Parte III Il rumore della pioggia

Il senso della vita

è che finisce

Franz Kafka

Capitolo diciannove

Il cadavere venne ritrovato tra i cespugli. Capita. Ci sono persone che vengono ritrovate nei boschi, in camere da letto surriscaldate e in disordine, nei cortili sul retro delle case, nei parcheggi e nelle uscite posteriori dei cinema, nelle piscine o dentro le automobili. Si può essere trovati morti praticamente ovunque, ma di solito i cespugli sono il posto peggiore. In questi casi le condizioni dei corpi e le posizioni in cui vengono rinvenuti lasciano poco spazio al confortante dubbio che si possa trattare di qualcuno semplicemente assopito, ubriaco o svenuto, in un modo o nell’altro privo di conoscenza ma ancora in grado di essere riportato tra i vivi. Un Morto tra i cespugli è un morto con la «M» maiuscola.

I cespugli in questione delimitavano il lato posteriore del piazzale di parcheggio del Cutting Loose, un salone di acconciatore sulla strada principale di Snoqualmie. Come accade spesso, il corpo venne ritrovato da un uomo che stava portando a spasso il cane nelle prime ore del giorno. Dopo avere mantenuto la lucidità per un tempo sufficiente per fare una chiamata dal cellulare, aspettare nei pressi del luogo — ma abbastanza distante da evitare di attirare i curiosi — e alla fine per indicare la strada a due poliziotti mandati dallo sceriffo, quest’uomo si trovava ora seduto sull’altro lato della strada, con la schiena appoggiata a una recinzione e la testa tra le ginocchia. Accanto a lui c’era il suo cane, confuso dall’odore di vomito, ma leale e fedele. Il cane sapeva che al ritorno a casa sarebbe stato confinato nella sua cuccia per tutto il resto della giornata, mentre l’uomo sarebbe uscito per fare quel che faceva tutti i giorni quando non si occupava di lui. Di conseguenza non sembrava avere fretta di rientrare. Se il prezzo da pagare per un po’ di libertà extra era stare seduto sull’asfalto umido di pioggia nei pressi di un rigurgito maleodorante, a lui andava bene. Leccò la mano del padrone per manifestargli il suo appoggio morale e ne ricevette in cambio una carezza distratta.

In quel momento uno degli agenti stava trasmettendo la notizia via radio. L’altro si trovava a qualche metro dal corpo, con le mani appoggiate sui fianchi. Non aveva visto molti cadaveri prima di allora, e in questo c’era qualcosa di terribile. Era sinceramente contento che di lì a poco sarebbero arrivati altri colleghi per prendere la situazione in mano, che non sarebbe stato più compito suo passare i giorni, le settimane, i mesi successivi a cercare di scoprire quale processo avesse trasformato una persona viva in quella creatura illividita dal rigore della morte, quale viaggio quella donna avesse compiuto per arrivare fino a lì. Non aveva voglia di soffermarsi troppo sulla psicologia di un uomo — ammettendo che si trattasse di un uomo, visto che era quasi sempre così — che considerava normale, o addirittura semplicemente comodo, scaricare come immondizia una persona morta a pochi metri dalla strada. E forse peggio, perché la gente di solito si preoccupava perlomeno di mettere la spazzatura dentro i sacchetti, mentre quella donna era stata abbandonata come se valesse ancora meno, come se non meritasse nemmeno la sepoltura temporanea che le persone riservavano a barattoli e scatole di cereali vuoti.

Udì il suo collega concludere la conversazione e decise di aver visto abbastanza. Tuttavia, mentre si voltava non poté fare a meno di notare qualcosa che luccicava all’altezza della testa di quella cosa morta. Andando contro il suo istinto, ma comportandosi come un vero detective, fece un passo verso il corpo e si piegò per dare un’occhiata più da vicino.

Anche se la cosa non era ancora stata discussa ufficialmente, appariva evidente a chiunque che non ci sarebbe voluto né il lavoro di un genio né molto tempo per determinare la causa del decesso. La donna indossava un abito elegante, o quello che ne rimaneva. Al di sotto del collo, il suo corpo aveva l’aspetto di qualcosa che nessuno avrebbe voluto toccare con piacere, frutto del noncurante lavoro compiuto dalla morte dopo l’accaduto. Era sopra il collo che era successo qualcosa mentre era ancora viva. C’era un oggetto conficcato nella sua testa che era a tal punto coperto di sangue rappreso e altro materiale nerastro da rendere difficile il distinguerne le forme. Era proprio al centro del viso, sopra le sopracciglia, illuminato dal pallido sole del mattino.

«Fai attenzione, amico,» disse il suo compagno. «Se incasini la scena del delitto ti strappano il buco del culo per metterselo come anello.»

«Lo so, lo so,» disse.

Si avvicinò ancora di qualche metro. Chinò leggermente la testa per evitare il riverbero. L’odore insolito e la vista terribile rendevano lo spettacolo sgradevole.

In quello scempio che una volta era stata la fronte della donna c’era qualcosa che appariva fuori posto.

L’agente trattenne il respiro e si avvicinò ancora di qualche centimetro. Da quella distanza era impossibile non vedere le formiche e gli altri insetti che si affrettavano a compiere il loro lavoro, come se sapessero che di lì a poco sarebbe arrivato qualcuno a sottrarre loro il tesoro. Ma si vedeva anche che c’era qualcosa infilato nella fronte del cadavere. L’estremità sporgente aveva la larghezza di una carta da gioco, pur essendo molto più spessa — mezzo centimetro o forse anche di più. Il luccichio era prodotto da quelle parti dell’oggetto che non erano ricoperte di sangue rappreso. Sembrava essere fatto essenzialmente di un metallo cromato o di qualche lega lucida. L’estremità inferiore sembrava fatta di plastica nera.

Quando il suo compagno si avvicinò a sua volta per dare un’occhiata, col suo corpo coprì il sole, e improvvisamente parte di quel luccichio scomparve. Di conseguenza l’agente riuscì solo a scorgere qualcosa che assomigliava a un’etichetta oblunga che correva lungo il fondo dell’oggetto.

«Che cazzo è questa roba?»


Poco dopo le nove era ormai stato stabilito che l’oggetto che spuntava dalla fronte della donna era un piccolo hard disk, del tipo montato sui computer portatili. Non ci volle molto perché l’informazione arrivasse all’ufficio di zona dell’FBI a Everett e quindi rapidamente a Los Angeles. Da quel momento tutto degenerò.

Charles Monroe cercò di mettersi in contatto con Nina Baynam, chiamandola su tutti i numeri che aveva, ma la donna non rispose mai alle sue chiamate. Monroe continuò lo stesso a provare, a intervalli regolari. C’era qualcosa che era andato storto nella sua vita, ma in un modo che lui stesso non riusciva a capire, e la situazione sembrava precipitare. Aveva guardato da un’altra parte, aveva perso la concentrazione solo per un attimo, e al suo ritorno aveva scoperto che non aveva più la situazione sotto controllo. Ed era la prima volta che gli succedeva.

Capitolo venti

Henrickson spense il motore e si voltò verso Tom sorridendo. In base ai calcoli di Tom, era il quindicesimo sorriso della mattinata, ed erano solo le dieci.

«Sei pronto?»

Tom afferrò lo zaino che teneva in grembo. «Credo di sì.»

Erano passate quarantotto ore dal suo ritorno a Sheffer. La mattina precedente si era risvegliato dopo una notte praticamente insonne sentendosi troppo malconcio per prendere in considerazione l’idea di una passeggiata nei boschi. L’adrenalina che l’aveva condotto fino a Sheffer adesso era esaurita, lasciandolo esausto, pieno di dolori e con un forte senso di nausea. Si era anche reso conto che era arrivato il momento di riflettere attentamente sull’accaduto.

Henrickson non si era scomposto per il ritardo e gli aveva detto di riposare. Era quello che Tom aveva fatto all’inizio, rimanendosene seduto nella poltrona della sua stanza, avvolto in tutte le coperte che era riuscito a trovare, cercando di rimettere un po’ d’ordine in tutti i suoi pensieri e di capire cosa potesse fare. Nel primo pomeriggio aveva fatto un lungo giro in auto ed era rientrato dopo il tramonto. A quel punto si era sentito abbastanza bene per andare a prendere un altro drink con il giornalista. Quel mattino si sentiva meglio, anche se non ancora al massimo della forma. Aveva comunque recuperato un po’ di calma e di lucidità.

Imboccare nuovamente lo spiazzo all’inizio del sentiero di Howard’s Point gli provocò una reazione molto più violenta di quanto si fosse aspettato. Se tornare al suo rifugio nella gola gli aveva fatto l’effetto di essere uno spirito che ritornava a casa, uscire dalla Lexus di Henrickson lo aveva fatto sentire come suo nonno. Il giornalista aveva parcheggiato dalla parte opposta rispetto a dove si era fermato Tom due giorni prima — e dove era caduto per la prima volta — ma in qualche modo la cosa aveva reso quel ripercorrere i suoi passi ancora più destabilizzante. Quando il secco rumore della portiera che si chiudeva si propagò in mezzo agli alberi, il paesaggio sembrò impregnarsi di una fragilità tremolante, come se fosse stato dipinto frettolosamente sopra un altro sfondo. Una parte della carica emotiva era cambiata. Naturalmente, l’ultima volta che era stato lì era ubriaco, mentre ora aveva solo un leggero postumo da sbornia e un po’ di nausea, e c’era molta più neve.

«Jim, sai che sarà molto difficile trovare il posto.»

«Ma certo.» Il reporter aveva smesso il suo abito elegante, e ora indossava un vecchio paio di jeans e una giacca dall’aria robusta. I suoi scarponi lasciavano intuire una comprovata esperienza di camminatore. L’uomo appariva sano, in forma, e nel complesso più preparato di quanto si sentisse Tom. «Ne sei uscito che era quasi buio. Non è la fine del mondo se non trovi il posto esatto. Anche se… sarebbe meglio se ci riuscissi.»

«Non mi potresti semplicemente dire cosa stiamo cercando?»

Sorriso numero sedici. «Non ti piacciono le sorprese?»

«Non molto.»

«Credimi, sarà una gran cosa per il libro. ‘Kozelek ci riconduce nel luogo che cambierà la Storia, la Biologia e chissà che altro, così come le conosciamo oggi. Insieme al suo intrepido giornalista indica la prova finale. Eccoli che si abbracciano.’ È una cosa tra amici. Naturalmente l’abbraccio è facoltativo.»

Tom annuì rammaricandosi ancora una volta di avere fatto cenno all’intenzione di scrivere un libro. Henrickson aveva detto di non voler farlo ubriacare di nuovo, e lui gli aveva creduto; tuttavia alla fine del secondo giorno gli aveva rivelato praticamente tutto quello che c’era da sapere su di lui. O quasi.

«È solo che non voglio perdermi di nuovo.»

«Non accadrà. Ho fatto un po’ di escursioni. Ho una bussola, e poi, se tu non avessi avuto uno spiccato senso dell’orientamento, a quest’ora saresti morto.»

«Credo anch’io.»

Tom ruotò delicatamente la caviglia. Gli doleva ancora, ma gli scarponi sembravano essere di aiuto. Si mise sulle spalle lo zaino, che questa volta conteneva bottiglie d’acqua, un thermos di caffè zuccherato e qualche frittella. Probabilmente sul fondo c’erano ancora delle schegge di vetro, ma non importava. Se lo stava portando dietro perché era un legame con quanto era successo due giorni prima. Anche il vetro veniva da lì. Aveva intenzione di abbandonare lo zaino in qualche punto della foresta per cercare di lasciarsi alle spalle tutto ciò che rappresentava.

Avanzò fino all’angolo dell’area di parcheggio, esitò per un attimo, e poi scavalcò lo spesso tronco che delimitava lo spiazzo.

Henrickson attese fino a quando il compagno non ebbe percorso qualche metro di sentiero e poi si voltò per dare uno sguardo al parcheggio. Per un attimo sentì qualcosa dietro di sé, come se avesse la sensazione di essere osservato. Fece una lenta panoramica con lo sguardo, ma non riuscì a scorgere nessuno. Strano, di solito ci azzeccava in questo genere di cose.

Si voltò e vide che Kozelek si era fermato. Ora che il viaggio era iniziato, l’eccitazione del compagno stava aumentando in fretta, proprio come Henrickson aveva previsto.

«È da questa parte.»

Henrickson scavalcò a sua volta il tronco e seguì Tom nella foresta.


Nonostante a ovest campeggiasse un banco di nubi, il sole era luminoso e forte. Disegnava sulla neve immacolata grandi ombre dall’aspetto accattivante. Per un po’ i due uomini camminarono arrampicandosi lentamente senza praticamente proferire parola. A quel punto la strada era ormai a una certa distanza e non si sentiva più nessun rumore all’infuori di quelli prodotti dal loro respiro e dai loro passi.

«Sembri abbastanza sicuro, amico. Ti ricordi di essere passato di qui?»

«Non è che mi ricordi esattamente, ma… riconosco l’aspetto generale. Può sembrare stupido forse, e io non sono il tipo da scampagnate, ma…» Si fermò e indicò il profilo degli alberi e delle colline intorno a loro. «Da che parte pensi che dovremmo passare?»

Henrickson fece un cenno col capo. «Certe persone non hanno alcun senso dell’orientamento. Sono come una macchinina con la carica a molla: le lasci andare e vanno diritte fino a quando non sbattono contro un muro. Altre, invece, sentono, sanno dove si trovano. Per esempio, che ora pensi che sia? Pensaci un istante, riflettici. Anzi no, non rifletterci, ma sentilo, piuttosto. Che ora senti che sia?»

Tom ci pensò su. Non sentiva nessuna ora in particolare, ma probabilmente era passata un’ora da quando si erano messi in cammino.

«Le dieci e mezzo.»

L’altro scosse la testa. «Sono quasi le undici. Direi le undici meno cinque.» Fece spuntare il polso dalla manica della giacca e guardò l’orologio. Fece un largo sorriso e poi lo mostrò a Tom. «Che ne dici? Mancano solo quattro minuti.»

«Potresti aver controllato prima.»

«Sì, avrei potuto, ma non l’ho fatto.»

Tom si fermò. Erano arrivati in prossimità di una sporgenza, e in quel momento non era sicuro della direzione da seguire. Henrickson arretrò di qualche passo e guardò dietro di sé. Tom si rese conto che il compagno gli stava dando l’opportunità di valutare, di «sentire» il percorso, e provò un assurdo sentimento di gratitudine. Era già da un po’ di tempo che qualcuno non riponeva più fiducia in lui. William e Lucy erano ormai abbastanza grandi per trovare nel padre più difetti che qualità. Sarah lo conosceva fin troppo bene, era un libro aperto. La maledizione dell’uomo di mezza età era quella di sapere — o credere — di aver detto tutto quello che aveva da dire. Non appena cominciavi a sospettarlo, desideravi immediatamente fare qualcosa, per provare che non era così: ed era in quel momento che cominciavano i passi falsi, che accadevano i fatti spiacevoli.

«È da questa parte,» disse girando a destra.

I successivi venti minuti di cammino furono impegnativi, e ci volle un po’ prima che entrambi ritrovassero il fiato per parlare. Poi il percorso cominciò a scendere verso l’altro versante del crinale, ma con una risalita ancora più ardua. Nulla gli appariva familiare, ma gli sembrava la strada giusta da fare.

Tom guardò verso il giornalista, che gli camminava a fianco tenendogli testa con una falcata agile. «È da molto tempo che stai dietro a Bigfoot, vero?»

«Puoi dirlo forte.»

«Come mai non ci crede nessuno?»

«Oh, sì che ci credono,» rispose. «Solo che è una di quelle cose difficili da ammettere. Nessuno è disposto a passare per idiota e questo è un altro dei modi in cui Loro lavorano. Se sei disposto a fare la figura dello scemo ogni tanto, allora il mondo ti si spalanca davanti come un’ostrica.»

«Dunque, cos’è?»

«Tu cosa pensi che sia?»

Tom alzò le spalle. «Una grossa scimmia. Qualcosa che viveva qui prima che arrivassero gli uomini e che poi si è rifugiato nella foresta. Qui c’è moltissimo spazio. Giusto?»

«In parte,» disse Henrickson. «Personalmente sono convinto che si tratti di uno degli ultimi esemplari viventi di Uomo di Neanderthal.»

Tom si fermò e lo guardò stupefatto. «Cosa?»

Henrickson continuava a camminare. «Non è una teoria dell’ultima ora, a dire il vero. L’unico problema è trovare l’elemento che faccia stare in piedi il teorema. Sai come sono fatti gli archeologi… No, magari non lo sai. ‘Non ci sono prove…’, ‘A giudicare dai fossili…’, ‘Il mio professore dice che non è così…’. Per come la vedo io, esisteva l’Uomo di Neanderthal, una delle specie che meglio si sono adattate in tutta la storia. Questi uomini utilizzavano le lance già quattrocentomila anni fa. Si diffusero in mezzo mondo, compresa l’Europa, quando quello era un posto dove nessuno avrebbe desiderato vivere. L’era glaciale era ancora tale, c’erano animali con denti enormi e non esisteva nulla, ripeto nulla, che facilitasse la vita di questi uomini. Nonostante ciò, sopravvissero per centinaia di migliaia di anni. Praticavano riti funebri, e svilupparono l’odontoiatria, che doveva essere terribile senza nessun «Front Page» ad alleggerire l’attesa. Fabbricarono ornamenti e gioielli e intrapresero traffici commerciali che diffusero le loro merci in tutta Europa. Poi è arrivato l’Uomo di Cro-Magnon — cioè noi — e per un po’ le due specie sembrarono coesistere. Poi gli Uomini di Neanderthal sparirono, puff, lasciando una manciata di ossa appena sufficienti a riempire un sacchetto. E questo, apparentemente, è tutto.»

«Quindi, secondo te cosa accadde?»

«Non si estinsero. Non furono mai molti, e diventarono semplicemente bravi a nascondersi.»

«A nascondersi? Dove?»

«In due tipi di luoghi: il primo sono le foreste, nel Nord-est dell’Europa, in Finlandia, ma anche qui nei buoni vecchi Stati Uniti d’America. I paleontologi dicono che non c’era modo per gli Uomini di Neanderthal di arrivare fino a qui, ma io penso che questo significhi sottovalutarli. Avrebbero potuto raggiungere la costa passando dalla Russia, trovando il modo di attraversare la grande distesa di acqua ghiacciata fino ai Territori del Nord, per poi continuare a scendere fino a quando non avessero trovato un luogo abitabile. Poi, quando alla fine noi arrivammo in massa, avrebbero potuto ripiegare all’interno delle foreste. Quale posto migliore di quello? Migliaia di chilometri quadrati di territorio così selvaggio che ancora oggi la gente difficilmente si mette a perlustrarlo. La cultura degli indigeni americani di questa regione è costellata da alcuni piccoli indizi in tal senso. Presso i Chinook si raccontano delle favole sul ‘popolo fantasma’ che viveva nei loro stessi territori e con il quale la tribù aveva dei rapporti. Poi c’è il ‘popolo animale’ degli Okanogan. Abitavano proprio tra queste montagne e credevano che un tempo vivessero ‘animali’ con una loro cultura prima ancora che il ‘popolo’ — nome con cui designavano gli umani — si riunisse.»

«E il secondo posto? L’altro luogo dove si nascosero?»

«Proprio sotto il nostro naso. Qual è la leggenda più comune in Europa?»

«Non lo so.» Tom non sapeva neanche più se stava andando nella direzione giusta. Avevano superato il fondo dell’avvallamento e avevano cominciato a risalire. La crescente asperità del terreno gli era familiare, ma nulla di più, e la pendenza era ripida in tutte le direzioni, quindi non era di grande aiuto. Per il momento Tom si limitava ad avanzare, mentre Henrickson parlava con l’eloquio fluente di qualcuno che ha elaborato quei pensieri molte volte. E, detto in tutta onestà, con la sicurezza di chi non era poi tanto scaltro come credeva lui.

«Gli orchi, gli elfi, i troll, sono tutti esempi, secondo me, della sopravvivenza dell’Uomo di Neanderthal. Creature che vivevano qui prima di noi e che avevano le loro strane abitudini. Che all’inizio erano numerose, ma poi divennero sempre più rare — fino a diventare quasi invisibili. Ma ci ricordiamo di loro. Il linguaggio lavora in modo strano. ‘A quei tempi c’erano dei giganti qui’ . Sono convinto che ‘gigante’ non significhi ‘corpo di grandi dimensioni’. Significa che i nuovi arrivati trovarono una specie stanziale potente ed esperta — che era grande da un punto di vista culturale, come il popolo animale degli Okanogan.»

«Ma si estinsero.»

«Non del tutto. Di cos’altro sentiamo parlare moltissimo in tutto il mondo? Di fantasmi. Presenze oscure. E poi? Di alieni. Di quegli uomini verdi che, quasi per caso, sembra che facciano atterrare spesso le loro astronavi nelle foreste, il che è un approccio piuttosto singolare all’aviazione, non credi? Uomini verdi, fate, spiriti, sono tutti modi per dare una spiegazione a eventi strani cui assistiamo di tanto in tanto. Un modo per liquidare una specie che si dice essere estinta, ma che si è semplicemente dissimulata sullo sfondo — e che si aggira silenziosamente attorno a noi, tenendosi distante dal nostro cammino.»

«Ma nulla di tutto questo sembra avere a che fare anche solo lontanamente con l’Uomo di Neanderthal,» disse Tom.

«No, e per due ragioni. La prima è che le leggende si amplificano via via che le si tramanda. In centinaia di anni, un paio di millenni, acquisiscono vita propria, regole peculiari, fronzoli e riferimenti visivi. La seconda è che l’Uomo di Neanderthal ha un modo per sconvolgere le nostre menti.»

«E cioè?»

«È convinzione comune che la bocca e la gola degli appartenenti a questa specie non fossero abbastanza sviluppate per consentire un’espressione vocale articolata. Tuttavia si adattarono per farlo, quindi riuscirono a comunicare — e in un modo e a un livello che con il linguaggio del corpo e un insieme di grugniti non sarebbe mai stato possibile. La mia teoria è che ci riuscirono almeno in parte grazie alla telepatia. La usano ancora, così come del resto noi. La telepatia non è altro che empatia elevata all’ennesima potenza. E quando queste creature si trovano di fronte a un potenziale pericolo, come la nostra specie, allora inviano delle forme nelle nostre teste. Noi vediamo le immagini già nelle nostre menti. Essi riflettono su di noi le creazioni della nostra immaginazione.»

«È tutto assurdo,» disse Tom distrattamente. «Mi dispiace ma non credo a una parola di tutto questo.»

«Se ho ragione, e noi siamo in cerca dell’Uomo di Neanderthal, perché tutti dicono che Bigfoot è alto due metri e mezzo? Sono loro che ci fanno credere di essere alti, perché alto significa temibile. E perché così tante persone — come te, Tom — riferiscono di un odore disgustoso? Perché mai loro, o qualsiasi altra creatura, dovrebbero puzzare? Non c’è motivo. Sono loro che ce lo fanno credere, è un altro meccanismo di difesa, uno dei più semplici del repertorio. Si nascondono offuscando le nostre menti. Ecco perché sono così difficili da trovare. Nel mondo civilizzato, crediamo di aver visto un fantasma. Qui fuori, invece, vediamo qualcosa di più vicino al loro aspetto reale, perché una parte di noi ha sempre saputo che sono ancora qui.»

Tom si fermò e si voltò per guardare il giornalista. L’uomo, per una volta, non sorrideva. Era dannatamente serio. Sebbene a Tom facesse piacere avere qualcuno al suo fianco, avrebbe di gran lunga preferito che l’uomo avesse creduto semplicemente all’esistenza di un primate sconosciuto e in libertà, piuttosto che a un universo che preveda l’esistenza di folletti e il controllo della mente.

Ma per il momento questo era un problema secondario. Aveva delle novità anche lui.

«Mi sono perso del tutto,» disse.


Dopo un’ora la situazione non era migliorata. Henrickson aveva avuto pazienza, spesso camminando a breve distanza in modo da lasciare che Tom si orientasse, incoraggiandolo ad andare avanti e dicendogli che lo avrebbe raggiunto nel caso avesse gridato per avvertire di aver ritrovato il sentiero. A ogni modo, Tom non aveva rintracciato la strada. Più si allontanava e meno sentiva di sapere dove si trovava. Alla fine si fermò.

Henrickson da dietro disse: «Fuochino, amico?»

«No,» rispose Tom. «Non ho idea di dove diavolo siamo.»

«Nessun problema,» disse Henrickson quando lo ebbe raggiunto. Cercò nella tasca della giacca e tirò fuori una mappa. La aprì, consultò la bussola attaccata con un cordino alla giacca e quindi fece un piccolo cerchio sulla mappa. «Siamo qui.»

Tom guardò. «Qui» significava in una zona di spazio bianco con una serie di linee topografiche ravvicinate — l’ultima mezz’ora era stata in effetti un continuo saliscendi. «Bene. In mezzo al nulla!»

«Non proprio. Questo è un ruscello,» disse l’uomo, indicando una linea ondulata. «Credi che potremmo trovarci abbastanza vicino alla tua gola?»

«Sinceramente non lo so. Potremmo dare un’occhiata.»

«Andiamo.»

Circa venti minuti dopo, cominciarono a sentire un rumore regolare di acqua corrente. Aggirarono una formazione rocciosa e trovarono un ruscello, largo circa un metro e mezzo, che scorreva impetuoso tra rive basse e muschiose.

Tom scosse la testa. «Non è questa. E la caviglia comincia a farmi male.»

Henrickson guardò verso il ruscello a monte. «Le rive potrebbero diventare più ripide da questa parte.»

«Forse.» Tom si sentiva stupido, sebbene avesse saputo che sarebbe stata un’impresa quasi impossibile, e avesse messo in guardia il reporter. «Non lo so.»

Henrickson appariva in forma e arzillo come alla partenza, ma non aveva più fatto alcun sorrisetto. «Lo so cosa stai pensando, amico,» disse comunque. «E non è un problema. Come avrai immaginato, io voglio trovare sul serio questa creatura. E poi — cos’altro posso fare? Tornare in città e starmene seduto in mezzo al traffico? Preferisco stare qui a camminare. Seguiamo per un po’ questo ruscello. Sappiamo che stiamo cercando un corso d’acqua che somiglia a questo, e la mappa non ne indica nessun altro nelle vicinanze. Ma prima credo proprio di avere voglia di una buona dose di caffè.»

Tom stava per liberarsi dello zaino, ma Henrickson alzò una mano. «Non c’è bisogno, lo prendo io.»

Allentò le cinghie e Tom sentì le mani dell’altro che si infilavano nella parte alta dello zaino. «Fai attenzione,» disse Tom. «Ci sono dei frammenti di vetro.»

«Ah, sì. E come mai?»

«Sono i resti di un paio di bottiglie rotte, un ricordo della mia prima visita da queste parti. Non l’ho ripulito accuratamente. Dovrebbero essere sul fondo, ma…»

Si rese conto che l’altro non lo stava ascoltando e che le sue mani non erano più dentro lo zaino. «Tutto a posto?»

Non ci fu risposta. Tom si voltò e vide che Henrickson teneva in mano qualcosa che non somigliava affatto al thermos del caffè, e che la stava osservando.

«Che cos’è?»

«Dimmelo tu, visto che era nella tua borsa.»

Tom diede un’occhiata più da vicino e vide un mazzettino disordinato di erbe ormai appassite. «Non ne ho idea.»

«Probabilmente non è nulla. Saranno cadute lì dentro, credo.»

Guardò Tom, e questa volta il suo sorriso fu così ampio da dividergli in due il volto. «Continuiamo a procedere, che ne dici? Avanziamo risalendo il fiume.»

Mentre procedevano, sorseggiando caffè bollente e zuccherato, Tom notò che l’altro sembrava possedere una marcia in più.

Altri quaranta minuti di cammino li portarono più in alto di diverse decine di metri. Seguirono il ruscello tra salite e discese, intorno ad affioramenti rocciosi. Le rive non sembravano crescere in altezza. Questa volta fu il giornalista a fermarsi.

«Non mi dice niente di buono,» disse. Tirò di nuovo fuori la sua cartina. «Dovremmo essere qui ormai.» — Indicò un’altra zona bianca — «Vale a dire molto più a est di quanto pensassi. Stando a quanto hai detto tu.»

«Che cos’è quella linea nera?»

«Una strada. Vediamo, è del tutto plausibile che tu non l’abbia notata quando stavi cercando di ritrovare la via per il ritorno, ma… dai un po’ un’occhiata alle linee. Sembrano discendere fino a lì, che è probabilmente il posto dove sei andato a finire. Nel qual caso non avresti impiegato due giorni per tornare a casa. Quindi… Che c’è? Ti senti bene?»

Tom era immobile, con la bocca leggermente aperta. La richiuse lentamente e poi parlò controvoglia. «Sì, solo che… Quella donna. Patrice. Quella con gli scarponi.»

«Cosa ha fatto?»

«Era lì. Ha visto il mio zaino e, stando alle sue parole, è lei che ha lasciato le impronte. Connelly ha detto che vive da queste parti. Il che significa…» Si zittì.

«… che deve sapere dov’è il posto e che magari è in grado di arrivarci. È questo che vuoi dire, Tom?»

L’altro annuì.

«Veramente non ci hai pensato prima o semplicemente non volevi che qualcun altro si immischiasse?»

«In tutta sincerità, non mi è venuto in mente e basta. Quando la donna è venuta alla centrale di polizia non mi sentivo affatto bene.»

«Andiamo!» Henrickson teneva le mani poggiate sui fianchi e per un momento guardò nell’altra direzione. Poi scosse la testa. «Okay amico. Avrei dovuto arrivarci da solo. Eh sì, capisco che sarebbe stato più fico arrivarci da solo. Ma così non ci arriveremo mai, non credi?»

«Jim, mi dispiace.»

«Non importa. Ma credo che quello che faremo ora sarà tornare alla macchina e andare a cercare rinforzi. Se questa donna ci può condurre là, ci risparmierà un sacco di tempo, e il tempo è essenziale.»

Henrickson tirò ancora fuori la cartina e consultò la bussola. «Taglieremo diritto di qua,» disse. «Il senso dell’orientamento è una gran bella cosa, ma ora facciamo la strada breve, sei d’accordo?»

Partì nella direzione da cui erano venuti, e Tom lo seguì.

Impiegarono più di un’ora per ritornare all’inizio del sentiero, grazie a un percorso più diretto e praticamente tutto in discesa. Nel momento in cui scavalcò nuovamente il tronco che delimitava la piazzola di parcheggio, Tom ebbe la certezza che qualcosa era cambiato. Non guidava più adesso, ma seguiva. Non era così che sarebbero dovute andare le cose. Avrebbe dovuto fare qualcosa per cambiare la situazione, se necessario.

Henrickson riportò l’auto sulla strada e guidò per i pochi chilometri che li separavano da Sheffer. Si fermò in un bar lungo la strada e fece alcune domande mentre gli riempivano il thermos. Quando ritornò in macchina, strizzò l’occhio a Tom.

«Forse abbiamo trovato quello che cerchiamo,» disse. «A qualche chilometro nell’altra direzione c’è un complesso residenziale chiamato Cascade Falls. Si tratta di un progetto mai decollato, ma di sicuro ci vive una persona. Il rimbambito là dentro crede che il cognome della donna sia Anders.»

«È lei,» disse Tom. «Patrice Anders. Proprio lei.»

«Alleluia. Siamo di nuovo in pista, amico.»

Ci volle quasi mezz’ora per ritrovare la direzione verso l’autostrada, dirigersi a nord e poi puntare verso le montagne. La strada cominciò ben presto a restringersi, come se fosse un fiume percorso a ritroso fino alla sua minuscola fonte. Voluta dall’operatore immobiliare, non era altro che un accesso al terreno che cercavano di vendere. Ben presto una fitta fila di alberi ricoprì ambo i lati del tracciato.

«Non si può certo dire che sia una strada trafficata,» disse Henrickson allegramente.

Tom guardava fuori dal finestrino, domandandosi cosa potesse spingere qualcuno a venire a vivere in un posto come quello. Di tanto in tanto si vedeva un cartello inchiodato a uno degli alberi più vicini alla strada. Si poteva comprare un pezzo di terreno, andarci a vivere, e poi?

Alla fine Henrickson accostò e spense il motore. Davanti a loro, sulla sinistra della strada, c’era un cancello. Su una tavoletta di legno attaccata a esso era visibile il nome Anders.

Uscirono dalla macchina, aprirono il cancello e percorsero un sentiero che passava tra gli alberi. Dopo circa duecento metri videro dinanzi a loro una costruzione. Nel momento in cui la raggiunsero, Tom si stava domandando se fossero davvero nel posto giusto. L’edificio appariva piccolo, freddo e vuoto, a dispetto della luce sopra la porta.

«Come casa non è granché,» disse. Assomigliava più a un capanno con veranda, una semplice costruzione quadrata di legno con una tettoia da un lato. L’ingresso della casa era lì sotto, in direzione del sentiero: una porta con il numero 2 marchiato a fuoco. C’erano quattro piccoli pannelli di vetro nella parte superiore e la vista sull’interno era impedita da una spessa tenda.

Henrickson bussò. «Dannatamente compatta, questo è poco ma sicuro.»

Quando, dopo alcuni secondi, non ci fu risposta, bussò nuovamente. Tom, nel frattempo, era salito su un piccolo rialzo davanti alla casa. Una ventina di metri più avanti, in mezzo agli alberi, c’era un’altra baita, ma era buia e coperta dalla vegetazione. Mentre si avvicinava, Tom riuscì a scorgere il tenue luccichio di un laghetto ghiacciato, presumibilmente anch’esso parte della proprietà. Di lato, a una certa distanza, c’era una fila d’alberi, separata da…

Avanzò ancora un po’, ed ebbe l’impressione di avere visto una terza costruzione in lontananza. In un primo tempo pensò di chiamare Henrickson, ma poi, per qualche ragione, non lo fece e decise invece di ritornare sui suoi passi.

Henrickson stava bussando per la quarta volta. «In casa non c’è nessuno,» disse. «Probabilmente è tornata a Sheffer per godersi le luci abbaglianti e l’ambiente della metropoli, il che è un po’ deprimente. Comunque…» Guardò l’orologio, «il tempo passa. Tu hai detto che la donna ha dichiarato che il posto in cui ti trovò era piuttosto lontano dalla sua proprietà. Forse non riusciremo comunque ad andare e tornare oggi.»

Si allontanò dalla porta e si diresse a una delle piccole finestre sul fianco. Anche questa aveva le tende tirate, ma erano di un materiale più sottile. Tom guardò insieme al compagno attraverso il vetro, ma non riuscì a vedere nulla.

«Per oggi abbiamo finito,» decise Henrickson. «Adesso ce ne torniamo in città. Vediamo se riusciamo a recuperare il numero di telefono di questa donna per poter fare le cose come si deve domani. Per ora ho sono affamato come un orso. Senza offesa.»

Sbirciarono un’ultima volta attraverso la finestra, e poi ripercorsero il sentiero fino al cancello.

Solo quando i due furono di nuovo in macchina e il rumore dell’auto che si allontanava si era perso in mezzo agli alberi, la tenda della porta di ingresso si mosse.

Capitolo ventuno

Quando fu sicura che gli uomini se ne erano andati, Patrice aprì la porta e uscì. Rimase lì per un po’ ascoltando attentamente, ma percepì solo il solito silenzio che regnava sulla sua proprietà. La donna non prendeva mai in considerazione il vento autunnale, gli uccelli in primavera o gli insetti laboriosi in estate. Per lei quelli non erano rumori.

Le tracce sulla neve indicavano che gli uomini avevano percorso a piedi il sentiero per poi girare attorno alla baita. Esaminandole, la donna si rese anche conto che uno dei due uomini aveva…

Seguì le impronte strascicate che conducevano sul piccolo crinale e poi fino al laghetto. Si fermavano dopo pochi metri. Patrice constatò che, a meno che non avesse avuto uno scarsissimo spirito di osservazione, l’uomo non poteva non aver notato l’altro piccolo edificio in lontananza. Però non lo aveva sentito chiamare il compagno ad alta voce o farne menzione. Questo non significava necessariamente qualcosa. L’uomo poteva essere semplicemente infreddolito, affamato o annoiato. Non aveva importanza. In quel capanno non c’era nulla eccetto attrezzi, umidità e il ricordo di un amplesso furtivo che lei e Bill avevano consumato una notte d’inverno quando avevano dovuto riparare il tetto.

La donna si diresse verso lo stagno che delimitava la zona selvaggia della sua proprietà. Si sedette sulla panchina che circondava il grande albero a pochi metri dal confine e dalla distesa d’acqua ghiacciata.

«Stanno arrivando,» disse sottovoce. «Cosa devo fare?» Lui non rispose. Non lo faceva mai. Non sapeva neanche di cosa lei stesse parlando, ma Patrice si rivolgeva sempre a lui, per ogni evenienza. Agli uomini piace essere coinvolti.


Nei mesi successivi alla morte di Bill, Patrice si era ritrovata catapultata in un mondo nuovo e strano, nel quale ogni cosa sembrava essere stata fatta a pezzi e ricostruita poi maldestramente. Imparò che il frigorifero assumeva un aspetto freddo se lo si riempiva solamente con il cibo necessario e non con quelle cose superflue che potevano rallegrare lo sguardo del proprio compagno. Si ricordò che i pezzi di carta non riportavano più strani ghirigori, che le buste, le bollette e le ricevute non erano decorate con disegni a forma di alberi, gatti o barche, e che questo le rendeva strane. Una delle lezioni più difficili che Patrice dovette imparare fu che alcuni gesti, alcune parole non trovavano più la loro collocazione naturale. Avrebbe potuto passare la giornata con il postino, o chiacchierando mentre faceva la coda al supermarket, ma non avrebbe potuto dire a Ned che il suo naso era buffo, oppure rivolgersi a qualcuno e cantargli il jingle di qualche stupido spot che la faceva ridere. Perché quello era il genere di comportamento che avrebbe fatto dire alla gente: «La povera vecchia si sta rincoglionendo, poverina, bisogna fare qualcosa.» Era accaduto un fatto che poi si era dissolto come una goccia di pioggia sull’asfalto incandescente. Tranne lei, nessuno guardava un videoregistratore che funzionava male.

Passi la giornata a domandarti quale sia la ricompensa. Ben presto diventa chiaro che il premio è unicamente la possibilità di affrontare anche il domani. Sopravvivi ora dopo ora, ma alla fine non ti aspetti nulla. E così cominci a capire qual è l’obiettivo. E difatti il premio di oggi è identico a quello di ieri. Con una calma apparente, ma in realtà con un grido che ti cresce dentro come il fischio di un motore a vapore dimenticato da tempo nel buio di uno scantinato, superi anche il prossimo domani, e dopo quello, tutta un’altra piatta distesa di ulteriori domani. Ne hai attraversati abbastanza per capire che in realtà non si trattava di veri e propri domani, ma solo del miserabile succedersi di un eterno oggi. Cosa puoi fare? Ribellarsi non serve a nulla. Se stai cercando di smettere di fumare e improvvisamente la cosa ti sembra un sacrificio eccessivo e ti rendi conto che la possibilità di non fumare domani non è una ricompensa sufficiente per non farlo oggi, allora puoi precipitarti dal tabacchino più vicino, comprare un pacchetto di sigarette, aprirlo e sentirti al tempo stesso felice, deluso, provocatore e colpevole. Con la morte non c’è la possibilità di un simile fallimento trionfale. Non puoi dire: «Vaffanculo, rivoglio mio marito.» La gente intuisce questa realtà, seppure in modo imprecisato, e non mette il mondo alla prova, perché si rende conto che formulare questa richiesta e ricevere un rifiuto la farebbe impazzire del tutto. Finiamo per acquisire indirettamente la dura consapevolezza che non c’è via di scampo, che non possiamo rinunciare a rinunciare, che non possiamo accarezzare i capelli della persona amata e baciarla dolcemente sulle labbra per svegliarla e riportare il mondo alla normalità, come se quello che è accaduto fosse stato solo un brutto sogno o uno stupido scherzo.

Dopo una vita consacrata spontaneamente a fare e a pensare la cosa giusta, Patrice si era improvvisamente trovata alla mercé dei pensieri più politicamente scorretti che si potessero immaginare. Osservava le persone che intasavano le casse dei supermercati, vecchi artritici cui facevi fatica a stare vicino. Sei mesi prima si sarebbe chiesta cosa li rendeva così infelici, se c’era qualcosa che lei poteva fare per loro. Adesso pensava solamente a quanto fosse ingiusto che vivessero ancora. Quando vedeva in televisione un appello per qualche ospedale infantile si chiedeva perché mai la gente si commuovesse così facilmente quando si trattava di bambini che avevano fatto così poco per il mondo, mentre uno come il suo Bill aveva dedicato così tanto del suo tempo per diventare parte della vita di altre persone. Della sua, per esempio. E quando un pomeriggio in una strada di Snohomish, un ragazzo aveva cercato di appuntarle una spilla della lotta all’AIDS, aveva reagito di scatto respingendolo. Quando il giovane — dallo sguardo dolce e di bell’aspetto — si era rivolto alla sua collega, una ragazzina straordinariamente carina e compassionevole, e aveva fatto un commento, Patrice l’aveva fulminato con lo sguardo: «Ci sa fare a letto?»

Il ragazzo era arrossito. Mentre saliva in macchina Patrice era paonazza, in collera con se stessa, ma una voce dentro di lei stava ancora borbottando.

Per un certo periodo, nei mesi successivi alla morte di suo marito, Patrice ebbe l’impressione che le cose migliorassero, come se lei avesse cominciato ad adattare la sua mente al nuovo ordine delle cose. Ma apparve subito evidente che non si trattava altro che della quiete prima della tempesta. Cominciò seriamente a perdere il proprio equilibrio. I giorni divennero sempre più difficili, lunghi e quasi impossibili da sopportare.

Poi, una lunga notte del dicembre 2001, all’avvicinarsi del primo Natale senza Bill, qualcosa nella sua testa esplose. Possedeva un CD con le canzoni preferite di suo marito, che lui aveva scelto perché venissero suonate al suo funerale a Portland. Canzoni che lei aveva amato con lui e brani classici che non conosceva, ma cui Bill evidentemente era stato legato in quella piccola parte della sua vita che apparteneva a lui solo; quella parte che aveva preceduto il suo ingresso nella vita di lui. Dall’epoca del funerale, non aveva più ascoltato quella musica. Quando quel giorno il disco era finito, ogni cosa era finita insieme a esso. Quella notte rimise su il disco e lo riascoltò da capo a fondo. Trovò una grande bottiglia di scotch che Bill aveva lasciato e la scolò. In tutta la sua vita non aveva mai fatto nulla di lontanamente simile.

La mezzanotte la colse barcollante in mezzo agli alberi, con i capelli mossi dal vento gelido, scalza, praticamente insensibile. Aveva parlato, urlato, ringhiato, pianto. La sua gola era a pezzi, la bocca secca. Alle sue spalle, la porta di casa era rimasta aperta e sbatteva a causa del vento. Non si sentiva stupida, voleva solamente strappare gli occhi a ogni abitante della terra; desiderava trovare qualcuno, chiunque fosse, e spappolargli il cervello con una pietra. Patrice era come prigioniera di un’oscura nube di terrore, e quella notte comprese di essere arrivata all’essenza di ogni cosa. L’essenza, la verità era questa: l’inferno è la vita stessa, ed essere vivi è tutto ciò che abbiamo.

Uccidersi sarebbe stata una sorta di rinuncia. La squadra della Morte è più forte e agguerrita di qualsiasi altra. È sempre stato così e sempre lo sarà. La Morte era la soluzione, su questo non c’erano dubbi, ma Patrice non sarebbe stata dalla sua parte. Chi rimaneva? Dio non poteva essere più preso sul serio. Ma anche se per lei Dio non esisteva più, in ogni caso la Morte non l’avrebbe avuta facilmente.

Di fronte a questo, Patrice prese una decisione mentre stava in piedi a urlare sulle sponde di un lago ghiacciato, ancora intenta a bere dalla bottiglia di suo marito. Non si sarebbe fatta più fregare da nessuno. Non avrebbe più dovuto rendere conto di niente a nessuno, persona, Dio, idea, verità o promessa che fosse. Nulla valeva la pena e ormai non poteva più credere in nulla. Prima c’era Bill, ora c’era il vuoto.

Ma poi, due settimane più tardi, aveva trovato qualcosa nella foresta, oppure quella cosa aveva trovato lei, e così Patrice aveva cambiato idea.


Il cielo era scuro adesso e il lago appariva come una lastra di marmo nero. Faceva freddo, ed era giunto il momento di rientrare. Tuttavia Patrice rimase seduta ancora un po’ perché adorava quel panorama e temeva che le cose stessero per cambiare. Aveva paura che, sebbene se ne fossero andati, quegli uomini tornassero e che lei sarebbe stata costretta a difendere l’unica cosa cui teneva veramente.

Sia quel che sia.

Capitolo ventidue

Ci eravamo nascosti nel Morisa, un bel pezzo di gloria passata vicino al centro di Fresno. Sembrava che l’hotel fosse stato costruito per resistere a un intenso bombardamento. Questo particolare ci piaceva. Eravamo arrivati in città la notte prima e avevamo deciso di non proseguire. Fino a quando non avessimo avuto un piano e una destinazione avremmo corso il rischio di imboccare una delle tante direzioni sbagliate. Ci registrammo alla reception separatamente, prendemmo camere su piani diversi, poi salimmo e ci addormentammo. Il mattino dopo, di buon’ora, ci dirigemmo a piedi verso il centro. Continuammo a camminare, ma senza riuscire a capire dove andare e cosa fare. C’è qualcosa di molto alienante nei negozi se li guardi con l’occhio di chi non è interessato allo shopping. Chi sono queste persone? Cosa stanno comprando? E perché? Sembrano non meno strane e insignificanti delle facciate tappezzate di assi di legno o dei vicoli coperti di graffiti tra i magazzini abbandonati. Stranamente, mi sembrò di riconoscere alcune lettere su una porta, ma un’osservazione più ravvicinata mostrò che la seconda lettera era una «B» e non una «R», anche se non ne ero del tutto sicuro. Mi sentivo piuttosto paranoico.

A tarda mattinata ci trovammo di nuovo in albergo, nella mia camera. Non era molto grande e non era tappezzata di recente. Io stavo seduto su una sedia e Nina sul letto. Bevemmo il caffè quando lo portarono.

Nina era pentita di aver lasciato Los Angeles, e avrebbe voluto tornare indietro, ma io ero contrario. Sapevo che sarebbe sembrata una fuga — e in effetti lo era. Oltretutto, lei aveva un lavoro, anche se in quel momento era stata invitata a farsi da parte. Trovarsi in quella situazione a causa di una relazione sentimentale (per giunta ormai finita) era per lei fonte di incazzatura come lo sarebbe stato per qualsiasi altra donna. E Nina non era una donna qualsiasi. Dentro di sé aveva un vulcano d’ira. Era così infuriata per il fatto che Zandt le aveva mentito che non voleva più accendere il cellulare. Provai a chiamarlo io un paio di volte, ma non ottenni nulla di più della solita voce metallica che mi informava che il telefono era spento. Poteva trovarsi ovunque nel paese, a fare Dio sa cosa — oppure in guai seri. Per quel che ne sapevamo poteva essere morto.

Nessuno di noi riteneva impossibile che Zandt avesse ucciso Ferillo. Entrambi sapevamo che agli inizi della ricerca di sua figlia, quando era ancora in servizio, John aveva personalmente incastrato e ucciso l’uomo che lui riteneva responsabile. Il problema fu che un ulteriore rapimento aveva avuto luogo subito dopo quell’evento. Ora noi avevamo un nome per quella persona — Stephen DeLong — e sapevamo già che era solo una tra le tante persone che rapivano per conto degli Uomini di Paglia, alla cui testa c’era mio fratello. L’improvvisa comparsa di un file video che inchiodava John per l’omicidio di DeLong — e che evidentemente era stato tenuto in caldo per molto tempo — dimostrava che lo stavano braccando e che si stavano impegnando seriamente nel creargli dei seri grattacapi. Il problema era capire se la morte di Ferillo fosse un esempio di tutto questo, oppure una delle cause.

Dalla camera Nina aveva fatto due telefonate, che le avevano permesso di stabilire che Ferillo era proprietario a Pordand di un ristorante in Stark Street chiamato The Dining Boom. Quattro anni prima l’uomo era stato arrestato a Los Angeles nell’ambito di un’inchiesta sul racket e aveva rischiato di finire dietro le sbarre per molto tempo. Da quella volta aveva fatto molta strada e ora possedeva un ristorante diventato la meta preferita della migliore società del Nord-ovest dell’Oregon. Da piccolo gangster a facoltoso ristoratore il salto era stato grande, ma non diceva nulla sulla ragione che aveva spinto Zandt a fare irruzione nella sua vita o su quella che aveva spinto qualcuno a volercelo far credere.

Dopo quelle telefonate rimanemmo in silenzio per un po’. Il caffè si raffreddò lentamente, ma noi lo bevemmo ugualmente, fino a quando non mi sentii lo stomaco sottosopra. Tenevo la finestra spalancata e guardavo i malconci edifici mentre un cielo adirato scaricava una pioggia battente. Sembrava assurdo stare lì a non far niente, ma non riuscivo a capire cosa avrei potuto fare. Non avevamo alcun modo di trovare John e tanto meno di progredire nell’indagine su Ferillo.

Poi, d’improvviso, una luce debolissima illuminò tremolando la mia mente, si spense per un secondo per riapparire poi più intensa.

«Telefona a Monroe,» dissi piano.

«Non ci penso neanche.»

«Cerca di vedere la cosa dal suo punto di vista. Non è un idiota. Sa che ti è accaduto qualcosa di serio alla fine dell’anno scorso: tu sei stata ferita e Sarah Becker ha fatto ritorno dai suoi genitori. Ma tu non gli dici niente, e ora una persona cui sei molto legata se ne va in giro a fare cose terribili.»

«O così sembra.»

«Sia come sia. Anche se Monroe non stesse subendo nessuna pressione, saresti comunque in procinto di essere buttata a mare.»

«Ward, cos’è che stai cercando di non dirmi?»

«Che intendi dire?»

Mi guardò diritto negli occhi. «Quello che voglio dire è che nella tua voce c’è qualcosa che non mi quadra.»

«Ripetimi di nuovo cosa è successo quando sei andata al motel Knights. Quando fu trovato il corpo di Jessica.»

«Ward…»

«Dimmelo e basta.»

«Ricevetti una telefonata sul cellulare da Charles, che mi diceva che qualcuno aveva appena freddato un poliziotto in un’auto di pattuglia e poi era sparito.»

«E quindi?»

«Quindi, niente. Mi disse dove si trovava e che voleva che lo raggiungessi.»

«Per l’omicidio di un poliziotto.»

Nina esitò. «Sì.»

«Che non c’entra niente con l’FBI e nemmeno con lui. A meno che…»

Lei rimase in silenzio per venti secondi buoni mentre metteva insieme gli elementi. «Oh, Cristo.»

«Già. È possibile.»

«Allora per quale cavolo di motivo dovremmo parlare con lui?»

«Perché non abbiamo nessun’altra scelta e poi perché così gli fai questa domanda e vedi cosa ti risponde. E se non ha una buona risposta, allora… o siamo in guai peggiori di quanto pensiamo o abbiamo qualcosa su cui lavorare.»

Nina aveva chiaramente preso la sua decisione prima che io parlassi. Scese dal letto e recuperò il suo cellulare dalla borsa, accendendolo. Nel giro di pochi secondi cominciò a cinguettare diverse volte.

«Messaggi della segreteria telefonica,» disse. Li ascoltò, poi allontanò il cellulare dall’orecchio e rimase immobile con una strana espressione sul volto.

«Era John?»

Lei scosse la testa. «Monroe. Quattro volte. Nessun messaggio, solo: ‘Chiamami’.»

«Allora chiamalo, ma non al numero dell’ufficio. Chiama sul cellulare.»

«Ma se fa una ricerca scoprirà dove siamo.»

«Saprà dove eravamo. Dai, telefona.»

Compose il numero, rimase in ascolto tenendo gli occhi su di me.

Poi: «Charles, sono Nina.»

Da due metri di distanza riuscii a sentire il fiume di parole che proruppe immediatamente. Nina ascoltò.

«Che cosa stai… Oh Cristo, Charles, ti richiamo.»

Interruppe la comunicazione e per un momento apparve senza parole.

«Che c’è, Nina, cosa è successo?»

«Hanno trovato un’altra donna con un hard disk.»


Alle cinque e mezzo stava diventando buio e noi eravamo in macchina, a una cinquantina di metri da un ristorante chiamato Daley Bread. Lo avevamo notato la notte precedente nella sua imponenza anonima, e lo avevamo scelto perché dava su una strada importante, a quattro curve di distanza dalla 99, l’arteria principale che portava a nord o a sud. Facile da trovare e facile da lasciare in fretta. Ci andammo presto perché volevamo verificare se qualcuno si stava appostando, se fossero state fatte delle telefonate alla polizia del luogo o al distaccamento locale dell’FBI o a chiunque altro. In altre parole, se potevamo fidarci almeno un po’ di Monroe.

In mezz’ora non notammo nessuno, eccetto un manipolo disordinato di cittadini vestiti in modo trasandato, che passarono inframmezzati da piccoli gruppi di giovani facoltosi. I due gruppi apparivano totalmente indipendenti tra loro ed era anzi difficile pensare che potessero coabitare negli stessi spazi e luoghi. Sembravano due specie distinte che avessero appena cominciato a studiarsi vicendevolmente. Guardavamo ogni gruppo avvicinarsi e sparire. Alcuni sbirciavano verso la nostra macchina e sicuramente si domandavano perché una coppia se ne stesse lì in una sera buia e fredda. Noi restituimmo gli sguardi. Eravamo paranoici come non mai. Quando in giro non c’era nessuno ci limitavamo semplicemente a osservare la strada in ambo le direzioni.

Alle sei e un quarto, quindici minuti prima dell’appuntamento, aprii la portiera e uscii.

«Fai attenzione,» mi disse.

«Andrà tutto bene. Lui non sa che faccia ho.»

«No, ma altri sì.»

Risalii la strada a passo moderato, cercando di apparire come una via di mezzo tra i derelitti e i giovani di successo. Aspettai un secondo sull’altro lato della strada rispetto al ristorante, ma fuori non vidi nessuno che ricordasse le forze dell’ordine e dentro c’era pochissima gente.

Mentre attraversavo la strada, mi resi conto che qualunque persona con un po’ di sale in zucca avrebbe tenuto segreto il luogo dell’incontro fino a che Monroe non fosse arrivato in città, per rendere più difficile mobilitare agenti locali, qualora ne avesse avuto l’intenzione. Sentivo più che mai la mancanza di Bobby, o di mia madre. Senza di loro sapevo che non mi sarei mai sentito del tutto con le spalle coperte.

Feci una domanda silenziosa, senza muovere le labbra.

«È un’idea stupida?» Non ci fu risposta.

Dentro il ristorante faceva caldo e l’aria era viziata. Una ragazza in uniforme e dall’aria stanca mi venne incontro con un menu in mano. «Io sono Britnee,» disse, pleonasticamente, dato che aveva un distintivo col suo nome delle dimensioni di una targa d’automobile. «Cena da solo?»

Risposi di sì, aggiungendo che avevo notato uno dei séparé che correvano su ambo i lati della stanza. Dato che in tutto il locale c’erano solo due coppie, la ragazza non poté far altro che farmi sedere dove volevo.

Ordinai del chili senza nemmeno consultare il menù. Quando andò a svegliare il cuoco io mi sistemai nel posto che avevamo concordato con Nina. Mi sedetti sul lato destro del séparé, con la schiena rivolta al muro basso che lo separava dal suo gemello sull’altro lato. Nessun tavolo poteva essere visto dall’altra parte, ma era comunque possibile ascoltare quello che si diceva.

Tirai fuori una rivista gratuita che avevo preso nella hall dell’hotel e cominciai a leggere.

Cinque minuti dopo sentii la porta del ristorante che si apriva. Una rapida occhiata mi disse che era Nina. Britnee cercò di dirottarla su uno dei tavoli accanto alla vetrina, probabilmente per la favolosa vista che offrivano sulla strada fredda e bagnata, ma Nina insistette. La persi di vista quando la cameriera la guidò verso il lato dove mi trovavo, e un minuto dopo sentii il rumore di qualcuno che si sedeva al di là del muro divisorio.

Rimanemmo in silenzio per un po’. Udii un’altra cameriera avvicinarsi a Nina e chiederle se voleva da bere e ascoltai la sua risposta. Dal punto di vista acustico la posizione era ottima.

Continuai a far correre gli occhi su pubblicità di negozi locali che non mi interessavano e di ristoranti di storica tradizione, e a conduzione familiare, che sembravano identiche a quelle che si trovavano in qualsiasi altra città del paese. Era strano sapere che Nina si trovava dall’altra parte del muretto, intenta alle stesse occupazioni. Ogni tanto fissavo per un po’ la strada esterna. Non accadeva nulla.

Poi, alla fine, sentii Nina bisbigliare.

«È arrivato,» disse.

Diedi un’altra rapida occhiata verso la porta e vidi un uomo che aveva passato i quarantacinque anni, dal fisico atletico. Indossava un vestito e un lungo soprabito di pelle. Entrò nel locale con passo rapido e superò Britnee prima ancora che lei riuscisse a suggerirgli un posto carino sulla terrazza. Aveva evidentemente individuato Nina da fuori.

«Ciao, Charles,» udii un momento dopo.

Seguì il rumore di qualcuno che si sedeva. «Perché non potevamo vederci al tuo hotel?»

«Come fai a sapere che sto in un hotel?»

«E dove altro potresti stare?»

Ci fu una lunga pausa, poi Nina disse: «Charles, ti senti bene?»

«No,» rispose lui. «E nemmeno tu. Abbiamo controllato il video. Si tratta di John e non c’è stata nessuna manipolazione. Anche la sua impronta sul cavatappi a Portland non è contraffatta, e ora c’è un testimone oculare, che ha visto un uomo uscire dall’edificio trascinando una donna. Sembra che l’uomo abbia detto al testimone che la donna era ubriaca e che la stava riaccompagnando a casa. L’identikit assomiglia a John in modo incredibile, e la ragazza ha confermato. Ho anche parlato a Olbrich e so quello che ha scoperto per tuo conto. John era a Portland quella notte.»

«Grazie, Doug.»

«È un poliziotto, non il tuo cazzo di servizio informazioni. Zandt ha ucciso Ferillo, Nina, accettalo. Ha anche colpito la ragazza abbastanza forte da provocarle una commozione cerebrale. Non so cosa diavolo gli passi per la testa, ma proteggerlo non può che danneggiarti.»

«Braccarlo non servirà nemmeno a te. Sei coinvolto anche tu.»

«Cosa vuoi dire?»

In quel momento accaddero due cose: la prima fu che la cameriera arrivò con il mio chili e che ci mise un tempo interminabile per posarlo sul tavolo, facendo un casino incredibile. Si sentì anche in dovere di farmi un sacco di domande: dove stavo, quanto mi piaceva essere lì nella parte storica di Fresno, se ero sicuro di non volere il contorno di cipolle — poteva andare in cucina e farmele preparare in un lampo. Io risposi a queste domande il più rapidamente possibile, a monosillabi.

La seconda cosa fu che Nina era ammutolita.

Non avevo bisogno di vederla per sapere che stava fissando il tavolo, incapace di fare la mossa successiva. Così presi una decisione, pur sapendo che stavo commettendo un errore. Mi alzai, lasciando il mio piatto e girai attorno al muro divisorio.

Trascinai una sedia all’estremità del séparé dove si trovavano Nina e Monroe, seduti uno di fronte all’altra, con le bibite intatte.

Monroe mi guardò. «Posso aiutarla?»

«Spero di sì,» risposi. «Sono un amico di Nina. Le farò la domanda che lei non vuole fare.»

«Nina, conosci questo tizio?»

«Sì.»

«Lei è Charles Monroe, io sono Ward Hopkins. Sono una delle due uniche persone che possono confermare ciò che alla fine Nina le dirà. Probabilmente sono l’unico che lei ascolterà, poiché è improbabile che prenda per buone le parole di John Zandt.»

«Non ho la minima intenzione di ascoltare nemmeno lei, chiunque diavolo sia. Nina…»

«Sì che mi ascolterà» dissi io. «Ma non prima di averci spiegato come faceva a sapere che c’era un cadavere al Knights.»

Monroe fu preso alla sprovvista. Cercò di farmi abbassare lo sguardo, ma dalla morte dei miei genitori era molto difficile spaventarmi. Non è mai stato semplice e ora risultava particolarmente arduo. Era come se a una parte di me, nel profondo, non gliene fregasse più un cazzo di niente.

Nina lo studiava attentamente. «Intendi rispondergli?»

Non disse nulla e vidi il cambiamento sul volto di Nina, e capii che improvvisamente credeva alla mia teoria.

«Bastardo,» disse.

«Nina… Non so cosa ti abbia detto quest’uomo, ma…»

«Davvero?» dissi. «Qui c’è nero su bianco. Se un poliziotto viene ucciso, questo è un lavoro, un problema e un affare della polizia di Los Angeles se il fatto avviene in quella città. Non riguarda l’FBI a meno che non siano i poliziotti a scegliere questa strada, cosa che non fanno. I federali sono il Grande Fratello che nessuno desidera; qui non siamo a ‘X-Files’, dove ti chiamano per un litigio per un parcheggio, per un errore di battitura o per qualsiasi cosa che appaia succulento e in cui possa servire l’aiuto di un uomo vestito elegantemente. C’è una sezione speciale dedicata agli omicidi di questo tipo — hanno intere divisioni che abbandonerebbero qualsiasi occupazione pur di scovare chi ha ucciso qualcuno di loro. Allora, cosa ci faceva lei laggiù? E così presto! Come faceva a essere sulla scena ancora prima che qualcuno entrasse nella stanza del motel? Prima che qualcuno sapesse che c’era un cadavere da trovare?»

Monroe scosse la testa. «Questo è ridicolo. Nina, questo tizio è matto e noi abbiamo abbastanza…»

«Charles, guardami e stai zitto.»

Quasi non riconoscevo la voce di Nina. Era più un suono a metà tra un sibilo e il ringhio di un grosso gatto selvatico, tenuto a lungo in cattività, stufo di essere infastidito.

Monroe la guardò e io feci lo stesso.

«Charles, sai dove sono le mie mani?»

Lui la fissava. «Sono sotto il tavolo.»

«Cosa pensi che stiano impugnando?»

«Oh, Cristo, Nina…»

«Esatto. E ti sparerò su due piedi se non cominci a dire cose credibili.»

«Sanno dove sono.»

«No, non è vero,» disse lei. «In nessun modo metteresti a repentaglio la tua preziosa reputazione pubblicizzando il fatto che hai attraversato lo stato per venire a parlarmi, non con tutte queste cagate che circolano su John. A meno che tu non abbia portato qualcuno con te, certo, cosa che fino a ora non sembra tu abbia fatto.»

«Certo che no,» disse Monroe, apparendo per un momento così infuriato da rendere difficile non credergli. «Dio santo, abbiamo lavorato insieme per così tanto tempo. Siamo sempre stati legati.»

«Giusto. È quello che pensavo anch’io. Fino a quando, ieri, non sono stata sospesa dal servizio, grazie a te.»

«Non avevo altra scelta, lo sai. Zandt ti ha compromesso troppo.»

«Compromesso? Charles, tu accusi me di essere compromessa? Comincia a rispondere alla domanda di Ward. Le mie mani sono sempre al loro posto e ho sempre le stesse intenzioni.»

Monroe si zittì e si mise a fissare la sua tovaglietta, decorata con immagini di cibi ad alto contenuto di colesterolo, che sapevo non avrebbero catturato a lungo la sua attenzione.

«Le cose stanno andando per il verso sbagliato,» disse alla fine in tono tranquillo. «E non solo per te.» Alzò lo sguardo. «Però è colpa tua e della missione, qualunque essa sia, alla quale ti sei votata. Perché non hai voluto raccontarmi semplicemente cosa è accaduto l’anno scorso?»

«Per proteggerti,» disse. «Non c’era niente che tu potessi fare e non sapevamo di chi fidarci.»

«Mi dispiace dirlo, ma a me sembra paranoia pura.»

«Non lo è,» dicemmo all’unisono Nina e io.

Monroe mi osservò attentamente per la prima volta. «A chi avete rotto i coglioni? Con chi diavolo avete a che fare?»

Nina mi guardò e io annuii.

«Si chiamano Uomini di Paglia,» disse. «Non sappiamo quanti ce ne siano, né chi siano. Possedevano un grande appezzamento di terreno nel Montana ed è proprio quello il posto che è saltato in aria.»

«Siete stati voi?»

«No, loro stessi. Era minato,» dissi. «Era disseminato di prove. Cadaveri ovunque. Quelle persone uccidono per divertimento. Avevano una catena di approvvigionamento delle vittime che utilizzava gente come Stephen DeLong. L’uomo che un tempo chiamavate Ragazzo delle Consegne era un altro dei loro fornitori, il più importante, anzi, un serial-killer vero e proprio che faceva parte dell’organizzazione. Incidentalmente quest’uomo è anche mio fratello. Si fa chiamare Homo Erectus. Era l’elemento-chiave di una delle loro altre attività collaterali. Si ricorda l’esplosione alla scuola di Evanston, l’anno scorso?»

«Sì. Sono stati arrestati due ragazzi per quell’episodio.»

«Non sono stati loro. Il responsabile era lui, così come di altri fatti e sparatorie accaduti in Florida, Inghilterra ed Europa, accaduti nel corso degli ultimi vent’anni. Forse di più. Forse il gruppo esisteva già a metà degli anni ’60. Commettono questi reati e poi fanno in modo che vengano incolpati degli innocenti.»

Monroe appariva incredulo. «Nina, tu credi a queste cose?»

«Credere non significa niente. Questa è la verità pura e semplice. C’è un gruppo di persone che vive nelle pieghe nascoste del paese e lo fa da lungo tempo. Sono potenti e uccidono. Ecco chi abbiamo fatto incazzare. E ora, per l’ultima volta, dimmi di Jessica.»

Esitò solo per un attimo. Aveva preso la sua decisione.

«Ricevetti una telefonata,» disse piano.

Anche se sapeva che Monroe avrebbe finito per cedere, credo che Nina arrivò a un passo dallo sparargli. Penso che anche Monroe ne fosse consapevole.

Poi ci fu un lunghissimo silenzio.


Finalmente Monroe aprì la bocca per riprendere a parlare. La sua voce si era fatta roca, prese un sorso di soda, ma finì per scolarsi l’intero bicchiere.

«Ricevetti la chiamata la sera prima,» disse. «Sul mio cellulare, — quello personale. Non sono in molti ad avere il numero e infatti pensavo fossi tu. Ero a teatro con Nancy. Era l’intervallo e ci trovavamo al bar, dove c’era un baccano infernale. Una voce maschile disse qualcosa, ma non riuscivo a sentirla bene, e quando arrivai fuori aveva riattaccato. Non avevo alcun motivo per… Poi la mattina dopo, mentre stavo andando al lavoro, ricevetti una seconda telefonata. Era di nuovo quell’uomo. Mi chiese che cavolo mi passava per la testa, forse non ero interessato? Dissi che non sapevo di cosa stesse parlando. Asserì che un poliziotto era appena stato ucciso, che dovevo andare immediatamente al motel Knights, e che sarebbe…»

«Sarebbe stata una buona cosa per te,» disse Nina, come se Monroe avesse appena ammesso di voler spacciare crack ai bambini nelle pause del servizio.»

«Sì,» disse. «È esattamente quello che ha detto.»

«Era lo stesso uomo della sera prima?»

«Sì. Per quel che ne sapevo poteva essere qualcuno del dipartimento.»

«Un agente che voleva restare anonimo?»

«Se poteva tornare utile a me, lo sarebbe stato anche per tutto l’ufficio.»

«Me ne sbatto, Charles. Non ti credo e non me ne frega niente. Tu sei andato lì perché hai ricevuto un’imbeccata sulla presenza di qualcosa di ghiotto, qualcosa di buono per la tua carriera, e mi hai trascinato consapevolmente in qualcosa di sporco. Non hai detto a nessuno che eri stato informato prima. Hai fatto in modo che Olbrich mettesse insieme una task force e tu ci hai lavorato un paio di giorni per farla sembrare un’indagine che non portava ad alcun risultato. A casa dei McCain, quando ti ho chiesto se eravamo sicuri che l’assassino del poliziotto fosse lo stesso di Jessica, tu sapevi già che erano due casi diversi.»

«Il fatto che potessero esserlo non significava che fosse così.»

«Oh, andiamo! Hai addirittura cercato di distogliermi da quell’idea. Poi la mattina dopo che John aveva fatto la sua comparsa nelle liste dei Most Wanted per l’omicidio di Ferillo, immagino ti sia arrivata un’altra e-mail. E di nuovo anonima, vero?»

«Non importa come sia arrivata, Nina. È tutto vero. E scendi dall’albero, Cristo! Tu sapevi… tu sapevi che Zandt aveva ucciso DeLong e hai occultato le prove.»

«A quel tempo non lo sapevo. Me lo ha detto solo alla fine dello scorso anno.»

«Comunque sia, nel momento in cui ti fu detto, tu diventasti sua complice, quindi non…»

Lo interruppi. «Chi era l’uomo insieme a lei quando mostrò il video a Nina?»

«Non lo so», disse con un tono sconsolato. «Quando è arrivato quel mattino era già a conoscenza di tutti i particolari. Aveva un accredito della National Security Agency, ma quando ieri ho tentato di rintracciarlo mi è stato detto che non c’era nessuno che rispondeva ai suoi connotati. Ho fatto qualche pressione, ho alzato la voce con qualcuno e…»

«E ora le cose si stanno complicando anche per te,» disse Nina.

«Solo indirettamente.» Monroe respirò pesantemente. «Stanno riaprendo il caso Gary Johnson.»

«Cosa?»

«Un qualche avvocato della Louisiana tutt’a un tratto sostiene di avere le prove che abbiamo addomesticato i referti del medico legale. Più precisamente, che lo hai fatto tu e io ho fatto finta di non vedere. C’è qualcuno che ti vuole screditare e io, come tuo superiore coinvolto nel caso, ne subirò le conseguenze. Contenta?»

«Ti sei compromesso da solo, Charles. Non prendertela con me.»

«E tu non fare tanto la moralista. Hai tenuto nascosta la notizia di un omicidio, hai mentito su quanto accaduto l’anno scorso — e pensi davvero che io non sappia che hai sottratto per quarantotto ore l’hard disk di Jessica dalle prove? Ambedue le cose sono sufficienti per rovinarti e in entrambi i casi è stata una tua scelta, di cui sei tu la sola responsabile.»

«Ora c’è stato un altro omicidio con un disco,» dissi. «Anche in questo caso ha ricevuto un avvertimento?»

«No. E mi stia a sentire — chi diavolo è lei?»

«I genitori di Ward sono stati uccisi dagli Uomini di Paglia,» disse Nina. «Lui ci ha aiutato a salvare la vita di Sarah Becker, e in questo momento è l’unica persona.al mondo di cui mi fidi. Penso ti possa bastare. E ora dimmi qualcosa sul nuovo omicidio.»

«Nina…»

«Hanno usato Jessica per coinvolgerti. Se quest’altro delitto è opera dello stesso uomo, allora abbiamo una piccola probabilità di risolverli entrambi, la qual cosa è l’unica speranza che hai per riportare la tua vita sulla carreggiata giusta.»

«E la tua?»

«La mia è già irrecuperabile. E la cosa mi fa incazzare. Voglio trovare i responsabili. Ward e io abbiamo un conto in sospeso con loro.»

«Il nome della donna è Katelyn Wallace,» disse Monroe. «Faceva il turno di notte al Fairview di Seattle. Qualcuno l’ha rapita da un hotel pieno di clienti e con una guardia notturna in servizio. È stata ritrovata a settanta chilometri di distanza in direzione est in mezzo a un cespuglio nella cittadina di Snoqualmie. Abbiamo parte del numero di targa di una macchina che è stata vista passare a notte fonda, ma si tratta di una macchina a noleggio e quella è una zona turistica. Il corpo di Katelyn era ridotto peggio di quello di Jessica. È nostra convinzione — in realtà è l’opinione degli psicologi, ma anche le foto lo evidenziano — che l’assassino stia perdendo il controllo dei propri nervi. Non si è preoccupato di vestirla, e questa volta il disco non era semplicemente infilato in bocca. E stato spinto in un buco che ha praticato nella fronte della donna. Il file musicale era lo stesso di Jessica.»

«C’era un messaggio?»

«No. Tre foto panoramiche a bassa definizione scattate con una webcam. Di Pittsburgh, ci crediate o no. Così l’ufficio federale di zona è stato allertato, ma chissà se questo dettaglio ha un qualche significato.»

«Cosa sapete della donna?» chiesi.

«Era di San Francisco, aveva quarantadue anni e si era trasferita a Seattle dodici anni fa. Nubile, ma con molti amici, un gatto e nessuno che abbia un’idea su chi abbia potuto fare una cosa simile. Per quanto possiamo saperne, sembra una vittima scelta a caso.»

«Io non credo,» dissi. «Perché attraversare mezza nazione per prendere qualcuno a caso e poi lasciare dappertutto il tuo marchio usando lo stesso modus operandi? Ci deve essere una relazione. Nina le ha detto della fotografia mancante dall’appartamento di Jessica?»

«Sì. Abbiamo rintracciato tutti e tre gli uomini che compaiono nei video. Due erano clienti abituali di quel bar, il Jimmy’s, l’altro era uno che lei aveva incontrato a una festa a Venice Beach. Nessuno sembra fare al caso nostro sebbene uno di loro abbia confermato che Jessica teneva una foto dei genitori accanto al letto. Ora, poi, questo essere bavoso di Webdaddy, Robert Klennert, crede di ricordare che qualcuno che tentò di individuare Jessica attraverso un’e-mail indirizzata al webmaster del portale circa due mesi fa. Sembra che accada sempre, tutte le ragazze la ricevono. Lui le rispedisce semplicemente indietro. Non si ricordava ce ne fosse una in particolare per Jessica, ma poi ha cominciato a cercare tra i suoi file. Potrebbe non significare nulla.»

«Oppure poteva essere l’assassino che cercava di trovare una via d’accesso. È un tempo di gestazione piuttosto lungo, no? Ci sono segni che sia stato sottratto qualcosa dall’appartamento di Katelyn Wallace?»

«Come facciamo a saperlo? Questa volta non abbiamo avuto la fortuna di avere delle immagini a disposizione. Katelyn non era una prostituta di Internet, era una donna normale, che lavorava sodo.»

«Anche quelle muoiono. Ma… noi partiamo dal presupposto che l’assassino abbia preso le foto come souvenir estemporaneo. Qualcosa di personale, un modo per prendere possesso della vita della donna che aveva intenzione di uccidere. E se ci fosse di più?»

Nina mi stava guardando. «A cosa stai pensando?»

«Stanno cercando di intrappolare l’assassino,» dissi, parlando lentamente per non perdermi nei miei pensieri. «Ecco perché hanno imbeccato Charles. È ovvio. Ma perché? Chi è la persona che gli Uomini di Paglia vogliono incastrare?»

Alzai lo sguardo e fu allora che lo vidi.

Se avessi fatto come avevamo deciso, se fossi rimasto al mio posto limitandomi a tenere sotto controllo la situazione mentre Nina parlava, me ne sarei accorto prima. Così, invece, ebbi solo la fugace visione di un uomo slanciato con capelli corti e occhiali, in piedi all’esterno del ristorante e intento a osservarci.

«Merda…» Fu tutto quello che riuscii a dire prima di udire un rumore di vetri in frantumi, due colpi e il tonfo sordo di un proiettile che si conficcava nel muro alle nostre spalle.

Mi lanciai fuori dal séparé ed estrassi la pistola. Fui svelto, ma Nina lo fu di più perché la sua ce l’aveva già in pugno.

Cominciammo entrambi a sparare ancora prima che Monroe si rendesse rninimamente conto di cosa stesse accadendo. Con l’altra mano afferrai una sedia e la scagliai maldestramente verso la vetrata, cercando di dar loro abbastanza tempo per uscire dal séparé.

Il lancio andò a vuoto, ma Nina fu rapida. L’uomo continuò a sparare attraverso il buco nel vetro fracassato, con colpi cadenzati, uno di seguito all’altro.

Mi accucciai per cercare di rimanere sotto il suo campo visivo, tirando per un braccio Nina nel tentativo di trascinarla dietro un tavolino. Intorno a noi urlavano tutti, Britnee era a terra con il viso pieno di tagli causati dai vetri.

Vidi l’uomo che, come un’ombra, si allontanava dalla finestra, ma non per scappare. Si stava dirigendo all’ingresso per entrare nel ristorante.

«Oh Cristo,» disse Nina, e quando mi voltai vidi che Monroe era accasciato sul tavolo. Lei cominciò a dirigersi verso di lui ma io le afferrai nuovamente il braccio per trattenerla a terra.

«Lascialo perdere.» Sentii la porta del locale spalancarsi e ci fu un’esplosione di urla sempre più forti.

«Ward, Monroe è stato colpito.»

«Lo so.»

L’uomo era arrivato nella zona del ristorante dove stavamo noi. Credo che una parte di me si aspettasse di vedere mio fratello, ma non fu così. Era più giovane e agile, nonostante il torace massiccio. Portava anfibi e un soprabito scuro. Si fermò all’estremità opposta della sala, apparentemente per nulla intimorito da quello che avremmo potuto tentare di fare e puntò Nina.

Gli sparai e lo colpii in pieno petto.

Fu scaraventato all’indietro, andando a sbattere contro un tavolo.

Rimase a terra per circa cinque secondi, un tempo sufficiente perché io cominciassi a tirarmi su, prima di rialzarsi improvvisamente.

Non perdeva sangue e mi resi conto che indossava un giubbotto antiproiettile. Arretrai nel tentativo di ripararmi dietro a qualcosa prima che ricominciasse a sparare. Nina sparò, ma mancò il bersaglio. L’uomo fece fuoco altre due volte ed entrambi i colpi ci passarono vicino. Io sparai ancora, mirando più in alto ma lo mancai. Colpire la testa di un uomo in movimento è difficilissimo. Non è semplice neppure mirare. Devi proprio volere la morte di qualcuno per farlo, anche se in quel momento io la volevo.

Da un altro angolo provenne il rumore di uno sparo e pensai: «Oh Cristo, eccone un altro,» ma poi vidi che era Monroe. Il suo soprabito era coperto di sangue e lui era rannicchiato nel séparé, ma aveva ruotato la parte superiore del corpo e stava svuotando il caricatore contro l’uomo.

Io colsi l’occasione e afferrai Nina per tirarla al di qua del muro divisorio. La mia cameriera si era acquattata lì e cercava di urlare senza però averne il fiato, con il risultato di produrre un suono simile a quello di un topo colpito da un martello.

Sul muro di fondo vidi un paio di porte da saloon.

Si udirono altri spari come fossero lenti battiti di mani.

«Ward, dobbiamo recuperare Charles…»

«È troppo tardi.» La spinsi oltre la porta a vento dentro la piccola cucina. All’inizio fece resistenza, ma poi mi seguì mentre mi facevo strada in mezzo a due uomini vestiti di bianco dall’aria terrorizzata, e poi attraverso la porta aperta sul retro. In cima a una piccola rampa di scale scivolai, ma afferrandomi alla ringhiera riuscii ad arrivare in fondo.

Corremmo lungo il lato del ristorante. Il rumore degli spari era cessato. Guardai dentro e vidi l’uomo all’altezza del séparé dove Monroe ora giaceva a faccia in giù sul tavolo.

Il killer si voltò e ci vide. Cominciò a correre velocemente verso di noi.

«Prendi la macchina!» urlai. Nina continuò a correre.

Mi voltai e puntai la pistola, procedendo all’indietro il più velocemente possibile. Aveva sparato il suo colpo ancora prima che mi rendessi conto che era uscito in strada.

Feci fuoco e lo colpii di nuovo, stavolta allo stomaco, scaraventandolo indietro ancora una volta. Mi voltai correndo precipitosamente fino a raggiungere la macchina proprio nel momento in cui si accesero i fari e udii il rombo del motore.

Poi ebbi la sensazione che qualcuno mi avesse dato un pugno sulla spalla. Persi l’equilibrio, girai su me stesso rovinando a terra. Mi tirai su, ancora incerto sull’accaduto, ma sentendomi fuori uso, e risposi al fuoco.

La macchina fece uno scatto in avanti, la portiera si spalancò e io mi buttai dentro. Avevo ancora le gambe penzolanti all’esterno allorché Nina diede una violenta accelerata e partì a tutta velocità. Quando fui dentro e con la portiera chiusa, lanciò l’auto in una curva stretta e cominciò a risalire la strada.

«Dove vado?» Lanciò un’occhiata verso di me e l’improvviso strabuzzare dei suoi occhi mi confermò ciò che già sospettavo.

Posai una mano sulla mia spalla e la sentii bagnata e calda.

«Dove vuoi,» risposi, mentre il dolore sembrava tagliarmi in due come la lama di un coltello.

Capitolo ventitré

Uscirono dall’Henry’s Diner sotto una pioggerella insistente. Non appena il freddo lo raggiunse Tom cominciò a tremare vistosamente. Era riuscito a mangiare la metà del suo pasto, curvo, come Henrickson, su un tavolo nell’angolo in fondo. Tom si era accorto degli sguardi di alcune persone del posto. Si riusciva a intuire i loro pensieri: «Ecco il tizio di Bigfoot» — o magari «Il tizio che racconta stronzate» — e questo non aveva aiutato molto il suo appetito. Henrickson era stato insolitamente silenzioso durante la cena, ed era passato un bel po’ dal suo ultimo sorriso. Forse anche lui era esausto, sebbene non ne avesse l’aria. I suoi movimenti continuavano a essere netti e precisi, e mangiò velocemente e metodicamente, sbarazzandosi in pochi minuti di una bistecca di pollo fritto. L’aveva chiesta al sangue, il che era una novità per Tom e anche per la cameriera, a giudicare dallo sguardo che gli rivolse. Nelle pause del pasto, l’uomo aveva guardato fuori dalla finestra come augurandosi che l’oscurità si dileguasse.

«Okay,» disse, mentre Tom cercava di sprofondare nella giacca per proteggersi dal vento. Guardò lungo la strada. «Credo che tornerò al motel.»

Tom fu sorpreso. Aveva creduto che si sarebbero diretti al bar. Non che desiderasse un drink; era esausto dopo la camminata e l’ambiente caldo e soffocante del ristorante aveva aumentato il suo senso di stanchezza e il suo sonno. Andare a letto sembrava una scelta sensata, ma se fosse stato da solo in camera avrebbe dovuto pensare a chiamare Sarah e ancora non aveva prove da sottoporle. «Posso offrirti una birra?» La domanda lo fece sentire goffo.

«Certo,» rispose Henrickson lentamente. «Perché no?»

Il tono della risposta spinse Tom a domandarsi se l’uomo stesse accettando per qualche ragione che non aveva nulla a che vedere con la voglia di una bibita o della sua compagnia. Ma quando si trovarono seduti al bancone del Big Frank’s — che era completamente vuoto — l’uomo fece tintinnare il suo bicchiere contro quello di Tom.

«Scusami se sembro con la testa da un’altra parte,» disse. «Solo che non posso fare a meno di pensare che stiamo perdendo tempo. E questa storia per me significa molto.»

«Lo so,» disse Tom. «Domani troveremo quel posto, te lo prometto.»

«Certo,» disse l’uomo con gli occhi rivolti alla porta. «Ma ora stiamo a vedere cosa succederà qui.»

Tom si voltò e vide un uomo di una certa stazza che stava attraversando il locale diretto verso di loro. Non camminava veloce, ma aveva una meta precisa.

«Oh cazzo,» disse Tom. «È lo sceriffo.»

Tom rimase a osservare mentre Connelly e il giornalista si squadravano dalla testa ai piedi. Poi il poliziotto rivolse l’attenzione su Tom.

«Mr. Kozelek,» disse. «Vedo che non è ancora riuscito a fare a meno dell’ospitalità di Sheffer.»

«Da chi l’ha saputo?» chiese Tom. «Dalla cameriera? Da uno dei vecchi del tavolo d’angolo?»

«Non capisco cosa voglia dire,» disse Connelly.

«Credo che stia insinuando che qualcuno l’ha informata della sua presenza in città,» disse Henrickson. «E io sono portato a pensare che abbia ragione.»

«Qui non siamo a Twin Peaks, figliolo. Stavo semplicemente passando da queste parti e vi ho visto entrare.»

Henrickson bevve un sorso di birra e guardò l’uomo al di sopra del bicchiere. «Ha qualche problema con noi, Sceriffo?»

«Non so neanche chi è lei.»

«Sono uno scrittore.»

«E cosa diavolo ci fa uno come lei in un posto come Sheffer?»

«Un articolo da prima pagina. Le incantevoli località vacanziere del Nord-ovest.»

«E Mr. Kozelek la sta aiutando, vero?»

«Diciamo di sì.»

«Non ho mai avuto molto tempo da dedicare alla lettura,» disse Connelly. «La maggior parte di quelle cose mi sembra solo un cumulo di stronzate.»

A Tom non piaceva il modo in cui i due si guardavano. Cercò di trovare qualcosa da dire, una cosa così banale da allentare la tensione. Poi alzò lo sguardo quando sentì la porta del bar aprirsi. Entrarono due persone intente a scuotersi l’acqua dai capelli.

«Salve,» disse una delle persone, che era una donna. Tom si rese conto che si trattava della dottoressa che lo aveva visitato. La donna si avvicinò al gruppo.

«Sono Melissa,» disse per aiutarlo. «Non si preoccupi, quando ci siamo visti la prima volta era piuttosto a pezzi. Come si sente?»

«Sto meglio,» disse Tom. Dietro la donna c’era il marito. Fece un cenno di saluto a Connelly e si diresse verso il tavolo da biliardo dall’altra parte della sala, nell’angolo in fondo. Aveva l’aria di qualcuno che non era molto sensibile agli scambi di cortesie.

«Bene,» disse Melissa osservando Tom con sguardo professionale: distaccato e come a voler implicare che l’opinione che Tom aveva del proprio stato di salute, per quanto rninimamente interessante, era di nessuna rilevanza diagnostica. «Niente nausea? Mal di testa?»

«No,» rispose mentendo. «Mi sento bene, grazie.»

«Perfetto. Oh… se fossi in lei, per un po’ ci andrei piano con i rimedi a base di erbe. Non si sa mai che effetti possono avere alcune di queste.»

Connelly sembrò irrigidirsi leggermente. «Questo punto è già stato chiarito,» disse lo sceriffo. «Le erbe non appartenevano a Mr. Kozelek.»

Henrickson inclinò la testa. «Erbe?»

Melissa abbozzò un sorriso, come se improvvisamente esitasse ad avventurarsi su quel terreno. «Ne ho trovato un piccolo mucchietto, nella borsa di Mr. Kozelek.»

«Melissa, sia gentile,» disse Connelly. «Vi raggiungo tra un attimo, ma prima c’è una cosa che devo discutere con questi due ragazzi.»

«Certo,» disse la donna, indietreggiando con un sorriso. In condizioni normali si sarebbe sentita liquidata, ma in quel momento, ciò che Tom aveva colto negli occhi della donna non era l’effetto di un contegno professionale quanto quello di uno spinello da antologia. «Ti prendo una birra?»

«Sarebbe fantastico.»

I tre uomini la osservarono mentre si dirigeva dall’altra parte del bar e poi si voltarono per tornare a fronteggiarsi.

«Dunque, se queste piante non le ha portate Tom,» disse Henrickson, «come hanno fatto a finire nella sua sacca?»

«Credevo non sapesse di cosa stessi parlando.»

«Mi dispiace che abbia avuto questa impressione. In realtà credo che lei stia facendo riferimento alla valeriana e alla scutellaria che Tom aveva nello zaino.»

«Cosa?» disse Tom rivolgendosi allo sceriffo. «Di cosa state parlando?»

«E chi lo sa!» disse il poliziotto.

«Non credo,» Henrickson infilò una mano nella giacca e tirò fuori un piccolo sacchetto di plastica. Lo posò sul bancone. «È questa roba che ha trovato la dottoressa?»

Connelly distolse lo sguardo. «Le piante per me sono tutte uguali.»

«Per me no. So che queste sono erbe medicinali, e so anche che entrambe erano usate da un particolare gruppo di persone.»

«Gli indiani del luogo.»

«In realtà, già da qualcuno prima di loro. Allora, sceriffo, mi dica un po’. A giudicare dalla reazione di Tom, mi sembra difficile credere che sia stato lui a infilarle nello zaino. Ma forse lei sarà in grado di spiegarmi come è andata, vero?»

«Sono state messe lì dentro da una donna di nome Patrice Anders.»

Henrickson ghignò. «Davvero? Vale a dire la donna con quegli strani scarponi?»

«Quando ritrovò l’attrezzatura di Mr. Kozelek nella foresta, Mrs. Anders capì subito che apparteneva a una persona in stato confusionale. Quella donna si interessa di terapie alternative. Ha lasciato queste erbe nello zaino nella speranza che il proprietario, se fosse ritornato, avrebbe potuto riconoscerle e utilizzarle.»

Questa volta Henrickson scoppiò a ridere. «Sta scherzando, vero?»

«Questo è quanto lei mi ha detto.»

«Vediamo se ho capito. Mentre quella donna si trova a gironzolare per i boschi con i suoi scarponi nuovi di zecca, incontra il piccolo accampamento di Tom. Con una semplice occhiata stabilisce che il mio amico è partito di cervello e così decide di lasciare alcune erbe medicinali nel suo zaino, nella remota speranza che scopra di cosa si tratta e decida di usarle. Erbe che per puro caso lei si portava dietro mentre girovagava per il bosco. Erbe che al giorno d’oggi vengono usate come tinture o al limite per farsi un tè.»

«La gente fa cose strane.»

«Già, è vero. Non c’è dubbio. Be’, sceriffo, la ringrazio, perché queste piante sono state per me un problema da quando ne ho sentito parlare. Sono felice di aver ascoltato una spiegazione così credibile e immediata.» Henrickson si alzò e sorrise rivolgendosi a Tom. «Bene, amico mio, è un peccato che non abbiamo incontrato prima questo signore. Sembra che abbia tutte le risposte. E ora mi sento stanco per la nostra gita di oggi, quindi credo sia giunto il momento di andarcene a dormire.»

Connelly non si mosse. «Sarei molto più contento se i signori volessero prendere in considerazione l’ipotesi di trasferirsi in un’altra incantevole cittadina del Nord-ovest.»

«È probabile.» disse Henrickson. «E io gradirei che lei la smettesse di fare il prepotente con il mio amico. Mr. Kozelek sa benissimo che cosa ha visto, e anche lei. Ha visto Bigfoot.»

«Bigfoot non esiste: lui ha visto un orso.»

«Giusto. Lei continui pure a crederlo. Ma, a meno che lei non decida di interrogarlo ufficialmente, penso che sia ora che la smetta di infastidirlo.»

Henrickson strizzò l’occhio e si diresse verso la porta senza voltarsi indietro. Più confuso che mai, e incapace di dire se le cose fossero migliorate o peggiorate, Tom lo seguì.

Appena fuori, il giornalista accelerò il passo, diretto verso il motel sotto una pioggia che cominciava a trasformarsi in nevischio.

«Jim?» disse Tom, affannandosi per tenere il passo. «Che diavolo sta succedendo?»

«Sapevo che c’era qualcosa di strano quando ho trovato quella roba nel tuo zaino. Non mi aspettavo però che la soluzione mi sarebbe stata servita su un piatto d’argento.»

«Spiegati meglio.»

«Hai mai sentito parlare della fitoterapia?»

«Certo. La gente usa le piante anziché le medicine per curare le malattie. Un po’ come per… non saprei, l’aromaterapia.»

«No,» disse Henrickson scavalcando la bassa recinzione del parcheggio dell’albergo. «È una cosa diversa. L’uomo usa le piante da moltissimo tempo. Una medicina non è altro che una forma speciale di cibo, no? Negli anni 70 è stata ritrovata una sepoltura di Neanderthal nel nord dell’Iraq. Il corpo era stato sepolto con otto fiori diversi, praticamente tutti ancora in uso oggi presso gli erboristi. I neanderthaliani conoscevano queste cose almeno 60.000 anni fa e forse ancora prima. Ed ecco perché erano nella tua borsa.»

«Non capisco. Perché?»

«Perché la creatura che hai visto è tornata indietro. È ritornata e ha messo quelle erbe dove tu avresti potuto trovarle.»

Tom si fermò. «Un Uomo di Neanderthal mi ha prescritto delle erbe?»

«Hai fatto bingo.» Henrickson tirò fuori le chiavi della macchina e premette un pulsante. Le luci della sua Lexus si accesero. «Salta su.»

«E ora che facciamo?»

«Sali in macchina e te lo dico.»

Tom si sistemò sul sedile del passeggero. Con un’inversione di marcia molto stretta, Henrickson si immise sulla strada principale passando davanti al Big Frank’s e dirigendosi a est.

Tom credette, ma non poteva esserne certo, di vedere Connelly che li osservava dalla vetrina del bar.

«Jim, dove stiamo andando?»

«A parlare con una persona,» disse. «Qualcuno che sa molte più cose di quanto loro ci hanno fatto credere.»


Nella mezz’ora di viaggio che seguì, l’uomo non aprì più bocca. Tom capì dove stavano dirigendosi molto prima che la macchina svoltasse nella strada isolata che conduceva all’interno del complesso residenziale che nessuno aveva voluto occupare. Henrickson parcheggiò nella strada vuota, sferzata dal vento, a cinque metri dal cancello della proprietà degli Anders. Lasciò il motore acceso, ma spense le luci. L’oscurità piombò come un macigno.

«Aspetta qui.»

Tom osservò l’uomo uscire dalla macchina e allontanarsi. Quando Henrickson giunse all’altezza del cartello di legno diventò difficile distinguerlo. Tornò dieci minuti dopo.

«Questa volta in casa c’è qualcuno,» disse. Il suo viso era duro e freddo, e aveva del ghiaccio tra i capelli. «Oppure non si sta nascondendo abbastanza bene da ricordarsi di spegnere tutte le luci.»

Attraversò il cancello con l’auto e percorse lentamente il sentiero tra gli alberi.

«Non hai riacceso le luci.»

«Lo so.»

«Quando affrontarono l’ultima curva divenne visibile nella tenue luce solare il lago ghiacciato. Nella sua piattezza aveva qualcosa di soprannaturale, come se fosse fiero del fatto che per lui nulla era cambiato, che tutto era rimasto così da sempre. Poi Tom riuscì a scorgere la sagoma scura della baita, sprofondata in mezzo agli alberi, con due piccoli rettangoli di fioca luce gialla.

Henrickson arrestò l’auto, spense il motore e rimase seduto un attimo a osservare la casa.

«Okay,» disse. «Andiamo. Chiudi la portiera senza fare rumore.»

«Jim, stammi a sentire,» disse Tom. «Non possiamo farlo ora. Avremmo dovuto chiamare prima. Non possiamo saltare fuori così, due tizi che si presentano alla sua porta, la spaventeremo a morte.»

A quel punto Henrickson si voltò verso di lui e fece un movimento con la bocca, che non era né un ghigno né un sorriso. Era però simile a tutti quelli che aveva fatto fino ad allora, e questo spinse Tom a domandarsi, con un lieve e silenzioso sgomento, se dopo tutto quelli non fossero stati sempre dei ghigni.

«Scendi,» disse l’uomo.

Tom uscì al freddo, socchiudendo gli occhi per il nevischio. Chiuse la portiera silenziosamente, guardando verso la casa. Se Henrickson aveva ragione, quella donna aveva mentito per farlo apparire stupido. Almeno una volta, forse due. Naturalmente Connelly avrebbe creduto a lei, soprattutto perché odiava dichiaratamente la sola idea di Bigfoot. E mentendo deliberatamente quella donna aveva distrutto la sua storia.

Se bisognava ricorrere all’effetto sorpresa per venire a capo della faccenda, forse ne valeva la pena.

Si voltò quando sentì Henrickson aprire il bagagliaio della macchina. L’uomo ne estrasse un grosso zaino e se lo mise sulle spalle con un semplice movimento. Poi si chinò nuovamente infilando entrambe le braccia nel vano posteriore dell’auto. Quando si tirò su, Tom rimase a bocca aperta.

«Che cazzo è quello?»

La domanda era idiota perché era evidente quello che l’uomo si era messo a tracolla: era un fucile. Era altrettanto palese che l’altro oggetto più corto e tozzo che aveva in mano era una pistola di grosso calibro. Nessuna delle due armi sembrava acquistabile in un negozio di caccia e pesca. Erano più del tipo che si vede nei telegiornali, con colonne di fumo che si alzano sullo sfondo.

Henrickson chiuse il portabagagli. «La foresta è un posto pericoloso,» disse.

«Sicuramente lo è ora,» disse Tom. «Cristo. Sta’ a sentire, non possiamo lasciare questi aggeggi in macchina?»

L’altro si era voltato e si stava dirigendo verso la casa. Improvvisamente molto incerto su quanto stava accadendo, Tom si affrettò dietro di lui. Quando lo raggiunse, Henrickson aveva già bussato alla porta. Rimasero in ascolto. L’altro si stava già preparando a bussare di nuovo quando si fermò, reclinando il capo nel tipico gesto di chi tende l’orecchio. Tom non aveva sentito nulla.

Si udì il rumore di due chiavistelli che venivano liberati e la porta si aprì.

Dentro c’era Patrice Anders e alle sue spalle era visibile una stanza piccola e accogliente. La donna sembrava più vecchia di quanto Tom ricordasse e più piccola, ma non appariva spaventata né tanto meno sorpresa.

«Buona sera, Mr. Kozelek,» disse. «Chi è il suo amico?»

«Lei sa chi sono,» disse Henrickson.

«No,» disse. «Ma so perché è qui.»

«Questo dovrebbe facilitare le cose.»

Lei scrollò le spalle. «Per me sicuramente, perché non le dirò nulla.»

«Sì invece,» disse Henrickson. C’era qualcosa di strano nella sua voce. Passò davanti alla donna ed entrò in casa, perlustrando con gli occhi le pareti. Strappò il cavo telefonico dalla presa nel muro. Poi trovò il cellulare della donna, lo scaraventò a terra e lo calpestò.

«Jim,» disse Tom scioccato, «questo non è il modo di affrontare la cosa.»

«Affrontare cosa?» disse la donna. Cercava di apparire impassibile, ma la sua voce era incerta e aveva il viso tirato. «Per quale motivo crede che sia qui?»

«È un giornalista,» disse Tom entrando. «Vuole scrivere una storia su quello che ho visto. Tutto qui.»

Patrice lo guardò. «Dio mio, lei è proprio uno sciocco ingenuo,» disse.

«Cosa intende dire?» sbottò Tom. Era stanco di essere l’unico a non capire cosa accadeva.

«Non è qui per scrivere. È un cacciatore, ed è qui per uccidere.»

«Uccidere cosa?»

«Un orso, credo. È l’unica cosa che abbiamo in questi boschi.»

Tom guardò Henrickson e dovette ammettere che il suo amico non somigliava più a un giornalista. In parte a causa delle armi che portava, in parte per il modo in cui stava aprendo le credenze che coprivano il muro in fondo alla stanza, frugandovi dentro come se il fatto che il loro contenuto fosse di proprietà di qualcun altro non significasse nulla. «Jim, dimmi che non è vero.»

«Mrs. Anders sta recitando una parte, ma su tutto il resto lei e io siamo in perfetto accordo,» disse Henrickson senza voltarsi. «Sia sulle mie intenzioni sia sulla tua intelligenza. Ah.» Tirò fuori una spessa matassa di corda e la lanciò a Tom. «Legale le mani dietro la schiena.»

«Vuoi scherzare,» disse Tom. «Non lo farò.»

Il calcio del fucile compì una piccola e rapida traiettoria ad arco che terminò sulla faccia di Tom, che non si accorse del colpo in arrivo.

Andò a sbattere sulla cucina economica, scivolò sul tappeto e cadde a terra. Si accorse a malapena di Henrickson che lo scavalcava, chiudeva con un calcio la porta e poi afferrava l’anziana donna per i capelli. Tom scosse la testa per cercare di ritrovare un po’ di lucidità. Si sentiva come se qualcuno gli avesse piantato un cacciavite in entrambe le narici.

«Puoi farlo anche subito,» sentì dire alla donna, mentre era ancora stordito. «Perché io non ti aiuterò.»

La risposta di Henrickson fu un colpo che la mandò stesa sul divano. Poi fu di nuovo su Tom, con la corda in mano.

«Ora troveremo ciò che stiamo cercando,» disse con tranquillità. «E farò quello per cui sono venuto.»

Tom lo guardò, sentì il sangue che gli usciva dal naso e si rese conto del perché la voce dell’altro uomo sembrava diversa. Il suo accento era sparito insieme alla cadenza campagnola e ai termini da boscaiolo. Ora aveva piuttosto la voce di uno straniero. Tom si sentì come se fosse stata la prima volta che divideva la stanza con quell’uomo, e chiunque avesse sentito quella voce l’avrebbe ricordata per il resto della propria vita. La sua voce diceva che ti conosceva, che lui sapeva tutto di te e di chiunque altro.

«Tu mi aiuterai perché in caso contrario ti costringerò a ucciderla, e non credo che la cosa ti piacerà.»

Tutto quello che Tom riuscì a fare fu scuotere la testa.

«Lo farai,» disse Henrickson. «Dopo tutto, non sarebbe la prima volta. Certo, lo ammetto, le circostanze sono diverse.»

«Stai zitto,» disse Tom. Ora la donna stava guardando lui.

«Tom è già uno dei nostri,» le disse Henrickson. «Era il socio di una compagnia di design di Los Angeles. Tutto andava a gonfie vele: una bella macchina, una bella famigliola, una scopatina extra ogni tanto con una delle impiegate. Una notte, dopo aver fatto tardi in ufficio ed essersi fermato a bere qualcosa sulla strada di casa, mentre riaccompagna a casa la ragazza, Tom salta un semaforo rosso. Non poteva permettersi di arrivare ancora una volta troppo tardi. Una Porsche si schianta dal lato del passeggero e la ragazza muore assumendo la forma di un’opera d’arte contemporanea. E con lei il bambino che porta in grembo all’insaputa di Tom. Lui è appena al di sotto del limite, e per fortuna il guidatore della Porsche è ubriaco da far schifo. Così il nostro Tom riesce a cavarsela.»

«Ne sei convinto?» urlò Tom. Si rimise in piedi. Si pulì il naso con la manica, rabbiosamente, senza preoccuparsi del dolore. «Pensi veramente che me la sia cavata?»

«Tu sei vivo, loro sono morti,» disse Henrickson. «I conti falli tu.»

Tom cominciò a muoversi, ma l’altro se ne accorse prima ancora che lui lo facesse. Con un movimento rapido la canna della pistola si piantò in mezzo alla fronte di Patrice.

«Farò in modo che tu la uccida e poi, quando avremo finito, ti lascerò libero,» disse Henrickson. «Non sei riuscito a ucciderti l’ultima volta. Dubito che avrai voglia di ritentare. Ti lascerò sbattere per un anno o due, e poi verrò a cercarti e porrò fine alle tue sofferenze. Forse. Oppure possiamo trovare questo essere, fotografarlo e lasciare che se ne torni da dove è venuto. Tutto andrà per il meglio. Tu otterrai gli onori che non si possono trovare nelle mutandine di una bella ragazza. Sarah potrebbe anche riprenderti con sé.»

«Come fai a sapere tutte queste cose?»

«Perché non è un essere umano,» disse la vecchia.

Henrickson rise brevemente. «Tom, hai intenzione di legarle queste cazzo di mani o cosa?»

Tom guardò Patrice. Un lato del viso della donna era rosso, ma i suoi occhi erano limpidi e fissi in quelli di lui.

«Non lo faccia,» disse. «Non per me, ma per loro.»

Ma lui distolse lo sguardo, e quando la matassa di corda lo colpì al petto, questa volta l’afferrò.

Capitolo ventiquattro

«Santo cielo, Ward, vuoi stare fermo?»

«Fa male. Sono abbastanza vecchio per potermi permettere di dire che fa un male fottuto.»

Ero seduto dal lato del passeggero e avevo i piedi fuori dalla macchina. Nina era all’esterno, accucciata, e stava tamponando la mia spalla con una garza imbevuta di disinfettante. Non avevo idea di dove fossimo, eccetto che ci trovavamo nel parcheggio di un distributore, appena fuori da una cittadina di cui non conoscevo il nome.

«È pulita,» disse. «Almeno credo.»

Guardai la spalla e vidi un taglio irregolare sul muscolo deltoide. Stava ancora sanguinando, ma un po’ meno di quanto avesse fatto per la maggior parte dei cento chilometri da Fresno. Ma comunque faceva male, nonostante avessi ingoiato una manciata degli antidolorifici più forti che eravamo riusciti a trovare nel supermercato dove avevamo comprato la garza e il disinfettante.

Nina mi stava guardando con l’espressione giovanile e preoccupata di chi sperava di aver fatto qualcosa di buono, ma anche di chi si augurava che non continuassi a lamentarmi ancora per molto. Mi resi conto che il graffio sulla mia spalla non era niente se paragonato al colpo che lei aveva preso a The Halls. Sapevo anche che avrei dovuto ringraziare il cielo che il proiettile non fosse penetrato venti centimetri più a destra, nella schiena.

«Grazie,» dissi. «Adesso mi fa molto meno male.»

«Non mentire,» disse. Si alzò e osservò al di là del tettuccio dell’auto la stazione di servizio, dove c’era un uomo con la barba. «Qualcuno ci sta osservando.»

«È solo un benzinaio curioso che si sta chiedendo se intendiamo fare rifornimento oppure no. È tutto a posto. Non tutti cercano noi.»

«Teoria affascinante,» disse. «Hai qualche prova?»

«Non proprio.»

«Che facciamo?»

«Devi chiamare qualcuno,» dissi. «Raccontargli di Monroe.»

«Lo sapranno già,» obiettò lei «Avrà senz’altro avuto un documento di riconoscimento addosso.»

«Non mi riferivo al fatto in sé, ma a ciò che è accaduto, e a quello che significa.»

«Non lo sappiamo,» disse. «Non per certo.»

«Sì che lo sappiamo.»

«Io non ho visto l’uomo che è uscito dal Knights e che ha ucciso il poliziotto. Posso solo basarmi sulle dichiarazioni dei testimoni.»

«Lo so, ma sembrava molto simile all’uomo che ha appena tentato di ucciderci. Anche nei vestiti.»

«È una descrizione molto sommaria. Probabilmente un qualunque impiegato di queste parti non sarebbe molto differente.»

«Non intendevo solo fisicamente. Mi riferisco a un tipo d’uomo capace di entrare in un ristorante e continuare a sparare in presenza di testimoni su tre persone che rispondono al fuoco. Non spaccare il capello in quattro. Non credo che in questo caso dobbiamo cercare due persone.»

«Allora, chi è? Tu hai di nuovo qualcosa in mente, e vorrei veramente che mi dicessi di cosa si tratta.»

«Non possiamo fare altro che continuare il viaggio,» dissi. «Non solo perché dobbiamo allontanarci il più possibile dal luogo del disastro. Ma anche perché c’è una donna che dobbiamo incontrare stanotte e la strada da fare è lunga.»

«Dov’è?»

«A nord. Prendimi la borsa. Ho l’indirizzo.»


Mrs. Campbell non era in casa.

Questa volta avevo telefonato in anticipo, molto prima che arrivassimo a San Francisco. Non ci fu nemmeno la risposta di una segreteria telefonica. È strano come ci si abitui in fretta all’idea che le case abbiano una memoria, che stabiliscano contatti con gli sconosciuti, e possano trasmettere un messaggio per te. Ma nel caso di quella casa non era così. Quindi decidemmo di recarci fin lì fisicamente. Nel frattempo Nina continuava a rifiutarsi di chiamare l’FBI a Los Angeles. Sicuramente dovevano già sapere quanto era accaduto a Monroe, oppure lo avrebbero saputo presto. In ogni caso lei non era più disposta a dar loro fiducia. Pensavo che questo atteggiamento fosse sbagliato, che la cosa più sensata da fare fosse quella di presentarci alle autorità e di dichiararci innocenti il più presto possibile. Anche se poteva darsi che nelle aule di giustizia girasse qualche persona strana questo non significava che il sistema giudiziario nel suo complesso fosse da buttare. Comunque non riuscii a convincerla e alla fine smettemmo di discuterne. Più tempo passavo con Nina e più avevo la sensazione che ci fossero in lei delle difese interne nelle quali sarebbe stato difficile o impossibile fare breccia.

Il dolore alla spalla rimaneva sopportabile fino a che continuavo a ingollare antidolorifici. Il problema fondamentale era che ora la spalla aveva cominciato a indurirsi. Mentre arrivavamo a San Francisco avevo l’impressione che fosse stata suturata da qualcuno che non si era preoccupato molto di capire cosa potesse accadere sotto la garza. Questo mi spinse a concentrare la mia attenzione sulla lettura della cartina, secondo quella che poteva costituire un’equa ripartizione degli incarichi. Nina guidava bene, anche se il suo senso dell’orientamento non era il massimo: le incongruenze dello spazio tridimensionale sembravano irritarla. Non avrei voluto vederla su un veicolo da combattimento Humwee. Credo che sarebbe stata capace di travolgere qualsiasi cosa si fosse trovata sul suo cammino.

«Perché ora?» disse alla fine. «Perché aspettare tre mesi? È vero, tu ti eri dato alla macchia ed era difficile rintracciarti, ma avrebbero potuto arrivare a me e a John immediatamente.»

«Credo che abbiano avuto bisogno di un periodo di riassestamento subito dopo la distruzione di The Halls.»

«Ma non potevano essere tutti lassù. Se sono potenti come crediamo, devono essere di più. Siamo sicuri che il tizio che abbiamo visto con Monroe fosse uno di loro?»

«Ne sono certo, e questo mi spaventa,» dissi.

«Spaventa anche me, ma questo rende ancora più difficile credere che non potessero ucciderci.»

«Sicuramente ci hanno provato stasera.»

«Sì, ma perché non prima?»

«Sei tu che lavori per l’FBI. Se tu finissi in un cassonetto della spazzatura, la cosa susciterebbe una serie di interrogativi. Riesco a immaginarmi Monroe trasformare la faccenda in una crociata.»

«Per il bene del dipartimento, naturalmente. Ma intanto io sarei morta comunque.»

«Queste persone hanno la vista lunga. La capanna che io e John abbiamo trovato a Yakima dimostra che compiono queste azioni da molto tempo. La loro intenzione era di farci sbattere un po’, su terreni dove non costituivamo un reale pericolo, per poi eliminarci alla prima buona occasione. Poi la situazione è precipitata, immediatamente dopo che John ha fatto fuori quel Ferillo. È come se avesse impugnato un grosso bastone e lo avesse ficcato nel loro nido. È evidente che dopo il rapimento di sua figlia, gli avevano messo alle calcagna qualcuno, e che lo hanno ripreso mentre usciva dall’abitazione di DeLong. È evidente che avessero deciso di lasciarlo fare, forse DeLong era pronto per il pensionamento, ma a quel punto John aveva fatto qualcosa di abbastanza grave perché loro decidessero di fare piazza pulita. È John la chiave di tutto.»

«Se non si fa sentire a breve lo ucciderò io con le mie mani.»

«Tranquilla,» disse. «Ti darò una mano.»

Quando fummo nelle vicinanze della casa erano da poco passare le nove. Telefonai di nuovo, ma non ci fu risposta. O la donna non rispondeva alle telefonate per motivi suoi, oppure non era in casa. La prima ipotesi non aveva molto senso, la seconda mi preoccupava.

Nina parcheggiò all’esterno di un edificio che aveva una sola luce accesa, sopra la porta. Uscimmo e osservammo l’abitazione.

«In casa non c’è nessuno, Ward.»

«Non è detto.»

Salii gli scalini e suonai il campanello. Si sentì il suono metallico all’interno, ma non si accese nessuna luce e nessuno venne ad aprire.

«Non mi dice niente di buono,» dissi. «Le persone anziane non escono molto. Sono sempre in casa.»

«Forse dovremmo parlare con i vicini.»

Diedi un’occhiata a come eravamo conciati: la camicia di Nina aveva una vistosa macchia di sangue. La manica della mia giacca si reggeva solo in virtù di qualche filo e alla luce dell’illuminazione stradale aveva un aspetto scuro e sudicio. «Già, è proprio una bella idea.»

«Non hai tutti i torti,» disse. «Allora cosa facciamo?»

Tirai fuori la mia carta di credito ormai inutilizzabile, ma che non avevo avuto il coraggio di buttare via.

«Oh, fantastico,» disse Nina.

Si voltò a osservare le finestre dei vicini mentre io facevo scivolare la carta tra lo stipite e il battente della porta di Mrs. Campbell.

Qualche minuto dopo avemmo la certezza che la donna non era in casa. Mi ero quasi rassegnato all’idea di trovarla con un’ascia piantata in testa. In ogni caso, le stanze erano vuote e in ordine.

«Evidentemente è uscita,» disse Nina. «Forse ha solo più vita sociale di te.»

Ci sedemmo e restammo ad aspettare fino alle nove e mezzo. Poi io mi alzai per dare un’occhiata in giro, mentre Nina rimase seduta ancora un po’. Alla fine mi ritrovai nel corridoio, dove notai qualcosa che non vedevo da diverso tempo: un tavolino per il telefono. Uno di quegli elementi di arredamento pensati per ospitare l’apparecchio telefonico, in un’epoca in cui la possibilità di parlare con persone lontane era ancora considerata una gran cosa. Vicino al telefono c’era un piccolo libriccino con una copertina dai motivi floreali.

Era un’agenda telefonica. La presi e andai alla lettera D. Non riconobbi nessun nome. Poi, rendendomi conto che probabilmente io avrei fatto la stessa cosa, guardai sotto la lettera M, e trovai quello che cercavo.

Sollevai la cornetta e composi il numero. Era tardi. Mrs. Campbell aveva detto che Muriel aveva dei bambini, ma non avevo idea della loro età. Probabilmente mi sarei preso una dose di insulti anche se avesse risposto lei.

«Casa Dupree.»

«Muriel?»

«Chi parla?»

«Mi chiamo Ward Hopkins. Ci siamo incontrati…»

«Mi ricordo. Come ha fatto ad avere il mio numero?»

«Sono a casa di Mrs. Campbell. È nella sua rubrica.»

«Che diavolo ci fa lì?»

«Ho urgente bisogno di parlare con lei. Sono venuto da Mrs. Campbell, ma non era in casa. Mi sono preoccupato e ho pensato che fosse meglio controllare l’interno.»

«Perché preoccuparsi? È a conoscenza di qualcosa che io non so?»

«Muriel, mi dica solo questo: dov’è?»

Ci fu una pausa e poi disse: «Aspetti lì.»

I rumori del telefono si attutirono. La sentii parlottare con qualcuno, ma non riuscii a distinguere una sola parola. Poi la sua voce tornò chiara. «Ha detto che è disposta a parlarle,» disse Muriel, facendo capire di non essere d’accordo. «Farebbe meglio a raggiungerci.»


Ci vollero venti minuti per attraversare la città. Muriel Dupree non mi diede affatto il benvenuto quando venne ad aprire la porta, ma alla fine mi fece entrare. Lanciò uno sguardo sospettoso verso Nina.

«Lei chi è?»

«Un’amica,» risposi.

«Lo sa di avere del sangue sulla camicia?»

«Sì,» disse Nina. «È stata una lunga giornata. Anche Ward ne ha sulla sua.»

«Lui è un uomo, la cosa è diversa.»

La casa di Mrs. Dupree era ordinata, ariosa e una delle meglio arredate che avessi visto da un po’ di tempo a quella parte. Era l’ambiente di vita semplice e sobrio di qualcuno che conduceva un’esistenza ordinaria e che ne era soddisfatto. Ci condusse sul retro dove un’ampia cucina sfociava in un salotto. Mrs. Campbell era su una sedia accanto al camino elettrico. Aveva un’aria più fragile di quanto ricordassi.

«Se mi è permesso chiederlo,» dissi, «cosa ci fa qui?»

«C’è un motivo per cui non dovrebbe?»

Guardai Muriel e compresi che Mrs. Campbell significava molto per lei. E che l’atteggiamento infastidito di prima nascondeva qualcos’altro. Preoccupazione sicuramente. Forse paura.

Mi sedetti all’estremità del divano. «Mrs. Campbell,» dissi, «c’è qualcosa che devo chiederle…»

«Lo so,» disse. «Quindi perché non va avanti.»

«… ma perché è qui?»

«Stavano succedendo cose strane,» disse Muriel. «Jean continuava a sentire strani rumori notturni intorno alla casa. Non è un mistero, tenuto conto del posto dove vive. Ma a un certo punto si è presentato alla sua porta un uomo che le ha fatto un sacco di domande.»

«Quando è successo?»

«Il giorno dopo che lei venne a trovarmi,» disse Mrs. Campbell. «È tutto a posto Muriel, gli parlerò io.»

«Che aspetto aveva quell’uomo?»

«Era alto come lei, forse un po’ più largo di spalle.»

Guardai Nina. «Era John. O almeno così spero. È un detective. Deve essere riuscito a trovare un vecchio elenco di impiegati.»

«Sapeva che avevo lavorato lì, questo è certo. Non ero in grado, però, di rispondere alle sue domande. Così se ne andò. Con me è stato educato, anche se non mi è sembrato il tipo d’uomo che tratta tutti così.»

«Che cosa le ha chiesto?»

«Le stesse cose che mi sta per chiedere lei, solo che ora ho le risposte.»

«Quando avevamo parlato la volta scorsa, lei mi ha raccontato di una famiglia che aveva preso in affidamento Paul. Quella in cui la donna aveva un cane che morì in circostanze poco chiare.»

«Mi ricordo.»

«Si chiamavano Jones?»

La testa di Nina si girò di scattò verso di me.

«No,» rispose Mrs. Campbell. «Wallace. I Jones erano l’altra famiglia, quella che lo riportò indietro quando ebbero una bambina.»

Mi vennero le vertigini. «Come fa a ricordarselo ora?»

«Mi ha fatto fare delle ricerche,» disse Muriel quasi sottovoce. «Dopo che lei se ne andò, Jean mi chiamò. Inizialmente credevo che mi avrebbe rimproverato per averla messa in contatto con lei. Ma non fu così.»

«Chiesi a Muriel di fare una piccola indagine per conto mio,» disse l’anziana donna. «Rintracciare un paio di vecchie colleghe, gente che allora lavorava lì. Ne trovai una in Florida, che naturalmente si crogiolava al sole in mezzo agli alligatori, e un’altra nel Maine. Quest’ultima si era trasferita lì per stare vicino alla famiglia, anche se poi i figli morirono prima di lei. Così è la vita. Con tre archivi di ricordi, siamo riusciti a ricostruire i fatti.» Si morse il labbro. «Allora, mi dice cosa è successo?»

«Paul ha ucciso due donne,» dissi. «Jessica Jones è stata trovata morta in un motel cinque giorni fa a Los Angeles. Katelyn Wallace, ieri mattina.»

«Dove?»

«A nord. A est di Seattle. Le ha uccise e ha lasciato degli hard disk nei loro corpi, come se con questa macabra messa in scena avesse voluto cancellare il passato, ripulire una vita, forse anche attuare una sorta di purificazione.»

«Oh, mio Dio,» disse l’anziana donna. Le tremavano le mani. Muriel si allungò e protese una mano sopra le sue.

«Jessica e Katelyn erano le figlie dei genitori adottivi di Paul?» chiese Nina. «Le ha uccise solo per questo?»

«Erano famiglie che avevano tentato di prenderlo con loro per sempre, cercando di offrirgli una vera casa. Ma qualcosa della sua personalità aveva reso impossibile la cosa, credo. Evidentemente ha bisogno di addossare la colpa a qualcuno. Sta ripulendo il suo hard disk. Lui… Mrs. Campbell, ha idea di dove viva ora la famiglia di Katelyn Wallace?»

«Sono morti,» disse Muriel. «Per cause naturali, cinque anni fa. Be’, in un certo senso, naturali. La natura c’entra comunque. Erano su una barca che affondò al largo della baia. Nessuno ebbe mai a dubitare dell’accidentalità della cosa.»

«E i Jones?»

«Di loro non so nulla.»

«Il dipartimento di polizia di Los Angeles ha mandato degli agenti a cercarli a Monterey,» disse Nina. «Te l’avevo detto. Avevano un indirizzo, ma in casa non c’era nessuno. I vicini dissero che non li vedevano da sei settimane. È stata avanzata l’ipotesi che fossero in vacanza.»

«Forse lo sono,» dissi, ma stavo pensando a due persone, più o meno della stessa età, i cui corpi avevo visto su un pianoro isolato e solitario a quasi mille chilometri di distanza da dove mi trovavo seduto in quel momento. Persone che John aveva fotografato e che forse — se aveva compiuto dei progressi in un’indagine che aveva deciso di mantenere segreta — era stato in grado di identificare. Non potevo dire nulla di certo. Era ugualmente possibile che John si trovasse realmente in Florida, che avesse parlato con un’altra amica di Mrs. Campbell e ricostruito la storia in questo modo.

Nina mi osservava. «Come facevi a saperlo, Ward?»

«Non lo sapevo,» dissi distrattamente. «Mi sono semplicemente chiesto perché l’assassino aveva preso una foto dei genitori di Jessica. Se hai intenzione di prenderti un souvenir, un talismano, in genere prendi qualcosa di più personale. Che so, una parte del corpo, un brandello di vestito. In questo caso invece, si è accontentato di una foto che non era nemmeno della vittima. Monroe disse che qualche mese prima c’era stato un tentativo di localizzare Jessica; non suona più come un tentativo di mettersi sulle tracce di qualcuno in particolare, piuttosto che il modus operandi di un serial killer? E se accettiamo l’ipotesi che la persona che ha ucciso Jessica non sia la stessa che ha ucciso il poliziotto, qual era il movente di quest’ultimo gesto? L’unica possibilità poteva essere quella di un tentativo di attirare l’attenzione sull’assassino di Jessica. Se c’è una ragazza morta in un motel pulcioso, i poliziotti dedicheranno al caso solo il tempo strettamente necessario, anche se è carina e ha un hard disk infilato in bocca. Ma se a tutto questo aggiungiamo un poliziotto ucciso in pieno giorno, allora, d’improvviso, ti ritrovi con una task force al completo, e un tenente della Omicidi e un agente speciale dell’EBI che fanno a gara per avere l’esclusiva dell’indagine — con l’agente, in particolare, che è già stato avvisato con una soffiata.»

«Ma cosa ci dice che è stato l’Homo Erectus a uccidere Jessica?»

«Nina, ma quanto tempo ti serve per capire? Hai appena sentito Mrs. Campbell confermare che l’unica connessione possibile tra quelle due donne uccise nella stessa maniera è Paul.»

«Ma come facevi a saperlo prima di venire qui?»

«Non lo sapevo. Solo che… Da quando quel tizio ha cercato di ucciderci a Fresno — e sembrava plausibile che fosse lo stesso uomo di Los Angeles — quale altra spiegazione potresti darmi?»

«Più o meno un milione di altre spiegazioni, Ward. Ammettiamo che il cecchino lavori per gli Uomini di Paglia. Forse. Ammettiamo che stia cercando di attirare l’attenzione su un omicidio. Forse. Ma partendo da quest’unico punto fermo, come fai ad arrivare a concludere che tuo fratello è un assassino? Come può essere l’unica soluzione?»

Non capivo dove Nina volesse andare a parare. «Perché… Perché credo che se stanno cercando di incastrare qualcuno, deve trattarsi di qualcuno a cui loro non possono arrivare da soli. Deve essere qualcuno che è talmente pericoloso, incontrollabile e fuori dai normali schemi comportamentali, che possono cercare di sbarazzarsene solo con l’aiuto diretto della legge.»

«Ma perché lo vogliono incastrare? Lui è uno di loro. Gli ha fornito individui da uccidere e li ha aiutati a far saltare dei palazzi e a organizzare carneficine. Perché…»

«Perché ha compiuto delle azioni — uccidere i miei genitori, rapire la figlia di Zandt — che hanno provocato l’irruzione sulla scena di quattro persone che hanno cominciato a dare loro la caccia armi alla mano. Ha fatto uccidere il loro legale. Ha fatto saltare il loro nido multimilionario in montagna. E chissà cos’altro progetta di fare. Se Paul ti bracca, o se lo pungi sul vivo, puoi essere sicura che te ne accorgerai!»

Improvvisamene mi resi conto che le due donne ci stavano osservando e che Nina e io non avevamo fatto altro che urlare. Tentai di abbassare il tono della voce. «Nina, non vedo quale sia il problema. Hai appena sentito che…»

«Ward, Dio santo, ma l’uomo che hai descritto potrebbe anche essere John.»

La fissai, improvvisamente senza fiato. «Che cosa vuoi dire?»

«Chi è che gli Uomini di Paglia vogliono togliere di mezzo? John. Chi è incriminato dal video che ci hanno messo a disposizione? John. Chi ha ucciso un uomo che poteva avere a che fare con loro? John. Ma se le cose stanno così, chi ci dice che non sia stato John a uccidere quelle donne?»

«Perché… Per quale motivo al mondo avrebbe dovuto farlo?»

«Facevano parte della vita dell’Homo Erectus. Tu sai cosa gli ha fatto tuo fratello. Gli ha portato via Karen. L’ha uccisa, ma non l’ha fatto in fretta. L’ha rapita e ha fornito la prova che era morta solo quando ha sistemato le sue ossa su un sentiero destinato a condurre John verso la trappola, dove lui intendeva ucciderlo. Tuo fratello ha preso la vita di John e l’ha distrutta. Fino a che punto pensi che si spingerà John per ottenere la sua vendetta?»

Aprii la bocca e poi la richiusi.

Nina si alzò. Era furiosa, più arrabbiata di qualsiasi persona avessi mai visto.

«Vaffanculo, Ward. Ti aspetterò in macchina.»

Uscì dalla casa sbattendo la porta. Mi rivolsi alle due donne che mi stavano osservando come gatti curiosi.

«Grazie,» dissi. «Ora devo andare.» Udii la voce di un bambino al piano di sopra.

«Oh, cavolo,» disse Muriel. «Si preannuncia una notte in bianco.»

Fu quando raggiunsi la porta che Mrs. Campbell parlò. «È curioso, lei non mi ha mai chiesto quello che pensavo avrebbe voluto sapere.»

Mi voltai. «Di cosa sta parlando?»

«Non so nulla sul modo di catturare le persone,» disse, «ma ero convinta che lei avrebbe voluto sapere quale fu la sistemazione finale di Paul.»

«Quando?» domandai senza la minima idea di cosa stesse dicendo e aspettandomi di sentire il rumore di Nina che se ne andava in macchina.

«A quel tempo. Chi era la famiglia che lo ha cresciuto,» disse. «La mia amica che vive in Florida era la responsabile dell’affidamento. Mi ha detto che la famiglia si era trasferita a Washington perché la madre della donna stava diventando vecchia e sempre meno indipendente. L’ultima volta che Dianne ebbe loro notizie, fu un anno dopo il trasloco. L’uomo se n’era andato via con una ragazza conosciuta in un locale.»

«Si è ricordata del loro nome?»

«Sì. Se lo ricordava perché assomiglia a quello di un chitarrista rock molto famoso qualche anno prima. A quei tempo Dianne era patita di quella musica. Il nome era un po’ diverso, comunque.»

Scossi la testa. «Qual è questo nome?»

«Si chiamavano Henrickson,» disse. «Vivevano in un posto chiamato Snowcalm o qualcosa del genere, vicino alle Cascades.»


Nina guidò fino all’aeroporto mantenendo un cupo silenzio tombale. Cercai di parlarle ma era come un guidatore fantasma intrappolato in un punto del passato. Quindi nessuno aprì bocca e io mi misi a pensare a John Zandt e a quello che era o non era in grado di fare. Ricordavo anche una cosa che disse quando ci incontrammo fuori dall’hotel a San Francisco, qualcosa che in quel momento non mi era sembrato avere molto senso: «A volte bisogna ripercorrere un lungo cammino per fare quello che va fatto.»

Ora riuscivo a trovare un significato.

Nina parcheggiò e uscimmo. Si diresse spedita alle scale e io la seguii arrancando con la mia borsa.

«Nina,» dissi ad alta voce. La mia voce rimbalzò contro il cemento e mi ritornò piatta e monotona.

Lei si voltò e mi colpì al volto. Mi colse così di sorpresa che barcollai indietro. Mi si avvicinò schiaffeggiandomi ripetutamente, urlando qualcosa che non riuscii a capire.

Cercai di sollevare la mano sinistra per provare a ripararmi, ma il dolore alla spalla fu sufficiente a rendere il movimento goffo e incompleto. Mi resi conto che lei se ne era accorta, e si preparava a colpirmi ancora — proprio sulla spalla — ma poi all’ultimo momento rinunciò.

Invece, mi fulminò con lo sguardo, con occhi così verdi e brillanti che mi sembrava di non averli mai visti prima.

«Non lo fare mai più!» urlò. «Non nascondermi mai più nulla.»

«Nina, non sapevo se…»

«Non mi interessa. Non lo fare e basta. Non trattarmi come se quello che decidi di dirmi debba essere sufficiente per me, come se io fossi una fottuta… pollastrella che prende ciò che viene. John lo ha fatto e se mai lo rivedrò gli spaccherò quel suo naso del cazzo.»

«Okay, ma non te la prendere…»

«… col povero Ward? In due giorni mi hanno sospeso dal servizio, il mio ex ha cominciato a uccidere delle persone, Dio sa quante, ho perso il mio più vecchio amico, ho visto il mio capo colpito a morte davanti ai miei occhi, e ho ancora il suo sangue su tutta la camicia, come la gente continua a farmi notare. Perciò non osare…»

Smise di urlare, batté le palpebre due volte, rapidamente, e mi resi conto che i suoi occhi apparivano più chiari non solo perché ero più vicino, ma anche perché erano pieni di lacrime. Corsi il rischio e le misi una mano sulla spalla. Lei la scrollò con cattiveria, e improvvisamente i suoi occhi tornarono asciutti.

«Nina mi dispiace. Ascolta… non sono abituato a dover dire le cose. Ho passato tre mesi nel silenzio più assoluto e anche prima non brillavo molto per la mia capacità di socializzazione. In tutta la mia vita ho sempre fatto affidamento sul conforto degli estranei, del servizio in camera e dei baristi. Non sono abituato ad avere qualcuno accanto a me che mi ascolti e a cui interessi qualcosa di quello che dico.»

«Non sto dicendo che mi interessi. Ti sto dicendo di non mentirmi. Non mi nascondere le cose, mai.»

«Okay,» dissi. «Ricevuto.» Avevo anche capito, o perlomeno così credevo, che John l’aveva ferita profondamente. In quel momento io ero il suo surrogato. Considerato il livello di rabbia che lei mostrava, pensai che John fosse fortunato a essere altrove.

Si allontanò da me di un passo e si mise le mani sui fianchi. Poi guardò altrove sbuffando. «Ti ho fatto male alla spalla?»

«È il minore dei problemi,» dissi. «Comunque, mi sento come se avessi sbattuto con la faccia contro un muro. Quando schiaffeggi qualcuno, se lo ricorda.»

Tornò a guardarmi con la testa inclinata. «Bene, ora conosci questa mia dote. Quindi non costrigermi a rifarlo.»

«Proverò.»

«Non basta che provi, chiunque può farlo. Io ho bisogno che tu faccia di più.»

«Okay,» dissi seriamente. «Fidati di me, non lo rifarò.»

«Bene,» disse, e si lasciò andare in un sorriso che fu più breve di un battito d’ali, ma mi fece lo stesso venire i brividi. «Perché ricordati — ho anche una pistola.»

Si voltò di scatto e cominciò a salire le scale.

«Cristo,» dissi. «Non sei per niente come le altre donne.»

«Oh, sì che lo sono,» disse, e non riuscivo a capire se in quel momento stesse scherzando o no. «Solo che voi uomini non ne avete alcuna idea.»


Riuscimmo a prendere l’ultimo volo per Seattle. Il tempo di arrivare e trovare una macchina a noleggio ed era già mezzanotte. Con l’ausilio di una cartina e di due hamburger presi a uno Spinner’s di Tracoma, eravamo pronti ad affrontare il viaggio, sebbene nessuno di noi due fosse nella sua forma migliore.

Guidavo io, cercando di evitare che il dolore al braccio si riacutizzasse e lasciando così Nina libera di fare quello che avevamo concordato sull’aereo. Era ancora decisa a non chiamare l’FBI — per quanto ne sapeva, l’uomo che l’aveva interrogata insieme a Monroe nella sala riunioni poteva essere ancora in città e sulle sue tracce — ma c’era una persona con la quale era pronta a tentare.

Chiamò Doug Olbrich e parlarono per cinque minuti. Io ero abbastanza indaffarato con la rete autostradale della Seattle-Tracoma, e non capii esattamente quello che si dissero, ma almeno parte del colloquio sembrò positivo.

Quando terminò, Nina rimase per un po’ a fissare il vuoto, poi batté con la mano sul cruscotto come aveva fatto il giorno prima, anche se questa volta non sembrava così incazzata.

«Qual è il risultato?»

«Poteva andare peggio,» disse. «Monroe non è morto.»

«Stai scherzando.»

«No. Quello stronzo è ancora vivo. Incredibile. Evidentemente ha la pellaccia molto più dura di quanto pensassi. Ha cinque fori di proiettile in corpo ed è stato sotto i ferri sei ore. Sta molto male, comunque. Dicono che al massimo ha il venti per cento di probabilità di salvarsi, ma non è ancora morto.»

Mi sentivo orribilmente colpevole per aver abbandonato Monroe, per averlo dato per spacciato.

«Hai fatto bene a portarmi via,» disse Nina. «Se non l’avessi fatto, probabilmente ora non sarei viva.»

«Ho come la sensazione che le cattive notizie non siano finite.»

«Doug è andato al mio appartamento per cercarmi. Qualcuno l’ha messo sottosopra e ha rubato i miei documenti.» Scrollò le spalle e sembrò esausta più che triste. «Avevi ragione, Ward. Era giunto il momento di andarsene.»

«Mi dispiace.»

«Non importa,» disse sbrigativamente. «Il caso Gary Johnson comincia a scottare. Hanno scoperto che attorno a questo avvocato della Louisiana ruotano un sacco di soldi e un forte vento in poppa.»

«Ma tu guarda. Mi domando da dove arriva.»

«Già. Monroe è nei casini anche se sopravvive. Sai come vanno queste cose: quando qualcuno solleva un macigno di queste dimensioni, deve trovare qualcosa sotto per giustificare quel gesto. Io so di non aver omesso nulla nel caso Johnson, ma chi ci dice che Monroe non abbia preso qualche scorciatoia? Voleva risolvere il caso. È così che è diventato agente speciale.»

Smise di parlare e rimase in silenzio per un po’. La lasciai stare fino a che non arrivammo sani e salvi sulla 18, con la 90 in vista.

«Non gli hai detto cosa abbiamo scoperto,» dissi, accendendomi una sigaretta.

«Cosa crediamo di avere scoperto.»

«Come vuoi, ma non gliel’hai detto.»

«No,» disse piano. «Questo mi rende forse una persona cattiva?»

Scoppiai a ridere, ma poi mi accorsi che lei non faceva lo stesso. La guardai per un attimo pensando quanto fosse difficile conoscerla a fondo. «Agli occhi della legge, sì. È un po’ come nascondere una prova. Può portarti dritto all’ergastolo.»

Annuì, ma non disse nulla.

«Dai, Nina,» dissi. «L’accordo vale per entrambi.»

«Lo so. A lui non ho detto nulla perché non credo che ci sia qualcuno oltre noi che ha davvero intenzione di andare dove è necessario.»

«E dove sarebbe?»

«C’è un posto per gli uomini che infilano oggetti nelle teste delle donne e non è una prigione.»

«Non dirai sul serio?»

«In questo preciso momento, sì. Anche se si tratta di John. E non ho detto nulla a Doug perché ha fatto cenno di sfuggita a qualcosa, e dopo non mi sembrava…» Si voltò verso di me e finalmente sorrise. «Ce la fai a guidare ancora un po’?»

«Credo di sì.»

«Hai presente la macchina di cui ci ha parlato Monroe, quella che era stata vista passare per Snoqualmie la notte prima del ritrovamento di Katelyn?»

«Sì, e allora?»

«Tre ore fa uno sceriffo locale ha fatto una verifica. Non ha portato a nulla perché è a noleggio e non era stata rubata, ma Doug ha registrato la posizione e ha detto che qualcuno, domani, potrebbe andare a dare un’occhiata. La segnalazione è arrivata da un posto a un centinaio di chilometri da Snoqualmie. Penso che dovremmo arrivare lì per primi.»

«Quindi dove siamo diretti esattamente?»

Guardò velocemente sulla cartina, poi posò il dito su un punto che sembrava proprio in mezzo alle montagne.

«Qui. A Sheffer.»


Verso l’una di notte Nina si addormentò con la testa reclinata, ma con le braccia incrociate sul davanti. Ascoltavo il suo respiro mentre mi dirigevo a est lungo la 90. Il paesaggio era troppo scuro per distinguerlo chiaramente, ma un qualche organo interno di rivelazione registrava un costante aumento di altitudine. Ogni tanto incrociavamo una macchina, un viaggiatore alle prese con un’altra avventura.

Salimmo ancora e io rallentai a settanta chilometri all’ora, e poi a sessanta quando la strada divenne più tortuosa. Stava diventando molto freddo e c’erano anche fantasmi di nebbia tra gli alberi che incombevano sulla strada, illuminati dai fari al sodio e da una luna che sembrava giocare a rimpiattino con le nuvole. A un certo punto accostai per capire meglio dove eravamo diretti. Nina si mosse senza però svegliarsi, e io rimisi in moto la macchina il più dolcemente possibile.

Al termine della salita imboccai una strada locale più stretta che indicava Sheffer a quindici chilometri di distanza. Se prima avevo percepito le montagne e gli alberi solo come uno sfondo, ora cominciavo a sentirmi un intruso in mezzo a loro.

Sheffer era piccola. Erano le tre meno un quarto del mattino, e tutto era chiuso. Percorsi la strada principale, sentendomi come un invasore alieno che aveva scelto il momento giusto per fare la sua mossa. Passai davanti a un supermercato, a un bar e a un paio di ristoranti. Poi, in lontananza, vidi finalmente l’indicazione di un motel.

Entrai nel piazzale compiendo un arco lento e ampio per parcheggiare. Nell’ufficio non c’erano luci accese. Eravamo fuori stagione e in una città piccola, e non sembrava nemmeno esserci il campanello per la chiamata notturna. Si preannunciavano un paio di ore di freddo rigido passate sul sedile della macchina.

Spensi il motore e aprii la portiera, scivolando fuori prima che nell’abitacolo entrasse troppo freddo. La mia intenzione era di fumare un’ultima sigaretta prima di tentare di prendere sonno.

Mentre ero in piedi e aspiravo il fumo, mi accorsi improvvisamente che nel parcheggio sull’altro lato c’erano quattro macchine, come accade regolarmente in tutti i motel. Ma a noi ne interessava una in particolare.

Non sapevo che numero di targa stessimo cercando. Nina non me lo aveva detto e in ogni caso non me lo sarei ricordato. E poi, sarebbe stata veramente parcheggiata lì, davanti a un motel?

Mi avvicinai alla prima macchina e sbirciai dal finestrino. Il sedile posteriore era pieno di roba da vacanzieri: giacconi, mappe di sentieri, e una quantità di oggetti colorati pensati per prevenire le domande tipo: «Quanto manca all’arrivo?»

L’auto successiva era a circa dieci metri. Faceva molto freddo e avevo finito la sigaretta. Fui tentato di lasciar perdere, ma poi finii per avvicinarmi. Non sembrava il tipo di macchina che uno prende a noleggio. Era enorme, arrugginita e coperta di fango, ma mi protesi comunque per dare un’occhiata.

Sentii un rumore smorzato di passi proprio all’ultimo istante e feci per voltarmi.

Poi la mia testa si riempì di stelle che rapidamente lasciarono posto al buio.

Capitolo venticinque

Qualcosa di rosso, come un faro nel bel mezzo della notte. Un rumore lieve, come lo sciabordio del mare su una spiaggia, il tipo di rumore che il mondo produce quando crede che non ci sia nessuno ad ascoltare. Un rilassamento sonnacchioso, prima che comparissero due tipi di dolore, come due lunghe viti che venivano serrate: il dolore alla spalla e quello alla nuca.

Sollevai la testa e aprii di più gli occhi. Capii che la luce rossa proveniva da una sveglia. Mi ci volle qualche secondo per distinguere bene i numeri. Dicevano che erano da poco passate le cinque del mattino. La stanza era immersa in quel tipico silenzio tombale che ti fa pensare di poter sentire il rumore della moquette. L’odore era quello di un motel.

Apparentemente ero accasciato su una sedia, piegato in due. Avevo la sensazione che la mia testa fosse ancora immersa nell’etere, mentre i pensieri si facevano strada barcollanti come bambini troppo intraprendenti. Cercai di sedermi in modo corretto, ma senza risultato. Questo fatto mi inquietò, ma solo prima che mi rendessi conto che avevo le mani e i piedi legati alle gambe anteriori della sedia. Anche questo mi allarmò, ma in modo diverso.

Smisi di provare a muovermi e girai invece la testa. Un dolore lancinante partì dalla tempia e arrivò alla spalla, e l’unica cosa che riuscii a fare fu tentare di non urlare. Probabilmente non c’era nessuna ragione perché io mi trattenessi, se non il fatto che quando ti ritrovi legato a una sedia in una stanza buia tendi a non voler attirare ancora più attenzione di quella ricevuta.

Aspettai qualche istante, mentre le piccole luci che i miei occhi vedevano scomparivano lentamente. Poi riprovai, ma questa volta più lentamente. La stanza era buia, immersa in un’oscurità che si può trovare solo a molta distanza dalle luci cittadine. C’era comunque sufficiente luce perché il mio cuore sobbalzasse alla vista di qualcuno in piedi, vicino alla finestra.

Le mie labbra si schiusero con un rumore impercettibile, ma non pronunciai parola. Forse non potevo. Raddrizzai la testa e spalancai gli occhi, ma mi resi conto che la sagoma vicino alla finestra non era in piedi, ma seduta, con le gambe incrociate sulla scrivania.

Finalmente riuscii a parlare. «Paul?»

«Naturalmente no,» rispose subito una voce. «Credi che saresti ancora vivo in quel caso?»

In quel momento abbandonai immediatamente ogni speranza. Non avevo la minima idea di come avesse fatto a trovarci l’uomo del ristorante di Fresno, ma sapevo che non sarei riuscito a salvarmi una seconda volta. Almeno, non legato a una sedia. Mi domandai dove fosse Nina e sperai che fosse viva, o, in caso contrario, di non venire a saperlo.

Poi sentii un fruscio e realizzai che era lo stesso che avevo udito mentre mi sforzavo di riprendere conoscenza.

Era originato dallo spesso cappotto dell’uomo che si era alzato dal suo posto.

Percorse i quattro metri che ci dividevano e si fermò un secondo a guardare. Poi si abbassò per avvicinare il suo viso al mio.

«Ciao Ward.»

«Stronzo.»

Era John Zandt.


Era seduto sul bordo del letto, rivolto verso di me, ma senza accennare al rninimo gesto per slegarmi.

«Dov’è Nina?»

«Nell’altra stanza, legata come te, e c’è il cartellino ‘Non disturbare’ sulla porta.»

«Quando si sveglierà comincerà a urlare così forte che neanche te lo immagini.»

«Imbavagliata com’è, ne dubito. E se tu provi a respirare più profondamente ti colpirò così forte che non ti sveglierai per una settimana, ammesso che ti risvegli.»

«Cosa credi di fare John? Cosa c’è che non va?»

«Nulla,» rispose. «Sto semplicemente evitando che mandiate tutto a puttane.»

«Mandare a puttane cosa? La tua furia omicida?»

«Chi credi che abbia ucciso?»

«Peter Ferillo per cominciare.»

Respirò forte dal naso. «Sì l’ho ucciso, è vero.»

«E chi altri?»

«Perché pensi che ci sia qualcun altro?»

«Altrimenti perché domandarlo? Hai ucciso tu le due donne? Hai ucciso tu Jessica e Katelyn per arrivare a Paul?»

«Smettila di chiamarlo così. Non è degno di avere un nome.»

«Ce l’ha, devi abituarti all’idea. Le hai uccise o no?»

«Pensi davvero che potrei uccidere una donna?»

«Che differenza fa? Perché, uccidere un uomo è lecito? Se cominci a fare distinzioni del genere allora non c’è molta differenza fra te e Paul. Hai colpito la ragazza che era con Ferillo abbastanza forte da causarle una commozione cerebrale. Come lo inquadri nel tuo nuovo decalogo di moralità?»

«Non era previsto. Sapevo cosa avrei dovuto fare per far parlare Ferillo, ma ero semplicemente troppo ubriaco. L’ho lasciata dove poteva essere trovata facilmente.»

«Sei un gentiluomo. E una volta che ha confessato, quell’uomo non poteva fare altro che morire, giusto?»

«Sì. Quando scoprii che mentre si trovava a Los Angeles aveva aiutato a organizzare il trasporto delle ragazzine agli assassini. Forse era convinto semplicemente che dovessero essere istruite per fare le puttane — è così che si è giustificato. Ma sai una cosa? Per me già quello bastava.»

Dall’espressione del suo volto, capii che John non aveva nessuna intenzione di rimettere in discussione l’omicidio di Ferillo. «Per l’amor di Dio, John, slegami.»

Scosse la testa. «Non ci sperare. Ti metteresti in mezzo e non sei all’altezza.»

«Vaffanculo.»

Tutt’a un tratto mi ritrovai il suo dito puntato in faccia. «Non eri tu l’ultima volta? Con quel tuo colpo preciso? ‘Mi dispiace, l’ho mancato.’ Hai forse ucciso l’uomo che ha fatto a pezzi mia figlia quando te lo sei trovato di fronte?»

Non potevo ribattere. Sapevo che aveva ragione. «È qui, vero?»

«Sì,» rispose John. «Sta cercando qualcosa perché è convinto che in questo modo tutto si sistemerà.»

«È impazzito, vero? Non è più lo psicopatico al servizio dei cattivi. Lo hanno accantonato e ora lo vogliono morto.»

«Devo ammettere che non sei stupido.»

«Devi dirmelo, John. Ho il diritto di saperlo. E liberami, oppure dammi da bere. Sto congelando qui dentro.»

Andò in bagno. Sentii rumoreggiare nell’oscurità, poi John riapparve con un piccolo bicchiere con due dita di un liquido ambrato dentro. Aprii la bocca e mi fece bere. Cominciai a tossire, ma il calore si diffuse nel mio petto.

Indietreggiò, andando verso la finestra, e rimase a guardare per un po’ il parcheggio.

«Non è in questo motel?»

«C’è stato, insieme a un tizio con il quale va in giro. Sono arrivato a metà serata e non c’era più,-ma è ancora da queste parti.»

«Come fai a saperlo?»

«Perché è pazzo. Pensa di avere per le mani una bacchetta magica che trasformerà il mondo a sua immagine.»

«Cosa intendi dire?»

Scosse la testa. «Non ci crederesti.»

«Sai che le donne uccise provenivano dalle famiglie adottive cui Paul era stato affidato da piccolo?»

«Sì. Ho rintracciato le persone che avevano lavorato al suo caso. Ho parlato con l’anziana donna di San Francisco, e ho fatto due più due.»

«Perché Ferillo?»

«Era un elemento di facciata per gli Uomini di Paglia, uno dei tanti di cui dispongono nel paese. Anni fa fecero in modo che riuscisse a evitare un processo. Credo che non abbia mai avuto idea delle loro attività, ma lui faceva parte dell’ingranaggio riciclando il denaro attraverso il suo ristorante. L’appartamento nel quale è morto apparteneva a un uomo di nome Gorge Dravecky. Questo Dravecky è un promotore immobiliare e un uomo ricchissimo. Non possedeva una casa a The Halls, ma fu lui a mettere in piedi il progetto all’inizio. Fu lui a finanziare i costi iniziali. È uno di loro.»

«Come lo hai scoperto?»

«Perché sono bravo nel mio mestiere.»

«Non sei più un poliziotto, e naturalmente hai rifiutato di coinvolgere Nina. Qual è la tua fonte di informazioni?»

«Un tizio con il quale lavoravo nella polizia di Los Angeles. A quell’epoca era solito sottrarre qualche bustina di droga per uso personale. Niente di particolare, ma ora che è pulito e non più giovane preferirebbe che non si sapesse in giro. Perciò fa quello che gli chiedo.»

«È per caso Doug Olbrich?»

John sorrise per un istante, e non fu una cosa bella da vedersi. «Non sei affatto stupido.»

«No, ho solo la tendenza a fidarmi delle persone sbagliate, specialmente di quelle che credevo amiche. Olbrich è al corrente di tutto il resto?»

«No. È solo un poliziotto.»

«Sei riuscito a rintracciare Dravecky?»

«Sì, mi ha confermato cose che già sapevo. Tu non hai idea di chi abbiamo contro.»

«Credo di sì, invece.»

«No, niente affatto. Ho accennato a Roanoke per vedere se ti diceva qualcosa. Ho osservato il tuo volto in cerca di un segno che mi facesse capire che eri arrivato a qualche conclusione da solo, ma non ho visto nulla. Come è possibile, Ward? Cosa hai fatto in tutto questo tempo?»

«Ho cercato di rimanere vivo.»

«Intendi dire che ti sei nascosto. E per cosa? Una volta che scopri l’esistenza di queste persone non c’è modo di tornare indietro. Non puoi startene seduto a guardare la televisione e farti una sega. Non esistono più famiglie felici, passeggiate lungo la spiaggia, niente vita normale. Non puoi fare nulla, non hai dove andare.»

«John, cosa credi di aver scoperto?»

«Non sono stati gli indiani a uccidere i coloni a Roanoke, Ward. Sono stati gli Uomini di Paglia.»

Lo fissai incredulo. «Cosa?»

«I Croatoan sapevano tutto. Dissero al gruppo di coloni che arrivò dopo che ‘un’altra tribù’ aveva ucciso le quindici persone lasciate indietro dalla seconda spedizione. Quell’altra tribù erano gli Uomini di Paglia, o comunque i loro antenati, che cercavano di eliminare tutti gli europei prima che prendessero possesso di una terra che era stata la loro per moltissimo tempo. Sterminarono anche la spedizione successiva, ma quella volta risparmiarono alcune donne e bambini — puoi capire da solo il perché. Fecero lo stesso con gli spagnoli e con chiunque altro. Ecco perché su quella capanna c’era scritta la parola ‘Croatoan’. In quel momento era un tentativo sfacciato di addossare la responsabilità a qualcun altro; oggi significa: ‘Siamo stati qui’, oppure: ‘Questa terra è nostra’.»

«Gli Uomini di Paglia esistevano già nel ’500? Non scherzare!»

«Si trovavano qui da molto prima. Furono i primi ad arrivare, Ward. Sottrassero l’America alle popolazioni indigene quattromila anni prima che chiunque altro sapesse della sua esistenza.»

«Ma chi sono?»

«Tutti e nessuno. Giunsero da diverse parti del mondo in periodi differenti. Fenici, romani, irlandesi, antichi egizi, portoghesi, norvegesi. I romani hanno conquistato mezzo mondo, hanno spostato decine di migliaia di persone in tutti i continenti — pensi davvero che nessuno di loro sia stato in grado di fare un viaggio di qualche migliaio di chilometri nell’Atlantico del nord? Arrivarono in piccoli gruppi, tutte persone che non volevano vivere secondo le nuove leggi del mondo, che non volevano essere costrette a seguire la strada che quel mondo stava imboccando, specialmente dopo che il Cristianesimo aveva cominciato a cancellare le vecchie religioni. Ci sono tracce della loro presenza in tutto il paese, indizi che sono stati trascurati. Oggetti d’arte occidentale negli strati geologici sbagliati, antiche monete cinesi nel Nord-ovest, leggende popolari riguardanti nativi di lingua inglese o gallese, un sepolcro egizio nascosto nel Grand Canyon, antiche incisioni in ogham celtico sulle rocce del New England, megaliti nel New Hampshire, leggende su indiani dai capelli rossi in Oregon. Il Nuovo Mondo ha sempre attirato coloro cui non piaceva il Vecchio, quelli che pensavano che si stesse infettando con il virus della civilizzazione moderna — e gradualmente questi gruppi sono entrati reciprocamente in contatto e hanno iniziato a collaborare. Ogni tanto qualche fatto particolare sfuggiva alla cortina del silenzio — il viaggio di San Brendano o la mappa di Peri Reis, che illustrava regioni geografiche del mondo che oggi pretendiamo che all’epoca ci erano ignote — ma la verità che evocava è sempre stata smentita. Gli Uomini di Paglia volevano uno spazio personale per fondarci il loro regno privato — non ultimo perché avrebbero potuto arricchirsi.»

«E come, precisamente?»

«Grazie al rame. A partire dal 3000 a.C. mezzo milione di tonnellate di rame fu estratto nella penisola del Michigan. La vena di cinquemila miniere, distribuite su un territorio che si estendeva per più di trecento chilometri, venne sfruttata da un lavoro che si protrasse per migliaia di anni.»

«Non ho mai sentito nulla del genere.»

Strano, vero? E questo nonostante il fatto che abbiano lasciato milioni di utensili e migliaia di buchi. Dove sono andate a finire queste cinquecentomila tonnellate di rame? Sono state esportate in tutto il mondo, ed è in questo modo che gli Uomini di Paglia si sono arricchiti e hanno potuto mantenere il segreto sulla loro esistenza. Quando qualcuno qui gli creava dei problemi, lo eliminavano semplicemente. Hanno sterminato gli Anasazi quando ebbero l’impressione che la loro civiltà stesse progredendo troppo. Hanno cancellato dalla faccia della terra Roanoke, e fecero quasi lo stesso con Jamestown. Hanno eliminato quanti più pionieri hanno potuto. Nel diario di Patrick Breen, un membro della spedizione Donner, c’è una curiosa annotazione. Un non meglio precisato venerdì 18 scrive: ‘Oggi non si sono visti stranieri provenienti dalle altre capanne’. Di quali stranieri parla? In tutto il resto del diario non viene fatto alcun cenno a queste persone. Che ci facevano laggiù, in un posto così isolato dal resto del mondo che i membri della spedizione morivano uno dopo l’altro e — cosa interessante — avevano cominciato a mangiarsi tra loro? Chi erano?»

«Presumibilmente gli Uomini di Paglia, stando a quanto hai detto.»

«Sì, erano qui prima di noi, e ci sono sempre stati. La gente lo sapeva. Occasionalmente entrava in contatto con loro, ma questo non si sposava con la mitologia sulla nascita del nostro grande paese, e così, gradualmente, non se ne è più parlato.»

«E loro si fermarono?»

«Naturalmente no. Ma non puoi combattere l’afflusso di milioni di persone sane, e gli Uomini di Paglia non sono mai stati molto numerosi. Si sono rifugiati nell’ombra e hanno fatto i loro affari indisturbati. Ho il sospetto che oggi abbiano legami con i neoconservatori, ma non riuscirò mai a dimostrarlo. Fanno i soldi e ciò che più gli aggrada, quel tipo di cose che noi — in teoria — non dovremmo più fare, e ogni tanto commettono qualche atrocità solo per mantenere il controllo e onorare gli dèi. È il loro modo di agire.»

«L’omicidio non è un credo.»

«E invece sì, Ward. È esattamente così. È una cosa che riguarda tutti noi. Oggi uccidiamo spinti esclusivamente da sentimenti come l’odio, l’avidità, o come forma di punizione, ma per centinaia di migliaia di anni la nostra specie ha creduto in un tipo di assassinio come elemento di vita e di speranza.»

«E quale sarebbe?»

«Il sacrificio. Noi abbiamo sacrificato animali, ma anche esseri umani. Il sacrificio è un omicidio commesso con intenti magici, e l’omicidio seriale non è altro che una distorsione di questo istinto. Cercano di trasformare giovani fanciulle e ragazzi perduti in simboli degli ‘dèi’ — perfetti, irraggiungibili, crudeli — e il loro modus operandi non è altro che una versione deformata di un antico rituale.»

«Non riesco a seguirti.»

«Ogni passo è lo stesso. Fanno i preparativi, scelgono la vittima; la portano in un luogo segreto, poi la lavano, la nutrono, tentano di comunicare, in poche parole le rendono onore prima del sacrificio. Possono anche avere delle relazioni sessuali con lei, in parte perché il sesso costituisce l’evidente tentativo di accoppiarsi con questi dèi, ma in parte anche perché le degenerazioni sessuali sono l’unica cosa che abbia abbastanza forza da trascinare l’uomo moderno lontano dalla civiltà e per riportarlo sul terreno degli istinti primordiali, innati. Poi compiono il sacrificio, ‘uccidono’ la vittima, in altre parole. A volte si cibano di alcune parti del corpo, per assorbire il suo potere. Spesso conservano un pezzo della vittima o dei suoi vestiti, un po’ come faremmo noi con una pelle d’orso o un dente di lupo, e lo sistemano in un posto speciale, perché il morto sia tenuto in vita. Tutto questo non ti suona familiare?»

«Sì,» ammisi. «Lo è.»

«Poi seppelliscono il resto, restituendolo alla terra, oppure lo distribuiscono — e lo smembramento, il ridurre il corpo in tante parti separate, era anch’esso una pratica comune del sacrificio. Dopo rimangono in letargo per un po’, fino a quando il ciclo non ricomincia — fino a che la musica delle sfere non dice loro che è giunto il momento di compiere un altro sacrificio.»

«Ma i serial-killer non sono sacerdoti.»

«No. Sono pazzi, e per questo motivo arriva il momento in cui il ciclo inizia ad andare in corto circuito. La maggior parte degli assassini ha la consapevolezza, nel proprio intimo, di sbagliare. Capiscono di essere alla mercé di una disfunzione nevrotica che cercano di razionalizzare, ma che non comprendono. Alla fine perdono il controllo perché cessano di rinunciare. Ma gli Uomini di Paglia credono che quello che fanno sia accettabile. Qui sta la differenza. Loro sono convinti che quello che stanno facendo sia non solo giusto, ma anche essenziale, che sia ciò che ha portato la nostra specie al punto in cui si trova ora. Sono convinti che se elimini la cosa giusta al momento giusto, tutto andrà per il meglio. È l’atto di magia originario. Sono ancorati a quell’antico sistema di credenze che dice che uccidere è giusto.»

Smise di parlare. La sua mandibola scattò in avanti in atteggiamento bellicoso, e tutto il suo corpo vibrò per il suo rifiuto di accettare il mondo in un altro modo. Io lo guardai, incerto su cosa dire. Non sapevo come fargli capire che conoscere le cose solo in parte è pericoloso, che non tutto quello che aveva letto su Internet era vero, che la volontà di far combaciare ogni elemento in uno schema preordinato è un segno di maniacalità. Non sapevo come dirgli che se credeva a tutto ciò che mi aveva detto, allora era impazzito. Si è poco inclini a usare queste parole quando ci si trova legati a una sedia in presenza di un uomo armato.

«Hai avuto queste informazioni da Dravecky?»

«In parte. Mi ha anche confermato che l’opinione di alcuni membri della ‘tribù’ — ha usato esattamente questa parola — era che l’Homo Erectus era diventato ormai un ostacolo, e mi ha spiegato cosa è venuto a fare qui. Un sacrificio che non è stato più compiuto da moltissimo tempo.»

«Paul crede che gli Uomini di Paglia lo riprenderanno con loro se porterà a termine il compito?»

«Credo che non gliene importi granché. Stiamo parlando di un uomo che pensa addirittura che gli Uomini di Paglia si stiano rammollendo.»

«Dov’è Dravecky ora?»

«Nel Columbia River.»

«Fantastico. Sei fantastico. Dimmi John: le hai uccise tu le due donne?»

«No.»

La parola fu pronunciata immediatamente e semplicemente. Non sapevo cosa credere. «Allora cosa ci fa Paul quassù?»

John scosse la testa. «Tu non credi a una parola di quello che ti ho detto,» disse, «e non mi importa.» Si alzò e prese qualcosa dalla tasca. Era un pezzo di tessuto spesso, lungo circa mezzo metro.

«Non vorrai…»

Ma con un movimento rapido, mi passò il bavaglio e lo strinse. Poi fece il giro della sedia e si accovacciò davanti a me, fissandomi negli occhi. Non mi ero accorto che, mentre parlava, le tende avevano cominciato a illuminarsi. L’alba era vicina. Nella penombra riuscivo a distinguere il blu intenso dei suoi occhi, il cerchio scuro al centro, ma niente di più.

«Non ti mettere in mezzo, Ward,» disse. «La sua morte per me significa molto di più della tua vita.»

Controllò i nodi, li strinse e poi rise. «Vuoi sapere la parte migliore? Quarant’anni fa erano convinti che il paese sarebbe stato rovinato dalla politica dei liberal democratici. Allora presero la madre di tutte le decisioni: ci voleva il sacrificio del re. E fu il 22 novembre 1963.»

Lo guardai. Lui strizzò l’occhio. «Sono loro che hanno ucciso Kennedy.»

Poi si diresse verso la porta, uscì nell’oscurità e scomparve.

Capitolo ventisei

Durante la notte l’uomo armato se ne rimase seduto su una sedia davanti alla porta. L’altro uomo, Kozelek, cercò di parlargli in due occasioni, ma senza risultato, dopo di che sembrò desistere. Era seduto su un’altra sedia, e per un po’ fissò il vuoto. Poi gironzolò per la cucina, fino a che non trovò una bottiglia di vino. La scolò in venti minuti e poi si addormentò. I suoi sogni non furono affatto sereni. Per due volte pronunciò il nome di una donna.

Patrice invece era sdraiata sul divano. Con le mani legate dietro la schiena non c’era molto altro da fare. Per un po’ aveva tenuto gli occhi aperti, ma si era ben presto resa conto che questo non sarebbe servito a prevenire qualsiasi pericolo. In ogni caso non riuscì ad addormentarsi. Il sonno non la sfiorò nemmeno.

Partirono alle prime luci. L’uomo armato, Henrickson, faceva camminare la donna davanti, Kozelek arrancava dietro di lei, in parte perché non aveva ancora smaltito la sbornia, in parte per il dolore alla caviglia. Essenzialmente dava l’idea di essersi arreso.

Henrickson chiudeva la fila. Ogni tanto Patrice guardava nella sua direzione per controllare dove fosse. Nonostante la notte avesse depositato altra neve fresca, dopo la pioggia e il nevischio, l’uomo sembrava in grado di muoversi silenziosamente.

Patrice li condusse verso la riva nord del lago. Non poteva fare diversamente, se voleva evitare di portare quell’uomo dove voleva andare. Era molto più lontano di quanto lui pensasse, non avrebbe avuto quello che voleva — era celato nel profondo della foresta, dove sarebbe dovuto andare da solo — e la cosa avrebbe potuto avere anche altri vantaggi.

Quando passarono davanti alla seconda baita Patrice alzò lo sguardo e vide la sua immagine riflessa sulla finestra polverosa. Il suo volto si allargò in un sorriso, nel caso in cui qualcosa di Bill fosse stato ancora da quelle parti e lei non fosse più ritornata.


«Spero che non mi stia portando a spasso come un coglione,» disse Henrickson.

Tom si fermò, contento di avere una scusa per riposarsi. Dopo due ore di cammino ininterrotto, tutto in salita, era distrutto. Il cielo, all’inizio un mantello azzurro sfumato e luminoso che si stendeva sugli alberi, si era a poco a poco scurito e sporcato per le nubi che si ammucchiavano come motti di argilla. Gli faceva male la testa e — per quanto si sentisse uno straccio — non poté fare a meno di fare il confronto con la prima volta che era ritornato nel posto dove erano diretti, con il cervello a pezzi. Naturalmente non aveva previsto che le cose sarebbero andate così. Aveva desiderato semplicemente di addormentarsi, e ubriacandosi c’era riuscito. Anche in quel momento voleva dormire, oppure trovarsi da un’altra parte. La sua assurda convinzione che in qualche modo sarebbe riuscito a cavarsela, che quello che aveva scoperto avrebbe impresso una svolta alla sua vita, era ormai scomparsa.

Henrickson era di fronte alla donna. «Ha detto ai poliziotti che questo posto si trova a un’ora di cammino dal confine con la sua proprietà. A meno che lei non possieda un parco naturale, mi sembra che stiamo camminando da un po’ troppo tempo.»

«Ho mentito,» disse semplicemente.

«Quanto è lontano?»

«Un bel po’.»

«Forse la sua intenzione è quella di farci perdere,» disse Henrickson. «Capisco che possa sembrare una buona idea. Ma io sono in grado di camminare il doppio di voi due messi assieme e posso continuare anche dopo che voi siete crollati. Certo, lei mi ha impedito di trovare il posto oggi. Ma ora so che è qui e quindi non ho intenzione di fermarmi. Prima o poi scoprirò dov’è, e tutto quello che lei avrà ottenuto sarà che voi due sarete morti e io avrò solo perso un po’ più di tempo.»

«Che differenza fa?» disse Tom. «Se hai davvero intenzione di sparare a questa creatura, cosa importa se sarà oggi o la prossima settimana?»

«Cosa pensa di trovare?» chiese Patrice guardandolo incuriosita.

«Lo sa benissimo,» rispose Tom.

La donna scrollò le spalle. «Tutto quello che so riguarda gli orsi, animali che abitano qui da tantissimo tempo e che hanno il diritto di essere lasciati in pace.»

Tom guardò Henrickson.

Senza dire nulla, questi fece un cenno per indicare di andare avanti.

Così fecero ancora un po’ di strada. Dopo un po’ Tom iniziò a camminare a fianco della donna. Cominciò a parlare e lei sembrò ascoltarlo. Le raccontò della sua camminata nei boschi, delle ragioni che lo avevano spinto a compierla, e alla fine si ritrovò a confessarle ciò che nessun altro sapeva. Venne fuori lentamente ma senza intoppi. Le raccontò di come si fosse voltato per guardare la ragazza seduta sul sedile del passeggero, di quanto fosse ridotta male e di come lottasse per rimanere in vita. Tom le raccontò anche dei suoi problemi con i conti della società per cui aveva lavorato, di quelle discrepanze che prima o poi sarebbero sicuramente saltate fuori. I ristoranti e i regali sono costosi, e anche i gusti di Rachel non erano mai stati modesti. È difficile avere una relazione che non abbia ripercussioni economiche, soprattutto se è tua moglie a controllare gli estratti conto della carta di credito e della banca. Sarah avrebbe scoperto quelle spese anche se si fosse trattato di denaro prelevato esclusivamente in contanti. Il discorso dei conti societari era più complesso, e c’era qualche probabilità che passasse inosservato. Ma c’era anche la probabilità opposta e Tom sapeva che, tenuto conto dell’accaduto, il suo nome sarebbe stato il primo della lista. Ma per sua stessa ammissione, la cosa peggiore era però che il senso di colpa che provava per aver sottratto il denaro era superiore a quello per la morte di Rachel. Certo, non avrebbe dovuto avere una relazione con lei, ma Rachel era così carina, e una volta che l’aveva iniziata era difficile smettere. Non avrebbe dovuto cercare di attraversare l’incrocio quella notte, ma l’arrivo della Porsche con il suo guidatore ubriaco era stato un evento totalmente imprevisto. Non poteva dire la stessa cosa per il furto di denaro. Ci aveva riflettuto, aveva preso la decisione e studiato come farlo. Aveva compiuto l’azione in piena consapevolezza, sapendo che era sbagliata. Tutti commettono errori e praticamente ogni cosa che facciamo può essere classificata come un errore. Ma non il furto. Aveva intrapreso volontariamente quell’iniziativa e poi non era riuscito a fermarsi. L’opportunità di confessarlo a Sarah era arrivata e sfumata nella settimana successiva all’incidente. Non averlo detto rappresentava un secondo reato oppure raddoppiava la gravità del primo. Aveva varcato la soglia e ora era ormai intrappolato dall’altra parte.

L’anziana donna ascoltò senza dire granché. Dopo averle raccontato la sua vicenda Tom si sentì un po’ meglio, ma non a sufficienza, e l’uomo capì che l’unica cosa che avrebbe potuto fare la differenza sarebbe stato parlare con Sarah. Il reato commesso nei confronti della società era stato il furto; quello nei confronti di sua moglie la menzogna. Quest’ultimo era di gran lunga il più grave. Decise che quella sera, indipendentemente da cosa avrebbero o non avrebbero trovato nel corso del pomeriggio, avrebbe telefonato a casa. Un tempo lei lo aveva amato e forse lo amava ancora. Nella peggiore delle ipotesi Sarah gli avrebbe detto cosa fare e già quella avrebbe potuto essere la sua assoluzione.

Alla fine, quando secondo i segnali che arrivavano dallo stomaco malconcio di Tom era ormai passato mezzogiorno, giunsero a destinazione.


Stavano procedendo da ormai molto tempo. Tom non aveva la minima idea di dove si trovassero in quel momento. Per un po’ aveva creduto che Henrickson potesse aver ragione, che la donna stesse semplicemente cercando di farli perdere, ma osservandola attentamente notò che non aveva mai un’esitazione, nemmeno per un istante, quello necessario per decidere quale direzione sbagliata prendere. L’avanzata era lenta ma inesorabile: aveva svoltato in una direzione e poi in un’altra, aveva aggirato determinati ostacoli e ne avevano scavalcati altri. Per una donna della sua età era incredibilmente in forma. Ogni tanto faceva una smorfia, comunque, e in un paio di occasioni scivolò cadendo su un fianco, impossibilitata com’era a usare le mani per impedire la caduta. Progressivamente cominciò a rallentare e a stancarsi.

Poi si fermò, ansimante. Fece un cenno con la testa.

«È là sotto.»

Henrickson la superò e raggiunse il bordo della gola. Rimase alcuni momenti a fissare in basso e poi si rivolse a Tom.

«È quello il posto?»

Tom avanzò e affiancò Henrickson, guardando verso il letto del torrente. Inizialmente sembrava identico agli altri che avevano superato. Poi individuò la piccola area dove era rimasto seduto nell’oscurità e dov’era ritornato la mattina dopo. Era passata meno di una settimana, ma sembrava un’eternità, come se quello fosse un luogo cui lui era destinato a ritornare all’infinito.

«Sì,» rispose. «È lì che è successo.» Quell’esperienza decisiva, prima della quale tutto appariva grigio e anonimo.

«Bene,» disse Henrickson. Si allontanò dal ciglio e tornò verso Patrice. «Grazie, signora.»

«Allora, qual era questa cosa importante?» chiese Tom. «Perché sei voluto venire qui? O faceva solo parte della finzione di essere qualcuno che non sei?»

«Niente affatto,» disse l’altro. «Seguimi.»

Si voltò e cominciò a incamminarsi lungo il ciglio della gola. Lo seguirono. Dopo cinque minuti Henrickson cominciò a tagliare sulla sinistra, attraverso gli alberi disseminati intorno al bordo del dirupo. Dopo qualche minuto si fermò.

Tom rimase di sasso. L’uomo li aveva guidati fino al tronco che era caduto sopra il burrone.

«Mrs. Anders, vorrebbe spiegare a Tom che cos’è questo?»

«Un albero abbattuto,» disse.

Henrickson scosse la testa, percorse i pochi metri che lo separavano dall’estremità e posò il piede sopra il tronco. Ne esaminò le estremità e poi lo percorse fino all’altro lato, camminando sul tronco come se questo fosse stato largo tre metri.

«Entrambe le estremità sono state lavorate,» disse l’uomo accucciandosi per esaminare il legno. «E i rami lungo il tronco sono stati tagliati. È stato anche ruotato di circa venti gradi rispetto alla posizione che aveva quando è caduto. Sono stupito che tu non te ne sia accorto, Tom.»

«Non stavo bene,» disse Tom. Il che era vero, ma in tutta onestà non riusciva a capacitarsi di come quel particolare gli fosse sfuggito. Una volta visto era troppo evidente.

«In questo periodo puoi attraversare il torrente normalmente,» disse Henrickson, «ma in primavera devi fare una camminata lunghissima nell’una o nell’altra direzione. Questo è una sorta di ponte ed è stato costruito da qualcuno. Lo hanno realizzato i nostri amici della foresta, concretamente ed espressamente. Erano da questa parte e volevano andare dall’altra. Così hanno costruito questo semplice marchingegno. Tom, ecco la tua prova. Te l’avevo detto che ne sarebbe valsa la pena.»

«Come fai a sapere che non è stato qualcun altro? O la traccia residua di qualche disboscamento?»

«Perché so che i boscaioli non si sono spinti fino a questa zona, così come so che è improbabile che un essere umano possa fare questo lavoro con utensili di pietra.» Guardò Patrice. «Solo un albero abbattuto, vero?»

«Per me è così. Magari lei sta vedendo qualcosa che è una proiezione della sua mente, non esattamente quello che ha davanti agli occhi. Capita a molte persone.»

Henrickson ripercorse il tronco e sogghignò un’ultima volta. Poi osservò il burrone.

«La pensi come vuole, ma procediamo in questa direzione ancora un po’ e vediamo cosa troviamo.»

Camminarono per altri dieci minuti, mantenendosi vicini al ciglio del burrone. Le pareti diventavano sempre più ripide e profonde e il torrente andava sempre più ingrossandosi alimentato dalle cascate invernali, non impetuose ma continue.

Alla fine arrivarono alla sommità del crinale e Tom rimase senza fiato.

Sotto di loro il terreno scompariva. A sinistra il torrente precipitava improvvisamente nel vuoto per finire in una conca rocciosa sessanta metri più in basso. La foresta era davanti ai loro occhi, un immenso tappeto scosceso, verde con punte biancastre, che si estendeva fino al Canada e oltre. In cielo era visibile la sottile scia di un aereo che attraversava la stretta striscia di azzurro. Quello era l’unico segno visibile della presenza dell’uomo. Altrimenti, l’impressione era che gli esseri umani non fossero mai arrivati lì. Tom rimase a osservare le nuvole che riempivano quel vuoto, fino a che il cielo non divenne tutto grigio, poi abbassò la testa per guardare la foresta.

«È meraviglioso,» disse.

«Immagina quando non c’era altro che questo,» disse dolcemente Henrickson, avvicinandosi a lui. «Quando qui non c’era nessuno.» Al cospetto del mondo com’era prima che arrivasse la civiltà delle parole, Tom riuscì solo a scuotere di nuovo la testa. E continuò a farlo lentamente sentendo gli occhi che si inumidivano. Non sapeva perché.

«Voglio ringraziarti, Tom,» aggiunse Henrickson, ritrovando improvvisamente il suo accento montanaro, quello della persona che Tom aveva creduto di conoscere. «Hai provato con tutte le tue forze, amico mio, e non è stato un periodo facile per te, lo so. Sai qual è la cosa buffa? Mi ha fatto veramente piacere avere qualcuno con cui parlare.»

Tom continuava a scrollare il capo, e si limitò ad annuire. Guardò dietro di sé e vide la sagoma confusa di Patrice Anders, con le mani ancora legate dietro la schiena. Gli fece un sorriso mesto, e poi distolse lo sguardo.

Poi Henrickson posò una mano sulla spalla di Tom, e lo spinse oltre il ciglio del precipizio.

Tom provò una strana sensazione, la consapevolezza di non avere nulla sotto i piedi, come se fosse ritornato sopra quel ponte che aveva trovato da solo, ma stavolta senza la sua voce interiore pronta ad aiutarlo. Poi avvertì la pura assenza di peso durante la caduta libera, rapida e veloce, prima di iniziare a sbattere. Questa volta gli impatti non furono colpi e scivolate, ma una successione rapida di collisioni da spaccare le ossa che lo fece ruotare e ruzzolare come una bambola di pezza. Un ultimo, breve salto nel vuoto e poi Tom atterrò come un pezzo di vetro.

Giacque incastrato tra due grandi massi, nascosto sotto una muschiosa sporgenza a nove metri dal suolo. Cercò di emettere un suono qualsiasi, ma sentì solo un gorgoglio. Il suo corpo era contorto e fracassato, i vestiti strappati e macchiati di sangue e la sua gamba sinistra era in condizioni pietose. Dell’acqua fredda scorreva sui suoi piedi e sulla mano sinistra distesa, ma non riusciva a sentirla. Sebbene avesse il cranio fratturato, così come lo zigomo, i suoi occhi vedevano ancora e il braccio destro funzionava, anche se poco.

Nei venti minuti successivi riuscì a fare solo una cosa: tirare fuori il suo cellulare dalla tasca della giacca, andare con una certa difficoltà al menu messaggi e scrivere, con un pollice che a fasi alterne tremava o era rigido: «Ho visto Bigfoot. Ti voglio b…»


Poi morì. E in ogni caso non c’era campo.


Sessanta metri più sopra, Patrice fissava ostinatamente Henrickson.

«Era proprio necessario?»

«Sì ma non mi aspetto che lei capisca.»

«Intende buttare giù anche me?»

«Uno è sufficiente. E poi lei ha un compito da svolgere.»

«Questo posto è tutto quel che conosco e non so andare oltre. Se vuole un orso dovrà andare a cercarselo da solo.»

L’uomo scosse la testa. «Non credo. Se ce ne sarà bisogno la costringerò a dirmi dove vivono. Ma per ora ripercorreremo il torrente fino al punto in cui Tom ha detto di avere visto il suo ‘orso’ e resteremo lì ad aspettare.»

«Pensa che verranno a farsi quattro passi da queste parti?»

«No. Ma so che significano molto per lei, il che mi fa pensare che anche lei significhi qualcosa per loro. Quando sapranno che lei è qui, potrebbero decidere di farsi vedere.»

«Come se fossi una sorta di mamma orsa? Fantastico. I miei stessi figli non mi fanno visita da diciotto mesi.»

«Patrice, sta cominciando a farmi incazzare con il suo atteggiamento.»

«Sapranno che non sono da sola.»

«Certo. Specialmente quando comincerò a farle qualche lavoretto. Per quel poco che ci conosciamo sospetto che sarà brava a mantenere il silenzio, ma loro sentiranno la sua sofferenza in altri modi. E verranno.»

Patrice fissò il terreno, sgomenta.

«Ero sicura che sarebbe arrivato qualcuno,» disse alla fine. «Ma pensavo che sarebbe stato un cacciatore, o qualche stronzo desideroso di fare fortuna o di andare al Tonight Show’. Ma lei non è nulla di tutto questo.»

«No,» disse. «Niente affatto.»

«Allora chi è?»

«Mi chiamo Paul,» disse. «A volte mi faccio chiamare Homo Erectus. E sto solo portando a termine quello che deve essere fatto.»

Capitolo ventisette

Avevo dormito per qualche tempo. Incredibile a dirsi, ma era un po’ come accade ai colpevoli che a volte si appisolano nella loro cella, dopo essersi momentaneamente liberati della tensione delle loro vite, sfociate in un’incarcerazione che non possono più evitare. Io provavo la stessa sensazione, nella consapevolezza dell’impossibilita di compiere un qualsiasi atto, saldamente legato com’ero a una sedia.

Una volta sveglio non riuscii più a riaddormentarmi. Essere sveglio era peggio. Mi permetteva di pensare e anche di tentare la fuga. Cercai di ribaltare la sedia usando la schiena per far saltare le gambe. Quando un movimento brusco rischiò di farmi cadere in avanti — garanzia di una frattura al viso e al collo — cessai le ostilità. Affanculo, non sono Jackie Chan.

In ogni caso, non tentare nulla era la cosa peggiore. Osservai la tenda che si illuminava sempre di più e sentii i rumori del mondo esterno che si svegliava: la ghiaia sotto le ruote, scoppi di risa in lontananza, urti, fischiettii, colpi di tosse. Sentii aumentare gradualmente il dolore alla schiena e le spalle cominciarono a bruciarmi. Guardavo la sveglia digitale accanto al letto, nell’attesa che ogni numero aumentasse di un’unità — a volte pensavo che fosse rotta da quanto ci mettevano — ma quando accadeva, nulla era cambiato.

Questa attesa lunghissima si protrasse fino alle 12:51, quando finalmente Nina buttò giù la porta insieme a due uomini che non avevo mai visto.


«Le assomigliava, eccome!» disse il più grosso. Mi era stato detto che era lo sceriffo Connelly. L’altro si chiamava Phil, era giovane, in forma e con i capelli chiari. «Ma si vede comunque che non siete la stessa persona.»

«Si chiama Paul.»

«Qualcuno ha sentito Mr. Kozelek chiamarlo Jim.»

«Forse utilizzava il cognome Henrickson.»

Connelly annuì lentamente. «Sì, era lui.»

Gli occhi di Phil sembravano due palle da biliardo. «È un serial-killer?»

«E non solo.»

Eravamo nella stazione di polizia e stavamo bevendo del caffè. Avevo le mani ancora intorpidite e non riuscivo a tenere bene la tazza. Nina non se la cavava meglio. La cameriera del motel l’aveva trovata legata e aveva chiamato la polizia prima ancora di pensare a slegarla. Era pallida in volto e appariva magra ed esausta. Desideravo trovare John Zandt e prenderlo a pugni, e non solo per la notte precedente.

In mezz’ora avevamo dato ai poliziotti una descrizione molto sommaria dell’accaduto, e di ciò che sapevamo. In questa versione avevamo detto che era stato l’Homo Erectus a legarci, non John. Nina aveva rivelato di essere un agente federale ed era riuscita a dissuadere lo sceriffo dal fare una telefonata di conferma, almeno per il momento. Una dottoressa con un bel sorriso ci aveva visitato e aveva bendato la mia ferita alla spalla, poi se n’era andata. Sentivo gli occhi secchi e dilatati, e la luce della stanza mi sembrava quasi accecante.

Phil scosse la testa. «Porca puttana.»

«Cosa ci fa qui a Sheffer?» chiese Connelly. «E dove è andato?»

«Non lo so,» risposi. «Ma…» Guardai Nina. «La notte scorsa ha detto alcune cose strane, su un sacrificio. Sembra essere una sorta di rito di purificazione. Sta di fatto che ha già ucciso chiunque sia stato coinvolto nel suo passato, quindi non so chi potrebbe essere il prossimo della lista. A meno che non abbia a che fare con le persone per cui lavorava.»

Connelly stava guardando al di sopra della mia spalla con una strana espressione in volto.

«Mr. Kozelek ha passato qualche giorno nei boschi,» disse. «È tornato piuttosto malconcio dicendo di aver visto alcune cose.»

«Che genere di cose?» chiese Nina.

«Dice di aver visto Bigfoot.»

Scoppiai involontariamente a ridere. «Bella questa.»

Connelly fece un sorriso tirato. «Esatto. Naturalmente si trattava di un orso. Ma suo fratello ha passato molto tempo con Mr. Kozelek e non riesco a comprenderne il motivo, a meno che il racconto di quest’ultimo non fosse per lui di un qualche interesse. Riesce a pensare a un qualche motivo?»

Non ne avevo idea. Scossi la testa.

Connelly distolse lo sguardo mordendosi il labbro, «Phil, potresti chiamare Mrs. Anders da parte mia?»

«Perché?»

«Chiamala e basta, il numero è 4931.»

Il poliziotto più giovane afferrò il telefono e compose il numero. Lasciò squillare per un po’ e poi scosse la testa. «Non risponde.»

«Prova sul cellulare.» Gli sciorinò anche quest’altro numero e il suo vice chiamò, restò in attesa, e poi scosse di nuovo la testa. Lo sceriffo si morse il labbro, pensieroso. «L’hai vista in giro stamattina?»

«No.»

«Neanch’io.» Connelly si alzò. «E la notte scorsa ho fatto il suo nome. Credo che faremmo meglio a dare un’occhiata. Phil, prendi dei cappotti e dei guanti per questi signori. Guarda anche se ci sono degli scarponi delle taglie giuste.»

«Va bene.»

«E poi prendi dall’armadio qualche fucile.»

«Quali?»

Connelly mi guardò e io annuii.

«Quelli di grosso calibro.»

Uscimmo rapidamente nel parcheggio sul retro della stazione di polizia e ci accorgemmo che aveva cominciato a piovere. Nessuno dei due poliziotti sembrò farci caso. Evidentemente, se vivi nel Nord-ovest la pioggia fa parte del gioco. Connelly ci indicò un’auto e il suo vice andò a un’altra.

«Non cercare di arrivare lì prima di me,» gli disse. «Resta dietro di me e seguimi, d’accordo?»

Io e Nina ci sistemammo sul sedile posteriore. Connelly si mise al posto di guida e chiuse la portiera. Accese il motore e poi si girò per guardarci.

«La cosa strana,» disse, «è che ho visto Henrickson e Kozelek lasciare la città all’incirca alle 20:30 l’altra sera, quando ho preso nota del suo numero di targa. Ho controllato al motel poco tempo dopo e non c’era traccia della sua auto. Ma quando siete arrivati a notte fonda lui era qui, pronto a legarvi e imbavagliarvi.»

Nessuno di noi due aprì bocca.

Connelly sospirò. «È quello che pensavo. Quest’altro tizio sarà un problema per noi?»

«Non lo so,» risposi.»

«Sta con voi o con gli altri?»

«Non sta con nessuno.»

«A parte questo, il resto è tutto vero?»

Fu Nina a rispondere: «In gran parte.»

Connelly rivolse la propria attenzione alla strada e mise in marcia l’auto. «Fantastico. Sono proprio contento che siate venuti nella nostra città.»

Svoltò rapidamente sul manto bagnato della strada principale, aspettò che il suo vice si avvicinasse e poi accelerò. Qualche minuto dopo giunse una chiamata via radio che ci informava che due minuti dopo la partenza delle due auto di pattuglia, una donna nella caffetteria Izzy aveva visto una macchina uscire dal retro di un bar chiamato Big Frank’s, e seguirci fuori città.


Passai il quarto d’ora successivo a tentare di ridare sensibilità alle mie mani. Nina fece lo stesso. Volevo dirle qualcosa di più sulla mia conversazione con John, ma non sembrava il momento adatto. Connelly guidò lungo una strada scarsamente trafficata. Sebbene fossero da poco passate le due, l’aspetto del cielo sembrava suggerire che fosse più tardi. La pioggia cessò, ma questo non era un segno positivo, perché stava diventando ancora più freddo.

Svoltammo subito dopo una piccola caffetteria, in una strada stretta, apparentemente senza nome. Eravamo lì da soli trenta secondi quando la voce del vice iniziò a gracchiare alla radio.

«Capo,» disse. «Ha sbagliato strada. Cascade Falls è più indietro…»

«Tieni gli occhi sulla strada e seguimi,» disse Connelly. «Faremo un’altra strada.»

Guidò per più tempo di quanto mi aspettassi. Da quello che avevo capito, la donna cui dovevamo far visita viveva in un complesso residenziale non molto lontano dalla strada principale. La strada che stavamo percorrendo non sembrava condurre da nessuna parte. Dopo venti minuti divenne a una sola corsia e lo sceriffo fu costretto a rallentare per via della neve che ancora la copriva. Ai lati c’erano alberi imponenti e non c’era il minimo segno di una qualche manutenzione stradale. Comunque, procedemmo. Ogni tanto guardavo dal lunotto posteriore e vedevo il vice di Connelly che ci tallonava tenacemente. Rimaneva a una distanza di sicurezza accettabile, ma era comunque abbastanza vicino per permettermi di cogliere l’espressione perplessa sul suo volto.

Poi Connelly rallentò, senza che io ne vedessi il motivo. Stava scrutando sul lato destro della macchina. Guardai verso Nina.

«Sceriffo, è sicuro di sapere dove stiamo andando?»

«Certo,» rispose. «In effetti, siamo arrivati.»

Spense il motore e scese dall’auto. Quando sia io sia Nina fummo sul ciglio della strada, il posto in cui ci trovavamo apparve ancora più isolato. Cespugli e alberi impedivano allo sguardo di spaziare nelle diverse direzioni, e il terreno era coperto di neve immacolata. La strada scompariva del tutto circa cinquanta metri più avanti.

Phil parcheggiò proprio dietro di noi. «Capo, dove siamo?»

«Alla fine della vecchia strada di servizio,» disse. Indicò gli alberi alle mie spalle. «Vedi?»

Se si guardava attentamente si poteva scorgere a una decina di metri di distanza la sagoma di un edificio diroccato, nascosto tra gli alberi.

«Okay,» dissi. «Perché siamo qui?»

Connelly si mise il fucile a tracolla e cominciò a camminare.

«Un paio di sere fa ho parlato con Mrs. Anders,» disse. «E mi ha raccontato di non aver detto la verità quando aveva dichiarato dove aveva rinvenuto lo zaino di Mr. Kozelek. Era convinta che non fosse una persona con tutte le rotelle a posto e non voleva che ritornasse dove era stato. È lei che mi ha dato le indicazioni necessarie per trovare il posto. Se Henrickson l’ha sequestrata, come ritengo sia accaduto, allora le ha senz’altro chiesto di condurlo in quel luogo.»

«È vicino?»

«No,» rispose, lasciando la strada e dirigendosi nella foresta. Notai che c’era una zona davanti a noi dove gli alberi erano più radi e sembravano molto più giovani. La mia impressione era che si trattasse di un vecchio sentiero di boscaioli, ora ricoperto dalla vegetazione. «Non esattamente. Ma questa strada ci farà risparmiare un po’ di cammino, anche se tra un po’ si farà dura.»


Per me e Nina il cammino diventò arduo immediatamente. Non facevamo altro che salire. Dopo un’ora non c’era più alcun segno che stavamo seguendo un sentiero e io non mi ero accorto di nulla. Ora gli alberi intorno a noi erano massicci e imponenti, e il terreno era scosceso. Non sono un escursionista, come avevo detto a Zandt, e procedere era estremamente faticoso. Con la neve che ricopriva ogni cosa, era difficile capire dove si posavano i piedi. Alcune volte erano rocce, altre mettevi il piede su qualcosa che sembrava solido e improvvisamente ti ritrovavi immerso fino alle ginocchia. Cominciò a calare l’oscurità, in parte a causa delle nuvole, ma la pioggia continuava a risparmiarci. Quando eravamo usciti dalla stazione di polizia avevo sentito freddo, ma ora cominciavo a pensare che quello fosse un momento idilliaco di rigenerante benessere. C’era da meravigliarsi che Kozelek fosse rimasto vivo dopo due giorni passati in questo ambiente. Ero anche sbalordito per la tenacia dimostrata dai pionieri, che avevano saputo creare dei varchi attraverso quella natura selvaggia. Il fatto è che per noi il punto fondamentale è sempre arrivare dall’altra parte. Ma non appena voltiamo la schiena, la foresta comincia a riappropriarsi dei suoi spazi, e anche in fretta.

«Stai bene?»

«Più o meno,» risposi. Io e Nina procedevamo affiancati, un paio di metri dietro i poliziotti. «E tu?»

«Credo. Sento un freddo incredibile.»

E poi fame e stanchezza. Mi rivolsi allo sceriffo. «Siamo ancora lontani?»

«No,» rispose senza voltarsi. «Siamo più o meno a metà strada.»

«Cristo,» disse Nina sottovoce. «Io odio stare all’aperto, mi fa schifo.»

Continuammo a camminare. Raccontai a Nina qualche altra cosa che John mi aveva detto la notte precedente, e anche lei convenne sul fatto che Zandt doveva aver perso la bussola. È strano però come la prima volta che senti qualcosa ti sembra assurda, senza filo logico e poco plausibile. Poi invece, dopo che è rimasta a decantare nella tua testa per un po’, è come se gli altri tuoi pensieri si facessero da parte per lasciare un po’ di spazio a quell’idea. La teoria dell’omicidio seriale e di un agghiacciante istinto sacrificale era la più semplice da sistemare. Era buona come un’altra. Trovavo più difficile credere che la responsabilità di qualsiasi evento anomalo verificatosi nella storia del nostro paese fosse da imputare agli Uomini di Paglia. Anche se era indiscutibile che molte cose che li vedevano coinvolti li ponevano al di fuori del senso comune ai normali esseri umani.

Dopo un po’ smettemmo di parlare, fondamentalmente perché eravamo senza fiato. Anche Phil sembrava in difficoltà, e solo Connelly manteneva un passo regolare. Il rumore dei nostri scarponi sulla neve e dei nostri respiri ansimanti era forte. La. combinazione tra stanchezza, mancanza di sonno e il biancore persistente davanti ai miei occhi stava cominciando ad avere un effetto ipnotico. Ormai pensavo solo al passo successivo o alla roccia su cui posare il piede, a sentire avvallamenti o affioramenti, a respirare l’odore degli aghi di pino e a tossire nell’aria incredibilmente limpida. Il mio viso cominciava a perdere elasticità, quando lo sfregavo lo sentivo intorpidito e quando battevo le palpebre compariva un lampo di luce davanti ai miei occhi. Di tanto in tanto inciampavo, come del resto Nina.

«Stop.»

Fu Connelly a parlare, piano, con voce calma e ferma.

Io venni richiamato dal mio sogno a occhi aperti: alzai di scatto la testa e mi bloccai. «Che c’è? Siamo arrivati?»

Lo sceriffo si voltò verso di noi, ma non rispose. Lanciò semplicemente un’occhiata verso la foresta nella direzione dalla quale eravamo venuti, sulla nostra sinistra. Dopo tutto quel cammino, il silenzio era assordante e mi fischiavano le orecchie.

«Ha sentito qualcosa?» chiese Nina.

Connelly rimase in silenzio per altri venti secondi. «Nulla,» rispose alla fine. «Mi era sembrato di vedere qualcosa. Mi ero girato per vedere se eravate ancora vivi e ho creduto di scorgere un’ombra, laggiù, a circa quaranta metri.»

«Ci sono molte ombre,» dissi. «Sta diventando buio.»

«Forse,» disse, e poi guardò il suo vice. «I nostri amici conoscono un’altra persona che potrebbe essere interessata a Henrickson, e ci sono buone possibilità che sia anche lui da queste parti.»

«Ah sì?» disse Phil sospettoso. «E chi sarebbe?»

«Un ex poliziotto. L’Homo Erectus gli ha distrutto completamente la vita,» disse Nina. Fece qualche metro nella direzione indicata da Connelly, scrutando attentamente tra gli alberi. «Desidera farlo fuori almeno quanto noi.»

«Questo tizio è pericoloso?»

Annuii. «Ma non per noi, spero.»

Improvvisamente Nina urlò, cogliendoci tutti di sorpresa.

«John! John, sei tu?»

Quattro paia di occhi spalancati osservarono gli spazi tra gli alberi. Nessun movimento.

Riprovò. «John, se sei qui, unisciti a noi. Anche noi vogliamo prenderlo. Fai la cosa giusta, vieni con noi.»

Nulla. Nina scosse la testa.

«Erano solo ombre,» disse. Si accigliò e poi guardò verso il cielo. «Oh Cristo. Fantastico, ora comincia anche a nevicare.»

Aveva ragione. Piccoli fiocchi avevano cominciato a cadere.

«Avrei preferito che non lo aveste fatto,» disse Connelly. «Il suono può diffondersi fino a una notevole distanza in questo punto. Non vorrei far sapere a questo tizio che stiamo arrivando.»

«Oh, lo saprà,» disse. «Vero, Ward?»

«Sì, ed è bene che lei sappia, sceriffo, che non farebbe alcuna differenza. Lui non fuggirà né si nasconderà. Compirà quello che si è prefisso di fare.»

Il poliziotto prese il fucile dalla spalla e lo impugnò. Lo mise in posizione di tiro e mi guardò. Sebbene Connelly avesse dieci, quindici anni di meno rispetto a mio padre, c’era qualcosa nel suo sguardo che me lo ricordava: una calma approvazione e l’impressione di non sapere veramente cosa volesse dire ritirarsi.

«Bene,» disse. «Allora ci adatteremo.»

Ora il vento si stava alzando e la neve turbinava intorno al suo volto.

Capitolo ventotto

Patrice non aveva mai sentito tanto freddo in tutta la sua vita. L’uomo le aveva permesso di infilarsi il giaccone, prima di uscire di casa e per la gran parte del viaggio aveva rimpianto di averlo fatto. Quando si è in movimento, un giaccone non è di nessuna utilità: sono soprattutto le parti che non copre, il viso e le mani — in particolare poi se sono legate dietro la schiena — che gelano. In un caso del genere un indumento simile fa solo sudare. Ma nel corso delle due ore che erano rimasti seduti lì in attesa, la donna aveva ringraziato il cielo di averlo addosso. Senza di esso, sapeva che probabilmente sarebbe morta. Le era colato un po’ il naso e il muco liquido si era gelato formando piccoli ghiaccioli. Patrice aveva chiesto all’uomo che le legasse le mani sul davanti, così da poterle scaldare, ma lui si era rifiutato. La donna sapeva il perché: le braccia e le spalle stavano cominciando a farle terribilmente male, e quello era solo l’inizio di un calvario che lei avrebbe dovuto subire se lui non avesse ottenuto quello che voleva.

La neve cominciò a scendere poco dopo le quattro. La luce aveva cominciato ad affievolirsi, e se alcuni flocchi scintillavano ancora nella caduta, altri assomigliavano già a piccole ombre fluttuanti. La donna sapeva che alcuni abitanti locali consideravano la neve come un fardello, ma per lei era diverso. Anche dopo tre anni continuava a sembrarle un tocco di magia. A volte la rendeva triste, le faceva venire in mente Bill e i figli quando erano molto più giovani; ma nessuno ha mai detto che la magia deve per forza essere lieta.

L’uomo l’aveva fatta sedere in prossimità della ripida parete della gola, il che era già qualcosa. Almeno il vento proveniva solo da un’unica direzione. Henrickson invece si era seduto sull’argine opposto del ruscello, con il fucile in grembo, nel più totale silenzio. Se aveva freddo non c’era nessun segno esteriore che lo indicava.

La neve cadeva ormai da venti minuti, quando Patrice vide l’uomo alzare improvvisamente lo sguardo e rimanere in ascolto per un attimo. «Ha sentito qualcosa?» «In lontananza,» rispose.

«Lo sa? Non ho la minima idea di cosa stia parlando. Tom ha visto un orso, tutto qui. L’ho portata fin qui perché lei è un uomo terribile e penso che la cosa migliore sia farla morire di freddo in un posto dove non la troveranno mai.»

«Può darsi,» disse. «Lo vedo che ci sta provando.» Poi sorrise. «Lei mi piace, mi ricorda qualcuno.»

«Sua madre?»

«No, non lei,» rispose.

«È ancora viva?»

Lui non disse nulla, e Patrice capì immediatamente e con sicurezza che la madre di quest’uomo era morta, non sepolta in un posto convenzionale e che lui sapeva dove si trovavano quelle ossa.

«È figlio unico?»

La testa di Henrickson si voltò verso di lei.

Lei scrollò le spalle. «Sto esercitando un po’ la bocca solo per evitare che mi si congeli il viso.» Il che era vero. Negli anni di insegnamento aveva anche imparato che in qualche raro caso riuscivi a entrare in confidenza con alcuni bambini, parlando con loro in continuazione. Quest’uomo non era un bambino, lo sapeva, era uno psicopatico, ma magari avrebbe funzionato lo stesso. «Ehi, forse così ci sentiranno e verranno a vedere di cosa stiamo parlando — allora, era figlio unico o no?»

«Lo sono diventato,» rispose senza mostrare emozioni. «Ho avuto tre madri, tutte morte ormai, ed è questo che mi ha dato la forza. Sono nato in una foresta, mio padre uccise mia madre e poi alcune persone vennero a uccidere lui. Mi tennero per un po’, assieme a mio fratello, e poi si liberarono di me. Hanno provato a sistemarmi in vari posti, ma io non volevo. Fino a quando non sono venuto a vivere non lontano da qui con la mia ultima madre.»

«La trattava male?»

«Patrice, sono così lontano dalla psicologia spicciola che lei non se lo immagina nemmeno.»

«Allora, chi le ricordo?»

«La donna che per un certo periodo fu mia nonna.»

Patrice pensò che fosse una sorta di complimento, per quel che poteva valere. «Perché vuole fare tutto questo?»

«Uccidere è quello che fanno gli animali. I carnivori uccidono per mangiare. I cani selvaggi uccidono i cuccioli degli altri cani. Le mosche depositano le uova nel corpo di animali morenti. Non si fanno problemi e così dovremmo essere noi. I mercanti arabi di schiavi a Zanzibar buttavano nelle acque della baia gli uomini e le donne malati, per non pagare tasse su beni che non potevano vendere. In Siberia, i contadini russi vendevano pezzi di carne umana durante i rigidi inverni degli anni ’20. Noi siamo gli animali che hanno inventato delle macchine volanti per poi mandarle a schiantare contro edifici pieni di nostri simili. Gli esseri umani sono animali che uccidono e distruggono.»

«Mi farebbe piacere immaginare che lei reputa negative queste cose.»

«Non sono né buone né cattive. È la semplice realtà. Il fucile è solo un mezzo che uccide. È una delle macchine inventate da noi. La nostra specie si è diffusa in Europa dove altri esseri avevano vissuto centinaia di migliaia di anni e nel giro di pochi millenni quelle terre sono diventate nostre. Come pensa sia accaduto?»

«Eravamo più adatti.»

«Solo da un unico punto di vista. Il nostro vantaggio fu la volontà di uccidere le altre creature. Uccidemmo gli Uomini di Neanderthal fino a farli estinguere e poi cominciammo ad ammazzarci tra di noi. Non abbiamo rispetto per animali come iene e avvoltoi — per i saprofagi —, ma magnifichiamo i leoni, le tigri, gli squali — animali con le bocche che grondano di sangue fresco. Il fatto che abbiamo la parola, il linguaggio, mani dotate di pollici e le illusioni di una nobiltà spirituale non fa alcuna differenza. Male e bene non esistono. C’è solo il comportamento, e il nostro è questo.»

«Allora uccida qualcuno. L’ha già fatto prima, vero?»

Non rispose, il che, in un certo senso, era peggio. Pietrificata dal gelo, Patrice si sentì venire la pelle d’oca. Si rendeva conto di essere in balia di una persona che non comprendeva le cose come gli altri. «Dunque, andiamo a uccidere qualche altro essere umano, tanto siamo miliardi. Perché non ucciderne ancora un po’?»

«Perché è giunto il momento per questo.»

«È quello che dicono le voci, vero?»

«Nessuno l’ha più fatto da molte generazioni. Hanno ucciso altre cose: simboli del potere, donne, bambini. Non sono altro che surrogati dell’uomo selvaggio, del vero sacrificio.»

«Dio del cielo, e perché questo dovrebbe funzionare?»

«Perché è così.»

«Si uccide qualcuno e questo fa ritornare l’armonia delle sfere? Ci crede davvero?»

«È la verità, se lei fosse nata qualche centinaio di anni fa lo saprebbe. Oggi noi crediamo nella corretta igiene dentale. Crediamo che sia importante scegliere la compagnia telefonica giusta. Cerchiamo di non camminare più sul ciglio dei precipizi.»

«Lei è pazzo,» disse la donna.

«Non credo.» Il suo sguardo risaltava nell’oscurità incombente. «E la sua opinione non mi interessa.»

«Allora non mi dica altro. Non voglio ascoltarla.»

«Bene, ma questo deve saperlo. Si ricorda quella nonna di cui le ho parlato?»

Patrice deglutì.

«L’ho uccisa io. La spinsi giù dalle scale quando avevo dodici anni. So che era ciò che desiderava. Morì sul colpo. Se i suoi amici non arrivano presto, morirà anche lei, ma molto lentamente.»

Senza nemmeno rendersene conto Patrice era riuscita a strisciare un metro più lontano dall’uomo. Ma era comunque ancora troppo vicina. Negli ultimi due anni le era capitato di pensare che si sentiva pronta per la Morte. Non le andava di fare il suo gioco, ma senza Bill non c’era granché a trattenerla e forse era giunto il momento di compiere quel passo. Raggomitolata sotto la neve in compagnia di una persona che sembrava al tempo stesso qualcosa di più e qualcosa di meno di un essere umano, sapeva che non sarebbe stata la scelta giusta. Morire non era né un atto eroico né significativo. Ti rendeva cadavere e basta. Lei non voleva aggiungersi a quella schiera silenziosa.

Pensò a cosa dire dopo. Ora nevicava più intensamente, era praticamente buio e lei si trovava intrappolata nella foresta, con le mani legate, in balia di un pazzo.

Decise di non dire nulla.

Improvvisamente l’uomo si alzò.

Alzò gli occhi verso la sommità della parete della gola alle spalle di Patrice. Poi si voltò a guardare dietro di sé. La testa era piegata, la bocca socchiusa. Scavalcò il ruscello e iniziò a salire verso la sommità della parete della gola.

«Stanno arrivando.»

Non sembrava contento. Patrice non sapeva nemmeno a chi si riferisse. L’uomo si fermò per un istante, come.se volesse annusare l’aria, poi scomparve come la luna dietro le nubi.

Patrice prese in considerazione l’ipotesi di scappare, ma le sue gambe non rispondevano più, e sapeva che non c’era nessun posto dove andare. Così si raggomitolò ancora di più, chiuse gli occhi e pensò a Verona.

Capitolo ventinove

Questa volta lo sentimmo tutti.

Un rumore improvviso, non vicino. Fu abbastanza acuto da coprire le raffiche di vento e il suono del respiro caldo e affannoso che risuonava nella mia testa. Connelly si voltò rapidamente.

«A terra.»

Nina mi mise una mano sulla schiena e spinse. Scivolammo di lato restando curvi. Cercammo di correre, ma finimmo per ritrovarci impantanati in mezzo alla neve alta. Ci separammo, riparandoci dietro due alberi vicino a una roccia sporgente di quasi due metri. Avevamo le pistole in pugno.

Osservammo Connelly e il suo vice che arretravano verso di noi, tenendo i fucili puntati. La voce di Phil era bassa e un po’ esitante, ma i suoi passi erano precisi e ravvicinati. «Riesce a vederlo?»

Connelly scosse la testa. Mosse il fucile disegnando un arco di circa trenta gradi.

Giunsero dalla nostra parte della sporgenza rocciosa. Quando furono in posizione guardai dietro di noi. Non è sempre facile capire da dove provenga il suono in una foresta e avevo visto molti film. Non riuscivo a distinguere granché. Il terreno saliva nell’oscurità, c’erano rocce, alberi, cespugli e neve. I contrasti rendevano il tutto simile a un quadro di Escher dove diverse interpretazioni si alternano davanti ai nostri occhi per poi confluire in una nebulosa incomprensibilità. Non riuscivo a vedere nulla in movimento.

Guardai di nuovo davanti a noi. Anche lì non si muoveva nulla, a parte la neve. Tutti continuavamo a guardarci intorno, occhi e orecchie ben aperti. I secondi passavano.

La tensione che sentivo nelle gambe cominciò ad allentarsi. La mia mano destra, priva di guanto, era ormai un’appendice fredda e inutilizzabile. Passai la pistola nella sinistra e sfregai la destra sotto l’ascella, facendo una smorfia quando il dolore alla spalla si fece sentire per il movimento brusco. Quando riportai la pistola nella mano destra mi sentii meglio, anche se avevo l’impressione che il pesante metallo stesse fondendosi con essa in un unico pezzo di ghiaccio.

«Non è John,» dissi. «Ne sono certo.»

«No. Ormai siamo vicini. È l’Homo Erectus.»

«Cosa facciamo?» bisbigliò Phil.

«Continuiamo,» disse Connelly. Un piccolo aggeggio nascosto nel palmo della mano si materializzò. Mi domandavo come facesse a sapere la nostra posizione al buio. Premette un pulsante e un piccolo schermo si illuminò per un istante, poi si spense. «Deve essere tre-quattrocento metri più avanti.»

«Deve avere sentito il nostro arrivo.»

«Siamo quattro contro uno,» disse Nina. «Non ci affronterà apertamente. Aspetterà che ci separiamo — o che facciamo un passo falso. Allora ci farà fuori uno alla volta.»

Connelly annuì. «Quindi come volete procedere?»

«Rimaniamo vicini. Crede che sia proprio di fronte a noi?»

«Praticamente.»

«Allora dirigiamoci da questa parte, saliamo sulla sinistra e avviciniamoci di lato. Dove siamo diretti esattamente?»

«È una gola. Ci siamo arrivati dalla sua sommità. Il terreno è più accessibile a nord, dove ci troviamo, mentre dall’altra parte è più scosceso. Gli argini si livellano sulla destra mentre diventano più alti sulla sinistra.»

Nina mi guardò. «Che ne pensi di girare sulla destra e arrivare dal lato a monte?»

«Mi sembra una buona idea.»

«Allora andiamo.»


Adesso procedevamo ancora più lentamente e respirando in silenzio. Tutt’a un tratto avevo cominciato a osservare ogni pezzo di legno che spuntava dalla neve, assicurandomi di non passarvi troppo vicino. Ci muovevamo tutti insieme disposti in una sorta di quadrato di lato inferiore ai due metri e ognuno teneva sotto controllo il proprio quadrante.

Connelly ci fece avanzare lungo il lato sinistro. Il terreno cominciò a salire rapidamente, formando un crinale scosceso, e dovetti usare la mano libera per tenermi alle rocce mentre ci inerpicavamo. Ero stanco morto e avevo la testa sempre più confusa. Il mio piede scivolò sulla roccia bagnata e sbattei con il ginocchio, ma me ne accorsi appena perché avevo dolori un po’ ovunque. Quando arrivammo in cima mi voltai protendendomi per aiutare Nina a issarsi.

Il suolo della foresta declinava da ambo i lati, come se stessimo camminando sulla spina dorsale di un animale enorme.

Scivolammo tra gli alberi, rimanendo accovacciati e respirando lentamente.

Improvvisamente, dalle profondità della foresta sotto di noi salì un vento minaccioso che portò con sé un gelo simile a un chiodo piantato in un orecchio e che agitò i rami intorno a noi.

«Gesù,» bisbigliò Nina.

Il rumore proseguì, un turbinio diffuso accompagnato da un gelido ululato. Sembrava una forza difficile da contrastare e per farlo uno di noi, o più d’uno, si raddrizzò leggermente. Di quel tanto che bastava.

Si udì un crack sordo e un lamento. Vidi Connelly voltarsi di scatto e cadere sulla schiena.

«Oh cazzo, capo, no…»

Mi resi vagamente conto di Nina e Phil che si muovevano rapidamente intorno a me, cercando riparo tra gli alberi. Mi buttai a terra e strisciai fino allo sceriffo.

Il viso di Connelly era teso. «Sto bene,» disse.

Aprii la sua giacca e vidi una macchia scura che si allargava sul lato sinistro del petto, in basso. Misi la sua mano sulla ferita e la premetti forte. Il respiro di Connelly era profondo e regolare. Quell’uomo aveva la pelle dura.

Guardai davanti a me e vidi Nina accovacciata a tre metri di distanza, con le braccia tese e la pistola puntata nella direzione dalla quale eravamo venuti. Il vicesceriffo si abbassò tenendo la schiena contro un albero. Il vento stava trasformandosi in un ruggito regolare.

«Phil, vieni qui,» dissi. Non appena si alzò si sentirono altri due spari. «Stai giù!» Si buttò in avanti e strisciò rapidamente fino a me. Nina sparò nella direzione da cui erano provenuti i colpi.

«Merda, capo,» disse Phil quando vide il sangue.

«Rimani con lui,» gli dissi.

Raggiunsi Nina. «Lo vedi?»

Lei scosse la testa. «È troppo buio. Forse ci stava seguendo da mezz’ora, in attesa del momento giusto.»

«Stando alla direzione dalla quale è stato colpito Connelly il colpo doveva provenire da quella direzione,» dissi indicando un punto in basso a destra. «Sta cercando di prenderci alle spalle.» Guardai la roccia. «Voglio provare a risalire da questo lato e scendere dall’altro, per cercare di prenderlo di sorpresa. Se vedi qualcosa muoversi, spara.»

«Fai attenzione,» disse.

«Ci proverò.» Cominciai a muovermi, ma lei afferrò il mio braccio. Guardai il suo volto freddo e pallido. «Okay,» dissi. «Farò meglio rispetto all’ultima volta.»

Feci un cenno a Phil e gli indicai le mie intenzioni. Lui annuì e si dispose in modo tale che il suo fucile fosse puntato nella stessa direzione della pistola di Nina.

Poi mi arrampicai velocemente sulle rocce. Quando raggiunsi la sommità udii un altro sparo provenire dal basso, seguito immediatamente da due colpi di Nina. La sentii imprecare e poi iniziare a ricaricare.

Strisciai per dieci metri e poi rimasi sdraiato sulla pancia per guardare di sotto.

Freddo e spoglio, il fianco della montagna scendeva a picco. In basso non c’era nessun punto di riferimento, nessun elemento riconoscibile. Dappertutto erano solo sagome sparse di tronchi, rami e rocce, e non appena spostavi gli occhi, perdevi il senso della tua posizione. Tutto quello che si poteva fare era usare la massima cautela, girare lentamente la testa…

Lo vidi.

L’immagine era così confusa che avrebbe potuto essere solo un’ombra, un’illusione ottica creata dall’oscurità e dalla neve. Ma poi riapparve e capii di averlo visto muovere.

Era a una trentina di metri circa di distanza, proprio dove avevamo pensato.

Strisciai ancora qualche metro lungo il crinale fino a quando non fui coperto da un piccolo gruppo di alberi. Mi sollevai poggiando su un ginocchio e un piede. Guardai avanti e valutai la situazione. Se non mi aveva visto prendere posizione in quel punto, allora potevo farcela. Potevo saltar fuori da lì, correre sulla destra e in basso, dirigendomi verso un paio di grossi alberi che riuscivo a scorgere in lontananza, e svuotando il caricatore durante il tragitto. Nell’ipotesi che fossi riuscito ad arrivare laggiù senza essere colpito, avrei ricaricato al riparo degli alberi, pronto per la fase due. A quel punto saremmo stati io e lui da soli, e dovevo riuscire a fare in modo di essere io l’unico a rimanere «eretto».

Uno contro uno: non c’era motivo perché la cosa non dovesse risolversi in mio favore, dopotutto. Infilai la mano nella tasca destra del pesante giaccone, per accertarmi che le munizioni fossero a posto. Il mio cuore batteva forte. Ero consapevole che questo era uno di quei momenti in cui bisogna lasciarsi andare, in cui la riflessione è meno importante della fiducia in se stessi e della rapidità.

Mi spostai lentamente sulla destra di un metro, un metro e mezzo: ero pronto a lanciarmi, ma esitavo. Diedi un’ultima occhiata di lato per sicurezza.

C’era qualcuno.

Era una giovane donna. Era su un rialzo del terreno a dieci metri di distanza. Indossava un pigiama a fiori e aveva i piedi nudi. Stava tra due alberi, quasi come un’ombra e la neve le turbinava intorno, posandosi sulle spalle e sui lunghi capelli. Riuscii solo a distinguere gli occhi e il profilo degli zigomi.

Era Jessica Jones.

«Fai attenzione,» disse. «Sono in molti.»

Poi scomparve.

Persi l’equilibrio e ricaddi all’indietro contro la roccia. Rimasi lì immobile per un momento, fissando il punto dove era comparsa. Guardai a destra e a sinistra, ma era sparita.

Mi trascinai in fretta nel punto in cui era apparsa. Non c’era nessuno, ma la neve era smossa. Mi sembrò di scorgere qualcosa di simile a un’impronta, forse due, ma erano troppo grandi. E chi cavolo poteva andarsene in giro lì fuori a piedi nudi?

Improvvisamente mi ritrovai incapace di fare quanto stabilito. Tornai indietro e sgattaiolai fino a Nina. Lei mi guardò stupita. «Si può sapere che cazzo combini?»

«Credo ce ne sia più di uno,» risposi evitando il suo sguardo.

«Cosa? Come fai a saperlo? Chi c’è con lui?»

«Non lo so.»

«E allora cosa hai visto? Che ti è successo, Ward?»

Non risposi perché non potevo, non sapevo cosa dirle.

Invece scivolai verso il punto in cui Phil si trovava, accanto allo sceriffo.

«Come sta?»

«Sto bene,» disse Connelly, ma non sembrava. «Non ho bisogno della balia. Andate a prendere quello stronzo.»

«Sono almeno in due,» dissi. «Quindi, Phil, abbiamo bisogno di te.»

Phil guardò il suo capo, che gli fece cenno di andare. «Cerca solamente di non farti uccidere,» mormorò Connelly. «La giornata è già abbastanza di merda così senza che io sia costretto ad andare a parlare a tua madre.»

Phil tornò indietro con me. «Mi è sembrato di sentire uno strano odore prima,» disse. «Tu lo hai sentito?»

«No,» risposi. «Cosa intendi per ‘strano’?»

Scosse semplicemente la testa.

Quando arrivammo, Nina mi fissò inferocita. «Che c’è Ward? Cosa è successo laggiù? Sei strano.»

«Niente. Ho solo avuto una sensazione. Ora…»

Poi accadde. Un colpo dall’alto e uno da sinistra.

«Merda,» disse. «Avevi ragione.»

«C’è qualcuno con lui?» disse Phil. «Ma chi?»

«Non…» Per un secondo mi attraversò la mente il pensiero di John e Paul alleati. Impossibile. Allora chi…

Poi smisi di pensare, perché come un’ombra improvvisa comparve un uomo che stava risalendo la china, dirigendosi verso di noi e sparando mentre avanzava.

Io e Nina sparammo contemporaneamente e tutti e due mancammo il bersaglio. Phil rotolò di lato e andò a sbattere duramente contro un albero. Si girò per sparare, ma esitò troppo. Io mi tirai su e premetti due volte il grilletto.

L’uomo fece un giro su se stesso e poi cadde. Gli sparai altre due volte e udii un lamento.

«Nina, rimani qui,» dissi. «Phil, vieni con me.»

Lei mi guardò e fece okay.

Indicai a Phil di avanzare lungo il crinale. Corsi dietro di lui accucciato e ci dividemmo per girare attorno a Connelly. Una serie di colpi echeggiarono dal punto dove si trovava in origine il tiratore.

«Merda,» disse Phil. «Pensavo che l’avessi steso quel tizio.»

«Allora sono in tre,» dissi.

Rimanemmo vicini e immobili per un momento. Guardammo davanti a noi. In quel punto la foresta appariva ancora più scura e fitta. Tremavo e mi sentivo strano. Il mio sesto senso mi fece girare di scatto la testa verso sinistra e credetti di vedere qualcuno che correva tra gli alberi a circa venti metri da noi; ma non era possibile perché ancora una volta si trattava di persone che indossavano dei pigiami, il che significava essere dei pazzi in un posto buio e freddo come quello. Ero esausto e sovreccitato, e cominciavo ad avere le allucinazioni. Dovevo fare attenzione. Abbassai la testa e respirai profondamente un paio di volte.

Stavo levando di nuovo lo sguardo quando sentii uno sparo proprio davanti a noi e qualcosa fischiò nell’aria tra le nostre due teste per rimbalzare sulla roccia alle spalle. Io e Phil rispondemmo al fuoco.

Poi vidi Nina che cominciava a sparare, sotto di noi.

«Cristo,» dissi, in preda al panico. «Phil, mantieni la posizione. Fai fuori quel tizio se ci riesci. Io torno indietro.»

«Non lo mollo,» disse Phil. Tornò a stendersi e cominciò ad avanzare velocemente. Sembrava che ripetesse una lezione imparata guardando troppi film di guerra. Tanto meglio così.

Mi raddrizzai e mi precipitai dove credevo dovesse trovarsi Nina. Non vidi nessuna traccia di lei, ma sentii degli spari tra gli alberi a sinistra. Superai il corpo del primo uomo e guardai il suo viso: freddo, emaciato, duro. Non lo conoscevo.

Ci furono altri spari tra gli alberi davanti a me, non chiaramente distinguibili perché il vento aveva ripreso vigore. Corsi verso il punto da dove mi era sembrato fossero partiti i colpi. Non riuscivo a capire se aveva fatto fuoco una sola persona oppure due.

Saltai giù da una roccia sporgente rischiando di rompermi una caviglia, ma riuscii miracolosamente a rimanere in piedi. Atterrai su uno strato di neve più spessa e mi aprii faticosamente la strada, con le gambe impedite, muovendomi come se si fosse trattato di melassa congelata.

Finalmente arrivai su un terreno più roccioso. Gli spari erano cessati, ma non riuscivo a vedere nessuno.

«Nina?»

Nessuna risposta. Feci un giro su me stesso e cominciai a correre nella direzione in cui pensavo di averla vista andare.

Avevo fatto qualche metro e stavo acquistando velocità quando improvvisamente mi ritrovai senza fiato, schiena a terra, con la neve nelle orecchie e una pietra che mi schiacciava la spina dorsale.

Qualcuno uscì da dietro un albero. Poi un piede si posò sul mio petto, premendo a fondo. Io cercavo di respirare, a corto di ossigeno e con fitte lancinanti che dalla schiena si propagavano in tutto il corpo. Gemetti senza volere. Il piede schiacciò ancora di più e un viso comparve a un metro dal mio.

Capelli corti, occhiali rotondi.

Era il killer del ristorante di Fresno. Mi piazzò la fredda canna di un fucile in mezzo alla fronte e spinse forte.

«Ciao, coglione,» disse.


Nina era a una cinquantina di metri. Aveva sentito qualcosa che correva attraverso gli alberi, qualcosa che non dava l’impressione di essere rallentato né dalle rocce, né dalla neve, né dal terreno irregolare. Doveva essere Paul. Chiunque altro fosse lì insieme a lui, Nina sapeva che l’unica persona in grado di muoversi così agilmente in condizioni simili poteva essere l’Homo Erectus.

Perciò, dopo aver sentito il rumore dei colpi, si era diretta giù lungo il pendio, facendo fuoco all’impazzata, e aveva avuto una fugace visione di qualcosa che si muoveva più in basso. Ma dopo qualche minuto si fermò ansimando e senza più riuscire a vedere o a sentire nulla.

Poi udì un urlo alle sue spalle.

«Ward,» disse, cominciando a risalire la china — scivolò e sbatté la faccia contro la roccia.

Continuò a procedere.


L’uomo spinse la canna del fucile ancora più forte contro la mia fronte.

«E così tu saresti suo fratello,» disse. «Al ristorante sei stato fortunato. Stasera meno. Sembra che tu non abbia quello che ha lui. Sei solo un altro dilettante.»

Tossii. Era l’unica cosa che ero in grado di fare.

«Anche lui morirà stanotte,» aggiunse l’uomo, premendo ancora più forte sul fucile. «Grazie al tuo amico.»

«Chi?»

«John Zandt. Come pensi che abbiamo fatto a sapere come trovarvi? Ha fatto un accordo.»

«Non ha ucciso Dravecky, quindi?»

«Il capo è vivo e vegeto. Naturalmente il tuo amico pensa di uscire da tutto questo come se niente fosse, ma si sbaglia di grosso.»

Premette ancora di più per un attimo. I suoi occhi brillavano dietro i piccoli cerchi di vetro. La sua soddisfazione per il fatto che io non riuscissi a respirare era evidente.

«Adios, testa di cazzo, è tempo di farla finita.»

Riuscivo a vedere il dito che lentamente si stringeva sul grilletto e avevo l’impressione che il terreno si stesse appiattendo per trasformarsi nella mia pietra tombale.

Chiusi gli occhi. Non volevo che la faccia di quest’uomo fosse l’ultima cosa che avrei visto prima di morire.

Sentii il rumore di uno sparo, ravvicinato. Poi altri due, immediatamente dopo.

Aprii gli occhi proprio mentre l’uomo cadeva all’indietro. Voltai la testa e vidi Nina che accorreva.

Si inginocchiò al mio fianco. «Stai bene?» Aveva una guancia coperta di sangue.

Mi sollevai sui gomiti con qualche difficoltà. Stavo bene, perlomeno nel senso che riuscivo a muovermi ed ero in grado di dire che sentivo male ovunque. Il che presumibilmente significava che la mia schiena era intatta e che quindi potevo rimettermi in piedi da solo.

«Cosa è accaduto alla tua faccia?»

«Non farmi innervosire. Cosa ti stava dicendo? Stava dicendoti qualcosa su John? Mi è sembrato di sentire il suo nome.»

«No. Stanno cercando Paul.»

Mi afferrò per il braccio e mi aiutò a tornare in posizione eretta. Traballavo vistosamente e facevo fatica a tenermi in equilibrio. Ritrovata una certa stabilità respirai profondamente, tenendo le mani poggiate sulle ginocchia.

Quando mi raddrizzai vidi Nina china sul tizio. Udii tre spari provenire da una certa distanza davanti a noi. Nina non si mosse.

«Nina…»

«Aspetta un minuto,» disse.

L’uomo a terra stava cercando di sollevare il busto. Perdeva sangue da una coscia e dalla parte posteriore del collo. Si muoveva lentamente, dando comunque l’impressione di riuscire a resistere. Nina gli sferrò un calcio in un fianco.

«Questo è per Monroe,» disse con voce bassa e rabbiosa. «È uno stronzo, ma è il mio stronzo.»

«È corrotto,» disse l’uomo e la sua voce era poco più di un sospiro.

«Chi non lo è?» Il viso di Nina era teso. «E poi, visto che gli avevate già passato l’informazione, perché diavolo avete ucciso quel poliziotto?»

«Per forzargli la mano. Monroe non aveva fatto nulla dopo il primo avvertimento.»

«Il nome dell’agente era Steve Ryan.»

«Chiunque fosse, stavo solo facendo il mio lavoro,» disse sogghignando.

«Giusto,» disse Nina. Annuì una volta e poi fece per andarsene.

Poi si voltò e gli sparò alla testa. Si chinò verso di lui e gli disse: «Questo è da parte di sua moglie.»

Capitolo trenta

Patrice era raggomitolata da circa dieci minuti quando udì il rumore di qualcuno o qualcosa che si muoveva velocemente, che si infilava tra i cespugli della gola. Rimase incerta sul da farsi. In fin dei conti ognuno di noi è convinto che rimanendo assolutamente fermi e non guardando, i mostri non ci vedranno.

Ma lei decise che doveva sapere.

Sollevò la testa e vide la Morte spiccare un salto nel letto del torrente, e fermarsi poi indecisa in mezzo al corso d’acqua, apparentemente dimentica della sua presenza lì. Patrice la vide valutare le diverse opzioni, e poi cominciare a risalire il fiume a lunghi balzi e scomparire dietro un paio di grossi alberi. Ma Patrice sapeva che non si era allontanata molto.


Frugai nella giacca dell’uomo e presi tutte le pallottole che trovai, poi mi resi conto che non avevo intenzione di usare l’arma di quell’assassino, e la lasciai cadere al suo fianco.

«È successo qualcosa lassù,» dissi.

«Merda,» disse Nina. «Sì, ho sentito gli spari.»

Ci precipitammo su per il sentiero dal quale eravamo venuti. Faceva freddo e il vento, sferzante, continuava a ululare facendomi sentire lontano anni-luce da casa. Ora cominciavo a zoppicare, e il dolore tremendo nella parte destra della schiena mi diceva che dovevo avere qualche costola rotta. Ci eravamo allontanati più di quanto credessi. Passarono cinque minuti prima che vedessi Nina irrigidirsi e bloccarsi; alzai lo sguardo e vidi una figura di fronte a noi, vicino alla sommità del crinale.

«Non sparate.» Era Phil. «Cristo,» disse. «State bene? Cosa vi è successo?»

«Ne abbiamo steso uno,» dissi. «E tu?»

Scosse la testa, si voltò e cominciò a camminare rapidamente verso la posizione di Connelly. Noi lo seguimmo.

«L’ho inseguito,» disse. «Ma non sono riuscito a trovarlo. Poi ha cominciato a sparare da non so dove e c’è mancato poco che mi facesse saltare le cervella. Io ho risposto al fuoco e mi sono riparato dietro una grande roccia, cercando di trovare una via d’uscita, ma ho incontrato un burrone e così ho pensato che per me era finita. Non potevo andare da nessuna parte e…»

Per un attimo sembrò vergognarsi. «Forse avrei dovuto sparare prima, ma non l’ho fatto. Non ho mai tentato di uccidere qualcuno prima d’ora. Così, mi sono alzato, dicendomi che dovevo cercare un’altra strada per tornare, ed è in quel momento che ho visto quest’altro tizio.»

«Quale tizio?»

«Non lo so. È spuntato fuori dal nulla e l’ho visto per un secondo soltanto. Ha fatto una cosa del genere…» Phil mimò qualcuno che si portava il fucile alla spalla, «…e ha fatto fuoco ancora prima che fosse in posizione. Solo un colpo. Bang. Io mi sono buttato a terra e non ho sentito più nulla per un paio di minuti. Così, alla fine, ho sollevato la testa e il tizio era sparito. A dieci metri da me, però, giaceva un cadavere.»

«Non gli hai sparato tu?»

«No. Ve l’ho detto. Ma lo ha fatto qualcun altro. Sono andato a osservare il corpo. Aveva un solo buco nel centro della fronte, come se ci avessero disegnato un bersaglio. Chi diavolo era quello? Che cavolo sta succedendo qui?»

«Deve essere stato John,» dissi.

Nina scosse la testa. «John è un uomo di città. Non ce lo vedo avvicinarsi furtivamente a uno di questi uomini e farlo fuori con un solo colpo. Per quel che ne so non ha mai usato un fucile da caccia in vita sua.»

«Allora chi è?»

«L’Homo Erectus,» disse. «Deve essere lui. Gli altri sono venuti a uccidere lui, non noi.»

«Non ci credo. Avrebbe lasciato che uccidessero prima noi.»

«Tu sei suo fratello, Ward.»

Non capivo che differenza potesse fare.

Quando tornammo da Connelly lo trovammo in piedi, appoggiato a un albero, ma diritto.

«Cristo, sceriffo, si risieda.»

«Sto bene.»

«Signore, con tutto il rispetto, non è così,» disse Nina. «Sta sanguinando come un maiale sgozzato.»

L’omone guardò in basso e vide le scure macchie di sangue che avevano cominciato ad allargarsi sui suoi pantaloni. «Avete ragione. Faremmo meglio a sbrigarci, allora.»

Infilò una mano nella tasca del cappotto e tirò fuori il GPS. La mano tremava, ma non troppo. Un lampo dello schermo, e poi lo sceriffo indicò con un cenno della testa la direzione da seguire: davanti a noi sulla destra.

Procedemmo tra gli alberi. Superammo il corpo dell’altro cecchino, sdraiato schiena a terra. Phil aveva ragione: chi lo aveva ucciso, era un professionista.

Dopo un po’ il terreno si appiattì su entrambi i lati, finendo per formare una sorta di tunnel fiancheggiato da alberi e ombre: ipotizzai che si trattasse del letto di un corso d’acqua ormai asciutto o più probabilmente di un canale dell’era glaciale. Anche il vento riprese vigore, e noi ci muovemmo con meno precauzioni, confidando che avrebbe coperto il rumore dei nostri passi.

Connelly inciampò, si fermò, poi perse l’equilibrio e cadde in avanti. Feci per chinarmi, ma lui scrollò il capo lentamente.

«Andate,» disse.

Mi tolsi il cappotto e lo coprii.

E così ripartimmo. I cespugli erano come enormi palle di cotone ghiacciato. I rami più bassi degli alberi oscillavano in continuazione, come mossi dalle mani di un pazzo. Qualcosa sibilò alla nostra sinistra, ma stimai che fosse il vento.

Nina allungò il braccio e si fermò. «Laggiù.»

Guardai in quella direzione. Sessanta metri più avanti si poteva notare che i tronchi lasciavano un vuoto scuro.

Doveva essere per forza l’orlo del precipizio.

Phil bisbigliò. «Andiamo avanti diritti?»

«No,» rispose Nina. «Tu passerai dalla destra, io al centro. Ward, tu arriverai dalla sinistra. Appena vedete qualcosa, sparate e poi urlate forte.»

Annuimmo. Phil si allontanò velocemente, infilandosi nel sottobosco il più silenziosamente possibile.

Nina mi fece un segno di avvertimento col dito, poi proseguì diritto. Dopo aver fatto un mezzo giro a destra, mi avviai a mia volta, procedendo lungo il fianco del declivio il più velocemente possibile.

«È tutto a posto,» continuavo a ripetere a me stesso. Fino a che non udii uno sparo.

A quel punto tutto era nelle mani degli dèi, e io potevo solo sperare che mi stessero osservando e che non ce l’avessero con me.

Nina cominciò a rallentare, a fare meno rumore. Dopo cinque minuti di faticosa avanzata aveva percorso forse trenta metri. Sulla destra poteva distinguere un’ombra che procedeva sul fianco del ripido vallone: Phil. Scomparve dopo pochi secondi dietro qualche albero o in un avvallamento. Non riusciva a vedere Ward sulla sinistra. In quella direzione il terreno era irregolare e scosceso, quindi lui doveva essere stato costretto a passare molto largo. Si augurò che nessuno di loro si perdesse e che nessuno morisse. Non in quel posto, con quel freddo.

C’era un buio pesto. Gli alberi ora le lasciavano solo una via per avanzare, ma i cespugli rendevano comunque difficoltoso seguirla. Passò sotto un tronco abbattuto, si appoggiò contro alberi che invece erano ancora vivi. Sebbene fosse in parte coperto dal rumore del vento, riusciva a sentire il gorgoglio solitario dell’acqua. È strano come si possa intuire quanto l’acqua sia gelida solamente sentendone il rumore.

Proseguì con cautela, un passo dopo l’altro. Cercò di scivolare, ma la neve e gli arbusti lo rendevano impossibile. Doveva continuare a sollevare i piedi, con piccoli passi accorti.

Improvvisamente, bang — udì uno sparo.

Si voltò rapidamente. Da dove veniva? Non da sinistra, a meno che…»

Poi sentì un urlo, soffocato e indistinguibile. Proveniva da destra, ne era certa. Doveva essere Phil che aveva colpito qualcosa.

Lasciò da parte ogni prudenza e avanzò con decisione. Ora doveva arrivare in fondo velocemente. Sperava che anche Ward avesse sentito; lui sarebbe arrivato in fretta, ne era certa.

Teneva la pistola puntata davanti a sé, abbassando la testa per evitare i rami con le loro fredde e pungenti frustate, e correndo il più velocemente possibile. Era come lottare contro ragnatele spinose. Si spostò per evitare uno sbarramento di vegetazione. Poi udì un altro urlo, capì che probabilmente significava guai in vista, e trascurò di prendere le dovute precauzioni. Ancora quattro passi e poi cadde.


Mi ero allontanato troppo. Quando ero partito avevo valutato bene la distanza, ma ogni volta che cercavo di discendere all’interno della gola, c’era qualcosa che me lo impediva. Alberi diritti o abbattuti; piante impossibili da scavalcare; rocce scivolose che improvvisamente si separavano formando voragini che non potevo superare con un salto, ma solo aggirare. Continuavo a essere spinto sempre più lontano sulla sinistra, lungo una cresta che continuava a restringersi.

Alla fine abbandonai questa strada imprecando in silenzio, e tornai indietro salendo fino a che non attraversai un valico roccioso che mi permise per un po’ di avere la strada libera. Continuavo a trovarmi nell’impossibilità di scendere diritto. Il tempo trascorreva inesorabile e ci stavo impiegando troppo. Desiderai che fosse giorno e che Nina avesse chiamato i federali, l’esercito o le Giovani Marmotte. Invece, a coprirci le spalle avevamo due poliziotti, uno dei quali era sdraiato a terra ai piedi di un albero circa cento metri più indietro e in preda alle convulsioni.

Alla fine riuscii a trovare un piccolo passaggio che conduceva, attraverso una distesa di rocce nude, verso uno spazio aperto alla sommità della gola che pensavo di poter scalare.

In quel momento udii uno sparo.

E forse anche un urlo qualche secondo dopo, ma non ne fui sicuro.

Infilai la pistola in tasca e mi aggrappai alle rocce davanti a me. Le avrei superate, senza pensare al dopo. Mi tirai su, mi lasciai scivolare dall’altro lato e vidi che davanti a me il terreno era più sgombro. Finalmente.

Quando toccai terra, cominciai a correre a più non posso.


Cadde velocemente, cercò di aggrapparsi a qualcosa, ma perse la pistola. La caduta fu rumorosa e breve, anche se a lei sembrò durare un’eternità; poi Nina urtò con la pancia contro qualcosa di duro che la fece ruotare così rapidamente da farle girare la testa. Atterrò di fianco come un sacco di legna lanciato da un aereo.

Si mise immediatamente seduta. Poi, dopo aver ruotato sul fianco, cominciò ad avanzare carponi ancora prima di rendersi conto di dove si trovava, guardando in tutte le direzioni alla ricerca della pistola.

Si accorse di essere in un posto buio e roccioso, e che l’acqua era molto più vicina, adesso.

Ma dov’era la pistola?

Sperava che non fosse rimasta incastrata in alto, in qualche fessura o radice. Ne aveva bisogno più di ogni altra cosa.

Avanzò a tentoni, tastando il terreno con le mani. Si sentiva ancora sottosopra per la caduta e non riusciva a collocarsi fisicamente da qualche parte. Sotto le mani sentiva ghiaia fredda, bagnata, appuntita. Nel buio era difficile distinguere cosa c’era più avanti: altra oscurità o una parete di roccia?

Improvvisamente udì qualcosa di simile a un gemito provenire dal lato destro. Non sembrava molto vicino e da quella parte non riusciva a vedere nulla. Questo gemito non è un buon segno, a meno che non si tratti di lui. A meno che Phil non l’abbia colpito. O a meno che non si tratti semplicemente del vento. Se non è il vento, né l’Homo Erectus, allora non è niente di buono.

Era poi così sicura che fosse la direzione in cui era andato Phil? E se si fosse trattato di Ward? Era vicina alla gola? Era questa?

Dov’era la pistola? Dove cazzo era quella pistola di merda?

Vide qualcosa di bianco davanti a sé, ma non si trattava di neve. Guardò più attentamente e vide che si trattava di una donna anziana raggomitolata dentro un grande cappotto. Era seduta sull’altra sponda di un torrente, e teneva la schiena addossata a una roccia.

La donna stava fissando Nina con gli occhi sbarrati, senza battere le palpebre, né produrre il minimo suono. Aveva la testa e le spalle coperte di neve; era simile a una statua nascosta in un cimitero abbandonato, lontano dai sentieri battuti.

La sagoma e la posizione della donna diedero finalmente a Nina un punto di riferimento visivo, un mezzo per capire dove si trovava. Era vicina al fondo di una gola — della gola — dalle pareti scoscese, ma con un fondo abbastanza pianeggiante, largo circa quattro metri e mezzo, che si stringeva rapidamente da ambo i lati.

Cercò di fissare l’immagine nella sua mente e ricominciò a cercare la pistola, sforzandosi di farlo lentamente, come se non fosse stato molto importante, come se avesse perso un orecchino sulla spiaggia di Malibu, il taxi dovesse arrivare solo dopo un quarto d’ora e l’interrogativo fondamentale della serata fosse se prendere un antipasto oppure degli stuzzichini o semplicemente un buon bicchiere di vino.

Eccola. Grazie a Dio.

Nina avanzò carponi fino al ruscello e tirò fuori la pistola dall’acqua bassa. La scosse, cambiò il caricatore. Poi corse fino all’altra sponda e si accovacciò vicino alla donna. Parlò molto piano cercando di controllare il respiro, di mantenerlo regolare.

«Lei è Patrice Anders?»

La donna continuò a fissarla. Aveva del ghiaccio tra le ciglia. Era a un passo dal congelamento. La sua testa sembrò muoversi impercettibilmente. Era forse un cenno?

Nina la scosse gentilmente per le spalle. «Signora?»

«Sì,» rispose lei a voce alta.

«Shh. C’è qualcuno con lei? Lui è ancora qui?»

Stavolta la vecchia rispose più piano: «È qui da qualche parte.»

«Chi? Quel Tom o Henrickson?»

«Lui. Ma quello non è il suo vero nome.»

«Veramente sì.» Nina si mise accanto alla donna e guardò nella stessa direzione. Non vide nulla se non le pareti rocciose sopra il corso d’acqua che si innalzavano leggermente sul lato sinistro.

Poi sentì di nuovo un gemito.

«Non si muova,» disse. In quel momento si accorse del motivo per cui la posizione della donna sembrava così assurda. Aveva le mani legate dietro la schiena. Armeggiò intorno al nodo con le dita intorpidite. La corda era congelata e ci volle un’eternità per disfare i nodi. Una volta slegata, la donna portò le mani sul davanti molto lentamente, come se avesse paura che le braccia le cadessero a pezzi.

«Resti ancora immobile,» disse Nina.

Passò attorno ai cespugli e procedette lungo il fianco della gola restando accovacciata. Non avrebbe mai più lasciato la pistola, ma con una mano sola per mantenersi in equilibrio continuava a scivolare sulla roccia bagnata. Si aggrappava ai rami, cercando di trascinarsi in avanti, e anche se la cosa funzionava, Nina si rendeva conto di avanzare molto lentamente. Piccoli rivoli d’acqua le ghiacciarono le mani. Impiegò un tempo lunghissimo per percorrere quindici, venti metri controcorrente, e ogni passo era una brutta esperienza.

Sperò che Ward fosse in arrivo. Se lo augurava veramente.

Più avanti le pareti erano alte poco meno di due metri. Riuscì a vedere che c’era qualcuno sdraiato sul fondo.

Era Phil.

Era vivo ma si stringeva una coscia con ambo le mani, contorcendosi lentamente. Stava cercando disperatamente di non fare rumore, gli occhi spalancati per il dolore, ma quando la vide gli scappò un altro gemito.

«Mi ha sparato,» disse come tossendo. «Henrickson ha preso il mio fucile.» Con uno scatto della testa indicò la direzione dalla quale lei era arrivata, lungo il letto del torrente.

Nina invece guardò dietro il vicesceriffo, controllando la sommità delle pareti della gola. Il fatto che lui fosse andato nella direzione indicata da Phil non significava nulla. Poteva anche essere già tornato di nuovo sopra la gola.

Oppure… Valutò rapidamente l’idea di risalire il fiume, cercando di arrampicarsi su una delle pareti per trovare un punto in alto dove appostarsi, e augurarsi al tempo stesso che l’Homo Erectus tornasse giù di sotto. In questo modo sarebbe diventato lui il pesce in trappola al posto suo.

Ma Nina sapeva che non sarebbe stata in grado di arrampicarsi tenendo la pistola in mano, e inoltre la sua schiena sarebbe stata un bersaglio ideale per qualcuno in grado di uccidere.

«Premi sempre sulla ferita,» disse e tornò indietro.

Si tenne lontana dalle pareti questa volta e camminò proprio in mezzo al torrente, immersa fino alle ginocchia in un’acqua incredibilmente fredda. Fredda e rumorosa, impetuosa e gorgogliante, e in aggiunta un vento che ululava e la neve che continuava a cadere senza sosta. Si sarebbe detto che volesse continuare a scendere fino a ricoprire ogni cosa per l’eternità.

Non poteva voltarsi e guardarsi intorno, perché i ciottoli e le rocce erano troppo instabili sotto i suoi piedi. Quindi proseguì tenendosi nel centro, scrutando davanti a sé, cercando di non perdere di vista la Anders, così da capire di quanto si era allontanata dal punto da cui era partita. Pensò di urlare, contando sul fatto che Ward avrebbe potuto sentirla, ma l’Homo Erectus poteva essere molto più vicino e si rese conto che quell’idea dello «spara e urla» era stata molto stupida e si pentì di essere stata lei ad averla suggerita.

Non riusciva ancora a vedere la donna, e questo la spaventò facendole aumentare il passo.

Poi, con l’angolo dell’occhio, vide una figura in piedi sulla parete sinistra della gola. Le bastò una frazione di secondo per rendersi conto che l’uomo aveva un fucile sulla spalla e che quindi non poteva essere Ward. Con una rapidità tale da impedire il coinvolgimento della parte razionale di se stessa, ruotò il busto, alzò le braccia e sparò — tre volte.

I primi due colpi esplosero come applausi, l’ultimo fece un suono secco: la figura scivolò e cadde lungo la parete della gola.

Corse in mezzo all’acqua, dimenticandosi del freddo e di qualsiasi altra cosa che non fosse l’uomo di fronte a lei. Tenne la pistola puntata avvicinandosi sempre di più, fino a che non fu a tre metri di distanza.

Un solo colpo non basta mai. Doveva sparargli di nuovo.

Il dito sul grilletto stava per scattare quando l’uomo si tirò su e mostrò il suo volto.

«Oh Cristo,» disse lei, incredula. «John…»

Poi sentì il rumore di qualcuno che atterrava delicatamente dietro di lei. La pistola le fu strappata, un braccio la afferrò per il collo e un gelido cerchio di metallo premette sulla sua tempia.

«Salve, agente Baynam,» disse una voce. «Ottimo lavoro.»

Capitolo trentuno

Corsi fin quasi in capo al mondo.

Se all’ultimo momento non mi fossi tenuto con la mano sinistra, sarebbe successo, avrei raggiunto quella sporgenza rocciosa e fatto un passo di troppo, precipitando nella notte senza fine. Lì, sospeso nel vuoto, ebbi una fugace visione dell’enorme salto, sentii il ramo piegarsi e udii il ruggire dell’acqua che si infrangeva da qualche parte, molto più in basso.

Mi sollevai, voltando in fretta le spalle al burrone, disperato e terrorizzato. I miei polmoni urlavano di dolore come se fossero stati riempiti di schegge di vetro.

Mi sporsi e vidi che ero sì arrivato alla gola, ma lontano dal punto esatto. Dove mi trovavo misurava più di dodici metri di larghezza, e le pareti erano così ripide e profonde che sembravano essere state prodotte da un gigante con un unico colpo d’ascia.

Siccome però era la gola che cercavamo, non potevo fare altro che tornare indietro.

Mi tenni a un paio di metri dal ciglio e mi feci strada tra gli arbusti. Gli alberi erano più piccoli in quel punto, ma la cosa non era di grande aiuto: significava solo che il sottobosco aveva più spazio a disposizione. Dopo non molto mi ritrovai di nuovo lontano dalla gola, obbligato a procedere lungo il percorso dal quale ero arrivato.

Mi sforzai in tutti i modi di avanzare, correndo quando era possibile, ma sempre lottando contro la corrente. Stavo cominciando a pensare che sarei stato costretto a tornare indietro, quando improvvisamente mi bloccai.

Stavo guardando attraverso le file di alberi che mi separavano dal burrone e mi sembrò di vedere qualcosa, un’apparizione alla sommità della gola. Mi diressi verso quel punto, consapevole che lì il salto sarebbe stato ancora proibitivo.

Quando arrivai lì, capii cosa avevo visto.

C’era un grosso tronco d’albero sospeso sul vuoto. Era caduto in modo tale da sembrare un ponte rudimentale. L’altra parte era molto più spaziosa ed era difficile non considerarlo come un invito.

Mi avvicinai all’estremità del tronco. Gli diedi un calcio per verificare la sua stabilità. La riva opposta sembrava offrirmi un percorso sicuro nella direzione in cui avrei dovuto andare, o almeno molto più vicino di quanto non fossi in quel momento. Alla sola condizione di riuscire ad attraversare tre metri e più di strapiombo al di sopra di rocce fredde e appuntite, passando su un tronco coperto da dieci centimetri di neve.

Rinunciai. Non sarei stato utile a nessuno con il cranio fratturato. Così mi voltai.

Poi sentii tre spari e una voce, che somigliava a quella di Nina, la quale produsse un suono che non era un urlo di trionfo.

Salii sul tronco e inspirai profondamente.

Non sapevo cos’altro fare se non attraversarlo di corsa.

Patrice osservava quanto stava accadendo davanti ai suoi occhi. Aveva visto Henrickson riguadagnare il fiume come se fosse stato in un film proiettato al contrario. Non aveva mai visto nessuno così agile e sicuro. Con un movimento fluido aveva disarmato la donna e puntato una pistola alla sua tempia.

Diede un calcio al fucile dell’altro uomo mandandolo nell’acqua, poi indietreggiò di qualche metro assieme alla donna fino a che non furono in mezzo al torrente.

L’uomo a terra sembrava sofferente, ma cercava di non darlo a vedere. Patrice sapeva che è un atteggiamento tipico degli uomini.

«Come sei arrivato qui, John?»

«Dravecky,» rispose l’uomo, senza nascondere una certa soddisfazione. «Persino gli psicopatici si vogliono liberare di te. Sei il rinnegato dei rinnegati. Non hai un posto dove andare.»

«C’è sempre un luogo,» disse Henrickson. «Trovare Dravecky e ucciderlo sarà il primo obiettivo. Il numero due sarà il suo amico della Sicurezza Nazionale a Los Angeles. Lo hai già incontrato, Nina?»

«Sì.»

«L’avevo immaginato. Non preoccuparti, sono molto meno importanti di quanto credano.»

Patrice vide l’uomo a terra muoversi improvvisamente. Aveva in mano una pistola, ma Henrickson si era mosso contemporaneamente, indietreggiando di altri due metri, e ora teneva la donna proprio davanti a sé, facendosi scudo col suo corpo.

«Cosa farai, John? Le sparerai per prendere me?»

Patrice osservò il volto di Nina e capì che la donna non sapeva che cosa avrebbe deciso l’uomo a terra. Nina cercò di muoversi per concedere a John la possibilità di tirare su qualcosa che non fosse una parte del suo corpo, ma l’uomo dietro di lei era agile e rapido.

«Cos’è più importante? Piazzarmi in corpo un proiettile per vendicare Karen e uccidere la tua amica? Forse dovrei risparmiarti la scelta e ucciderla subito.»

Zandt si era rimesso in piedi. La mano che teneva la pistola non sembrava molto ferma.

«Se la uccidi, io ti uccido,» disse.

Patrice era convinta che le speranze dell’uomo di battere Henrickson erano praticamente nulle. Sapeva che Henrickson ne era consapevole, ma sapeva anche che questo non avrebbe impedito all’altro di tentare lo stesso.

Poi si rese conto di una cosa: il suo aguzzino non aveva più guardato verso di lei.

Henrickson non l’aveva più degnata di uno sguardo da quando era ridisceso nella gola. Sapeva che questo non significava che si fosse dimenticato di lei. Era convinta che quell’uomo aveva il perfetto controllo della situazione, ma forse in quel momento le sue priorità erano altre.

Era in grado di farcela? Poteva saltare in avanti e gettarsi su di lui? Anche solo per sbilanciarlo quanto bastava per permettere all’altro di sparare?

Non ne era certa, ma pensò che fosse il caso di provare.

Lentamente stese le braccia. Le facevano male come se qualcuno la stesse infilzando con ferri incandescenti. Cercò di muovere i piedi e il risultato non fu incoraggiante, ma non importava molto. Non aveva bisogno di arrivare a lui, doveva solo creare l’effetto sorpresa.

Si spinse in avanti.

Non si mosse. Ritentò, ma era incapace di muoversi. Era come se qualcosa la tenesse inchiodata, era così irrigidita dal freddo, aveva le gambe così bloccate che…

No. C’era qualcosa che la teneva.

Girò lo sguardo. Qualcuno le aveva messo le mani sulle spalle. Voltò la testa lentamente.

Tom Kozelek era accovacciato dietro di lei. Aveva uno strano odore, e con le sue mani enormi la tratteneva dolcemente per le spalle, impedendole di muoversi.

Tranquilla, le disse in un sussurro. Arriva qualcuno.

Poi la lasciò e scomparve. Le sembrò di sentire un leggero sciabordio nell’acqua dietro di sé.

Non riusciva a muoversi, comunque. Dopo tutto, aveva le gambe congelate.


Avevo percorso i tre quarti del tronco, quando il mio piede scivolò. Come se avessi camminato sul ghiaccio calzando scarpe di ghiaccio. Stesi le braccia in avanti e pregai.

Atterrai sull’altro lato aggrappandomi a dei cespugli. Mi tirai su, mi feci strada tra rocce, radici e neve fino a quando trovai qualcosa su cui posare i piedi.

Cominciai a correre. I polmoni non mi facevano più male e neppure le costole, la schiena e la spalla. I miei piedi sentivano ogni passo come se stessi correndo su un levigato prato all’inglese; i cespugli si dileguavano come sogni nebbiosi e gli alberi si aprivano per rivelare un passaggio che era sempre stato lì, come se le montagne si fossero date la forma adeguata per accoglierlo. La mia visibilità era scarsa in mezzo alla neve che cadeva, ma sapevo dove dovevo andare — se fossi riuscito ad arrivare in tempo.

Fui costretto a risalire per una cinquantina di metri, poi curvai nuovamente a destra dirigendomi verso il ciglio della gola, che ora riuscivo a scorgere. Correvo veloce, senza preoccuparmi del rumore. Ormai era troppo tardi per farmi dei problemi.

Arrivato in cima scivolai dietro un albero e mi accovacciai di lato; estrassi la pistola, vi infilai un caricatore pieno, inspirai e mi alzai.

«Ciao Ward,» disse una voce da sotto. «Ti stavo aspettando.»

Feci mezzo passo avanti e poi mezzo verso l’albero. Guardai in basso nella gola. Vidi qualcuno sdraiato a terra ai piedi della parete sulla quale mi trovavo; teneva la pistola puntata davanti a sé. Pensai subito che fosse Paul, ma poi mi accorsi che era John e capii che non era stato lui a pronunciare il mio nome.

A una decina di metri c’era Nina, su una linea diagonale rispetto al fiume. Aveva una posizione molto strana, proprio in mezzo al torrente. Poi vidi che aveva il braccio di un uomo intorno al collo e un’arma puntata alla tempia. L’uomo era Paul.

«Lasciala andare,» gridai.

«Non prima di averla uccisa.»

«Ti sparerò.»

«Non credo. John non può farlo, e nemmeno tu.»

Mi resi conto che aveva ragione. Sì era messo dando la schiena alla parete opposta della gola. Con me e John entrambi dallo stesso lato, nessuno di noi due poteva sparare senza colpire Nina.

La guardai. «Fallo, Ward,» disse.

Feci un passo indietro per coprirmi. Paul sparò e io credetti che avesse ucciso Nina, ma poi capii che aveva puntato la pistola contro di me. Il proiettile mi passò vicino. L’arma tornò immediatamente alla tempia di Nina.

«Sì, fallo,» disse. «Dai, ora tocca a te.»

«Ward, sparagli, Cristo santo,» urlò John.

«Non è sulla mia linea di tiro.» Non sapevo che fare. Cercai di muovermi lungo la riva, ma Paul mi vide e modificò la sua posizione quanto bastava per proteggersi da me e da John.

«Cosa conti di fare adesso?» urlai. «Te ne torni a Seattle? È bene che tu sappia che non è esattamente dietro l’angolo.»

Paul si limitò a ridere.

Per lui era come un gioco. Sapeva che stavo arrivando e mi aspettava. Voleva che fosse uno di noi a farlo, provocato fino al punto di commettere un terribile errore.

Altrimenti ci avrebbe pensato lui senza battere ciglio e allora sarebbe rimasto lui contro di me e contro un uomo ferito. Non nutrivo dei sentimenti particolarmente positivi nei confronti di John in quel momento, ma non potevo fare qualcosa che avrebbe potuto costargli la vita.

Proprio allora John sparò.

Mancò il bersaglio. L’Homo Erectus fece un altro passo indietro trascinando Nina con sé.

Guardai in su lungo la gola e mi resi conto che se l’avesse uccisa in quel momento e avesse poi risalito velocemente il torrente, sarebbe scomparso prima che io fossi riuscito ad avvicinarmi. Sapevo che il tempo a nostra disposizione stava scadendo.

Avrebbe ucciso Nina e poi sarebbe scappato.

Gli occhi di Nina erano fissi su di me. Vidi la sua mano che si muoveva. Sentii che mi diceva che quello era il momento di fare ciò che ritenevo giusto e vedere come sarebbe andata.

Feci un passo indietro nella direzione da cui ero arrivato abbassando le braccia per un momento. Le mani si stavano congelando e così la mia testa, completamente vuota e al tempo stesso occupata da un unico pensiero.

Tutto quello che vedevo era il volto di Nina.

Poi, all’estremità del mio campo visivo, notai un movimento sul ciglio della parete opposta della gola. Non proprio sul bordo, ma leggermente più dietro. Vidi qualcosa muoversi, impercettibilmente.

Sollevai il busto.

«Vaffanculo, Paul,» dissi. «Non ti darò questo piacere.»

«Come vuoi.» Mi guardò dritto negli occhi e spinse ancora più forte la canna della pistola contro la tempia di Nina. «Allora lo farò io per te.»

La figura dall’altro lato scivolò più vicino, fin quasi al bordo della parete. Continuai a guardare Paul senza lasciar trasparire nulla.

«Ward, sparagli oppure lo farò io.»

«John, non fare nulla.»

Aspettai un attimo. Poi scattai a sinistra e gridai: «Ora!»

Paul si voltò, arretrando per tenere Nina tra me e lui.

Connelly sparò. Approfittando dell’angolo di tiro a lui favorevole, dalla parete opposta della gola, piantò una pallottola nella spalla di Paul.

L’Homo Erectus ruotò, con la pistola spianata davanti a sé, e per un prezioso istante lo vidi senza nessun ostacolo tra me e lui. Sparai tre volte, colpendolo a una spalla, a un braccio, a una gamba.

Si voltò goffamente cercando di trattenere Nina, ma lei si dimenò e scalciò riuscendo a liberarsi dalla morsa. Cercò di correre ma riuscì a fare solo qualche metro prima di cadere.

Nel frattempo stavo già scendendo lungo la parete. Nella discesa sparai ancora, e stavolta lo centrai al corpo. Paul andò a sbattere contro la roccia, perdendo la pistola.

Mi frapposi rapidamente tra lui e Zandt. Non ero sicuro che sarebbe servito a qualcosa, ma John non sparò.

Attraversai il torrente. Camminai nell’acqua gelida fino all’altra sponda e mi fermai a meno di due metri.

Alzai il braccio puntando la mia pistola su di lui.

Paul era disteso ai piedi della parete rocciosa e sanguinava copiosamente. Era difficile credere chi fosse.

Mi guardò.

Il suo viso era così simile al mio.

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