9. Libertà

Allora, dividetevi in due squadre — disse la nuova infermiera ad alta voce. — Si fece largo come una nave ospedale tra le onde del mare in burrasca, scansando pazienti e colleghi a destra e a sinistra. Lui si ritrovò nel gruppo di destra con North al suo fianco.

— Ora nominerò due capitani — annunciò la nuova infermiera. — Dottor Pillo-Lin, vuol esser lei uno dei due?

Un orientale minuto dall’espressione sorridente fece cenno di sì.

— E lei, signor Walsh, sarà l’altro.

— Certo! — esclamò Walsh. — Venite qui, tigrotti! Ascoltatemi bene.

— Ora ognuno di voi deve nominare uno stregone.

— Tu — disse Walsh, e lo toccò sulla spalla. — Tu sei il mio stregone.

Lui chiese cosa doveva fare.

— Buttare il malocchio sul nemico. Io starò laggiù a guidare le truppe. Tu hai poteri magici, ragazzo, te li ho appena conferiti. — Qualcuno allungò a Walsh una mazza e un elmetto piumato di plastica rossa. — Grazie — disse Walsh.

— Ma io non ho poteri magici.

— Forse prima no, ma ora sì. Guarda l’altro stregone, è già all’opera. Tu devi vincere il suo incantesimo, quindi datti da fare. — Walsh si voltò. — Io ho ai miei ordini tre aiutanti. Tre cavalieri, intesi? Cohn, anche tu sei un cavaliere! Cavalieri, andate a prendere i cavalli!

I “cavalli” erano tricicli di plastica rossi e azzurri. Al centro della stanza, due pazienti si stavano già affrontando armati di coperchi e grossi mazzuoli di plastica. Tra loro c’era un pallone da spiaggia di plastica a colori vivaci, sicuramente la moopsball.

“Probabilmente”, pensò, “è una terapia efficace. Come può uno avercela con un’infermiera o un dottore che ha appena colpito sulla testa con un martello di gomma?” Però, non gli andava di giocare. Sbadigliò.

All’improvviso, come illuminato dal raggio di un riflettore, gli apparve il viso dello stregone azzurro che gli aveva indicato Walsh. Aveva il viso magro, quasi scheletrico, e la testa rasata. Il padrone della testa stava in piedi, immobile, in mezzo al caos, con un leggero sorriso sulle labbra, le braccia allungate e gli occhi fissi su di lui.

“Mio Dio”, pensò, “funziona!” Cominciò a danzare come aveva visto fare agli indiani nei film; batteva i piedi e alzava ritmicamente le braccia colpendosi la bocca con la mano mentre gridava: — Ooh, ooh, ooh! Tu prigioniero! lo prendere tuo scalpo, uomo bianco!” Dopo qualche istante si accorse che molti componenti della squadra azzurra avevano interrotto il gioco e lo stavano guardando.

— Tra poco quelli della squadra vincente si metteranno il capitano sulle spalle e lo porteranno in trionfo. Corri nella tua stanza più in fretta che puoi e mettiti i vestiti. Poi vieni alla porta C. La troverai aperta, e io sarò lì dentro. — Era North. Appena si voltò a guardarlo lo vide scomparire tra la folla.

Una calca di elmetti rossi si mosse intorno al grande tubo di plastica che gli azzurri stavano difendendo, la cavalleria rossa parava i colpi degli azzurri con manici di scopa avvolti negli stracci. Walsh, molto appariscente nel suo elmetto piumato, segnò un goal.

Il corridoio era deserto. Chissà se North lo precedeva o era rimasto indietro? Molto probabilmente era davanti, perché aveva visto quel gioco altre volte, e sapeva certamente meglio di lui cosa sarebbe successo e quando.

Il rotolo di banconote gli era quasi scivolato fuori alla cintura. Era stato proprio un idiota a fare quella danza indiana con il rischio che a ogni passo i soldi gli cadessero a terra. Ma non era successo, e la danza aveva funzionato. Infilò le banconote nel portafoglio, insieme ai soldi veri, tre biglietti da un dollaro, uno da cinque e uno da venti; quelli del mondo che North aveva chiamato C-Uno, la realtà rassicurante e moderata dove per due volte era stato eletto presidente Richard Milhous Nixon.

Anche se non c’era nessuna ragione di preoccuparsi della cravatta, lui decise altrimenti, e se l’annodò velocemente ma con la massima cura davanti alla sua immagine sbiadita riflessa nel vetro della finestra. Mentre stringeva il nodo, si rese conto che nel profondo del suo animo era convinto che quegli ultimi giorni non fossero stati altro che un incubo, che ogni cosa accaduta da quando aveva incontrato Lara altro non fosse che un sogno, e che presto si sarebbe svegliato per andare al lavoro. E se fosse andato a lavorare senza la cravatta, avrebbe dovuto comprarsene una nel reparto di abbigliamento maschile.

North lo stava aspettando, con indosso un semplice abito azzurro. — Ecco le chiavi. Ha detto che è una Mink color cioccolata posteggiata in mezzo al parcheggio.

Appesa al portachiavi c’era anche una zampa di coniglio. Mentre si precipitavano lungo le scale, lui s’infilò tutto in tasca. — Ma non ci sentiranno?

— Stanno ancora gridando e schiamazzando per la partita. Dobbiamo solo andarcene in fretta prima che la smettano. — Invece di entrare nella stanza in cui aveva bevuto il caffè insieme a Joe e a W.F., arrivarono in un parcheggio coperto di neve sul retro dell’ospedale. L’auto marrone era più grande di quanto si aspettava, ma la capote corta, il grosso baule portabagagli e lo spazioso vano passeggeri davano alla macchina un aspetto rincagnato.

Girò la chiave di accensione, senza risultato.

— Mi sembrava che avessi detto di saper guidare.

— Non parte, ecco tutto. Non si mette nemmeno in moto. — Colto da un vago ricordo ancestrale, guardò i pedali. Ce n’erano tre, più un pulsante di metallo lustro per l’uso, sulla sinistra della frizione. Lo premette con il piede e il motore si avviò.

— Così va meglio — disse North.

Lui annuì, pensando alla leva del cambio verticale. Era molto tempo che non guidava con il cambio a cloche. L’ultima volta aveva provato con la leva corta di un’auto sportiva, questa invece era un’asta lunga che culminava con un pomello nero di gomma ruvida. Provò a ingranare le marce.

— Maledizione, muoviti!

— Preferisci andartene di qui o avere un incidente? — L’auto scivolò dolcemente all’indietro; la prima entrò grattando leggermente, ma con la seconda e la terza filò tutto via liscio. — Ora siamo due ladri — disse mentre uscivano dal parcheggio dell’ospedale. — I casi sono due, o ci rispediscono in ospedale, o ci mettono in galera.

Appena ebbero svoltato l’angolo, North gli disse sorridendo. — Come credi che mi sia procurato le chiavi? E chi ci ha fatto trovare la porta aperta? Ho anche un po’ di denaro.

— Quanto?

— Non sono affari tuoi. E tu ne hai?

Lui disse: — Stessa risposta.

— Sai, devo dire che mi piaci. — North ridacchiò. — Ed è un guaio, perché un giorno o l’altro dovrò spaccarti quel dannato naso moccioso.

— Spero che lo farai solo quando non avrai più bisogno di me per guidare. Tu sai guidare? Mi avevi detto di sì.

— Ho frequentato il corso per autisti dell’FBI.

Lui chiese: — Allora perché mi hai portato con te?

— Perché mi dispiaceva lasciarti lì, idiota.

Lanciò un’occhiata a North e vide che non sorrideva più.

Si trovò davanti una strada che non conosceva: era ampia, a due corsie che correvano all’esterno di due paia di scintillanti rotaie del tram.

Tra la strada e il marciapiede c’era una fila di alberi spogli già carichi di neve. Lui ripensò alle strade che aveva visto irradiarsi dal crocevia davanti al Centro di Igiene Mentale. Questa era una di quelle strade, ne era certo. Ma quale? Gli era parso che fossero tutte diritte, ma che nessuna andasse in una direzione precisa, né a nord, né a sud, né a est, né a ovest. Eppure questa strada andava verso nord.

— Fermati laggiù — gli disse North — dove c’è scritto “armi”. Vedi l’insegna?

— Vuoi prenderti una pistola?

— Fermati, o ti spezzo il collo.

North sembrava proprio deciso a farlo. Lui accostò l’auto al marciapiede di fronte al negozio di armi e spense il motore. North discese e lui tirò un sospiro di sollievo quando lo vide passare davanti alla vetrina ed entrare nel negozio di abbigliamento lì accanto.

Dalla tasca interna del soprabito prese Tina, la bambola, ed esaminò a lungo, o almeno così gli parve, il suo enigmatico sorriso.

Poi tirò fuori da sotto la camicia l’amuleto che Sheng gli aveva dato. Era una radice, un oggetto secco e duro dalla forma di un ometto raggrinzito non più lungo dell’avambraccio di Tina.

Una passante gettò un’occhiata attraverso il finestrino e lui pensò che doveva averle fatto una strana impressione, con la bambola in una mano e l’amuleto nell’altra.

Probabilmente quella donna aveva pensato che era pazzo, e se avesse chiamato la polizia, avrebbe scoperto di avere ragione.

Però ai Riuniti nessuno aveva pensato che fosse pazzo, solo alcolizzato. Se lui era un alcolizzato, North cos’era? Un maniaco schizofrenico. O qualcosa del genere.

Ripose l’amuleto e la bambola e rivolse l’attenzione ai passanti. A una prima occhiata sembravano tipi abbastanza comuni, a parte i vestiti un po’ fuori moda. Gli era capitato di vedere alcuni film ambientati negli anni trenta e quaranta, e ora aveva l’impressione che queste figure scure e silenziose che si affrettavano infreddolite, fossero personaggi di quelle pellicole. Ragazze, donne e pochi uomini, tutti indossavano cappotti pesanti, lunghi quasi fino ai piedi; gli uomini con cappelli di feltro a tesa larga, le donne e le ragazze con i cappelli a cloche ben calzati.

Oppure si trovava da qualche parte nell’Europa dell’est, dove, stando a quello che dicevano i notiziari della sera, abiti simili erano ancora diffusi. Gli passarono accanto un giovane con un cappello di pelo e molte donne in pelliccia. Esisteva un posto nell’Europa dell’est dove si parlava inglese? Magari una città in cui venivano addestrate spie russe? Una città simile, tuttavia, avrebbe dovuto avere un’ambientazione ben più fedele alla realtà. Non era poi tanto difficile procurarsi automobili e abiti americani.

Passarono tre donne di mezza età, ognuna con una valigetta portadocumenti o una cartella. Si rese conto di aver visto pochi uomini anziani, e cominciò a contarli. Era arrivato a contare ventitré donne e tre uomini apparentemente di mezza età, quando North uscì dal negozio di armi.

— Tutto sistemato — gli disse North. — Possiamo andare.

— Credevo fossi nell’altro negozio.

— Infatti. Ho comprato questo cappotto. Ti piace?

Era a un solo petto, di pesante tweed marrone. — Certo — gli disse.

— Cominciavo a sentire un po’ freschino. Ora sono a posto. — North sbottonò il cappotto e la giacca. Da ogni spalla gli pendeva una fondina da cui spuntava il calcio di un’automatica. — Calibro 9. Temevo che non le avessero, e invece sì. Va bene, muoviamoci. Dobbiamo andare in molti posti e vedere molte persone.

Lui scosse la testa. — No. Almeno finché avrai addosso quelle.

— Hai paura di me? Be’, è normale. Ecco, tieni. — North gli mise una pistola sulle gambe. — Ora siamo pari. Ti darò anche la fondina appena potrò sfilarmi di dosso il cappotto. Muoviamoci.

Lui scosse la testa.

— Cosa diavolo ti succede? Ho cercato…

Non voleva toccare la pistola, ma lo fece. — Ecco. Riprendila. Riportale tutte e due al negozio. Ti restituiranno il denaro.

North lo colpì col pugno destro alla mascella, mandandolo a sbattere con la testa contro il finestrino e per qualche istante lui continuò a vedere lampi intensi di giallo pallido.

— La prossima volta non ti colpirò con la mano, ma con la pistola.

Lui cercò di aprire la portiera, ma North lo afferrò per un braccio. — Hai una pistola — disse. — Usala.

Lui scosse la testa, cercando di schiarirsi la vista.

— Usala! È carica, pronta a sparare. Prendila e cerca di uccidermi. Io userò la mia. Uno di noi avrà la meglio.

— Tu sei pazzo — disse lui. — Tu sei proprio pazzo. — Sentì l’impugnatura quadrettata dell’automatica che gli s’infilava in mano; North la teneva per la canna e cercava di fargliela afferrare. Invece lui sollevò le mani come aveva visto fare al cinema e in televisione, sperando che un poliziotto passasse lì accanto e li notasse.

North disse: — Non hai fegato. Non hai proprio fegato. Pensavo che ne avessi un po’, ma mi sbagliavo.

— Se ci vuole fegato per sparare con una pistola scarica a un uomo che ne ha una carica, allora hai ragione, non ne ho neanche un po’.

North tirò indietro l’otturatore, fece saltar fuori una cartuccia che andò a colpire il parabrezza, poi la riprese, estrasse il caricatore, inserì la cartuccia e richiuse tutto nel calcio della pistola. — Vuoi fare la prova?

Lui scosse la testa e girò la chiavetta dell’accensione.

— E ora metti in moto.

Appena si allontanarono dal marciapiede, lui chiese: — Dove stiamo andando?

— Tanto per cominciare, in un albergo. Mi servono altri vestiti, documenti, giornali, una base di lavoro. — Schioccò le dita. — Il Grand Hotel! Muoviamoci, devo trovare una sistemazione.

Lui cercò di immaginarsi per quale genere di lavoro gli servisse quella base. Ma pensò che fosse meglio non fare domande.

La strada perse le rotaie del tram per diventare un viale fiancheggiato da imponenti edifici di granito e di marmo, edifici custoditi da statue drappeggiate dalla neve e, in un caso, da una sentinella in carne e ossa che poteva essere un manne degli Stati Uniti in uniforme. Infine si ritrovarono in un piazzale dove le auto, i camioncini, gli autobus a due piani e qualche rara bicicletta ruotavano spediti intorno a un generale con una spada al fianco e un bicorno in testa. Ebbe un attimo di disorientamento prima di capire che il generale, il suo cavallo rampante, la sua spada sguainata stavano anche loro girando, che la statua stava ruotando in senso antiorario, come il traffico.

Un’automobilina verde gli tagliò la strada e North impugnò la pistola.

— Calma — disse lui, e con la mano tenne ferma quella di North finché l’auto verde non si fu allontanata.

— Per Dio, l’avrei fatto a pezzi quel bastardo — mormorò North tra i denti. — A pezzi l’avrei fatto!

— E così la polizia ci avrebbe preso. Dove devo voltare?

North non rispose, lo sguardo fisso davanti a sé. Le auto, quasi tutte nere, sfrecciavano in un senso e nell’altro. Un poliziotto e una poliziotta li sorpassarono su una volante bianca e nera. La donna li guardò incuriosita prima che la volante venisse inghiottita dal traffico.

La mascella gli faceva ancora male; la massaggiò con una mano mentre con l’altra teneva il volante. — Continua a girare — gli disse North. — Dev’essere una di queste strade.

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