentiva lo stomaco pieno di lame di rasoio e la testa come una valanga di vetro. Aveva davvero bisogno dello zaino? Forse era stato l’odore dell’alcool ad attirare l’orso. Forse l’animale era ancora là, in attesa, e ubriaco. Tom rimase in piedi indeciso sul da farsi.

Devi recuperare lo zaino, pensò. Che altro puoi fare?

Avanzò faticosamente lungo il ciglio della gola. Questa cominciava a restringersi, ma non abbastanza per rendere concreta la possibilità di saltare. Vent’anni prima forse avrebbe provato a saltare tre metri. Ora no, non lo avrebbe fatto — specialmente se entrambi i bordi erano fangosi e costellati di rocce, la rincorsa troppo breve e la sua caviglia era andata. Finì per trovarsi davanti a un filare di alberi che dovette aggirare da sinistra per un po’ prima di poter tornare a rasentare la gola.

Si fermò. C’era un albero disteso sul vuoto. Era ricaduto lì dall’altra parte e il caso aveva voluto che ci fosse abbastanza tronco su ambedue i lati del vuoto che attraversava.

Tom si avvicinò zoppicando; il tronco era decisamente largo, con un diametro di circa un metro, e il legno sembrava in buono stato. Tom diede uno strattone indagatore a uno dei rami, che rimbalzò rapidamente indietro, segno che l’albero non era caduto da molto. Quindi c’era la possibilità che non fosse ancora marcio. Partiva dal punto dove lui si trovava e arrivava al punto dove avrebbe voluto essere. C’erano da percorrere tre metri o poco più anziché diverse centinaia.

Già, però erano tre metri durante i quali non avrebbe avuto sotto di sé nient’altro che il vuoto e, ancora più in basso, un sacco di rocce appuntite. Tre metri su un tronco che non era poi larghissimo, che probabilmente era sdrucciolevole e che sicuramente aveva un po’ di neve sopra: tre metri che sarebbero stati duri da percorrere anche se non avesse avuto la caviglia in pessimo stato.

Per un attimo la testa di Tom cominciò a girare, come se un qualche accumulo nascosto di alcool fosse tardivamente arrivato al cervello. Quando il mondo smise di girare, l’uomo avanzò verso il tronco e vi posò il suo piede buono. L’albero non sembrò muoversi, era grande e solido, avrebbe retto il suo peso. Era la sua mente che rendeva l’attraversamento più difficile di quello di una lastra di ghiaccio.

Fece scivolare un po’ più avanti il piede, spazzando via accidentalmente un po’ di neve. Interessante, pensò immediatamente, vedendo le implicazioni della cosa: puoi scivolare sul legno, non camminarci. In questo modo non devi alzare i piedi, e togliere la neve renderà meno insicuro anche il passo successivo. Assestò il peso e mise anche l’altro piede sul tronco in modo da trovarsi messo di fianco.

Rimase immobile per un attimo, verificando l’equilibrio. Poi cominciò a muoversi lungo il tronco. Fece scivolare il piede sinistro per una trentina di centimetri, aspettò fino a che non si sentì ben piantato e poi fece percorrere al piede destro la stessa distanza. Si sentiva sicuro. Certo, entrambi i piedi erano ancora al di sopra di un terreno solido, ma era comunque un inizio. Fece avanzare ancora il sinistro per una trentina di centimetri, poi il destro. Ora il sinistro era proprio in corrispondenza del ciglio.

Più passi farai e più facilmente rischi di cadere.

Tom disse ad alta voce: «Chi ha detto che sei tu a comandarmi?» Spinse il suo piede sinistro in avanti di venti centimetri e richiamò il destro per rimettersi in equilibrio. Ora si trovava ufficialmente a mezz’aria anche se una caduta lo avrebbe riportato sulla terraferma. Non sapeva dove guardare: ovviamente non in basso, ma neppure verso l’alto. La cosa migliore era guardare diritto davanti a sé, nel vuoto sopra la gola. Eh, no, non là. Cazzo, no.

A sinistra, verso dove stai andando.

Girò la testa. Ottima mossa — l’altra sponda non era poi così lontana. Fece avanzare nuovamente il sinistro, poi il destro, e ancora il sinistro, e poi il destro. Ora si trovava quasi al centro del tronco. Scivolò nuovamente in avanti, ma il suo piede colpì un nodo del tronco facendogli scuotere la gamba. Pensò che fosse tutto a posto, ma ben presto si accorse che non era così. La gamba sinistra era a posto, ma il resto del corpo era improvvisamente diventato insicuro. Sentì il torso appesantirsi e sprofondare all’indietro. Ebbe l’impressione che la massa del pianeta sotto di lui lo invitasse a raggiungerla.

A sinistra, guarda a sinistra. Si sentì per un attimo senza peso, ma non stava cadendo. Poi ritrovò se stesso e rimase immobile. Guardò verso restremità del tronco, seminascosta dai cespugli coperti di neve e la fece diventare il centro di tutto ciò che fosse piatto. Continuò a procedere.

Scivolò e avanzò ancora una volta. Aveva superato la metà. Scivolò ancora, ma stavolta con una strana sorta di euforia. Per la maggior parte del tempo si era sentito come il personaggio di un videogame controllato dalla madre di qualcuno a cui è stato permesso di giocare una partita. Ma solo per una volta…

Scivolò e avanzò ancora una volta, e poi un’altra. E non cadde.

Si mosse un’ultima volta e finalmente si ritrovò immobile su una parte del tronco che poggiava sulla terraferma. Rimase lì improvvisamente incapace di scendere. Guardò verso la gola, sentendosi come sospeso nel vuoto, poi poggiò i piedi sul terreno.

Per un attimo la terra stessa sembrò inconsistente, come se potesse ondeggiare, rovesciarsi e svanire. Fece allora un altro passo allontanandosi dalla gola e tutto si sistemò. Ce l’aveva fatta.

Una semplice occhiata lungo l’altra sponda confermò quello che aveva sospettato: sarebbe stato difficile procedere in entrambe le direzioni. Mentre dove si trovava era diventata praticamente una passeggiata.

Tre metri invece di centinaia.

«Grazie,» disse nel silenzio.

La voce non rispose. Sopra di lui il cielo stava diventando grigio.


Camminò per altri dieci minuti, tenendosi sconsideratamente vicino al ciglio. Per un attimo, in quel suo mondo sperduto tra gli alberi, ebbe l’impressione che le cose non andassero poi tanto male. Sembrava che facesse più freddo, incredibilmente, ma riusciva a sopportarlo. Era in grado di fare il suo dovere, era evidente. Era riuscito a camminare per aria. Non fu sorpreso quando scorse il suo zaino più in basso, anche se era quasi completamente ricoperto di neve e sarebbe stato facile non vederlo. Era semplice, la sua buona sorte era tornata, per una volta il mondo si stava prendendo cura di lui. Si aggrappò a un piccolo albero, si sporse e guardò giù. Attorno a esso c’era una serie confusa di tracce nella neve, senza dubbio causate dai suoi piedi e dalle sue mani quando aveva provato a spiccare il volo.

Ma niente orso.

Proseguì, continuando sul ciglio della gola fino a quando non arrivò in un punto da dove poteva discendere. Notò alcuni rami spezzati e, sfruttando il suo sesto senso arboreo appena acquisito, ne dedusse che quello era probabilmente il punto dove era precipitato la notte prima. La seconda discesa andò molto meglio, con l’unica eccezione di una frenetica scivolata verso la fine. Perlomeno stavolta era atterrato sul fondo della gola con i piedi. Sentendosi come se stesse completando una sorta di cerchio ideale, si trascinò verso lo zaino.

Era aperto e all’interno luccicava il vetro. Accanto c’era una bottiglia vuota; c’erano anche alcune confezioni malridotte e una manciata di pillole, diventate di un blu innaturale. Il tutto era racchiuso in una sorta di nido, uno spiazzo sgombro con la parete di roccia alle spalle e il corso d’acqua di fronte, chiuso da cespugli su ambo i lati. Tom si fermò a guardare tutto ciò sentendosi come un fantasma.

All’improvviso gli si riempì la bocca di saliva e il suo stomaco si contrasse.

Fece un passo affrettato all’indietro, temendo che l’eccessiva vicinanza con lo zaino lo riportasse nel buio della notte e poi cadde seduto a terra, con l’effetto dell’impatto che risaliva lungo la schiena e i cespugli che oscillavano e tremolavano davanti ai suoi occhi.

Dopo aver respirato profondamente per alcuni minuti il dolore diminuì un po’. Potevano essere i postumi della sbornia, oppure la vista delle pillole aveva prodotto una reazione del tipo «Non provarci di nuovo» che, partita dal cervello, era arrivata allo stomaco. Ma in realtà poteva essere semplicemente un violento attacco di fame. Non era facile a dirsi, il suo corpo era diventato una sorta di Torre di Babele. Sembrava che tutto ciò che si trovava al di sotto della sua gola fosse stato rimpiazzato dal tratto intestinale — funzionante, ma incompatibile — di una specie aliena: gli trasmetteva dei messaggi, e anche ad alta voce, ma lui non sapeva interpretarli.

Si sentiva uno schifo.

Si piegò involontariamente in avanti. Ora stava anche tremando, e molto. Con un brivido di autentica paura Tom si accorse di essere a pezzi, ferito da qualche parte nel profondo. Guardò il cielo e vide che era diventato ancora più scuro, di un grigio piombo a chiazze. Sembrava dovesse riprendere a nevicare, e questa volta seriamente.

Cosa doveva fare?

Anche se fossero rimaste abbastanza pillole, non credeva sarebbe riuscito a ingoiarle. Pensava che non sarebbe più stato capace di fare nulla, mai più. Non c’era nessuna via alternativa. Poteva solo sedersi, ma come fare se si sentiva così male? La vodka sarebbe servita almeno a riscaldargli le budella. La prospettiva non era minimamente attraente — alla luce di una relativa sobrietà era pronto ad ammettere che preferiva bere vodka con acqua tonica e una fettina di lime, in quantità moderate, e in qualche posto riscaldato — ma questo era tutto quello che aveva. Cerca di morire da uomo, aveva pensato, o qualcosa di simile; non riusciva a ricordare veramente cosa gli era passato per la mente a Sheffer. Tutto gli sembrava così lontano.

Si spinse avanti sulle ginocchia, un braccio ancora sullo stomaco, come se la cosa fosse di una qualche utilità. Si allungò verso lo zaino con una mano che tremava molto. Era un tremore normale, il buon vecchio tremore di qualcuno che è stato fuori tutta la notte, e niente di più. Sperava che non fosse il segnale che tutto il suo corpo sibilava e faceva scintille come un cavo elettrico tagliato.

Toccò il bordo della sacca e poi si fermò.

Ritrasse la mano. C’era qualcosa che non sembrava a posto. Macchie di qualcosa sui vetri rotti all’apertura dello zaino. La qualità delle macchie, un tempo brillanti e ora opache, gli era familiare. Ce n’erano alcuni esempi sul dorso della sua mano.

Era del sangue?

Si avvicinò, facendo una smorfia. Senza dubbio sembravano un paio di chiazze di sangue rappreso. Girò il palmo della mano verso l’alto, ma non vide nessun taglio nuovo. Se ne sarebbe accorto, anche con quel freddo. Era altrettanto sicuro di non essersi ferito la notte precedente. Non aveva avuto alcun motivo per infilare la mano tra i vetri rotti.

Afferrò il fondo dello zaino e lo sollevò. Ne fuoriuscì un ammasso tintinnante. Erano schegge di vetro che si erano saldate in un unico blocco a causa del gelo. C’era poi una confezione intera di pillole che non aveva utilizzato, frammenti di piante, probabilmente raccolti nei capitomboli del giorno prima. Ah, un’ultima bottiglia, intatta.

E ancora un paio di chiazze rosso mattone su un pezzo di vetro.

Tom prese con cautela la scheggia. Era proprio sangue ed era certo che non si trattava del suo. La notte precedente aveva capovolto il sacco per prendere ciò di cui aveva bisogno, non ci aveva infilato la mano dentro.

Ma evidentemente l’orso lo aveva fatto.

Non poteva aver fiutato il cibo — non ce n’era da nessuna parte, non c’era mai stato — ma l’odore dell’alcool doveva essere stato irresistibile. Forse l’animale conosceva già quell’odore, per avere già rovistato nei cassonetti di rifiuti all’uscita di qualche piccola città. Ed ecco perché, presumibilmente, non lo aveva inseguito: era troppo impegnato a farsi un drink.

Tom si liberò del pezzo di vetro con una certa fretta. Prima di quel momento la realtà di quanto era accaduto la notte precedente era stata rinchiusa ermeticamente dietro i postumi della sbornia, l’oscurità e qualche brandello di sonno fasi insieme. Ma questo no. Questo era davanti ai suoi occhisi era trovato molto, molto vicino all’essere attaccato da un orso.

Cristo.

Si alzò in piedi. Quello non era un buon posto dove fermarsi. Non voleva trovarsi lì nel momento in cui qualcosa di grosso avesse nuovamente fiutato quell’odore decidendo di tornare per dare un’altra occhiata. Afferrò la bottiglia intatta e la infilò nello zaino. Mentre si accingeva a mettersi in marcia notò qualcosa nel cespuglio alla sua destra.

Gli ci volle un momento per capire che si trattava di peli, piuttosto lunghi e marrone scuro. Poche ciocche, intrappolate nelle estremità appuntite del cespuglio.

Tom cercò di immaginarsi un orso. Sapeva che quelle bestie non avevano il pelo corto, come i gatti o qualcosa del genere, un animale da pelliccia, ma questi peli erano lunghi ben quindici-venti centimetri. Era possibile? Gli orsi erano così irsuti?

Improvvisamente Tom provò il forte desiderio di trovarsi da un’altra parte, indipendentemente da quanto fosse difficile giungerci. Il suo corpo avrebbe dovuto fare quello sforzo.

Si trascinò velocemente fuori dalla nicchia della notte precedente e si guardò intorno per trovare la torcia. Poi vide le impronte nella neve e si rese contro che non si era trattato affatto di un orso.

Capitolo quattro

Erano da poco passate le otto di mattina a North Hollywood e l’agente Steve Ryan era seduto in un’auto di pattuglia in attesa che Chris Peterson riattraversasse la strada portando i caffè. L’agente Peterson ci stava mettendo un po’ più del previsto perché mentre si trovava al chiosco si era preso qualcosa da sgranocchiare nell’attesa. Era convinto che Ryan ignorasse questa sua recente abitudine, ma dopo due anni si imparano molte cose sulla persona con cui dividi la macchina. Erano ormai sei settimane che Chris ripeteva tutte le mattine questo spuntino volante, in quanto sua moglie stava attraversando una fase di invasamento salutista, e questo significava che in casa non doveva esserci alcun cibo commestibile. Lui stava resistendo e rispettava i suoi dettami — puoi mangiare questo, non puoi mangiare quello, non puoi mangiare troppo e niente di questo — anche se essere un poliziotto a dieta ti faceva sentire uno stronzo (ed era un invito per i colleghi a prenderti per il culo, specialmente le donne). Quindi se si fosse procurato qualche carboidrato divorando una pasta prima del turno — ed è quello che faceva regolarmente, perché tornava sempre indietro guardando lungo la strada e pulendosi le dita appiccicose sul retro dei pantaloni; in più ora si offriva volontario tutte le mattine per andare a prendere i caffè, mentre prima bisognava cacciarlo fuori dalla macchina scalciandolo con entrambi i piedi — Ryan non ne avrebbe fatto un dramma. Sapeva come vanno le cose con le mogli. Mentre se ne stava seduto in attesa, strizzando le palpebre per la luce che di sbieco attraversava il parabrezza, ringraziava in segreto il cielo per quei cinque minuti in più a disposizione per mettere in sesto il cervello. Si sentiva stanco, gli occhi gli sembravano asciutti e gli facevano male le spalle. Era stato sveglio a parlare con Monica fino alle tre di notte, e sempre dello stesso argomento, discusso alla solita maniera e con il solito risultato non definitivo. Non che lui non volesse dei bambini: li voleva eccome. Era solo che ci stavano provando da più di due anni (un mese sì, l’altro no, sì, no, e così via) e l’interesse per la faccenda si stava esaurendo. Non importa quanto ami tua moglie, o quanto tu continui a trovarla attraente: l’essere costretto a fornire una prestazione in momenti prestabiliti — allora, e solo allora, la soddisfazione del desiderio si riduceva praticamente a zero per il resto del mese — cessò ben presto di essere qualcosa cui pensare in termini di piacevole svago. Era diventato una sorta di lavoro, e lui ne aveva già uno. È vero, anche su quel fronte, non c’era stato un grande progresso, ma almeno nutriva delle speranze, non era impedito dalle brutali leggi biologiche. Stava facendo amicizia con alcuni colleghi, senza fare l’invadente, ma semplicemente ascoltando, cercando di capire quello che facevano, il loro modo di ragionare. Il fatto che al suo vecchio non fosse andata bene non significava che dovesse essere lo stesso per lui. Poteva avvenire anche in quel modo, era già successo: trovarsi nel posto giusto al momento giusto, partecipare a un arresto da prima pagina, poteva fare sì che ti assegnassero a una squadra. All’improvviso smetti di essere solo un fantoccio dentro una macchina che va in giro a controllare le finestre, a dirimere liti domestiche (Ryan era un esperto di mogli, di tutti i tipi, e aveva imparato un sacco anche sui mariti), ad arrestare sballati mentre i loro amici ti subissano di urla, ti deridono e ti tirano addosso le bottiglie. Improvvisamente entri a far parte di un’unità e da quel momento c’erano buone speranze di riuscire a toglierti l’uniforme. Era solo una questione di lavoro duro e di fortuna, e Ryan non si spaventava di fronte a nessuna delle due cose. No, quello che ti distruggeva erano gli incarichi in cui nessuna mole di lavoro sembrava fare la differenza, dove la buona sorte mancava del tutto e non si affacciava nemmeno, e tu sembravi essere incapace di spiegarlo a quelli che ritenevano che il mondo era come dovrebbe essere, anziché come realmente era. Monica era andata su tutte le furie quando avevano parlato di questo e lui non la biasimava. Era una cosa che lo rendeva triste, stanco e depresso. Desiderava essere padre, lo aveva sempre voluto. Cazzo, aveva anche preso in considerazione quella merda di fecondazione artificiale, ammesso che potessero permettersela. Era quello che le aveva detto la notte prima, che dovevano farci un pensiero, e la cosa era stata un minimo di aiuto anche se poi era nata una discussione sul come avrebbero potuto permetterselo, e così il tutto continuava ad avvitarsi disperatamente su se stesso. Ryan disse che forse avrebbero potuto permetterselo, se avessero tirato la cinghia, se non avessero fatto vacanze per un paio di anni, se lui fosse stato promosso. Ma lei aveva detto di no e aveva cominciato a piangere… e aveva continuato fino a quando lui non aveva avuto più nulla da dire. Si erano fatte le tre del mattino e nessuno ne aveva tratto alcun sollievo ed era veramente giunto il momento per lui di andare a dormire. Quando quel mattino si era alzato, sua moglie era rimasta abbastanza tranquilla, forse era semplicemente sfinita. Di lì a poco l’avrebbe chiamata per sapere come stava. Ammesso che potesse muoversi da quel posto… Ma che cazzo stava facendo Chris per metterci così tanto? Nel periodo in cui il suo compagno era stato via, lui avrebbe potuto andarsene da Denny e farsi un’intera colazione completa con patatine fritte e pane francese tostato. Ryan si allungò sul sedile del passeggero e diede un’occhiata al suo collega al bancone, mentre si infilava qualcosa in bocca. Sorrise e si rimise a sedere. Va be’, lasciamo che mangi. La radio era silenziosa per il momento. Ma questo non voleva dire che la città fosse stata liberata dal crimine e che loro sarebbero stati mandati a casa senza stipendio. Non sembrava affatto probabile.

«Buon giorno,» disse una voce.

Ryan si voltò e vide un tizio in piedi sul marciapiede accanto all’auto. Indossava dei pantaloni militari verdi consunti e una maglietta grigia. Aveva il sole alle spalle, era abbronzato, i capelli erano tagliati corti e indossava un paio di occhialini rotondi. Aveva l’aria di uno di quei musicisti di strada che potresti vedere a qualche incrocio oppure a Venice Beach. Sicuramente non sembrava il tipo da compiere il gesto che fece, vale a dire tirare fuori una grande pistola da dietro la schiena e sparare due colpi in testa a Steve Ryan.


Quando Nina arrivò sul posto la strada era già stata chiusa e si era già raccolta una discreta folla di curiosi composta da molti civili, ma anche da molti poliziotti. Formavano dei gruppetti, arrabbiati e impotenti, che si tenevano alla larga dalla panchina dove c’era, seduto a fissare il marciapiede, un poliziotto alto e coi capelli rossi. Altri due agenti, un uomo e una donna, erano accanto al poliziotto. La donna aveva la mano poggiata sulla sua spalla, mentre l’uomo stava dicendo qualcosa. Ma era difficile credere che qualcuno di questi gesti benevoli avrebbe potuto far sentire meglio l’agente di pattuglia Peterson in merito al fatto che il suo compagno era stato ucciso mentre lui era dall’altra parte della strada a ingozzarsi.

Nina parcheggiò e attraversò velocemente la strada. Monroe era già sul posto e sotto assedio. Un paio di poliziotti le fecero segno di fermarsi mentre si avvicinava, ma lei aveva già il distintivo a portata di mano.

«Nina Baynam,» disse. «Fed.»

A volte diceva «Federali» o «Fed» piuttosto che «FBI», e in qualche caso il fatto di pronunciare cordialmente un nome più colloquiale o che loro stessi potevano usare faceva la differenza. Non era il caso di quella mattina, evidentemente, e quelle tre lettere non erano state una sorta di lasciapassare per il rispetto. Il linguaggio corporale dei due poliziotti trasmetteva un’unica domanda: «Che cazzo ci fai tu qui?»

Anche Nina se lo stava chiedendo. Si diresse verso Monroe, che lasciò perdere i due poliziotti, e senza altri preamboli cominciò a parlare rapidamente e a voce alta.

«Abbiamo due testimoni. Uno ha visto la scena dalla stanza al secondo piano lì dentro» — puntò il dito dall’altra parte della strada in direzione di un malandato edificio dalle insegne sbiadite che offrivano affitti settimanali a prezzi dubbiosamente bassi — «e l’altro era al chiosco del caffè. Ryan e Peterson sono arrivati circa alle sette e mezzo; Peterson attraversa la strada, lasciando Ryan in macchina. Ryan di tanto in tanto chiude gli occhi. Non si accorge di un uomo bianco con i capelli corti, gli occhiali, longilineo, vestito o di marrone e verde o di marrone e grigio, che arriva da quella parte e si avvicina al veicolo con una mano dietro la schiena.»

Monroe puntò di nuovo il dito, questa volta verso un parcheggio leggermente sopraelevato che portava all’ingresso del Knights, un motel a due piani con cortile. «Il tizio viene diritto qui e si piazza di fianco alla macchina di pattuglia. Dice qualcosa e subito dopo spara. Bang, bang. Poi sparisce.»

«Come fa a sparire?» disse Nina, girandosi per guardare intorno. «Il compagno di Ryan è a non più di dieci metri di distanza.»

Monroe fece cenno con la testa verso un vicolo un po’ più in là lungo la strada. «Alla velocità della luce. Abbiamo trovato la pistola laggiù. Nel momento in cui Peterson sente gli spari, si accorge di Ryan e comincia a correre, è troppo tardi. L’assassino è già sparito.»

Monroe cominciò a camminare in direzione del motel. Nina gli tenne dietro.

«Nessuno sa dire niente su Ryan eccetto che era un bravo poliziotto. Non dei migliori, di quelli che portano l’uniforme per tutta la vita, ma comunque uno che faceva un buon lavoro. Non ci sono elementi che facciano pensare che fosse stato corrotto o che si sia in qualche modo sporcato. Quindi l’impressione iniziale è stata che ci fosse un ammazza-sbirri a zonzo, fino a che qualcuno non ha parlato con il direttore di questo motel.»

L’ingresso del Knights era abbastanza largo da poterci entrare in macchina. In ogni caso, non ci sarebbe stato nessun motivo per farlo perché all’interno c’erano solo un piccolo cortile fatiscente con i resti di una fontana in cemento, e qualche pianta emaciata che cercava senza troppa convinzione di dimostrare che la vita può prosperare ovunque. Sulla destra avevano trovato alloggio una macchina per il ghiaccio e un distributore di Coca-Cola. I poliziotti, che circondavano l’altro lato, si tirarono indietro di malavoglia quando Monroe condusse Nina sulla destra nell’ufficio con la vetrata. Avevano l’aria di qualcuno a cui sia stato impedito di fare un lavoro che ritiene di propria competenza. Dentro l’ufficio c’erano altri quattro poliziotti insieme a un tizio grasso con jeans sformati e una T-shirt immacolata.

«Raccontaci quello che hai detto a loro,» disse Monroe al ciccione. Alto, i capelli tagliati intorno a un’incipiente stempiatura, e con le spalle di uno che al college aveva praticato la boxe, Monroe era uno cui la gente tendeva a rispondere quando lui faceva una domanda.

«Non so niente,» piagnucolò il tipo, per l’ennesima volta. «So solo quello che mi ha detto la pollastrella della 12 quando se n’è andata. Ha raccontato di aver sentito dei rumori provenire dalla porta accanto, ma questo un paio di giorni fa. L’ho detto all’agente solo perché dicono che il tizio che ha sparato al poliziotto aveva i capelli corti e gli occhiali, e così mi sono detto che in effetti la sua descrizione corrispondeva al tipo della 11.»

Nina annuì. I suoi occhi caddero su una rivista seminascosta sotto il bancone. Il direttore colse il suo sguardo e la cosa sembrò dargli un brivido. «Io adoro questa roba,» disse Nina, volgendo lo sguardo verso l’uomo. «Mi fa venire voglia di scopare con ogni uomo sulla faccia della terra. Vuoi fartene una qui, ora?»

Il tipo distolse lo sguardo, voltandosi dall’altra parte. «Proprio come pensavo,» disse Nina. «Allora, nel frattempo, dacci le chiavi delle stanze 10, 11 e 12.»

Monroe prese le chiavi e fece un cenno a tre poliziotti, che seguirono Nina e lui quando lasciarono l’ufficio e attraversarono il cortile. La stanza 11 era la quinta porta lungo il lato destro. Le tende erano ancora tirate. A due dei poliziotti vennero date le chiavi delle stanze 10 e 12.

Estrassero le pistole e aprirono le porte senza far rumore. Le spalancarono e scivolarono dentro.

Un minuto dopo ricomparvero entrambi. Uno scosse la testa, mentre l’altro disse: «Mi era sembrato di sentire qualcosa, come se ci fosse stato qualcuno che parlava.»

«Tre ambienti,» osservò l’altro poliziotto. «Il salotto, la camera da letto nel retro e il bagno.»

«Okay,» disse Monroe. Per una frazione di secondo Nina pensò che il suo capo avesse l’intenzione di dare la chiave rimasta a uno dei poliziotti, salvo poi rendersi conto di come la cosa sarebbe stata vista. Quel tipo di atteggiamento — in aggiunta all’abitudine di abbandonare le persone come se non contassero nulla, come aveva fatto quando era arrivata lei — era esattamente uno dei motivi per cui i poliziotti in uniforme non li amavano come fratelli. Nina estrasse la sua pistola, tenendola a due mani e lontano dal corpo. Fu attenta a non far notare a nessuno la lieve smorfia di dolore. Erano passati ormai tre mesi, ma il braccio destro le dava ancora qualche problema. Due dottori e tre fisioterapisti le avevano detto che non c’era più nulla che non andava. Nina aveva finito per convincersi che forse era la piccola cicatrice rotonda nella parte alta del petto che parlava, che le diceva di conoscere tutto ormai sulle pistole e che non voleva aver nulla a che fare con loro. Una suggestione sterile, comunque: gli agenti dell’FBI sono costretti a portare sempre con sé le loro armi. Per quel che la riguardava, lei dormiva con la sua sotto il letto.

Monroe si mise di fronte alla porta, con Nina immediatamente dietro di lui. Disse ai poliziotti di stare pronti a seguirli, ma di dar loro un po’ di tempo. Annuirono. Sembravano più risoluti di quanto non fosse lei, ma questo faceva parte dell’essere un uomo, ne era consapevole. Se uno di loro si fosse mostrato debole di fronte a un collega nessuno lo avrebbe mai più voluto a coprirgli le spalle.

Monroe infilò la chiave nella serratura. La girò. Poi aspettò un secondo e spinse. La porta si aprì su una stanza buia. Anche le tende dall’altro lato erano tirate. Faceva caldo.

«FBI,» disse Monroe con voce ferma. «Mettete giù qualsiasi tipo di arma e venite fuori con le mani in alto. Questo è l’unico avvertimento.»

Aspettarono, ma nessuno disse niente. Non apparve nessuno. Era il solito enigma: o non c’era nessuno nella stanza e tutto era ormai tranquillo e finito, oppure c’era un tizio molto cattivo intenzionato a sparare a qualche poliziotto.

Nina era in posizione. Entrò nella stanza.

Buio ostinato, aria viziata, un gran caldo, come se qualcuno avesse spento il condizionatore ventiquattr’ore prima. La stanza era quadrata e ospitava un malandato sofà, due sedie, un tavolo, un enorme televisore risalente all’età della pietra. Non c’erano effetti personali in vista. Una luce tremolante proveniva dalla porta socchiusa nell’angolo sul lato del cortile.

Si sentiva anche un suono smorzato, molto probabilmente quello di una televisione accesa.

Chi la sta guardando?

Nina si spostò lateralmente dentro la stanza per fare spazio a Monroe. Senza fare il minimo rumore, l’uomo entrò, facendo segno ai poliziotti di rimanere dov’erano. Una volta che fu arrivato sulla soglia dell’altra stanza la donna si voltò e si diresse in silenzio verso il bagno. Aprì la porta continuando a tenere la pistola vicina al corpo.

Dentro non c’era niente se non un forte odore di chiuso. Lasciò la porta aperta. Girò sul piede destro per tornare a guardare la stanza e annuì verso Monroe. I poliziotti all’entrata rimasero in silenzio e pronti ad agire. Monroe si diresse verso la porta che dava sulla seconda stanza. Nina lo seguì a un metro e mezzo di distanza. Poi si fermò.

Tutto si condensa nell’ora: Monroe spinge delicatamente la porta con la mano sinistra, e quando questa si apre rivela gran parte del muro laterale della camera da letto, una cangiante luce grigio-blu e un suono un po’ più forte che ha quel tono frusciante e acuto al di sopra del brontolio basso. È sicuramente un televisore. A volte le persone lo lasciano acceso perché tiene compagnia, e se lo dimenticano quando escono. Se ne fregano, tanto l’elettricità non la pagano loro.

Monroe fa un passo che lo porta a essere sulla soglia. Un attimo. Ne fa un altro e si volta immediatamente puntando la pistola verso una zona che Nina non può vedere.

Ma nota che la parte alta della schiena di Monroe ha una specie di sussulto, come se il piede d’appoggio si fosse ritrovato d’improvviso cinque centimetri più in basso di quanto si aspettasse.

Ancora un lungo istante. «Signora?»

Nina sente il suo stomaco contrarsi, mentre Monroe deglutisce a bocca aperta, con un colpo secco. Sta osservando, è pronto a fare fuoco. Fa ancora un mezzo passo avanti, sembra piegarsi e guardare verso l’alto. Poi si sposta di lato scomparendo dalla vista. Per un attimo c’è un silenzio assoluto, poi un leggero fruscio. Ancora silenzio.

«Nina,» disse alla fine, «entra.»

Sapeva che significava che doveva entrare solo lei, quindi alzò la mano per fare segno agli altri di rimanere in posizione. Abbassò leggermente l’altro braccio, ma non aveva ancora l’intenzione di posare la pistola.

La stanza da letto sembrava ancora più calda dell’altra e c’era un forte odore. Il televisore era in alto a sinistra, fissato al muro con un supporto metallico, ed emetteva un ronzio appena percettibile. Monroe si trovava dall’altro lato di un letto di dimensioni principesche.

Su di esso c’era una donna, lo sguardo fisso in direzione del televisore. Non aveva ancora trent’anni, capelli castani lunghi. Non si mosse quando Nina entrò, per la buona ragione che era morta. Era seduta sul letto in posizione eretta, con la testa inclinata leggermente in avanti. Indossava indumenti da notte con un motivo floreale. Lo stomaco aveva cominciato a rilassarsi. Il viso sembrava di stucco colorato. Aveva gli occhi aperti, così come la bocca, dove era stato infilato qualcosa.

«Cristo,» disse Nina.

Si chinò in avanti. L’oggetto nella bocca della donna aveva le dimensioni di un piccolo bloc-notes, spesso mezzo centimetro, largo cinque, e probabilmente lungo un po’ più di sette, anche se era difficile dirlo senza rimuoverlo. Sembrava fatto di metallo lucido, e in bella vista sull’estremità c’era una minuscola etichetta che riportava alcuni numeri e lettere.

«Che diavolo è quello?» disse Monroe. Stava respirando rumorosamente e su una delle tempie comparve una goccia di sudore.

Nina scosse la testa. «Non ne ho idea.»


Mezz’ora dopo Nina uscì. Era arrivata la prima ondata di quei depravati della scientifica. Con le tende ancora tirate e il calore che ristagnava, l’impressione era di trovarsi in un armadio stipato all’inverosimile. Nina esaminò con la massima attenzione tutto l’appartamento, il che era sempre facile una volta constatato che nessuno ti avrebbe sparato addosso, e poi se ne andò. Monroe invece rimase ancora dentro. Ci sarebbe voluto l’arrivo dei fotografi perché se ne andasse.

Nella stanza non c’erano altri corpi. Il fruscio che Nina aveva sentito era Monroe che controllava il bagno. Era privo di qualsiasi effetto personale. Non c’era nessuna traccia dei vestiti che la donna doveva aver avuto addosso quando era arrivata. Non si può andare in giro per un motel in pigiama, neppure in un posto come il Knights. Normalmente ci si porterebbe anche degli accessori per la toeletta, una borsa, oggetti che potrebbero contenere qualche elemento identificativo, per quanto casuale. La polizia stava già controllando le segnalazioni di persone scomparse, ma qualcosa diceva a Nina che non ci sarebbero state informazioni utili in tal senso a breve termine.

Si allontanò passando attraverso un cortile assolato ancora più affollato di poliziotti e di corpi eccitati di cittadini che pensavano che sarebbero riusciti a dare un’occhiata rapida a questo luogo di morte per poi tornare immediatamente alle loro vite anonime, ma che in realtà erano sul punto di passare un gran numero di ore a rispondere a poche domande. Quella sera avrebbero visto in televisione il posto in cui avevano passato la notte precedente, mentre i media avrebbero ripetuto quel nome a oltranza, fino a farlo diventare uno di quelli di cui ci si sarebbe ricordati ancora per anni, se non per decenni. Nessuna delle persone coinvolte avrebbe dimenticato in fretta gli avvenimenti, meno di chiunque altro la donna che Nina scorse quando lasciò il cortile per tornare nel parcheggio. L’agente di pattuglia Peterson era ancora seduto sulla panchina. Due dei suoi colleghi stavano cercando di trattenere quella donna, il cui nome era Monica, che al suo arrivo aveva scoperto che il corpo di suo marito era già stato portato all’obitorio e che stava urlando all’indirizzo dell’ex partner del marito, visto che non c’era altro da fare.

Quando fu lontana dall’entrata e a una certa distanza da chiunque, Nina tirò fuori il cellulare. Si fermò in un punto dove nessuno avrebbe potuto ascoltarla e selezionò il numero di John Zandt nella ricerca rapida. Dopo una dozzina di squilli si inserì il servizio di segreteria telefonica.

«Ciao, sono io,» disse alla segreteria. «Lo so che non vuoi parlare più di queste cose, ma potrei aver bisogno di te.» Esitò, incerta su cosa dire, poi aggiunse: «Spero tu stia bene.»

Poi interruppe la comunicazione e rimase indecisa sul da farsi. Per una frazione di secondo avvertì una strana sensazione, un brivido alla base del collo, come se qualcuno la stesse osservando.

Si voltò, ma non c’era nessuno. O almeno, nessuno che lei potesse vedere.


Poco dopo le due Nina era intenta a rimescolare un caffè mentre il suo capo parlava al telefono. Si erano installati sulla terrazza di un bar malconcio a mezzo isolato dal Knights. Tutte le auto di pattuglia, eccetto una, erano partite, ma da dove stava seduta Nina aveva notato la presenza di quattro auto civetta che evidentemente partecipavano all’indagine. Mentre beveva il suo caffè osservava gli altri reperti della stanza 11 che venivano portati fuori per essere analizzati in dettaglio. Era stato stabilito che la stanza era stata affittata cinque giorni prima, pagamento in contanti anticipato. Nina sperava che in quel momento l’impiegato-direttore fosse di nuovo sotto torchio e si augurava che questo avvenisse in qualche posto senz’aria e caldo, e che gli agenti se la prendessero comoda.

Monroe riattaccò. «Fatto,» disse con evidente soddisfazione. «Olbrich sta organizzando una vera e propria task force, oltre al nostro gruppo. Bisogna essere affiatati, c’è un sacco di agenti incarogniti in giro e non vorrei essere nei panni di qualcuno pescato a strisciare sul retro della casa di qualcuno stanotte.»

«Fare secco un poliziotto in pieno giorno. È qualcosa di estremamente insolito, anche considerando gli standard di uno svitato.»

«Svitato?»

«Dai, Charles.» Nina aveva perso la pazienza per l’uso della nomenclatura ufficiale da quella volta in cui aveva assistito al ritrovamento di un ragazzino di colore in un cassonetto della spazzatura. Il giovane era rimasto lì per una settimana con un tempo afoso come oggi. Sua madre identificò il corpo e si suicidò tre settimane dopo buttandosi dalle Palisades. Il tutto era successo qualche anno prima. Monroe continuava a impiegare senza entusiasmo una terminologia impersonale e distaccata per descrivere persone che avevano distrutto intere famiglie con le loro mani sporche. «Tu come lo definiresti? Disadattato sociale?»

«Bisognerà fare presto,» disse Monroe, ignorandola. «L’assassinio di uno sbirro in pieno giorno. Qui stiamo parlando di qualcuno che ha perso il controllo. Dobbiamo muoverci in fretta.»

Nina alzò gli occhi al cielo. Fuori controllo, impaziente di essere catturato. Però introvabile. L’indagine di profilo più elevato cui aveva preso parte — almeno ufficialmente — era stata quella dei cosiddetti «omicidi del Ragazzo delle Consegne», risalenti al 1999/2000 e sempre a Los Angeles, e anche quella volta sotto la guida di Charles Monroe. Anche allora aveva fatto un’analoga supposizione, a proposito di un uomo che aveva tolto la vita a tre giovani donne brillanti e di mondo senza lasciar traccia. Aveva ucciso di nuovo, più di una volta e poi era sparito, senza essere mai catturato. Monroe era passato a occuparsi di altro. I genitori delle vittime contano ancora i giorni uno alla volta. «Il punto è: ce ne saranno altri?»

«È possibile, certo. È proprio quello che sto dicendo. A meno che noi…»

«No, quello che intendo dire è se ce ne sono stati altri prima di questo. Se questa è la conclusione, come tu credi, dov’è l’inizio? Cosa lo ha portato qui? Da cosa sta fuggendo?»

«Se ne stanno occupando. Mentre parliamo la polizia di Los Angeles sta facendo controlli incrociati.»

«E noi non sappiamo nemmeno chi sia la donna.»

«Niente borsa, nessun effetto personale eccettuati alcuni vecchi pigiami, il testa di cazzo dietro il bancone dice di non averla mai vista prima che fosse morta. Dopo che l’avranno ripulita un po’ sarà preparata una foto: nel tardo pomeriggio manderemo in giro un po’ di gente per mostrarla. Sai che cos’era quell’oggetto che aveva in bocca?»

Nina scosse la testa, e un retrogusto di metallo invase la sua bocca. Aveva visto molti cadaveri, alcuni dei quali ridotti in modi tali che era stata costretta a erigere delle barriere nel suo cervello per evitare che il loro ricordo spuntasse fuori inaspettatamente. Ma in quelli in cui veniva fatto qualcosa alla bocca delle vittime c’era qualcosa di diverso. Davi quasi per scontate le mutilazioni agli organi genitali. Ma straziare una parte del corpo visibile a tutti, come gli occhi, la bocca, il naso, sembrava in un certo senso un’offesa sociale più grande. Quello sessuale era un attacco privato, personale, quello pubblico urlava: «Ehi gente, guardate cosa ho fatto.» Era un gesto rivolto all’esterno, una formula magica ideata per cambiare il mondo. O almeno, questo è quello che sembrava a Nina.

«È un hard disk,» disse Monroe. «È del tipo piccolo, come quelli dei portatili. Uno dei tecnici l’ha riconosciuto ancora prima che fosse estratto dalla bocca della donna.»

«Niente impronte?»

Scosse la testa. «Pulito. Ma c’è qualcuno in laboratorio che sta cercando se per caso può dirci qualche altra cosa. C’è un numero di serie, per iniziare. Proviene da qualche parte, è stato comprato in qualche posto. E naturalmente potrebbe esserci rimasto qualcosa sopra. Stasera ne sapremo di più.»

Questa volta l’uomo colse l’espressione sul volto di Nina. «L’ha lasciato per una ragione, Nina. Rimettiamoci al lavoro.»

Si alzò, mentre il pollice stava già digitando un altro numero sul cellulare. Thunk thunk thunk. Non vorrei essere il telefono di Charles Monroe, pensò Nina. Quello era un compito per un cellulare con addominali di ferro.

Finì il suo caffè in un sorso, consapevole dello sguardo inquisitore posato su di lei. «Cosa c’è, Charles?»

«Come va il tuo braccio?»

«Bene,» rispose con tono irritato. Lui non le stava chiedendo del suo braccio. Le stava ricordando un lavoro lasciato incompiuto e la ragione per la quale il loro rapporto professionale rischiava per la seconda volta di incrinarsi. Lei recepì il messaggio. «Come nuovo.»

Sembrò che lui volesse aggiungere qualcos’altro, ma il suo cellulare si mise a squillare una seconda volta, lui si girò e si allontanò. Qualcuno dall’altro capo del filo stava sperimentando che razza di poliziotto era Monroe, come sapeva tenere tutto sotto controllo, come sapeva dominare gli eventi.

Mentre lo seguiva, Nina controllò il suo cellulare forse per la ventesima volta. Vide che finalmente c’era un messaggio di Zandt, e lo lesse immediatamente.

Diceva: «Sono in Florida.»

«Oh, porca puttana,» mormorò, poi cacciò di nuovo il telefono in borsa e tornò a immergersi nell’afa.

Capitolo cinque

Mi sistemai all’Hotel Armada sulla Powell, nel centro di San Francisco, non lontano da Union Square. Era un albergo piuttosto costoso e c’era un tizio vestito come un soldato spagnolo sul marciapiede davanti all’entrata. I turisti di passaggio si facevano fotografare con lui, presumibilmente per potere, una volta a casa, mostrare ai loro amici le loro foto con questo uomo in costume, davanti a un hotel nel quale non avevano alloggiato. Quando mi fui sistemato era troppo tardi per intraprendere quello che avevo in mente, così decisi di fare una passeggiata.

Mentre camminavo ripensavo a ciò che sapevo, che si riduceva a questo: mi ero sbagliato su qualsiasi cosa riguardasse la mia vita. Avevo creduto di essere nato da Don e Beth Hopkins nella California del nord, dove essi avevano condotto un’esistenza ordinata e moderatamente noiosa. Tagliavano il prato, tenevano la macchina pulita e compravano abbastanza beni di consumo per non perdere i favori degli dèi del commercio. Mio padre aveva impiantato un’attività di agente immobiliare, e dopo che me ne fui andato di casa, aveva continuato a riscuotere un certo successo come broker per abitazioni di lusso fino a quando un incidente stradale non se lo portò via insieme a mia madre. Ma il giorno dopo il funerale, quando ero andato a casa loro per cercare di capire cosa avrei dovuto fare, avevo trovato un messaggio. Era stato sistemato in modo tale da attirare l’attenzione solamente di qualcuno che conoscesse molto bene mio padre.

Sul biglietto c’era scritto, semplicemente, che non erano morti.

Questo è il tipo di notizia che ognuno vorrebbe ricevere — intendo dire ognuno di quelli il cui rapporto con i propri genitori si è allentato semplicemente per la distanza — e fu sufficiente per farmi passare l’intero pomeriggio a setacciare la loro casa. Trovai una videocassetta che mio padre aveva lasciato dentro un videoregistratore nel suo studio, e questo mi portò a scoprire quanto mi fossi sbagliato a proposito di tutta la mia vita, o quanto fossi stato deliberatamente ingannato.

Avevo creduto di essere figlio unico. Invece una sequenza della cassetta mostrava me insieme a un fratello gemello, un fratello volontariamente abbandonato in una strada di una qualche città, alla fine degli anni ’60.

Avevo pensato che la morte dei miei genitori fosse stata un incidente. Primo, quelli non erano i miei genitori, e secondo, non si era trattato di un incidente. Erano stati uccisi dalle persone di un gruppo di cui aveva fatto parte, trentacinque anni prima, il mio padre naturale. Queste persone si chiamavano Uomini di Paglia e ritenevano di essere gli unici appartenenti al genere umano a non essere infettati da un virus che favoriva la coscienza sociale a discapito di un freddo individualismo che essi ritenevano peculiare della nostra specie. Non era chiaro se effettivamente queste persone credessero in una simile teoria o se questa fosse semplicemente un’utile copertura per atti di violenza e depravazione. La cosa certa era che il gruppo disponeva di notevoli mezzi e di ottimi appoggi. Un altro fatto evidente era che il loro braccio operativo, una persona che si faceva chiamare Homo Erectus, ma il cui vero nome era Paul — ovvero il mio fratello scomparso — era l’individuo più pericoloso che si potesse pensare. La notte prima che Bobby Nygard morisse guardai insieme a lui un nastro di provenienza governativa, una compilation di due decenni di atrocità avvenute nel mondo. Sparatorie, esplosioni, stragi. Avevamo notato sullo sfondo di un certo numero di questi eventi l’Homo Erectus come a rivendicare per sé il merito di quelle azioni. Oltre a questo si era adoperato come mezzano per gli abitanti di The Halls, un gruppo di uomini — e per quanto ne sapevo, di donne — coinvolti in ripetuti omicidi seriali. E, ciliegina sulla torta, quell’uomo era identico a me.

I primi passi erano stati semplici: avevo cominciato le ricerche a qualche centinaio di chilometri di distanza da Relent, seduto in un Internet café con un portatile. Non mi andava l’idea che qualcuno pensasse che stessi scrivendo un romanzo, e continuavo a guardare in cagnesco le persone che mi sorridevano con aria di incoraggiamento, ma avevo necessità di collegarmi alla rete. La prima cosa che dovevo fare era rintracciare la città nella quale era stato abbandonato il mio gemello. Paul mi aveva mandato un messaggio nel quale affermava di essere stato abbandonato a San Francisco, ma non ero disposto a credere a niente di quanto diceva senza una prova. Non avevo nulla su cui lavorare, al di fuori di un breve frammento verso la fine della videocassetta che mio padre mi aveva lasciato, e che io avevo riversato in DVD.

La sezione finale era suddivisa in tre parti. La prima mostrava un viaggio in treno. Non c’erano indicazioni che permettessero di individuare i luoghi, ma conoscevo mio padre abbastanza bene per essere sicuro che non l’aveva inserita solo per dare una nota di colore al tutto. Le tinte sbiadite dell’originale, insieme alla pettinatura e all’abbigliamento di mia madre, mi aiutarono a datare il frammento, ma l’aiuto decisivo mi giunse dalla vista di me stesso all’età di due anni. La mia ipotesi era che la prima parte stava a indicare che era stato fatto un viaggio, e che la distanza da casa nostra era tale da rendere sensato l’utilizzo del treno, piuttosto che quello dell’aereo. Questo mi diede un elenco di forse trenta o quaranta città piccole e grandi della California del nord o dell’Oregon.

A questo punto le immagini mostravano un’ampia strada di un centro cittadino. La cinepresa seguiva mia madre mentre camminava lungo il marciapiede, tenendo, come avrebbe chiarito l’inquadratura finale, le mani di due bambini. Non c’era molto altro da vedere, a parte alcuni fuggevoli esempi di quella che era la moda alla fine degli anni ’60, nella foggia dei vestiti e nel design delle auto; striminzite vetrine di negozi che ti facevano domandare che cosa mai spingesse la gente a comprare qualcosa a quei tempi. Niente di significativo, eccetto…

Fermai l’immagine. Sulla parte destra della strada c’era un piccolo emporio, proprio di fronte a un Campetto in erba. Riuscii a malapena a decifrare il nome — Hannington’s.

Dieci minuti passati in rete mi rivelarono che non esistevano empori con quel nome ancora in attività negli Stati Uniti, o almeno nessuno che avesse reso la sua esistenza nota a Internet. Così dovetti buttare nel cesso i metodi di ricerca scientifici e ripartire dalla fine del film.

Scovai una selezione di siti consacrati alla «San Francisco di ieri» e passai un po’ di tempo a scavare tra le rievocazioni del passato della città. I miei occhi stavano cominciando a fondere quando trovai un riferimento a una sorta di rievocazione di un rito del sabato mattina da parte di una ragazzina, ormai diventata adulta, la cui madre defunta era solita portarla in un negozio chiamato Harrington’s a guardare gli articoli di merceria. Non potendo permettersi di comprare nulla, andavano così, giusto per guardare. Mi accorsi che non riuscivo a pensare troppo a lungo a una cosa simile.

Tornai al fermo immagine e vidi che forse avevo letto male l’insegna. La prospettiva non era il massimo e il sole oscurava la scena in un modo difficile da prevedere mentre si girava il filmato. Una veloce ricerca mi disse comunque che non c’era nessun Harrington’s ancora in attività in zona, né sulla West Coast né da qualsiasi altra parte. Sembrava improbabile che ci fossero due empori dal nome quasi identico, entrambi falliti, e un’ulteriore ricerca sul web con il nuovo spelling stabilì che il negozio si trovava sulla Fenwick Street, e che ai suoi tempi era stata un’attività fiorente. Probabilmente, talmente fiorente da aver fatto credere a mio padre che sarebbe rimasta lì per sempre.

Riuscii così a stabilire che si trattava effettivamente di San Francisco. Evidentemente mio fratello era in grado di dire la verità.


Fenwick Street distava dieci minuti a piedi dall’hotel. Le strade erano affollate, greggi di passeggiatori e maniaci dello shopping di fine pomeriggio proiettavano lunghe ombre sui puliti marciapiedi grigi. Anche se la strada era stata allargata e praticamente ogni elemento architettonico a livello stradale era cambiato, non ebbi nessuna difficoltà a riconoscere che mi trovavo nel posto giusto.

Quando fui dall’altro lato della strada rispetto al grande edificio che una volta aveva ospitato Harrington’s, mi fermai. Le persone sfrecciavano intorno a me come foglie che rasentano una roccia in un flusso regolare. La vecchia facciata del negozio era stata divisa in due e adesso ospitava un Gap e un grande emporio di prodotti cosmetici dal quale emergevano, con espressioni soddisfatte e sacchetti piccolissimi in ambo le mani, donne di tutte le età. I piani superiori sembravano ospitare studi di avvocati.

Mi accorsi che i miei occhi erano attratti dal marciapiede di fronte a me. Non ricordavo di aver camminato in quel punto preciso, eppure lo avevo fatto. Tenevo per mano mia madre, e mio padre ci aveva filmato. Loro non c’erano più, ma il posto era ancora qui, e io con lui. Ormai ero più vecchio di quanto fossero loro in quella circostanza, ma allora io avevo più o meno la stessa età di un marmocchio che mi passò davanti in un passeggino, una creaturina così diversa da me che trovai difficile credere che una volta anch’io ero stato così.

Il tempo è strano.


Il mattino dopo, alle 9:05 mi attaccai al telefono. Verso le 10:30 l’unico risultato che avevo raggiunto era la consapevolezza che non è facile ottenere rapidamente delle informazioni dai Servizi Sociali. A un certo punto avevo passato tanto di quel tempo a schiacciare pulsanti per accedere ai diversi menu da cominciare a temere che sarei stato messo in collegamento con me stesso, il che mi avrebbe fatto andar fuori di testa. Così uscii in strada e mi ci recai direttamente.

Non erano passati cinque minuti che già rimpiangevo di non aver continuato la mia ricerca per telefono. Non c’è niente di meglio della sala d’aspetto di un qualsiasi ufficio governativo o similari per ricordarti di quanto sei fortunato. Entri in un posto dove spazio e tempo non esistono. Stai seduto in sedie malandate colorate di tenebrosi blu e verdi che nessuno mai potrebbe annoverare tra i suoi colori preferiti. Rimani in osservazione di cartelli che non hanno nessuna rilevanza per te, comunicati generici provenienti da un mondo che ignora cosa sia la punteggiatura. Resti ad aspettare fino a che l’attesa non ti fa dimenticare lo scopo della tua visita, fino a quando non diventi come una pietra depositata qualche millennio fa da un ghiacciaio distratto. Tu sei lì, e questo è tutto ciò che tu abbia mai saputo. Nel frattempo vieni spogliato di ogni senso di individualità, dell’idea che il tuo particolare problema ti possa rendere differente da qualsiasi altra persona presente nella stanza; e così, come forma di autodifesa, finisci per identificarti con il tuo problema, lo accetti come un’identità fino a che esso si gonfia, suppura e diventa tutto ciò che tu sei. La nostra specie tollera la vicinanza, ma non quando diventa eccessiva, e non in alcune circostanze e quando ci sentiamo piccoli: allora diventiamo solo una fila di occhi aridi e irritati, odiando chiunque sia intorno a noi e augurandoci sinceramente che il nostro vicino muoia in modo da prendere il suo posto e avanzare di un passo nella fila.

Ma forse ero semplicemente io a pensarla in questo modo.

Passai molto tempo in attesa prima di poter anche solo esporre a grandi linee il mio problema a qualcuno. Poi ci volle un po’ perché superassimo il problema che non avevo un vero e proprio indirizzo e perché il funzionario accettasse i dati dell’Hotel Armada. Spiegai che avevo un fratello che probabilmente era stato dato in affidamento a San Francisco verso la metà o la fine degli anni ’60, verosimilmente intorno al 1967; che credevo che il suo nome fosse Paul, che stavo cercando di rintracciarlo e che non avevo nessun’altra informazione ad eccezione del fatto che poteva essere stato ritrovato con indosso un maglione sul quale era ricamato il suo nome. L’uomo prese appunti, ma il suo sguardo mi diceva che sarebbe stata una lunga giornata. Alla fine mi diede un numero e venni rispedito nello sputacchiante e turbinoso branco di problemi, psicosi e lamenti.

Dopo un tempo che mi parve infinito fu la volta del mio numero. Venni condotto per un lungo corridoio e fatto entrare in una stanza all’estremità più lontana del piano, dove una donna di colore di mezza età era seduta dietro una scrivania coperta di carte. Un cartello diceva trattarsi di Mrs. Muriel Dupree. Il muro alle sue spalle era tappezzato di poster nei quali una parola su tre era sottolineata e si garantiva la massima riservatezza.

«Non posso aiutarla,» disse prima ancora che mi sedessi.

Mi sedetti comunque. «E perché?»

«È passato troppo tempo, ecco perché.» Accennò a un foglio che aveva davanti. «Qui lei dice che si tratta di un fratello e che i fatti risalgano al 1967. È prima che io arrivassi, spero se ne renda conto. Era anche prima che succedessero un sacco di altre cose. Questa, per esempio.» Fece cenno verso un computer così obsoleto che non era degno nemmeno di pulire le scarpe al mio portatile. «Tutta questa roba ha cominciato a essere trasferita su computer solo una ventina di anni fa, e nel 1982 ci fu un brutto incendio che distrusse i nastri e i fascicoli nel seminterrato. Quindi, in ogni caso, abbiamo perso la maggior parte delle informazioni riguardanti il periodo precedente a quella data. Anche se su quel caso ci fosse stato qualcosa di scritto, e non fosse andato in cenere, non sarebbe stato moltissimo e lei avrebbe avuto più fortuna a trovare Dio. Intendo dire, in senso generale. Lei potrebbe averlo già trovato, nel qual caso, meglio per lei.»

La donna lesse il disappunto sul mio volto e scrollò le spalle. «Allora le cose andavano diversamente. Oggi nessuno viene ‘lasciato in adozione’: insieme alla madre si definisce un vero e proprio piano di adozione. Ci sono contatti legalmente vincolanti e tutti capiscono che una tela bianca non è la cosa migliore per un bambino, che il bambino ha bisogno della consapevolezza delle informazioni sul suo passato e cose del genere. Ma allora le cose andavano così: ‘Okay sei stato dato in affidamento, adottato o cos’altro. Benvenuto nella tua nuova vita. Non guardare indietro perché non c’è nulla di bello da vedere.’ La gente cambiava il nome dei bambini, la data di compleanno, e quant’altro. Lei sa come dicono sia nata l’espressione lasciato in adozione’?»

Scossi la testa. Non lo sapevo e non mi importava nemmeno di saperlo, ma evidentemente Mrs. Dupree mi stava vedendo come una gradita evasione di cinque minuti dalle persone che avrebbero alzato la voce con lei.

«Anni e anni fa portavano gli orfani fuori dalle città costiere, li mettevano sui treni. Li portavano in campagna e si fermavano in una di quelle microscopiche stazioni, dove i bambini venivano letteralmente ‘depositati’ sui marciapiedi nella speranza che qualche contadino con un po’ di spazio a disposizione — e che avesse bisogno di braccia da lavoro, naturalmente; si trattava pur sempre di un affare — ne prendesse uno o due con sé. ‘Ecco il ragazzino. Nutritelo e va bene così. Tutto quello che c’è stato prima è morto per sempre’. Non intendo dire che negli anni ’60 le cose stessero ancora così, ma in un certo senso era come se lo fossero. Una volta su due ai ragazzi non veniva mai detto di essere stati adottati. Nella maggior parte dei casi i genitori aspettavano fino a che non erano grandi abbastanza, il che significa che probabilmente votavano da qualche anno, e questi giovani restavano terribilmente disorientati nello scoprire che mamma e papà si trovavano in realtà a centinaia di chilometri di distanza quando loro erano nati. Non era un buon sistema e noi lo capiamo adesso, ma allora si pensava fosse la soluzione migliore, e un gran numero di questi bambini è arrivato ad avere esistenze felici e produttive. Signore, si sente bene?»

«Sì,» dissi, sollevando lo sguardo dalle mie mani che avevo osservato per tutto il tempo in cui mi ero chiesto se sarei mai riuscito ad avere io stesso una vita felice e produttiva. «Non mi aspettavo di arrivare a un punto morto così presto. E poi… tutto questo è molto importante.»

«Lo so. La capisco.»

Scossi la testa, desiderando di essere da un’altra parte. «Non credo che possa capire, ma la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato.»

Mi alzai dirigendomi verso la porta. Avevo la mano sulla maniglia quando la donna chiese: «Lei non è per caso malato?»

La guardai, confuso e colto di sorpresa. Per un momento pensai che intendesse qualcosa in particolare.

«In che senso?»

Lei alzò un sopracciglio. «Intendevo dire se questo ha a che fare con il fatto che lei ha scoperto di essere in condizioni di salute tali che qualcuno in particolare dovrebbe saperlo, perché potrebbe trovarsi nella stessa situazione?»

La guardai negli occhi e accarezzai l’ipotesi di mentire.

«No,» dissi. «Io sto benissimo. Ma lui ha veramente qualcosa che non va.»

La lasciai seduta dietro la scrivania e ripercorsi il lungo corridoio verso il mondo esterno, dove potevo fumare e respirare» aria di prima mano e dove i miei problemi erano solo parte di ciò che io ero.


«E adesso che si fa, Bobby?»

Silenzio. Era di nuovo scomparso. Da qualche parte nel mondo degli spiriti con una birra e un ghigno, a mandare fuori di testa gli altri fantasmi.

Il pomeriggio volgeva al termine; stavo sorseggiando una birra standomene seduto a un tavolo all’aperto dell’Espresso, un bar proprio all’angolo della strada dell’albergo. I miei piedi erano affaticati e doloranti. San Francisco è senz’altro un bel posto, ma francamente ha troppe colline.

Alla faccia del fallimento totale della mattina, avevo fatto l’unica altra cosa a cui ero riuscito a pensare. Forse, pensai, forse non era nemmeno entrato nel sistema. Forse era stato semplicemente raccolto da qualcuno per la strada, che so, dalla moglie di qualche negoziante. Sapevo che questa era una fantasia scaturita dai discorsi di Mrs. Dupree sui treni di bambini nel Midwest, ma realmente non vedevo nessuna altra via percorribile e dovevo fare qualcosa per trovarlo. Ero andato alla deriva per troppo tempo. Questo era un compito che spettava solo a me, a nessuno altro.

In assenza di una qualche prova visiva utile, tentai con un altro approccio. Sapevo che i miei genitori non erano persone da gettare un bambino in pasto ai lupi. Probabilmente avevano lasciato il piccolo da qualche parte che reputavano non apertamente pericolosa e dove sarebbe potuto transitare un discreto numero di passanti. Erano a piedi e c’è un limite alla distanza che puoi percorrere con dei bambini di due anni. Perciò era probabile, o almeno possibile, che l’obiettivo della mia ricerca potesse limitarsi a un quartiere trafficato a pochi passi da Union Square. Nel peggiore dei casi sarebbe stato comunque un luogo rispondente a quelle caratteristiche, ma situato lungo una linea del tram.

Così comprai una mappa della città e cominciai a camminare. Non trovai nulla, il che significava che non avevo nessun altro posto dove andare. Un paio di mesi prima ci avevo provato, rispondendo a un’e-mail di Paul. Il mio messaggio ritornò indietro nel giro di un’ora, indirizzo inesistente, sconosciuto, impossibile da trovare. I suoi messaggi non erano tentativi di dialogo, ma enunciazioni. Anche da lì non era venuta nessuna traccia.

Terminai la mia birra e percorsi a piedi la breve distanza che mi separava dall’hotel. Mentre attraversavo la reception sentii qualcuno che chiamava il mio nome. Mi voltai lentamente.

Il giovane che era dietro al bancone aveva in mano un pezzo di carta. «C’è un messaggio per lei.»

La cosa suonava strana. Nessuno sapeva dove mi trovavo. Le poche persone che avrei avuto piacere di sentire mi avrebbero chiamato sul cellulare. Mi avvicinai al bancone sentendomi come se avessi un bersaglio disegnato sulla schiena.

Presi il foglio, ringraziai il ragazzo e mi allontanai. Quando aprii il messaggio vidi questa frase:

«Questa donna può aiutarla. Se vuole.»

C’era il numero di telefono di una sconosciuta e il nome della persona che aveva lasciato il messaggio per me: era Muriel Dupree.


Dopo una telefonata, un breve giro in Internet e una doccia veloce tornai nuovamente di sotto e presi un taxi fuori dall’hotel. Ci volle un po’ di tempo prima di trovare qualcuno disposto a portarmi nel posto dove dovevo andare, ovvero dall’altra parte della baia e poi ancora un bel po’ più lontano. Il tassista che riuscii a convincere esigette un extra che consisteva nel prestare orecchio a una lunga serie di diatribe. Fortunatamente l’uomo era troppo preso dalla sua dialettica per lasciarmi un ruolo recitante. Io grugnivo e ogni tanto dicevo: «Giusto,» continuando a guardare fuori dal finestrino mentre la città prima e i sobborghi poi scorrevano davanti ai miei occhi.

Avevo fatto una telefonata ai Servizi Sociali, sperando di parlare con Mrs. Dupree, ma senza successo. Avrei fatto meglio a tornare indietro nel tempo. Dunque, non avevo la minima idea di chi stessi andando a incontrare, ma la ricerca su Internet mi aveva informato che il numero apparteneva a una certa Mrs. Campbell e mi aveva rivelato dove viveva. È una delle poche cose che so fare. Certo, l’intenzione di Muriel era ovviamente quella che io chiamassi, chiedessi un appuntamento, dichiarassi di cosa mi occupavo e, più in generale, facessi le cose come andavano fatte. Naturalmente, me ne ero infischiato. Non sapevo assolutamente chi fosse questa persona o che cosa Muriel pensasse che la donna potesse dirmi, ma la mia limitata esperienza in questo genere di cose mi diceva che ti avvicini maggiormente alla verità se non informi in anticipo che stai venendo a cercarla. E so di cosa sto parlando. Bobby e io ci eravamo conosciuti quando lavoravamo entrambi per la CIA.

Alla fine il tizio alla guida smise di parlare e cominciò a consultare una mappa. Ci allontanammo sempre di più dalle arterie principali e alla fine ci ritrovammo in un groviglio di strade residenziali. Il quartiere era bianco, mezzo malandato, sicuramente non il sogno di un agente immobiliare. Lo percorremmo avanti e indietro per un po’ prima che mi impadronissi della mappa per dare le indicazioni del caso al tassista. Ci fermammo a metà di una strada costellata da piccole abitazioni in legno, ognuna fornita di un piccolo pezzo di terreno.

Scesi dalla macchina e pagai. Intorno non c’era nessuno.

«Se stai cercando del divertimento sei venuto nel posto sbagliato,» disse il conducente e poi ripartì.

Attesi fino a quando non fu fuori dalla visuale e poi tornai indietro di una cinquantina di metri lungo la strada dalla quale eravamo arrivati, in quanto avevo deliberatamente dato un indirizzo non esatto. La via che cercavo era in realtà a due strade di distanza e dopo aver camminato per un paio di minuti trovai la casa che dovevo visitare.

Percorsi un piccolo sentiero e salii due gradini che immettevano in una veranda. Era stata dipinta di bianco solo pochi anni prima, e presto ce ne sarebbe stato di nuovo bisogno. Cercai un campanello, ma non ne trovai, così bussai. Non avevo il minimo dubbio sul fatto che la donna fosse in casa.

Dopo qualche minuto sentii un rumore provenire da dietro la porta, e poi qualcuno aprì. Nell’ombra si stagliava una figura minuta.

«Mrs. Campbell?» domandai.

Lei non disse nulla, ma si sporse lentamente verso la porta intermedia e la aprì leggermente. Attraverso la fessura vidi una donna intorno ai settanta, con i capelli ancora curati, ma con un viso grigio e gonfio; c’era anche un’espressione di profonda sorpresa su quel volto. Mi guardò negli occhi, poi dall’alto in basso e poi di nuovo negli occhi.

«Mio Dio,» disse alla fine, continuando a fissarmi. «Allora era vero.»

Capitolo sei

Quando il telefono squillò Nina era sulla sua cosiddetta sdraio. «Cosiddetta» perché il termine «sdraio» suggerisce un grado di rilassamento e confort che lei semplicemente non poteva permettersi. In teoria era lì fuori per pensare; ma a dire il vero stava dormendo. In ufficio non riusciva a seguire il filo dei suoi pensieri per via del rumore degli uomini che andavano avanti e indietro, che urlavano al telefono, che erano sempre attivi e ostentavano un atteggiamento professionale. Aveva già notato che una delle principali implicazioni dell’essere uomo consisteva nel fatto che dimostrarsi all’altezza, compiere il proprio dovere, non era abbastanza. Doveva essere ben presente agli occhi di tutti che tu eri lì, e che stavi facendo bene il tuo lavoro. Nina trovava che la sua terrazza fosse un posto ideale per pensare, molto meglio del resto della casa. Doveva andarsene, lo sapeva; soprattutto dopo che le cose non avevano funzionato con John, sentiva che quella casa era come infastidita e stanca di lei, e lasciava a desiderare da qualsiasi punto di vista. Era sulle colline di Malibu, il che era fantastico, ma lei poteva permettersi l’affitto solo perché l’edificio cadeva a pezzi. Il pavimento in cemento del soggiorno era spaccato al centro e la fessura era abbastanza larga da infilarci dentro tre dita. La piscina era stata distrutta in un incendio molto tempo prima che lei si trasferisse lì. Una bella scossa di terremoto, e la veranda sarebbe finita nel Pacifico; altre due scosse, e la casa l’avrebbe seguita. Per qualche motivo, la prospettiva non l’aveva mai inquietata eccessivamente. Alcuni fumavano. Nina invece se ne stava seduta in veranda.

Aveva passato il resto della giornata per strada e negli uffici, al telefono, esaminando accuratamente informazioni irrilevanti e ascoltando rapporti sui risultati di una serie di esami del medico legale. Non era emerso niente di utile. Il pigiama era stato acquistato da «Wal-Mart, il che non è mai un buon segno quando si cerca di ricostruire la storia di un oggetto. Quelli della Scientifica stavano ancora esaminando il l’hard disk estratto dalla bocca della donna; una foto del suo volto veniva mostrata in giro per la città da investigatori e agenti di pattuglia. Poteva volerci una vita prima che trovassero qualche corrispondenza. Una donna, un tempo attraente e ora morta. Gli archivi della polizia del paese erano pieni di casi come questo.

Rientrò in casa e trovò un messaggio sulla segreteria. Schiacciò il pulsante, pensando che potesse essere Zandt con una risposta più costruttiva alla sua telefonata di prima. Invece era la sua amica Meredith, una sua ex compagna di studi, che si diceva d’accordo: era il momento che si incontrassero, che cenassero insieme e si facessero una bella chiacchierata. Nina non si ricordava di cosa dovessero discutere, ma convenne che fosse giunto il momento. Era passato almeno un anno da quando il suo sfilacciato gruppo di vecchi amici si era ricostituito. Merry viveva nella Silicon Valley, con un marito e tre bambini, apparentemente senza che la cosa le pesasse, come se avesse vinto un concorso. Ora si preoccupava un sacco per cose che Nina reputava inutili, incomprensibili o semplicemente insignificanti, e per di più la sua acconciatura diventava sempre più indifendibile. Presto sarebbe stato impossibile guardarla al di sotto dei capelli e ripensare ai tempi in cui Nina si era spanciata dalle risate mentre lei vomitava in una serie di gabinetti in occasione di non meglio precisate feste organizzate da alcuni professori nei loro minuscoli alloggi stipati di libri. La ragazza di allora se ne era andata da qualche parte, rispondendo al richiamo dell’happy hour di qualche bar perso in un passato lontano, e aveva mandato al suo posto la Meredith Jackson mamma perfetta per partecipare agli incontri. A sua volta questa donna doveva essere sicuramente sconcertata dalla più recente incarnazione di Nina, che continuava a sembrare una donna senza la minima idea di cosa significasse lavorare. Nina sapeva di dovere mantenere i legami con le vecchie amiche, ma spesso si chiedeva perché queste lo volessero. Forse a Meredith piaceva conoscere un agente dell’FBI o forse a Nina piaceva credere di avere ancora qualche legame con la vita reale, credere che al di là dell’universo che la circondava, costituito da assassini, scrivanie, uomini in giacca e cravatta e notti in bianco, ci fosse ancora qualcuno che non voleva altro da lei che un po’ di conversazione, qualche pettegolezzo e un sorriso. Non aveva avuto il coraggio di fare il grande passo e rispondere al messaggio, e così si mise a pensare. Finì col chiedersi quale era la differenza tra Merry, o lei stessa, e la giovane trovata al Knights quella mattina; a che livello di deriva della vita si dovesse giungere per finire ammazzata in un motel, impregnata del fumo delle sigarette degli uomini arrivati a prendere nota dei tuoi ultimi istanti, le tue orecchie ormai sorde riempite di discorsi confusi sui più recenti eventi sportivi e almeno un’osservazione sulle tue tette. John Zandt — che aveva fatto il poliziotto nella Omicidi della città prima che il Ragazzo delle Consegne rapisse sua figlia — le aveva fatto notare, molto tempo prima, quanto velocemente a Hollywood la vita di una teenager potesse passare dalla A alla B e poi dalla B alla Z; poi c’era il salto dalla Z al cartellino di «Sconosciuta» dell’obitorio. E nessuna di loro sa quanto tutto accadrà velocemente e senza ostacoli. Non si tratta di anni, ma di mesi, forse settimane. Potenzialmente, potrebbe accadere nell’arco di una sola notte. Cominci una sera come la bambina viziata e coccolata di qualcuno e ti svegli il sudicio mattino dopo già privata di tutto ciò che non hai ancora imparato ad apprezzare di te stessa. Tutte pensano di essere delle star, ma in realtà non sono altro che carne da cannone in attesa di vedere amici, amanti e destino infrangere le loro promesse.

Nina entrò in casa e si versò un bicchiere di vino. Quindici minuti dopo stava dormendo. Si svegliò di soprassalto e quando finalmente le giunse il suono del telefono, si alzò barcollando dalla poltrona convinta di arrivare in ritardo: l’impressione era che stesse suonando da molto, come se si sforzasse di strapparla a un sogno in cui un vecchio stava tentando di violentarla in una stanza buia.

Nell’andare a rispondere sbatté sia contro la porta a vetri sia contro il bancone ed era pronta a dirne quattro a Zandt. Ma anche questa volta non era John.

Era Monroe. «Faresti meglio a tornare qui,» disse senza preamboli. «Abbiamo trovato qualcosa.»


Incontrò Monroe nell’ufficio di Doug Olbrich. Olbrich era un tenente della sezione Speciale 1 — la divisione Rapine e Omicidi — che si occupava della raccolta dati per gli identikit e dei casi che presentavano legami tra omicidi e riciclaggio del denaro. Era alto, slanciato e con i capelli a spazzola.

«Ciao, Doug.»

«Ciao, Nina. Come vanno le cose?»

«Come al solito. In realtà è un po’ che non parlo con John, ma se lo avessi fatto, sono sicura che ti avrebbe mandato i suoi saluti.»

Davanti a Olbrich c’era un piccolo fascicolo di carte e qualcosa di chiuso in una busta di plastica trasparente. Sullo sfondo c’erano tre poliziotti che confabulavano attorno a una scrivania. Dal lato della scrivania di Olbrich vicino alla porta stava appollaiato un tipo magro di colore, in maniche di camicia, che Nina ebbe l’impressione di conoscere.

«Nina, questo è Vincent,» disse Olbrich. Nel frattempo Monroe le portò una tazza di caffè che lei accettò riconoscente.

«Mi ricordo,» disse, «sei un topo da laboratorio, no?»

Monroe si accigliò, ma il tecnico sorrise allegramente. «Sono Vince Walter, fanciullo prodigio della tecnologia.»

«Sono i miei preferiti,» disse lei sentendosi stanca. «Allora, cos’hai per noi, Vince?»

«Questo,» disse Olbrich, spingendo la busta verso di lei. «E quello che c’era dentro.»

Ripulito del sangue e non più infilato nella bocca di qualcuno, l’oggetto aveva ritrovato la sua ordinaria fisionomia di strumento tecnologico. Misurava all’incirca cinque centimetri per dodici ed era spesso poco più di mezzo centimetro. Un’estremità era coperta di connettori color oro e l’altra era piatta. La parte superiore era costituita da una placca di metallo con due adesivi che una volta erano stati bianchi, mentre ora erano macchiati irregolarmente di un marrone sbiadito. Nella parte sottostante si vedevano le filiformi tracce verdi di un circuito stampato. A un terzo dalla sommità c’era un piccolo cerchio, probabilmente il punto intorno al quale il disco interno ruotava quando era in funzione. Un’etichetta diceva: «Garanzia non valida se il sigillo viene rotto.» «Non è valida nemmeno se è stato trovato nella bocca di una donna morta?» si chiese Nina.

«Un hard disk,» disse la donna, diligentemente. Gli uomini stavano evidentemente andando a parare da qualche parte, ognuno cercando di rivendicare l’esclusiva.

«Giusto,» disse Vince. «È un Toshiba MK4309, con capacità di poco superiore ai quattro giga, sorpassato rispetto agli standard attuali, e il numero di serie ha confermato che è stato prodotto circa due anni fa.»

«Siamo stati inoltre in grado di stabilire che il disco è stato installato in stabilimento su una macchina assemblata in Giappone e importata negli Stati Uniti a metà del 2002,» intervenne Monroe. «Lo stiamo facendo girare proprio adesso. Potrebbe dirci chi era la donna, o forse no.»

«Ci sono ancora delle persone che girano per strada con le foto della vittima,» aggiunse Olbrich. Nina lo aveva incontrato diverse volte in precedenza, quando Zandt faceva ancora parte della Omicidi, e l’uomo l’aveva impressionata perché si era rivelato uno dei detective meno narcisi che avesse mai conosciuto. «Sappiamo che il giorno in cui è morta non aveva mangiato molto, ma aveva in compenso bevuto un sacco. Due ore fa ho mandato due detective in tutti i bar e i locali dei dintorni del Knights. La prima volta non avevamo trovato niente, ma…»

«E nella stanza non avete ancora trovato niente sull’assassino?»

Lui scrollò le spalle. «Niente impronte, né fibre, niente sulla vittima. A quanto sembra questo tizio non ha mosso foglia.»

«E per quel che riguarda il disco?»

«Era vuoto,» rispose Olbrich, «eccetto per due cose.»

«Due cose,» ripeté il tecnico, risoluto a non perdere il suo momento di gloria. «Il file più grande è un MP3 di sette mega, un brano musicale.»

«È l’Agnus Dei del Requiem di Fauré,» disse Monroe. «Un brano piuttosto noto, sembrerebbe. C’è della gente che sta cercando di capire che registrazione sia, e in ogni caso cercheremo di rintracciare acquisti recenti di CD, ma non mi aspetto molto perché avrebbe potuto anche essere stato scaricato da Internet, per quanto ne sappiamo.»

«E dunque?» disse Nina stufa di incalzarli.

«Prima mi hai chiesto da dove veniva,» disse Monroe. «Hai detto che poteva saltar fuori qualcosa. Si direbbe che tu abbia ragione.»

Spinse il pezzo di carta verso di lei. «Leggi questo.»

Nina lesse:

«Il sonno è delizioso. La Morte ancora meglio. Non essere nati è evidentemente il miracolo.»


Sua madre non permetteva alla nonna di fumare in casa. Così c’erano giorni in cui l’umore della vecchia signora non era dei migliori e altri in cui insisteva per essere portata fuori in veranda. La lasciavano lì, per quanto facesse freddo o piovesse a dirotto. Sua madre non l’avrebbe aiutata a entrare: e proibiva a lui di fare lo stesso. Avrebbe dovuto raccomandarsi l’anima a Dio se si fosse opposto al suo volere o se avesse fatto qualsiasi altra cosa. La nonna rimaneva fuori fino a quando sua figlia non si calmava ed era disposta a farla rientrare. Comunque lo faceva senza un minimo di gentilezza.

In una di queste giornate, un pomeriggio così gelido che dal tetto pendevano i ghiaccioli, lui chiese a sua nonna per quale ragione lei preferisse stare sulla veranda al freddo quando dentro era caldo e accogliente.

Per un po’ la donna fissò il vuoto, al punto che lui cominciò a dubitare che l’avesse sentito.

«Conosci quel gioco,» disse lei alla fine. ««Perché il pollo attraversa la strada?»

Disse che lo sapeva: per andare sull’altro lato.

«Bene, con le sigarette è la stessa cosa.»

«Non capisco.»

La donna pensò ancora un attimo. «Finisci col vivere dal lato sbagliato della vita. Non so spiegarmi meglio. Ogni sera devi attraversare questa strada, al buio, per arrivare a casa. Non riesci a capire se sta arrivando qualche macchina, perché c’è il vento che copre ogni rumore, ma la cosa non ha una grande importanza perché la strada non è molto trafficata. Ma più fai avanti e indietro, nel buio più totale, e più diventa probabile che prima o poi una di quelle macchine ti investa. Le macchine sono un cancro, e sono grosse e potenti e vanno a tutta birra, e se ti prendono, muori.»

«Ma… allora perché continuare ad attraversare la strada?»

Ci fu un sorriso forzato. «Per andare dall’altra parte.» Scrollò le spalle. «Vedi, è troppo tardi. Ti sei fatto il letto e ora devi dormirci dentro. L’unica cosa che puoi fare è cercare di assicurarti di non finire a vivere sul lato sbagliato della strada.»

Tossì per un po’, quindi si accese un’altra sigaretta. Prese una bella boccata e la trattenne per osservare la punta incandescente. «Non provare a cominciare con questa merda, capito?»

«Non temere,» disse.

Fece del suo meglio per rispettare il suo avvertimento: fece attenzione con l’alcool, non assunse mai droghe e non permise mai che il cibo, o l’esercizio fisico, o la pornografia, o il collezionare bambole cinesi gli prendessero la mano e pretendessero di essere suoi amici.

Nonostante questo, una notte di sette anni dopo, si ritrovò con le mani insanguinate e capì di aver trovato la propria personale strada per il fumo.


«Cristo,» disse Nina alla fine.

«Ha già ucciso in precedenza,» disse Monroe.

«O vuole che noi lo pensiamo.»

Monroe fece un sorriso tirato. «Possiamo essere sicuri che è capace di rifarlo. Su questo siamo tutti d’accordo, vero?»

«Sì,» disse lei. «Su questo sono d’accordo.» Le bruciavano gli occhi. «Da cosa è tratta la citazione?»

«Non lo sappiamo ancora.»

«Ti senti bene, Nina?» Questa volta era stato Olbrich a parlare.

Lei annuì continuando a fissare il biglietto. «Sono solo incazzata. Un biglietto che dice: ‘Eccomi qui’ e un Requiem, Cristo santo. È come se ascoltassimo i suggerimenti di un pazzo.»

«Non è strano questo parlare di sé in terza persona?» disse Olbrich.

«Non particolarmente,» rispose Nina. «È stato notato molte volte negli interrogatori. Ted Bundy, per esempio. Potrebbe essere un modo per permettere loro di aprirsi. La teoria dice che in questo modo riescono a descrivere crimini dai quali altre parti della loro mente desiderano dissociarsi. Nel caso di Bundy questo gli permise anche di descrivere situazioni ipotetiche — ‘Immagino che un assassino in una situazione del genere farebbe questo e questo’ — senza ammettere effettivamente la propria responsabilità. Riusciamo a sapere qualcosa dalle caratteristiche tecniche del file di testo?»

«No, mi dispiace,» disse Vince. «L’hard disk è in un formato standard per PC ma il file non ha alcuna indicazione sul sistema operativo utilizzato: potrebbe essere stato scritto su qualsiasi cosa che va da un supercomputer a un Palm V. C’è qualcuno ai piani bassi che sta setacciando la struttura della directory ma anche in questo caso è meglio non farsi troppe illusioni. Il disco era stato accuratamente ripulito prima di metterci questi file. Abbiamo a che fare con qualcuno che se ne intende di computer.»

«Il che potrebbe essere comunque un’informazione utile,» disse Monroe.

«Assolutamente sì,» disse Nina. «Questo ci dice che è sotto i cinquanta e vive da qualche parte nel mondo occidentale.»

Monroe si girò e la guardò. Nina decise che sarebbe stata una buona idea tornarsene a casa al più presto.

«Una copia di questo materiale ora è a Quantico, alla sezione Profili,» disse Monroe. «Dovrebbero farsene un’idea a breve.» Il tono di voce era un po’ più alto del solito. Suonava serio, zelante, professionale, ma c’era anche una punta di eccitazione. C’era da aspettarselo: se non ti esaltasse andare a caccia dei cattivi, non saresti nelle forze dell’ordine. Ma fin dalla prima volta che aveva lavorato con lui, quando aveva arrestato un killer chiamato Gary Johnson, che alla metà degli anni ’90 aveva ucciso sei donne anziane in Louisiana, Nina non aveva dubitato che i progetti di Monroe fossero ben altri. I crimini e le loro soluzioni erano solo dei mezzi per raggiungere un fine. Lei non riusciva bene a capire quale potesse essere questo fine — la politica? Avere a disposizione l’ufficio ad angolo più grande di tutti gli Stati Uniti? —, ma sapeva che quel fine gli dava più motivazioni che la necessità di guardare negli occhi i parenti delle vittime e dire: «Abbiamo preso l’uomo e non uscirà mai più di galera.» Forse c’era qualcosa di non troppo stupido in tutto questo. Nelle poche occasioni in cui Nina era stata in grado di fare qualcosa secondo questi principi, l’espressione attonita sulle facce dei suoi ascoltatori non era cambiata di molto. Sei madri e nonne muoiono anzitempo e in modi spregevoli; il tizio responsabile viene rinchiuso in una scatola di cemento per il resto della sua vita. Come baratto non sembrava funzionare un granché. Certo, nessuno vuole finire in prigione, e in modo particolare in Louisiana, per aver ucciso, tra le altre, due donne anziane di colore. Non ti va di alzarti ogni mattina dalla tua striminzita branda di metallo domandandoti se è questo il giorno in cui qualche pazzo che vuole ancora bene alla mamma deciderà di rallegrare la giornata di tutti tagliandoti la faccia con un cucchiaio appuntito. Ma Nina non credeva che la maggior parte degli assassini avvertisse appieno la forza della carcerazione, per la semplice ragione che loro non interpretavano la realtà come facciamo noi altri. A ogni modo, dovevano pur sempre vivere: mangiare, dormire, andare in bagno. Guardavano la televisione, leggevano i fumetti. Seguivano dei corsi e si districavano nel labirinto di appelli che sperperando il tempo di tutti bruciavano abbastanza soldi pubblici da poterci costruire metà di una scuola. Questo, naturalmente, era un loro diritto. Quello che non dovevano fare era starsene sdraiati, da soli, in una buca scavata nel suolo, senza nessuna compagnia se non il rumore del terreno che si assesta. Loro non dormivano, con le braccia lungo i fianchi, in un loculo che i loro figli non potevano permettersi e del quale percepivano la crescente umidità, l’inizio della decomposizione.

Quindi sì, forse Monroe vedeva le cose razionalmente. Combattere la battaglia giusta, risalire la scala. Poi tornare a casa dalla moglie e gustarsi una bella cenetta guardando il telegiornale di mezza sera. Chi può dirlo — potresti anche esserci tu, che salvi il mondo. Sarebbe bello. La conclusione del discorso era che l’FBI non era direttamente incaricata di investigare sugli omicidi seriali. Monroe si era lasciato coinvolgere per motivi di avanzamento di carriera. E allora? Qual era la sua scusa, invece?

«Tornatene a casa, Nina,» disse Monroe. «Fatti una dormita. Mi servi in piena efficienza domani mattina presto.»

Nina alzò lo sguardo, sorpresa dal tono della sua voce, e capì di essersi estraniata per circa trenta secondi. Vince le stava gettando uno sguardo lievemente incuriosito; Monroe la osservò senza troppa simpatia. Solo Olbrich aveva la cortesia di guardare da un’altra parte.

Monroe cominciò a parlare con Olbrich in un modo che lasciava intuire che non era richiesto nessun ulteriore input da parte di Nina. La donna rimase in attesa fino a che i due non andarono a raggiungere i poliziotti sul fondo della stanza, poi si voltò verso l’uomo che si era proclamato «fanciullo prodigio» e parlò col suo tono più tranquillo, amichevole e seducente.

«Vince,» disse, «ti devo chiedere un favore.»

Venti minuti dopo lasciò l’edificio con qualcosa nella borsa. Spuntò sulla strada e nella sera che era ancora molto calda, e si domandò se stesse deliberatamente tentando di mandare a puttane la sua carriera.

Aveva bisogno di parlare con qualcuno, ma John non rispondeva al telefono e la ragione era che lui era più fulminato di lei. C’era solo un’altra possibilità, e lei ci pensò su un momento.

Sì, forse. Sarebbe andata a casa per vedere come si sarebbe sentita.

Guidò tranquillamente fino a casa e quando entrò nel vialetto d’accesso aveva deciso di fare la telefonata. Andò in cucina e compose il numero. Gli squilli si succedettero, ma nessuno rispose.

Nina lasciò un messaggio, sentendosi semplicemente come l’ennesima voce sull’ennesima segreteria telefonica.

Capitolo sette

Il retro della casa di Mrs. Campbell dava su un piccolo pezzo di giardino che rivelava tutto quello che la facciata della casa tentava di nascondere. Io mi trovavo nella cucina, sforzandomi di attendere pazientemente mentre lei trafficava con stoviglie e posate. Mi ricordai che una volta mia madre mi aveva detto che il giorno in cui rifiuti una bevanda calda da una persona anziana, quello è il momento in cui lui capisce che la sua compagnia non interessa a nessuno. Comunque, io non sapevo un cazzo di piante e la vista non era affatto interessante. Ci volle tutta la mia pazienza perché non prendessi la vecchia per il collo.

«Anche Muriel è stata adottata,» disse, quando alla fine mi condusse nel salotto. «Gliel’ha detto?»

«No,» risposi, facendo velocemente un passo verso di lei per prenderle il vassoio. Non so cosa preveda il galateo in questo caso, ma per come la vedevo io, nel giro di dieci secondi sarebbe finito per terra e non mi andava affatto l’idea di dover attendere che preparasse il caffè una seconda volta. «Mi ha detto solo che non poteva aiutarmi, e questo è stato praticamente tutto.»

«A volte fa così. L’ho conosciuta quando cominciò a lavorare lì. All’inizio sono stati anni difficili. Prima il marito l’ha lasciata, ripulendo la casa quando se n’è andato. L’ha anche picchiata. Ma malgrado tutto, si è ripresa e ha fatto il suo dovere aiutando un sacco di persone a uscirne. Molte persone vanno in un posto come quel vecchio e grande ufficio sulla Adam e si dimenticano che anche gli impiegati sono esseri umani, con le loro vite.»

«Capisco che possa essere un lavoro difficile,» dissi. «A volte non è facile trattare con le persone.»

«Esatto, è proprio così. Certo, anche alcuni di quelli che lavorano lì sono degli stronzi.»

Risi. La donna fece un cenno di approvazione. «Dovrebbe sorridere più spesso,» disse. «Ha un aspetto piacevole quando lo fa. Succede a molti, ma a lei particolarmente. Quando non sorride, sembra che voglia fare del male alle persone.»

«Non è così,» dissi.

«Lo dice lei.»

«Mrs. Campbell, ho la sensazione che…»

«Sì, sì, ora ci arrivo. Lei sta cercando un fratello, vero? Muriel ha detto che lei pensa che i fatti risalgano al 1967. I conti tornerebbero. In effetti, per quel che ricordo era ottobre. Anche se, a dire la verità, la mia memoria non è più come un tempo. Funziona per le cose, ma un po’ meno per i fatti.»

Mi limitai ad annuire. Sentivo il mio petto stretto in una morsa.

«Fu un negoziante cinese a trovarlo per strada. Un bimbo che aveva appena imparato a camminare. Non so quanto tempo fosse rimasto lì, ma aveva pianto un bel po’.»

«I miei genitori avevano le loro ragioni,» dissi, sentendo un bisogno assurdo di difendere una decisione che non era stata mia e che comprendevo appena. «La situazione era complicata.»

«Ne sono certa. E non lo hanno abbandonato in mezzo a un deserto, almeno, il che è già qualcosa. A ogni modo, capimmo che il suo nome era Paul, perché c’era il suo nome ricamato sul maglione. Naturalmente, in quel periodo, molte famiglie erano solite scegliere un nuovo nome, ma quello di Paul rimase. Effettuammo i soliti controlli, ma non riuscimmo a rintracciare da dove potesse essere arrivato e così fu dato in affidamento qui in città. Ci rimase qualche anno. Di solito trovare una sistemazione per un bambino così piccolo e carino non è difficile, ma con questo sembrava che nessuno ne volesse sapere.»

Desideravo sapere che cosa intendeva, ma non volevo interrompere il fluire del discorso.

«Persi le sue tracce per un po’. Ci sono un sacco di ragazzini e ce n’è sempre uno nuovo che ha bisogno di qualcosa. Ebbi di nuovo sue notizie quando stava cominciando a diventare un problema.»

«Di che genere?»

«Stava con una famiglia adottiva per qualche mese, e poi ci veniva riportato, molto prima del previsto. All’inizio non prestai una particolare attenzione alla faccenda, sono cose che succedono. Ma poi cominciò a diventare un’abitudine. ‘Ehi, Paul è tornato. La famiglia in affidamento temporaneo non è riuscita…’ Be’, stavo per dire ‘non è riuscita a farcela’, ma non sembrò mai essere così, o almeno non del tutto. Era semplicemente così, lo riportavano indietro. E deve considerare che si trattava di famiglie che si erano occupate di un sacco di bambini, che erano capaci di accoglierli e di farli sentire a loro agio. Gli trovavamo una sistemazione e mentalmente gli dicevamo addio, e dopo cinque settimane me lo ritrovavo lì, seduto su un davanzale a guardare fuori. Gli chiedevo cosa era successo e Paul mi rispondeva la stessa cosa delle famiglie: non ha funzionato.»

Bevve un sorso di caffè come assorta nel ricordo di errori passati. Tutti abbiamo le nostre sacre icone di colpa. «A ogni modo, alla fine venne deciso che era necessario fare un passo in avanti nella ricerca di una famiglia adottiva e trovare una soluzione a lungo termine. Così parlai a Paul e gli dissi cosa avremmo cercato di fare. Lui annuì — aveva all’incirca sei, sette anni in quel periodo, lo tenga presente — e qualcosa mi disse che non era d’accordo, ma che era consapevole di quanto stava per accadere e si rassegnava all’idea che le cose seguissero il loro corso. Così gli domandai se per caso non volesse trovare una famiglia definitiva e lui mi rispose guardandomi dritto negli occhi: ‘Una ce l’avevo e ora non c’è più. Quando tutto sarà a posto, la riavrò.’»

Sentii un brivido lungo la schiena. «Si ricordava di noi?»

«Non necessariamente. Ma sapeva che un tempo c’era stato qualcosa di diverso. Non c’è bisogno di essere un genio per capire che la sua situazione non era naturale, e lui era un ragazzino intelligentissimo, ci può scommettere. Questo è quanto. A volte i bambini sentono di essere stati abbandonati, portati via da dove avrebbero dovuto stare. Anche quelli che non sono stati adottati lo sentono. È la sindrome del ‘Dovrei essere la principessa delle fate’ o ‘Io sono un re e quando piango la terra piange con me.’ La mia impressione è che anche nel caso di Paul le cose fossero in questi termini.»

Avevo guardato la parte del video riguardante l’abbandono molte volte, senza mai affrontare il problema di cosa dovesse significare per il bambino abbandonato. Negli ultimi tre mesi non mi ero veramente preoccupato di cosa avesse potuto provare. Mi sforzavo di farlo adesso.

«Senta,» dissi, «le dispiace se fumo?»

«Faccia pure.» Sorrise. «Mio marito fumava. Mi piace l’odore. Sa, comunque, che la ucciderà?»

«Non accadrà,» la rassicurai. «È solo una diceria messa in circolazione dai fanatici della palestra e dai maniaci salutisti.»

Annuì, ma non sorrideva più. «Già, è quello che pensava anche lui.»

Qualcosa nel modo in cui lo disse fece sì che, sebbene stessi fumando la sigaretta, non me la godessi molto. «Quindi cosa accadde quando cercaste di trovargli una famiglia definitiva?»

«Glielo dirò.» Rimase in silenzio per un attimo prima di continuare. «Sa, mi sono occupata di queste cose per tanto tempo e ci ho pensato su parecchio. Una parte di me è convinta che il posto dove siamo nati si infiltra in noi come l’acqua che sgorga dal suolo, che abbiamo foglie come gli alberi, e che il posto dove si deposita il seme che poi diventerà noi sarà quello che ci determinerà e che stabilirà il colore delle nostre foglie — anche se qualche uccello ci prende e ci trasporta a cento, duecento chilometri di distanza. C’è poi un’altra parte di me che pensa: be’, cavolo, siamo o non siamo tutte creature di Dio? Non siamo altro che esseri umani. Non è questo quello che dice la Bibbia? Allora cosa importa se un bambino viene cresciuto da qualcuno che non è suo parente o lontano da dove è nato? Dagli una buona sistemazione e può darsi che non accada mai nulla. Ho visto questo metodo funzionare centinaia e centinaia di volte. Non è sempre facile, ma funziona, ed è una delle cose che mi fa credere che noi umani non siamo poi così cattivi, in fondo.»

Scosse la testa. «Trovare una famiglia adottiva per Paul non era così semplice. Venne sistemato in tre famiglie diverse da allora: la prima durò un anno, un altro affidamento presso una coppia che aveva già una figlia più grande. In quel periodo ero alle prese con problemi personali piuttosto seri: mio marito si era ammalato. Un lunedì mattina arrivai al lavoro con il mio carico di pensieri e mi venne detto che Paul si trovava in una stanza a un altro piano. Lo avevano trovato seduto sui gradini quando la gente aveva cominciato ad arrivare al mattino. Non era fuggito, era stata la famiglia a portarlo lì. Fece avanti e indietro per qualche mese, poi riuscimmo a trovargli un’altra famiglia, con la quale Paul restò due anni interi, fino a quando lui non ebbe dieci anni. Poi, un giorno, sentii bussare alla porta del mio ufficio: era la madre adottiva. La donna mi disse, cortesemente, che non ce la facevano più, che il problema non era Paul, ma solo il fatto che adesso lei aveva una bambina sua e avevano deciso che l’affidamento non faceva più per loro. Io mi infuriai, glielo giuro. Le cavai gli occhi, quasi. Quello non era il modo di comportarsi. Però… non si può lasciare un bambino con persone che non lo vogliono più.»

Prese la tazza, si accorse che il caffè era freddo e la rimise giù. «Ne vuole…»

«Va bene così,» dissi. «La prego, continui.»

«Rividi Paul a casa, poco dopo. Ero dispiaciuta per il bambino. Gli dissi che pensavo lo avessero trattato ingiustamente. Lui si limitò a fare spallucce. ‘Ce l’ho già una famiglia,’ ripeté. Mi preoccupai nel sentire che pensava ancora una cosa del genere e cercai di fargli capire che non era il caso, e che ci doveva aiutare a trovare un altro nucleo familiare con cui potesse stare. Aveva avuto un padre e una madre naturali, e questo sarebbe stato vero per sempre, ma ora doveva stare con qualcuno di diverso. ‘Non parlo di loro,’ disse. ‘Loro non erano reali, ma avevo un fratello e lui era vero, era proprio uguale a me.’ Mise un forte accento su quel ‘proprio’: ‘Proprio uguale a me’, fu quello che disse.»

Fece un sorriso stentato. «Naturalmente non gli credetti, pensai che fosse semplicemente una sua fantasia; c’era qualcosa in lui a quei tempi che era un po’… Non saprei. Ma quando lei è apparso sulla porta, stasera, ho capito che dopo tutto aveva ragione. Aveva un fratello, proprio uguale a lui.»

Annuii, perché dovevo farlo, ma stavo pensando che si sbagliava e che anche lui si sbagliava. Io gli assomigliavo fisicamente, pianto e basta. Ero comunque sorpreso che avesse potuto notare la somiglianza, se Paul era un bambino l’ultima volta che lei lo aveva visto.

«Alla fine ne trovammo una disponibile. Lo sistemammo in una famiglia qui in città ed era lì da un anno quando si trasferirono in un altro stato e lui andò con loro. Qualunque cosa fosse a non essere andata bene, quella volta funzionò. Ecco tutto.»

La fissai.

«Cosa c’è?» disse.

Continuai a guardarla.

Lei abbassò lo sguardo sulle sue mani e parlò con voce pacata. «Che cosa ha fatto?»

«Mrs. Campbell,» dissi. «Mi dica quello che non mi ha ancora detto. Devo sapere assolutamente.»

Rialzò lo sguardo su di me e quando parlò lo fece velocemente, con lo sguardo vitreo. «Pochi anni dopo incontrai il marito della coppia che lo aveva abbandonato sugli scalini dell’edificio. Non avevo più saputo nulla di loro da quel giorno — quando ti comporti in quel modo con un bambino vieni cancellato dalle nostre liste e rischi il tribunale. In effetti, c’eravamo quasi arrivati, ma poi la moglie si ammalò, e così… soprassedemmo. Vidi quell’uomo dall’altra parte della strada e distolsi volontariamente lo sguardo, ma subito dopo corse verso di me in mezzo al traffico. Arrivò, mi si piazzò davanti e cominciò a parlare. Mi disse che sua moglie aveva un cane, quando Paul viveva con loro. Disse che per la maggior parte del tempo in cui visse in casa loro, il bambino fu bravo, bravissimo, quasi come se avesse deciso che quello era il modo in cui le cose stavano e che doveva farsene una ragione. Andava quasi sempre d’accordo con la loro figlia. Ma con il cane, Paul non si trovava e quando abbaiava lo odiava, perché diceva che lo guardava in modo strano. Era un cane piuttosto vecchio, la moglie lo aveva dai tempi dell’università e lo amava più di qualsiasi cosa al mondo. ‘Anche più di me,’ era solito dire il marito, ma andava bene così: anche a lui piaceva quell’animale. Quel vecchio cane sonnacchioso non faceva granché, dormiva nel cortile sul retro e sbatteva la coda sul pavimento ogni tanto.»

Si fermò per prendere un respiro profondo. «Poi un giorno Paul entrò in casa di corsa dicendo che il cane aveva avuto un incidente. Si precipitarono tutti a vedere. Il cane giaceva steso con il corpo per metà all’interno del cortile e per l’altra metà nella stradina esterna sul retro della casa, con la testa devastata come se fosse stata presa dalle ruote di una macchina. Paul piangeva a dirotto e si disperava, così il cane fu sepolto in fretta e fu solo a tarda sera, quando erano entrambi seduti a letto, che la moglie dell’uomo disse qualcosa. Non guardò l’uomo e parlò piano, come se si rivolgesse al muro. Disse che in tutti gli anni che avevano vissuto in quella casa, il cane non si era mai avvicinato alla strada sul retro. Disse che le sembrava strano che qualcuno fosse andato così velocemente da non riuscire a fermarsi. E aggiunse che era molto singolare che fosse solo la testa a essere così pesantemente danneggiata, strano che entrambi gli occhi e la bocca fossero così malconci.

«Il marito ci rifletté su e per quella sera fu tutto. Alla fine si addormentarono. Questo accadde una settimana prima che riportassero Paul. Il marito ammise di non poter spiegare perché erano sicuri, che non avevano prove, ma quello che era accaduto era più che sufficiente. Sua moglie non voleva più tenerlo.»

Mrs. Campbell alzò un dito per impedirmi di dire qualcosa. «No, adesso mi ascolti. Pensai che potesse trattarsi di una sorta di menzogna esagerata detta per giustificare il loro gesto, e che probabilmente questa impressione era leggibile sul mio volto. L’uomo si limitò a scuotere la testa e a dire che se avessi guardato negli occhi sua moglie per tutti quegli anni, avrei saputo capire cosa era vero e cosa no. Poi se ne andò e non lo rividi mai più.»

«Gesù,» dissi.

«Giusto.» Annuì. «E l’ultima cosa riguarda solo me; gliela dirò e poi se ne dovrà andare. Sei o sette anni dopo quel fatto, non molto prima che andassi in pensione, ci fu un incendio. Muriel ha detto di avergliene accennato. Andarono persi molti documenti.»

«Sì, me l’ha detto.»

«Una cosa che Muriel non sa, però, è questa. Quella mattina ero in ritardo per andare al lavoro — il tram si era rotto e avevo dovuto fare a piedi sei isolati. Quando arrivai là, l’edificio era già in fiamme e la gente correva avanti e indietro per la strada. Avrebbe potuto essere un giorno ancora più tragico, anche se comunque morirono quattro persone e molte altre rimasero ustionate. L’incendio scoppiò quando il palazzo era pieno di gente. E mentre mi trovavo lì, cercando di rendermi conto dell’accaduto, avvertii una strana sensazione alle mie spalle. Mi voltai e…»

Deglutì a fatica. «Lui era lì, dall’altra parte della strada, e osservava. Era cresciuto, ormai era un ragazzo. Aveva lo stesso aspetto che lei ha adesso, era solo più magro. Lo vidi solo per un attimo e poi scomparve. O forse non lo vidi affatto. Talvolta penso di aver visto quel viso e di averlo riconosciuto. Ma il più delle volte, penso sia stata solo una proiezione mentale ed è questo il motivo per cui non ne ho mai fatto cenno a nessuno. Nemmeno a Muriel, che era come una figlia per me, e che lo è ancora quando ha tempo.»

«Era lui,» dissi piano. «Era Paul.»

Mi afferrò per il braccio, con le sue dita forti e sottili. «Quello che non deve assolutamente pensare è che questo abbia a che fare con il suo essere stato dato in affidamento, con i genitori che lo adottarono e che tentarono disperatamente di dargli una vita normale. Non andò così. Queste persone hanno aiutato Muriel e migliaia di altri come lei a crescere.»

«Lo so,» dissi. «Nemmeno i miei genitori erano quelli naturali, tuttavia mi amarono più di quanto io abbia mai meritato.»

Questo la sorprese, ma si contenne. Si alzò in piedi e capii che il tempo a mia disposizione era scaduto.

Alla porta, mentre ero nella veranda mi afferrò nuovamente il braccio e mi disse un’ultima cosa.

«Ho passato tutta la mia vita con i ragazzi e nel complesso mi è piaciuto molto. Ma un aspetto della mia visione del mondo cambiò in quel periodo e per una buona ragione.»

«Cos’era?»

«Continuo a credere che siamo tutti esseri umani,» disse facendo un passo indietro e chiudendo la porta intermedia, «ma non penso che siamo tutti figli di Dio. No, non lo credo affatto.»


Tornai in albergo perché non sapevo cos’altro fare. Persi ogni entusiasmo quando arrivai nell’atrio e finii per starmene seduto al bar a fissare la strada attraverso il vetro colorato. Tutti avevano le loro esperienze personali, come ho detto. Questa era una delle mie.

Ero disorientato ed esasperato. San Francisco era un vicolo cieco. Mrs. Campbell non ricordava il nome della famiglia che aveva adottato Paul definitivamente. A ogni buon conto, si erano trasferiti e lei non sapeva dove. I suoi colleghi di allora erano morti o irreperibili. Il filo era stato tagliato, non ultimo dal fuoco. Ero convinto che Paul fosse tornato e avesse appiccato l’incendio, e che anche Mrs. Campbell pensasse la stessa cosa — così come ero convinto che lei capisse che il ragazzino che era stato trovato per strada da solo non aveva potuto accettare di essere scaricato come un pacco postale da una famiglia all’altra fino a quando non fosse diventato grande abbastanza per andarsene e cercare la sua strada nel mondo: fino a quando sarebbe diventato la persona in grado di mettere le cose ‘a posto’.

Quando feci per prendere il portafogli e pagare la prima birra, mi ricordai che avevo spento il cellulare. C’era una chiamata persa. Non riconobbi il numero ma poteva essere solo quello di due persone, così richiamai.

Lei rispose prontamente. «John?»

«No,» dissi. «Sono Ward. Il tuo telefono ti dice chi sta chiamando, Nina. Basta guardare il display.»

«Giusto,» disse. «Che stupida. Dove sei?»

«A San Francisco,» risposi.

«Oh, e perché?»

«Qui ho lasciato il cuore. Sono venuto a riprendermelo.»

«Bella mossa. In che condizioni è?»

«Appena usato,» dissi, e lei rise brevemente. «Che succede?»

«Nulla,» rispose. «Be’, non è vero, qui le cose stanno degenerando. Abbiamo avuto un doppio omicidio questa mattina; qualcuno ha lasciato una sconosciuta morta in uno squallido motel e poi ha sparato a un poliziotto per ribadire il concetto. Ha lasciato un hard disk dentro la donna.»

«Delizioso,» dissi.

«Non molto. È un affare della polizia di Los Angeles, naturalmente, ma Monroe ci si è buttato a pesce, e così ci sono dentro anch’io. Mi chiedevo se avevi voglia di dare un’occhiata a questo disco. Ne ho fatto una copia, non ufficiale. So che facevi queste cose in modo professionale.»

«Certo,» dissi. «Anche se Bobby sarebbe stata una scelta più sicura. E anche una copia byte per byte non è esattamente come l’originale. Comunque ci darò un’occhiata.»

«Hanno già trovato un appunto e un brano musicale. Quest’ultimo ha un che di teatrale.»

«Che musica è?»

«Il Requiem di Fauré.»

«Bello.»

«Non l’ho ascoltato.»

«Dovresti. È una composizione piuttosto eccitante, tenuto conto che è stata pensata per gente defunta.»

Nina rimase in silenzio per un po’ e io evitai di parlare.

«Stai bene, Ward?»

«Diciamo di sì.» Le raccontai, in breve, quello che ero venuto a sapere da Mrs. Campbell. «Così mi ha mandato in tilt. Inoltre…»

Mi strinsi nelle spalle. Lei se ne accorse. «Sì,» disse. «Lo so. A volte faccio… faccio un sogno: sono di nuovo a The Halls sul pavimento dell’edificio d’ingresso, dopo essere stata ferita. Tu e John state perlustrando le case per cercare di trovare Sarah Becker. Bobby non c’è e non so dove sia. Io sono a terra dolorante e qualcuno sta venendo a prendermi: e questa volta penso che potrebbe riuscirci.»

«Cazzo,» dissi; «Non mi sembrano cretinate.»

«L’ho rifatto giusto tre ore fa. Ogni volta diventa più lungo e spesso mi domando quando arriverà il momento che non si interromperà, che verrò raggiunta e non mi sveglierò.»

«I sogni durano quanto gli permettiamo di farlo,» dissi. «Sia i belli che i brutti.»

«Molto profondo, Ward-san.»

«Già, scusa. Non ho la più pallida idea di cosa volessi dire.»

Lei rise, ma questa volta con maggior convinzione, all’apparenza.

«Okay, allora. Chiamami quando hai il disco,» dissi. «Verrò lì, qui non c’è più nulla da fare.»

«È qui sul mio tavolo, ora,» disse.

Ero stato a casa di Nina solo una volta in precedenza, e per pochissimo tempo, ma riuscivo a ricordarmela molto chiaramente. Per un breve istante desiderai essere lì, seduto su uno scomodissimo sgabello con un bicchiere di birra e circondato da un indistinto chiacchiericcio. Lì oppure in casa di qualcun altro. In un qualunque posto che somigliasse a una casa.

«Non lasciare che John ci metta le mani,» dissi. «Sarò lì domani sera. Me lo puoi passare?»

«È uscito,» disse. «Gli dirò che stai arrivando.»


Salii in camera e fumai come una ciminiera. Non sembrò aiutarmi in alcun modo, ma almeno mi tolse la scimmia della nicotina dalla schiena. Tirai la poltrona della camera fino alla finestra, sollevai il vetro e rimasi per un po’ seduto a guardare fuori. Davanti ai miei occhi, alti edifici scuri e luci. Sentivo i rumori della vita provenire dall’esterno e da sotto. Mi sentivo come se fossi stato seduto sulla sommità di un vasto continente, solo, senza tribù, focolare o territorio di caccia.

Lentamente, la profondità del mio campo visivo si ridusse fino a che non mi ritrovai a osservare i miei piedi, appoggiati sul davanzale. Dev’essere una vita difficile quella delle dita dei piedi oggigiorno. Vengono rinchiuse in piccoli e oscuri spazi di pelle e lì dimenticate, e quando ne vengono liberate hanno molto spesso l’aspetto di strane protuberanze all’estremità dei tuoi piedi.

Alla fine mi addormentai e sognai.

Mi trovavo in una qualche vecchia città, un posto fatto di strade acciottolate e di case fatiscenti, con una piccola piazza che ospitava un mercato agricolo e bancarelle che vendevano oggetti per la casa. Io ero più giovane, ancora adolescente, ed ero innamorato della reginetta del mercato, una fanciulla dai capelli lunghi e bellissima, che rifulgeva dall’alto della confidenza con cui si muoveva in mezzo a ogni viale di quelle bancarelle palpitanti, in mezzo alle quali era cresciuta, e che sentiva scorrere attraverso il suo corpo la forza e la vita che emanavano da esse: sicura della sua bellezza, irraggiungibile, ma al tempo stesso così stupenda da suscitare l’amore di tutti. Ci fu un momento che sembrò di memoria reale, una breve visione di lei mentre camminava tra i banchi con un paio di ragazze più piccole al seguito: il suo volto era quanto di più luminoso ci fosse al mondo ed era incorniciato da una cascata di capelli scuri illuminati da riflessi castani.

Poi, qualche tempo dopo, ritornavo in quei luoghi come uomo adulto, più sicuro di sé, ma più arido, un uomo che aveva perso in magia quanto aveva acquisito in altezza. Il mercato si era ridotto a pochi banchi che lasciavano intuire le dimensioni delle strade — mentre prima sembrava che il mercato vivesse in un regno tutto suo, senza bisogno di un simile ambiente nel quale vivere. Lo percorrevo sentendo un’eco dove prima c’era stato solo il rumore delle contrattazioni e delle risate.

E poi la vidi. Lavorava in una bancarella dove si vendeva un po’ di tutto: scampoli di tessuti, bottoni assortiti, oggetti di plastica. I capelli erano tagliati corti ed erano diventati grigi prima del tempo. Il viso mostrava ancora i segni della giovinezza, ma la ragazza si era appesantita e sembrava più bassa, aveva l’aria professionale come possono avere i proprietari di un banco del mercato.

Passai davanti alla bancarella e la vidi mettere qualcosa dentro un sacchetto di plastica, un acquisto da due dollari fatto da una signora anziana. Mi resi conto che ormai era una donna che gestiva un banco del mercato. La principessa che ero tornato a vedere per dimostrarle che ero diventato un uomo, e che quindi valevo qualcosa, che meritavo il suo sguardo, non c’era più: e la cosa più terribile era che qualcuno aveva preso il suo posto nel mondo. Se non l’avessi vista, avrei ancora potuto credere che lei camminava da qualche parte, sempre avvolta di magia, desiderio e sorrisi.

Ma ora l’avevo vista e non potei fare altro che allontanarmi dal mercato e poi voltarmi a osservarlo, consapevole che la mia gioventù, il mio cuore, quella cosa che mi aveva tenuto a galla per tutti quegli anni, erano morti. Solo allora compresi che sebbene mi avesse guardato, lei non mi aveva riconosciuto: e che nonostante lei ora fosse solo la proprietaria di un banco del mercato, io non ero — e non ero mai stato — nulla.

Quando mi svegliai, mi girai intontito verso l’orologio vicino al letto e rimasi stupito vedendo che era passata solo un’ora.

Il mio cellulare squillò. Lo presi e riconobbi il numero.

«Sei tornato,» dissi.

Ci fu un attimo di silenzio. «Sono Zandt,» disse.

«Lo so,» dissi confuso. «Prima eri fuori.»

Ci fu un’altra pausa. «Ward, sono in Florida.»

Anche questo non aveva molto senso per me, ma non me ne preoccupai. «Bene, sono contento per te. Allora?»

«Yakima,» aggiunse.

Mi rimisi a sedere. «Cosa hai scoperto?»

«Ho avuto un’informazione. Insomma, più o meno. Non è detto che abbia poi tutto questo senso.»

«Be’, io ho detto a Nina che sarei andato a trovarla a Los Angeles domani. Perché non ci vediamo lì?»

«Hai parlato con Nina oggi? Perché?»

«Mi ha chiamato lei. Sta seguendo un’indagine su un paio di delitti e vorrebbe che dessi un’occhiata a un hard disk.»

«Quindi dove ti trovi adesso?»

«A San Francisco.»

Ci fu una pausa. «Perché?»

«Ho cercato di scovare le tracce dell’Homo Erectus, ma senza molto successo.»

«Rimani lì, verrò io da te.»

«John, te l’ho appena detto: in teoria dovrei andare da Nina.»

«Non voglio andare a Los Angeles.»

C’era qualcosa di strano nella sua voce. «D’accordo,» dissi. «Vediamoci qui.»

«Ti chiamo quando sto arrivando.»

E con questo la conversazione si interruppe. Ero praticamente sicuro che quella stonatura nella sua voce dipendesse dal fatto che era ubriaco.

Ci pensai un po’ su e poi chiamai Nina dicendole che ci sarebbe voluto un giorno in più prima che arrivassi da lei. Non le spiegai il perché. Lei, invece, disse che mi aveva spedito il disco.

«Ottimo,» dissi. Poi aggiunsi: «John è tornato?»

«Sì, ma è uscito di nuovo.»

«È difficile tenerlo fermo da qualche parte.»

«Proprio così.» Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma poi disse solamente: «A presto.»

Mi voltai di nuovo verso la finestra e guardai ancora un po’ la città. Lei ignorò il mio sguardo, come fanno tutte le città.

Capitolo otto

Quella mattina Nina si stava dirigendo verso il quartier generale della polizia di Los Angeles quando ricevette una telefonata: un poliziotto di pattuglia aveva creduto di riconoscere la donna morta della foto. Fece una svolta repentina, e si diresse verso un certo bar chiamato Jimmy’s, vicino a dove La Cienega incontra Hollywood Boulevard.

Parcheggiate fuori c’erano già un’auto di pattuglia e un’auto civetta con un lampeggiante. Nina aggiunse la sua alla collezione ed entrò in fretta. Il bar era buio e odorava di birra; l’aria era viziata, come se fosse passata attraverso i polmoni di troppe persone che non riuscivano a stare sedute diritte. Nina individuò Olbrich in piedi che stava parlando con un tizio con i capelli lunghi e un sorriso smagliante che lasciava intendere che se avesse saputo che sarebbe scoppiato un simile casino non si sarebbe fatto una maxicanna prima di uscire di casa.

«Questa è l’agente Baynam,» disse Olbrich mentre lei si avvicinava. «Don, perché non le racconti quello che mi hai detto?»

«Il suo nome è Jessica,» disse il barista. «Questo è sicuro. E so che viveva a West Hollywood. Sono quasi sicuro anche che il suo cognome è Jones, penso che l’abbia detto un paio di volte e so che la gente qui dentro la chiamava J.J., ma… sa, non tutte…»

«Usano il loro vero nome. Ho capito,» disse Nina. «Jessica era una habituée?»

«Sì. Soprattutto la sera, ma qualche volta anche il pomeriggio.»

«Era una prostituta, Don?»

«No.» Scosse la testa vigorosamente. «Assolutamente no. Credo che prima o poi volesse diventare una cantante o qualcosa di simile, Mi sembra di averglielo sentito dire una volta. Sicuramente era abbastanza carina per farlo. Ora fa la cameriera. O dovrei dire, ‘faceva’… merda.» ; Olbrich lo incalzò. «E credi che fosse qui sabato sera?»

«Sì. Era arrivata verso le cinque con un’amica. Non conosco il nome, ma l’ho già vista prima. Una nera, dai capelli lunghi e lisci. Era una serata di quelle ‘prendi-due-e-paghi-uno’, quindi furono ben presto indaffarate tutte e due.» Tossì. «L’amica è più il tipo entusiasta e di compagnia e sono quasi certo che ha finito per sedersi al tavolo con alcuni tizi e poi se n’è andata con loro. J.J. ha pateticamente gironzolato per un po’ e poi si è seduta con un tizio.»

«Che tipo era?» La voce di Nina era misurata, ma sentì improvvisamente una morsa stringerle il petto… Molto saggiamente Olbrich se ne rimase in disparte.

«Come stavo dicendo all’agente qui, non conosco quell’uomo. L’ho notato semplicemente perché…» Alzò le spalle.

Perché avevi una specie di cotta per Jessica, pensò Nina. Ti capisco. «Aveva spesso incontri con uomini?»

«Piuttosto spesso,» disse l’uomo. Distolse lo sguardo, dirigendolo apparentemente verso le file di tavoli malandati e sedie che doveva sistemare.

Nina lo guardava annuendo. E poi una sera, forse molte sere, un bacio sulla guancia portava un altro drink anche se i soldi erano finiti vero? E tu ci pensi ancora ogni tanto, sebbene per lei non significasse soltanto qualcosa che sarebbe stato dimenticato per sempre al secondo sorso?

«C’era qualcosa di strano in quel tizio?»

L’uomo tornò a guardarla. «Era un tipo normale. Capelli corti, di bell’aspetto, direi. È tutto quello che posso dirvi. Subito dopo ci fu un sacco da fare e quando riguardai era tardi, JJ. se n’era andata e c’era qualcun altro al suo posto. Potreste parlare con le ragazze che lavoravano ai tavoli — potrebbero averli serviti. Non saranno qui prima di sera, a parte Lorna che arriverà per l’ora di pranzo.»

Si udì una voce dalla porta e un uomo in uniforme fece capolino. «Tenente?»

Olbrich si girò. «L’avete trovato?»

«Sì.»

Olbrich fece un cenno con la testa verso la porta. «Nina, abbiamo un indirizzo. Vengo con te.»

«È veramente morta?» chiese il barista.

«Sì,» rispose Nina. «Veramente. Mi dispiace.»

L’uomo annuì e si girò.

Quando Nina arrivò sulla porta, e guardando indietro vide l’uomo che stava passando lentamente un panno su un tavolo di un bar dove doveva continuare a lavorare, pensò: non sappiamo mai veramente chi ci lasciamo alle spalle.


L’indirizzo era appartamento 7,3140 Gardiner. Quando la macchina di Nina arrivò Monroe era già lì fuori con due poliziotti.

«Non perde tempo, eh?» disse Olbrich.

«Puoi dirlo forte.»

L’edificio era a tre piani e tinteggiato di un bianco sporco. C’era una scala esterna che saliva da entrambe le estremità. Nina salì al secondo piano e aspettò Monroe mentre uno dei due agenti cercava di rintracciare il responsabile dell’edificio.

Monroe la guardò. «Ti senti meglio stamattina?»

«Sì,» rispose. Entrambi parlavano a bassa voce. «E grazie per l’interessamento, Charles. Ricevuto qualcosa di utile dalla sezione Profili sul messaggio?»

«Non ancora. E tu sei sicura che non ci sarà nulla. Perché?»

«Non si può certo dire che i risultati siano stati esaltanti con il cecchino di «Washington, vero?»

«Quello era un caso completamente…»

«No, non lo era. Avevano deciso che si doveva trattare di un uomo bianco perché è opinione comune — basata su uno studio non molto scientifico compiuto un bel po’ di tempo fa — che la maggior parte dei serial killer sono bianchi, e così ogni segnalazione telefonica arrivata riguardante tizi di colore venne ignorata. Nel frattempo un paio di persone avevano detto di aver visto dei furgoni bianchi, e all’improvviso tutti hanno cominciato a cercarli, senza considerare il fatto che i furgoni di quel colore sono gli Starbucks dell’autostrada e che quindi sarebbe insolito non vederli. La targa della macchina blu dell’assassino venne immessa nel sistema una mezza dozzina di volte a causa di comportamenti sospetti, ma no, non si tratta di un furgone bianco e alla guida non c’è un bianco, quindi non ci interessa. Gli analisti dicono che gli assassini non lavorano mai con altre persone — peccato che questo lo abbia fatto. In ogni caso non avremmo dovuto dar loro ascolto: chiunque avesse avuto un rninimo di cervello avrebbe dovuto capire fin dall’inizio che non si trattava di un serial killer ma di un pluriomicida che eseguiva una sua missione politico-religiosa, il che rendeva priva di fondamento qualsiasi cosa avessero detto gli analisti. Tutto quello che hanno fatto è stato confondere le idee, e potrebbe essere la stessa cosa qui. Non sono certa di credere ancora nel loro intuito.»

«Allora perché mi hai chiesto se avevano scoperto qualcosa?»

«Per cercare di distoglierti dall’idea di richiedere ulteriori informazioni.»

«Nina, quand’è che mi dirai che cosa è successo l’anno scorso?»

«Te l’ho già detto, capo,» disse, sorridendo dolcemente. Mentalmente, comunque, si ripeté di fare attenzione. Monroe era tante cose, ma non uno stupido.

In quel momento sulle scale comparve Olbrich con un mazzo di chiavi. «Zinman sta raccogliendo una deposizione,» disse, dirigendosi verso la porta dell’appartamento 7, «ma il tizio non ha niente di interessante da dirci. La ragazza era riservata, e cose di questo genere… E poi quell’uomo ha l’intelligenza di un mucchio di pietre. Siamo pronti?»

Con le pistole in pugno, Nina e Monroe annuirono.

Olbrich bussò alla porta, aspettò, ma non ricevette alcuna risposta. Così girò la chiave e aprì lentamente la porta.

«Siamo della polizia,» disse «uscite fuori.»

Non accadde nulla. Aprì ancora un po’ la porta. Questo gesto rivelò una stanza piuttosto grande, di circa cinque metri per lato. Avendo scelto di rimanere fuori, questo fu tutto quello che Nina vide fino a che gli uomini non entrarono e le dissero che non c’era pericolo. L’appartamento era vuoto.

Quando entrò vide un tavolino da tè e un malandato divano rosso al centro, mentre all’estremità più lontana, sotto la finestra, era stata ricavata una postazione con un computer grigio di tipo piuttosto economico. Alla base del monitor faceva bella mostra di sé una fucina rossa accesa, ma lo schermo era nero. Accanto alla workstation c’era un televisore che era visibile dal divano. Per una visuale ottimale sarebbe stato necessario spostarlo di circa un metro verso sinistra, ma in quella posizione avrebbe bloccato la porta di accesso alla camera da letto dove si trovavano Monroe e Olbrich. Un sottile cavo nero che partiva dal computer era stato steso lungo il pavimento fino a entrare nella stanza. Prima di seguirlo Nina fece un paio di passi oltre l’altro lato del sofà e diede un’occhiata nella piccola cucina con la grande finestra che dava sulla strada. Era in ordine. Nel voltarsi notò una malandata chitarra sistemata nell’angolo dietro il sofà. Era impolverata e senza una corda.

Nell’ultimo angolo della stanza c’era una piccola scrivania, con un paio di blocchi per appunti. Nina alzò con cura la copertina di uno di essi e sbirciò una pagina. Scarabocchi fatti sovrappensiero. Frasi che volevano somigliare a dei versi. Una frase, «La pioggia che non lava mai», era scritta e poi cancellata.

«Vieni a vedere,» disse Monroe.

La camera da letto era piccola, ma abbastanza spaziosa per ospitare un letto a due piazze e un tavolino da toilette. In fondo c’era una minuscola stanza da bagno. Il letto era disfatto. I due uomini stavano osservando un piccolo oggetto sistemato su un treppiedi posto accanto al letto. Era a questo oggetto che arrivava il cavo.

«Una telecamera,» disse Olbrich.

«È una webcam,» lo corresse lei. «Riesci a vedere dove va a finire il cavo?»

Nina lo seguì fino alla stanza principale e alla workstation. Mosse leggermente il mouse con il dorso della mano in modo che i polpastrelli non lo toccassero.

Lo schermo lampeggiò e si riaccese. Al centro apparve una finestra che ne copriva circa un terzo. Mostrava un’immagine del lato del letto dove ancora si trovava Monroe.

«Non toccherò niente,» disse Nina, «ma troverete un cavo del modem che parte dal retro di questa macchina. Jessica aveva un sito web dove la gente poteva osservarla.»

«Da dove?» chiese Olbrich.

«Da qualsiasi parte del mondo.» Si allontanò dalla scrivania. «Una brutta notizia. Il numero dei sospetti è salito a qualche decina di milioni.»


Tre ore dopo Nina era di nuovo al Jimmy’s, seduta in una stanza del piano superiore che apparteneva al proprietario-direttore, che peraltro non si chiamava Jimmy.

«Suona bene come nome di un bar,» aveva detto Mr. Jablowski, quando lei gliel’aveva chiesto, «mentre il mio no.» Avvertito di quella visita mattutina da Don, il barman, aveva scelto per una volta di essere sul posto. Era stranamente agghindato per essere un uomo che possedeva quello che era essenzialmente un cesso di posto per gli alcolizzati pomeridiani in cerca di birra: in fin dei conti, però, ci sono anche tantissimi spacciatori che non consumano in prima persona la loro merce. Don nel frattempo se n’era andato a casa un paio d’ore, per «decongestionarsi» . I detective avevano il suo indirizzo, ma personalmente Nina non credeva che sarebbe stato necessario fargli visita. Certo, non se ne intendeva nemmeno lei di profili psicologici — il che spiega perché, su suo suggerimento, un agente in borghese stava seguendo il barman a casa.

Un altro detective e un agente erano mischiati alla folla di bevitori di mezzogiorno. Una delle cameriere che erano in servizio la sera dell’ultima apparizione di Jessica doveva montare di lì a poco e l’attenzione era comunque rivolta anche all’eventuale comparsa di uomini che rispondessero a una descrizione estremamente generica. In altre parole, le cose lì fuori stavano andando per la tangente. A casa della ragazza invece accadeva il contrario. L’appartamento era passato al setaccio e gli investigatori di tre diversi dipartimenti esaminavano qualsiasi cosa gli capitasse di trovare: leggevano, fotografavano, prendevano impronte.

Nina, nel frattempo, stava parlando a una giovane donna di colore di nome Jean. Quest’ultima era venuta a cercare Jessica perché la sera prima avrebbero dovuto incontrarsi, ma l’amica non si era fatta vedere. E poi anche perché aveva voglia di un drink. Don l’aveva indirizzata dai poliziotti, vincendo l’evidente riluttanza della ragazza.

«Una puttana digitale?» disse Nina ripetendo quello che la ragazza aveva appena detto.

Jean alzò le spalle. «È così che si chiamano. Non significa che tu faccia cose come fare sesso o chissà cosa. Anche ‘cam-girl’ va bene.»

«Per quanto ne sa lei, Jessica è mai entrata nel circuito del sesso a pagamento?»

«Diamine no. E nemmeno io, signora, se lo ficchi bene in testa.»

«Le ragazze che fanno il mestiere non sono ammesse qui dentro,» disse docilmente Jablowski. «Sono inflessibile su questo.»

«Quando lei è qui, il che non sembra accada spesso, caro signore. Le dispiacerebbe lasciarci soli un attimo?»

Il proprietario se ne andò. Nina attese un attimo. «Quindi, Jean, se non ho capito male sei una cam-girl anche tu?»

«Già, sì. Be’, sono stata io a coinvolgere Jessica. Ma, come ho già detto, non si tratta di…»

Nina la guardò dritto negli occhi. «Non sto dicendo che si tratti di qualcosa, Jean. La prostituzione via Internet è un campo nel quale sono praticamente ignorante. Nonostante questo, ho bisogno di sapere e subito. Potrebbe esserci un legame con il fatto che Jessica non è più qui. Dunque perché non mi dici semplicemente come funziona?»

La ragazza tornò a sedersi, accese una sigaretta e parlò.

Prostituirsi era una cosa, disse, e tutti sapevano come funzionava. Ma collegare una webcam era diverso. Non si incontrava nessuno, non c’erano rischi, non scambiavi alcun fluido organico. In realtà non facevi proprio un bel niente. Ti toglievi i vestiti e basta. Facevi le stesse cose che avresti fatto normalmente, solo che eri nuda: guardare la tv, pulire la cucina. Se avevi il fidanzato, magari lasciavi la telecamera accesa, o la giravi dall’altra parte, era lo stesso. La cosa bizzarra era che per certi spettatori, meno facevi meglio era. Jean una volta aveva avuto una giornata incasinatissima e non aveva girato in mutande, si era completamente dimenticata della telecamera e aveva continuato a fare la sua vita normale — il giorno dopo aveva la posta piena di e-mail torride che la osannavano per «la grande eccitazione» che aveva procurato. Quando si trattava di sesso gli uomini erano fuori di testa, Jean ne era convinta. Quando credevi di averli inquadrati, facevano o dicevano qualcosa che ti faceva capire che non avevi nemmeno grattato la superficie del loro essere fottutamente schizzati. Ogni tanto le veniva uno stronzissimo impulso di cazzeggiare con le loro menti. Di sedersi con aria serena e poi tirare fuori un foglio con su scritto «Ieri sera ho cucinato qualche merdata vegetariana e l’appartamento puzza ancora come le interiora di una mucca»; di uscire appena dal campo della telecamera e fare qualcosa di veramente volgare e sexy, che avrebbe fatto strabuzzare loro gli occhi se solo avessero potuto vederlo. O lanciare una scoreggia da guinness e rimanere seduta a sorridere alla telecamera, sapendo che non importava quanto fossero grandi e piatti i loro schermi, perché essi non gli dicevano nulla che riguardasse il suo mondo.

«Hai detto che sei stata tu a coinvolgere Jessica,» disse Nina. «Come è venuta fuori la cosa?»

«Ho incontrato una ragazza a un party, circa un anno e mezzo fa. Lei faceva già queste cose e mi diede l’indirizzo e-mail del tizio che mette su questi siti. Si fa chiamare Webdaddy, e indipendentemente da quanto cazzo sia spaventosa questa cosa, in sostanza è qualcuno che conosce la materia. Tu gli mandi via e-mail una tua foto; lui ti risponde e si parla un po’ di ‘parametri’ e di ‘limiti’ — tipo quanto ti spoglierai, cos’altro farai, se hai un fidanzato e farete cose insieme, se lui è propenso… insomma, cose del genere. Se sei piaciuta a Webdaddy ti manda per posta un CD di cagate che ti spiegano come mettere su il tutto. A questo punto devi solo connetterti a Internet e comprare una webcam da cinquanta dollari. Di tutto il resto si occupa lui: il tuo sito, le bollette, i lavori. Alla fine del mese arriva un assegno. Più semplice di così…»

«Hai l’indirizzo di questa persona?»

Jean scosse la testa. «Solo l’e-mail. Per Jessica era lo stesso. Lui è lì in rete — perché mai incontrarlo nella vita reale?»

«E se c’era un problema con il sistema o un assegno non arrivava?»

«Gli mandi un’e-mail. Questo tizio vive su Internet, signora. Se gli mandi una mail, la risposta ti arriva prima che il tasto ‘Invia’ sia ritornato su.»

Piazzavi la webcam — una qualsiasi telecamera digitale a bassa risoluzione — e un cavo USB partiva da lì ed entrava nel retro del tuo computer. Il software catturava un’immagine di quello che era visibile attraverso l’obiettivo e faceva immediatamente l’uploading, trasferendolo in Internet, su un server. Poco dopo quell’immagine veniva sostituita da un’altra e così via. Nel frattempo l’utente aveva caricato la tua pagina web sul suo browser, con la tua immagine proprio al centro. Una funzione del programma faceva sì che la pagina aggiornasse le immagini regolarmente, inviando la nuova immagine proveniente dalla tua webcam per sostituire la vecchia sullo schermo. Un interazione tra computer, software e telefonia che sarebbe stata fantascienza vent’anni fa; anni di ricerca e milioni di dollari e voilà — gente in Kansas, a Cardiff e ad Anversa possono masturbarsi svogliatamente mentre tu passi l’aspirapolvere. Un universo bizzarro? Certo che lo è, ma lo scherzetto rendeva più di duecento dollari a settimana, e Jean non doveva fare sesso con sconosciuti o andare a mostrare le sue grazie assieme a spogliarelliste da brivido. Jean era una convinta assertrice di questo, pensava si trattasse di una forma di progresso al servizio della metà femminile del genere umano.

«Jessica guadagnava qualche centinaio di dollari alla settimana facendo queste cose?»

La ragazza scosse la testa. «Assolutamente no. Lo faceva da pochi mesi e non aveva molti visitatori. Non usciva dal seminato per fare degli extra, se ha capito cosa intendo. La maggior parte delle ragazze si esibisce. Ogni tanto lei si toglieva la maglietta — dovevi farlo o ti cacciavano — ma non le piaceva. E credo che non facesse nemmeno giochetti sexy. Aveva detto di essere intenzionata a smettere, che voleva tornare a scrivere canzoni. Era qualcosa che teneva segretissimo, nessuno qui lo sapeva, a parte me.»

«Gli uomini che si iscrivono al tuo sito — che genere di contatti hai con loro?»

«Solo via mail,» rispose Jean.

«Non hanno modo di trovare il tuo indirizzo?»

«No, a meno che non sia io a darglielo.»

«Jessica aveva dato impressione di averlo fatto? Di avere un contatto speciale con qualcuno dei visitatori del suo sito?»

«Come ho già detto, Jessica non era particolarmente coinvolta in questa faccenda. Lo faceva per i soldi, ma era una persona orgogliosa. Non avrebbe fatto niente che potesse farla sentire male. Almeno, non finché non fosse stata veramente ubriaca.»

«Eravate piuttosto sbronze la notte scorsa, vero?»

Jean fece una smorfia. «Può darsi.»

«E tu hai lasciato Jessica qui, quando sei andata a una festa.»

«Ho incontrato dei ragazzi. Quando me ne sono andata lei era ancora qui.»

«Il barman ha detto di averla vista più tardi seduta con un uomo. Ne sai qualcosa?»

«Come ho detto, me n’ero andata.»

«Non aveva nessuno di tua conoscenza?»

«Non in questo periodo.»

«E nel recente passato?»

«Aveva avuto qualche relazione, ma erano cose senza importanza.»

Nina rimase seduta in silenzio per un attimo e osservò la donna che le stava di fronte. Dopo lo shock iniziale alla notizia della morte di Jessica, si era ripresa in fretta. La perdita dell’amica era evidentemente accettabile. Nina ripensò alla velocità con cui si passa da A a Z, e da Z all’obitorio. Era difficile non farlo, quando avevi a che fare con una ragazza di appena ventitré anni che voleva solo divertirsi e che pensava che sarebbe stato sempre così, che la fiducia in se stessa e un atteggiamento giusto avrebbero sempre funzionato da magico mantello di protezione.

Nina aggiunse: «Ti rendi conto di non essere invincibile, vero?»

Jean le restituì lo sguardo, alzò la testa e sorrise freddamente. «Nemmeno tu, cara.»


«Lo abbiamo trovato,» disse Monroe. Non appena hai chiamato abbiamo messo uno dei nostri tecnici al lavoro. Abbiamo la localizzazione fisica del server su cui era il sito di Jessica e abbiamo anche un at autentico per questo Webdaddy.»

«Un ‘at’?»

«E l’abbreviazione per dire ‘indirizzo e-mail’, sembrerebbe.»

«C’è sempre da imparare nella vita.»

Si trovavano sul balcone dell’appartamento di Jessica, che gli agenti stavano ancora passando al setaccio. Monroe stava bevendo dell’acqua ghiacciata, ma aveva un aspetto insolitamente accaldato e sbattuto.

«Trovato qualcosa di interessante lì dentro?»

«Niente, a parte il computer. Teneva l’appartamento piuttosto pulito, non ci sono molte impronte. La polizia di Los Angeles ci dirà cosa abbiamo trovato, ma… ci sono dei taccuini pieni di scarabocchi e di tentativi di quella che sembra essere poesia di quart’ordine. Comunque, niente numeri di telefono o nomi. La Scientifica adesso è nella camera da letto, ma non c’è nessun segno che sia stata uccisa lì.»

«Quanto ci vorrà prima che si vada a bussare alla porta di Webdaddy?»

«Non molto. L’indirizzo e-mail non è stato di grande aiuto, ma abbiamo avuto una traccia dalle informazioni per la registrazione del sito. Jessica e Jean erano due delle quindici ragazze — qui in città, due a San Diego, una a San Francisco e qualcuna in zone di campagna. A Barstow, Dio santo. A proposito, il dominio si chiamava ‘daddygirls.net’.»

«Carino.»

«Se è qui a Los Angeles procederemo noi,» disse. «Altrimenti se ne occuperà chi di competenza. La rapidità sarà importante.»

«Dunque cosa vuoi che faccia ora?»

Monroe scosse la testa. «L’agente che hai messo alle calcagna del barman ha detto che il nostro uomo è andato a casa, ha fumato droga per tre ore rimanendo a fissare il muro, e adesso è tornato stoicamente a servire birra. Dalle tue impressioni e da quello che è lecito attendersi, sono del parere che lui non c’entri comunque. Potresti risparmiarmi una telefonata e andare a fare pressioni a quelli di Quantico per avere notizie sull’identikit, ma a parte questo… hai mangiato oggi?»

«No.»

«Se fossi in te, andrei. Da qualche parte nelle vicinanze. Se ci sono novità te lo farò sapere.»

Quaranta minuti dopo, nel bel mezzo di un’insalata, Nina ricevette la chiamata. Imprecando — era una buona insalata Cobb, e il suo primo pasto dopo più di ventiquattro ore — lasciò dei soldi sul tavolo e uscì precipitosamente dal locale.

Quando era ormai a metà strada sulla Fourth Street, il suo cellulare squillò di nuovo. Accostò sul boulevard e ascoltò la voce piatta di Monroe.

«Non è lui,» disse. «Il suo vero nome è Robert Klennert, ha cinquantotto anni ed è significativamente obeso. Fondamentalmente è un gran sacco di merda specializzato in siti porno live. Se ne intende di tecnologia, ma faccio fatica a convincermi che sia qualcuno capace di catturare e uccidere una giovane donna — o, francamente, una donna di qualsiasi età o qualsivoglia livello di forma fisica — per tacere del fatto che è lontano anni luce dalle descrizioni del testimone. Archiviare sotto ‘Pervertito’ e via.»

«Quindi ritorniamo allo scenario dell’’uno su milioni’.»

«Forse abbiamo fatto qualche piccolo progresso. La polizia di Los Angeles ha messo le mani sugli archivi di Klennert. Chiunque sia iscritto o abbia visitato i suoi siti sarà schedato. Mentre ti parlo stiamo portando via i suoi computer.»

«E sulla base di quale imputazione?»

«Nessuna. L’uomo sta collaborando su tutta la linea. La cosa strana è che sembra che nutrisse dei veri sentimenti paterni verso le ‘sue ragazze’. O è un bluff di prima categoria oppure…» Monroe rimase in silenzio per un attimo. «Oppure, molto più probabilmente, non lo è. Non è stato lui. Intanto sembra che dalla musica sul disco non ricaveremo un cavolo. Me lo sento, Nina. Ameno che non succeda qualcosa, temo che tutto si rivelerà un buco nell’acqua.»

Già, pensò Nina. Oppure intuisci che dovremo sgobbare su una pista virtuale sterminata che non comprendi e non riesci a vedere in che modo potrà fornire una trama adeguata per una puntata speciale della «Charles Monroe Story».

Lo salutò. Dall’altro lato della strada una macchina accostò in un viale e ne uscì una famigliola. Marito, moglie, bambina. Sembrava che gli adulti stessero litigando.

Nina abbassò il finestrino di qualche centimetro per ascoltare e udì la bambina che rideva. I genitori la imitarono poco dopo.

Nina capì che avevano fatto finta di litigare, impersonando un qualcuno cui avevano appena fatto visita. Per un attimo pensò alla sua infanzia, che in generale era stata serena, ma nel corso della quale aveva anche conosciuto una quantità sufficiente di autentica rabbia maschile da farle dubitare che mai avrebbe sorriso come aveva appena fatto quella bambina dall’altro lato della strada.

Guardò la piccola che seguiva i genitori lungo il vialetto, pensando che se ci fosse stato un cucciolo ad attenderla, saltellante fuori dalla casa, con un bel nastro colorato, allora avrebbe potuto lei stessa andare a prendere a pugni la piccola principessa.

Niente cane. La bambina avrebbe potuto continuare a ridere.

Nina rimise in moto la macchina e si diresse verso l’oceano.

Capitolo nove

La ragazza era silenziosa. Prima era stata tutto un: «Piacere di conoscerti, ehi, che bel posto, ooh che carino, davvero». Ora, dopo, non aveva nulla da aggiungere. Forse pensava che questo fosse quello che voleva lui (e per il momento aveva ragione); forse pensava che fosse tutto finito a parte il pagamento (nel qual caso, si sbagliava). Poteva darsi che avesse avuto un’embolia e stesse raccogliendo tutte le energie per non cadere. Pete Ferillo non lo sapeva e non gliene fregava niente. Zero. Questo era il bello di una cosa così. Pete credeva nella compartimentazione. Non era tenuto a sapere. Non doveva fregargliene un cazzo di niente.

Allungò la mano verso il tavolo, prese un sigaro dalla scatola e se lo fece scorrere sotto il naso. Non ce n’era motivo perché ne conosceva l’odore, ma gli piaceva la sensualità del gesto. Aveva un buon odore.

Tagliò l’estremità del sigaro e se lo infilò in bocca. Lo accese con un fiammifero — recentemente qualcuno che lui rispettava gli aveva detto che quello era il metodo migliore, ed era così che li accendeva adesso — e lo portò in vita. Un denso fumo si alzò dalla punta e Pete lo guardò diffondersi nell’aria.

Era nudo, disteso su una poltrona, con le gambe stese diritte davanti a sé. A casa non sedeva mai così. Sarebbe stato troppo consapevole della sua pancia prominente, delle sue cosce rinsecchite, dello stridente contrasto tra il suo scroto giallastro, le braccia con l’abbronzatura perenne e l’alabastro butterato e macchiato del resto. Ma quel pomeriggio, dove si trovava, non doveva minimamente preoccuparsi di tutto ciò. Poteva evitare di sentirsi vecchio, fuori forma o indesiderabile. Non doveva prestare ascolto ai cupi messaggi sul passare del tempo o sullo stato dei suoi organi interni: non doveva cercare di spremere il suo corpo flaccido per surriscaldare una moglie che diceva di amarlo, ma che sfruttava le sue sedute sul tapis roulant per schernirlo. Sì, Maria aveva un aspetto migliore del suo e di gran lunga. E allora? L’unica cosa che lei aveva da fare era andare in palestra e nei centri commerciali. Se quello fosse stato il suo «lavoro», anche lui avrebbe avuto un aspetto migliore. Certo che l’amava. Erano venticinque anni che l’amava. Basta imparare a sorridere quando sei infuriato e a tenere le mani a posto, e tutti se la cavano quasi sempre.

L’appartamento era di un cliente molto importante del Dining Room, un tizio con cui Pete aveva fatto affari per un po’ di tempo e in altri posti. Era anche il tipo di uomo che a volte veniva a cenare con una signora che non era la donna che aveva sposato. Pete era discreto, sapeva tenere per sé l’identità della persona con la quale il tizio era venuto l’ultima volta. Avevano fatto un patto amichevole, da uomo a uomo, e ora Pete aveva le sue chiavi personali. Una donna di servizio veniva tutti i giorni per tenere il posto tirato a lucido e il frigo pieno di acqua minerale. L’appartamento era semplice, ma ben ammobiliato. Camera da letto, balcone, bagno, soggiorno. Quest’ultimo era un locale piuttosto grande, nel quale era stata ricavata una zona con un tavolo per mangiare, sistemato in modo che non si potesse vedere la porta quando ci si trovava nella zona principale dell’appartamentino, e da dare così l’impressione che il posto fosse più grande di quello che era in realtà. Molto intelligente. Era piacevole starsene sul balcone in veste da camera a gustarsi oziosamente il pomeriggio mentre il proletariato urbano arrancava e strombazzava giù in strada. Magari l’avrebbe fatto più tardi.

Per il momento era la sdraio a lavorare per lui. Osservò la ragazza mentre girava intorno al piano di lavoro nella piccola e graziosa area cucina. Non conosceva il suo cognome, né sapeva quali fossero il suo colore, la star cinematografica o lo show preferiti. Non sapeva i nomi dei suoi precedenti fidanzati, non aveva ascoltato alcun racconto sui bei vecchi tempi passati con loro o con chiunque altro. Tutto quello che sapeva di lei era che era alta, abbronzata, che il suo nome era Cherri, e che gli piaceva l’artificiosità del suo nome. I suoi capelli possedevano tutte le sfumature del biondo, dal color fragola al platino, e le ricadevano diritti e folti tra le scapole. Era magra (di una magrezza giovanile, non quell’essere pelle e ossa di chi fa attenzione a ogni boccone), aveva un bel paio di tette, un bel viso e un piccolo e grazioso tatuaggio nella parte bassa della schiena, veramente ben fatto. Di solito, a Pete non piacevano i tatuaggi, perlomeno non su donne comuni. Ma su ragazze come questa gli piacevano, erano azzeccati. Stavano a significare che ci si trovava di fronte a una donna consapevole del proprio corpo; che ne era padrona e sapeva servirsene come una risorsa. Pete conosceva alcune donne, fidanzate o mogli di amici, che si erano tatuate uno o due anni prima, quando andava di moda. Anche Maria ne aveva voluto uno, roba da pazzi. Un fottuto gatto o qualcosa del genere. Lui le aveva detto di no e aveva fatto bene. I tatuaggi ti davano l’aspetto di una spogliarellista — il che andava bene se eri una spogliarellista, altrimenti sembravi una perfetta cretina. Era come fare la lap dance, Cristo santo! Un paio di anni prima tra gli yuppie locali c’era stata questa moda passeggera delle mogli che «imparavano» la lap dance o che facevano almeno un’imbarazzante lezione con qualche compiaciuta amazzone dell’aerobica pronta a sfruttare una tale opportunità. L’idiozia della cosa faceva scoppiare la testa a Pete. Le donne sposate che fanno lap dance non hanno senso. Il fottutissimo punto è che quelle ballerine che fanno la lap dance non sono la tua fottuta moglie. Una donna che faccia una cosa del genere pensando in questo modo di rivelare chissà quale sensualità recondita che la distingua dalle altre mogliettine, con ogni probabilità dimostra solo che: a) si prende troppo sul serio, il che è tutt’altro che sexy — vedere, ad esempio, quella Demi Moore del cazzo; b) pensa di essere molto eccitante per la sua età, il che è noioso anche se vero; oppure, c) a casa non è molto felice e le piacerebbe fare sesso con qualcun altro. Con chiunque altro, probabilmente. Un esempio tipico era quello dell’ex amico di Pete, Johnny, il tizio che si era occupato della sua contabilità per undici anni. Johnny andava alla grande, viveva nell’Incline Village, aveva un lavoro che andava a gonfie vele. Poi, un bel giorno, sua moglie era andata a uno di questi corsi, e nel giro di quattro mesi era già lì a farsi scopare da uno di quegli scansafatiche brufolosi che lavoravano nella sezione di reclutamento del personale di Barnes Noble. In qualche modo risultò essere colpa di Johnny, così addio matrimonio e ciao alimenti. Ben presto lui si ritrovò a passare i pomeriggi a guardare delle vere ballerine, quelle con le cicatrici e i bambini, e a bere troppo. Pete affidò i suoi affari a un’altra società e così fecero tutti gli altri.

Pete aspirò un’altra boccata dal Don Thomas, gustando il modo in cui il fumo impestava la stanza. Non era un sigaro cubano e nemmeno uno honduregno di particolare valore — non buttava via i suoi soldi, e mai lo aveva fatto — ma era buono. Erano passati tre anni da quando gli era stato permesso di fumare dentro casa. Non è che fino ad allora Maria glielo avesse proibito, però la cosa avrebbe scatenato il suo disappunto. Era un deterrente silenzioso, un’arma di distruzione silenziosa, con quel suo sguardo che lasciava intendere che la vita, nonostante tutti i suoi sogni di ragazza, si era rivelata più o meno quello che aveva temuto. Per un po’ pensavi che valeva la pena evitare il «Disappunto», che non te ne fregava niente. Poi un giorno ti rendevi conto che non era così, ma fumavi comunque fuori perché nessuno vuole quella rottura di coglioni tutte le sere. Fumavi fuori e te ne fregavi, in silenzio.

In un piccolo frigorifero c’erano limoni e lime freschi. Cherri finì di tagliare una scorza di limone e la lasciò cadere nel suo drink. Dall’odore Pete riconobbe che si trattava di un gin tonic. Il suo olfatto funzionava benissimo e doveva essere per forza così, dato che lui lavorava nel settore alimentare. Maria invece beveva sempre dello Chardonnay, come aveva sempre fatto. La ragazza si accorse dello sguardo dell’uomo rivolto su di lei e si voltò. «Vuoi qualcosa?»

Pete rise. «Oh sì,» disse con entusiasmo. «Ma fammi stare ancora un attimo qui, ho ancora il fiatone.»

Cherri fece un sorriso da professionista. «Non in quel senso: intendevo da bere.»

«Oh. Vodka,» disse. «Liscia, senza frutta e con molto ghiaccio.» Poi, strizzando l’occhio, disse: «E poi ci sarà un secondo round, stanne certa.»

«Non vedo l’ora,» disse lei, e si voltò per preparargli il drink.

Pete sorrise. Udì uno strano rumorio provenire dal pianerottolo — probabilmente qualche forzato del lavoro che tornava. Prese un’altra boccata dal sigaro e si sistemò di nuovo sulla poltrona. Gli piaceva starsene seduto lì, in tutta la sua disgustosa nudità, mentre fuori c’era qualche esaurito consulente amministrativo col fiato corto o qualche procuratore esausto che si trascinava a casa carico di dossier. Lui invece era lì con le palle per aria e un bel drink in arrivo. «Non vedo l’ora». Era sarcastica? Quasi certamente, ma chi se ne fregava. Che lo desiderasse o no; che trovasse il suo corpo accettabile oppure no; che le piacesse fare quello che lui le chiedeva — niente di strano, lui non aveva bisogno di stranezze, bastavano cose normali fatte da una persona giovane — o no. Niente aveva importanza. Lei aveva già quattrocento dollari dei suoi. Alla fine, molto probabilmente, lui li avrebbe portati a cinquecento. Maria era capace di spendere in un batter d’occhio una cifra simile per qualche Manolo di turno: ed era quello che faceva regolarmente. D’altronde il denaro era l’unica cosa che serviva perché una come Cherri ci stesse.

Mentre la ragazza si muoveva rumorosamente, versando la vodka in un bicchiere, e aggiungendovi poi il ghiaccio, Pete valutò l’idea di prenotarla un’altra volta. Sapeva che non l’avrebbe fatto, nonostante lei fosse carina — veramente molto carina, specie quando si chinò per raccogliere un cubetto sfuggito al controllo e sembrando per un attimo perdere l’equilibrio. Il bello stava nell’averne una nuova ogni volta. Se fosse andato con Cherri una seconda volta sarebbe sorto il problema se fosse stato meglio o peggio della volta precedente. Lei lo avrebbe chiamato per nome, avrebbe saputo cosa gli piaceva bere e una certa familiarità avrebbe iniziato a fare capolino. Lui avrebbe avuto il tempo per notare dei dettagli, per domandarsi come mai lei non avesse l’intelligenza di mettere nel bicchiere prima il ghiaccio, o per quale motivo non avesse imparato che il gin si sposava meglio con il lime. E quel pomeriggio, quando avevano fatto sesso di nuovo, e in quella circostanza lui non era arrivato a una completa erezione e aveva dovuto portare a termine il lavoro da solo, lui sapeva che sarebbe andata così. Lui lo sapeva, ma lei no. La volta successiva lo avrebbe capito. Il segreto era non sapere. Non sapere, non doversene preoccupare.

Ora la ragazza era fuori dalla visuale, impegnata a fare un casino infernale con la ghiacciaia. Ma a che cazzo di scopo? Il bicchiere era posato lì sul bancone, pieno fino all’orlo. Un altro po’ e sarebbe fuoriuscito dal… Ehi, un momento. Un cubetto di ghiaccio intorno al capezzolo. Quella sì che era una bella idea.

Si allungò verso il posacenere per depositarvi il sigaro. Tienitelo per dopo. «Bellezza,» disse, «il ghiaccio va bene, puoi lasciar perdere.» E si voltò.

C’era un uomo in piedi nella stanza.

«E tu chi cazzo sei?» disse Pete.

Il sorriso dell’uomo esprimeva chiaramente la sua intenzione di non rispondere. Pete capì ben presto che non si trattava di un tizio che possedeva una chiave di quel troiaio. La ragazza spuntò dietro di lui mentre si stava infilando la camicetta. «Ho finito, vero?» chiese rivolgendosi all’uomo.

Lui non rispose nemmeno. Senza staccare gli occhi da Pete allungò il braccio lateralmente e afferrò la ragazza per i capelli. Prima che avesse il tempo per urlare le aveva fracassato la faccia sul muro divisorio. La ragazza emise un grugnito e si accasciò.

Pete ricollegò tutto in un attimo. Il rumore nel corridoio e il baccano fatto con il contenitore del ghiaccio per occultare il fatto che lei stava aprendogli la porta. Non sapeva chi fosse quel tizio o che cosa volesse, ma ora si accorse che aveva un coltello. Era grosso e avrebbe potuto essere un coltello da cuoco. Tuttavia non sembrava affatto pulito.

Improvvisamente la stanza sembrò gelida, scialba e piena di fumo stantio. L’uomo scavalcò la ragazza, distogliendo per un attimo lo sguardo. Pete intuì vagamente che quella era un’occasione, che doveva alzarsi, muoversi, uscire di lì, ma sembrava incapace di fare qualunque cosa. L’uomo aveva un’altezza di poco superiore alla media ed era longilineo. Pete era più pesante di diversi chili e aveva una lunga esperienza nello spaccare la faccia alla gente, ma non era affatto convinto che questo avrebbe fatto una qualche differenza. Si sentì grasso, nudo e impossibilitato a cambiare il corso del mondo.

«Lei è Peter Ferillo, vero?» disse l’uomo prendendo qualcosa sul bancone. Quando scintillò, Pete vide che si trattava del cavatappi che era in camera e quando l’uomo rivolse il suo sguardo verso di lui, tutte le ipotesi di movimento sembrarono svanire.

«Senti,» disse Pete, «non so che cazzo sta succedendo qui dentro, ma ho dei soldi. Se è questo che vuoi, tutto si può sistemare.»

«Non è una questione di soldi,» disse l’uomo. La sua voce era suadente, quasi amichevole, a differenza dei suoi occhi.

«Allora che c’è?» chiese Pete. «Cosa ho fatto?»

«Non si tratta di te,» disse l’uomo.

«Chi diavolo sei?»

«Il mio nome è… Homo Erectus.»

L’uomo osservò il volto di Pete per cogliere la sua reazione. Fece ruotare il cavatappi fra le mani in modo distratto, poi annuì — come se, colto da un’improvvisa ispirazione, gli avesse trovato un utilizzo. Pete non capì che cosa potesse essere.

Lo scoprì nel corso dell’ora e mezza successiva.

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