Gli anni scivolano via come pagine strappate da un vecchio diario. Claire è a Stambul, Winthur, Kumoto, BahiBlanc… in altre località, troppe per ricordarle tutte. Ci sono le gare intercontinentali, che si svolgono ogni secolo sul campo barocco a forma di ruota di Campan: Claire è tra gli spettatori sospesi sulle nuvole a seguire i propri beniamini. C’è una relazione sentimentale, breve ma intensa: dura quattro o cinque anni, il nome dell’uomo è Nord e se n’è andato a Deya con un’altra donna; per circa un mese Claire è inconsolabile. Ma poi arriva la stagione operistica a Milano e poco dopo, a Tusca, incontra persone affascinanti che stanno per trascorrere un anno a Papeete…
La vita è bella. Ogni mattino si sveglia ritemprata, si riempie i polmoni di quell’aria pura e frizzante, e sente il sangue formicolare fin sulla punta delle dita.
In un mattino di primavera si sta crogiolando in una bolla di vetro verde, immersa per tre quarti in un oceano verde smeraldo. Le onde spumeggianti del mare si infrangono sul disco luminoso del sole in superficie. Più in basso, dove si trova lei, le verdi e gelide profondità sembrano foglie di menta addentate dal biancore accecante del sole. Minuscoli pesci piatti e dorati sciamano intorno alla bolla, si agitano, luccicando come monetine, e poi scivolano via. L’unità di memoria vicino al pavimento sta riversando in sordina un tempestoso brano di Wagner; ascoltando distrattamente, sente una musica familiare mista ad un borbottio di sillabe straniere. Il suo compagno, con la massiccia testa bronzea quasi all’altezza degli altoparlanti, ascolta attentamente. Claire prova un po’ di irritazione; lo sfiora con il piede nudo: — Ross, spegni quella cosa terribile, ti spiace?
Lui alza lo sguardo, il viso ottuso ha un’espressione addolorata: — È L’oro del Reno.
— Sì, lo so, ma non capisco una parola. Sembra che si stiano schiarendo la gola… grazie.
Un cenno agli altoparlanti e il coro gutturale cessa. — Miliardi di persone parlavano quella lingua, una volta — dice con aria funesta. Ross è un’artista, il che fa di lui quasi un giocatore, in effetti, ma ha l’insopprimibile abitudine degli studenti di uscirsene con queste informazioni in pillole da somministrare a chi gli sta intorno.
— E io non ne sopporto nemmeno quattro — ribatte lei pigramente. — Comunque, io ascolto l’opera solo per la musica, le vicende sono sempre tanto stupide. Mi domando perché.
Vede quasi la risposta erudita che affiora sulle sue labbra; ma educatamente lui la reprime — sa che lei non si aspetta davvero una risposta — e ritorna ad occuparsi del visore. Al tocco delle sue dita si illumina, mostrando un abisso verde che tremola debolmente con gli ultimi bagliori del sole.
— Vai giù ora? — chiede lei.
— Sì, voglio prendere quei coralli. — Ross è uno scultore, non bravissimo, fortunatamente, e nemmeno molto assiduo, altrimenti sarebbe un compagno impossibile. Ha uno studio nel Mediterraneo, a dieci braccia di profondità, e trascorre parte del suo tempo a creare minacciosi grovigli di creature sottomarine stilizzate. Dopo aver usato il visore, aziona i comandi e la bolla si inabissa. Le onde si richiudono sopra di essa sollevando piccoli spruzzi. Poi il cerchio di luce passa dal giallo al verdognolo, fino ad un verde cupo.
Sotto di loro c’è ora la barriera corallina, acri ed acri di lunghe dita, nude e scheletriche, variamente intrecciate. Pochi pesciolini dai colori accesi nuotano tra i rami pallidi. Di nuovo Ross prende i comandi: la bolla ondeggia e si ferma. Per un attimo guarda in basso attraverso il vetro, poi si alza per aprire il portello interno a tenuta stagna. Respirando profondamente e con espressione assorta, entra e chiude dietro di sé la porta trasparente. Claire vede l’acqua che gli sale alle caviglie. Aumenta rapidamente fino a riempire la camera stagna; quando gli arriva al petto, Ross apre il portello esterno e si tuffa in una nuvola di bollicine d’aria.
È una sagoma di colore giallo che si agita nell’acqua verde; dopo qualche istante è quasi completamente offuscata da nuvole di sedimenti. Claire osserva, vagamente turbata; i coralli più grandi sembrano ossa imbiancate.
Programma l’unità di memoria sui Pezzi Marini dal Peter Grimes senza sapere perché; è la musica di un freddo oceano del nord, assolutamente inappropriata. Il richiamo freddo e lontano dei gabbiani la fa rabbrividire di tristezza, ma continua ad ascoltare.
Ross diventa sempre più confuso e distante nell’acqua torbida. Alla fine è solo un lampo, un movimento indistinto giù nella verde valle oscura. Dopo molto tempo lo vede ritornare, con due o tre coralli rosa tra le mani.
Assorta nella musica, ha lasciato che la bolla andasse alla deriva, e il portello è ora quasi bloccato dai coralli; Ross si insinua fra di essi, facendo leva contro un gruppo di rocce, ma dopo un momento appare in difficoltà. Claire si mette ai comandi e fa retrocedere la bolla di un metro. La via è libera ora, ma Ross non si sposta.
Attraverso il vetro lo vede piegarsi, lasciando cadere i coralli. Appoggia saldamente le mani e si tende, gonfiando i muscoli poderosi delle gambe e della schiena. Dopo un momento si raddrizza, scuotendo la testa. Lei si rende conto che ha un piede incastrato in una fenditura della roccia. Le rivolge una smorfia piena di dolore e si porta una mano alla gola. È fuori ormai da molto.
Forse lei lo può aiutare, in quei pochi secondi che restano. Si precipita nella camera stagna e la allaga rapidamente. Ma un attimo prima che l’acqua la sommerga, vede il corpo di Ross irrigidirsi.
Ora, con gli occhi aperti sott’acqua, in quella strana luce confusa, vede il suo volto gonfio contorcersi dal dolore. E in quell’istante il suo viso diviene quello di un altro, quello di Dio, sovrapposto all’immagine vivida e spettrale della smorfia di morte del topo. La visione la coglie di sorpresa e poi scompare.
All’esterno della bolla, le mascelle rigide di Ross si aprono, e poi pendono inerti. Vede la pallida gelatina che affiora lentamente sulle labbra; ora galleggia leggero, con gli occhi riversi e le membra rilassate.
Sconvolta, svuota la camera stagna, rientra e chiama il controllo di Antibe perché mandi una barca di salvataggio. Poi rimane in attesa, evitando accuratamente di guardare il corpo immobile.
Emozioni incontrollabili la sorprendono e la spaventano al tempo stesso. Non hanno niente a che fare con Ross, e Claire lo sa: lui è assolutamente al sicuro. Quando ha cominciato a respirare acqua, il suo corpo ha reagito automaticamente: i polmoni hanno espulso la gelatina protettiva, lui ha perso conoscenza e il cuore ha cessato di battere. Il controllo di Antibe arriverà in meno di venti minuti, ma Ross potrebbe restare così anche per anni, se fosse necessario. Appena uscirà dall’acqua, i polmoni cominceranno a riassorbire la gelatina: quando saranno liberi, la respirazione e il battito cardiaco riprenderanno.
È come se Ross avesse solo recitato una parte, stilizzando e dando un significato ad ogni movimento. In quel momento di dolore, nella mente di Claire una barriera è crollata ed ora vi è un’apertura.
Ha un moto d’impazienza, non è abituata ad essere tiranneggiata in quel modo. Ma le braccia ricadono, inerti; la perversa attrazione esercitata da quell’apertura è troppo forte. Dio, grida silenziosa la sua mente, Dio.
Il progettista del Settore Venti, nel periodo in cui lei è stata lontana, ha cambiato il disegno delle strade «per creare l’effetto di superficie». Il soffitto di ogni livello è uno schermo che riflette fedelmente la vista che si gode in superficie e, attraverso giochi di luce ed altri trucchi ingegnosi, il clima viene riprodotto anche sotto terra. Ora è una fredda e cupa giornata di novembre, segnata da una pioggia grigia e sferzante: sollevando lo sguardo si vede la distesa interminabile del cielo color piombo; e anche se l’aria è piacevolmente calda, come sempre, le grandi lastre nude delle facciate degli edifici sono diventate di un azzurro grigiastro per armonizzarsi con il paesaggio, minuscoli rivoletti argentati scorrono zigzagando verso il basso, scomparendo prima di toccare il marciapiede.
A Claire non piace: non le sembra opera di Dio. La folla ha un’aria nervosa, strana, quasi risentita: guardano in alto e ridono, ma a disagio, e le aree ricreative sono piene di gente che si accalca sotto la vivida luce gialla. Claire si stringe al collo il mantello di metallo; pensa malinconicamente al mutare delle stagioni, e alla terra che diventa fredda e dura come l’acciaio, agli alberi spogli e neri contro il cielo ostile. Sottoterra, questo è il momento per cieli azzurri, corpi accaldati e risa gioiose, e non per questo grigiore opprimente.
Nelle sue stanze vi è un colore vivace. È stanca e sudata per il viaggio, adesso non vuole nessuno. Ha ordinato alcuni abiti e mentre aspetta che le vengano consegnati, accende il bagno di fiamma nell’angolo della camera da letto. Si alzano improvvisamente con un boato sottili lingue di fuoco, incappucciate di nero, e poi si acquietano formando una sibilante cortina tra il giallo e il bianco. Claire si avvolge la testa in un velo isolante e senza neppure togliersi i vestiti, entra nel fuoco.
Le fiamme circondano il corpo, fredde e carezzevoli: il fragile abito si incendia e scompare in un mormorio di scintille. Lei si volta allargando le braccia e pronta ad accogliere la vampata. Depilata, rinfrescata, esce dal bagno. Sente un formicolio in tutto il corpo, rinvigorito dalle fiamme. Delicatamente stacca qualche frammento di pelle bruciata: il suo nuovo corpo ha un bel colorito brillante, che lentamente assume una sfumatura rosa-avorio.
Riflessi nello specchio della parete, gli occhi scintillano, le labbra sono rosse e morbide, tenere e scure come la cera scarlatta che cola da una candela accesa.
Prova una sorta di indifferenza, e si lascia cullare dalla marea. Sensibile al suo umore, il soffitto argentato lascia affiorare striature color rosso sangue, che guizzano e si intrecciano, facendo scaturire barbagli di luce dallo zoccolo di bronzo e dai merletti di cristallo intagliato dei mobili. Con una improvvisa risata esultante, Claire si lascia cadere sul grande letto giallo e si rotola mentre le preziose lenzuola di seta danno una sensazione di freschezza alla pelle; poi l’esultanza scompare, il soffitto ritorna grigio, e lei si solleva a sedere con un mormorio di impazienza.
Che cosa c’è che non va in lei? Cominciando già a rimpiangere il calore estivo del Mediterraneo, si avvicina alla tavola su cui giace il biglietto di Dio. È la sua risposta ai messaggi formali che lei ha inviato durante la sua assenza; dice semplicemente:
IL PROGETTISTA DIO
SARÀ IN CASA
Dallo scivolo delle consegne proviene un suono attutito e ne escono tessuti color giallo canarino, porpora, blu notte. Claire sceglie il vestito blu, qualunque altra cosa non sarebbe in armonia con la giornata; è un abito trasparente, ma ha le maniche lunghe. E decide di indossarlo senza anelli o collane, solo con un diadema di acquemarine dalla sfumatura intensa intrecciato nei capelli.
Nota appena la nuova facciata dell’edificio; ora il pozzo dell’ascensore è scuro e imbottito, con un’interminabile fila di sedili che salgono lentamente, vuoti o occupati, simili ad una sconnessa rampa di scale. L’anticamera compare lentamente ed è sorpresa di ritrovarsi in quel luogo.
È rimasto lo stesso; lo stesso marmo venato d’azzurro, la stessa scultura mobile che ruota lentamente, la stessa porta ad arco.
Claire esita, turbata e dispiaciuta. Cerca di convincersi che si è sbagliata: nessuno schema decorativo resta uguale per più di un anno. E invece eccolo qui, immutato, come se il tempo bizzarramente si fosse fermato in questa stanza nel momento stesso in cui l’aveva lasciata: come se lei fosse ritornata, non solo con lo stesso proposito, ma anche nello stesso istante.
Con riluttanza, attraversa la stanza. La superficie scura della porta ha l’aspetto di una trappola pronta ad inghiottirla.
E se lei non se ne fosse mai andata?… che cosa sarebbe successo? Qualunque fosse il segreto di Dio, ha avuto dieci anni per svilupparsi, qui, dietro questa porta immutata. Là, vi è un’oscurità che attende proprio lei.
Con un brivido di repulsione quasi fisica, sale sulla pedana del videocitofono.
Lo schermo si illumina. Dopo un attimo appare un volto. Non la sorprende vedere che si tratta dell’uomo magro, di quello stesso che…
Lui la fissa con attenzione. Lei non riesce a scacciare dalla mente l’immagine del topo e della tenebrosa figura che lotta nel vano della porta. Dice: — Dio è… — si interrompe, non sapendo più che cosa dire.
— A casa? — conclude per lei l’uomo magro. — Sì, certo. Entra.
La porta scivola di iato. Mentre sta per entrare, lei esita ancora, di nuovo turbata dal fatto che anche nella prima stanza non vi sia nulla di cambiato. L’arabesco disegnato dagli schermi mostra ora una teoria di strade grigie, e quella è l’unica differenza: come se da questo luogo segreto e tranquillo, dove il tempo non ha alcun significato, lei stesse osservando un mondo remoto dove invece il tempo significa ancora qualcosa.
L’uomo magro compare sulla porta, vestito di nero. — Mi chiamo Benarra — dice sorridendo. — Prego, entra; non far caso a tutto questo, ti ci abituerai.
— Dov’è Dio?
— Qui vicino… ma abbiamo stabilito una regola — dice l’uomo magro, — e cioè, solo agli studenti è permesso di incontrare Dio. Ti spiace?
Lei lo guarda indignata. — È uno scherzo? Dio mi ha mandato un messaggio… — esita: per la verità il messaggio era piuttosto generico.
— Puoi diventare uno studente con molta facilità — dice Benarra. — Puoi almeno cominciare, e per oggi sarà sufficiente. — Rimane in attesa con espressione amichevole; sembra assolutamente serio.
Lei è incerta tra la resa e la meraviglia. — Io non… che cosa vuoi che faccia?
— Vieni a vedere. — Attraversa la stanza, e apre una porticina. Dopo un momento lei lo segue.
Viene condotta lungo uno stretto passaggio buio e lievemente inclinato. — Adesso vivo al piano di sotto — le spiega, voltandosi a guardarla, — per tenermi alla larga da Dio. — Il passaggio sbuca in un’anticamera illuminata, e di qui lui la conduce in una zona in penombra.
— Qui comincia la tua istruzione — dice. Su entrambi i lati sono allineate alcune nicchie illuminate. In quella più vicina e più luminosa, si trova un curioso gruppo di esseri, né uomini né scimmie: la pelle è scura, di una lucentezza bluastra, gli occhi minuscoli scrutano verso l’alto da sotto le sopracciglia sporgenti, i capelli sono di un nero polveroso. Le membra hanno giunture nodose, simili a ramoscelli, le costole sono sporgenti, il ventre ampio e liscio. La testa del più alto le arriva ai fianchi. Dietro di loro si intravede il sole tropicale, una massa conica di quella che sembra materia vegetale essiccata, e sullo sfondo alberi e animali con le corna.
— Esseri umani — dice Benarra.
Lei gli rivolge uno sguardo incredulo, quasi offeso. — Oh, no!
— Sì, invece. Estinti da parecchie migliaia di anni. Ecco, altri esemplari.
Nella nicchia successiva, le figure hanno sempre la pelle scura, ma sono più alte, e le arrivano alle spalle. I seni delle donne sono sacche di pelle vuote che arrivano fino alla vita. Claire fa una smorfia. — Che cos’hanno?
— Una diversa concezione della bellezza. Era una scelta deliberata. La donna creava se stessa. Dimmi che cosa ne pensi del prossimo.
Lei perde il conto. Ci sono uomini con la pelle color rame, con la pelle bianca, oppure giallastra, alcuni seminudi, altri con abiti elaborati di metallo e stoffa. Muovendosi tra di loro, Claire si sente ingigantita, come una femmina di animale tra la sua progenie: ha un improvviso lampo di assurda e degradante tenerezza. Eppure quei visi rugosi, da gnomi, sembrano possedere una saggezza tenace ed antica che si riversa su di lei con un grido silenzioso: ultima arrivata!
— Che ne è stato di loro?
— Sono morti — dice Benarra. — Tutti.
Ignorando il suo sguardo turbato, la porta fuori dal salone. Dietro di loro le luci si affievoliscono e scompaiono.
La stanza in cui entrano è piccola e fredda, non troppo illuminata e poco arredata, solo un tavolo, una sedia e una poltrona per i visitatori, sulla quale lui la prega di accomodarsi. Il soffitto a volta, proprio sulle loro teste, è solcato da cerchi trasparenti, ognuno dei quali brilla secondo varie combinazioni di forme azzurre e rosse contro uno sfondo incolore.
— È difficile accettarli, lo so — dice Benarra. — Forse tu pensi che siano dei falsi.
— No. — Nessuno sarebbe stato in grado di immaginare quei visi fieri e saggi; da qualche parte, in qualche epoca, devono essere esistiti.
Un nuovo pensiero la colpisce. — E i nostri antenati… com’erano?
Lo sguardo di Benarra è distante e pensoso. — Claire, sarà difficile per te crederlo. Quelli erano i nostri antenati.
Lei lo guarda, incredula. — Quelle… assurdità?
— Sì, tutti.
Tace, per un momento. — Ma hai detto che sono morti.
— Infatti, sono morti. Claire, pensi che la nostra razza sia sempre stata immortale?
— Perché… — s’interrompe, arrabbiata e confusa.
— No, impossibile. Perché se fossimo sempre stati immortali, dove sarebbero tutti i vecchi? Al mondo non c’è nessuno che abbia, forse, più di duemila anni. Non è molto… a che cosa stai pensando?
Lei alza lo sguardo, cercando di concentrarsi. — Stai dicendo che è successo. Ma come?
— Non è successo. L’abbiamo fatto noi. Noi abbiamo creato noi stessi. — Appoggiandosi allo schienale, indica le trasparenze sopra di loro. — Sai che cosa sono?
— No, non ho mai visto nessun disegno simile. Sarebbero dei graziosi disegni per un tessuto.
Lui sorride. — Sì, suppongo che siano molto graziosi, ma non è a quello che servono. Sono delle fotografie ingrandite di minuscoli esseri viventi… troppo piccoli per poterli vedere. Entravano nel sangue della gente e la facevano morire. Quella è la peste bubbonica… — puntini azzurri e porpora alternati a dischi rosa più larghi; — quello è il tetano… — bastoncini blu e puntini rossi; — quella è la lebbra… — losanghe azzurre con puntolini più scuri ed una ombreggiatura rossa sullo sfondo. — Quella cosa che assomiglia un po’ alla coda di un pavone è un fungo parassita chiamato streptothryx actinomyces. Quello… — un delicatissimo disegno azzurro chiaro con accenti più scuri… — appartiene ad un edema maligno con cancrena gassosa.
Le parole non hanno per lei alcun significato, ma le richiamano alla mente vaghe immagini ancor più spaventose, proprio perché non hanno contorni definiti. Pensa di nuovo al topo e al viso di un uomo che in qualche modo assume la stessa rigidità, quell’immobilità… congelato in uno schema luminoso, come i punti colorati sulla parete…
È risoluta a non mostrare la propria repulsione. — Che cosa è successo a queste cose? — chiede con una voce che non tradisce esitazione.
— Nulla. I Progettisti li hanno abbandonati, ma hanno cambiato noi. La maggior parte delle registrazioni sono andate perdute nel corso di duemila anni, e naturalmente noi non abbiamo una scienza biologica come essi la concepivano. Io non sono un biologo, sono semplicemente uno storico ed un collezionista. — Si alza in piedi. — Ma noi sappiamo di una cosa che essi fecero sicuramente, e cioè quella di rendere i nostri corpi chimicamente immuni dalle infezioni. Quelle figure… — e indica con il capo alle trasparenze sopra di loro, — ora sono irrilevanti, non possono farci del male. Esistono ancora… ho visto colture prelevate da animali vivi. Ma sono solo una curiosità. Sono state fatte anche altre scoperte per rendere la chimica del corpo più stabile, per dirla in parole povere. Elementi che avrebbero ucciso i nostri antenati a una reazione tossica, che li avrebbero cioè avvelenati, per noi sono innocui. E poi ci sono i meccanismi protettivi e i poteri parafisici che l’homo sapiens aveva solo in potenza. Levitazione, rigenerazione di organi. E infine, in generale si può affermare che il corpo era molto più omoestatizzato di quanto non fosse in precedenza, vale a dire che esiste un ciclo di funzioni che tende sempre a ritornare alla norma. Quei processi comulativi che prima danneggiavano il funzionamento, non avvengono… la matrice non si ispessisce, il fenomeno di progressiva disidratazione non ha luogo e così via. Ma tu capisci che tutti questi sono solo effetti ritardanti, fattori che impediscono a te e a me di morire prematuramente. La cosa principale… — sfiora una striscia e sulla parete compare un disegno lineare, — fu questa. Hai mai letto un diagramma, Claire?
Lei scuote il capo in silenzio. Il diagramma è solo una antiestetica curva tracciata su di uno sfondo reticolare; per lei non significa nulla. — Questo è un modo schematico per rappresentare la crescita di un organismo — dice Benarra. — Guarda, questa scala dall’alto in basso è numerata in centesimi di maturità, da zero sul fondo a cento in alto. Capisci?
— Sì — dice lei dubbiosa. — Ma a che serve?
— Lo vedrai. Ora quest’altra scala orizzontale è numerata secondo l’età dell’organismo. Ora: questa curva che sale rapidamente rappresenta tutti gli altri organismi altamente evoluti, tranne l’uomo. Vedi, l’organismo nasce, cresce rapidamente fino a raggiungere lo sviluppo completo, e poi la curva si arrotonda, diventa quasi orizzontale. Qui declina; e qui si ferma. L’animale muore.
Si interrompe per guardarla. Le parole sono sospese nell’aria; Claire non dice nulla, ma incontra il suo sguardo.
— Ora questa — dice Benarra, — questa lunga curva poco accentuata rappresenta l’uomo come era un tempo. Noterai che comincia molto più a sinistra della curva degli animali. I progettisti avevano questo su cui lavorare: l’uomo era già un organismo unico, in quanto aveva questo periodo molto lungo prima di raggiungere la maturità sessuale. Ecco, guarda cosa hanno fatto.
Con un gesto sovrappone un altro diagramma al primo.
— Sembra praticamente identico — dice Claire.
— Sì, quasi. Hanno fatto una cosa molto semplice, in linea di principio. Hanno ulteriormente allungato quel periodo giovanile, facendo in modo che la curva salisse ancora più lentamente… e non raggiungesse praticamente mai la cima. La curva diventa asintotica, cioè si avvicina alla maturità sessuale con progressive approssimazioni, ma non ci arriva mai, non importa quale sia la sua estensione.
Ricambia lo sguardo di lei con aria grave.
— Stai dicendo — domanda Claire, — che noi non siamo sessualmente maturi? Nessuno di noi?
— Esatto — dice lui. — La maturità in ogni altro organismo complesso è il primo stadio della morte. Noi non maturiamo mai, Claire, ed è per questo che non moriamo. Noi siamo gli eterni adolescenti dell’universo. Questo è il prezzo che abbiamo pagato.
— Il prezzo… — gli fa eco lei. — Ma non capisco. — Ride. — Non maturi… — Senza accorgersene raddrizza le spalle.
Benarra si appoggia alla scrivania, fissandola. — Non hai mai pensato di domandarti perché ci sono così pochi bambini? Nei tempi andati, facendo l’amore senza precauzioni, una donna avrebbe potuto avere un figlio all’anno. Ora capita forse una volta su cento miliardi di incontri. È un’anomalia, uno scherzo di natura, ed anche in quei casi non è la donna a portare a termine la gravidanza. Oh, sembriamo maturi, qui sta lo scherzo… loro ci hanno modellati secondo i loro segni di onnipotenza.
Si tocca la barba lucida, e si batte il petto. — Non è reale: tutti noi fingiamo di essere adulti, ma nessuno sa come sia veramente.
Cade in silenzio.
— Tranne Dio? — dice Claire guardandosi le mani.
— È sul punto di scoprirlo. Sì.
— E voi non potete fermarlo… non sapete il perché.
Benarra si stringe nelle spalle. — Era sotto tensione, fisica e mentale. Qualche anello della catena si è rotto, probabilmente non sapremo mai quale. Ha già percorso un lungo tratto di quella salita… credo che ora sia vicino alla cima. Non c’è nessuna speranza di poterlo riportare indietro, ora.
Lei stringe i pugni, impotente. — E allora a che cosa serve tutto questo?
Gli occhi di Benarra sono velati, e gioca con un memocubo sulla scrivania. — Impariamo — risponde. — Possiamo fare qualcosa ogni tanto per confortarlo, per rendere le cose più facili. Non ci arrendiamo.
Lei esita. — Quanto tempo?
— Al momento non lo sappiamo. Possiamo fare delle congetture sul limite massimo, per mezzo di analogie con gli altri mammiferi. Ma con Dio possono succedere troppe altre cose. — Lancia un’occhiata alle trasparenze del soffitto.
— Certo non intendi… — Le orribili forme luminose sembravano fissarla da lassù, immobili, imperscrutabili.
— Sì. Sì. Ne ha già avuta una, l’ultima volta che l’hai visto… un’infezione da virus. Siamo riusciti a controllarla: era quello che i nostri antenati chiamavano «un comune raffreddore»; per loro era una cosa trascurabile, ma ha quasi distrutto Dio… voglio dire, non la malattia in sé, ma l’effetto morale. I sintomi erano sgradevoli. Non era preparato.
Claire sta tremando. — Per favore.
— Devi conoscere tutte queste cose — continua Benarra impietoso, — altrimenti non serve che tu veda Dio. Se ti senti sconvolta, sfogati ora. Se non riesci a sopportarlo, allora vattene adesso, non dopo. — Si interrompe, e poi continua con un tono più gentile: — Puoi vederlo oggi, naturalmente, te l’ho permesso. Non cercare di prendere una decisione ora, se ti riesce difficile. Parlagli, rimani con lui questo pomeriggio: vedi come va.
Claire non si riconosce piùi. Non si è mai comportata in modo tanto sciocco nei confronti di un uomo, prima: l’amore è una bella cosa; l’amore non dura mai a lungo e tu lo sai in anticipo, ma finché dura è piacevole. L’amore è gioia, non questo dolore lacerante.
Il tempo scorre come un torrente limpido e impetuoso, se solo lasci che le cose vadano per il loro verso. Lei potrebbe dimenticare Dio ora, ed essere infelice per un anno, o cinque, forse cinquanta, ma poi tutto sarebbe finito e la vita continuerebbe come al solito.
Le torna alla mente il viso di Dio… non quell’estraneo, cupo ed urlante, ma Dio, stagliato contro il cielo d’argento; la luce del sole sulle sopracciglia marcate, gli occhi che brillano nell’ombra.
— L’abbiamo riempito di antibiotici — dice Benarra in tono compassionevole; — non credo che corra il pericolo di prendersi qualche brutta malattia… ma invecchiare è la cosa peggiore… che cosa ne dici?