II

La folla al livello inferiore è un fiume di colori, blu elettrico, rosso scarlatto, giallo opaco, tutti brillanti, nitidi, vivaci. Profumi floreali si diffondono dalle morbide pieghe degli abiti; l’aria è piena di voci allegre e di risa. Di ritorno da cinque mesi passati a girovagare in Africa, Pacifico ed Europa, Claire è piacevolmente smarrita tra i marciapiedi mobili del Settore Venti. Dove una volta c’era la strada principale, ora c’è un labirinto di stradine anguste, piene di vivaci stendardi e dense di effluvi. I veicoli per le escursioni sono eleganti canestri di filigrana d’argento, sospesi con aerea grazia. Lei sale su uno di essi, e si innalza lungo il canyon di finestre descrivendo una lunga curva, oltrepassando terrazzi e balconi, cogliendo qua e là rapide e intime visioni di gente che non rivedrà mai più: qui una donna che dà da mangiare ad un piccolo pappagallo azzurro; là due bambini che la fissano stupiti da un giardino, entrambi con lunghi capelli biondi simili a denti di leone. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ha visto dei bambini! Cerca di immaginarsi che cosa si provi ad essere un bambino ora, in questo mondo immenso pieno di adulti, ma non ci riesce. I ricordi della sua infanzia sono così lontani, vaghi e bizzarri, come figure viste dal lato sbagliato di un binocolo. Ecco un uomo con una rigogliosa barba nera, che tiene una bottiglia in bilico sul naso davanti ad un gruppo di persone che ridono… ecco che cade! Ecco due coppie che si stanno baciando… il suo cuore batte più in fretta; si sente arrossire. Piet era diventato così noioso, dopo un po’; lei ora vuole dimenticarlo. Lo ha già dimenticato con la sua dolce e chiara voce di contralto, intona: — Dio, Dio, Dio…

Al livello seguente, scende e prende un robotaxi. Seleziona il nome di Dio; il piccolo autista dagli occhi verdi «cerca» per un attimo, lampeggiando; poi il veicolo compie una giravolta decisa e guadagna velocità.

L’edificio è irriconoscibile: le strade bianche sono state adornate di facciate barocche di colore verde e vermiglio. La forma dell’ingresso è familiare, però, e sulle targhette figura il nome di Dio.

Lei esita, fissando il pozzo dell’ascensore, vuoto e anonimo. Lui è lì, dietro quel muto blocco di marmo? Dopo un attimo si volta con un’alzata di spalle, e prende la più vicina di una fila di fragili sedie d’argento. Preme il numero tre, la sedia la solleva, portandola a destinazione.

Si trova nell’anticamera dell’appartamento di Dio. Le pareti sono rivestite di freddo marmo venato di blu. Da un lato si apre lo spazioso ovale del pozzo dell’ascensore; dall’altro la larga porta ad arco, chiusa. Una scultura ruota lentamente sotto l’alto soffitto. Sale sulla pedana del videocitofono.

— Sì — una voce maschile, piacevole ma sconosciuta. Lo schermo non si illumina.

Lei si presenta. — Voglio vedere Dio… È in casa?

Una pausa curiosa. — Sì, c’è… chi ti manda?

— Non mi ha mandato nessuno. — Ha la frustrante sensazione che si tratti di un equivoco, che stiano parlando di due cose differenti. — Chi sei tu?

— Non ha importanza. Be’, puoi entrare, anche se non so quando potrai vederlo oggi. — La porta scivola di lato.

Stupefatta ed anche un po’ risentita, Claire oltrepassa la soglia. La prima stanza è una fredda caverna grigia: in alto vi sono degli schermi a circuito chiuso che inquadrano le strade del settore. Formano un brillante arabesco lungo le pareti, ma emanano una debole luminosità.

La camera successiva è un enorme spazio disordinato, stipato di macchinari sparsi alla rinfusa; Claire arriccia il naso disgustata. Ad una delle estremità intravede due uomini su uno degli apparecchi, con la schiena rivolta verso di lei. Prosegue.

La terza stanza è un freddo ambiente di colore verde, con il pavimento ricoperto di mosaici ed una fontana che zampilla al centro. Sui banchi curvi lungo le pareti sono sedute quindici o venti persone che usano apparecchi di servizio, lettori e così via: è molto simile alla sala d’attesa di un guaritore alla moda. Che Dio si sia dato alla psichiatria?

Con un’improvvisa sensazione di insicurezza, si sistema in un sedile appartato e si guarda intorno. No, la sua prima impressione era sbagliata, questi non sono clienti in attesa di essere ricevuti da un guaritore, perché, in primo luogo, sono tutti studenti… tutti.

Li osserva con maggiore attenzione. Due di essi giocano a scacchi in un angolo appartato; altri due passeggiano a distanza avanti e indietro; cinque o sei sono radunati attorno ad un tavolo su cui sono sparse delle carte: uno di questi parla in gran fretta mentre gli altri lo ascoltano. Claire non riesce ad afferrare le parole da quella distanza.

Dall’altro lato della stanza, due uomini ed una donna sono seduti davanti ad un monitor e lo osservano con attenzione, anche se da lontano Claire non può distingure alcuna immagine.

L’acqua zampilla nella fontana. Dopo una lunga attesa le porte si aprono ed appare un uomo; si china e parla ad un altro uomo seduto lì vicino. Quest’ultimo si alza e varca la porta interna; l’altro va nella direzione opposta, e scompare alla vista. Nessuno dei due ritorna nella stanza. Claire aspetta, ma non succede più nulla.

Nessuno ha annotato il suo nome, l’ha inserita in qualche lista; nessuno sembra prestarle attenzione. Si alza e percorre lentamente la stanza oltrepassando il gruppo attorno al tavolo. Due degli uomini stanno parlando animatamente, interrompendosi a vicenda. Avvicinandosi, coglie qualche parola, ma sono tutte chiacchiere da studenti: — La curva delta mostra chiaramente… un presupposto stocastico… — Si dirige verso i tre che stanno osservando il monitor.

A Claire lo schermo non rivela alcuna immagine, ma deboli sprazzi di colore si muovono sulla superficie lucida, e si ode un suono sommesso.

Ci sono due posti liberi. Dopo una breve esitazione, prende una sedia e si sporge verso il monitor.

Ora lo schermo è illuminato e alle sue orecchie giunge il mormorio di una conversazione. Sta guardando una stanza nella quale troneggia un’enorme lastra di marmo grigio, alta tre volte un uomo. Benché solida all’apparenza, sembra scivolare verso il basso, con un movimento costante ed ipnotico, simile ad una cascata. Sotto questa cortina di pietra siedono due uomini. Uno di essi è un estraneo. L’altro…

Si sporge in avanti, scrutando. L’altro è in ombra, lei non distingue i lineamenti. Eppure c’è qualcosa di familiare nel profilo del corpo e della testa…

È quasi sicura che si tratti di Dio, ma quando comincia a parlare, lei esita di nuovo. È una voce strana, debole e rauca, diversa da qualunqua altra abbia mai sentito finora; il suono è così strano che lei dimentica di ascoltare le parole.

Ora l’altro individuo inizia a parlare: — … queste nozioni. È solo una procedura ordinaria… ancora un’iniezione.

No — dice l’uomo in ombra con furia repressa, e si alza di scatto. Nella stanza c’è una luce tremolante, e l’ombra segue i suoi movimenti.

— Mi scusi — le sussurra improvvisamente una voce all’orecchio. L’uomo lì accanto sta fissando Claire con sguardo inquisitorio. — Non credo che lei sia autorizzata ad assistere a questa sessione, vero?

Claire tradisce un gesto di impazienza e torna a rivolgere la propria attenzione allo schermo, affascinata. Nella stanza ora entrambi gli uomini sono in piedi; l’uomo nell’ombra sta parlando con voce rauca, mentre l’altro si avvicina per prendergli il braccio.

— La prego — insiste l’uomo al suo fianco, — è autorizzata ad assistere alla sessione?

La voce dell’uomo avvolta nell’oscurità si è alzata di tono, diventando un urlo isterico, rauco e sottile, dissimile da qualunque grido umano. Sullo schermo, questi si volta di scatto come se volesse tornare di corsa nella stanza.

— Prendetelo! — grida l’altro lanciandosi dietro la figura che corre.

L’uomo in ombra arretra di scatto, evitando l’altro che cerca di afferrarlo, ed entrambi escono dall’inquadratura. Poi sullo schermo appaiono altri due uomini ed anch’essi scompaiono di lato; lo schermo rimane vuoto: c’è solo la lastra che continua a scivolare dolcemente e costantemente nel pavimento.

I tre che erano seduti accanto a Claire ora si sono alzati in piedi. In fondo alla stanza, tutti si voltano a guardare. — Che cosa c’è? — chiede qualcuno.

Uno degli uomini grida in risposta: — Gli è venuto una specie di attacco! — Rivolto alla donna, aggiunge a voce bassa: — È il disagio, penso…

Claire osserva senza capire, quando un urlo improvviso dall’altra parte della stanza la costringe a voltarsi.

Le porte si sono spalancale e sulla soglia un uomo urlante lotta inutilmente con altri due. Lo afferrano per le braccia e lui non può muoversi, ma quell’orribile voce rauca continua ad urlare, ad urlare…

Non ci sono più ombre: lei è in grado di vedere il viso.

— Dio! — grida balzando in piedi.

Attraverso il frastuono da lui stesso provocato, sente la sua voce e volta la testa. Sul suo viso gonfio e concitato, gli occhi si accendono di un’espressione incredula. Poi, con un gesto violento, lui si volta dall’altra parte. Riesce a liberare un braccio e con uno scatto si copre il volto. Si allontana in fretta, e gli altri lo seguono. Le porte si chiudono. La stanza è piena di figure immobili e di un mormorio confuso.

Claire resta dov’è, paralizzata, finché una figura snella si stacca dalle altre. Quest’altro viso sembra sospeso in aria, oscurando quello della figura… rosso e contorto, con la bocca spalancata.

L’uomo le afferra il gomito e la spinge verso la porta esterna. — Che cosa sei tu per Dio? Lo conoscevi prima?

— Prima di cosa? — chiede debolmente. Ora stanno attraversando la stanza delle macchine, vuota e piena di echi.

— Uhm. Mi ricordo di te, adesso… ti ho fatto entrare, vero? Ti dispiace essere venuta? — Parla con tono fatuo e indifferente; Claire ha la sensazione che lui stia pensando a tutt’altro. Una lieve irritazione per questo fatto è la prima sensazione che si accompagna al suo stordimento. Mentre camminano si divincola, liberando il braccio della sua stretta. — Che cos’ha? — chiede.

— Una malattia molto rara — risponde lui senza fermarsi. Sono nell’altra stanza, ora, nella penombra sotto l’arabesco luminoso e si dirigono verso la porta d’ingresso. — Non io sapevi? — chiede con lo stesso tono indifferente.

— Ero in viaggio. — Si ferma, e si volta verso di lui. — Non puoi dirmelo? Che cos’ha Dio?

Ora scorge il suo viso magro, il naso e le labbra affilate, gli occhi piccoli e brillanti. — Nulla che ti possa interessare — aggiunge sbrigativamente. Aziona i comandi della porta d’ingresso e questa si apre silenziosamente. — Addio.

Lei rimane immobile, e dopo un momento le porte si richiudono. — Che cos’ha? — ripete.

Lui sospira e punta Io sguardo sui suo abito alla moda chiuso da un fermaglio dorato. — Come faccio a dirtelo? Il verbo «morire» significa qualcosa per te?

Lei è perplessa e spaventata. — Non so… non è qualcosa che capita agli animali inferiori?

Lui fa un piccolo inchino scherzoso. — Molto bene.

— Ma non so di che cosa si tratti. È una specie di attacco… come… — indica con il capo la stanza interna.

Lui la fissa con un’espressione a metà fra la comprensione e l’esasperazione. — Vuoi saperlo davvero? — Si volta di scatto e fa scorrere le dita lungo una striscia alla parete. — Vediamo… Non so che cosa ci sia in questo maledetto nascondiglio. Uhm. Animali. Termine. — Al tocco delle sue dita un piccolo stipo si apre e una scatoletta oblunga gli scivola sul palmo della mano, e la porge a Claire.

Nelle sue mani la scatola si illumina: lei vede una gabbia in cui è accovacciato un piccolo animale… un topolino bianco. Ha il pelo opaco e ispido; intorno al suo muso c’è del liquido rappreso. Si muove incerto, annusa una scodella d’acqua e poi si allontana. Le zampe sembrano cedere; cade e rimane immobile, a parte il ritmico sollevarsi ed abbassarsi del minuscolo petto. Mentre osserva, Claire cerca di reprimere un senso di nausea. I laboratori degli studenti sono sempre pieni di orrori del genere, e loro si aspettano che nessuno provi un senso di disgusto. — Qualcosa non va nel topo — È tutto quello che riesce a dire.

— Sì. Sta morendo. Questo significa cessare di vivere: fermarsi. Non essere più. Capisci?

— No — sussurra lei. Nella scatoletta, il piccolo corpo ha smesso di muoversi. La bocca spalancata, le labbra sono tirate e scoprono i denti gialli. Gli occhi sono immobili e fissi nel vuoto.

— Questo è tutto — dice il suo compagno, riprendendosi la scatola. — Niente più topo. Finito. Dopo un po’ comincia a decomporsi, ed emana un cattivo oaore e alla fine non restano altro che le ossa. E questo succede ad ogni topo che nasce.

— Io non ti credo — dice lei. — Non è così; non ho mai udito una cosa simile.

— Non hai mai avuto un animale domestico? — chiese. — Un gatto, un pappagallino, dei pesci?

— Sì — risponde lei difensiva, — ho avuto gatti e uccelli. E allora?

— Che cosa gli è successo?

— Be’… io non lo so, suppongo di averli persi. Lo sai come si fa a perdere le cose.

— Un giorno ci sono e il giorno dopo non ci sono più — dice l’uomo magro. — Giusto?

— Sì, giusto. Ma perché?

— Abbiamo un mondo così ordinato — dice con aria stanca. — I corpi degli animali morti sono ingombranti; ecco perché i circuiti casalinghi sono programmati per rimuoverli quando nella stanza non c’è nessuno. Senza eccezione: fa parte del programma di base. Naturalmente, se fossi rimasta nella stanza senza voltare le spalle la macchina avrebbe dovuto metterti in imbarazzo, recuperando il corpo in tua presenza. Ma questo non accade mai. Tutte le volte che vedevi che c’era qualcosa che non andava in uno dei tuoi animaletti, voltavi le spalle e te ne andavi, vero?

— Be’, non riesco davvero a ricordare…

— E quando ritornavi, fatto strano, la bestia non c’era più. Non si era persa, era morta. Muoiono. Tutti muoiono.

Lei lo guarda, rabbrividendo. — Ma questo non capita alle persone.

— No? — Stringe le labbra. Dopo un momento aggiunge: — Perché credi che avesse quell’aspetto? Lui lo sa; lo sa da cinque mesi.

Lei trattiene il respiro. — Quel giorno sulla spiaggia!

— Oh, tu c’eri? — Annuisce parecchie volte e riapre la porta. — Molto interessante per te. Puoi dire a tutti che l’hai visto accadere. — La spinge gentilmente nell’anticamera.

— Ma io voglio… — dice lei disperata.

— Che cosa? Amarlo ancora, come se fosse normale? O vuoi aiutarlo? È questo che intendi? — il viso magro è tirato, le sopracciglia aggrottate. — Credi che riusciresti a sopportarlo? Se è così… — Si sposta di lato per lasciarla rientrare.

Lei fa un passo avanti, esitante.

— Ricordati del topo — aggiunge lui seccamente.

Lei si ferma.

— Sta a te. Vuoi davvero aiutarlo? Ne avrebbe bisogno, a meno che non ti faccia un brutto effetto. Allora… dove sei stata in tutto questo tempo?

— In posti diversi — risponde lei bruscamente. — Littlam, Parigi, New Hol.

Lui annuisce. — Allora potresti ritornare a visitare quei luoghi. Cosa preferisci?

Lei rimane immobile. Nei suoi occhi ora le due immagini si confondono; vede il viso gonfio di Dio che la fissa attraverso le rigide mascelle del topo.

L’uomo magro annuisce brevemente. Fa un passo indietro, continuando a fissarla. Un lungo attimo di esitazione; poi le porte si richiudono.

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