V

Dapprima i giorni sono felici. Dio è un uomo trasformato, un demone pieno di energia. È pieno di idee e di progetti; lavora senza sosta, compie prodigi. Tutto il continente, tutto il mondo parla del Settore Venti. Dio costruisce le cose perché durino, ma poi, insoddisfatto, distrugge quello che ha costruito e ricomincia daccapo. Per una stagione tutte le strade sono sublimi intarsi di pietra, di incredibile bellezza: poi tutte le decorazioni scompaiono e gli edifici splendono della purezza delle linee classiche; le strade sono piene di luce bianca che emana dalla pietra. Claire aspetta che il ciclo subisca ancora una svolta, ma il lavoro di Dio si fa ancora più massiccio e brutale: la pietra si scurisce. Ora le strade sono strette e piene di ombre: i muri si rivestono di pesante magnificenza. Non costruisce più pozzi ascensionali: per salire negli edifici di Dio bisogna salire delle rampe o addirittura delle scale, o viaggiare in cabine chiuse. La gente mormora, ma lui continua a rappresentare una novità; vengono da tutto il pianeta per protestare, ammirare, lamentarsi: ma continuano a venire.

La figura di Dio si fa più imponente, imperiosa: il mento, le guance, tutti i lineamenti si appesantiscono; la voce diventa profonda e sonora. Quando entra in un luogo pubblico, tutti si voltano: in ogni compagnia è lui ad emergere; quando esplode la sua risata, tutta la tavola ride con lui.

Le donne impazziscono per lui: ubriaco e trionfante, a volte si allontana barcollando con una di loro, sotto lo sguardo di Claire. Ma lei sola conosce la sconfitta, le lacrime e le parole spezzate nelle veglie insonni della notte.

C’è un intervallo in cui il tempo sembra fermarsi nel quale essi sembrano dimenticare ogni ansia ed ogni scopo, come se avessero raggiunto il punto più alto. Poi Dio comincia di nuovo a cambiare, con rapidità sempre maggiore. Sono come i passeggeri di due marciapiedi mobili che per un breve tratto hanno viaggiato affiancati, ma le cui strade cominciano ora a divergere.

Claire si aggrappa a lui disperatamente, con un senso di vertigine. È terrorizzata da quel movimento inesorabile, possente, che la sta allontanando: al pari di lui, si sente trascinata verso una destinazione ignota.

E all’improvviso arrivano i giorni più brutti. Dio sta cambiando sotto i suoi occhi. La pelle diventa flaccida e opaca: il naso diviene ancora più camuso. Lui dedica molto tempo all’esercizio fisico, sotto la guida di Benarra: quando cominciano a spuntare i primi capelli bianchi, lui se li tinge. Ma le rughe intorno alla bocca e agli occhi si fanno più profonde. Le ossa si deformano. Claire non riesce a sopportare la vista delle sue mani, così goffe e rigonfie; riescono a trattenere ciò che afferrano, ma paiono ugualmente annaspare.

Claire è colta da crisi improvvise, e sempre più spesso scoppia in lacrime. È dimagrita, dorme male e ha perso l’appetito. Passa la maggior parte del tempo in biblioteca, studiando quei pensieri alieni che soli le permettono di rimanere in contatto con Dio. Un giorno, uscendo a prendere una boccata d’aria, incontra Katha per strada, e Katha non la riconosce.

Lei si ferma, stupita, e rimane immobile accanto alla balaustra del piccolo ponte di pietra. Le facciate delle case sono come visi spenti che sembrano piangere alla luce plumbea che cade dal soffitto. Sotto di lei, sulla lunga teoria di scale, la piccola testa bruna di Katha ondeggia fra la folla e scompare.

La gente sta diminuendo: in questa stagione non c’è nemmeno la metà della folla che c’era in quella precedente. Quelli che arrivano sono silenziosi ed infelici e non si fermano a lungo. Solo poche miglia più in là, nel Settore Diciannove, è tutto uno sventolio di bandiere, un pulsare di musica; le luci scintillano, la gente ride e si muove rapida. Qui, tutto è grigio. Ogni superficie è arrotondata, come levigata dal mare; qui manca una colonnina, là è caduto un mattone; qui, da una nicchia malandata, spunta una statua deforme che scruta con un malevolo viso di terracotta. Lei rabbrividisce, distoglie lo sguardo e si incammina.

Un suono malinconico si leva dalla strada, riempiendo l’aria. Il silenzio palpita, poi il suono riprende. È il rintocco della grande campana, ovvero l’ultima follia di Dio, l’edificio che lui chiama «cattedrale». È un vasto luogo chiuso, privo di bellezza e di una specifica funzione. Nessuno lo usa, neppure Dio. È uno spazio vuoto in attesa di essere riempito. Ad una delle estremità, su di una piattaforma, ardono alcune candele. Il pavimento di piastrelle è sempre lucido, come se fosse stato appena lavato; le ombre si allungano sulle pareti. I visitatori odono distintamente i loro passi riecheggiare quando camminano; si sentono a disagio e se ne vanno. Senza nessuna ragione, la campana suona ad intervalli regolari.

All’improvviso Claire si trova a pensare alla Baia di Napoli e ai bianchi gabbiani che si librano nel cielo: la freschezza, il forte odore dell’ozono e la luce diafana e accecante.

Mentre si volta per andarsene, vede sotto di sé due figure snelle, mano nella mano: un ragazzo e una ragazza, entrambi con una massa di capelli biondi. Appaiono isolati, e la folla si muove circondandoli lentamente con una progressione di volti che mutano in continuazione. Affiora un’immagine: Claire ricorda un altro pomeriggio, la strada, allora così diversa, e i due bambini con i capelli biondi. Ora essi sono quasi adulti, ancora pochi anni e saranno come tutti gli altri.

Claire prova una fitta al cuore. Pensa: se potessimo avere un bambino…

Guarda verso l’alto, in una sorta di incredula meraviglia per il fatto che al mondo ci sia tanto dolore. Da dove è venuto? Come ha potuto vivere per tanti decenni senza mai conoscerlo?

La luce plumbea ondeggia debolmente ma incessantemente lungo il nudo soffitto di pietra che la sovrasta.

Minuscolo come una formica vista a grande distanza, Dio dondola accanto alla spalla della gigantesca statua scolpita a metà. L’eco del martello giunge fino a Claire e Benarra che sono nel vano della porta.

È una figura femminile, seduta; questo è tutto ciò che ora riescono a distinguere. La testa priva di espressione, piegata verso il basso, sembra meditare: c’è qualcosa di maligno nell’informe curva della schiena e nelle robuste braccia non completamente delineate. Una nuvola di polvere avvolge la minuscola figura di Dio e il suo odore acre riempie l’aria; la polvere bianca ricopre ogni cosa.

— Dio — chiama Claire nel videocitofono. Il rumore distante del martello non accenna ad interrompersi. — Dio.

Dopo un momento, il rumore cessa. Lo schermo si illumina, e appare la faccia di Dio simile ad una maschera bianca. Solo negli occhi scuri c’è vita: essi ardono impazienti. I capelli, le sopracciglia e la barba sono bianche, come se lo scultore stesso fosse diventato di pietra.

— Sì, che c’è?

— Dio… andiamocene via per qualche settimana. Ho un tale desiderio di rivedere Napoli. Sai, sono passati molti anni.

— Vai tu — risponde la faccia. In lontananza vedono la piccola figura nera piegata vicino alla spalla gigantesca che volge loro la schiena. — Io ho troppo da fare.

— Un po’ di riposo ti farebbe bene — intervenne Benarra. — Te lo consiglio, Dio.

— Ho troppo da fare — ripete la faccia. L’immagine scompare, il ritmo lontano del martello riprende. La figura scura è di nuovo confusa nella nuvola di polvere.

Benarra scuote il capo. — Non serve. — Si voltano e si avvicinano alla balconata che si affaccia sullo scuro atrio di ingresso. Benarra dice: — Non volevo dirtelo proprio adesso. I Progettisti chiederanno a Dio di dimettersi dal suo incarico quest’anno.

— Lo temevo — risponde Claire dopo un momento. — Li hai avvertiti di come lui la prenderà?

— Dicono che il Settore diventerà un Luogo Evitato. Hanno ragione: la gente comincia già a sentirsi a disagio. Ancora qualche stagione e cesseranno del tutto di venire.

Claire apre e chiude le mani, irrequieta. — Non potrebbero darlo a lui, per un Progetto, o un museo, magari…? — Si interrompe: Benarra scuote la testa.

— Dovrà affrontarlo — dice — io l’ho previsto.

— Lo so — la voce di lei è piatta, mortificata. — Io lo aiuterò… farò tutto quello che potrò.

— Questo è proprio quello che non voglio che tu faccia — dice Benarra.

Lei si volta, sorpresa. Lui è in piedi, rigido e con lo sguardo severo, contro la ringhiera della balconata, con l’oscuro abisso dell’atrio sotto di sé. — Claire, sei tu che lo stai trattenendo. Si tinge i capelli per te, ma gli basta solo guardarsi quando viene qui nello studio per rendersi conto di come è in realtà. Lui si disprezza… finirà con l’odiarti. Tu devi andartene ora, e lascia che faccia quello che deve.

Per un attimo, lei non riesce a parlare, ha la gola indolenzita. — Che cosa deve fare?

— Deve invecchiare, molto in fretta. Ha cercato di rimandarlo finché ha potuto. — Benarra si volta a guardare l’atrio deserto. In un angolo, il vecchio drappeggio di stoffa è scivolato sul pavimento. — Vai a Napoli o a Timbuk. Non chiamare, non scrivere. Ora non puoi aiutarlo. Deve farlo da solo.


A Giubo acquista un anellino di ferro, molto vecchio, con la forma di un serpente che si morde la coda. È una curiosità, una cosa da studenti: nessuno lo porterebbe e poi è troppo stretto. Ma il freddo tocco di quel piccolo oggetto sul palmo della mano la fa rabbrividire al pensiero di quanto sia vecchio. Mai prima d’ora si era resa conto che l’abisso del passato avesse la forma di un imbuto. Trovarsi di fronte ad una simile estensione di tempo dà una sensazione di precarietà.

Imbarcandosi a Winthur, si fa degli amici. Sulla cima del Monte Bianco, rispetto all’ultima volta c’è un nuovo rifugio, da cui si domina la valle della Dora. Nella tersa aria alpina le cime delle montagne sembrano navi che galleggiano su di un mare di nuvole. La luce del sole è pallida e trasparente: in lontananza riecheggiano le grida degli sciatori.

A Cair incontra un collezionista che possiede una curiosa biblioteca, piena di frammenti e di cose strane che non si trovano comunemente. Ha una bizzarra passione per le cose antiche, alcuni dei suoi libri sono di vera carta e sono rilegati in finta pelle, copie esatte degli originali.

— «Ancora, gli Alfuri di Poso, nell’isola di Celebes» — legge ad alta voce, — «ci raccontano come i primi uomini venissero riforniti di ciò di cui avevano bisogno direttamente dal cielo; il Creatore passava loro i suoi doni per mezzo di una fune. Dapprima legò alla fune un sasso e lo calò sulla terra dal cielo. Ma gli uomini non lo vollero e chiesero timidamente che cosa potessero farsene di una pietra. Il Buon Dio allora calò una banana che loro naturalmente accettarono con gratitudine e mangiarono di gusto. E questa fu la loro rovina. “Poiché avete scelto la banana” disse la divinità, “vi moltiplicherete e perirete come la banana, e i vostri discendenti prenderanno il vostro posto…”» — Lei chiude il libro. — Che cos’era una banana, Alf?

— Un simbolo fallico, mia cara — risponde lui, accarezzandosi la barba con un sorriso.

A Prah si unisce per un breve periodo ad un allegro gruppo di atleti, giocando a seguite-il-capo; sono andati in volo planato da Omsk al Baltico; sono scesi in toboga sullo scivolo del Rose Club da Danz a Warsz, ed hanno proseguito in bicicletta fino a Bucur; sono andati in pallone, si sono lanciati da precipizi, hanno corso a piedi nudi per tutta la notte. Poi li accompagna in montagna; passano la notte in un rifugio, cantando, ed il mattino dopo ripartono, come uno stormo di rondini. Claire è silenziosa, ed ha un’espressione molto seria; l’orda di giovani le passa accanto di corsa, volti allegri, lampi di calore, risa, grida. — Claire, non vieni?… Claire, che cosa c’è?… Claire, vieni con noi, andiamo a Linz a nuoto! — Ma lei non risponde. L’allegra compagnia se ne va in silenzio.

Sul tetto del mondo, la fitta coltre di nubi si sposta con rapidità, bianca contro l’azzurro intenso del cielo. Si muove verso nord; un vento pungente soffia tra i pini, portando un odore di fiordi gelati.

Claire rientra nella sala comune, ormai vuota, del rifugio. I suoi movimenti sono lenti: è stanca di fuggire. Per cinque anni non è mai rimasta nello stesso luogo per più di qualche settimana. Non ha mai guardato un notiziario, non ha mai cercato di mettersi in contatto con i suoi conoscenti nel Settore Venti. Deliberatamente, ha persino evitato di registrare i suoi spostamenti; farsi registrare significa aspettare una chiamata, ed aspettarla significa essere molto vicini a farne una.

Ma a che serve? Dovunque vada, porta con sé la stessa tristezza.

L’indice telefonico si illumina al suo tocco. Lentamente, con dita ormai disabituate, sceglie il settore, il gruppo e il nome: quello di Dio.

Lo schermo pulsa: c’è una lunga attesa. Poi il viso grigio di un autosegretario la informa educatamente: — Il nominativo ha traslocato senza lasciare ulteriori informazioni.

Claire si sente la gola secca. — Quanto tempo fa è cessata la sua registrazione?

— Un momento, prego. — Il viso inespressivo tace. — L’ultima registrazione risale a tre anni fa, il trenta novembre.

— Prova al registro centrale — dice Claire.

— Non è stata registrata nessuna ulteriore informazione.

— Lo so. Prova ugualmente. Prova dappertutto.

— Ci sarà un ritardo per il controllo. — Il volto senza espressione resta muto per un tempo molto lungo. Claire volta il capo, fissando l’arabesco di colori che si muovono lungo i bordi della stanza. — Attenzione, per favore.

Si volta. — Sì?

— Il nominativo non compare in alcun registro di settore.

Per un momento resta intontita e incapace di parlare. Poi con un gesto congeda l’autosegretario e consulta di nuovo l’indice: lo stesso settore, lo stesso gruppo; il nome: Benarra.

Lo schermo si illumina: quel viso che lei ben ricorda è ora davanti a lei. — Claire! Dove sei?

— A Cheky. Ben, ho cercato di chiamare Dio, e mi hanno detto che non era registrato. È forse…?

— No, è ancora vivo, Claire; si è ritirato. Voglio che tu torni qui più presto che vuoi. Prendi uno speciale, la mia associazione pagherà l’extra, se ti trovi a corto.

— No, ho un surplus. Va bene, arrivo.


— Questo l’ha fatto la stagione dopo che te ne sei andata — dice Benarra. Lo schermo a parete si accende: è un’immagine stereo della piazza principale del livello Tre, la sezione del Centro: edifici scuri, privi di decorazioni, come un canyon di rocce. Le strade sono deserte, nessun viso spunta alle finestre.

— Il Giorno del Cambiamento — dice Benarra. — Dio aveva formalmente dato le dimissioni, ma aveva ancora un giorno. Guarda.

Sullo schermo, una delle facciate degli alti edifici all’improvviso ondeggia e si sbriciola sulla cima. Si solleva una cortina di fumo nerastro. Come una pila di gettoni, l’edificio si inclina verso la strada, e si scinde nei mattoni e nelle pietre che lo compongono. Il rombo giunge attenuato alle loro orecchie, mentre anche un altro edificio esplode, e poi un altro ancora.

— L’ha fatto da solo — dice Benarra. — Ha piazzato lui stesso le cariche esplosive, senza dirlo a nessuno. Il consiglio era inorridito. Gli integratori non erano progettati per disfarsi di tutti quei detriti… hanno dovuto essere amorfizzati e pompati all’esterno. Hanno pregato Dio di smettere, e alla fine l’ha fatto. Però ha chiesto in cambio il Livello Uno.

— L’intero livello?

— Sì, gliel’hanno dato. Lui ha fatto notare che non sarebbe stato per molto. Tutte le aree ricreative e così via, lassù, dovevano comunque essere cambiate; il successore di Dio si è limitato a cancellarle dall’integratore.

Ancora lei non capisce. — Senza lasciare altro che la nuda terra?

— Lui voleva così. Ha preso dei semi dai collezionisti e li ha piantati. Sono andato su molto spesso. Lui coltiva davvero il grano e lo macina per fare il pane.

Sullo schermo, il canyon di strade è diventato un lago di polvere. Benarra sfiora un pulsante: la scena cambia.

Il cielo è di un azzurro luminoso: la terra del livello è nuda. Si scorge un unico piccolo edificio, rigido e spoglio; dietro di esso vi sono alcuni alberi e la luce del tramonto risplende sui campi divisi in filari paralleli. Una figura scura è in piedi immobile a fianco della casa: dapprima Claire non la riconosce come un essere umano. Poi questa si muove, volta il capo. Lei sussurra: — Quello è Dio?

— Sì.

Claire non sa reprimere un gemito di dolore. La figura è troppo piccola per poter distinguere i particolari del corpo, ma qualcosa nelle sue proporzioni le riporta alla mente una delle grottesche statue di Dio, ossute, e assurdamente ingobbite e contratte. La figura si volge e si incammina con passo rigido verso la capanna. Entra e scompare.

Si rivolge a Benarra: — Perché non me l’hai detto?

— Non hai lasciato messaggi, non sapevo come raggiungerti.

— Lo so, ma avresti dovuto dirmelo; io non sapevo…

— Claire, che cosa provi per lui, ora? Amore?

— Non so. Una grande compassione, credo. Ma forse nella compassione c’è anche dell’amore. Ho pietà di lui perché una volta l’ho amato. Ma credo che tanta pietà sia amore, vero, Ben?

— Non quel tipo di amore che tu ed io conoscevamo — dice Benarra tenendo gli occhi sullo schermo.


Lui la stava aspettando quando lei uscì dalla cabina.

Il suo viso non aveva nulla di umano. Era come il viso di una tartaruga o di una lucertola: calloso e terreo, con gli occhi brillanti che scrutavano da sotto le sopracciglia sporgenti. Le guance erano incavate, il naso sporgente e le labbra rigonfie sui denti ossuti. I capelli erano bianchi e radi, come lanugine illuminata dal sole.

Insieme erano come estranei, o come visitatori provenienti da pianeti diversi. Lui le mostrò i suoi campi di grano, il pollaio, i nuovi alberi da frutta. Tra i rami svolazzavano e cinguettavano gli uccelli. Dio indossava un abito di rozza fattura che gli pendeva goffamente dalle spalle magre. L’aveva fatto lui, le disse; e aveva fatto anche la brocca di coccio da cui le versò un vino aspro e limpido, fatto con la sua uva. L’interno della capanna era spoglio e lindo. — Naturalmente, Ben mi fornisce provviste di cibo e altre cose come aghi e filo. Non posso fare tutto, ma nel complesso, non me la sono cavata troppo male. — La sua voce era distante; sembrava solo parzialmente conscio della presenza di Claire.

Sedettero fianco a fianco sulla panca di legno all’esterno della capanna. La luce pomeridiana indugiava sulle beole; quel viso imbiancato si animò, e per la prima volta lei fu in grado di scorgere in quella faccia i lineamenti di Dio.

— Non dico di non essere amareggiato. Tu ricordi come ero e vedi come sono adesso. — I suoi occhi si fecero meditabondi, le labbra fremettero. — Qualche volta penso: ma perché è toccata proprio a me? Tutti voi continuerete ad andare avanti, come bambini ad una festa, ed io non ci sarò più. Ma ho scoperto una cosa, Claire. Non so se posso dirtela.

Si interruppe e volse lo sguardo verso i campi. — C’è in questo una sorta di attrazione, di bellezza. Sembra impossibile, ma è vero. Bellezza in ciò che è brutto. È simmetrico, ha un ritmo. Il sole sorge, il sole tramonta. Vivendo quassù lo senti di più. Forse è per questo che siamo andati sottoterra.

Si voltò a guardarla. — No, non riesco a farti comprendere. E neppure voglio che tu pensi che ho deciso di arrendermi. A volte, nel mezzo della notte, la sento arrivare. Qualcosa che sale all’orizzonte. Qualcosa… — fece un gesto. — Una sensazione. Qualcosa di enorme e freddo. Molto freddo. E allora mi siedo sul letto e grido «Non sono ancora pronto». No, non voglio andarmene. Forse, se fossi cresciuto dovendomi abituare all’idea, ora sarebbe più facile. È un grosso cambiamento che devi operare nel modo di pensare. Ci ho provato… tutto questo… e le sculture, ti ricordi, ma non ci sono riuscito. Eppure, ora… la cosa strana è questa. Non tornerei indietro. Capisci, voglio essere me stesso; sì, voglio continuare ad essere me stesso. Quegli altri uomini non erano me, soltanto qualcuno sulla strada per diventare me.

Tornarono insieme alla cabina. Sulla porta, lei si voltò per guardarlo un’ultima volta. Lui era in piedi, curvo ma risoluto, con i suoi stracci e i suoi capelli bianchi, stagliato contro una striscia di cielo viola. La luce morente brillava grigia sui campi; più lontano nel boschetto di alberi, le voci degli uccelli tacevano. Una stella solitaria brillava ad est.

All’improvviso si rese conto che lasciarlo sarebbe stato intollerabile. Uscì dalla cabina e lo abbracciò: il suo corpo era incredibilmente magro e fragile nelle sue braccia. — Dio, non dobbiamo separarci, ora. Lascia che io venga a stare nella tua capanna: restiamo insieme.

Gentilmente, lui si sciolse dall’abbraccio e fece un passo indietro. I suoi occhi brillavano nella luce del crepuscolo. — No, no — disse. — Non andrebbe bene, Claire. Tesoro, io ti amo per averlo detto, ma vedi… vedi, tu sei una dea. Una dea immortale… e io sono un uomo.

Lei vide le labbra che si muovevano, come se stesse per parlare ancora e attese, ma lui si voltò senza un gesto o una parola e si incamminò sulla terra spoglia: una figura scura, lunga e sottile, con gli indumenti che sbattevano dolcemente alla brezza che spirava sulla terra. L’ultima luce brillava debolmente fra i suoi capelli bianchi. Poi fu solo un punto in lontananza. Claire rientrò nella cabina e la porta si richiuse.

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