Yakima

Avevamo appuntamento nel parcheggio del centro commerciale di Yakima, una piccola città dello stato di Washington. Yakima è una città nel senso che è in questo modo che si fa chiamare, e possiede un centro commerciale nel senso che al suo interno si possono fare acquisti stando al chiuso senza che la vista dell’esterno ricordi alla gente dove si trova. In tre ore erano entrate solo due persone: entrambe erano adolescenti che indossavano magliette da football e nessuna delle due aveva l’aria di possedere il denaro sufficiente per cambiare le sorti del posto. Quando di lì a poco uscirono, lo fecero a mani vuote. Enormi striscioni attorno al terzo piano segnalavano la vendita di prodotti a prezzi scontatissimi. Il grande spazio d’angolo al piano terra era deserto, e questo non è mai un buon segno.

Stavo seduto in macchina bevendo caffè che prendevo da un Seattle’s Best sulla strada di fronte. La caffetteria era l’unico negozio della strada che dava l’impressione di credere nelle proprie possibilità commerciali: gli altri sembravano avere già preparato l’insegna «Affittasi» allo scopo di procurarsi qualche soldo per affrontare l’inevitabile. Mentre aspettavo, avevo la sensazione di riuscire quasi a sentire il rumore che faceva il sindaco mentre, seduto da qualche parte, tamburellava con le dita su una grande scrivania luccicante, sul punto di impazzire davanti al sonnecchiare della città intorno a lui. Probabilmente, la città sarebbe sopravvissuta — anche questa zona morta aveva bisogno di un posto dove ospitare uno o due Les Schwab e dove fare incrementare il numero di Burger King sul territorio nazionale — ma era improbabile che riuscisse a fare arricchire qualcuno. Per quello era meglio andare a Seattle, o a Portland. Non riuscivo a farmi un’idea di cosa si potesse fare a Yakima.

John Zandt arrivò alla guida di un enorme GMC rosso, sporco e decisamente vecchio. Il lato del passeggero dava l’impressione che una mandria di mucche ci fosse andata a sbattere contro e avesse quasi avuto la meglio. Fece il giro del piccolo spiazzo fino a quando non arrivò all’altezza della mia Ford Generic immacolata. Tirammo giù i finestrini. L’aria era fredda.

«Ehi, Ward, gliel’hai chiesta espressamente così?» disse. «Avresti dovuto anche farti scrivere sul cofano ‘Non sono di qui’ con la vernice spray.»

«Sei incredibilmente in ritardo,» ribattei. «Quindi vaffanculo. Dove ero io non avevano uno spargiletame turbo come il tuo. Evidentemente hai avuto più fortuna.»

«L’ho rubato nel parcheggio dell’aeroporto,» ammise. «Dai, andiamo.»

Uscii dall’auto, lasciando le chiavi inserite. Ero sicuro che la Hertz sarebbe riuscita a sopportare la perdita, come era accaduto altre volte. Né loro né nessun altro avrebbero potuto risalire a me cori l’identificativo che avevo usato a Spokane. Quando salii a bordo del camioncino notai che sul pavimento c’erano due pistole. Ne presi una, la osservai e poi me la misi in tasca.

«Quanto dista?»

«Circa un’ora di strada,» rispose Zandt. «E poi dobbiamo fare un tratto a piedi.»

Uscì dal parcheggio e discese la strada principale, superando l’edificio grigio del nuovo centro commerciale, che aveva contribuito al declino di quello che io avevo osservato, senza per questo apparire a sua volta più florido. Dopo aver svoltato a destra per seguire la 82, incontrammo dapprima un guazzabuglio di cemento che era diventato un hotel Union Gap, poi solo edifici disposti lungo la strada e infine solo la strada. Arrivato a Toppenish, John fece una brusca svolta sulla 97 verso sud-ovest. Non incontrammo più città lungo il cammino fino a quando non arrivammo a un paese di forma ottagonale chiamato Goldendale, a circa cento chilometri di distanza. Una volta superatolo, c’erano ancora una quarantina di chilometri per arrivare a uno dei punti meno attrattivi del Columbia River, un po’ a monte rispetto alla diga Dalles. La sera precedente avevo passato un po’ di tempo con un barista loquace mentre me ne stavo seduto a bere al Kooney’s Lounge — quello che si spacciava per il bar del più grande hotel di Yakima. Sapevo che ora ci trovavamo nella Riserva degli indiani Yakima e che per oltre centotrenta chilometri da ambo i lati del furgone non ci sarebbe stato altro che il nulla, dato che la popolazione indigena si era concentrata in un paio di piccoli e malandati insediamenti a nord. Sapevo anche che il posto chiamato Union Gap un tempo portava il nome di Yakima, fino a quando la compagnia ferroviaria non aveva costretto gli indiani a spostare la loro capitale qualche chilometro più a nord, vincendo la loro riluttanza con l’offerta di terre libere e distribuendo mazzette che ebbero il potere di dividere i membri della tribù più di quanto avessero mai fatto la fame e gli inverni rigidi. Sapevo anche che proprio a monte della diga c’era un punto dove un tempo avevano tuonato le cascate di Celilo, un’impetuosa e sacra distesa d’acqua dove per diecimila anni gli uomini avevano pescato i salmoni. Adesso era un luogo silenzioso, sepolto sotto le acque rigonfie della diga. Qualche tempo prima il denaro era passato di mano, ma gli Yakima erano ancora in attesa che la loro perdita venisse risarcita in modi più significativi. L’impressione era che avrebbero atteso ancora a lungo, probabilmente per l’eternità.

Come la maggioranza della gente, non sapevo che farmene di questa informazione. Il barman era un americano del luogo, ma aveva capelli biondi corti acconciati come quelli di una popstar degli anni ’80 e una buona dose di maquillage. Anche queste altre informazioni mi erano inutili.

Zandt aveva attaccato una cartina al cruscotto. Gli angoli erano consumati e c’erano macchie di grasso sul davanti. Dava l’impressione di aver passato, molto tempo nelle tasche e nelle mani sudicie di qualcuno. C’era una piccola croce tracciata al centro di una grande zona vuota, vicino a una linea blu serpeggiante denominata Dry Creek.

«Dove hai preso l’informazione?»

«Da una chiamata arrivata su una delle linee riservate alle denunce anonime. La segnalazione era destinata al cestino — il tizio era molto ubriaco e quello che aveva detto non aveva molto senso — ma Nina l’ha recuperata dal macero.»

«Perché?»

«Perché sembrava decisamente fuori dal normale e lei sa che questo non significa che non sia vera.»

«E tu come hai fatto a risalire a quell’individuo?»

«Quegli 800 numeri non sono poi così anonimi come vuole dare a intendere l’FBI. Nina è riuscita a risalire all’origine della chiamata: un bar nel South Dakota. Sono andato laggiù e ho aspettato fino a quando la persona giusta non è comparsa di nuovo. Non è stata una cosa immediata.»

«E poi?»

«Il nome dell’informatore è Joseph, ed è cresciuto a Harrah, un cazzo di posto qualche chilometro a ovest di Yakima. Sai che questo è il territorio di una riserva?»

«È troppo squallido per essere qualcos’altro. Siamo stati così generosi con questi indiani che è davvero strano che non ci amino alla follia.»

«Ma è qui dove vivevano, Ward. Non è colpa nostra se assomiglia alla superficie lunare. Questo Joseph era in visita alla famiglia, una settimana fa, ed è venuto qui a fare un giro nel territorio selvaggio. Ha fatto una lunga camminata ed è rimasto fuori per un paio di notti. Devo dire che da come si è presentato si intuisce che quell’uomo ha l’abitudine di bere un bel po’. Era conciato male in tutti i sensi. Tuttavia è stato precisissimo sull’ubicazione del luogo.»

«Perché non si è rivolto alla legge?»

«Non credo che abbia avuto trascorsi piacevoli con la polizia locale. Ecco perché era nel South Dakota.»

«Ma poi ha visto te con il tuo bel pizzetto e ha deciso di fidarsi, così su due piedi?»

Zandt distolse lo sguardo. «Speravo che non l’avessi notato.»

«Cavolo, l’ho notato sì. E non ho nemmeno cominciato a romperti i coglioni.»

«A Nina piace.»

«Probabilmente le piacciono anche le borse di pelle, ma questo non significa che tu debba mettertene una sulla testa. Allora, dov’è questo Joseph adesso?»

«Se n’è andato. Ha duecento dollari in tasca e non penso che andrà a raccontare niente a nessuno, era già abbastanza terrorizzato. Credeva di aver visto uno spirito o qualcosa del genere.» Zandt scosse la testa, come se trovasse la cosa troppo stupida per esprimerla a parole.

Distolsi lo sguardo prima che potesse rendersi conto dell’espressione sul mio volto.

In effetti, mezz’ora dopo aver lasciato Toppenish avremmo potuto credere di essere su un altro pianeta. Forse un tempo c’era un motivo per venire fino qui, ma ora non più. Non c’erano alberi, ma solo colline spigolose, canyon poco profondi, piccoli cespugli e un’erba pallida in mezzo a quel che rimaneva della neve della settimana prima. Le rocce erano grigie e marrone uniforme e davano l’idea di un acquerello poco ispirato appeso in un ingresso qualunque. Il cielo era di un grigio ancora più cupo e le nuvole sovrastavano le colline e riempivano le valli come muschio bianco. La strada era l’unica cosa che attirava lo sguardo.

Zandt teneva gli occhi fissi sull’orologio. Dopo altri venti chilometri cominciò a guidare più lentamente e a guardare il ciglio della strada. Alla fine individuò quello che stava cercando e accostò.

«Ci siamo.»

Passò diritto sul cordolo e cominciò a discendere lungo un sentiero della cui esistenza non mi ero nemmeno accorto. Saltellammo lungo il percorso, e ci portammo ai lati di una collina fino a quando non fummo sotto il livello della strada, poi risalimmo aggirando il fianco di un picco roccioso. L’impressione che si aveva era che nessuno fosse passato di lì per molto tempo. Nel giro di un chilometro la pendenza diventò esagerata e io mi aggrappai al sedile con entrambe le mani.

Zandt si accertò che non fossimo visibili dalla strada, poi fermò il furgone. Quindi scese e io feci lo stesso. C’era un gran silenzio.

«Siamo arrivati?» chiesi guardandomi intorno.

«No, ma saremo costretti a percorrere il resto a piedi.» .

«Non sono mai stato granché come escursionista.»

«Chissà perché, ma me lo immaginavo.» Dalla giacca estrasse un oggetto che assomigliava a un personal organizer con una protuberanza sulla sommità.

«È un GPS?»

Annuì. «Voglio essere in grado di ritrovare la strada del ritorno.»

Registrò la posizione della macchina e puntò il dito in direzione dell’altura. Il paesaggio era praticamente lo stesso che avevamo avuto per tutto il pomeriggio, con la sola differenza che ora non c’era una strada. «In marcia.»

Seguimmo la parte restante della pista fino a che terminò intorno al dorso della collina e poi ci incamminammo verso il nulla. Dietro la collina ce n’era un’altra il cui lontano declivio conduceva a un canyon poco profondo. Discendemmo immersi nella nebbia e poi risalimmo dall’altro lato. Procedemmo in piano per un bel tratto. Non c’erano alberi, il terreno era duro e roccioso, e spoglio, eccetto per dei ciuffi d’erba giallognola e degli arbusti di un verde-blu pallido. Nel camminare producevamo un rumore simile a quello di qualcuno che mangi i Doritos con la bocca chiusa.

Zandt diede un calcio a una pianta. «Cos’è questa roba?»

«Salvia, credo. Anche se, a dire il vero, non ne so un cazzo della flora degli altipiani.»

«È una gran rottura di coglioni attraversarla.»

«Questo è poco ma sicuro.»

Continuammo a procedere, mentre le nuvole iniziarono ad addensarsi intorno a noi fino a che non riuscimmo più a vedere a trenta metri di distanza in tutte le direzioni. Ogni tanto Zandt consultava il suo giocattolo satellitare, ma la nostra marcia dava l’impressione di non avere alcuna destinazione. La temperatura era fredda, non pungente, ma con quel tipo di gelo costante che rende difficile ricordarlo altrimenti. Cercai di immaginarmi in che modo, nel passato, delle persone avrebbero potuto vivere in quei luoghi, ma non ci riuscii. Doveva essere stato molto tempo fa. Quel territorio dava l’impressione di non volere più che qualcuno disturbasse la sua quiete.

Dopo un bel po’ diedi un’occhiata al mio orologio: erano le quattro passate e la luce cominciava a scemare. Cominciò ad alzarsi un vento leggero e perfido. Immerso nella foschia, il sole era una moneta d’argento che appariva sfocata e sul punto di annerire.

«Lo so,» disse John ancora prima che io parlassi. «Tutto quello che ho è il segno sulla mappa. Ci siamo o siamo vicini.»

«Non siamo da nessuna parte,» dissi. «In tutta la mia vita non ho mai visto nulla che sia così in nessun posto.»

Tuttavia continuammo a camminare. La nebbia divenne più fitta, a volte come un manto grigio, ogni tanto diradandosi all’improvviso per formare una sorta di tunnel che il sole faceva risplendere dall’interno come una visione dorata. Ci ritrovammo a camminare lungo un basso crinale, con le pendici di un’altra collina che si stagliava come una duna di sabbia grigio-verde a dieci metri sulla destra; sulla sinistra incombeva il ciglio di un canyon.

L’impressione era che non stessimo facendo grandi progressi, ma non dissi niente. Non avevo nessun altro posto dove avrei potuto andare.


Alla fine fu John a fermarsi.

«Questa è una stronzata,» disse. Era incazzato. Non lo biasimavo, ma sembrava nervoso, nervosamente furioso nel profondo. Le ombre scure sotto gli occhi non erano quelle di una persona che dormiva bene la notte. Speravo che il suo contatto avesse avuto il buon senso di stare per un po’ di tempo lontano dal bar nel South Dakota.

«Il tuo aggeggio è illuminato?»

«Certo.»

«Così abbiamo ancora un po’ di tempo.» Mi rimisi in marcia.

Zandt non si mosse. «Ward, non penso ne valga la pena. Anche procedendo in linea retta siamo a quaranta minuti dalla strada, forse di più. Abbiamo fatto il giro di rutta l’area segnata sulla carta.»

Mi voltai. «Dov’era quell’uomo quando ha fatto quel segno? Dove si trovava?»

«Nel bar.» Anche solo a pochi metri di distanza, sembrava che la voce di Zandt dovesse aprirsi la strada tra la nebbia.

«Fantastico. In altre parole a una settimana e a diverse centinaia di chilometri di distanza da quando si era trovato qui. Quanto era ubriaco?»

«Ha detto che era sicuro.»

«Probabilmente è sicuro anche di riuscire a reggere l’alcool. Quando eri un poliziotto davi qualche credito alle parole di un testimone?»

«Certo che no,» ribatté seccamente. Tirò fuori il suo cellulare e lo osservò. «Nessun segnale. Ward, quaggiù siamo un bel po’ fuori dalla mappa.»

«In tutti i sensi. Ma…» Smisi di parlare mentre il mondo sembrò fare un passo di lato. «Che cazzo è quello?»

Zandt arrivò alla mia altezza e rimanemmo fianco a fianco per un momento. Poi lo vide anche lui. «Cristo santo.»

C’era un uomo che si stagliava a breve distanza da noi, abbastanza lontano perché i contorni della sua figura fossero confusi dalla nebbia. Aveva un abito grigio elegante e scarpe da ufficio che erano inadatte all’ambiente. Si riusciva a sentire il rumore della sua giacca che sbatteva per il vento. La sua postura appariva risoluta, come se sapesse dove doveva andare. In realtà, però, non si muoveva affatto.

Feci un passo in avanti e mi fermai. Allungai la mano verso la pistola, ma in un primo tempo ricominciai. Poi ci ripensai e la tirai fuori.

Allontanandoci leggermente l’uno dall’altro, ci avvicinammo all’uomo.

Sembrava vicino ai sessanta. I capelli grigi, che davano l’idea di essere stati tagliati di recente, erano appiattiti sulla testa. La faccia e le mani avevano un colore poco attraente. Avevano perso la tinta naturale di un tempo e adesso esibivano una tavolozza di colori che variava dal blu a un rosa acceso che in alcuni punti sfumava in una tonalità marrone-porpora che non riuscivo a definire. Un profondo taglio attraversava il collo dell’uomo fino a raggiungere il suo orecchio sinistro: il coltello ne aveva asportato una parte, dando all’uomo un aspetto sbilenco. Anche il labbro superiore mancava. Dal corpo proveniva anche un certo odore, ma non era insopportabile. Aveva fatto molto freddo ed era stato molto secco.

Ora che eravamo più vicini, il tutto aveva assunto un aspetto un po’ più prosaico. Quello non era più un fantasma, ma solo un corpo. A nessuno fa piacere vedere un cadavere, ma è certo meglio che vedere un fantasma. I fantasmi ti fanno dubitare di ogni cosa e lo fanno in una parte della mente che non ha parole per rispondere alla domanda, dove le confortanti promesse che ci si fa non sono credute e nemmeno comprese appieno.

Zandt girò attorno al corpo dell’uomo. Teneva il suo palmare puntato verso la faccia dell’uomo e cominciò a scattare delle foto. «Guarda,» disse.

Feci il giro, tenendomi però ben distante come se temessi che il cadavere potesse riprendere a muoversi, continuando la sua avanzata attraverso il pianoro. Una lastra di metallo, lunga circa un metro e mezzo e spessa forse cinque era stata conficcata nel terreno alle spalle dell’uomo. Il corpo era stato legato e sistemato in una posizione eretta tale da dare l’impressione che stesse camminando. Col tempo il corpo si sarebbe afflosciato, i vestiti si sarebbero consumati e la sbarra avrebbe fatto la ruggine.

«Cristo,» dissi. Zandt si limitò ad annuire, apparentemente senza idee sull’accaduto. Mise una mano nelle tasche della giacca e dei pantaloni dell’uomo, ma non trovò nulla.

Mi allontanai da quella figura. Nei momenti in cui la nebbia si diradava e si alzava, si poteva notare come la posizione del corpo fosse stata scelta con cura. Risultava per così dire protetto dalla collina, e sarebbe stato impossibile vederlo se non stando proprio lì, in un posto dove non esisteva ragione alcuna di trovarsi.

Zandt volse lo sguardo lontano, a quello che riusciva a scorgere del pianoro.

«Ha detto che ce n’erano due.»

«Fantastico, così abbiamo qualcosa da cercare ansiosamente.»

«Non ha detto dove.»

Feci un cenno all’uomo che camminava. «Suppongo che avesse previsto di andare da qualche parte.»

Procedemmo nella direzione verso cui era rivolto il corpo e dopo una cinquantina di metri cominciammo a sentire, più che a vedere, il crinale di un altro canyon. E poi vedemmo qualcosa.

Era seduta proprio sull’orlo. Aveva all’incirca la stessa età dell’uomo, ma non era facile essere più precisi, visto lo stato in cui versava la sua pelle. I gomiti erano appoggiati sulle ginocchia e le mani erano disposte come ad accogliere il viso. La posa era naturale, presumibilmente ottenuta prima che il corpo si irrigidisse. L’unica nota stonata erano i capelli, perché formavano degli ammassi disordinati. Si sarebbe detto che i corvi l’avessero scoperta e avessero cominciato con il loro lavoro, ma che poi si fossero interrotti. Forse anche loro avevano dei limiti. Ora la donna era semplicemente seduta e guardava con gli occhi infossati.

Sembrava… Non so cosa, non avevo veramente un termine di paragone. Mi girai prima che la donna si potesse voltare e vedermi. Se l’avesse fatto, non avrei mai potuto lasciare quel posto.

Zandt scattò solo due fotografie, poi registrò la posizione. «Okay,» disse con calma. «Usciamo da qui.»

Lo seguii mentre si allontanava dalla donna. Non so di preciso cosa stessi provando, non ero sicuro di quale fosse il significato di un gesto simile. Aveva sicuramente un significato. Perché farlo, altrimenti?

Mi fermai e guardai indietro verso la donna. C’era qualcosa nel modo in cui era stata sistemata che mi tormentava.

«Ward, muoviamoci, diventerà buio presto.»

Ignorai le sue parole e tornai verso di lei. Mi abbassai avvicinandomi il più possibile e guardai nella direzione verso cui era rivolta. La sua testa era piegata leggermente in avanti, come se stesse guardando giù nel canyon.

Desideravo tornare in macchina almeno quanto Zandt. In quel momento il Rooney’s Lounge sembrava un buon posto dove stare. E persino il centro commerciale di Yakima, all’occorrenza.

Non fu cosa facile scendere nel canyon. Cominciai la discesa con la faccia rivolta a valle, ma ben presto dovetti voltarmi e aiutarmi con le mani. Sentii Zandt sopra di me che imprecava e che subito dopo cominciava a seguirmi; per mia fortuna ebbe l’accortezza di scegliere una linea di discesa distante qualche metro da me, così che le pietre smosse da lui cadessero lontano.

Una volta arrivato in fondo non riuscii a vedere granché. L’aspetto era lo stesso della cima, forse più roccioso, con un po’ più di vegetazione e qualche albero monco. La nebbia stava diradandosi, calando da qualche altra parte mentre il cielo diventava di un blu più intenso. Poi vidi che più avanti c’era una minuscola rientranza, reminiscenza di un corso d’acqua più piccolo. Lo risalii per un breve tratto e fui sorpreso nello scoprire che si trasformava in una vasta area aperta. Mi trovavo ancora all’ingresso della zona quando Zandt mi raggiunse, rivolgendo lo sguardo a una forma voluminosa dissimulata sotto un affioramento roccioso.

All’inizio fu difficile indovinare cosa fosse.

Poi riuscimmo a capire che si trattava dell’angolo di un piccola costruzione, che poggiava proprio sulla parete del canyon.

Ci avvicinammo all’edificio camminando distanziati di tre metri. Apparve chiaro che era un rifugio molto vecchio, una funzionale stanza singola, in puro stile pionieristico. Era costituita da grossi pezzi di legno ben logorati dal tempo, con zone marroni in mezzo a quelle grigie. Assi malconce d’epoca più recente erano inchiodate dall’interno per sigillare le finestre. La porta era chiusa da un lucchetto che non sembrava affatto vecchio. Qualcuno doveva avere assaltato la porta con un’ascia o una vanga, ma non di recente. Tra i segni erano visibili forme che ricordavano delle lettere.

Con la pistola saldamente in pugno e pronta, Zandt si servì dell’altra mano per scattare alcune foto col suo palmare. Le finestre, i muri, poi la porta.

Poi se la infilò in tasca e mi guardò. Io annuii.

Partii di slancio e buttai giù la porta con un calcio. Zandt mi seguì a ruota con la pistola spianata.

Scivolai dentro e feci un giro completo sulla destra, posizionandomi dietro la porta. Le finestre erano sigillate e dentro era buio pesto, ma la porta lasciava entrare luce più che a sufficienza. Mi si rizzarono i capelli in testa.

Il rifugio era disseminato di cadaveri.

Tre erano allineati su una panca, accasciati contro il muro. Uno era ormai ridotto a poco più di uno scheletro, gli altri due erano scuri e orribili. Uno era privo di braccia; l’addome dell’altro era esploso qualche tempo prima. Altri corpi erano accatastati in una piccola pila dall’altro lato e almeno altri due giacevano lungo il muro di fronte. A giudicare dallo stato di decomposizione, nessuno era morto di recente. Alcuni avevano brandelli e lembi di pelle e carne che penzolavano dalle ossa. Un cranio aveva la parte superiore di una bambola di plastica che spuntava da un buco nella calotta cranica. La polvere aveva reso grigi i capelli della bambola.

Man mano che i miei occhi si abituavano alla penombra, cominciavo a vedere sempre più parti di corpi rinsecchiti: un piccolo e ordinato cumulo contro il muro di sinistra. Ne smossi una parte con il piede e notai che sotto c’era uno spesso strato di ossa, in alcuni punti poco più che sabbia.

Abbassammo le braccia. Lì dentro nessuno avrebbe potuto farci del male.

Zandt si schiari la gola. «Sono stati loro?»

«Gli Uomini di Paglia? Può darsi, ma alcuni di questi corpi sono qui da molto, molto tempo.»

Zandt voleva mettere a soqquadro la baracca, ma uno sguardo intorno mi fece capire che non avremmo trovato nulla. Se uccidevi qualcuno in quel posto potevi prenderti tutto il tempo che volevi. In più, non volevo più stare lì, neanche un secondo. Più ci rimanevi e più avevi la sensazione che dall’edificio emanasse, lentamente, una palpabile esalazione di aria mefitica. Volevo uscire.

Indietreggiai verso la porta, volgendo la testa verso l’interno della stanza. Ora mi stupivo meno che parte del legno fosse rimasto marrone. Era come se moltissimi fatti orrendi fossero stati assorbiti dalle pareti, mantenendole umide, in vita. Qualsiasi cosa fosse accaduta lì dentro, aveva avuto luogo in un lungo arco di tempo. Doveva trattarsi del lavoro di più di una persona, forse addirittura di più di una generazione. Era semplicemente un posto dove scaricare i cadaveri, oppure la loro silenziosa presenza e la loro stessa disposizione dovevano far pensare a qualcosa di più oscuro? Pensai al paese nella sua totalità, con tutti i suoi vasti e desolati spazi, e mi domandai se questo fosse l’unico luogo del genere.

Anche Zandt usci, ma poi si fermò improvvisamente, fissando qualcosa al di sopra delle mie spalle.

Mi voltai e vidi cosa stava guardando. Era a circa sei metri di distanza, dall’altra parte del canyon, posizionato in modo tale che sarebbe stato impossibile non vederlo uscendo dal rifugio.

Feci alcuni passi in quella direzione. Questo cadavere era decisamente più recente e non era stato sistemato come la coppia che avevamo trovato sul pianoro, ma semplicemente buttato a terra con le braccia spalancate e una gamba piegata. Qualcosa di marrone era stato inchiodato al centro del petto, dove era impossibile non vederlo. Non assomigliava a nulla che io avessi mai visto, ma l’innaturale vuoto della bocca spalancata mi disse di cosa si trattava.

«È quel tizio? È Joseph?»

Zandt non ebbe bisogno di rispondere.


Per tornare al camioncino fummo costretti a una lunga camminata. Procedemmo in silenzio seguendo la Columbia fino a Portland.

All’aeroporto prendemmo due voli diversi. Non ci incontrammo se non dopo un altro mese, quando tutto era ormai cambiato.

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