Questo è ciò che sono
intenzionato a fare,
ma non so perché
Quando l’uomo comparve per la prima volta, Phil Banner se ne stava appoggiato alla macchina davanti all’Izzy’s intento a mangiarsi un sandwich caldo ai funghi e alle uova che non aveva pagato. Non che fosse colpa sua — lui si offriva sempre di farlo, ma Izzy diceva sempre di no — ma la cosa lo faceva sentire comunque un po’ colpevole. Non abbastanza però per fargli smettere di mangiare, né per farlo rinunciare a ritornare nel locale quasi tutte le mattine. Il sandwich era buono e riccamente imbottito e non particolarmente adatto a essere mangiato con le mani, e il tizio insanguinato era probabilmente visibile già da qualche minuto prima che Banner alzasse la testa e si accorgesse di lui. Quando lo fece rimase a osservarlo per cinque secondi buoni, intento a masticare e non del tutto sicuro di quello che aveva davanti agli occhi, prima di mettere giù il panino.
L’uomo stava camminando proprio in mezzo alla strada. Non c’erano macchine perché erano le otto e mezzo del mattino e faceva molto freddo, ma non sembrava che la presenza di traffico avrebbe cambiato il tragitto dell’uomo. Aveva l’aria di qualcuno che non sapesse dove si trovava e aveva indosso uno zaino che sembrava nuovo e malridotto al tempo stesso. Barcollava come un personaggio uscito da qualche film di zombie, strascicando una gamba, e quando Phil fece qualche cauto passo verso di lui vide che era anche sporco di sangue. Era sangue rappreso, o così sembrava, ma ce n’era dappertutto. Sulla fronte dell’uomo c’era un grosso bernoccolo attraversato da un brutto taglio, e innumerevoli altre ferite e abrasioni su viso e mani. Il fango secco copriva quasi tutto il resto e praticamente tutti i suoi vestiti.
Phil fece un altro passo. «Signore?»
L’uomo continuò ad avanzare come se non avesse sentito. Respirava regolarmente ma in modo pesante, e il fiato esalato gli avvolgeva il viso. Dentro, fuori, dentro, fuori, come se il ritmo fosse diventato importante per lui. Come se fosse quello o niente. Poi girò lentamente la testa. Continuò ad avanzare, ma stavolta guardò Phil. L’uomo aveva gli occhi iniettati di sangue e la barba di un paio di giorni. C’era del ghiaccio su di essa. Era da molto tempo che Phil non vedeva un uomo che sembrasse così infreddolito.
Alla fine l’uomo si fermò. Batté le palpebre, aprì la bocca, la richiuse, guardò la strada per un attimo. Sembrava così interessato da quello che c’era che anche Phil guardò nella stessa direzione, ma vide solamente lo scorcio di paese rimasto che si aspettava.
«Signore, si sente bene?» Sapeva di aver fatto una domanda stupida. Era evidente che quel tizio non stava bene, ma era quello che dici in questi casi. Incontri una persona con un coltello piantato in testa — non che questa fosse una possibilità concreta in una città come questa; francamente, era molto più probabile soffocare per una lisca di pesce — e le chiedi se sta bene.
Ci fu un cambiamento, lento e irregolare, nell’espressione dell’uomo, e Phil realizzò che forse intendeva essere un sorriso.
«Questa è Sheffer, vero?» chiese. I movimenti del volto erano minimi, come se la bocca fosse ormai sigillata dal gelo.
«Sì signore, esatto.»
Il sorriso si allargò. «Certo che sì.»
«Prego?»
L’uomo scosse il capo, e improvvisamente diede l’impressione di essere più sicuro, come se l’andatura strascicata fosse stata un modo di camminare assunto per riuscire a superare il punto in cui aveva pensato di cadere. Phil si accorse che l’uomo aveva un aspetto vagamente familiare.
«Questo è quel che si dice avere il senso dell’orientamento,» disse l’uomo. «Non c’è che dire.» La sua faccia si contrasse.
Phil vide che Izzy e un paio di clienti del posto erano usciti dal locale e che un gruppo altrettanto numeroso si stava radunando nel piccolo parcheggio del mercato dall’altra parte della strada. Era giunto il momento di prendere in pugno la situazione.
«Signore, ha avuto un incidente?»
L’uomo lo guardò. «Bigfoot,» disse, annuendo, e poi cadde lentamente all’indietro.
Due ore dopo Tom Kozelek si trovava nella stazione di polizia. Era avvolto dentro tre coperte e teneva fra le mani una tazza di brodo di pollo. Era seduto nella stanza che normalmente veniva usata per gli interrogatori, in quelle rare occasioni in cui la polizia di Sheffer doveva interrogare qualcuno, mentre al di fuori di questi casi veniva usata come ripostiglio per cappotti e scarponi bagnati, e per la roba che non si sapeva dove mettere. C’erano una scrivania, tre sedie e un orologio. In precedenza quella stanza era adibita a cucina, ma ormai questa era stata spostata al piano di sopra per essere vicina alla restaurata zona dell’amministrazione, e aveva una parete parzialmente a vetri che avrebbe potuto darle un po’ l’aspetto di una stanza di una qualche struttura delle forze dell’ordine più grande e più urbana, se la vetrata non fosse stata tappezzata di adesivi che celebravano la parata cittadina di Halloween. Tutti gli anni gli adesivi venivano disegnati dallo studente più creativo della scuola d’arte, ed era per questo che la parete in vetro non aveva un’aria professionale: o qualcuno aveva bendato i ragazzi prima di dar loro in mano i colori, oppure Sheffer non avrebbe mai ospitato nessun famoso museo cittadino. Phil Banner aveva in qualche occasione espresso l’idea di farli realizzare a qualcuno che sapesse un minimo disegnare. Gli era stato ribattuto che se avesse avuto dei figli l’avrebbe pensata diversamente. Avrebbe dovuto aspettare per verificare se era vero.
Phil era in piedi vicino a Melissa Hoffman. Melissa viveva a cinquanta chilometri, a Ellensburg, dove lavorava nel piccolo ospedale della contea. Il medico di Sheffer, il dottor Dandridge, era benvoluto, ma era ormai vecchio come il Padreterno, e decisamente meno infallibile, così negli ultimi tempi era Melissa che si preferiva chiamare in caso di necessità. Aveva passato da poco i trenta, ed era piuttosto carina, anche se non sembrava esserne consapevole. Era felicemente sposata con un bestione che possedeva un piccolo negozio di libri usati e fumava Marlboro Light senza interruzione. Immaginatevi che quadretto.
La donna distolse lo sguardo dalla vetrata. «Direi che sta bene,» disse. «La caviglia è malconcia. È ammaccato un po’ dappertutto. C’è un principio di assideramento, ma niente congelamento. Non è molto preciso sui dettagli, ma da quanto dice si è procurato la maggior parte delle contusioni due giorni fa: se avesse avuto una commozione cerebrale, si sarebbe già manifestata, e lui non sarebbe qui ora. Ha solo bisogno di mangiare e dormire e stop. Gli è andata bene.»
Phil annuì. Sperava vivamente che il capo fosse lì e non a centinaia di chilometri per far visita a sua sorella. «E in quanto al resto?»
Lei scrollò le spalle. «Ho detto che sta bene fisicamente. Dal punto di vista mentale è tutta un’altra storia.» Si voltò verso la scrivania dove lo zaino dell’uomo si era ormai scongelato. L’acqua ghiacciata che lo copriva stava gocciolando sul pavimento. Prese una penna dal barattolo nell’angolo e la usò per frugare, tenendo cautamente lo zaino aperto con l’altra mano. «Questa roba è zuppa di alcool e tu mi hai detto che aveva bevuto prima.»
Phil annuì. Non gli ci era voluto molto per capire perché il volto dell’uomo gli sembrasse familiare. «Stava cercando di fare irruzione nel bar di Big Frank a tarda sera, lo scorso weekend. Dovetti intimargli di smetterla.»
Melissa guardò l’uomo al di là del vetro. Sembrava in uno stato di veglia sonnolenta e incapace di piantare un qualche casino. Mentre lo guardava, l’uomo batté le ciglia lentamente, come un vecchio cane in procinto di addormentarsi. «Sembrava pericoloso? Psicotico?»
«No. Direi triste, piuttosto. Mi sono imbattuto per caso in Joe e Zack il mattino dopo e mi hanno parlato di un tizio che era rimasto lì tutta la sera a bere da solo. È probabile che fosse la stessa persona.»
«Dunque, quattro giorni di alcool, praticamente senza mangiare e infine lo stomaco pieno di sonnifero. Non sono indizi di uno che stia alla grande. Però non ha l’aria di un pazzo.»
«Non ce l’hanno mai,» disse Phil esitando. «Ha detto di aver visto Bigfoot.»
La donna rise. «Già. Ogni tanto la gente lo dice. Quello che lui ha visto veramente era un orso. E tu lo sai.»
«Credo di sì.»
Melissa gli rivolse per un attimo uno sguardo severo e Phil si ritrovò ad arrossire quando lei sorrise. «Tu lo sai, vero?»
«Certo,» disse seccato.
Quello non era il momento per discutere su ciò che molto tempo prima lo zio di Phil credeva di aver visto — o sentito, per essere più precisi — nel profondo della foresta oltre il crinale. Nessuno lo aveva mai preso sul serio, eccetto forse Phil stesso, quando era bambino. Alla fine suo zio aveva smesso di raccontare quella storia. Erano già parecchie le città nelle Cascades che avevano nel loro repertorio di leggende gli avvistamenti di Bigfoot e in diversi chioschi sul bordo della strada si potevano comprare barattoli e muffin che avevano la sagome della grande e pelosa creatura. Non a Sheffer. Da queste partì Bigfoot era considerato una balla, o, come il capo era solito dire, un cumulo di stronzate. Un richiamo ormai trito e ritrito per un certo tipo di città turistiche, nient’altro, e Sheffer non faceva parte del gruppo. Sheffer era una città tranquilla e distinta, che un tempo era stata usata come ambientazione per una bizzarra serie televisiva. Aveva il museo ferroviario con il suo bel materiale rotabile esposto. C’era qualche delizioso ristorante dove andava a mangiare solo gente deliziosa. La città voleva che le cose continuassero a essere così. E soprattutto, lo voleva il capo.
Ma quando quel Tom aveva pronunciato quella parola, in strada si erano riversate moltissime persone e non tutte erano del luogo. Alla fine della giornata alcuni avrebbero potuto raccontare l’accaduto ai loro parenti e amici. Phil sapeva anche come la pensava il suo capo sull’argomento e si rammaricò di non essere riuscito a portare il tizio da qualche parte prima che potesse pronunciare quella fatidica parola. Un po’ di onesta pubblicità era una cosa: divulgare la notizia che una o due star televisive avevano passato la notte in città nel corso dell’ultimo decennio era più che legittimo, ma un gruppo di reporter che arrivavano per dipingere la città come un manipolo di bifolchi attaccati ai soldi non sarebbe stato un bel colpo. Quando Phil lo aveva chiamato sul cellulare, il capo gli aveva detto che sarebbe stato di ritorno al più tardi nel primo pomeriggio. Phil ne era contento.
«Vado a vedere se quel tizio vuole ancora un po’ del brodo di Izzy,» disse, e Melissa annuì.
Vide Phil entrare nella stanza, sedersi all’estremità del tavolo e rivolgersi con modi gentili all’uomo. Era convinta che Kozelek avrebbe dovuto realmente essere esaminato per valutare gli effetti dell’assunzione dei sonniferi, ma lui aveva opposto un fermo rifiuto all’ipotesi di andare all’ospedale e lei non aveva alcun potere per costringerlo. Era sopravvissuto a tre giorni e tre notti veramente gelidi passati nella foresta e aveva percorso una distanza enorme su un terreno impervio. Tutto sommato, sembrava in buona forma per uno che aveva tentato di uccidersi. C’erano elementi per dire che sarebbe stato opportuno che parlasse con qualcuno anche di questa parte della storia, ma ancora una volta, non era una cosa che lei poteva imporre. Era convinta che quando il suo cervello si fosse scongelato a dovere, sia il suicidio che la storia dell’incontro con creature sconosciute sarebbero usciti dalla sua mente. Quindi avrebbero potuto rispedirlo a Los Angeles o dovunque fosse casa sua e la vita a Sheffer avrebbe ripreso a scorrere come al solito.
Mentre si voltava per andarsene notò qualcosa sul fondo dello zaino aperto. Si fermò per dare un’occhiata più da vicino. Tra le schegge di vetro e i fradici resti delle confezioni di pillole c’erano alcune cose che assomigliavano a piccoli mucchi di fiori secchi.
Ne tirò fuori uno e vide che non si trattava affatto di fiori; erano più come steli corti e infradiciati. Probabilmente quella roba si era infilata dentro la sacca quando l’uomo, attraversando la foresta, doveva aver urtato contro cespugli e alberi.
Oppure erano stati semplicemente comprati da un fioraio qualunque a un angolo di una strada chissà dove.
Lì c’era un uomo che pretendeva di aver visto delle cose e che, a detta di tutti, aveva cercato di irrompere in alcuni bar, e nel suo zaino c’era un mucchietto di materiale che sembrava di origine vegetale. Che dire? In parte per scrupolo professionale, ma essenzialmente per curiosità pura e semplice, ne infilò un mucchietto nella sua borsa e poi uscì per tornare in ospedale, dove era abbastanza sicura che non stesse accadendo nulla di interessante.
Verso l’ora di pranzo Tom cominciò ad avvertire un forte mal di testa. Il dolore si era manifestato già qualche tempo prima, e in effetti si era fatto sentire per buona parte del tempo in cui aveva errato nella foresta. Ma ora era diverso, era peggio.
Tom era ancora seduto sulla sua sedia nell’ufficio con la finestra. Perlomeno, è così che ormai lo considerava. Ci aveva passato sopra tutta la mattina quindi era diventata sua. Dopo la sua ultima esperienza le cose erano diventate più semplici per Tom. Ormai pensava le cose in termini elementari. Il possesso era i nove decimi di qualsiasi cosa. Quella sedia ora gli apparteneva e guai a chi avesse provato a togliergliela, anche se, a dire il vero, non sembrava esserci nessuno intenzionato a farlo. Il tizio di nome Phil faceva capolino ogni tanto, ma altrimenti, dopo la visita della dottoressa, era stato lasciato solo.
Intanto il suo mal di testa procedeva lentamente ma con un tecnica sopraffina, professionale. Questo era un mal di testa che sapeva il fatto suo e aveva un’esperienza rilevante. Gli avvolgeva la testa come un copriletto freddo, pesante e persistente, e aveva cominciato a collocare degli avamposti anche nelle altre parti del suo corpo, in primo luogo nell’intestino. In un certo senso Tom aveva detto alla dottoressa di non voler andare in ospedale anche per vedere la sua reazione. Se avesse abbaiato «Ripensaci, imbecille, ormai ce l’hai nel culo, perciò ti trascineremo per i capelli in un posto terrificante pieno di macchine con luci verdi dove potrai morire,» allora ci sarebbe andato tranquillamente. Però non l’aveva fatto, il che significava che c’era una possibilità che stesse bene. In linea di massima, in effetti, Tom si sentiva a posto, fatta eccezione per il mal di testa e il fastidio all’intestino, che lui era propenso a considerare come una conseguenza dell’emicrania. Aveva letto da qualche parte che lo stomaco è avvolto da uno strato di tessuto neuronale che era anzi il più esteso di tutto il corpo (dopo il cervello, naturalmente). Ora si rendeva conto che tutto questo poteva avere un significato dal punto di vista evoluzionistico: dare agli organi interni abbastanza cervello, per così dire, affinché quest’ultimo possa mandare segnali che dicano: «Non mangiare più quella merda, ricordati cosa è accaduto l’ultima volta,» più o meno come aveva fatto il suo quando lui si era diretto verso il suo zaino, nella foresta. Tom sperava che lo stato nel quale si trovava fosse semplicemente il segnale che il suo stomaco era in sintonia con la sua testa. Se si fosse sentito così per i fatti suoi, allora forse, alla fine, sarebbe andato in ospedale.
Si augurava anche che gli antidolorifici che la dottoressa gli aveva lasciato cominciassero a fare effetto. Il mal di testa gli stava mandando in tilt gli occhi. Era ancora dell’idea che a un certo punto si sarebbe alzato e sarebbe andato a fare una camminata in città, per trovare quel vecchio cazzone che non aveva fatto cenno agli orsi, ma in quel preciso momento quel piano non sembrava realistico: gli sembrava molto probabile che il balordo lo avrebbe fatto nero.
E fu proprio allora che Tom improvvisamente sorrise.
Naturalmente gli orsi non c’entravano più. Una delle ragioni per cui voleva al più presto sentirsi meglio era perché aveva qualcosa di interessante, di molto interessante, da raccontare alla gente. Una notizia che lo aveva mantenuto in vita, che aveva trascinato il suo corpo fuori da quella regione selvaggia. Fino a quel momento si era trattenuto, in attesa del momento giusto. Ma quando fosse giunto il momento…
Poi, il sorriso scomparve. Certo, era in possesso di nuove informazioni, un dato vitale. Ma queste non erano comunque un elemento in grado di cambiare la vita, di cancellare l’oscurità di ciò che era successo prima. La sua posizione era ancora compromessa: una volta compiuta, un’azione è fatta, anche se la gente non lo viene a sapere. L’unica differenza era che ora forse aveva qualcosa di abbastanza clamoroso da dare significato al rischio che non venisse mai scoperto.
Gettò il suo sguardo annebbiato attraverso il vetro, in direzione dell’ufficio dello sceriffo di Sheffer, dove Phil, che Tom pensava con sempre maggior convinzione di avere vagamente conosciuto prima della sua esperienza nella foresta, svolgeva il suo lavoro. Phil era giovane e di corporatura esile per essere un poliziotto: la maggior parte degli agenti di città sembrava passare tutto il tempo in palestra per assicurarsi delle braccia muscolose che risaltassero adeguatamente nelle loro magliette a mezze maniche. Ogni tanto Phil entrava nella stanza e ogni tanto ne usciva. Questo era quanto. Probabilmente al di là dell’avere a che fare con incidenti stradali, con persone che non pagavano il conto al bar e occasionalmente con qualche lite familiare frutto di serate invernali troppo lunghe, il suo lavoro non doveva essere molto movimentato: almeno fino a quando qualcuno non era uscito dalla foresta con una strana storia da raccontare.
Il vicesceriffo sarebbe tornato di lì a poco per vedere come stava e forse gli avrebbe fatto qualche domanda in proposito. Nel frattempo, Tom bevve ancora un po’ di brodo. Si era raffreddato e aveva bisogno di un pizzico di sale, ma altrimenti era ottimo e lo stava facendo sentire meglio.
La sua vista sembrò annebbiarsi lentamente.
La voce proveniva da dietro di lui.
«Signore?»
Tom scosse la testa, conscio del fatto che non sarebbe stato in grado di sfuggire a tutto questo. Qualcosa scricchiolava sotto i suoi piedi. Quando alla fine si voltò, sapeva già quale sarebbe stata la notizia, ma non vedeva come questa potesse trovare un posto nella sua testa.
«Signore?»
Improvvisamente tutto fu diverso. Tom alzò la testa confusa e si rese conto di essere ancora seduto su una sedia di una stazione di polizia, lontanissimo da Los Angeles. Era giorno, lui era avvolto nelle coperte e per terra, a circa un metro di distanza, c’era una piccola stufetta che indirizzava un leggero flusso di aria calda nella sua direzione. Questa è nuova, pensò, non mi ricordo che ci fosse, prima.
Una novità era anche l’uomo che si trovava dall’altro lato del tavolo. Tom lo guardò. «Che ora è?»
«Sono da poco passate le tre, signore,» disse l’uomo. Era molto più anziano di quello che chiamavano Phil. Era anche più alto e largo. Più grande in tutti i sensi. Era seduto in una delle sedie di fronte.
«Chi è lei?»
«Mi chiamo Connelly,» disse l’uomo. «Lavoro qui.»
«Okay.» La voce di Tom, dapprima vagamente petulante, esplose improvvisamente in uno sbadiglio leonino. «Adesso mi sembra di avere sin troppo caldo.»
«Il mio vice ha detto che la dottoressa si è raccomandata di tenerla al caldo e questo è quello che faremo. A meno che lei non ritenga meglio passare la notte in ospedale. Mi sembra ci siano almeno un paio di buone ragioni perché lei si decida per questa opzione.»
«Sto bene,» disse Tom.
L’uomo si allungò verso il tavolo e lo fissò. «Ne è sicuro?»
Ora che era un po’ più sveglio, Tom si rese conto che Connelly non aveva alcuna fretta di stringere amicizia con lui. Non lo stava trattando come qualcuno che era riuscito miracolosamente a salvarsi da un deserto di neve.
«Sicurissimo,» rispose, andando a recuperare la voce che era solito usare nelle riunioni, quando era necessario convincere un cliente che il lavoro di web design proposto era esattamente quello che era stato richiesto, nonostante l’apparente mancanza di rispondenza con quanto discusso nel briefing. Sembravano passati secoli dall’ultima volta che aveva usato quel tono. In realtà erano meno di due settimane, e Tom riuscì a farlo venire fuori, anche se un po’ arrugginito. «Grazie per l’interessamento.»
«Va bene, allora perché non mi racconta la sua storia.»
«Al, lo ha già fatto.» A parlare era stato Phil che stava entrando nella stanza con due tazze di caffè.
Connelly ignorò il suo vice, si risedette e continuò a fissare Tom.
«Mi chiamo Tom Kozelek,» disse quest’ultimo. «Sono… in vacanza. Tre giorni fa, almeno così credo, mi sono diretto sulle montagne. Ho parcheggiato in prossimità dell’inizio di un sentiero, ma non ne ricordo il nome.»
«Howard’s Point,» disse il poliziotto annuendo. «La sua macchina è stata recuperata indietro da lì ieri pomeriggio. La sua ricomparsa ha almeno risolto quel piccolo mistero.»
«Giusto. Dunque, ho parcheggiato la macchina laggiù e sono andato a fare un’escursione.»
«Un’escursione,» ripeté l’uomo annuendo. «Esattamente cosa si era portato dietro come provviste?»
«Immagino che lo sappia già,» brontolò Tom, freddamente. «Vedo il mio zaino sul tavolo laggiù.»
«Sì, lo so,» disse il poliziotto. «Quello che non so è se lei ha avuto modo di vedere un po’ la televisione da quando è qui. In questo periodo dell’anno c’è una segnalazione che viene trasmessa più o meno ogni ora. Consiglia alle persone di tenersi alla larga dalle montagne a meno che non sappiano cosa stanno facendo e siano adeguatamente attrezzate. Lei non guarda molta televisione, vero Mr. Kozelek?»
«Ero in uno stato mentale confuso.»
«Già.» L’uomo annuì nuovamente. «E dove è stato da allora?»
«Ho camminato fino a qui,» disse Tom. «Mi ero perso. Avevo le cartine, ma per errore le ho lasciate in macchina. Quando mi sono messo in cammino ero un po’ ubriaco; di solito il mio senso dell’orientamento è piuttosto buono, ma nevicava e sono precipitato in una gola e, a essere sincero, mi devo essere perso. Ho cercato di ritornare sulla strada, ma a quel punto, evidentemente, avevo invertito la direzione e, evidentemente, non ho fatto altro che allontanarmi sempre più. Poi ho trovato quello che sembrava un sentiero e l’ho seguito, ma non sembrava portare da nessuna parte e continuava a interrompersi e a riprendere.»
«Probabilmente era una vecchia pista per il trasporto dei tronchi,» disse Phil. «Potrebbe addirittura essere un tratto della vecchia strada montana. Per la maggior parte di essa l’unica cosa che si può dire è che un tempo c’era qualcosa laggiù perché gli alberi che si succedono sono più diradati.»
Connelly girò lentamente la testa per guardarlo e il suo vice si zittì. Lo sceriffo tornò a fissare Tom.
«Mi stia a sentire, qual è il suo problema?» disse Tom.
«Il mio? Nessuno. La prego continui.»
Tom prese di proposito una lunga pausa sorseggiando il caffè. Quel tipo stava cominciando veramente a farlo incazzare. Alla fine erano tutti uguali. Tutti così pieni del proprio status privilegiato, a far finta di non essersi mai trovati, in vita loro, in una situazione difficile.
«Così non ho fatto altro che camminare,» disse. «Non saprei dire dove fossi. Poi, alla fine, la notte scorsa ho trovato una strada. L’ho percorsa per un po’, sicuro che qualcuno sarebbe arrivato e mi avrebbe dato un passaggio, ma nevicava e non ho incontrato nessuno. Così ho continuato a camminare e sono arrivato qui, questa mattina presto.»
«Una piccola odissea, Mr. Kozelek,» disse Connelly. «Deve essere contento che sia finita e impaziente di tornare a casa.»
«Non ancora,» disse Tom, scrollandosi di dosso due coperte. In quel momento non solo sentiva troppo caldo, ma aveva la sensazione che quell’aspetto da «ragazzino sperduto» non lo stesse aiutando a farsi prendere sul serio dallo sceriffo. «Prima devo sistemare alcune cose qui.»
«E cosa sarebbero mai?»
Tom lo guardò negli occhi. «Devo tornare nella foresta.» Fece un gran respiro e si preparò a dire una cosa che sapeva si sarebbe ricordato per il resto della sua vita. «Quando ero laggiù ho visto qualcosa, qualcosa di strabiliante.» Fece un’altra pausa, pregustando il momento.
«Sarebbe Bigfoot, vero?»
Tom lo fissò, stupito. «Come fa a saperlo?»
Connelly sorrise leggermente. «Lo ha menzionato un paio di volte al mio vice quando è arrivato qui. E anche alla dottoressa, credo. A dire il vero, da quel che so, è stata la prima parola che lei ha detto quando è entrato barcollando in paese. Prima di svenire.»
Tom sentì la bocca asciutta e il viso in fiamme. Non si ricordava di averne parlato con loro. Cazzo.
«Okay,» disse. «Lo sapevo. Ma l’ho visto. Ho visto Bigfoot. Era in piedi sopra di me. L’ho visto.»
«Lei ha visto un orso, Mr. Kozelek.»
«No. Anch’io l’ho pensato sul momento, ma non era così. Non aveva l’aspetto di un orso. E poi, che odore hanno gli orsi?»
«Non saprei, perché non mi ci sono mai avvicinato tanto da scoprirlo. Sono creature piuttosto schizzinose.»
«Questo aveva un odore tremendo. Veramente disgustoso. Oltre a questo, ho visto anche delle impronte.»
«Ma non mi dica.»
«Sì, cazzo se lo dico. Lei vuole che io faccia finta di aver visto un orso, okay. Ma c’erano quelle impronte. E partivano da dove mi trovavo io.»
«Non erano le sue? Di quando era scappato dall’orso?»
«No. Stavo annaspando lì intorno. La forma sarebbe stata indefinita. E poi si vedevano quelle cazzo di dita. Cinque dita grosse e rotonde sul davanti. Mi creda, le ho viste.»
«Ne sono certo.» Connelly si rivolse a Phil. «Potresti far entrare Mrs. Anders?»
Confuso, Tom osservò il giovane poliziotto che usciva e andava a prendere una donna che ora vedeva seduta dalla parte opposta della sala principale. Nel frattempo Connelly bevve il suo caffè in un unico lento e lungo sorso, squadrando freddamente Tom.
Phil ritornò seguito dalla donna. Era sui sessantacinque anni e aveva capelli grigi raccolti in una allentata coda di cavallo. Una mano era infilata nella tasca di una giacca gialla, indossata sopra uno spesso pull di lana. L’altra reggeva una grande busta di plastica. La donna aveva un’aria imbarazzata e contrita.
Tom cominciò a sentire una stretta allo stomaco.
«Questa è Patrice Anders,» disse ConneEy. «Patrice vive a qualche chilometro da Howard’s Point. Non so se lei lo ha notato sulle sue cartine, ma c’è indicato un piccolo lotto di terreno che parte da lì per arrivare fino alla successiva autostrada sulle montagne. È destinato a diventare un importante insediamento, ma per ora Mrs. Anders rimane l’unica occupante.»
«Piacere di conoscerla,» disse Tom, «ma non capisco di cosa si tratti.»
Connelly guardò la donna e sollevò un sopracciglio.
«Ero io, nella foresta,» disse.
Tom la fissò. «Cosa intende dire?»
La donna scosse la testa. «Mi dispiace tanto. Io cammino molto. Partecipo a due programmi nazionali per il monitoraggio della fauna e tengo ufficiosamente il conto di cosa gira qui intorno in ogni stagione dell’anno. Non so se a lungo termine questo sia di qualche utilità, non è molto scientifico. Non credo, ma…» Scrollò le spalle. «A ogni modo, questo è quello che faccio. E l’altra mattina, di buon’ora, ero là fuori, e ho visto qualcosa che giaceva sul fondo della gola. Quest’ultima non è lontanissima dall’estremità del mio terreno, in linea d’aria. Be’, a piedi è un bel tragitto, sa mi piace camminare. Comunque, scesi giù e vidi che si trattava di uno zaino. Non sapevo se qualcuno sarebbe tornato indietro a riprenderlo così lo lasciai lì.»
Tom guardò Connelly. «Okay, e allora?»
«Le impronte che lèi ha visto appartengono a Mrs. Anders.»
«Stronzate. Lei non mi ascolta quando parlo? Quelle erano enormi.»
«Con un’ora di sole i contorni cominciano a sciogliersi e saranno sembrate più grandi di quanto fossero realmente.»
Per un secondo Tom pensò di lanciarsi al di là della scrivania e afferrare l’uomo alla gola. Sapeva che sarebbe stata una pessima idea e non solo perché quell’individuo rappresentava la legge. Così, si limitò a controllare la sua voce. Dopo tutto era lui ad avere l’asso nella manica.
«Già. E il sole avrà fatto in modo che le impronte avessero cinque grosse dita, vero? Se è così, allora avete un sole ben strano da queste parti.»
Per un attimo ci fu silenzio, poi si udì un leggero tramestio. La donna che si chiamava Patrice tirò fuori qualcosa dalla borsa.
Subito Tom non riuscì a identificare cosa aveva davanti agli occhi. Poi sentì un brivido lungo la schiena.
«Li si può comprare da Cle Elum,» disse. «È una stupidaggine, me ne rendo conto, ma sa, è anche divertente. Me li aveva comprati mio marito per scherzo.»
Tom continuò a fissare un paio di scarponi nuovissimi, con l’estremità superiore di pelliccia e i piedi di plastica marrone, completi di cinque ditoni.
Phil accompagnò fuori la donna. Forse era solo una sua idea, ma Tom aveva l’impressione che il vicesceriffo si sentisse un po’ mortificato per lui. A ogni modo, sperava che fosse così. Non c’erano in vista altri candidati alla comprensione nell’arco di centinaia di chilometri.
Connelly gettò un’occhiata all’orologio sul muro. Infilò la mano nel taschino della camicia, tirò fuori un malconcio pacchetto di sigarette e ne accese una.
«Che giornata del cavolo,» disse. «Più movimentata di quanto avrei scommesso svegliandomi, questo è certo.» Fece cadere un po’ di cenere sul tavolo. «Non è che succeda molto da queste parti, come credo avrà immaginato. E credo anche che lei abbia capito che mi piace che le cose continuino ad andare in questo modo.»
Tom scosse la testa. «Io so cosa ho visto.»
«Lei non ha visto un cazzo di niente, Mr. Kozelek.» Gli occhi grigi del poliziotto erano freddi. «Lei si è inoltrato nel bosco perché aveva in mente un’idea malsana e non starò nemmeno a parlare di quanto una cosa del genere sia irresponsabile quando il lavoro di altre persone è di venire a cercarla indipendentemente dalle motivazioni che l’hanno spinta. Lei si è strafatto di alcool e pillole e poi ha visto un orso, o ha avuto un’allucinazione o il diavolo sa cos’altro.»
Tom si limitò a scuotere la testa.
Connelly spense la sigaretta. «Faccia come le pare. Non le dirò di levare le tende stasera, perché ha avuto un paio di giorni difficili, e contrariamente a quanto lei possa pensare io sono una persona ragionevole. È ridotto come uno straccio e ha bisogno di mangiare e di dormire un po’. Perché non va a farsi una dormitina e magari domani mattina fa un pensierino di andare a vedere le altre belle cittadine che ci sono qui intorno? Snohomish, per esempio, l’antica capitale del Nord-ovest. O magari addirittura Seattle. C’è l’aeroporto laggiù.»
«Non vado da nessuna parte.»
«Sì invece.» Connelly si alzò, stiracchiandosi. Le ossa scricchiolarono. «E presto. Vuole il mio consiglio?»
«Non so cosa farmene.»
«Ringrazi il cielo di esserne uscito. Si rallegri di non essere stato attaccato da un buon vecchio orso e di non essere morto là fuori sulle montagne. Lasci perdere. Perché qui c’è dell’altro.»
Guardò oltre il vetro e vide il suo vice sulla soglia che si infilava il giaccone, pronto, come da istruzioni ricevute, ad aiutare Kozelek a trovare un posto in città dove stare per una sola notte. Nonostante questo abbassò leggermente la voce. «Mentre venivo qui ho fatto delle ricerche su di lei.»
Tom fissava la schiena dell’uomo, rendendosi improvvisamente conto che se quel suo viaggio nell’abisso e ritorno poteva aver cambiato lui, il mondo esterno non era cambiato affatto. Non era stata eliminata nessuna delle parti della sua vita che non gli piacevano. Qui, la squallida e interminabile serie che aveva vissuto continuava ad avere successo, nonostante il fatto che il suo spettatore principale — lui stesso — fosse convinto che fondamentalmente faceva schifo.
Connelly si voltò a guardarlo. «So quello che ha fatto.»
Per prima cosa trovai ad attendermi al bancone un pacco da parte di Nina. Chiesi al ristorante di racimolare tutto il caffè che avevano e di mandarlo in camera mia, e poi mi diressi al piano di sopra. Non ero molto ottimista sul fatto di poter fare qualcosa per lei — sia il dipartimento di polizia di Los Angeles che la CIA avevano messo della gente esperta a occuparsi del caso — ma era comunque qualcosa che potevo fare mentre aspettavo John Zandt.
Sistemai la mia apparecchiatura sul tavolo e cominciai. Quando aprii il pacco vi trovai una piccola busta di plastica, semitrasparente, studiata per proteggere dall’elettricità statica, che è la causa principale dello sputtanamento di apparecchiature elettroniche delicate. A parte il farle cadere, naturalmente. Dentro c’era un piccolo hard disk e attaccato a esso un biglietto di Nina: «Fai molta, molta attenzione. È l’originale. Trova qualcosa per me e poi restituiscimelo subito».
Prima di qualsiasi altra cosa, chiamai Nina sul cellulare. Sembrava infastidita e distratta. «Sono contenta che ti sia arrivato,» disse. «Ma non credo che ci porterà da nessuna parte. La polizia di Los Angeles ha appena ricostruito la sua storia. Hanno trovato il tizio che ha comprato il portatile originario, un parassita dell’industria cinematografica di nome Nic Golson, che però aveva anche una ricevuta che attestava che il portatile era stato venduto a un negozio dell’usato di Burbank nel luglio dell’anno scorso. Gli avevano fatto credere che sarebbe stato ingaggiato per una sceneggiatura importante, ma poi non se ne era fatto niente, e lui ha deciso di sbarazzarsi dell’apparecchio. Dopo, qualcuno lo ha ricomprato in contanti, ne ha prelevato questo pezzo e ha buttato il resto da qualche parte che non sapremo mai. In questo momento stanno interrogando gli impiegati del negozio, ma questo assassino mi sembra più intelligente.»
«E come mai io ho il disco originale?»
«Ho usato le mie astuzie femminili.»
«Hai delle astuzie?»
«Ne rimarresti sorpreso. In realtà anch’io. Forse si è trattato solo del grado.» Ammise di avere fatto pressioni su un topo di laboratorio della polizia di Los Angeles dopo che io le avevo detto che una copia non sarebbe servita a nulla. Il tizio si dimostrò disposto ad assecondarla, non ultimo perché avevano già fatto tutto quello che potevano con il disco. Le impronte erano già state prese, quindi non c’erano problemi a toccarlo, però…
Le dissi che avrei fatto attenzione.
Poi riagganciai e diedi un’occhiata a quell’oggetto che, ora lo sapevo, aveva passato un po’ di tempo conficcato nella bocca di una donna morta. Non avrei saputo dire se era più inquietante questo fatto o il rischio che aveva corso Nina.
Arrivò il caffè e ne bevvi un po’ fumando una sigaretta. In questo modo le sfide del mondo risultavano più abbordabili. Tirai fuori un cavo di mia proprietà che aveva, a un’estremità, un plug Firewire e dall’altra un Oxford Bridge. Infilai delicatamente i connettori del disco in quest’ultimo e il plug sul retro del portatile di Bobby. L’icona del disco apparve sul desktop.
Lo aprii ed ebbi la conferma di quanto mi era stato detto. C’erano due file, un brano musicale salvato in formato MP3 e il messaggio. Nina mi aveva detto che la citazione all’inizio del testo era stata riconosciuta come appartenente a uno scrittore tedesco chiamato Heinrich Heine. La copia del Requiem di Fauré proveniva da un’edizione di grande pregio risalente ai primi anni ’60, il che a sua volta non significava nulla. Un’esecuzione di musica classica ha sempre un che di atemporale, e le più recenti non sono necessariamente le migliori. Il massimo che riuscii a ricavare dalla musica fu il dato che era stata digitalizzata a 192 k/sec in joint stereo, un’impostazione di qualità abbastanza elevata. Considerato che la maggior parte delle persone non riesce a percepire la differenza tra 192 e 160, allora forse questo fatto stava a significare che il file era stato realizzato per essere suonato su un apparecchio stereo di qualità, che avrebbe potuto rivelare le lacune di una copia realizzata con un rapporto inferiore; o più semplicemente — e più ovviamente — la musica aveva un’importanza per la persona che ce l’aveva messa. Un bell’affare, in entrambi i casi. Lo ascoltai diverse volte e notai quello che sembrava un leggero sibilo e quasi sicuramente uno o due grattamenti. Esisteva la possibilità che l’MP3 fosse stato creato partendo da un vinile. Appariva improbabile che un esperto di computer disdegnasse completamente i CD, quindi questo forse stava a significare che la persona possedeva un LP di quella musica che aveva per lui un qualche valore affettivo. Anche in questo caso, bell’affare.
Lanciai un programma di scansione di tipo professionale e aspettai che facesse il suo dovere. Molte persone sembrano considerare i computer alla stregua di semplici macchine, come l’aspirapolvere o il videoregistratore. Si sbagliano. Fin dai primi esemplari, da quei pallottolieri appena evoluti che erano gli Amiga e gli Apple II, il nostro rapporto con i computer è stato differente. Tutti capirono subito che si trattava di un oggetto che aveva dei diritti. Se la tua lavatrice smette di funzionare o la tv va in tilt, la fai riparare oppure la butti. Si tratta di pezzi di semplice tecnologia trasparente: non hanno alcuna magia. Viceversa, se un computer non fa il suo dovere non sai mai veramente di chi sia la colpa. Ti senti coinvolto e vulnerabile. È un po’ la stessa differenza che c’è tra una matita e una macchina. Una matita è un prodotto semplice e senza sorprese. C’è solo un modo in cui può funzionare — se ha la punta — e molti modi di essere difettosa: se è troppo piccola, troppo spuntata, senza mina. Con una macchina, specialmente il tipo di catorcio arrugginito che ognuno di noi ha usato per il suo primo giro, la faccenda è molto più complessa. Entra in gioco la capacità di essere persuasivi, specialmente nelle mattine più fredde. C’è quel rumore che non sfocia mai in nulla, ma che non scompare mai, quei malfunzionamenti occasionali che cominci a ritenere dipendenti dalle fasi lunari. Ciò non significa che l’auto sia guasta, ma solo che richiede un’attenzione amorevole, che ha le sue necessità. Gradatamente arrivi ad avere un atteggiamento rituale, un legame temprato dall’imprevedibilità, dal fatto che bisogna conviverci. Che poi, dopo tutto, è il modo in cui conosciamo le persone: non per le cose che hanno in comune con chiunque altro, ma perché impariamo a districarci in mezzo alle loro eccentricità, ai loro aspetti aggressivi e alle loro imprevedibili debolezze, in una parola, alle cose che le rendono diverse dagli altri.
Un computer sta nel mezzo: è un po’ come una macchina, ma all’ennesima potenza. I suoi artigli affondano molto di più nella tua vita. Il tuo computer è la tua anima di riserva, una rappresentazione, su più livelli e suddivisa in menu, di chi sei, di chi ti sta a cuore e dei tuoi peccati. Se passi una serata a navigare in rete a guardare donne nude, la tua traccia rimane nella memoria storica del browser e nella cache del disco fisso — senza considerare che viene registrata da tutti i siti che hanno identificato il tuo indirizzo IP quando ci sei passato, così da poterti coprire di e-mail fino alla fine dei giorni. Se scambi occasionalmente delle e-mail civettuole con una collega per poi buttarle tutte via scrupolosamente, sei ancora in errore fino a quando non procedi a svuotare effettivamente la spazzatura del tuo software.
Anche se pensi di essere furbo e getti via tutto, svuotando il cestino, non sei fuori pericolo. Tutto quello che accade quando «cancelli» un file è che il computer butta via il riferimento a esso — come buttare la scheda che si riferisce a un libro sugli scaffali di una biblioteca, e che indica al visitatore dove trovarlo. Il libro in sé è ancora al suo posto e se vai a cercare puoi trovarlo o rintracciarlo. È come un uomo che scrive i suoi appunti a matita su un enorme pezzo di carta. Se accechiamo l’uomo, gli appunti sono ancora lì. Non ci può mettere il dito sopra, non può mostrare dove ognuno si trovi, ma rimangono. Se continua a scriverne (in altre parole, se continua a salvare nuovi file), comincerà a scrivere su quelli originali, rendendo impossibile tornare a quello che era una volta, per capire o addirittura ricordare cosa era accaduto prima, cosa ha reso la sua vita quello che è. A ogni modo, sezioni di questi file rimangono nascoste e perdute, ma reali: sono le esperienze precedenti del computer, separate dal mondo esterno, ma che occupano ancora aree del disco come fantasmi e ricordi, mescolati con il quotidiano. Noi siamo fatti così.
Il software ci mise mezz’ora a completare il suo lavoro. Il risultato fu nullo e confermò semplicemente quello che il tecnico tanto caro a Nina aveva già scoperto: il disco era stato ripulito molto accuratamente prima che i due file venissero copiati lì sopra. Non solo l’uomo che scrive appunti era stato accecato, ma l’avevano anche portato fuori e ammazzato.
Il caffè nella brocca era ormai freddo. Lanciai uno dei programmi di proprietà di Bobby per setacciare la superficie del disco alla ricerca di quello che vi era stato scritto sopra e per verificare in quel brodo primordiale binario qualsiasi irregolarità — o qualche regolarità inaspettata. A parte smontarla fisicamente per esplorarla con le pinzette, non c’era altro che si potesse fare per penetrare a fondo negli oscuri meandri infantili della mente digitale. Il passato resiste alle intrusioni anche tra i circuiti stampati.
Sullo schermo comparve una finestra di dialogo per dirmi che il processo sarebbe durato poco più di cinque ore. Poiché non è molto eccitante stare lì ad assistere, controllai che il cavo di alimentazione fosse inserito a dovere e uscii a fare una passeggiata.
Alle tre del pomeriggio Zandt chiamò dall’aeroporto. Gli diedi le indicazioni per raggiungere L’Espresso e vi ritornai per attenderlo. Quaranta minuti dopo, il suo taxi arrivò. John uscì, lanciò un’occhiataccia al tizio in costume davanti all’hotel e si incamminò verso di me. Procedeva con passo lento e molto regolare. Sapevo cosa significava.
Disse a un cameriere di passaggio di portargli una birra e si sedette di fronte a me. «Ciao Ward. Hai un aspetto un po’ vissuto.»
«Io? Tu sembri un rottame. Come sta Nina?»
«Alla grande,» disse.
Attese la sua birra. Si era tagliato la barba. Non mi chiese come stessi né cosa avevo fatto. Nella mia limitata conoscenza di Zandt avevo imparato che non si perdeva mai in convenevoli. Non faceva mai discorsi inutili: diceva solo quello che doveva dire e poi stava zitto oppure se ne andava. Era evidentemente ubriaco. Bisognava aver passato un po’ di tempo con un bevitore — come avevo fatto io una volta, per un anno — per accorgersene, perché i segni esteriori erano pochi. Le borse sotto gli occhi erano più scure e afferrò il bicchiere nel momento in cui fu posato sul tavolo; ma i suoi occhi erano limpidi e la voce calma e misurata.
«Allora, cos’hai su Yakima?»
«Come ti ho già detto, non molto. Sono tornato a Los Angeles e ho riferito a Nina quello che avevamo scoperto. Lei ha fatto rapporto e non è accaduto nulla. Fondamentalmente ho cominciato a indagare perché.
Scrollò le spalle. Lo capivo. Non c’era molto altro da dire: lui era stato coinvolto nelle indagini sugli omicidi del Ragazzo delle Consegne, e la conseguenza era stata che sua figlia Karen era stata rapita e non fu mai più rivista in vita. Il suo matrimonio era andato a rotoli, lui aveva abbandonato il servizio attivo. Credo sia stato un bravissimo detective: era stato lui a scoprire che l’Homo Erectus era una specie di mezzano procacciatore di vittime che rapiva per conto di ricchi psicopatici che vivevano a The Halls. Ma anche se Zandt avesse desiderato tornare a essere un poliziotto, il che non era vero, difficilmente il dipartimento di polizia di Los Angeles sarebbe stato d’accordo. Quindi cos’altro gli rimaneva da fare? Diventare una guardia giurata? Mettersi in affari? In che campo? Zandt era ormai inadatto ad assumere un qualsivoglia impiego, proprio come me.
«Potremmo farci assumere dai federali.»
«Giusto. Tu sei stato sbattuto fuori dalla CIA. È una cosa che fa sempre impressione. A ogni modo, ti ricordi la parola scritta sulla porta della capanna che abbiamo trovato?»
«Non precisamente,» dissi. «Ho visto che là c’erano delle lettere, ma sembrava semplicemente che facessero parte del casino generale.»
Infilò la mano in una tasca e tirò fuori un piccolo pezzo di carta lucida. «Questa è una delle foto che ho scattato,» disse. «Stampata accentuando il contrasto. Ora la vedi?»
Osservai la foto da vicino. Indubbiamente c’erano delle lettere incise sulla porta. Se si studiava a fondo l’immagine si riusciva a scorgere la parola o il nome «Croatoan». La scritta risaliva a molto tempo prima, ed era parzialmente oscurata dal successivo deterioramento dovuto alle intemperie e da segni aggiunti in un secondo tempo. «E significa?»
«La mia idea era che potesse essere il nome di qualche vecchia compagnia mineraria o qualcosa del genere, ma non sono riuscito a trovarne. L’unico riferimento che ho trovato a questa scritta è strano.»
Spinse verso di me uno spesso plico di fogli. Era un testo scritto fittamente in diversi caratteri tipografici, diviso in sezioni, e raccolto sotto il titolo generale «Roanoke».
«Spero ci sia un riassunto.»
«Hai già sentito parlare di Roanoke, vero? Quella sulla East Coast?»
«Sì, vagamente,» dissi. «Un gruppo di persone sparì molto tempo fa. O qualcosa di simile.»
«In realtà sparirono due volte. Roanoke fu il primo tentativo inglese di insediare una colonia in America. L’esploratore inglese Walter Raleigh aveva ricevuto da Elisabetta I una striscia di terra, sotto forma di concessione. Nel 1584 Raleigh mandò una spedizione per scoprire che cosa avesse ottenuto: per l’esattezza, esplorarono una zona chiamata Roanoke Island, sulla costa di quello che ora è il North Carolina. Diedero una prima occhiata, presero contatti con la tribù locale — i Croatoan — e decisero di tornare in Inghilterra. Nel 1586 partì un secondo gruppo di cento uomini. Non gli andò altrettanto bene: non si erano portati viveri a sufficienza, ebbero dei problemi con gli indigeni perché non li trattarono abbastanza bene e alla fine, eccetto quindici, furono tutti ricondotti in patria da una nave di passaggio. Raleigh, però, era desideroso di insediare stabilmente una colonia e così l’anno dopo un ulteriore gruppo venne inviato per assicurarsi che questa nuova «Virginia» si fosse consolidata. Alla loro guida pose un uomo di nome John White, che designò come governatore. Partirono centodiciassette persone. Uomini, donne, bambini — l’idea era che la presenza di gruppi familiari avrebbe reso tutto più definitivo. Fu detto loro espressamente di non dirigersi verso Roanoke Island, ma… fu proprio lì che alla fine arrivarono. Trovarono le fortificazioni costruite dal gruppo precedente, ma nessuna traccia dei quindici lasciati a presidiarle. Andati via. Spariti. White ristabilì le relazioni con i Croatoan, i quali dissero che una ‘tribù nemica’ aveva attaccato il forte e ucciso almeno alcuni dei soldati. White era ovviamente incavolato, e quando venne ritrovato il cadavere di uno dei coloni, decise di attaccare la tribù dei cattivi locali, i Powhatan. Solo che i suoi uomini mandarono tutto a puttane uccidendo invece alcuni Croatoan, presumibilmente sulla scorta del buon vecchio principio: «Per me si assomigliano tutti.»
Scossi la testa. «Bel lavoro.»
«Così, naturalmente, i Croatoan, di punto in bianco e comprensibilmente, dimenticarono qualsiasi precedente benevolenza — e si rifiutarono di fornire del cibo. I coloni erano arrivati in estate, troppo tardi per seminare, e il poco che si erano portati stava andando a male.»
«Erano un po’ idioti i primi colonizzatori.»
«Idioti o audaci. O entrambe le cose. White decise di tornare in Inghilterra per far provviste. Non c’era altra scelta. Venne stabilito che se fossero andati all’interno, i coloni avrebbero lasciato dei segni che indicassero il percorso seguito. Inoltre, se si fossero allontanati in seguito a un attacco, avrebbero intagliato una croce in qualche punto facilmente individuabile. Il problema fu che quando White tornò in Inghilterra scoprì che il paese era in guerra contro la Spagna — e dovettero passare tre anni interi prima che potesse far ritorno a Roanoke.»
Ci pensai su per un attimo. Abbandonato in una terra straniera con un vicino che ti odia e il cibo che scarseggia. Il capo se ne torna a casa e rimane lontano quasi per il periodo che intercorre tra due Olimpiadi. «E quando ritornò, cosa trovò?»
«Spariti. Tutti quanti. Scomparsi. Nessuno in vita, nessuna traccia dei loro corpi. Gli effetti personali abbandonati. Nessuna croce intagliata. C’era però la parola ‘Croatoan’ incisa su un pilastro del cancello.»
«Okay,» dissi. «È una cosa che mette un po’ i brividi. Quindi, cos’era successo?»
«Questa è l’ultima notizia sicura a conoscenza di chicchessia. White avrebbe voluto sapere che fine avessero fatto le persone che aveva lasciato laggiù, ma il capitano e la ciurma se ne fregarono altamente, e così lui fu costretto a tornare in Inghilterra. Cercò di organizzare un’altra spedizione alla fine del 1590, ma questa volta Raleigh e i suoi investitori avevano perso qualsiasi interesse. Da allora molte persone hanno cercato di ricostruire la storia, a partire da un tizio di nome John Smith che si trovava nell’insediamento di Jamestown vent’anni dopo.»
«E?»
«Smith parlò con gli indigeni e si fece alcune idee che poi sono quelle che circolano ancora oggi. Sembra che la parola ‘Croatoan’ non indicasse solo una tribù, ma anche un’area geografica vasta e non molto ben definita. Quindi poteva essere stata incisa per indicare una destinazione, come era stato stabilito con White. Oppure avrebbe potuto significare che i Croatoan stessi avevano cambiato atteggiamento, e avevano cominciato ad aiutare gli sfortunati coloni. Oppure ancora che i coloni erano stati attaccati dagli indiani ed erano stati costretti a ripiegare nell’entroterra. Qualunque sia l’ipotesi giusta, v’è implicita la possibilità che alcuni o tutti i colonizzatori (alcune teorie pretendono che gli uomini siano stati tutti uccisi, e che fossero risparmiati solo donne e bambini) si siano integrati in una tribù locale, e ci sono un paio di popolazioni indigene — particolarmente i Lumbee — che avanzano in tal senso rivendicazioni pluriennali, alcune delle quali sembrano piuttosto fondate. Questa teoria ha cominciato a essere presa sul serio a partire dalla metà del diciannovesimo secolo e ci si è speculato sopra fin dai tempi di Jamestown. Ci sono storie su incontri, avvenuti verso la metà del diciassettesimo secolo, tra un ministro del culto ed alcuni indigeni amici che parlavano inglese, e c’è chi racconta di un esploratore tedesco, di cui non sono riuscito a rintracciare il nome, che sosteneva di avere avuto incontri con ‘una potente nazione di uomini con la barba’ — cioè con possibili discendenti dei colonizzatori.»
Avevo creduto che le incisioni sulla porta della capanna non avessero avuto grande impatto su di me, ma mentre John diceva queste cose, mi sentii improvvisamente gelare, sperduto in mezzo al nulla, in compagnia dei morti.
Zandt agitò un braccio per attirare l’attenzione del cameriere. Quest’ultimo cercò di spiegargli che era occupato, ma poi colse l’espressione degli occhi di Zandt e andò immediatamente a prendergli un’altra birra. «Il problema è di capire perché la scritta era incisa sulla porta della capanna che abbiamo trovato noi.»
«Che sia una citazione?» dissi. «Un qualche riferimento al mistero di Roanoke? Ma che senso avrebbe?»
«Sta cercando di dirci qualcosa.»
«Detto sinceramente, non credo che quel posto abbia qualcosa a che fare con Paul. Non c’era niente che ci permettesse di collegarlo a lui. E poi, perché dovrebbe importargli? Perché lui dovrebbe desiderare di dirci qualcosa?»
«Ha passato metà del periodo durante il quale Sarah Becker è stata sua prigioniera istruendola. E poi c’è quel pezzo che trovasti in rete tre mesi fa, la diatriba sul fatto che tutta l’umanità, a eccezione degli Uomini di Paglia, sarebbe stata infettata dal virus della socializzazione che ci avrebbe fatto iniziare a coltivare la terra. La sua missione è quella di informare.»
Ci fermammo un attimo quando ci furono portate le nostre bibite. «L’aspetto essenziale della faccenda,» dissi, «è che Paul non pensa affatto di essere un altro pazzoide.»
«Nessuno di loro lo crede, Ward. Nessuno di questi uomini si alza la mattina pensando: oggi farò qualcosa di malvagio. Fanno quello che fanno, e alcuni di loro comprendono che è sbagliato e alcuni no, ma in ambo i casi non è perché lo fanno.»
«Sì,» dissi, irritato dal suo tono. «Capisco.»
«Compiono quegli atti proprio come i drogati si fanno di eroina. Non stanno tentando di uccidersi; non stanno tentando di fottersi la vita. Hanno solo bisogno di farsi un po’ di eroina, così come tu hai bisogno di una sigaretta e altre persone hanno bisogno di avere le scarpe pulite e altre ancora devono assicurarsi di registrare i loro show preferiti o controllare tre volte di aver chiuso la porta di casa quando escono. Tutti hanno la loro formula magica, i loro rituali di conservazione, quella cosa segreta che per loro fa girare il mondo.»
«E ora la tua qual è — la birra?»
«Vaffanculo.»
«Come vanno le cose fra te e Nina?»
«Non sono cazzi tuoi.»
«Sì invece,» dissi, rabbioso. «Ci sono tre persone al mondo che sanno degli Uomini di Paglia. Ho passato tre mesi rintanato, cercando di non farmi scoprire. Ho spaccato il culo a un poveraccio in Idaho perché pensavo che fosse venuto a farmi fuori. Sto rischiando moltissimo con pochissime risorse. E quelle siete voi due.»
«Che ne è stato dei soldi dei tuoi?»
«Spariti,» dissi. «Non spesi, cancellati. Ci hanno messo le mani.»
«Merda,» disse. «Mi dispiace sentirlo.» Per un attimo guardò dall’altra parte della strada. «Le cose sono andate a puttane,» disse alla fine, apparentemente guardando un uomo che stava spostando dei quadri nella vetrina di una galleria d’arte. «Mi trasferii da lei. Sai che eravamo già stati insieme prima, quando io ero ancora sposato. Pensai che potesse funzionare. Lo pensammo entrambi. Ma… lei è piuttosto ipersensibile.»
«Già, mentre tu sei solo un grosso orsacchiòtto di peluche.»
Girò la testa e il suo sguardo si posò su di me come se fossi solo per un’inezia l’oggetto più interessante o importante nel suo campo visivo. «L’ho sempre detto.»
«Che ci facevi giù in Florida?»
Scosse semplicemente la testa. Stava cominciando a farmi incazzare sul serio.
«Okay, allora cos’altro hai scoperto?»
«Niente,» rispose.
«E questo è tutto? Hai fatto tutta questa strada per dirmelo? È questa la tua grande notizia?»
«Non ho passato tutto il mio tempo su questo, Ward, e non sto facendoti un rapporto su quello che ho fatto. Ho cercato di costxuirmi una vita. Ci sono altre cose importanti. Gli Uomini di Paglia non sono tutto e l’Homo Erectus è solo un assassino come tanti altri.»
«Stronzate,» dissi urlando. «Ha ucciso tua figlia e i miei genitori. Non è un assassino qualunque proprio per niente. E l’unico risultato delle tue ricerche è questa cagata accaduta quattrocento anni fa?»
«A volte bisogna ripercorrere un lungo cammino a ritroso per fare quello che va fatto.»
«E questo significa…?»
Scrollò le spalle. Aveva detto tutto quello che aveva da dire.
«Allora cosa hai intenzione di fare adesso?»
«Cercarmi un hotel da qualche parte, direi.»
«Questo qui non è male.» Nel momento in cui lo dissi mi sentii vulnerabile e desiderai aver tenuto la bocca chiusa.
Lui sorrise. «È troppo costoso per uno come me, Ward.»
«Allora accetta un prestito,» dissi, scavandomi una fossa ancora più profonda.
«Un prestito? Credevo fossi tu quello senza risorse.»
«John, perché fai così lo stronzo?»
Si alzò e gettò dieci dollari sul tavolo. «Perché ci vorrà più di questo per fare qualcosa contro di loro,» disse.
E se ne andò, risalendo la strada senza voltarsi. Rimasi a guardarlo fino a quando scomparve, per poi rientrare nella mia camera a fare le valigie.
Erano da poco passate le sei e Tom era sul balcone che correva lungo tutta la facciata del motel a due piani, a forma di L, quando la macchina entrò nel parcheggio. Si sentiva meglio da diversi punti di vista, ma peggio da altri. Uscire dalla stazione di polizia l’aveva aiutato sicuramente, così come il cambiarsi i vestiti. Il vicesceriffo era stato pazientemente ad aspettarlo mentre Tom sceglieva dei jeans nuovi, una giacca foderata di pelliccia e tutto quello che ci andava sotto. Tutto quanto possedeva prima del suo viaggio verso l’ignoto era stipato nel bagagliaio della macchina a noleggio, ora parcheggiata nel piazzale.
Una lunga doccia calda e un po’ di riposo sull’unica sedia della stanza lo avevano ristorato al punto di farlo sentire più o meno in grado di andare in cerca di cibo. I suoi vecchi vestiti erano infilati nel sacchetto con il quale aveva portato i nuovi. Sebbene sembrasse improbabile che potessero tornare a essere indossabili, Tom sentiva un vincolo soprannaturale con essi. Una parte del suo cervello — quella stessa che gli aveva fatto conservare tutti i portafogli posseduti — era pronta ad attribuire poteri a certi oggetti inanimati, a credere che il potere albergasse nelle cose. Chissà cosa sarebbe potuto accadere senza quei vestiti.
Sebbene non sarebbe stato in grado di ammetterlo del tutto, neppure a se stesso, c’era un altro aspetto da considerare: i vestiti erano i suoi testimoni. C’erano stati anche loro in quei luoghi e sapevano che cosa lui aveva visto, o percepito. In tutto il periodo in cui aveva lottato nel nulla per tornare verso la civiltà, Tom aveva tenuto a mente una cosa: non solo ora desiderava rimanere vivo, ma aveva una ragione per farlo. Sapeva qualcosa, aveva delle notizie da comunicare.
Ma la faccenda non era andata affatto come lui si aspettava.
Credeva ancora in ciò che aveva visto — o percepito, ma era evidente che nessun altro gli aveva prestato fede. Lo sceriffo aveva affermato la sua posizione molto chiaramente e il vice lo aveva imitato. I quindici minuti passati nel piccolo negozio di abbigliamento proprio di fronte al mercato avevano fatto capire a Tom che le notizie viaggiavano veloci. Se ne era già reso conto dal fatto che la donna di nome Patrice era già così bene informata da venire a sganciare la sua stupida bomba (dopo, aveva passato cinque minuti a scusarsi con Tom, il che aveva in qualche modo solo peggiorato le cose). La gente era immediatamente venuta a conoscenza di cosa lui aveva detto di aver visto. E quando aveva dato la sua carta di credito per pagare gli acquisti fatti, era apparso evidente a Tom che ormai tutti sapevano — o credevano di sapere — che lui era un pazzo.
Sai, un paio di notti prima, nel locale di Frank, aveva un’espressione di merda. Ha cercato di uccidersi nella foresta, ma non con una pistola o con qualcosa di altrettanto tosto, ma con le pillole, credo. Ha perso conoscenza e pensa di aver visto qualcosa. Ha passato due giorni perso laggiù. Non è comico?
Comico o triste. La ragazza alla cassa non aveva lasciato trasparire nulla di tutto ciò, ma il suo sorriso troppo gentile lo aveva fatto intuire. Anche l’uomo dietro il bancone della reception del motel aveva evitato di incrociare il suo sguardo, ma alla fine era arrivato ancora una volta un sorriso di compatimento. Tom aveva afferrato il messaggio. Era a un passo dal ridicolo e a due passi da qualcosa di peggio. Se Connelly avesse riferito qualcosa su quello che lui aveva scoperto, quei sorrisi di circostanza sarebbero scomparsi. E Connelly non sapeva tutto.
Aveva passato un po’ del tempo trascorso seduto a guardare il telefono, domandandosi se dovesse chiamare casa oppure no. Erano tre, quattro giorni che non lo faceva. Non riusciva a ricordarsi se avesse chiamato la sera prima di intraprendere il suo viaggio, e si rendeva conto che questo non deponeva molto a favore del suo stato mentale. Non credeva di averlo fatto, pensava di avere saggiamente resistito alla tentazione di raccontare qualcosa di grande o portentoso. Ora si sentiva in dovere di fare una telefonata a Sarah, per comunicarle che stava bene, ma si rese conto che sua moglie non aveva alcun motivo per sospettare diversamente. Il suo silenzio sarebbe stato soltanto un’ulteriore prova a supporto della scuola di pensiero «Tom è uno stronzo». Lui voleva comunicarle la sua scoperta. Doveva dirlo a qualcuno, e una delle intuizioni decisive avute durante la sua esperienza nella foresta era stata che lui teneva ancora molto a Sarah. Per prima cosa non era obbligato a dirle per quale ragione se ne era andato in giro in mezzo ai boschi: poteva dire semplicemente cosa aveva scoperto. Il problema era che, mentre cercava di prolungare la sensazione che aveva provato nella foresta, e cioè il fatto di essere in pericolo, ma di valere qualcosa, la sua notizia appariva compromessa.
Senza quella notizia non c’era motivo di chiamare «casa» e niente di nuovo da dire. E poi in cosa sarebbe consistito, in definitiva? Quella cosa che tutti conoscono e che in realtà dicono che non esiste? Quella stupida cosa enorme e pelosa che si è sempre rivelata una pagliacciata? Io l’ho vista. Mi sono trovato a tu per tu con una bestia mitologica. Era in piedi sopra di me e io ho respirato il suo fiato terribile. Almeno… credo di averlo fatto — mentre ero sbronzo, fuori di testa, mezzo addormentato e a un passo dal lasciarci le penne. E poi ho visto un’impronta. O magari no, e a dire il vero ho sentito delle voci per tutto il tempo. Ecco cosa c’è di nuovo. PS. Ti amo.
Avrebbe immediatamente riconquistato il suo rispetto. Probabilmente avrebbe buttato giù il telefono per raggiungerlo seduta stante e per stare di nuovo con lui. «Il mio coraggioso esploratore. Il mio… stupido idiota del cazzo».
No. Quello che lei sapeva già di lui era negativo, ma non quanto quello che avrebbe potuto scoprire un giorno. Per avere qualche speranza di resistere, una speranza qualsiasi, le cose avrebbero dovuto tornare al loro posto a partire da quel momento. Sua moglie avrebbe dovuto credere alla sua parola contro quella degli altri. Non poteva chiamarla in quel momento, dando l’impressione di essere un pazzo. Non voleva nemmeno mandarle un messaggio scritto. Quando si fosse deciso a comunicare di nuovo con lei, avrebbe dovuto essere l’inizio di un sentiero in salita. Ma per quanto a lungo rimanesse sul balcone, non riuscì a scoprire da dove potesse partire.
La macchina percorse un piccolo cerchio nel piazzale e si fermò proprio al centro. La portiera del conducente si aprì quasi immediatamente e un uomo ne uscì. Era un po’ più alto della media, aveva capelli castani in ordine e l’aria di uno di città.
Alzò lo sguardo verso il balcone e fece un piccolo cenno. «Lei per caso è Tom Kozelek?»
Tom lo squadrò per un attimo. «Sì,» disse alla fine. «Chi è lei?»
L’uomo sorrise. «Niente male, eh? Ho fatto un sacco di strada a rotta di collo per parlare con lei, ed eccola qui.»
«Okay,» disse Tom. «Ma lei chi è esattamente?»
L’uomo tirò fuori dal portafogli un biglietto da visita e lo mostrò. Era troppo lontano perché Tom potesse leggere le parole, ma il logo gli sembrò familiare.
«Sono uno che vuole sentire la sua storia,» disse. «Ora, devo venire su da lei o mi permette di offrirle una birra?»
Alle sette e un quarto Al Connelly era ancora seduto alla sua scrivania nella stazione di polizia. Non c’era una ragione per essere lì: Phil aveva smontato, ma l’altro vice, Conrad, stava ammazzando il tempo lì fuori. Connelly avrebbe potuto già essere a casa, ma la verità è che anche là non c’era granché da fare. A ogni modo, era in procinto di alzarsi e andarsene quando bussarono alla sua porta. Alzò lo sguardo e vide Melissa Hoffman in attesa.
«Dottoressa,» disse Connelly. «Cosa posso fare per lei?»
«Be’,» rispose, nulla. Solo che… be’, ho trovato qualcosa e ho pensato fosse meglio parlarne con lei.»
Connelly lanciò uno sguardo al bricco del caffè nell’angolo e vide che era mezzo pieno. «Vuole un caffè?»
La donna annuì e si sedette con una certa titubanza. Quasi tutti si comportavano così, indipendentemente da quanto disinvolti volessero apparire. Sembrava che desiderassero essere ammanettati seduta stante, convinti che ci sarebbe comunque stato qualche peccato che avevano dimenticato. I pochi che non davano quest’impressione erano sempre dei criminali autentici, che nel profondo di se stessi semplicemente non si rendevano conto di quello che avevano fatto.
Connelly riempì due tazze di caffè e si risedette alla scrivania, senza dire nulla.
«Okay,» disse la dottoressa. «Ho fatto qualcosa di scorretto. Quando ero qui, stamattina, per visitare il tizio delle montagne, mentre uscivo ho visto qualcosa nella sua sacca.»
«Che genere di cosa?»
«Questo,» disse e mise qualcosa sulla scrivania di Connelly. Lui lo prese, lo osservò. Sembrava una piccola manciata di erbaccia, erba secca. «Probabilmente non avrei dovuto prenderla.»
«Già, probabilmente,» disse lo sceriffo. «Che cos’è?»
«Proprio quello che vede,» rispose lei. «L’ho vista lì — in realtà era una delle tante nello zaino — e mi sono chiesta cosa fosse. Quello che avete qui è un tizio che fa affermazioni bizzarre che noi sappiamo essere false.»
«Tutto ciò è già stato chiarito,» disse Connelly agevolmente. «Abbiamo appurato che aveva fatto un po’ di confusione.»
«Oh,» disse Melissa, delusa. «Allora, forse, questa non è affatto una notizia. Ho semplicemente pensato di dover verificare; non volevo scoprire che si trattava di qualche robaccia trovata qui, e che qui avremmo potuto trovarci alle prese con drogati che spuntavano da tutte le parti.»
«È stata un’idea sensata,» disse lo sceriffo. «Quindi…»
«Quindi, ho una vicina che conosce le piante e le erbe, così le ho portato quelle per vedere se riusciva a dirmi qualcosa.»
«Si tratta per caso di Liz Jenkins?»
Melissa non riuscì a nascondere il proprio imbarazzo. «Sì.»
«Conosce a fondo le erbe, lo so. A dire il vero, se ne ha l’occasione, dovrebbe trovare un modo per farle capire che sarebbe il caso di essere più discreta nell’uso di una di queste erbe. Lo stesso vale per il suo fidanzato.»
«Lo farò,» disse Melissa. «E so anche di questa storia, ed è in parte per questo motivo che mi sono rivolta a lei.»
«Ah sì?»
La dottoressa arrossì. «Sì. Ho pensato che sarebbe stata in grado di riconoscere il genere di cosa che la gente potrebbe fumare.»
Connelly sorrise. «Mentre lei non saprebbe nemmeno da che parte cominciare.»
«Esattamente.» Melissa piegò la testa e ricambiò il sorriso, pensando come già le era accaduto in passato che Connelly fosse migliore e un po’ più intelligente di quanto la gente riteneva. «Posso continuare?»
«Non sto nella pelle. Le ha detto cos’era?»
«In realtà si tratta di due piante.» Melissa appoggiò un pezzo di carta sul tavolo e lo spianò in modo che entrambi potessero leggere — o cercare di farlo — la scrittura barocca di Liz. «Se osserva da vicino, può notare che su uno degli steli sono rimasti dei resti di piccoli fiori, che la prima volta non avevo notato. Appartengono alla famiglia della Scutellaria laterifolia, detta anche berretto dei quaccheri.»
Si allungò in avanti per estrarre dal mazzo un altro pezzo rinsecchito che a Connelly appariva indistinguibile dagli altri. «E quest’altro è un esemplare di Valeriana officinalis, o valeriana. Dunque. La Scutellaria cresce in tutti gli Stati Uniti e nel sud del Canada, non è particolarmente rara. La cosa interessante, però, è che Liz ha detto che un gruppo chiamato «gli Eclettici», nel diciannovesimo secolo, la usava come sonnifero o sedativo, per curare l’insonnia e la tensione nervosa.»
Connelly annuì, sapendo che c’era dell’altro.
«E la valeriana è citata da un erborista dell’epoca antecedente alla Guerra Civile chiamato Thompson. Racconta che i primi colonizzatori avevano scoperto che molte tribù indiane usavano questa pianta, e lui stesso la definì, e Liz mi ha fatto vedere la citazione, ‘il miglior prodotto per i nervi che si conosca’ — intendendo con questa espressione ‘tranquillante’. Gli specialisti delle terapie complementari la usano ancora oggi per l’ansia, per il mal di testa e per l’insonnia, e Liz sostiene che sia stata testata con successo come alternativa al Valium.»
«Questo è veramente interessante,» disse Connelly. «È incredibile in cosa ti puoi imbattere nei boschi.»
«Proprio così, vero?»
«Quindi lei mi sta dicendo che questa roba è solo flora locale, che è. finita nello zaino del tizio mentre incespicava nella notte.»
«No, Al, non sto dicendo affatto questo. E non lo dico per tre ragioni.» Appoggiò la tazza di caffè e usò le dita per enumerarle. «La prima è che sarebbe una coincidenza straordinaria che due erbe medicinali siano potute cadere nello zaino, specialmente quel tipo di erbe che sembrano perfette per lo stato mentale in cui si trovava l’uomo in quei momenti. La seconda è che se dà un’occhiata alla parte inferiore degli steli, sembra che uno sia stato utilizzato per legarli tutti insieme.»
«Non riesco a vederlo,» disse Connelly. «Potrebbe essere semplicemente il modo in cui erano stipati nella sua sacca.»
«Okay,» disse Melissa, «ammettiamo che sia così. Ma come la mettiamo con questo: la Scutellaria laterifolia è una pianta che avvizzisce in inverno.»
Connelly non fiatò.
«Al, quel tizio avrebbe potuto portare il suo zaino da . qui fino a Vancouver senza che nessuna di queste erbe s’infilasse lì dentro. Il che significa che sono state messe lì di proposito.»
Connelly rimase a fissarla per un lungo istante, poi si allungò e afferrò di nuovo il bricco del caffè. La sollevò nella direzione della donna che però fece cenno di no con la testa. L’uomo si versò con comodo la sua tazza, pensando tra sé e sé che avrebbe fatto meglio ad andarsene a casa qualche minuto prima.
«Non riesco proprio a capire dove stiamo andando a parare,» disse alla fine. «Okay, dunque quel tizio è andato di recente da un erborista. E allora?»
«Forse non significa niente,» disse Melissa. «Ma non ce lo vedo a fare una cosa del genere, a prendere questo tipo di rimedi essiccati e portarseli dietro per un’escursione votata dichiaratamente al suicidio. Secondo lei ha senso?»
«No, direi di no.» Connelly avrebbe potuto suggerire che quelle piante fossero una rimanenza da una gita precedente, ma aveva già notato che lo stesso tipo di zaino di Kozelek era in vendita proprio lì a Sheffer. «Quindi, dove ci porta tutto questo, signora Fletcher?»
Melissa rise in modo seducente. «Da nessuna parte. Ho solamente ritenuto opportuno parlarle della cosa. Stasera siamo a cena dai Wilson e quindi lei era sulla strada. Ho lasciato Jeff da Frank e, a dire il vero, se non voglio perdere i Wilson come amici e commensali, sarà meglio che lo vada a recuperare prima che inizi un altro giro.»
Connelly la accompagnò all’uscita e rimase a guardare la donna mentre percorreva la lunga diagonale attraverso la strada bagnata in direzione del locale di Frank, procedendo con cautela per evitare di rovinare le sue scarpe da sera. Era una brava dottoressa e a Connelly non importava molto se lei e Liz Jenkins ogni tanto passassero qualche serata in privato senza fare nulla di sensato. Anche Al aveva passato qualche serata di quel genere, a suo tempo. Prima o poi avrebbe smesso di occuparsi di quelle piante, che non portavano da nessuna parte.
Tuttavia l’uomo tornò nel suo ufficio, si sedette alla scrivania e rimase per un po’ a pensare.
Tom e il giornalista stavano cominciando il secondo giro di birra da Frank quando la dottoressa entrò a prendere un tizio che presumibilmente era suo marito. Quest’uomo se ne era stato lì a parlare affabilmente con il barista dall’altra parte della sala. Con calma e fermezza la donna gli fece lasciare il suo drink sul bancone e lo invitò a uscire. Tom si voltò per osservarli mentre attraversavano lo spiazzo e vide la donna ridere per qualcosa che il suo compagno aveva detto. Anche Tom riusciva a far ridere le donne qualche volta. Improvvisamente sentì molto la mancanza di quel suono.
«Qualcuno di sua conoscenza?» chiese il giornalista.
Tom scosse la testa. «È il dottore del paese. La polizia l’ha chiamata perché si accertasse delle mie condizioni di salute.»
«Carina.»
«Direi di sì,» disse Tom. «Già impegnata, però.»
«Tutti sono impegnati, oggi come oggi, Tom. Compreso lei, a giudicare dalla fede che porta al dito. C’è per caso qualcosa che dovrei sapere a tal proposito? Sul perché lei sia qui tutto solo?»
«Sono sorte alcune difficoltà a casa,» disse Tom. «Sono venuto qui per schiarirmi la mente.»
«Okay. Per ora può bastare.»
Tom si domandò quanto ci sarebbe voluto prima che l’uomo decidesse che doveva saperne di più in proposito, e come sarebbe riuscito a tenerlo lontano da ciò. Posò la sua birra e lo guardò. Anche vedendo la sua bella camicia e il vestito, si capiva che era un tipo di città e che forse non era così sveglio come lui si riteneva. Come al solito, stava sorridendo. Tom pensava che quella fosse una caratteristica che si acquisiva per convincere la gente a dire le cose. L’uomo — il cui nome era Jim Henrickson — lavorava per il «Front Page», una rivista il cui logo bianco e rosso Tom aveva riconosciuto a venti metri di distanza, e che si occupava di moda, celebrità, personaggi famosi — insieme ad argomenti come «Il rifugio di Hider in Antartide», «Gli alieni mi hanno rubato lo stipendio», «Il bambino-pesce nato dalla reginetta di bellezza dell’Idaho». E ora… «Un designer suicida trova Bigfoot».
La differenza era che i titoli di testa di «Front Page» non erano mai scarni e i giornalisti facevano di tutto per sembrare dei veri professionisti. Anche se alcune storie viaggiavano ai confini del bizzarro, erano ben scritte e avevano un approccio equilibrato. In più era patinato. Il mondo dello spettacolo lo prendeva piuttosto sul serio e la gente del cinema e della moda invitava regolarmente i suoi giornalisti ai ricevimenti più importanti. Rispetto agli standard delle riviste di bassa lega, era un rotocalco di una certa eleganza e classe. Questo faceva la differenza. Se quell’Henrickson fosse stato dell’«Enquirer» o di «World News», Tom in quel momento sarebbe stato da un’altra parte. Probabilmente a mangiare qualcosa. Ma la notizia doveva partire da qualche parte e nell’ultima mezz’ora Tom aveva cominciato a pensare che, in fin dei conti, quell’uomo poteva avere un pubblico per l’annuncio che aveva da fare.
«Lei mi crede,» disse.
«Certo che sì.»
Tom si sentiva esausto, strano e triste. L’uomo se ne accorse e con gentilezza gli diede una pacca sulla spalla. «Tutto andrà per il meglio, amico.»
«Perché?» chiese Tom. «Nessun altro mi crede.»
«La ragione principale è che lei non sembra un bugiardo e la maggior parte delle cose senza senso che mi raccontano sono bugie più che errori. In secondo luogo questa non è la prima volta che vengo da queste parti per una storia del genere. Nove mesi fa tre cacciatori a novanta chilometri a nord-est da qui, vicino a Mazama, hanno riferito di un incidente simile: un’improvvisa apparizione notturna nel loro accampamento e un odore pungente. Udirono anche degli strani rumori, come un lamento placido. Lei ha sentito una cosa simile?»
«No, ma io ero… profondamente addormentato, prima che mi risvegliassi.»
«Già. Be’, quelli se la sono fatta addosso. Erano tre marcantoni che vivevano nei boschi da quando erano ragazzini, e se la sono data a gambe levate in preda al panico.»
«Non ricordo di aver sentito una notizia del genere.»
«Lei ci legge tutte le settimane, vero?»
«No,» ammise Tom. «Lo faccio principalmente quando sono in una sala d’aspetto. Mi dispiace.»
«Non deve dispiacersi, Tom. Le sale d’aspetto sono un ambiente importante. Se noi riusciamo a distrarre uomini e donne in preda all’ansia da dentista, be’, onore al merito. Bene, comunque se non ha sentito dei tre cacciatori è perché non ci siamo occupati di quella faccenda. Le dicerie su tre montanari barbuti in plaid, possono attrarre i nostri concorrenti, ma non sono di alcun interesse per i lettori raffinati di «Front Page». La nostra prospettiva è che anche se trattiamo argomenti bizzarri, non li prendiamo in considerazione se non siamo convinti di avere tra le mani un affare importante.»
«Come per il nascondiglio di Hider nell’Antartide?»
«Cosa vuole che le dica?» L’uomo rise, allargando le braccia. «Si trattava semplicemente di un’antica e strana formazione rocciosa. Personalmente non me ne sarei occupato, lo ammetto senza difficoltà, ma io sono solo un povero giornalista da battaglia. Quel che è certo è che abbiamo venduto un casino di copie. Hider, l’incorreggibile ragazzino cattivo. Ci manca, ora che se n’è andato. Comunque, quello che voglio dire è che se c’è un posto dove si può trovare Bigfoot è proprio qui a nord-ovest della costa del Pacifico. Nel corso dei secoli si sono accumulate notìzie di avvistamenti, a partire da un tizio di nome Elekah Walzer, nell’800 — e c’è materiale anche precedente. In tutta questa zona degli Stati Uniti si possono trovare vecchie incisioni rupestri raffiguranti esseri che assomigliano a scimmie, a parte il fatto che qui non ci sono stati primati indigeni — o perlomeno questo è quello che dicono.» …
«Non ci sono stati anche dei film?»
L’uomo scosse la testa. «Il film di Patterson, che si è rivelato un falso, anche se a dire il vero solo da poco. Tutto è falso, o presumibilmente falso; e non c’è niente che possa dimostrare il contrario. È questo il nostro più grosso problema. C’è un mucchio di persone che non vuole che si conosca la Verità. Tu dai loro un minimo indizio e loro ti affossano. Ma noi ci arriveremo.» Henrickson prese un sorso di birra, con gli occhi scintillanti per il buonumore. «Sa qual è la verità? Le teorie cospirative sono aria fritta.»
«Già,» disse Tom annuendo. «Okay, ma quali?»
«Non una, tutte lo sono. Sono state inventate dalle Autorità — per nascondere quello che veramente accade.»
Tom rise. «Buona questa.»
«Non sto scherzando. L’unica teoria vera è questa perché l’ho inventata io. Più una teoria appare bizzarra e più ci sono possibilità che sia vera. Suona stravagante solo nel contesto di tutte le bugie che siamo stati educati ad accettare.»
«Mi sono perso,» disse Tom.
«Le Autorità controllano tutto il sistema di informazione — quindi devono avere inventato anche quelle teorie. Inculcano queste ‘teorie cospirative’ perché per noi sarebbe ancora peggio conoscere la verità… Per esempio, sarà al corrente di quell’idea secondo la quale non saremmo mai realmente atterrati sulla luna, vero?»
«Ho visto una trasmissione televisiva. Poi c’era un film…»
«Esatto, ma il punto è che questa ipotesi è essa stessa una teoria cospirativa creata ad arte per attirare l’attenzione lontano dalla verità, e cioè che non c’è alcuna luna.»
«Scusi?»
«Non esiste nessuna luna. Non ci sono né pianeti né stelle. Tutti si mettono a discettare se siamo o no arrivati lassù o no’, e così perdono di vista la realtà. Non c’è nessun lassù, là. Galileo si drogava. Questo è quanto, caro mio. Questa palla di roccia è tutto quello che c’è. Ci viene detto: ‘Il Governo sa che esistono gli alieni e vuole nascondere la cosa’. In realtà non ci sono alieni, perché — vedi sopra — non c’è nessun universo. L’idea venne escogitata quando diventò evidente che ci serviva un nuovo orizzonte altrimenti ci saremmo uccisi uno con l’altro nel giro di pochissimo tempo. Chi arriverà prima sulla luna, noi o i cattivoni comunisti? Poi ci arriviamo, ma è un po’ come se la cosa ci fosse venuta immediatamente a noia e non ce ne fregasse più niente. Non è pazzesco? Ci siamo arrivati con la tecnologia di quarant’anni fa, ma non lo facciamo adesso che riusciamo a sistemare questi computer nello spazio di una testa di spillo?»
«Ma le navicelle spaziali ci sono.»
«Giusto. E abbastanza spesso una esplode. ‘Ecco il perché non siamo ancora arrivati su Marte, signore e signori: perché lo spazio è pericoloso.’ Sono tutte stronzate ed ecco a cosa servono gli Omini Verdi. Noi non andiamo là fuori, ma vengono loro qui, dunque là fuori esiste qualcosa. E non si tratta delle cagate sull’orizzonte lontano, nemmeno. Mi dica un po’ questo: chi ha ucciso John F. Kennedy?»
«Non lo so. La mia impressione è che sia un mistero.»
«Esatto. E perché?»
«Credo che me lo dirà lei.»
«Per coprire il fatto che Kennedy non è affatto morto.»
«Non lo è?»
«Certo che no, Tom. In realtà è una storia toccante. Venne costretto a uscire di scena dalle persone che lui e la sua famiglia avevano fatto incazzare — la mafia, i nazionalisti cubani, la CIA — più o meno in questi termini: ‘Continua così e ti facciamo a pezzi.’ Così fece un patto affinché lui e il suo unico amore (Marilyn, e chi altri?) potessero scomparire. Vennero inscenate le loro morti e ora vivono insieme in Scozia, dove hanno messo su un allevamento di alpaca. Credo sia uno dei primi in Europa. Non è granché, ma se la cavano bene e poi, sai com’è, sono insieme, no? Ecco perché continuano ad accadere disgrazie agli altri Kennedy. Alcuni di loro sono a conoscenza della romantica fattoria segreta di JFK, Loro devono tenere la bocca chiusa, perché in questo caso le fondamenta della cospirazione verrebbero allo scoperto e la gente comincerebbe a pensare: ‘Cazzo, allora cosa c’è di vero?’ Appena c’è un segnale che un Kennedy sta per cedere, bum! Diventano storia passata: screditati, morti, o entrambi. Si dice che anche Lady Diana fosse venuta a conoscenza di qualcosa, devo aggiungere altro?»
«Lei non crede veramente a tutto questo.»
L’uomo sorrise. «No,» ammise. «Non è quello che è accaduto a JFK… Ma questa è la prima cosa che si impara nel mio mestiere: la verità è irrilevante. Ciò che conta è quello che la gente crede.»
Tom sentì un leggero rumore dietro di lui e vide che era arrivata un’altra birra, che peraltro non ricordava di avere ordinato; Un’altra abilità probabilmente molto utile in un lavoro come quello di Henrickson.
«Jim, non c’è bisogno che tu mi faccia ubriacare», disse.
«Tom, Tom, Tom,» disse Henrickson, scuotendo la testa. «Oh Gesù! E tu pensi che io sia paranoico. Fidati. Ho voglia di farmi un paio di buone birre e tu mi stai tenendo compagnia. Ora sei entrato nel meccanismo e questo significa che non devi farti menare per il naso. Spero che qui ci siano gli estremi per una bella storia. E questo significa che riceverai dei bei soldoni. Però voglio la tua parola, qui e subito, che di questo parlerai solo con me e con nessun altro.»
«Certo,» disse Tom, sapendo che nessun altro lo avrebbe ascoltato.
«Perfetto. Il che significa che ci è rimasto ancora un dettaglio da risolvere.»
«Hai.bisogno di una prova qualunque.»
«Non intendo una prova tipo quelle da produrre davanti a un giudice, naturalmente. Se ce l’avessimo allora direi: al diavolo «Front Page», andiamo direttamente alla BBC, alla CNN e al «New York Times». Ma abbiamo bisogno di fatti concreti. Tu hai una descrizione che assomiglia in modo promettente a ciò in cui si imbatterono i cacciatori, ma in fin dei conti potresti anche averla presa da qualche altra parte.»
«Ma io non ho sentito…»
«Io ti credo, ma gli altri non lo faranno. Avevi anche l’impronta di un piede, ma quella ormai sarà sparita. Inoltre c’è l’inconveniente di quella Anders con i suoi stupidi scarponi.»
«Ma è proprio cosi,» disse Tom. «È tutto quello che ho.»
«Veramente no.» Henrickson scosse la testa. «No, a’ giudicare da quello che hai detto. Potresti sapere qualcosa senza esserne consapevole. Domani andremo a dare un’occhiata.»
Tom sembrava un po’ confuso. «Fidati di me,» disse l’uomo, ammiccando.
Connelly stava lasciando la stazione di polizia. Una rapida conversazione telefonica con Patrice Anders aveva chiarito la scoperta di Melissa: era stata lei a mettere quelle erbe nello zaino. Ora la situazione era di nuovo chiara e definita. Lo sceriffo valutò l’idea di andare da Frank per una soda e qualche stuzzichino, ma decise che era stata una giornata lunga e che una birra davanti alla televisione sarebbe andata bene lo stesso. La sua casa era grande e vuota, ma tranquilla e il telefono non avrebbe squillato.
Non sembrava affatto male.
Dieci minuti dopo la sua conversazione telefonica con lo sceriffo Connelly, Patrice si trovava ancora nel piccolo vano cucina di casa sua. Era solo uno striminzito angolo di un metro per due ricavato dalla zona soggiorno, con una finestra che dava sugli alberi. In quel momento la donna stava guardando fuori, anche se, a dire il vero, non stava osservando nulla.
Nulla che qualcun altro avrebbe potuto vedere, a ogni modo.
Bill e Patrice Anders avevano vissuto quasi tutta la loro vita a Portland. Quando i ragazzi se ne andarono di casa verso la metà degli anni ’80 i genitori cominciarono con qualche incertezza a cercare di ricordarsi come si passasse il tempo libero, come fossero stati dei dipendenti di uno zoo abbandonato, congedati dopo che gli animali erano stati lasciati Uberi di tornare nella giungla. Iniziarono a lasciare la città nei weekend, divertendosi in un modo un po’ insulso, ma fu solo quando scoprirono Verona che tornarono ad avere i loro orizzonti.
Poco più che una gobba sulla 101, la strada costiera che scendeva dall’estremità dello stato che dava sul Pacifico, Verona era costituita da una manciata di strade, qualche edificio di legno, una drogheria e non molto altro: c’erano buone probabilità di attraversarla e lasciarsela alle spalle senza che venisse in niente di fermarsi. Ma se per caso qualcuno, bighellonando verso sud, avesse tenuto gli occhi aperti uscendo dal paese, proprio dopo il ponte che sovrastava l’insenatura, avrebbe visto un cartello con l’indicazione «Redwood Lodgettes». Un’insegna trasformata dal calore del sole in un vecchio pezzo di legno, puntato verso gli alberi. Patrice lo aveva notato e si erano fermati per dare un’occhiata. Quella decisione improvvisa cambiò il resto della loro vita.
Le Redwood Lodgettes erano un pezzo di storia in via di estinzione, una località vacanziera da vecchia scuola che segnava la fine di una mattinata di viaggio e l’inizio di un pomeriggio di nuotate, urla, corse in mare e ritorno con la sabbia e gli aghi di pino sotto i piedi: mamma era felice perché il posto era carino e c’era anche modo di lavare gli indumenti; papà era contento perché aveva rispettato il budget; i bambini, consci, anche se vagamente, di tutto questo, si crogiolavano nel calore di una famiglia, per una volta unita da una gioia semplice. Quattordici bungalow erano sparsi su un paio di acri di terreno alberato, circondati dal lato da un litorale roccioso e dall’altro dalla piccola baia. In quella prima visita Bill volle fare uno schizzo della loro casetta (la numero 2), tanto era interessato dal modo in cui era stata messa insieme: salotto, angolo cottura, camera da letto, bagno e dispensa, che erano stati ottenuti occupando ogni centimetro abitabile di una robusta costruzione in legno di nemmeno quaranta metri quadri. Una stufa a legno nel salotto rendeva la casa il posto ideale per le frizzanti serate primaverili; la camera da letto era accogliente nelle fredde notti invernali. La veranda che circondava la casa era il posto dove si viveva in estate e in autunno, ascoltando gli uccelli e il mormorio distante dell’acqua, chiedendosi cosa ci sarebbe potuto essere per cena, tenendo un libro aperto in grembo per legittimare il non far niente, incluso il leggerlo.
Quella sera ripercorsero il ponte ed entrarono in paese. Trovarono un bar, sistemato su palafitte nella baia, che aveva tavoli da biliardo e musica ad alto volume che suonava loro familiare e più in alto, sulla collina, un ristorante buono come quelli di Portland. Bevvero vino e birra del luogo e rimasero affascinati come non era accaduto loro da molto tempo. Alla loro età realizzare un incantesimo non era una cosa semplice. Verona ci riuscì. Bill e Patrice scoprirono di respirare meno affannosamente, tenendosi per mano sulla spiaggia e sorridendo alle altre persone che passeggiavano; osservavano il mare e percepivano la curvatura della terra. Scelsero gli stessi aperitivi per tre sere di seguito. La coppia di anziani che dirigeva Kedwood Lodgettes — i Willard — aveva cominciato a chiamarli per nome già il secondo giorno. Quando arrivò il momento di andarsene, Patrice dovette essere quasi portata via a forza, non prima di avere strappato a suo marito la promessa che sarebbero ritornati appena possibile.
La decisione fu presa lì su due piedi. Quello era il posto dove sarebbero venuti quando avrebbero avvertito la necessità di allontanarsi dal mondo.
Passarono dieci anni durante i quali vi tornarono venti volte, forse venticinque. I «Willard si ritirarono nel ’94, ma non cambiò molto: Patrice e Bill continuarono ad approdare alle Lodgettes come quegli uccelli marini che due volte l’anno vengono a riva seguendo la marea. Una volta riuscirono quasi a portare i loro figli, ma naufragò tutto. Non che ci fosse nulla di insolito. Una volta in cui parlavano di Josh e Nicole, Bill descrisse il rapporto che avevano con loro come «cordiale», e le cose stavano proprio in questi termini. Si volevano bene, su questo non c’erano dubbi, ma in maniera estremamente controllata. Nessuno impazziva d’affetto. I contatti telefonici erano regolari, le visite cordiali; si incontravano per le feste comandate, quando si scambiavano regali ben scelti e ognuno dava una mano in cucina. I loro figli lavoravano sodo. Se le loro carriere erano più importanti delle visite in famiglia, allora non c’era granché da fare. Bill e Patrice andarono lo stesso a Verona. Era bello avere un posto solo per loro, senza doversi preoccupare se altri lo trovavano accogliente. Non riproposero più un viaggio di famiglia.
Poi, quando si trovarono a Verona per un weekend alla fine di agosto, capitò loro di scambiare due parole con i nuovi proprietari. Non avevano un rapporto stretto — diversamente dai Willard, Ralph e Becca sembravano dimenticarsi di loro dopo ogni soggiorno, e ogni volta la confidenza doveva ripartire da zero — ma capirono subito che c’era qualcosa sotto. C’era un’aria di smantellamento. Lo chiesero, e Ralph lo confermò senza nessun evidente rimorso: quella era l’ultima estate delle Lodgettes.
Sentendo questo, Patrice avvertì un colpo al cuore e la sua mano salì alla bocca. Ascoltava a malapena mentre le veniva detto che quell’attività non rendeva abbastanza soldi, anche se la località stava acquistando in popolarità, dato che Cannon Beach, Florence e Yachats stavano diventando troppo care e la gente cercava più avanti lungo la costa piccoli angoli romantici. Questo non stava aiutando le Lodgettes. I giovani non volevano vecchie baite di legno, ma lettori DVD e succhi biologici. La «stone therapy» era un requisito fondamentale. Le Lodgettes erano state costruite in una zona di grandissimo pregio e una catena di hotel in quel luogo sarebbe stata una scelta immediata per qualcuno che aveva il fiuto per gli affari. Più tardi Bill borbottò a Patrice che se Ralph e Becca si fossero sforzati di ricordarsi degli ospiti tra una visita e l’altra, allora tutto sarebbe stato diverso. Ma le cose stavano così, e un investitore di San Francisco aveva fatto un’offerta che loro non erano nelle condizioni di rifiutare.
Bill e Patrice sedettero sulla terrazza del bar prima di cena, sorseggiando i loro drink: una rara birra per lui e un ancora più raro Sweet Manhattan per lei. Patrice sentiva una tristezza come da molto tempo non le accadeva. Perché la vita doveva essere così? Era come se, di anno in anno, il mondo accettasse sempre più cose che per lei non significavano nulla, innovazioni che apparivano insignificanti o poco chiare, ma che erano annunciate come l’alba di una nuova era. Si era rassegnata a tatto ciò, aveva fatto del suo meglio per comprendere le attrattive dei cellulari, di Windows e di Eminem. Ma perché le cose che interessavano a lei nel frattempo dovevano essere spazzate via? Anche Bill stava in silenzio. Sul viso aveva dipinta l’espressione di quando cercava di non pensare a una data cosa. Per tutta la durata della cena fu poco comunicativo, non preoccupandosi nemmeno di dare un’occhiata alla lista dei vini, cosa che — da quando aveva quasi smesso di bere birra — era diventata un’abitudine. Patrice si convinse che lui provasse i suoi stessi sentimenti, che si ponesse le sue stesse domande, soprattutto una che lei era troppo triste per poterla esprimere a parole: sarebbero tornati a Verona?
Senza più le Lodgettes, scomparse sotto un altro hotel del tipo che abbonda in quelle guide che spiegano alle coppie di una certa età dove andare per riaccendere il sentimento (o, più probabilmente, per avere delle relazioni con i loro consulenti finanziari o con i vicini), dove sarebbero andati? C’era già un hotel un po’ più su sulla 101, nella zona nord della città, ma era un’accozzaglia indefinita di mattoni, con un prato senza alberi, un posto dove uno non sarebbe andato di proposito o una seconda volta. Avrebbero potuto provare con il nuovo albergo una volta costruito, ma sarebbe stata una slealtà commessa verso qualcosa di importante, un’infedeltà per il vecchio posto. Patrice conosceva i sentieri tra gli alberi, non avrebbe potuto alzarsi al mattino e fare colazione su un terrazzino con vista su un parcheggio dove un tempo sorgeva la loro casetta.
Quindi cosa avrebbero fatto? Cercare da un’altra parte? Lei non voleva. Non voleva dover ricominciare. Conoscevano ogni chilometro di strada, sia all’andata che al ritorno si fermavano a pranzare sempre negli stessi posti. Avrebbero perso tutto quello, insieme a innumerevoli altri rituali troppo piccoli per avere un nome, compreso l’appellativo che avevano dato all’anziana coppia di gay con i quali si scambiavano cenni di saluto sulla spiaggia («I due gentiluomini di Verona»). Naturalmente, c’erano altri posti lungo la costa, e Verona non era certo il paradiso sulla terra (la drogheria funzionava per modo di dire, così loro facevano provviste a Cannon Beach), ma non si riesce a trovare un’alternativa solo perché la cerchi. Uno dei muri della casa dell’anima di Patrice era stato portato via e lei non riusciva a farsene una ragione.
Mentre camminavano mano nella mano lungo la strada dopo cena, sempre in silenzio, Bill la colse di sorpresa, proponendo un bicchierino della staffa. I primi tempi avevano preso l’abitudine di osservare la gente nei locali, con Bill che si fumava una sigaretta in tranquillità, sul molo che dava sulla baia. A poco a poco, scoprirono che la cena li lasciava piacevolmente affaticati e si accontentavano semplicemente di tornare nel loro bungalow.
Patrice sorrise e accettò con gioia. Le piaceva vederlo così. Non capitava spesso che esprimesse a chiare lettere le cose (nel corso degli anni questo fatto l’aveva anzi irritata in più di un’occasione), ma capiva sempre. Patrice sedette nella veranda mentre lui andava a prendere le birre. Al di là della baia, poteva vedere, come al solito, alcune delle casette illuminate. Ai suoi occhi erano come stelle, punti di riferimento grazie ai quali navigare attraverso la vita. Si rese conto che la prossima volta quelle luci sarebbero state spente e in quel momento capì che quella era la loro ultima visita. Quando si voltò, sentendo Bill che ritornava con un drink in ciascuna mano, i suoi occhi erano umidi.
«Lo so,» disse lui mentre si sedeva di fronte a lei.
Posò le sue mani su quelle della moglie e per un momento osservò le luci lontane. Poi prese il suo bicchiere e lo alzò invitandola a brindare con lui. Patrice scrollò le spalle, non ne aveva voglia. Non c’era niente da festeggiare.
Bill insistette, tenendo alto il bicchiere. Ancora più strano fu notare che aveva in mano una sigaretta — lui che aveva praticamente smesso di fumare. Patrice cominciò a credere che il suo sguardo assente non significava ciò che lei aveva pensato. La donna alzò un sopracciglio, e poi anche il bicchiere.
«Ho un’idea,» disse lui.
Mentre stava ancora lì in piedi davanti alla finestra a fissare la foresta, Patrice riuscì a ricordare quella serata con una chiarezza che non aveva più ritrovato da allora. L’ultima grande decisione. L’ultima cosa che le era apparsa come un passo in avanti, piuttosto che come una battuta d’arresto o, peggio, una sbandata verso qualche posto in cui non era mai stata.
«Ricordi che avevamo parlato di comprare un po’ di terra, con degli alberi, in qualche posto dove non costasse molto?» disse Bill.
Era vero, ne avevano parlato. O forse l’aveva fatto Bill. Comunque, lei lo aveva ascoltato, annuendo con un atteggiamento timidamente positivo, senza mai pensare veramente che quella cosa si sarebbe realizzata. Non avevano bisogno di andare da qualche altra parte, avevano Verona.
Salvo che… ora non ce l’avevano più.
«Sì,» rispose lei.
«Allora magari lo faremo adesso.»
«Ma non abbiamo abbastanza…»
«Soldi. Sì che li abbiamo. Almeno per il terreno.»
«Ma non per costruire una casa.»
«Giusto.» Fece una pausa per prendere fiato. «Allora che ne diresti se domani mattina andassi da Ralph e gli facessi un’offerta per una di queste baite?»
Lei lo fissava, contenta che lui avesse detto una cosa del genere.
«La numero 2,» disse lui, e in quel momento gli occhi della moglie erano di nuovo umidi. «Ci mettiamo d’accordo con Ralph. All’operatore immobiliare non interessano — sono solo un intralcio. Non dovranno abbatterla e noi la faremo trasportare da un’altra parte.»
«Potresti fare una cosa del genere?»
Ne discussero per un’ora, fino a che entrambi non ebbero gli occhi rossi e cominciarono a farfugliare. Il mattino dopo, Bill fece come aveva detto.
Ralph fece una telefonata e mezz’ora dopo l’affare fu concluso. Lo sguardo assente, tuttavia, non lasciò gli occhi di Bill: quel pomeriggio le cose avevano preso una nuova piega e loro si erano ritrovati proprietari non di una, ma di tre casette. Bill le disse che avrebbero potuto tenerne una per loro, una usarla come ufficio-studio, e una per gli ospiti. Per i ragazzi, forse. A Patrice non importava granché. La cosa importante era che la casa numero 2 fosse salva. Desiderava ancora che potesse rimanere a Verona, che le Lodgettes restassero lì per sempre e che nulla dovesse cambiare, ma se le cose non potevano andare così, loro non avrebbero subito passivamente. Patrice voleva attaccare degli adesivi che dicessero che ora quella era proprietà loro.
Una volta proprietari di tre casette cui trovare una collocazione, comprare un appezzamento di terra smise di essere un’idea vaga per diventare il loro prossimo passo. Trascorsero qualche weekend alla ricerca di un posto e la scelta ricadde su un’area poco più a nord di Sheffer, sulla sponda est delle Cascades. Distava un pomeriggio di macchina da Pordand, prima sulla 5 e poi sulla 90; era una cittadina graziosa, gradevole senza essere artefatta, e la terra aveva ancora dei prezzi ragionevoli. Gli operatori immobiliari avevano messo a disposizione dei lotti sulle strade fuori città, ma fino a quel momento non c’erano stati acquirenti, e alcuni dei cartelli con la scritta «Vendesi» stavano cominciando a sbiadire. Comprarono un appezzamento di quaranta acri proprio all’uscita della strada di accesso, con una gran quantità di alberi a disposizione e con il suo bel laghetto gelido. Scavalcando la loro staccionata posteriore si entrava nella National Forest e nessuno avrebbe mai potuto cambiare questo fatto. Questa volta la casetta numero 2 aveva una sistemazione permanente.
Avevano a disposizione molti servizi e il resto non richiese molto. Fecero spostare le casette seguendole ritualmente lungo la costa con la loro auto. Una dovette essere praticamente ricostruita a destinazione, un costo che loro non avevano previsto, ma quando le vide tutte al loro posto Patrice rimase immobile a osservarle con le lacrime che le scendevano lungo le guance. Non si voltò verso Bill. Sapeva che a lui non piaceva vederla piangere.
Il bungalow numero 2 fu posizionato vicino al lago, quello adibito a ufficio un po’ più distante e la casa per gli ospiti dall’altro lato. Dopo una settimana che si trovavano sui loro lotti, Bill e Patrice capirono che quello era il posto dove ormai avrebbero vissuto. Vendettero la casa di Portland, si liberarono della maggior parte delle loro cose e si misero al lavoro. Bill sistemò e adattò i bungalow destinati all’ufficio e agli ospiti, scoprendo doti che non si era mai reso conto di avere. Patrice sistemò il terreno intorno alle case prima che arrivasse la neve, e poi si sedette davanti al fuoco con cataloghi di piante e semi, facendo progetti per la primavera. Passarono il Natale a Sheffer, imparando a conoscere la città, cosa offriva, e cosa non aveva. Entrambi i figli telefonarono il giorno di Natale, il che fu bello.
Il 1° gennaio 2001 Bill condusse Patrice fuori dal bungalow per mostrarle una panchina che aveva costruito intorno all’albero più grande vicino al lago, trasportando a mano, da solo e in segreto, i pezzi di legno. Si sedettero insieme tremanti, bevvero un grosso thermos di vin brulé e lei si scaldò tra le sue braccia, felice come non era mai stata nella sua vita.
A marzo scoprirono che Bill aveva un tumore ai polmoni. Quando, quattro mesi dopo, morì, Patrice avrebbe potuto sollevarlo con una mano sola.
Da qualche parte su uno schermo una giovane donna in lacrime siede su un divano, prigioniera del passato. Il divano è fatiscente e coperto da un tessuto simil-camoscio color ruggine, che ora comincia a mostrare la sua età. Il muro alle spalle è bianco e vi sono appesi uno specchio e un grande quadro di discreta fattura raffigurante dei tulipani. La donna è decisamente in buona forma e abbronzata, a eccezione dei pallidi triangoli sul seno; è nuda eccetto per un paio di pantaloncini bianchi attillati. Nella mano destra tiene una sigaretta, la sinistra è tra i capelli che sono lunghi e castani. Il viso è bagnato e contratto, gli occhi aperti ma fissi. Di fronte a lei c’è un tavolino sul quale si trovano un grosso posacenere di vetro, due telecomandi e una tazza di caffè mezza vuota. È l’inizio di una mattina di domenica e lei sembra essere alle prese con i postumi di una sbornia notevole.
Finisce di fumare la sigaretta e la spegne. Le immagini si succedono con evidenti salti, perché anche se sei cliente di questo sito da ormai tre mesi, il software che usi per guardare — uno shareware CamFun comprato a 12,95 dollari — è configurato per aggiornare l’immagine solo ogni due minuti. La maggior parte delle persone si connette alla pagina usando un browser come Microsoft Explorer. Tu invece usi CamFun, perché ti permette di salvare le immagini più facilmente, archiviandole sull’hard disk come una serie di immagini in sequenza che puoi riguardare quando vuoi — come del resto adesso, che stai guardando qualcosa che è successo diverse settimane prima. Il sito non è stato modificato da qualche giorno, il che è strano. L’altro motivo per cui usi il software è che puoi scegliere la frequenza con la quale le immagini si succedono. Puoi scegliere la comodità dell’update ogni quindici secondi riservato solo agli abbonati, oppure optare per un aggiornamento ogni tre immagini, o ogni sei — il che significa ogni minuto, o due. Questo può apparire un po’ illogico considerando che paghi 19,99 dollari al mese per un accesso a velocità più elevata, che si suppone faccia sembrare l’esperienza più reale. Per te ha esattamente l’effetto opposto. Una scena aggiornata ogni venti secondi sembra qualcosa filmato da una telecamera di sicurezza: il modo in cui rappresenta la realtà implica che ciò che manca non è importante. Invece lo è. La realtà dell’originale si perde in queste omissioni infinitesimali. Se invece porti l’intervallo a uno o due minuti, la differenza è sostanziale. Ciò che manca sembra dilatarsi, dando maggior peso alle immagini e caricandole di senso grazie alla durata; è come una catena di attimi, di stasi che si trasforma in movimento improvviso, una danza alla balbuzie del tempo. Il periodo di tempo durante il quale aspetti l’aggiornamento carica la scena di aspettativa. Due minuti sono un tempo sufficiente perché una persona si sposti da un’estremità del divano all’altra, come per magia, o perché si accenda una sigaretta e ne consumi metà, apparentemente in un istante. È un tempo sufficiente per far sparire una donna, per farla andare dal divano alla cucina, e poi dalla cucina di nuovo al divano. Ed ecco che… blip — scomparsa. Dove? Fuori campo, dal radar/dal pianeta, tuttavia pur sempre nel suo appartamento. Blip — eccola di nuovo. Due minuti sono un intervallo di tempo reale in cui possono accadere delle cose.
La seminudità della donna ha qualcosa di immateriale. Certo, non del tutto: le webcam di quelle interamente vestite suscitano un interesse di nicchia. Esistono giovani donne intelligenti e sensibili con i loro weblog pieni di Pensieri Profondi e Veramente Personali (quanto sarebbe imbarazzante se potessero leggersi l’un l’altra e scoprire così che hanno avuto tutte gli stessi Pensieri Profondi e Veramente Personali), ma a te non interessano. Questa ragazza è carina. Ti piace osservare il suo corpo ogni tanto, ma tu non sei come gli altri pervertiti e in ultima analisi è lei che stai guardando, non il seno — buon per te, perché non lo scopre molto spesso. Tu osservi lei, è proprio questa donna che ti incuriosisce.
È questa donna, che ha scelto di organizzare la propria vita in questo modo, di avere una finestra nel suo appartamento attraverso la quale le persone — uomini investiti dal flusso catodico o inghirlandati dal chiarore degli schermi piatti, seduti nelle loro camere da letto in stanzette sparse per il mondo — possono sbirciare. Questa donna, che ha una chitarra acustica che suona ogni tanto, ma non per molto tempo; che quando è a casa si scola mezza bottiglia di Jack Daniel’s in una notte; che occasionalmente fa sesso poco impegnativo sul divano — incontri dei quali non ti interessa molto, per non dire nulla, sebbene tu ne abbia salvato qualcuno sul tuo hard disk e in quelle occasioni tu hai aumentato il frame rate. Durante questi episodi lei non gioca con la telecamera e tu sospetti che si sia semplicemente dimenticata della sua presenza.
È questa donna, che per qualche ragione sedeva da sola e in lacrime una domenica mattina di quattro settimane prima. Hai già guardato il filmato in precedenza e lo trovi affascinante per motivi che non riesci a spiegarti. A un certo punto la ragazza diventa invisibile, rimane nascosta per un altro intervallo di due minuti e poi riappare sul divano. Nel frattempo si è accesa un’altra sigaretta e indossa una vestaglia blu. Si è tirata indietro i capelli che adesso le ricadono dietro le orecchie. Non sta più piangendo, anche se il suo viso appare cupo e contratto. Hai l’impressione che stia guardando di lato, fuori da una finestra, anche se non hai mai visto direttamente quel muro dell’appartamento. Due minuti dopo i suoi piedi sono sul tavolino, lei si osserva le ginocchia e la sigaretta è quasi finita. Appare stanca e rassegnata.
Quanti pensieri hanno attraversato la sua mente in tutto quel tempo? E di che tipo erano? Questo non sei in grado di dirlo. In qualche punto, fra te e lei, questa informazione è andata perduta, tagliata via dalla realtà da processi di digitalizzazione, trasferimento, archiviazione, nuovo trasferimento per la proiezione in rosso, verde e blu. Sembrava chiaro che la perdita fosse avvenuta da qualche parte durante quel processo, ma la cosa non era sicura. Forse era accaduto proprio all’ultimo secondo, quando cioè l’informazione ha cercato di saltare fuori dallo schermo per raggiungere un’altra mente umana, che tutto è andato perduto. Tutte le differenze del mondo non sono nulla se paragonate a questa: la differenza che c’è tra l’essere te e l’essere me. Fa sembrare abbastanza insignificante l’abisso che separa uomini e dèi, uomini e donne, vivi e morti.
Tu sei tu, lei è qualcun altro e in mezzo ci sono le stelle. Tu guardi, fai ipotesi e pensi. È qualcosa che puoi fare senza sapere le risposte, senza doverti preoccupare della banale immanenza della verità. Potrebbe essere qualcosa di noioso o futile, qualcosa per cui proveresti ben poca partecipazione se ti ci imbattessi nella vita reale: un’unghia rotta, un urto frontale, l’improvvisa e vertiginosa presa di coscienza che lei si sta avvicinando ai trenta e non ha ancora un bambino. Potrebbe essere qualcos’altro, un evento più oscuro, lontano dal tuo mondo o dalla tua comprensione; una brutta esperienza con un cliente (la tua impressione è che possa essere una puttana); una brutta notizia su un amico (qualche prevedibile autodafé tramite droga); o un’altra cattiva notizia, di quelle che il nostro mondo malvagio ha sempre a disposizione. Non importa. Ecco qual è il fascino di questa webcam, di tutte le webcam e di Internet stesso — del nostro mondo come è diventato. Puoi osservare e interpretare, oppure lasciare semplicemente che le immagini scorrano davanti ai tuoi occhi, fino a quando ne hai abbastanza — dopodiché chiudi il file e la cartella nascosta dove riposa, ti alzi e te ne vai. È un po’ come ascoltare il notiziario: istantanee dell’Iraq o del Ruanda o la realtà delle star televisive. È la vita di qualcun altro, il problema di qualcun altro. Tu sei al sicuro.
O almeno così pensi — fino a un’ora e, mezzo dopo, quando due agenti dell’FBI si presentano a casa tua mentre tu e tua moglie state cenando. Allora ti rendi conto, troppo tardi, che osservare è una strada a due sensi di marcia anche su Internet. Tu stai ad ascoltare, con il volto in fiamme, in quelli che sono gli ultimi momenti di serenità del tuo matrimonio, mentre la poliziotta ti comunica che quella ragazza di nome Jessica è morta e che negli ultimi tre mesi il costoso computer del tuo studio ha fatto registrare un tempo di osservazione più lungo di qualunque altro.
In altre parole tu eri il suo più grande fan, e l’FBI vuole fare due chiacchiere con te su ciò che è accaduto alla ragazza, così come i poliziotti che aspettano fuori; e tua moglie ha un’espressione gelida come se fosse stata scolpita nel marmo bianco; e tu non puoi schiacciare nessun tasto «Chiudi», nessun tasto. «Esc».
Quaranta minuti più tardi Nina uscì dal salotto, lasciando l’ammiratore di Jessica — il cui nome era Greg McCain — seduto faccia a faccia con Doug Olbrich, e raggiunse Monroe, che era rimasto in ascolto nel corridoio. McCain se ne stava impalato in un angolo del divano di pelle graziosamente usurato della coppia. Aveva circa trentacinque anni e un costoso taglio di capelli alla Hugh Grant. Aveva richiesto la presenza del suo avvocato. Nell’attesa, forse McCain avrebbe potuto essere lasciato ai suoi aggeggi, ma Olbrich era seduto di fronte a lui in silenzio. A volte questa tattica funzionava.
Monroe si rivolse a lei. «Che ne pensi?»
«Non saprei,» rispose. «Sua moglie gli ha fornito un alibi» per il momento in cui Ryan è stato ucciso. Ha detto che il marito è uscito per andare al lavoro alle otto meno un quarto e lei è così incazzata con lui che è difficile credere che lo copra per lealtà.»
«Scoprire che a tuo marito piace guardare le donne su Internet non è la stessa cosa che scaricarlo per l’assassinio di un poliziotto. O crederlo capace di farlo. Ad ogni modo, non è impossibile andare da casa loro al Knights in un quarto d’ora.»
«No, ma sarebbe difficile, e poi penso un’altra cosa.»
«Vale a dire?»
«Noi partiamo dal presupposto che l’uomo che ha ucciso Jessica e quello che ha sparato a Ryan siano la stessa persona.»
«Be’, certo. Ma non credo che sia utile…»
«Charles, stammi a sentire. Jessica era morta forse da quarantotto ore quando l’abbiamo trovata; è difficile essere più precisi a causa del calore. Tutto quello che abbiamo è che un uomo ha ucciso una donna, in privato, e poi, il giorno dopo o poco più, esce e uccide un poliziotto in modo plateale, come se volesse dire: ‘Sono qui!’. Come ho già detto allora, mi sembra eccessivo.»
«Spiegati con altre parole.»
«Non ci riesco, per ora. Sto solo dicendo che l’unico legame tra i due eventi è la vicinanza.»
Monroe scosse la testa. «Una coincidenza bella e buona, non credi?»
«No. I due delitti potrebbero essere collegati. Ma il responsabile non è lo stesso. Il che significa che l’assassino di Jessica potrebbe essere in qualche altro angolo del paese, ora. O potrebbe essere allegramente seduto a casa con un alibi per il giorno sbagliato.»
Monroe distolse lo sguardo e parlò con insolita calma. «Perché qualcun altro avrebbe dovuto uccidere un poliziotto?»
«Non sto dicendo che sia andata così, ma che se lavoriamo con quest’idea, allora dobbiamo fare una domanda diversa a Mrs. McCain.»
Lui annuì. «E allora falla,» disse.
Gail McCain era in cucina. Era in piedi, col busto eretto e guardava fisso fuori da una finestra che dava sul cortile posteriore. Nina si chiese che cosa la donna si era aspettata dalla loro serata. La coppia non aveva figli, quindi la loro cena tranquilla e piacevole sarebbe stata molto probabilmente seguita da un po’ di televisione o da un lavoro leggero. Erano due persone abituate a condividere il loro spazio angusto certo non adatto ai bambini.
«Mio marito è in arresto?»
«No,» disse. «Non ancora.»
«Quindi non avete più alcun motivo per trattenervi ancora in casa nostra.»
«Certo, lei potrebbe chiederci di andarcene. Ma in questo caso potrebbe venire ad arrestarla la polizia di Los Angeles, e così potremmo parlare da qualche altra parte. Conoscendo quei ragazzi, sono certo che metterebbero in azione qualche lampeggiante supplementare, quelli che illuminano le finestre dei vicini.»
«Se ne aveste avuto motivo, lo avreste già fatto.»
«Lei è un avvocato, Mrs. McCain?»
«No, lavoro per la televisione.»
Qualcosa nella voce o nell’espressione della donna fece surriscaldare di mezzo grado una cellula cerebrale di Nina. Si voltò verso la poliziotta che presidiava la porta. L’agente era bassa ma di costituzione robusta e fissava il corridoio con aria impassibile. I capelli erano legati in una coda di cavallo talmente tirata che la fronte era così stirata da schiacciare il naso come se fosse fatto di stucco.
«Ma senti un po’,» disse Nina. «La signora lavora per la televisione. Fantastico, no?»
«Per me…» disse la poliziotta senza distogliere lo sguardo.
Nina fece spallucce rivolta a Mrs. McCain. «L’agente Whalen è notoriamente poco incline all’entusiasmo. Ma per quanto mi riguarda, trovo che la televisione sia fantastica.»
«È un lavoro come un altro.»
«Ma è un lavoro importante, no? Un mio amico, un certo Ward, ha una teoria secondo la quale i produttori sarebbero i sacerdoti del nostro tempo, e il loro lavoro consiste nel fare da tramite tra l’uomo comune e il regno celeste che è dall’altro lato dello schermo. Basta che diciate le parole giuste, che vi comportiate nel modo giusto e vi ritrovate in un reality show, in una soap o nel nuovo Friends, e potete essere catapultati dritto agli Emmy seduti alla destra di Whoopi Goldberg. Lei si è mai sentita come un sacerdote?»
«Non ho la minima idea di cosa lei stia dicendo.»
«Non la biasimo. Anch’io non capisco Ward per la metà del tempo. Ma quello che voglio dire è che essere un avvocato le sarebbe molto più utile, in questo momento. È sicura di avere inquadrato la situazione?»
«Credo di sì.»
«Lei è al corrente del fatto che noi stiamo indagando sull’assassinio di una donna di nome Jessica Jones, trovata morta mercoledì mattina, che questa Jessica era una web-girl, e che suo marito era iscritto al suo sito? Questo gli permetteva di accedere a una webcam nell’appartamento di Jessica, che la mostrava spesso come mamma l’aveva fatta.»
La donna parlò attraverso i denti stretti. «So tutto.»
«Bene. Lei considera suo marito competente dal punto di vista tecnico?»
«Cosa intende dire?»
«Parlo di computer. Vedo che ce ne sono molti nel suo studio. È bravo?»
«Credo di sì. Saprebbe riparare il mio se ci fosse un problema. Ma…»
«Grazie. Ora, in termini generali suo marito non sembra un probabile sospetto. Il che spiega perché siamo lieti di avere la vostra collaborazione volontaria e perché siamo venuti qui senza sirene e senza lampeggianti. Per il momento le voglio solo fare qualche domanda e poi abbiamo finito. Va bene? Lei ha detto al tenente Olbrich che martedì mattina suo marito è uscito per andare al lavoro intorno alle sette e quarantacinque, è esatto?»
«No,» disse la donna freddamente. «Gli ho detto che Greg se n’è andato esattamente a quell’ora.»
«Come fa a esserne così sicura?»
«Greg se ne va sempre alle otto meno un quarto. È quella l’ora a cui esce di casa.»
«Ma è presumibile che qualche volta esca un po’ dopo o un po’ prima? Mi sembra di capire che anche suo marito lavora per la televisione, vero? Suppongo che a volte debba essere lì prima. Non è come timbrare il cartellino, o sbaglio?»
«No, però…»
«Quindi, di tanto in tanto, ha delle riunioni alla mattina presto.»
«Sì, certo.»
«E se è vero che di solito se ne va alle sette e quarantacinque, ci saranno state volte in cui può essere uscito un quarto d’ora dopo o anche un po’ più tardi. Che cosa la rende certa che la mattina in questione lui se n’è andato all’ora programmata?»
La donna apparve irritata. «Perché lo so e basta. Senta, Ms. Baynam, lei è sposata?»
Nina si sentì avvampare. «No, non lo sono.»
«Si vede. Se lo fosse, saprebbe di cosa sto parlando. Quando sei sposata con qualcuno, sai cosa sta succedendo nel suo mondo. Forse lo sai anche troppo. Hai la tua vita e anche metà di quella dell’altra persona. So quando Greg è oberato, quando ha dei problemi sul lavoro, quando qualcosa va storto e le riunioni cominciano a saltar fuori come funghi. No, non conosco perfettamente il suo diario e non posso sempre citare a memoria capitolo e verso. Ma so quello che accade nella sua vita.»
«Ma allora… mi scusi: lei sapeva della webcam? Sapeva che suo marito passava il tempo a guardare su Internet ragazze che si spogliano e fanno sesso dal vivo?»
«No, non lo sapevo, ma questo è…»
Nina la interruppe con dolcezza. «… diverso, naturalmente. Lei sa tutto di Greg, eccetto questo, il che è perfettamente ragionevole. Gli uomini sono subdoli in questo genere di cose. Non ci si può aspettare che lei lo sappia. Probabilmente anche sul suo conto c’è un dettaglio o due che suo marito non sa, vero? Anche questo va bene. La vita matrimoniale è così, da quello che mi sembra di capire — ma, sa, io sto solo lavorando di immaginazione. Getto uno sguardo dalle fredde e oscure lande desolate della solitudine.»
«Non intendevo…»
«Certo che no, Gail. A parte questo, senza cioè considerare questi dettagli irrilevanti, lei direbbe di avere un’idea precisa di Greg, dei suoi impegni e della sua vita.»
«Sì, certo.»
«Benissimo. Lei mi è stata di grande aiuto.» Nina sentì il suono del campanello all’altro lato della casa. «Sembra che sia arrivata la cavalleria. Credo che il tenente stia comunque terminando con suo marito, quindi fra non molto ce ne andremo.»
Nina sorrise cordialmente e fece per allontanarsi.
Poi si voltò e, come se stesse chiedendo alla donna il nome del suo arredatore di interni, disse: «Che cosa ha fatto suo marito lunedì sera?»
La donna la fissava. «Prego?»
«Dato che lei è conoscenza dei suoi impegni, che cosa ha fatto suo marito lunedì sera?»
«Lui…»
Nina la guardava mentre la donna si rendeva conto di aver esitato troppo, che la domanda, posta in maniera inattesa e quasi casualmente, aveva aperto una breccia nella fragile difesa che lei non si era resa conto di dover fortificare. «Era fuori quella sera?»
«Sì. Aveva… aveva una riunione. Una riunione serale.»
«Che ore potevano essere?»
«Non ricordo. Era tardi.»
«Era una riunione di lavoro?»
La donna vide Nina che la fissava.
«Sì,» disse. «Credo.»
«Possiamo andarcene,» disse Olbrich tranquillamente. Lui, Monroe e Nina adesso erano soli nella cucina. «Due persone della sua ditta confermano che si trovava in ufficio o nei paraggi alla solita ora. La sera prima era rimasto fuori fino a tardi, come hai scoperto, ma non si trattava di una riunione. Dice di avere accompagnato un cliente in un locale notturno. Il presunto cliente è già tornato in Inghilterra.» Guardò l’orologio. «McCain non ha nessun indirizzo personale dove trovare quest’uomo, e quindi dovremo aspettare che torni nel suo ufficio in Inghilterra per verificare, ma francamente…»
Si interruppe.
Nina fece uno sbadiglio enorme. «Non abbiamo un cazzo per trattenerlo e non sembra assomigliare al tizio con cui Jessica è stata vista al Jimmy’s. D’accordo, è vero, spiava Jessica. Sì, occasionalmente va nei locali di spogliarello. Per ‘dovere’ d’ufficio. Bel lavoro. Ma a parte questo, siamo in un vicolo cieco. Il suo avvocato è con loro adesso, pronto al combattimento, e ha anche un’argomentazione valida. O rendiamo la cosa ufficiale oppure per ora lasciamo perdere.»
Monroe scosse la testa e uscì in corridoio.
Olbrich si rivolse verso Nina. «Che problema ha?»
«Non gli piace andarsene a mani vuote dopo che siamo arrivati con questo spiegamento di forze.»
«È colpa sua. Io gliel’avevo detto che doveva usare più astuzia.»
«Monroe è più il tipo di giocatore che va avanti come un rullo compressore.»
Seguirono il capo di Nina lungo il corridoio e si fermarono fuori dalla porta che conduceva nel salotto. Nina si aspettava una qualche reazione, in particolare dall’avvocato — sembrava che al giorno d’oggi in televisione tutti ribattessero alla polizia e quindi tutti, nella vita reale, si sentissero autorizzati a farlo, come per rimanere nel ruolo — ma non accadde nulla.
Olbrich si scusò senza in realtà scusarsi. Monroe invitò i McCain a non lasciare la città per qualche giorno. Nina stava per andarsene senza neanche guardarsi indietro quando si sentì chiamare per nome da una voce femminile.
Vai, sorella, pensò, mentre si voltava. Metti loro addosso ancora un po’ di pressione e guarda cosa succede.
I McCain erano in piedi e la guardavano. Il loro avvocato era confinato in fondo alla stanza e non aveva un’espressione felice.
«Mia moglie dice che le dovrei dare questo. Il mio avvocato non è d’accordo.»
Il marito le stava porgendo qualcosa. Era qualcosa di più piccolo di un libro tascabile ma lo spessore era uguale.
«Che cos’è?»
«L’hard disk del mio portatile. Io…»
Sua moglie fissava il pavimento. «Continua, Greg.»
«Ci sono sopra alcune foto,» disse. «E anche qualche filmato, scaricato da quel sito. Non so se possano esserle d’aiuto, ma…»
Sua moglie completò la frase per lui. «Non lo vogliamo in casa.»
Nina prese il disco. «Credo che potrà esserci molto utile.»
Una volta che l’oggetto non fu più in suo possesso, le spalle dell’uomo sembrarono sprofondare per il sollievo. Nina si rese conto che quella serata, ben lungi dall’essere un disastro su tutta la linea, avrebbe potuto anche volgere a favore dell’uomo. Una piccola colpa minore da borghesuccio era stata messa in piazza, e il destino lo aveva liberato di quel suo segreto. Certo, sua moglie, sentendosi ferita, gliel’avrebbe fatta pagare cara, e per un po’ lui avrebbe dovuto accettare il ruolo del coglione di casa. Ma se non altro sarebbe stato un argomento di conversazione.
Ma non era più un segreto, e il fatto di essere riuscito a spalancare le finestre dei propri luoghi oscuri, poteva valere il prezzo pagato. Sua moglie non l’avrebbe lasciato: avevano questa meravigliosa vita insieme, e chi cazzo aveva voglia di rincominciare con gli appuntamenti? Nel giro di un paio di mesi, la vergogna di questa serata si sarebbe addirittura potuta trasformare in una vita sessuale nuovamente ricca di stimoli.
Alcune persone si limitano a rimanere a galla.
«Non sapevo che fosse morta,» disse l’uomo. «Mi dispiace sentirlo.»
«Le circostanze della sua morte non sono state riportate in modo completo e vorremmo continuare a non farlo.»
L’uomo annuì e distolse lo sguardo. Sua moglie fece un passo indietro come se inconsciamente si volesse distaccare da quella serata, ma poi avanzò assieme al marito per accompagnare Nina alla porta: in effetti, per vederla andarsene da casa loro — era una donna che fronteggiava un’altra donna con un atteggiamento tale che gli uomini non avrebbero mai potuto intuire cosa nascondesse. Dire le cose senza dirle, fare pressione senza nemmeno alzare una mano.
Mentre percorreva il vialetto verso le macchine, Nina arrischiò un’iniziativa illecita e infilò il disco in tasca prima che gli uomini potessero accorgersi della sua esistenza. L’indomani l’avrebbe aggiunto al resto delle prove, così com’era.
Ma non quella sera.
Arrivai da Nina a metà mattinata, il tassista che mi aveva accompagnato guardò la casa con aria perplessa.
«Vive qui?»
«Ci abita una mia amica.»
«Un’amica coraggiosa,» disse, e ripartì.
Percorsi il ripido sentiero che portava all’ingresso della casa. Ero stato da Nina solo una volta in precedenza, tre mesi prima: una notte avevo dormito sul sofà dopo che lei, Zandt e io avevamo restituito Sarah Becker alla sua famiglia. Da allora non sembrava essere accaduto nulla di buono all’esterno della casa. L’immobile era stato costruito seguendo il vecchio stile californiano: una fila di stanze quadrate con un angolo cottura che rendeva il tutto simile a una L, come in un piccolo motel. Probabilmente negli anni ’50 doveva essere stato un modello di abitazione importante, un esperimento pilota per un’abitazione a equo canone, ma ormai si poteva essere sicuri che edifici come quelli avevano i giorni contati.
Bussai alla porta. «È aperto,» disse una voce in lontananza. Quando entrai vidi che Nina era sul balcone che parlava al telefono. Mi rivolse un cenno di saluto senza guardarmi.
Depositai la mia borsa e gironzolai per un minuto nel salotto. O in quello che era. Non sembrava esserci stata molta vita lì di recente. Non era particolarmente polveroso o decisamente sporco, ma solo perché la stanza non conteneva praticamente nessun oggetto personale eccetto le mensole di libri e i faldoni dei dossier allineati su lunghi scaffali nell’altro lato della stanza. Andai in cucina e aprii il frigo. Dentro c’erano due bottiglie di vino, un cartone di succo d’arancia e una confezione di latte. Nient’altro, così come non c’era nulla nelle credenze. Nina evidentemente si sostentava solo con carburante liquido.
Quando mi voltai verso la zona principale essa mi apparve in qualche modo ancora più silenziosa e immobile. Una volta avevo letto di come nell’Inghilterra del primo millennio le popolazioni locali usassero i resti abbandonati delle ville romane e le rovine delle chiese come riparo per i loro viaggi attraverso una terra largamente disabitata. Chiamavano questi posti «freddi rifugi», perché se da un lato vi si poteva trovare riparo per una notte contro gli elementi, dall’altro non ospitavano nessun altro essere vivente o calore umano. La casa di Nina mi faceva lo stesso effetto e lo pensai in quanto persona esperta, che aveva alloggiato in squallidi motel e fabbriche con le finestre sigillate da tavole di legno, e ai muri grandi cartelli con scritto «Da demolire».
«Ward.»
Guardai oltre e vidi che Nina non era più al telefono e si trovava sulla soglia. I suoi capelli erano un po’ più lunghi e sembrava che lei avesse perso qualche altro chilo da una corporatura che era sempre stata snella. Qualcosa di lei mi faceva venire in mente qualcosa o qualcuno, ma non riuscii a capire subito cosa fosse.
«Dovresti chiamare la polizia,» dissi. «Qualcuno ti ha rubato tutte le provviste.»
«Non hai cercato abbastanza bene. Sono tutte sistemate dove ne ho bisogno: in un supermarket.»
«Almeno hai del caffè, sul posto? O per quello ci pensa Starbucks?»
Scoprii che ne aveva una grande quantità.
«Ho fatto tutte le prove che ho potuto col software,» dissi restituendole il disco. «E non ho cavato un ragno dal buco. Ci sono ancora un paio di tentativi che potrei fare, ma possono lasciare tracce, quindi li farò sulla copia, se ce l’hai ancora. Il succo del discorso è che chiunque abbia ripulito il disco lo ha fatto con mano da esperto. È molto, molto vuoto. Mi dispiace. A volte… lì non c’è niente.»
«Non ti preoccupare,» disse Nina. Era appoggiata alla ringhiera del balcone e fissava il mare coperto di foschia. «Sapevo che era un’impresa quasi impossibile.»
«Hai fatto qualche progresso per la cattura del tizio?» Tenni la mia sedia il più possibile indietro sul balcone, allo scopo di aumentare almeno in parte le mie chance di sopravvivenza nel caso avesse ceduto di schianto. Forse avrei potuto lanciarmi e afferrare l’intelaiatura della porta o qualcos’altro. Forse Nina avrebbe potuto afferrare il mio piede.
«No. I poliziotti stanno interrogando i principali frequentatori del suo sito. Non sono molti e nessuno di loro sembra essere la persona giusta. Abbiamo fatto due chiacchiere con il fan numero uno, ma anche da quella parte non credo ci sia qualcosa. Abbiamo una descrizione piuttosto generica dell’uomo con il quale la ragazza è stata vista la notte in cui è morta, ora sappiamo che ogni tanto lei serviva ai tavoli: i poliziotti hanno interrogato le persone che lavoravano con lei. Questo è tutto.»
«Comunque, sappiamo chi era quella ragazza?»
Nina scosse la testa. «Veniva dalla Bay Area. La polizia di Los Angeles sta ancora cercando di rintracciare la sua famiglia a Monterey. Hanno un indirizzo che credono sia valido, ma sembra che i genitori siano in vacanza. Le sue poche conoscenze di Los Angeles sembra non sappiano nulla del suo passato. Sai come sono queste persone: ieri è stata una brutta giornata — allora perché non dimenticarlo? Avresti dovuto vedere quella sua amica, Jean. Apparentemente erano grandi amiche — avevano la stessa iniziale e via discorrendo, stavano un sacco al bar, sai, proprio come due amiche per la pelle. Ora lei è morta e l’atteggiamento di Jean è del tipo: ‘Che fregatura. Dov’è la prossima festa?’.»
«Carina.»
«Che ti aspettavi? La gente cancella il proprio passato in tempo reale. Jessica era una ragazza che viveva in un appartamento e ogni tanto si sentiva triste, che beveva troppo e che alla fine è morta. Questo potrebbe essere tutto quello che sapremo di lei.»
La sua voce era andata calando nelle ultime frasi, fino a diventare poco più di un borbottio.
«Nina, tutto okay?»
Si voltò verso di me. I suoi occhi erano verdi e luminosi. «Certo,» rispose con voce più alta. «Semplicemente non conosco la risposta alla tua domanda. Chi era? Dimmelo tu. Aveva un nome e una chitarra. Era viva, e adesso è morta. Quando arriverà il giorno del Giudizio, questo è tutto quello che si potrà dire di chiunque.»
«Una visione deprimente, ma non era quello che intendevo. Era John al telefono? Puoi lasciare da parte frasi del tipo ‘È andato a fare compere’, comunque. Ho già intuito che non state più insieme.»
Nina aprì la bocca, ma poi cambiò idea e rimase in silenzio.
Insistetti. «Allora, dov’è?»
«Non lo so,» mormorò. «Ci sono voluti un giorno e mezzo di messaggi perché mi richiamasse e ottenessi cinque minuti di risposte evasive e poi il segnale di linea libera. Non sto cercando di ossessionarlo. Abbiamo chiuso e questo a me sta bene. Sono solo preoccupata. Si sta comportando in modo strano, più strano del solito.»
«Cosa vi è successo?»
«Hai fatto la stessa domanda anche a lui?»
«Sì.»
«E cosa ha risposto?»
«Niente di comprensibile.»
«Lo immagino.» Sembrò rassegnata. «Semplicemente non ha funzionato, Ward. Forse è vero che non si può tornare indietro, e poi noi non è che avessimo molto da rivisitare. Avevamo una cosa in comune — forse due: il tempo passato insieme prima che Karen fosse uccisa e il fatto che nessuno di noi farà mai parte della schiera degli innamorati a vita.»
«In più siete entrambi un po’ inquietanti.»
Sorrise apertamente per la prima volta da quando ero ricomparso. «Inquietanti?»
«In modo gentile.»
«Detto da uno con le ferite sulle nocche e una pistola nella giacca lo prenderò come un complimento.»
Feci scivolare le mani sotto il tavolo. «Sei un’ottima osservatrice. Dovresti lavorare nelle forze dell’ordine o qualcosa del genere.»
«Mi vuoi parlare di quello scontro?»
Non lo feci. Confessare a Nina quello che avevo fatto in preda a un’insostenibile tensione nervosa non era un argomento che desideravo affrontare in quel momento. «Quel tizio continuava a chiedermi se volevo delle altre patatine fritte e io sono esploso. Sai come succede.»
Lei scrollò le spalle. «John è stato qui per qualche settimana. Sembrava funzionare. Ci vedevamo, facevamo passeggiate, parlavamo del mio lavoro — perché, naturalmente, lui non ce l’aveva più. Una parte del problema era questo. Forse era ‘il’ problema. John era un detective molto, molto bravo. Aveva questo insaziabile desiderio di sapere. Lui semplicemente non si sarebbe fermato. Ma non poteva tornare al Dipartimento di Polizia di Los Angeles e non riusciva a vedere in quale altro posto potesse andare. Di lì a poco cominciai a tornare a casa dal lavoro e a non trovarlo. Rientrava dopo mezzanotte, senza dire che cosa aveva fatto. Di solito passava le serate a bere, ma non era questo il punto. Aveva cominciato a vacillare. La sua mente era da qualche altra parte. Poi all’improvviso non si è fatto vivo per cinque giorni.»
«Dove era andato?»
«In Florida, dove vive la sua ex moglie.»
Sapevo che il matrimonio di Zandt era naufragato dopo la scomparsa della loro figlia Karen. Sapevo anche che lui aveva fatto un visita a sua moglie dopo che trovammo i resti di Karen, diciotto mesi più tardi; e mi ricordavo che la notte precedente mi aveva detto che gli assassini non erano l’unica cosa importante della sua vita. «È tornato lì anche due giorni fa.»
«Lo so. Mi ha mandato un messaggio.»
«Pensi che voglia tornare con lei?»
«Non lo so, e credo che non lo sappia neanche lui. In questo momento c’è solo un’idea nella sua testa: trovare l’Homo Erectus. Su tutto il resto è impantanato.»
«Strano, a me ha detto esattamente l’opposto.»
«John mente.» Nina lo disse con una punta di autentica amarezza, ma poi si corresse. «A volte. Ogni tanto dice anche la verità.»
«Be’, la sua abilità investigativa si sta arrugginendo, mi dispiace. La sola cosa che ha saputo offrire per tutto il tempo passato dopo Yakima è stata uno strano tipo di non informazione sulla colonia Roanoke della fine del ’500.»
«Cosa?»
Le feci il resoconto di quello che ricordavo della lezione di storia che mi aveva tenuto John. Quando ebbi finito, Nina aveva un aspetto tetro, e rimanemmo in silenzio per un po’.
Alla fine si alzò. «Bisogna che vada al lavoro. Tu hai fretta?»
Io scrollai le spalle. «Non devo andare da nessuna parte in particolare.»
«Bene. Volevo chiederti un altro favore.»
Quando Nina fu uscita, mi feci dell’altro caffè. Era una bella sensazione essere in una casa, anche se quella di Nina non era certo un modello di ospitalità. In una casa non hai bisogno di spendere soldi o di dare sempre il meglio di te. Puoi semplicemente startene seduto. Fuori, nel mondo, non funziona così. Ma mi ero accorto che avere l’opportunità di non fare nulla, inosservato né scocciato da altri esseri umani, mi faceva sentire un po’ strano. Così mi dedicai a esaudire la richiesta di Nina.
Prima che se ne andasse avevo copiato tutti i file dal disco che le aveva dato Greg McCain. Il disco in quel momento veniva affidato alle cure dei poliziotti insieme a quello ficcato nella bocca di Jessica. Non sapevo in che modo Nina avrebbe spiegato il viaggio illegale compiuto dal primo e non mi piaceva il fatto che prendesse tutti quei rischi. Lei era l’unica tra noi ancora connessa al mondo reale, e io avevo l’impressione che stesse cominciando ad andare alla deriva, come una spina che viene estratta lentamente dalla presa. E sapevo per esperienza che una volta che questo accadeva, i contorni delle cose potevano cambiare e tu rischiavi di non riuscire ad adattarti alle nuove forme che avevano assunto. I gruppi di figure a ogni angolo di strada e in ogni porta d’ingresso imbevuta di piscio dimostrano che la musica della civilizzazione si arresta spesso e che non ci sono mai abbastanza sedie per tutti.
La prima cosa che feci fu guardare i filmati. Non erano veri e propri video, ma lunghe sequenze di immagini fisse che cambiavano a determinati intervalli. Ce n’erano sei. Tre mostravano Jessica ubriaca che faceva svogliatamente del sesso con tre tizi diversi; due volte sul divano che dominava il suo piccolo salotto, e una volta nel letto. Le immagini erano molto sgranate, poco illuminate, e in un caso quasi completamente buie. Non c’era nessun tentativo di recitare davanti alla telecamera, la cui posizione restava fissa. Era come guardare Ken e Barbie che venivano fatti accoppiare da un bambino che non aveva la minima idea del significato di quel gesto. L’ora indicata su tutti e tre i video suggeriva che immortalavano l’ultimissima parte di serate passate nei bar. Uno degli altri filmati, che copriva un intervallo di tempo di quattro ore, mostrava la ragazza mentre guardava la televisione, si occupava delle pulizie primaverili, suonava brevemente la chitarra, e faceva un timido tentativo di assemblare una scaffalatura non molto complessa. Per la maggior parte del tempo indossava un paio di pantaloncini color arancio e niente altro. Un’altra sequenza la mostrava seduta a non fare nulla, apparentemente subito dopo aver pianto. Nel video finale i fermo-immagine erano effettuati a intervalli più lunghi, di circa cinque, dieci minuti, e mostravano Jessica che dormiva sul divano, sotto una coperta illuminata dal televisore fuori campo. Alla fine si alzava e rimaneva seduta a guardarlo per un po’, sorseggiando una tazza di caffè. Nina mi aveva detto che Jessica aveva quasi trent’anni, ma nelle sequenze di questo video in cui era sveglia sembrava che ne avesse quarantacinque.
Poi lavorai con le singole foto. Ce n’erano una marea. McCain le aveva raccolte tutte in una grande cartella. Riversai tutto in un visualizzatore e cliccai alcuni esempi a caso. Le immagini mostravano Jessica mentre faceva le stesse cose riprese nei video, ma niente sesso. Era nuda o parzialmente nuda, intenta a leggere una rivista, o a mangiare, o ancora seduta al computer. La si vedeva mentre beveva caffè o un Jack Daniel’s. Mentre dormiva, mentre fumava, mentre fissava il vuoto. L’effetto complessivo era strano e cominciai a comprendere il perché del fascino che Jessica esercitava su McCain. Anch’io ero esperto di webcam, avendo passato alcune lunghe ore osservando gli angoli delle strade di New Orleans o la riva del Lago McDonald, o immagini dell’esterno dei negozi di computer sulle strade principali di città non identificate del Midwest. Mi ci era voluto un po’ per capire che cosa ne ricavassi. Non guardavi nella speranza di cogliere qualcosa di eccitante. Anzi, il contrario. Guardavi perché proprio la mancanza di qualsiasi attività percettibile, di un soggetto, rendeva la scena più reale. Se ti concentri su qualcosa in particolare, tutto quello che vedi è qualcosa che accade: il momento, l’evento, e questo ti porta a trascurare la lunga e lenta marea di avvenimenti che lo sommerge. Se non guardi nulla, allora vedi tutto. Cogli la cosa per quel che è.
Questa miriade di immagini casuali di Jessica produceva lo stesso effetto. Non una sola immagine era studiata, e anzi in molte lei era fuori campo o fuori fuoco. L’effetto finale era quello di non mostrare nulla in particolare, e quindi di rivelare tutto. La nostra visione della sua vita diventava simile alla sua, una serie infinita di momenti accidentali, insignificanti e, in definitiva, piuttosto noiosi. La collezione di McCain su Jessica rappresentava la realtà della donna molto più chiaramente di qualsiasi altra cosa io riuscissi a immaginare, intrappolandola e celebrando il suo trionfo sotto forma di pixel. Quei quindici megabyte erano la sua leggenda.
Fu solo dopo aver preso visione della sua vita prima dell’evento, che studiai le polaroid che Nina mi aveva lasciato. Mostravano l’appartamento di Jessica il giorno in cui la polizia di Los Angeles vi aveva trovato il cadavere. Anche queste erano immagini piatte, vuote ma non erano insignificanti. Ogni millimetro quadrato diceva qualcosa di piuttosto immediato: proprio la loro esistenza dichiarava che la ragazza che era vissuta in quello spazio era morta, ed era esattamente per quel motivo che io avevo voluto vedere prima le altre.
Le osservai attentamente per un po’. Poi, tornai alle immagini iniziali dell’hard disk, le sistemai in ordine cronologico e le riguardai.
Ci volle molto tempo prima che notassi qualcosa.
«Lo vedi?»
Nina annuì. «Non c’è nessun’altra immagine che lo mostri più chiaramente?»
«Meglio di così non può venire. L’ho ingrandita, ma…» Ripristinai una finestra che avevo nascosto dietro la prima. «Non siamo in un film e quindi l’ingrandimento fa piuttosto schifo.»
Nina si protese in avanti e osservò lo schermo. Stava guardando l’immagine sgranata di Jessica, inquadrata dal petto in su, sdraiata sul letto. Al di sopra del suo, si vedeva il volto di un uomo.
Nessuno di noi due era interessato a lui. La polizia di Los Angeles si era mossa in fretta: avevano già fatto stampare le immagini dei tre uomini immortalati nei filmati di McCain e le stavano mostrando alle amiche di Jessica, partendo da quelle del Jimmy’s. Il barman del locale aveva detto che nessuno di loro assomigliava al tizio con il quale lui aveva visto la ragazza la sera in cui era stata uccisa. Questa era una delle informazioni che Nina aveva acquisito prima di ritornare a casa a metà pomeriggio. Quello che stavamo osservando invece era il tavolino accanto al letto, che era visibile nello spazio vuoto tra i volti sfocati, il petto di Jessica e il suo amico del momento. Sul tavolino c’erano una lampada, una radio-sveglia da quattro soldi, una piccola pila di libri, i cui dorsi vistosi suggerivano che si trattava di testi di auto-stima, tre tazze da caffè e una piccola cornice portafoto.
Nina prese la polaroid che mostrava la camera da letto e la scrutò. «Hai ragione,» disse. «Qui non c’è, e io non ho visto nulla di simile nell’appartamento.» Non appena avevo notato la discrepanza, avevo telefonato a Nina per descriverle la cornice, e lei era ritornata nell’appartamento di Jessica per cercarla. «A quando risale questo scatto?»
«Poco meno di una settimana prima che morisse.»
«Ipotizzando che la data sulla fotografia sia esatta.»
«Lo è. La data di creazione del file lo conferma.»
«Una settimana. Quindi avrebbe potuto spostarla lei da qualche parte nel frattempo.»
«Ma tu non l’hai trovata. Se una fotografia è così importante da tenerla accanto al letto, non decidi da un momento all’altro che non la vuoi più in casa.»
«Sì, se ritraesse un tuo ex fidanzato.»
«Giusto. Ma guarda questa.» Passai a una terza immagine che mostrava solo la cornice sul tavolino accanto al letto. «Questa è ingrandita ancora di più. Ho usato un programma di interpolazione, che essenzialmente analizza il colore di ogni pixel, lo compara con quelli circostanti e cerca di creare un’immagine ingrandita coerente. Quando questa tecnica è applicata a immagini a bassa risoluzione come questa il risultato è uno schifo, ma mostra comunque qualcosa di interessante.» Indicai il centro dell’immagine. «Anche se non si riescono a mettere bene a fuoco i dettagli, qui si vedono chiaramente due teste.»
«Esattamente. Jessica più un precedente fidanzato.»
«Non credo. Qual è il colore sopra le loro teste?»
«Grigio.»
«In altre parole il colore di capelli che hanno generalmente le persone anziane. Forse sono i suoi genitori.»
«Credi?»
«A quanto pare Jessica non tornava a casa molto spesso, ma mi sarei molto sorpreso se in casa sua, da qualche parte non ci fosse stata un’immagine di famiglia, una bella foto di mamma e papà, oppure — se lei avesse avuto un problema con uno di loro o entrambi — di qualche fratello o sorella idealizzati, o di una nipote preferita. Una testimonianza dell’esistenza di una famiglia. Le ragazze sono fatte così.»
«È proprio così. Ne hai trovata una qui? Che so, nascosta tra il lavoro di cucito e le lettere d’amore per Justin Timberlake?»
«No,» risposi. «Ma non ho cercato a fondo e tu non sei una ragazza.»
«Giusto, sono una donna inquietante.»
«Non solo,» dissi. «Ma quello che voglio dire è che dall’appartamento di Jessica è sparito qualcosa.»
«Pensi che l’assassino sia andato lì?»
«Sì, e questa è la prova.» Cliccai due volte su un altro file, uno dei fermo-immagine che McCain aveva archiviato nella cartella. Mostrava Jessica stravaccata sul divano in una posa non particolarmente elegante. Aveva un pigiama, blu chiaro, con piccoli fiori bianchi e rosa. «Hai detto che è stata ritrovata…»
«È quello. È lo stesso pigiama. Cristo, hai ragione. È stato lì.»
«Penso che l’abbia presa di mira — che le abbia dato la caccia, visto che è così che lui probabilmente vedeva la cosa — e abbia passato un po’ di tempo nel suo appartamento per completare il piano che doveva portare alla sua uccisione. Ha preso il pigiama e credo che abbia sottratto anche un souvenir. Doveva essersi reso conto che quelli erano i genitori di Jessica e ha deciso di toglierle qualcosa che le fosse caro, qualcosa che per lei aveva un significato.»
«E lei non se ne sarebbe accorta?»
«Dimmi un oggetto in questa casa che tu vedi tutti i giorni. E dai un’occhiata alla foto: il tavolino è incasinatissimo. Inoltre…»
«Ma che mi dici del pigiama? Uno non può non accorgersene se gli sparisce.»
«Era proprio quello che stavo per dire. Con ogni probabilità l’uomo è stato li nella giornata precedente la notte in cui l’ha uccisa.»
«Ma allora perché non aspettarla e ucciderla in territorio amico?»
«Perché quella non era casa sua. Lo sai come ragionano questi individui. Desiderano cesellare l’evento: deve realizzarsi secondo i loro piani.»
«Questo ci aiuta in qualche modo?»
«L’assassino ha scoperto dove lei viveva. Come? Questo vuol dire che almeno in un’occasione può averla vista vicino al suo appartamento. Il che significa che era dovuto entrare. Di nuovo, come?»
«La polizia di Los Angeles ha già interrogato i vicini e nessuno ha visto niente.»
«Ma come ha fatto a scoprire dove viveva?»
«Ward, tu hai un’ottima vista, ma non sei un poliziotto. È probabile che l’abbia semplicemente seguita di ritorno da un locale. Mi dispiace, ma anche se hai ragione questo non ci dà nessun elemento aggiuntivo per andare avanti. L’uomo ha preso il pigiama e una foto. Forse. Capirai! Lo scriveremo sul mandato, proprio sotto la segnalazione dell’omicidio.»
Mi voltai verso di lei, innervosito, ma lei aveva l’aria stanca e io lasciai perdere quello che stavo per dire. «È curioso che tu e John non siate riusciti ad andare d’accordo, perché siete entrambi persone ragionevoli e di cosi ampie vedute.»
Nina sorrise. «Senti… ti dirò come stanno le cose.» «Grazie,» dissi. «Mi sento legittimato al di là di ogni mia speranza. E ora andiamo a liberare un po’ del tuo cibo dal negozio.»
«Lascia perdere. Andiamo piuttosto in un posto dove lo cucinino anche.»
Finimmo a santa Monica, in un ristorante italiano sulla promenade. Mangiammo in fretta e poi ci spostammo nella zona del bar dove rimanemmo più a lungo. Nina aveva un bell’aspetto con un bicchiere di vino in mano. Sembrava fatto apposta per stare lì. Le raccontai il poco che avevo fatto negli ultimi mesi e quando il vino cominciò a fare effetto, le dissi anche quanto mi mancassero Bobby e i miei genitori; lei sorrise comprensiva e non disse niente per migliorare le cose. Mi resi conto che non sapevo quasi nulla di lei e scoprii che era cresciuta in Colorado, che aveva frequentato il college a Los Angeles e non molto altro. Mi raccontò di una certa vecchia amica di scuola che l’aveva chiamata e con la quale si sarebbe dovuta incontrare e concordammo che il passato era un altro territorio che il movimento delle placche tettoniche del tempo faceva allontanare ogni anno di più. Arrivati a metà serata il locale si affollò e più di una volta Nina fulminò con lo sguardo le persone che cercavano di occupare il mio posto durante le mie occasionali pause-sigaretta all’esterno. Con Nina uno sguardo basta e avanza.
Con l’aumentare del mio stato di ebbrezza le persone intorno a me sembravano diventare più rumorose e odiose. Le chiacchiere riguardavano il mondo del cinema (naturalmente), i soldi, la salute, il peso-forma, la moda. Più era futile l’argomento e più le persone davano l’impressione di volerlo affrontare a voce alta, come una preghiera infinita agli dèi del destino. Diventai sempre più nervoso, al punto che Nina finì per starsene seduta in silenzio mentre io sbraitavo. La moda mi ha sempre fatto innervosire. Quest’estate indosseremo tutti il rosso porpora, vero? E chi lo dice? Quando vediamo un bikini fatto di quadratini di plastica colorata, perché facciamo finta che lo indosserà chiunque? Perché, ruggii verso Nina, questo è quello che il capitalismo fa per mettersi in mostra. È la nostra cultura che sta tirando fuori il suo cazzetto moscio. «Ehi voi, ombre nel caos non-anglosassone — ammirate la nostra capacità di surplus. Se riusciamo a buttare via tempo e sforzi su cazzate così inutili, allora immaginate quanto oro, armi e grano dobbiamo aver messo da parte, che cittadini felici e ben nutriti della ‘Il Nostro Mondo S.p.A.’ dobbiamo essere.» Il problema è che queste persone non sono felici e alcune di esse non sono nemmeno ben nutrite — ma nessuno sa o si preoccupa di ciò che accade dietro quei tabelloni pubblicitari che invitano a seguire un certo stile di vita, perché per le persone che contano la vita non fa altro che migliorare. L’intero paese si sta trasformando in una sorta di rifugio segreto infarcito di muffin dove tutti leggono libri su come volersi più bene, come se quello potesse essere anche lontanamente possibile. Hanno trasformato fredde e fumose caffetterie in posti dove quelli sicuri di sé vanno a leggere l’iBook alla ricerca di storie che provino quanto sono sensibili; hanno trasformato bar stantii e inquietanti in luoghi che sembrano le Aree di Ricreazione del Personale delle megasocietà più lungimiranti. Recentemente ero stato in un bar che profumava di incenso — non è assurdo? Non puzzare di fumo fa già schifo, ma odorare di lavanda speziata… Non si può pensare che dentro sia più fresco di fuori, non riescono a capirlo? Non puoi smettere di avere paura solo fingendo che tutto ciò che ti spaventa non ci sia.
Parte del problema, continuai — e ora la mia voce era irritante quanto quelle intorno — è che io mi ricordavo un mondo in cui nessuno correva. Ora correre è una nuova forma di beneficenza universale. Correre è saggio. Correre è il bene supremo, il nostro cammino rituale verso il consenso e la benevolenza degli dèi. Corri e tutto andrà bene. Se fossimo noi a guidare la Chiesa Cattolica, la santità verrebbe assegnata in base al tempo passato dal candidato con le Nike ai piedi. «Certo, Padre Brian ha fatto opere buone, salvato vite e così via, ma quali erano i suoi intermedi sul chilometro? Padre Nate? Lascia perdere. Quello lì non ha mai corso mezza maratona in vita sua.» Abbiamo perso ogni senso delle proporzioni, qualsiasi idea di ciò che è ragionevole o sensato, mentre nel mondo i paesi che non hanno il tempo o il lusso per dedicarsi a queste stronzate si incazzano sempre di più con noi perché ci comportiamo come se fossimo i padroni di tutto. Ma chi se ne frega, no? «C’è una nuova dieta che sta scalando le classifiche! Jennifer Lopez si è comprata qualche nuovo gioiello — guarda come è carina! A chi cazzo importa cosa succede in quei posti di merda dove non parlano nemmeno l’americano? La vita è fantastica! Stappate un Zinfandel decaffeinato!»
Rimasi senza fiato e senza bibita esattamente nello stesso momento. Notai che le persone giovani dei tavoli vicini mi stavano tutte fissando come se avessi dichiarato nulla e non valida la teoria dei tre stadi.
«Andate affannilo,» gli suggerii a voce alta. Tutti si voltarono dall’altra parte.
Persino Nina mi guardava con un sopracciglio sollevato.
«Il Prozac non ti fa granché bene, vero?»
«Il mondo è fottuto,» mormorai imbarazzato. «E chiunque ci viva è fottuto. Sbrigati a venire, Armageddon!»
«Yeah, mi ricordo come ci si sente a quindici anni,» disse. «Non ti agitare, passerà.» Si alzò. «Dai, Ward. Io sono mezzo ubriaca, tu sei sbronzo marcio. È ora di andare a casa.»
Vidi la carta di credito scivolare sul tavolo e mi resi conto che in qualche momento, negli ultimi quindici minuti, lei aveva pagato il conto.
Scesi dal mio sgabello e la seguii fuori dal ristorante, sentendomi un idiota. E anche qualcos’altro.
Quando trovammo un taxi e fummo trasportati a casa di Nina l’alcool in circolo nel mio corpo aveva ormai compiuto la sua opera, facendomi sentire esausto. Rimanemmo piacevolmente in silenzio per la maggior parte del viaggio. Piantai un casino per riuscire a pagare io la corsa e poi inciampai pesantemente nello scendere dall’auto. Probabilmente Nina aveva ragione nel dire che gli uomini raggiungono un grado di immutabilità rispetto al tempo: non aveva alcuna importanza quanto il mio corpo ogni tanto si sentisse invecchiato, quello dei quindici anni sembrava un soffitto di vetro per il mio livello di sofisticazione.
Quando fummo dentro mi diressi immediatamente al bricco del caffè. Nel farlo passai davanti alla segreteria telefonica di Nina.
«Hai un messaggio,» dissi.
Nina schiacciò il pulsante e osservò il numero che comparve. «È Monroe.»
Il messaggio era breve. Una voce maschile diceva bruscamente di chiamarlo a qualunque ora Nina fosse rientrata. Lei alzò gli occhi al cielo, ma premette immediatamente il pulsante che ricomponeva il numero.
«Ufficio di Charles Monroe.» La voce arrivò forte e chiara dall’apparecchio.
«Sono Nina Baynam,» disse Nina strofinandosi gli occhi. «Ho ricevuto un messaggio.»
La persona all’altro capo del filo non rispose, ma non più di tre secondi dopo sulla linea si udì la voce del capo di Nina.
«Nina, dove diavolo sei stata?»
«Fuori,» disse, chiaramente sorpresa dal tono. «Perché non mi hai chiamato sul cellulare?»
«L’ho fatto tre volte.»
«Oh. Be’, ero in un posto rumoroso.» Mentre lo diceva mi fissava. «Che problema c’è?»
«Ho appena ricevuto una telefonata dal SAC di Portland.» Nina divenne immediatamente più seria. «Un altro omicidio?»
«Sì e no. Nessun nuovo hard disk, nessuna nuova ragazza.»
«Bene, e allora cosa?»
Quando Monroe riprese a parlare lo fece procedendo con attenzione e lentamente. «L’altro ieri notte una prostituta di nome Denise Terrell è venuta alla stazione di polizia. Era confusa. Ha detto di essere andata quel pomeriggio a un appuntamento e che ‘era accaduto qualcosa’. L’unica cosa che sa è che si è risvegliata di notte, appoggiata a un cassonetto della spazzatura. Alla fine ci siamo accorti che aveva una brutta commozione cerebrale e l’abbiamo portata all’ospedale. La mattina seguente la donna è riuscita a ricordarsi qualcosa di più e ha cominciato a raccontare di essere stata ingaggiata da uno dei clienti abituali dell’agenzia, ma di avere fatto un accordo con un altro uomo che in qualche modo sapeva che l’agenzia aveva dei rapporti regolari con quel tizio. Quest’uomo l’aveva contattata direttamente offrendole del denaro perché lei lo portasse dove doveva avere luogo l’appuntamento. Aveva detto che quel tizio gli doveva un mucchio di soldi, che voleva beccarlo in un posto riservato, dove lui avrebbe avuto la guardia abbassata. La ragazza, che sul lavoro si fa chiamare Cherri, aveva accettato.»
«Charles, c’è una conclusione?»
«I poliziotti di Portland sono andati all’indirizzo fornito dalla donna e hanno trovato un uomo morto. Il suo nome era Peter Ferillo. Era proprietario di un ristorante e aveva dei legami con la malavita organizzata qui a Los Angeles. Era nudo e ridotto male, gli hanno sparato alla testa, lasciandolo stravaccato su una sedia. Hanno fatto tutti i rilievi del caso: stanza, pavimento e soffitto, ma non hanno trovato niente. Ma poi un ufficiale di pattuglia ha rinvenuto un oggetto in un’aiuola trenta metri più avanti lungo la strada. Si trattava di un cavatappi macchiato di sangue, del sangue di Ferillo. Hanno preso le impronte sull’utensile e ne hanno trovata una, chiara e completa. Hanno fatto il riscontro.»
Gli effetti del vino su di me sembravano spariti. Nina e io ci stavamo guardando.
«Nina,» disse Monroe, «l’impronta appartiene a John Zandt.»
Mentre guidava aveva la percezione della rete che lo circondava. La rete di strade, di persone, di luoghi, di cose. Anche dell’altra rete, del mondo moderno. Questa realtà parallela fatta di viali di indirizzi e-mail privati e di siti di commercio online. Si poteva trovare così tanto là fuori, facendo scorrere la realtà tra le mani come fossero quelle di un dio. Sulla rete tutto è informazione; oggigiorno sul web c’è tutto, quindi è il mondo che è diventato informazione. Tutto è diventato un’espressione di questa cosa, di questa banca di parole e informazioni. Tutto diventa qualcosa che si dice o che è stato detto. È qualcosa che riguarda il comprare, il guardare, che riguarda le nostre abitudini e i nostri desideri, i contatti con gli altri, il voyeurismo, le aspirazioni e la dipendenza. È un nostro surrogato — la nostra essenza nel bene e nel male. Non è più qualcosa di passivo, ma racconta la nostra storia e a volte questa storia necessita di un lavoro alle spalle. A volte c’è bisogno di tirarla fuori. Aver trovato Jessica in quel luogo era stato un nuovo inizio. Naturalmente ci sono molte ragazze come lei, ma c’è anche un’unica Jessica. Una volta trovata, potevi spalancare la finestra sulla sua vita, confermare la sua esistenza; ma al tempo stesso potevi anche chiuderla. Potevi chiudere il programma, non farla mai nascere. Potevi uscire e cancellare la memoria e allora il passato spariva e tutto era limpido. Il tasto «Canc» è lì per un motivo: a volte devi solo ripartire da zero.
Una delle sue sequenze di webcam preferite era di Pittsburgh, una città nella quale non era mai stato. La serie era costituita da tre frame che coprivano il periodo dalle 5:43 alle 6:14 di una mattina di fine maggio 2003. Tutti erano stati presi dalla stessa telecamera, anche se questa era del tipo che cambiava direzione e livello di ingrandimento tra uno scatto e l’altro, invece di fornire un’unica inquadratura fissa. Nella prima immagine la metà superiore dell’inquadratura era occupata da un cielo albeggiante azzurro e rosso, reso tumultuoso da nuvole epiche. Sotto, il fiume Allegheny curvava a sinistra dal centro e i ponti della Sesta, Settima e Nona Strada riflettevano le loro luci sullo specchio scuro dell’acqua sottostante. Dappertutto, sulle strade, su ambo le rive del fiume, e attorno alla fontana e lo stagno alla fine del Point State Park e del Gateway Center, c’erano molte luci. Piccoli punti bianchi resi dorati o rosati dall’oscurità che si ritirava e dai limiti della webcam. La seconda immagine era presa con un’inquadratura più stretta e nel quarto d’ora trascorso la camera aveva zoomato molto e ruotato in tutt’altra direzione. Era impossibile far combaciare quella piccola porzione con la città nel suo complesso. L’immagine inquadrata era piena di alberi, che venivano attraversati da un accenno di autostrada che curvava immettendosi in città, e da qualche uccello mattutino che si preparava a cominciare il suo lavoro — il tutto mostrato più chiaramente perché la webcam aveva meno cielo con cui fare i conti. Nell’ultimo frame l’immagine ritornava quella della confluenza dei due fiumi ed era di nuovo scura e panoramica. L’angolo, rispetto alla prima, era leggermente diverso, un po’ più rivolto verso sud, e permetteva di vedere il Monogahela mentre si univa all’Allegheny, e con il Fort Pitt Bridge ancora nell’oscurità. Non c’erano punti illuminati in quel momento — come se la città li avesse spenti tutti senza eccezione alle sei in punto, o come se il cielo ora più chiaro avesse fatto sì che la webcam sovresponesse tutte le zone terrestri.
Aveva passato del tempo a studiare queste immagini, cercando di capire cosa il web dicesse delle persone che inquadrava. Mostrava che si poteva vivere in una città, essere uno dei suoi abitanti, senza averne alcuna comprensione o senza fare parte del suo quadro complessivo. Un po’ come dei topi che vivono in una casa — loro abitano lì, ma ciò non significa che abbiano dei diritti, che debbano essere visti come qualcosa di più di un semplice e benigno divertimento, che non siano facili prede per i gatti o le trappole. In maniera analoga, potevi rimanere seduto tutto il giorno in un ristorante senza diventare mai niente di più di un tizio di passaggio che occupa il posto di qualcun altro, uno spazio preso in prestito dando denaro in cambio di caffè e hamburger. Anche se avevi la tua bella casetta nei sobborghi dovevi pagare in qualunque caso il tuo tributo: intaccavi il prestito che avevi chiesto per acquistare la proprietà, tagliavi gli interessi per l’apparecchio dentario di tuo figlio e il gruzzoletto per il futuro matrimonio di tua figlia, pagavi l’assicurazione che poteva coprire le spese dell’assistenza sanitaria per il tumore dei tuoi genitori, ma che non avrebbe salvato le loro vite. Prendevi le tue giornate e le davi ad altre persone, che ci facevano dell’altro, che con i tuoi giorni facevano cose, con il tuo tempo vendevano dei prodotti. Le tue giornate, il tuo tempo erano ì loro ingredienti segreti, la loro dodicesima erba, o spezia; la tua vita veniva regalata in fondo ai loro pacchetti come i regali invisibili di Cracker Jack. In cambio loro ti aiutavano a pagare alcuni dei tuoi debiti alle banche, agli ospedali e al destino — e così tu andavi avanti e indietro, ogni giorno, sul percorso che da casa tua portava al lavoro, alla guida di una macchina che stavi pagando a rate e che qualcuno avrebbe fatto portare via con il carro attrezzi dal tuo vialetto, indipendentemente dalle condizioni in cui si trovava, se solo avesse ritardato di pochi giorni il pagamento di una rata.
Continuavi a vivere così fino a quando diventavi vecchio e la tua vita cominciava a scorrere al contrario, e passavi dall’avere una casa intera al possedere solo una stanza in una delle case dei tuoi figli, ammettendo che avessero deciso di tenerti con loro, per poi finire in una stanza di un edificio estraneo, una qualche casa di riposo, circondato da vecchi rincoglioniti mai visti prima, e che, se li avessi incontrati, avrebbero anche potuto esserti antipatici: i giovani non capiscono che le somiglianze fisiche delle persone anziane non implicano che dentro siano uguali. E non tutti hanno lo stesso ritmo. In modo ancora più evidente di quanto non accada con la salute che si fa precaria, questa progressione rende duramente palese che la vita sta andando nella direzione sbagliata. Tutti quegli anni consacrati all’acquisto di una casa, tutti quei prestiti e quelle aspirazioni, vengono cancellati, eliminati dal disco della tua vita. Vengono sollevati gentilmente dalle tue mani come un coltello da cucina tolto a qualcuno tròppo giovane. Le cose che hai conquistato e che hanno contribuito a darti una dimensione vengono regalate, vendute o buttate e tu vieni nuovamente costretto in una cameretta, come se avessi ancora una volta dodici anni — ma questa volta, invece di sentirti in sintonia con il mondo esterno, tutta la realtà ha smesso da molto tempo di avere un senso. Te ne stai seduto in posti tranquilli, guardi fuori dalle finestre e cerchi di non farti prendere dal panico nel momento in cui ti accorgi quanto tu dimentichi in fretta questi giorni oppure quanto poco ci sia da dimenticare. Le stratificazioni del tuo io che hai acquisito nel corso degli anni si sono dissolte, riducendoti alla dipendenza; e non c’è nemmeno da scherzare dicendo che quella è solo una fase passeggera, che arriverà il tuo momento, perché non è così. Il tuo momento è già arrivato ed è anche passato. Ora sei semplicemente il colore di fondo del tempo di qualcun altro, e anche questo probabilmente svanirà presto.
Nel frattempo ci sono altre persone che percorrono il tuo tragitto da e per il lavoro, e vivono nella tua vecchia casa, dove hanno tinteggiato a nuovo i muri ed eliminato le tue scaffalature. E il pianeta continua a ruotare.
Un giorno, dopo un viaggio particolarmente difficile di andata e ritorno dal gabinetto, dopo essere stata di nuovo sistemata sulla sedia, esausta, piccola e spaventata, la nonna aveva guardato il ragazzo e aveva detto:
«È un peccato che Lui riservi il peggio per la fine.»
Lui non aveva capito immediatamente, ma solo sette mesi più tardi, quando sedeva in silenzio dietro una delle sedie del salotto due ore dopo essere ritornato dal funerale della nonna. Era seduto lì da un po’, a pensare a quella vecchia donna, quando sua madre era entrata nella stanza con un disco in mano. Si era diretta verso lo stereo, lo aveva acceso e poi si era seduta ad ascoltare.
Il ragazzo fu assalito da una paura terribile. Non sapeva cosa fare. Era consapevole di essere spettatore di un momento privato di sua madre e che non le avrebbe fatto, per niente piacere sapere di non essere da sola in quella stanza. Ne fu consapevole in modo particolare quando sentì qualcosa che poteva somigliare a un pianto. Non aveva mai sentito sua madre piangere prima di allora. E non l’avrebbe sentita mai più.
Così si limitò a starsene seduto ad ascoltare.
Sua madre rimase immobile per tutta la durata della musica. Poi si alzò, afferrò il disco e lo lanciò violentemente in un angolo, dove si frantumò in mille pezzi.
Poi uscì come una furia sbattendo la porta.
Quando la donna fu lontana, lui emerse da dietro la sedia. Il suo corpo gli diceva di portare le chiappe fuori dalla stanza in un battibaleno, di andare al piano di sopra, fuori, di fare qualcosa, ma il suo cervello sapeva che sua madre era già a metà strada verso un bar e lui desiderava sapere di che musica si trattasse. Vinse il cervello.
Si avvicinò allo stereo e osservò la copertina. Era il Requiem di Fauré, e riconobbe che proveniva dalla stanza della nonna: uno dei pochi oggetti che aveva portato con sé in casa loro quando era stata giudicata troppo anziana per continuare a vivere da sola. La custodia era vecchia, scolorita e malconcia e dava l’idea che il disco fosse stato preso e rimesso a posto tantissime volte, nella sua vita reale, quando la donna poteva scegliere quale musica sentire. Forse fu quello che lo fece dirigere verso l’angolo, raccogliere uno dei frammenti più grossi del disco per portarlo in camera sua: aveva capito che sarebbe arrivato un giorno in cui qualcun altro avrebbe esercitato il suo controllo su di lui, e che tutto quello che gli restava era solo il tempo che intercorreva tra questi due momenti.
Aveva dodici anni. Quattro anni dopo il Requiem di Fauré fu il primo disco che comprò. Alle soglie dei vent’anni era già una musica che ascoltava solo in privato. Aveva imparato che Fauré era uno di quei compositori che erano un po’ troppo conosciuti. Era un po’ come mettere su Le quattro stagioni di Vivaldi o la Quinta sinfonia di Beethoven o l’Aria sulla quarta corda di Bach. Finivi per fare la figura dell’ignorante indipendentemente da quanto ti piacesse quella musica, perché eri circondato da persone che davano valore alle idee — fra cui quella di essere intelligenti e fuori dal comune, staccati dalla massa — piuttosto che all’esperienza. Erano persone che ritenevano fosse meglio ammirare qualcosa piuttosto che apprezzarla, che vivevano una vita di costante fragilità, oppure si concedevano qualche tentazione in privato.
Persone che non avevano il coraggio di rendersi conto che se si fossero comportate con sufficiente energia potevano cambiare il mondo.
Questo accadde non molto tempo prima che lui si lasciasse alle spalle quella gente, tutta la gente, ad anni luce di distanza, quando trovò la strada del fumo. Ascoltare sua madre, sentire quei suoni strani, orrendi bellissimi provenire da lei, quello era reale. Quello era qualcosa che stava accadendo, un avvenimento in tempo reale, un cambiamento del colore del mondo mentre la morte di sua nonna incideva il suo marchio indelebile sulla realtà. Era stato come l’apparizione fugace di un lago distante o di una ragazza addormentata o di un lurido angolo di strada, sincero e vulnerabile nella sua verità semplice e autentica.
La morte è reale. La morte cambia le cose. Tutto il resto è un riempitivo, semplicemente un messaggio dal nostro sponsor.
La morte di quella vecchia era stata rivelatrice, specialmente perché lui sapeva che la caduta che alla fine aveva ucciso la donna non era stata accidentale. In fin dei conti qualcuno la stava aiutando a scendere dalle scale, e lui l’aveva sentita supplicare «No», una volta, proprio prima di cadere.
Ma dopo tutto si fece silenzioso per lei, non urlò più nella notte, non si sporcò più, e nessuno udì più il suo respiro affannoso. Venne messa sottoterra a riposare in pace, e doveva certamente sapere che sua figlia aveva pianto per lei dopo che se n’era andata.
Il peggio non deve per forza arrivare alla fine, quello era chiaro. La fine doveva essere silenziosa e insignificante. Fino a che c’era qualcuno cui importava, la fine non doveva essere affatto così malvagia. Allora perché aspettare?
Quando arrivò in città parcheggiò. Fece a piedi il tratto fino alla destinazione. Era in continuo movimento, perché restava la cosa migliore da fare. Ancora adesso, quella parte del processo era strana e ingovernabile e un uomo inferiore avrebbe potuto considerare l’idea che questo accadeva perché l’impulso non proveniva dalla sua mente cosciente. Ma lui no. Lui sapeva che tutto aveva un senso, che a volte questo è ciò per cui siamo fatti.
Camminò. Rimase in attesa per la notte. Aspettò, in modo che qualche altra persona speciale non avrebbe più dovuto aspettare. Certo, egli agiva per ragioni personali, e per benefici di portata più vasta, ma questo non impediva che fosse la cosa giusta anche per lei. Tutto sarebbe stato nuovo e tranquillo.
Era veramente una situazione in cui non c’era nulla da perdere.
Le porte dell’ascensore si aprirono. Dentro c’era Burt, che accennò un sorriso e arretrò per fare spazio a Katelyn, ma poi si rese conto che doveva uscire con il suo ingombrante carrello e che questo doveva farlo prima, indipendentemente dai dettami che gli imponeva il suo personale codice di cavalleria. Esitò, indietreggiò e avanzò di qualche centimetro, poi levò gli occhi al cielo e alzò le spalle. Questo, o qualcosa di simile, accadeva praticamente ogni notte.
Con aria di scusa sferragliò fuori e si voltò per tenere le porte aperte. «Sta andando a prendere i menu, signora?»
«Esatto, Burt. E la tua notte come va?»
«Sta finendo.»
Burt era l’unico impiegato di colore del Seattle Fairview, a parte il tanto decantato Big Ron, il portiere del turno diurno. A Katelyn piaceva Burt: aveva il doppio degli anni di chiunque altro nel libro paga e lavorava il doppio, anche alle tre del mattino. Se capitava di incontrare Burt, si poteva essere sicuri che stava facendo qualcosa. L’idea di vederlo con le mani in mano era inconcepibile.
Dopo essersi sincerato che la donna era al sicuro dentro l’ascensore, Burt strizzò un occhio e spinse il carrello, in cerca di qualcosa da sistemare, da riattaccare o da staccare. Katelyn lo osservava mentre le porte si richiudevano. Era anche lui un lavoratore notturno e qualcosa le diceva che doveva provare la stessa sensazione di essere in una posizione privilegiata. Non glielo aveva mai chiesto perché, be’, perché non si fa. Oppure era troppo semplice? Credeva forse che una simile osservazione andasse al di là dei limiti del loro rapporto di lavoro? E se era così, perché? Diceva qualcosa di sconveniente su di lei? I rapporti gerarchici erano per lei più importanti di quanto credesse? Lo stava trattando con condiscendenza senza rendersene conto, non prendendolo sul serio perché era anziano o…
Cristo, ormai era troppo tardi.
Sapeva che questo non era un lavoro di competenza del direttore di notte. In alcuni alberghi era il fattorino a farlo, era l’ultimo incarico prima che staccasse: oppure, se c’era il servizio in camera ventiquattr’ore su ventiquattro, qualche volta il cuoco notturno inseriva la segreteria telefonica nell’ora morta, intorno alle quattro del mattino, e andava a prendere i menu lui stesso, molto probabilmente girando per i corridoi con i pantaloni calati, a giudicare dai cuochi notturni che aveva conosciuto. Una camera chiedeva che i menu venissero appesi alla porta alle sei, non alle due, e quello sarebbe stato il primo incarico del giorno per il personale che poi avrebbe portato quelle stesse colazioni ai piani superiori. Quello le sembrava sbagliato. Potevi pensare che la colazione fosse il primo evento del nuovo giorno, ma non era così. Non per i clienti. Era l’ultima cosa. Ritornavano scorbutici da una serata passata in una città che non conoscevano, o con un’espressione stralunata se facevano più tardi. A Katelyn piaceva immaginarli mentre si toglievano le scarpe e si sedevano sobriamente al piccolo tavolo di cui era dotata ogni stanza, oppure distesi sul letto in preda al singhiozzo, afferrare una penna a sfera e concentrarsi per annotare la loro prenotazione. Quando eri in vacanza, o fuori per lavoro, l’arrivo della colazione era di importanza fondamentale. Ti ricordava chi eri — o chi credevi di essere, almeno, nel bel mezzo della notte e con il vino che ti usciva dalle orecchie.
Katelyn la pensava così. Aveva cercato di spiegarlo a uno dei ragazzi della reception, e quello l’aveva guardata come se avesse parlato cinese. Alcuni di loro avevano quell’atteggiamento qualsiasi cosa lei dicesse. Raramente i direttori di notte erano donne. Forse questo dipendeva dalle responsabilità legate alla funzione, forse dal fatto che di notte dovevano affrontare strane situazioni — spiegare a chi non era cliente che non c’era un servizio di taxi verso i sobborghi; dissuadere occhialuti uomini d’affari dal portare in albergo donne che erano troppo palesemente delle puttane; trovare qualcuno che pulisse l’ascensore centrale dal vomito (la gente vomita sempre in quello centrale; nessuno sapeva il perché, nemmeno Burt). La maggior parte dei direttori di notte non aveva prospettive di carriera. Erano come dei camerieri a vita, fuori passo con il mondo. Arrivavano alle nove, o quando quel particolare hotel giudicava che l’attività fosse scemata, si sistemavano nell’ufficio sul retro e bevevano caffè. Se erano fortunati, continuavano a farlo fino al sorgere del sole, sacrificando di tanto in tanto un minuto per controllare che la manutenzione, le pulizie e il riapprovvigionamento venissero fatti da persone che prendevano uno stipendio che era la metà del loro. Se c’era un incendio comandavano a bacchetta le persone fino a quando il problema non era risolto, dimenticato o soppiantato, quindi tornavano a sfogliare le riviste. All’alba si dileguavano come la rugiada, tornavano al loro appartamento o casetta per dormire durante il giorno come vampiri paffuti.
Katelyn non era così. Mentre l’ascensore saliva nella notte, la vista di se stessa riflessa negli specchi avvolgenti la rassicuravano di essere giovane, femminile e attraente. Okay, non giovane. Cancelliamolo. Aveva una pelle delicata, però, e capelli che richiedevano pochissimi ritocchi di colore. Aveva un naso deciso. Con il suo vestito antracite aveva un’aria professionale. La sua presenza lì non era necessaria. Forse non era opportuna. Potevi entrare a far parte della direzione di un albergo senza avere alcuna esperienza, ma aveva già lavorato abbastanza per sapere che niente valeva quanto la pratica effettuata sul campo. Durante le ore del giorno un hotel assomigliava a un enorme motore, mosso dal suo principio interno. Certo, non appena oltrepassavi il bancone della reception e superavi un paio di quelle porte con la scritta «Privato», ti rendevi conto che non era proprio così. Realizzavi che un hotel era il risultato della collisione frontale di migliaia di elenchi di cose «da fare» portate a compimento a diverse velocità; che era un computer di carne e pietra su cui giravano diciassette programmi diversi in contrasto tra loro (alcuni nuovi e funzionanti, altri vecchi e pieni di difetti), e che un blocco totale del sistema era sempre dietro l’angolo. Sussisteva tuttavia una certa inerzia, la sensazione di un ecosistema che tirava avanti solidalmente, una squadra di staffettisti che conduceva una gara senza fine.
Di notte era diverso. Il sistema nel suo complesso andava in stand-by e tu diventavi più consapevole dei singoli ingranaggi: i tavoli, le sedie, le brillanti lampade a muro che regalavano riposo e luce soffusa solo a se stesse. Gli ascensori che potevano decidere di punto in bianco di andare su e giù, senza nessuna ragione, sferragliando e sibilando nelle ore piccole. Ma soprattutto, l’edificio stesso, con i suoi lunghi corridoi e gli imponenti archi, percorsi dal rumore bianco delle apparecchiature a riposo. Gli hotel pullulano di vita. Negli hotel si discute. La quantità di azione di cui è testimone un hotel di media categoria di una città procurerebbe un esaurimento nervoso a una casa normale dopo un giorno. Nelle ore notturne l’edificio aveva un po’ di tempo per sé, per elaborare i suoi pensieri grandi e lenti. Camminare per le sale in quei momenti era come sedersi al buio insieme a un grande animale fatto di mattoni e ascoltarlo mentre respirava.
E forse era quello il motivo per cui la maggior parte dei direttori notturni non erano donne. Katelyn sapeva che avrebbe dovuto essere a casa, a dormire e ad ascoltare il respiro di un altro essere umano. Un gatto non contava, indipendentemente da quanto lei gli volesse bene. Doveva essere il respiro di un bambino o almeno quello di un uomo. Nel suo appartamento si poteva ascoltare quello che si voleva, ma non c’era nulla da sentire. Doveva smettere di farsi delle illusioni.
Ecco il motivo per cui lei era lì.
Le porte dell’ascensore si aprirono al sesto piano e lei uscì con il passo tipico del direttore di notte. Sei piani non erano poi così tanti, ma il Fairview non ne aveva altri. Recentemente Katelyn ne aveva discusso con un cliente scontento, che si era aspettato di trovare una vista simile a quella godibile da uno degli alberghi gemelli della stessa piccola catena a Vancouver. In quella città il Bayside aveva ventidue piani e una vista stupenda sulle montagne al di là della Burrand Bat — Katelyn lo sapeva perché c’era stata per un corso di formazione. A Seattle c’erano hotel con panorami più stravaganti, ne aveva convenuto, ma non con la stessa attenzione alla qualità del servizio. L’uomo l’aveva incenerita con lo sguardo, consapevole che gli erano stati ribattuti degli slogan da dépliant, anche se poi, quando aveva lasciato l’albergo, aveva l’aria piuttosto soddisfatta. Era un tipo un po’ strano comunque: entrambe le mattine aveva ordinato un piatto di frutta insieme a dei salatini con la salsiccia, il che dava l’idea di conflitti interiori non risolti.
L’aria era immobile e calda. Katelyn percorse i corridoi silenziosi, ricoperti di tappeti, seguendo tre lati di un piccolo quadrato. Avanti, di lato, indietro. Non c’erano molti menu. I weekend in quel periodo dell’anno erano tranquilli. Al quinto piano c’era un coppia di turisti — e dato che li aveva visti ritornare barcollando nella loro stanza dopo mezzanotte, Katelyn era curiosa di vedere cosa avevano ordinato — ma per la maggior parte si trattava di uomini d’affari. Gente che si sarebbe alzata presto e tra le sette e le otto e mezzo avrebbe consumato nella sala della colazione il caffè di Starbucks e i croissant messi a disposizione. In turto il piano la donna trovò solo dodici ordinazioni, prevalentemente per la versione proposta della colazione con due uova. Niente di molto interessante, sebbene ci fosse una richiesta per i fiocchi d’avena che la fece sorridere. L’ospite in questione era un tipo massiccio e non gradiva l’avena, solo che si stava comportando bene. Sua moglie sarebbe stata orgogliosa — ammesso che gli credesse e che la cosa fosse mai venuta fuori, il che non sarebbe accaduto eccetto nel contesto di una conversazione in cui lui era destinato a soccombere. Se fosse dipeso da lui, si sarebbe preso la colazione maxi. Comunque, buon per lui.
Arrivata in fondo, si voltò per controllare di non aver dimenticato nulla e poi aprì la porta del vano scale. Il ricco tappeto si fermava proprio all’altezza dell’altro lato della porta, una misura di riduzione dei costi che lei aveva approvato. Ogni tanto gli ospiti usavano le scale — di solito solo se avevano paura degli ascensori, perché ce n’erano molti — e questa era la loro visione dell’interno. Niente quadri alle pareti, niente tappeto con i quadratini dorati, nulla dell’opulenza che veniva ostentata nelle altre zone dell’hotel. Era un…
Katelyn scosse la testa. Cristo, stai zitta. Non c’era nessun fascino misterioso, erano solo delle scale. C’era il linoleum grigio e rimbombavano. Non c’era niente di interessante. Non c’era nessuno ad ascoltare. Il suo lavoro era percorrerle. Punto e basta.
Ascoltò il rumore delle sue scarpe sui gradini, concentrandosi sul mondo esterno alla sua testa. Parlare a se stessi era parlare a se stessi anche se lo si faceva in silenzio. Ed è quello che lei faceva in continuazione, ne era consapevole, come nel ritornello di una canzone di Shania Twain, ancora, ancora e ancora: pop e leggera, era piacevole in sottofondo, ma se ascoltavi attentamente ciò che diceva suonava vuota come una pallina da ping-pong.
Era sul pianerottolo a metà della scala, quando sentì un rumore provenire da sopra. Alzò lo sguardo, pronta a sorridere, credendo che fosse Burt venuto a fare qualcosa nella tromba delle scale. Ma non c’era nessuno.
Strano. Il rumore non poteva provenire da sotto perché lei poteva vedere la porta del quinto piano. Si sporse dalla ringhiera. Nessun movimento nemmeno da quella parte.
Poco importa. Gli hotel sono rumorosi. Forse era uno degli addetti alle pulizie che montava di turno. Anche se, e controllò l’orologio, le tre e un quarto non era l’ora giusta.
Aprì la porta in fondo alla rampa, quasi certa di vedere Burt che scorrazzava e con l’intento di dirgli qualcosa di amichevole, per dimostrargli che nel suo sguardo non c’era nessun tipo di discriminazione, di età, di razza o gerarchica.
Il corridoio era vuoto.
Be’, Burt non avrebbe mai saputo cosa si era perso.
Il quinto piano scarseggiava anch’esso di menu. Qualche toast, qualche caffè, ma… Ah. Uova, salsicce, bacon, salsicce extra, frittelle di patate, fiocchi d’avena, frutta, caffè e tè per quante persone… Quattro? Una colazione continentale con toast. E un english muffin, probabilmente, anche se era difficile da interpretare. Poteva voler dire più toast o bacon. E un succo d’arancia. Da servire alle sette e mezzo.
Katelyn sorrise: dovevano essere i turisti ubriachi. Estrasse la penna dalla tasca della giacca e fece qualche cambiamento, ridimensionando assennatamente il loro ordine, e portandolo a qualcosa che non li avrebbe spaventati. Spostò anche la consegna alle otto meno un quarto. L’avrebbero ringraziata per questo.
Proseguì. Altri toast e altre uova. Cercò di ricordarsi rultima volta in cui lei era stata in vacanza. Certo che ne era passato di tempo: doveva essere stato prima che i suoi genitori morissero, cosa avvenuta cinque anni prima. È strano quello di cui ti ricordi. Un caffè prediletto, mentre leggi un romanzo da quattro soldi. Qualche ninnolo fortemente desiderato, poi comprato e ora dimenticato in un cassetto. Sesso vacanziero. Ragazzi ora diventati uomini proprio come lei ora era diventata una donna. Chiunque sopra i quaranta la considerasse ancora una ragazzina la prendeva in giro, indipendentemente da quello che potevano sostenere le riviste, che si finanziavano grazie alla pubblicità di creme antirughe.
Sentì una porta che si apriva.
Si voltò. «Burt, sei tu?»
Nessuna risposta. Aveva parlato sottovoce — nessuno desiderava essere svegliato a quell’ora — ma lui l’avrebbe sentita e le avrebbe risposto.
Che fosse un ospite dell’albergo? Aggiunse il menu dei turisti alla pila e tornò indietro da dove era venuta. Quando passò davanti alla porta delle scale, notò che era aperta. Non spalancata, ma socchiusa.
Lei non l’aveva lasciata così, perché bisognava chiuderla, le prescrizioni antincendio erano piuttosto rigide in merito e c’era un cartello che lo diceva in modo inequivocabile. Anche Burt ne era informato. Era un’ora strana per usare le scale, comunque.
Aprì ulteriormente la porta e disse: «C’è qualcuno?»
Le sue parole rimbombarono nella tromba delle scale, ma non sembrarono raggiungere nessuno, né in salita né in discesa. Doveva essere un altro dei suoi rumori inventati. Eccetto che…
Si voltò di scatto.
Naturalmente il corridoio alle sue spalle era vuoto, ma l’impressione era che un secondo prima non fosse stato così.
Era una situazione abbastanza da brividi. Burt non si sarebbe comportato in questo modo e non l’avrebbe fatto neppure un ospite che fosse rimasto in giro fino a tardi.
C’era solo una direzione dove una persona sarebbe potuta andare. Katelyn tornò rapidamente nel foyer passando davanti agli ascensori. Uno sguardo all’indicatore del piano le confermò che si trovavano tutti al pianterreno. Il che lasciava…
Guardò lungo l’altro corridoio.
Vuoto. Un paio di porte che conducevano fuori e tutto silenzioso come doveva essere.
Ma poi sentì un click quasi impercettibile che proveniva dal fondo del corridoio.
Quindi si trattava, probabilmente, di un ospite rientrato molto tardi, che era salito per le scale per motivi suoi ed era entrato in camera. Forse aveva paura dell’ascensore. Tutto qui. Niente di drammatico.
Solo che… c’era qualcosa che non quadrava.
L’ospite sarebbe dovuto passare alle sue spalle — nel qual caso lei avrebbe dovuto accorgersene. Non era strano che non l’avesse salutata, anche se era ubriaco e imbarazzato per farsi trovare in quello stato dal personale?
A meno che la persona non dovesse affatto trovarsi lì.
Sono cose che capitavano: le porte dell’hotel erano aperte tutto il giorno e fino a metà notte. Tu entravi, facevi un cenno confidenziale verso il bancone e nessuno ti creava problemi. Nelle ore pomeridiane e serali giuste potevi tranquillamente infiltrarti in una delle camere.
Katelyn aveva due possibilità: andare al pianoterra, prendere la radio che avrebbe dovuto avere con sé — dannazione — e rintracciare Burt, oppure dare una sveglia all’inutile tizio della sorveglianza che passava la notte nascosto nel seminterrato a masturbarsi. Era meglio Burt perché non l’avrebbe guardata come per domandarle a che scopo faceva il direttore di notte se aveva bisogno che qualcuno le tenesse la mano al buio. Burt non lo avrebbe detto o pensato. Ma chiunque altro sì, se ne avesse avuto notizia.
Il che portava all’opzione due.
Voltò le spalle agli ascensori e cominciò a percorrere il corridoio. Sforzandosi di essere molto tranquilla, professionale e rilassata, ritirò un paio di menu mentre passava. Altre colazioni continentali.
Avvertì alle sue spalle il rumore di uno degli ascensori che si muoveva.
Si fermò e si voltò, sperando che si fermasse a quel piano, che le porte si aprissero e che arrivasse un altro impiegato. Se fosse stato così, avrebbe trovato un pretesto per farsi raggiungere.
Ma le porte non si aprirono. Katelyn scosse la testa, irritata. Questo era il suo hotel. Non si sarebbe fatta spaventare.
Un altro menù, qualche porta senza istruzioni per la colazione, un altro menù. Poi si fermò a metà strada e si voltò.
Strano che la camera 511 non avesse il menù attaccato alla porta, mentre invece aveva il cartello: «Rifare la stanza».
Non aveva senso. Chi lo metterebbe mai prima di andare a letto?
Spinse leggermente la porta, che si aprì di qualche centimetro.
Dentro era tutto buio. Strano anche questo. Naturalmente la porta avrebbe dovuto essere chiusa a chiave, dato che quelle con serratura automatica sono uno standard di sicurezza in un hotel moderno. Per non parlare della serratura a scatto che, almeno, avrebbe dovuto essere chiusa.
Bussò delicatamente. Nessuna risposta.
Non si ricordava se la stanza fosse occupata. Avrebbe dovuto portarsi, oltre alla radio, anche l’elenco degli ospiti. Non ne aveva mai visto il motivo. La gente voleva la colazione oppure no. Cosa doveva fare, svegliarli per sapere se l’avevano dimenticata?
Infilò una mano e azionò l’interruttore della luce. Non accadde nulla. Improvvisamente tutto assumeva contorni più definiti. Certamente c’era un problema con la stanza 511, corto circuito o qualcos’altro. Succedeva. Molto probabilmente il cartellino sulla porta serviva a ricordare a qualcuno di provvedere.
Allora perché non gliel’avevano detto? Questo era esattamente il tipo di problema che doveva esserle comunicato. Se le persone non la prendevano seriamente, come diavolo faceva a svolgere il suo lavoro?
La bocca di Katelyn si strinse in una linea sottile. Non riusciva a sopportare il fatto di non essere presa sul serio.
Spinse ulteriormente la porta e fece un passo nel buio corridoio interno. Rimase ferma in ascolto, ma non riuscì a sentire nulla.
Entrò nella stanza. C’era odore di chiuso. L’aria intorno a lei sembrava sollevarsi e abbassarsi come una marea governata dal respiro di tutti coloro che dormivano intorno a lei. Di norma la luce esterna e l’illuminazione stradale avrebbero rischiarato a sufficienza l’ambiente permettendo di distinguere facilmente le sagome, ma le tende in fondo alla stanza erano chiuse. Riuscì a intuire che il letto era vuoto e intatto, ma poco altro di più.
Cercò a tentoni la scrivania e provò ad accendere la luce.
Anche questa non funzionava. Okay, allora l’impianto elettrico era sicuramente andato a puttane. Katelyn non riusciva a capire come questo fosse potuto accadere solo in un’unica stanza, però…
Improvvisamente la camera apparve ancora più buia e si sentì un leggero click. Lei si voltò. Il rettangolo di luce gialla del corridoio era scomparso.
Sentì qualcosa che poteva essere un rumore di passi sulla moquette. Fece un passo indietro andando a sbattere nello spigolo della scrivania.
«C’è qualcuno?»
Lui non rispose, ma c’era. Uscì fuori dal buio più profondo, con il viso che appariva morbido in quella singolare oscurità.
Katelyn cercò di indietreggiare, senza trovare però un punto dove nascondersi. L’uomo fece un altro passo felpato verso di lei, che colse uno scintillio nella sua mano.
Era sul punto di urlare, ma proprio in quel momento il viso dell’uomo passò attraverso un raggio di luce fioca che filtrava da fuori, una nuvola che spuntava dietro un’altra, più scura. Qualcosa nei tratti del viso la bloccò e rimase a fissarlo.
«No,» disse deciso. «Tu non mi conosci. Nessuno mi conosce.»
E poi fu su di lei, attraverso il tempo, con una rapidità che nulla avrebbe potuto fermare.
Nessuno degli ospiti ricevette le uova o i toast o i fiocchi d’avena in orario il mattino dopo. Ci furono molte lamentele, specialmente provenienti dai due piani più alti, dove i menu erano inspiegabilmente scomparsi. Era già pomeriggio quando un ospite controllò la stanza 511 trovando tutti i menu sparsi sul pavimento di un ambiente altrimenti vuoto e con le luci che non funzionavano.
L’hotel si prodigò per far passare sotto silenzio la sparizione. La polizia interrogò Burt per primo, naturalmente, ma l’uomo era confuso come gli altri e più scosso della maggior parte delle persone. Il suo capo gli piaceva. La notte precedente era stato sul punto di dirle qualcosa quando si erano incontrati all’ascensore. Aveva cercato di dire «Salve» in un modo che fosse un po’ più confidenziale, nel caso lei pensasse che lui stesse sulle sue o qualcosa del genere solo perché lei era il capo o perché era bianca. Ora non c’era più. La maggior parte delle persone sembrava convinta che la donna si fosse imboscata, e che sarebbe tornata entro un paio di giorni con la coda tra le gambe. Un direttore di notte donna significa «nessuno a casa ad aspettarti», così dicevano, e donne come quella erano tutte a un passo dalla clinica o da Prozac Beach.
Burt sapeva che Miss Katelyn non era così, e quando, la notte successiva, le porte dell’ascensore si aprirono e lei non era lì, lui pensò che fosse andata via per sempre, e non in un posto piacevole.
Quando Nina si svegliò poco prima delle cinque, sapeva che non sarebbe più riuscita a riaddormentarsi. Lei e Ward erano rimasti in piedi ancora due ore dopo la telefonata di Monroe, per cercare di comprenderne il significato. Per quel che le era dato di capire, poteva voler dire solo una cosa: in qualche modo, da qualche parte, Zandt era riuscito a pestare pesantemente i piedi a qualcuno vicino agli Uomini di Paglia. Non erano stati in grado di arrivare a lui direttamente, così lo avevano incastrato. Per tutta la notte aveva provato a rintracciarlo, ma il suo cellulare risultava spento.
Ward si era ripreso dalla sbronza e alla fine le aveva dato un suggerimento che lei sentiva di dover prendere in considerazione: era indispensabile che lei parlasse in privato con Monroe per raccontargli alcune cose. Non al telefono, ma a tu per tu. Se intendeva cercare di convincerlo che c’era un gruppo di uomini e donne che operava dietro la facciata di quella che la gente identifica come l’America, che queste persone avevano ucciso e mentito e ora avevano preso di mira il suo ex amante, allora dovevano trovarsi dà soli in una stanza. Probabilmente era un’iniziativa che avrebbe dovuto essere presa tre mesi prima, ma — tormentati dalla paranoia e con diversi morti a carico — nessuno dei due aveva ritenuto giusto farlo.
In quel momento sembrava un errore.
Nina bevve cinque tazze di caffè mentre si concentrava su ciò che avrebbe detto, su quello che poteva essere rivelato dell’accaduto a The Halls senza far sbattere nessuno di loro in galera. Aspettò le sette, quando sapeva che Monroe sarebbe stato sveglio e in piena attività. Se fosse riuscita a raggiungerlo prima che uscisse per andare in ufficio, forse si sarebbero potuti incontrare. Mentre Nina si stava dirigendo verso il telefono, questo squillò.
Era Monroe e chiamava dall’ufficio. Le chiese di incontrarsi lì da lui immediatamente, e dal suo tono non aveva affatto l’aria di qualcuno a cui confidare un segreto.
La stava aspettando all’uscita dell’ascensore del quinto piano. Aveva il viso impietrito.
«Charles,» disse lei rapidamente, «ho bisogno di parlarti.»
Lui scosse la testa bruscamente e si voltò, incamminandosi nel corridoio. Dopo non molto aprì una porta e si fece indietro, aspettandola. Lei coprì la distanza frettolósamente ed entrò.
La stanza 623 è il classico spazio anonimo che esiste in ogni società americana di una certa dimensione. Nel campo del business era come dire «Vedete — possiamo permetterci il meglio dell’arredamento in circolazione. Niente ci fa paura». Cosa questo significasse invece nel campo delle forze dell’ordine, Nina lo ignorava. Al centro della stanza faceva bella mostra di sé un grande tavolo di legno, rifinito con una vernice lucida rossiccia e circondato dalle poltrone più costose e meno usate di tutto l’edificio. Una parete a vetri dava sul parcheggio posteriore; le altre, rivestite di pannelli fino a mezza altezza, per il resto erano nude. Dentro una cornice scadente c’era una foto non recente di qualcuno che riceveva un encomio, e nient’altro.
Un uomo in abito grigio antracite era seduto su una sedia che era stata sistemata in modo che spuntasse dall’angolo superiore sinistro del tavolo. Era di statura superiore alla media e aveva quel tipo di carnagione che su un uomo di una certa età fa pensare a una terapia a base di iniezioni. I suoi capelli erano in ordine e gli occhi blu pallido, spento. Le ciglia erano lunghe. Era senza cravatta e tutti i dettagli della sua camicia facevano chiaramente comprendere perché non ne aveva bisogno. Era sui cinquanta. Sebbene risultasse assemblato tenendo debitamente conto dei canoni estetici convenzionali, Nina lo trovò uno degli uomini meno degni di nota che avesse mai visto. Non c’era nulla che dicesse che non era un agente, ma non lo era. Sicuramente non era l’agente speciale mandato da Portland, che lei aveva già incontrato.
«Buon giorno,» disse Nina tendendo la mano.
Lui non la strinse e non si presentò nemmeno, tanto meno sorrise. Nina tenne la mano in posizione per qualche secondo e poi la lasciò ricadere. Rimase immobile ancora qualche secondo, offrendo a quell’uomo l’opportunità di smetterla di fare lo stronzo. Ma lui non la colse. Nina resse il suo sguardo per quanto necessario e poi lo distolse.
Era in grado di giocare anche lei. «Come vuole,» disse.
«Siediti e stai tranquilla,» sbottò Monroe. «Sei qui per ascoltare. Ti verrà fatta una domanda diretta alla quale ti sarà chiesto di rispondere. Altrimenti cuciti la bocca. Chiaro?»
Fu allora che Nina si rese conto che c’era qualcosa che non andava per il verso giusto. Monroe aveva i suoi difetti. Aveva la tendenza a considerarsi più furbo di quanto non fosse in realtà, e di credere che ai criminali — e agli altri agenti — si potessero applicare le stesse tecniche di gestione delle risorse umane previste per i rappresentanti di commercio, ma era prima di ogni altra cosa un professionista. Tuttavia il tono della sua voce tradiva rabbia e risentimento personale.
La stava ancora fissando. «Hai capito?» «Certo,» rispose lei, allargando le mani. «Che cosa…» «Il caso Sarah Becker,» disse lui e il cuore di Nina sprofondò. Anche se si collegava a quello di cui lei voleva parlargli, questo non era il modo in cui lei contava di affrontare l’argomento. Non di fronte a qualcun altro, e soprattutto non davanti al tizio nell’angolo. Tra parentesi, perché non sedersi da un lato o dall’altro? Quell’uomo aveva fatto di tutto per farsi notare e tuttavia Monroe non l’aveva presentato. Sembrava poco desideroso anche solo di riconoscerne la presenza. Era come se all’estremità del tavolo ci fosse un fantasma che Nina poteva vedere e Monroe no.
«Okay,» disse lei. Monroe aprì il fascicolo che aveva davanti a sé. Nei fogli all’interno c’erano appunti ordinati, ma lui non fece riferimento a essi.
«La famiglia Becker sostiene che la loro figlia è riapparsa sulla soglia di casa,» disse. «Spuntata dal nulla, dopo essere sparita dalla circolazione per una settimana. Dice che la ragazza è stata rilasciata vicino al luogo del rapimento, dalle parti di Santa Monica, e di essere ritornata a casa a piedi. Un vicino è di diverso avviso, e secondo la sua testimonianza la ragazzina è stata riaccompagnata alla porta dei Becker da un uomo e una donna e che una macchina guidata da un terzo individuo li aspettava sull’altro lato della strada. Questo vicino è anziano e di norma non presterei attenzione alla sua testimonianza se non fosse che un’adolescente che risponde alla descrizione e alle condizioni fisiche di Sarah ricevette cure mediche in un ospedale di Salt Lake City la sera precedente. Venne ricoverata contemporaneamente a una donna che aveva una ferita da arma da fuoco nella parte superiore destra del torace. Entrambe le pazienti sparirono alle prime ore del mattino dopo. E tutto questo quasi contemporaneamente al periodo in cui tu hai riportato una ferita analoga, apparentemente in un incidente di caccia nel Montana.»
Nina sentiva un dolore alla testa e il cuore pesante come una pietra. Scosse le spalle, sapendo che non sarebbe stata in grado di dire nulla a Monroe. Né ora, né mai.
«È la segnalazione dell’ospedale a destare il mio interesse,» continuò, «perché tra quel posto e una cittadina chiamata Dyersburg, nel Montana — la città verso cui eri volata solo la notte precedente — si trovava un complesso residenziale chiamato The Halls, ormai ridotto a una buca nel terreno, un fatto su cui tutti, dai poliziotti locali all’NSA, vorrebbero una spiegazione. La polizia è interessata in modo particolare perché si sono ritrovati tra le mani un agente scomparso, un mediatore immobiliare ucciso e altre due morti inspiegabili.»
Nina non disse nulla. Monroe la fissava e così anche l’uomo nell’angolo. La cosa aveva cominciato a farla incazzare definitivamente.
Si voltò verso l’uomo e domandò: «Si può sapere chi è lei, esattamente?»
L’uomo le restituì lo sguardo come se Nina fosse il piano delle ferie di una società per cui lui non lavorava.
Quando lei si voltò, lo sguardo di Monroe era gelido. «Nina, tu credi che io sia uno stupido, vero? È così?»
«No Charles, certo che no,» rispose. «Questa è una storia vecchia. Del ritorno di Sarah Becker non so niente più di te.» Lui rimase in silenzio costringendola a proseguire. «Mi trovavo nel Montana per fare visita a John, come dissi allora e come ho ripetuto numerose volte.»
«Giusto,» disse lui con un tono distrattamente affabile che ebbe il potere di far sentire Nina ancora più sconcertata. Qualcosa nell’improvviso cambio di tono del suo superiore le aveva fatto capire che sotto c’era molto di più di quanto lei avesse creduto e che ora era sul punto di scoprire di cosa si trattasse.»
A quel punto non fu Monroe a parlare, ma l’uomo nell’angolo. La sua voce era asciutta e monotona, vagamente nasale.
«Sta parlando di John Zandt, vero?»
«Sì.» Nina teneva lo sguardo fisso su Monroe, rendendosi sconsolatamente conto che il suo capo poteva essere più astuto di quanto lei credesse. L’aveva servita su un piatto d’argento a quest’uomo, e non appariva a disagio sotto il suo sguardo.
«L’ex detective della Omicidi di Los Angeles ora coinvolto in un assassinio a Portland. La cui figlia venne rapita nel maggio 2000 e non fu mai ritrovata. Che lasciò il servizio attivo e scomparve, prima di riapparire tre mesi fa nei panni, mi sembra di capire, del suo amante.»
«Una situazione non più attuale. Ma in quali termini questo dovrebbe riguardarla?»
La pausa che Nina aveva fatto prima di porre questa domanda doveva servire, teoricamente, a farla sentire più decisa. La cosa non ebbe però molto effetto perché evidentemente la sua voce era diventata inudibile, dato che nessuno dei due uomini aveva ribattuto nulla.
Nina guardò Monroe cercando di mantenere un tono di voce disteso. «È di questo che si tratta? Una bacchettata punitiva in ritardo di tre anni? Tenni informato John sul caso del Ragazzo delle Consegne, una cosa che non avrei dovuto fare. Questo lo sai già. Sai anche che credevo che lui meritasse di sapere quanto avevamo sul caso perché la scomparsa era sua figlia — e perché in precedenza ci aveva aiutato ad arrestare un uomo che uccideva ragazzi di colore, mentre noi brancolavamo nel buio e i media ci prendevano a pesci in faccia dalla mattina alla sera. Tu mi spiegasti come il mio comportamento aveva infranto il protocollo dell’FBI, andando contro le tue idee sulla compartimentalizzazione e da allora non mi hai più trattato nello stesso modo. Ho mandato tutto a puttane. Ho ricevuto il messaggio, ma credevo che ci avessimo messo una pietra sopra. Passiamo oltre.»
Monroe guardò fuori dalla finestra.
«Non siamo qui per passare oltre, Ms. Baynam,» disse l’uomo nell’angolo. «Siamo qui per tornare indietro.»
«Che cazzo sta dicendo?»
«Nina…»
«Vaffanculo Charles. Mi avete stancato. Non so chi diavolo sia questo tizio o perché si senta in diritto di parlarmi in questo modo.»
Monroe mise sul tavolo una borsa dalla quale estrasse un computer portatile. Lo aprì e rivolse lo schermo verso Nina. Né lui né l’uomo nell’angolo fecero alcun tentativo di spostarsi in una posizione che permettesse loro di vedere, e Nina capì che avevano già visionato quello che lei stava per vedere, qualunque cosa fosse.
Lo schermo si illuminò automaticamente, mostrando al centro una finestra di dialogo nera. Monroe premette una combinazione di tasti e la finestra cominciò a mostrare una rapida successione di colori. Ci volle un secondo per capire che si trattava dell’inquadratura di una videocamera, posizionata di fronte a una strada.
La strada rimase vuota per qualche momento, rivelando il retro di una fila di case situate sul lato opposto. Poi l’inquadratura si strinse per mettere a fuoco un particolare. Una casa a due piani, in legno, dipinta in color sabbia con finiture bianche, fatte non di recente. Era ripresa di tre-quarti, e mostrava le finestre sul retro e su un lato, tutte con le tende tirate, e una porta posteriore.
Per alcuni istanti non accadde nulla. Passarono delle macchine, una da destra a sinistra e due in senso opposto. Non si sentiva l’audio, ma Nina non riusciva a capire se questo era perché mancava sul file o se il volume del computer era a zero.
L’inquadratura strinse ulteriormente. Ci volle un secondo per vedere quello che aveva attirato l’attenzione del cameraman: la porta posteriore della casa. Era aperta di qualche centimetro, sufficiente per rivelare l’oscurità all’interno. Si richiuse, per un secondo, e poi si riaprì quel tanto che bastava per permettere che ne uscisse un uomo. Era di altezza leggermente superiore alla media e di spalle larghe. Chiuse la porta e seguì il lato posteriore della casa. Si muoveva in modo tale che un osservatore casuale non avrebbe colto i lineamenti del suo viso e probabilmente non avrebbe nemmeno notato la sua presenza.
Evidentemente, però, il cameramen non era un osservatore di quel tipo, e ingrandì l’inquadratura. Nina si morse il labbro.
L’uomo era John Zandt.
Uscì sulla strada e il video lo seguì fino a una macchina che Nina riconobbe, un’auto che lui non possedeva più, ma che qualche anno prima aveva passato alcuni pomeriggi parcheggiata fuori da casa sua.
Zandt aprì la portiera dal lato del guidatore e, proprio prima che entrasse, il video fece un primo piano del suo viso al di sopra dell’auto. Era pallido e con gli occhi socchiusi. Assomigliava a molti uomini che lei aveva visto in fotografia, mentre camminavano con le mani ammanettate davanti a loro. Non aveva praticamente più nulla in comune con l’uomo che lei per breve tempo aveva creduto di amare.
L’inquadratura del video si allargò lentamente fino a mostrare metà della strada, poi si interruppe bruscamente.
Con il viso studiatamente inespressivo, Nina si appoggiò nuovamente allo schienale. «Da dove arriva questo?»
«Ci è stato trasmesso via e-mail,» disse Monroe. «È arrivato nelle prime ore di questa mattina.»
«Ma che strana coincidenza,» disse lei. «È arrivato giusto dopo il ritrovamento del cadavere a Portland.»
I due uomini la stavano osservando attentamente. Vaffanculo, pensò Nina. Se è questo che volete, cavatevela. «Quindi, qual è il punto?»
«Il nostro punto,» disse il tizio nell’angolo, «è che questo video mostra il suo amico mentre fa visita alla casa di un uomo che è stato interrogato in relazione ai rapimenti del Ragazzo delle Consegne — un’indagine nella quale lei era direttamente coinvolta. Stephen DeLong fu interrogato, fornì un alibi di ferro e venne cancellato dall’inchiesta.»
«Elementi circostanziali provenienti dalla scena permettono di far risalire il filmato al periodo del caso,» disse Monroe.
«Ci avrei scommesso,» disse Nina. «Così come quel bel campo lungo alla fine significa che qualsiasi idiota potrebbe capire dove è stato girato.»
Monroe batté le palpebre. L’uomo nell’angolo la ignorò. «Circa una settimana dopo, i vicini denunciarono un odore insopportabile che proveniva dalla casa che abbiamo appena visto. DeLong fu ritrovato nella sua camera da letto, morto per un’unica ferita di arma da fuoco. C’erano tracce di una ripetuta violenza fisica esercitata sulla sua persona. La casa esibiva un completo repertorio di oggetti per uno spaccio di stupefacenti in piccola scala, il che portò gli agenti a ritenere la morte come il risultato di un affare andato storto. DeLong venne schedato e dimenticato. Nessuno se ne interessò e tantomeno mise in relazione la sua morte con l’indagine in corso.»
«Perché avrebbero dovuto?»
«In quel momento non c’era nessuna ragione. Ma come lei ha visto, c’è una motivazione inequivocabile per farlo ora. Ci serve semplicemente il suo contributo su un dettaglio, Ms. Baynam,» disse l’uomo. «Vorremmo parlare con John Zandt.»
L’uomo si protese in avanti. «Dov’è?»
Un quarto d’ora dopo Nina uscì dall’edificio. Camminava in modo rigido, con il busto eretto e con un passo regolare. Non si voltò per guardare in alto verso la finestra della stanza 623, sebbene sospettasse fortemente che Monroe sarebbe stato lì a osservarla. Se lo avesse visto c’era il rischio che tornasse sui suoi passi, entrasse nell’edificio, corresse su per le scale e tentasse di fargli del male. Lei era forte. Avrebbe anche potuto farcela. Si sarebbe sentita meglio, ma al tempo stesso avrebbe distrutto la propria carriera. In effetti, questo poteva già essere accaduto, ma non sarebbe stata lei a scrivere la parola decisiva.
Invece salì in macchina e uscì dal parcheggio. Si prese tutto il tempo per svoltare a destra e procedette lentamente per un po’ senza una meta definita. Nel giro di una decina di minuti si rese conto, con un misto di rabbia e paura, di essere seguita.
Accostò alla prima cabina telefonica che incontrò. Si diresse verso di essa sentendosi come un’attrice, e fece due telefonate. Quando risposero alla prima chiese un favore, rimase in ascolto mentre qualcuno le spiegava perché non la poteva accontentare, e poi fornì una breve ma convincente ragione per dimostrare il contrario.
Mentre attendeva di prendere la linea per la seconda chiamata, Nina guardò la strada e vide la berlina che la pedinava accostare venti metri più avanti. I casi erano due: o quel tizio era un principiante, oppure gli era stato detto di non nascondersi. Entrambe le opzioni la facevano incazzare.
Dopo circa dieci squilli, risposero.
«Le cose stanno prendendo una brutta piega,» disse a una segreteria telefonica. «Tieniti alla larga e guardati le spalle.»
Riagganciò e si diresse alla macchina. Quando passò accanto alla berlina grigia, si sporse e mostrò il dito medio al guidatore. Lui la guardò impassibile e non la seguì. Mentre si dirigeva verso casa, Nina constatò con sorpresa che gli occhi continuavano a riempirsi di lacrime, ma poi capì che a generarle erano la rabbia e l’offesa subita. La collera era positiva, porta a qualcosa.
«Rimpiangerai di avermi conosciuto, Charles,» mormorò, e si sentì leggermente meglio, anche se non per molto. In quanto agente sospeso dal servizio, con un ex fidanzato indagato per due omicidi e un capo che non credeva più a quello che lei diceva, non era chiaro in che modo Nina potesse far rimpiangere qualcosa a chicchessia.
«Dobbiamo andarcene da qui,» disse Ward.
Stava infilando un computer nella borsa con la quale era arrivato. Era rimasto immobile a guardare mentre Nina urlava per la seconda, e poi la terza volta nella segreteria telefonica di Zandt, prima di toglierle dalle mani il telefono.
«Non importa chi sia il tizio con l’abito scuro,» disse. «È evidente qual è il suo compito. Fa parte della trappola per John, e quell’uomo è abbastanza potente da poter entrare in un ufficio dell’FBI e far sì che il responsabile della sezione faccia quello che lui vuole. Sei sicura che non fosse un pezzo grosso dei federali?»
«Non ne aveva l’aria.»
«Comunque sia, non ha alcuna importanza. Potrebbe far parte degli Uomini di Paglia oppure eseguire i loro ordini. Il che significa che non siamo al sicuro in questa casa o in città.»
«Ma dove possiamo andare?»
«Da qualche altra parte. Parli russo?»
«Ward, dobbiamo trovare John. È molto più in pericolo di noi. Stanno cercando di incastrarlo per qualcosa che non ha fatto.»
«Forse. O forse no.»
«Che vuoi dire?»
«Voglio dire che noi possiamo affermare dove è stato solo in base a quello che ci ha detto lui. Ti dice che è in Florida e lo dice anche a me. Nessuno di noi due ha intenzione di fare una ricerca per rintracciarlo, contattare la compagnia telefonica del suo cellulare e chiedere l’esatta localizzazione della chiamata.»
«Ma perché avrebbe ucciso quel Ferillo?»
«Dici che è impossibile? Eppure ha ucciso l’uomo che pensava avesse rapito sua figlia. E a quei tempi era ancora un poliziotto.»
«Sto solo dicendo che doveva aver avuto un ottimo motivo.»
«Forse. Non lo sapremo fino a quando John non risponderà a una delle nostre chiamate. Nel frattempo, c’è un modo attraverso il quale tu possa entrare in possesso dei tabulati delle sue chiamate dal cellulare? Se riusciamo a localizzare geograficamente i posti da cui ha telefonato saremo in grado di farci un’idea sulla veridicità o meno del suo alibi.»
«Ci sto lavorando su. Mentre venivo qui ho chiamato in ufficio per questo.»
«Bene. Nel frattempo raccogli la tua roba.»
«Ward, non intendo lasciare il mio…»
Lui smise di fare le valigie, si avvicinò a Nina e posò le mani sulle spalle di lei. La guardò negli occhi e la donna si accorse che questa era la distanza minima alla quale si fossero mai trovati. Si rese anche conto che quello era un uomo che aveva passato tre mesi senza una dimora stabile è non per divertimento, ma perché aveva capito che sarebbe arrivato un momento come quello in cui si trovavano.
«Sì invece, Nina,» disse. «Sapevamo che avremmo avuto pochissimo tempo a disposizione prima che arrivassero a noi. Ed eccoci qui. È cominciata.»
Due ore dopo si trovavano sulla 99 e stavano oltrepassando Bakersfield, diretti a nord. Ward andava veloce e non diceva una parola. Il cellulare di Nina squillò e lei si ruppe un’unghia nell’estrarlo dalla borsa. Quando vide il numero sul display imprecò.
Ward la guardò. «È John?»
«No, non riconosco il numero. Potrebbe essere la telefonata che sto aspettando, oppure…»
Premette il pulsante verde e ascoltò la voce di Doug Olbrich, che aveva fatto quanto gli era stato richiesto. Nina gli fece le tre domande che aveva già formulato nella sua testa. Dopo che ebbe udito le risposte interruppe la comunicazione e rimase seduta con la testa tra le mani.
Ward le concesse venti secondi esatti, poi domandò, «Allora?»
Nina non mosse la testa. «Era un tizio che conosco della polizia di Los Angeles. È a capo della task-force che si occupa dell’assassino dell’hard disk.»
«E quindi?»
«Gli ho chiesto di recuperare alcuni rapporti. Ha qualcuno che è molto bravo in questo genere di cose.» Improvvisamente, e senza preavviso, colpì il cruscotto con tutta la sua forza. «Ho mandato all’aria tutto, Ward.»
«Perché?»
«Olbrich è entrato in possesso del dettaglio delle chiamate del cellulare di John. Ha rintracciato la provenienza di alcune telefonate e ha scoperto che tre giorni fa John ha fatto una chiamata a un numero che ho riconosciuto essere quello del tuo cellulare.»
«Sì, bella scoperta. È quando ci siamo messi d’accordo per incontrarci a San Francisco. Quando mi ha detto di trovarsi in Florida.»
Nina annuì, senza aprire bocca. Si guardò le mani, che teneva in grembo. La cuticola sotto l’unghia rotta stava sanguinando.
«Dimmi tutto Nina.»
«John ha mentito,» disse. «Sono almeno sei settimane che non va in Florida. Si trovava a Portland il giorno in cui Ferillo è stato ucciso.»