IV

Sotto la lastra di pietra scorrevole, Dio siede al suo banco di lavoro. La stanza è la stessa di sempre, l’unico cambiamento visibile è la statua che ora sporge da una parete, nell’angolo sopra la lastra di pietra: rappresenta un uomo con il capo reclinato, le gambe accavallate, e l’espressione pensosa. La figura è imponente, ma da essa emana una sottile sensazione di decadenza: i muscoli gonfi sembrano sul punto di afflosciarsi, il viso, anche se in ombra, ha un aspetto deforme, malsano. Lunga dodici metri, e posta di traverso nell’angolo, la statua ha un fascino primitivo, accattivante: è supremamente brutta, ma Claire è incapace di distogliere lo sguardo.

Un movimento attira la sua attenzione. Dio si è alzato e la attende accanto al banco di lavoro. Lei avanza esitante: il viso della statua è in ombra, ma non quello di Dio e lei teme quello che potrà scorgervi.

Lui le prende una mano fra le sue: il suo tocco è caldo e piacevole, ma sembra trasmettere qualcosa di simile ad una scossa elettrica, e la fa trasalire.

— Claire… che bello vederti. Ecco, siediti, fatti guardare. — La sua voce è sonora, sicura di sé, anche un pochino arrogante. Gli occhi sono attenti e di una vivacità inquietante. Parla, si muove, e si comporta con un’aria di eccitazione repressa. Lei si sente sollevata e tuttavia, paradossalmente, un po’ allarmata: non c’è nulla di realmente cambiato nel viso di lui: la pelle è sana e luminosa, le labbra ferme. Eppure, ogni tratto, ogni fattezza di quel volto sembra nascondere qualche spiacevole sorpresa: è come guardare una maschera che può cadere all’improvviso.

Nella sua eccitazione, lei ride, mormora parole senza assolutamente rendersi conto di ciò che dice. Lui si siede sull’angolo della scrivania, di fronte a lei, con un’aria di imperiosa sicurezza.

— Stavo elaborando dei progetti per il prossimo anno. Ho alcune idee… qualcosa che la gente non si aspetterà mai. — Ride, abbassando lo sguardo; il banco di lavoro è coperto di piccole scatole trasparenti piene di linee ombreggiate e di colori. Gli strumenti sono sparsi in disordine, pennini, siringhe, compassi. — A proposito, cosa ne pensi di quella? — Indica dietro di sé, verso la statua.

— È molto insolita… tua?

— Una copia, ricavata da stereografie, l’originale era di Michelangelo, si chiamava La sera. Ma la copia l’ho fatta io.

Lei solleva un sopracciglio, con aria interrogativa.

— Voglio dire che non l’ho fatta con una macchina, ma con martello e scalpello, lavorando la pietra con queste mani, Claire. — Le stesse, forti e callose, che ora protende verso di lei. Claire si rende conto che erano quei cuscinetti di pelle indurita che le avevano dato quella strana sensazione di calore.

Lui ride di nuovo. — È stata un’esperienza. Per prima cosa ho scoperto che cos’è la struttura della pietra. Vedi, quando una macchina fonde una statua, non esiste struttura, perché per una macchina il granito è molle come il formaggio. Ma quando scolpisci, la pietra resiste. Possiede un carattere, può essere ostinata o evasiva… può scagliarti in faccia dei frammenti, o farti scivolare di lato lo scalpello. La pietra combatte. — Stringe le mani e ride di nuovo, di quel riso strano ed esuberante.


Più tardi quella sera nel suo appartamento, Claire si sente confusa e sopraffatta da emozioni contrastanti. La giornata trascorsa con Dio non è stata affatto come se l’aspettava. Neppure una volta le ha suscitato compassione: è come un uomo in cui arde una fiamma. Camminando con lei per le strade, le ha mostrato il Settore come lui lo immagina: una visione arcaica di edifici fatti per durare, non per mutare; di mattoni posati con cura, di legni intagliati e lucidati a mano. È una visione terrificante, ma lei non sa spiegarsi il perché. La gente rimane, tutto il resto passa…

Nelle stanze ampie e fresche soffia una brezza leggera. Le luci si attenuano attorno al suo letto, invitandola al sonno. Claire vaga senza scopo nelle altre stanze, lasciando cadere a terra l’abito, conscia di una languida rigidezza nelle membra. La bocca è indolenzita per i baci, la sua carne ricorda il tocco di quelle mani strane. Una deliziosa stanchezza la pervade; si trova a fluttuare al culmine estatico dell’amore, senza recriminazioni e senza domande.

Eppure vaga irrequieta per le stanze, evocando uno scroscio di musica e di colori dalla parete: che subito svanisce in un silenzio pieno di echi. Si ferma davanti alla porta della stanza da gioco e guarda giù, nelle oscure profondità del pozzo di caduta. La caduta è un lusso, come il bagno nell’acqua o nelle fiamme. In essa vi è la dolcezza sottile del pericolo, anche se il pericolo non è reale. Sorridendo, respira profondamente, resta immobile e poi fa un passo nel vuoto. Intorno a lei, le pareti grige scorrono veloci verso l’alto: con uno sforzo di volontà, trattiene l’impulso di forza che la terrebbe sospesa a mezz’aria. Il pavimento si avvicina precipitosamente, lo sforzo aumenta in modo intollerabile: all’ultimo istante cessa di reprimerlo e l’impulso la mantiene a galla in un breve attimo di gioia parossistica. Si ferma a pochi centimetri dalla dura pietra. Con gli occhi chiusi e l’aria sognante, lei risale lentamente verso la cima. Distende i muscoli: ora riuscirà a dormire.

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