15. La terra d’inverno

Uscendo dal negozio di abbigliamento maschile passò accanto all’ambulatorio del dottor Applewood, che però era al piano superiore mentre lui si trovava su quello inferiore. Attraverso i vetri zigrinati non si vedeva nessuna luce accesa; si domandò se il dottore era andato a casa o se invece l’avevano arrestato. Era probabile che Applewood fosse una spia, che fosse stato lui a chiamare Klamm e gli agenti di Klamm, che la ferita che aveva ricevuto nel teatro fosse un incidente o un trucco, e che Applewood quella mattina fosse ritornato in albergo seguendo le istruzioni di Klamm o della polizia.

Pensò di provare ad aprire la porta, entrare nell’ambulatorio e frugare nella scrivania, ma poi decise di non farlo. Non era da escludere, anche se era poco probabile, che loro non sapessero nulla del dottor Applewood. Ma in caso contrario sarebbero senz’altro venuti a sapere che lui era entrato nell’ambulatorio del medico o anche che aveva solo sfiorato la maniglia della porta. Non era da escludere inoltre che loro non avessero saputo dove lui si trovava — cosa che invece ora sapevano bene — finché non aveva messo piede in quel bar. Quest’ultima ipotesi, però, non lo convinceva del tutto.

In ogni caso, aveva già fin troppo caldo, infagottato com’era nel panciotto, cappotto e sciarpa. Non vedeva l’ora di uscire da lì. Qualche metro oltre l’ambulatorio del medico vide una scala con la scritta PARCHEGGIO; salì i gradini e aprì una porta di ferro arrugginita.

Fu investito di colpo dal vento di cui aveva parlato la bionda; non era forte, ma insistente e molto freddo. Sentì subito che non era un vento di mare, ma di terra; non portava con sé il sapore della salsedine, sembrava invece che avesse soffiato per miglia e miglia sopra distese deserte di neve.

Da dove si trovava non riusciva nemmeno a vedere il mare. Appena fuori dalla porta arrugginita, in un piccolo parcheggio da cui avevano spalato via la neve, c’erano quattro auto tutte parcheggiate a ridosso della porta. Non vide la Mink rincagnata di cui aveva ancora le chiavi in tasca, anche se due di quelle auto le assomigliavano molto. La terza era una decappottabile rossa appena più grande della Mink, la quarta una limousine nera con i seggiolini pieghevoli nel vano posteriore, un’auto capace di trasportare otto persone in tutta comodità. Quella era senza dubbio la macchina con cui erano venuti gli agenti di Klamm, Fanny, la bionda a cui Fanny aveva fatto rapporto, il nuovo “ospite” del bar, e forse anche il dottor Applewood. Si chiese chi di loro fosse alla guida. La bionda, certo, era proprio il tipo che vuole sempre guidare, che quando può impedisce agli altri di farlo; doveva avere una guida veloce, sempre a sgommare e a impalarsi sul freno, il tipo di guida che avrebbe avuto North, se avesse guidato.

Provò ad aprire la portiera della limousine con le chiavi della Mink. Non andavano bene, anzi, non entravano nemmeno nella serratura. Con suo stupore il baule non era chiuso a chiave. Lo aprì e trovò un mucchio di fogli di carta sparpagliati; qualcuno aveva messo lì dentro un raccoglitore, ma il movimento della limousine l’aveva fatto rovesciare. Il vento prese due fogli di carta e li fece svolazzare sull’asfalto ghiacciato come polli terrorizzati.

Lui ne afferrò un terzo prima che riuscisse a fuggire e gli dette un’occhiata, poi lo lesse con attenzione sbalordita.


NOME: “Wm. T. North”, “Bill North”, “Billy North”, “Richard North”, “Ted West”. Nome attuale ignoto. Il primo nome è il più usato.

DATA DI NASCITA: Ignota.

LUOGO DI NASCITA: Ignoto, probabile Visitor.

STATURA: m 1.80 circa Peso: kg 77 Capelli: Scuri, calvizie. Spesso si lascia crescere i baffi.

OCCHI: Azzurri.

CARNAGIONE: Rosea.

SEGNI PARTICOLARI: Scottature sui palmi delle mani. Varie piccole cicatrici sugli avambracci, forse recenti. (North si automutila). Tatuaggio sotto il polso destro “RN”. Porta spesso un orologio da polso per nascondere il tatuaggio.


12/7/87 aderisce a Settembre Azzurro. 11/12/87 a capo dello Stivale di Ferro. Arrestato 6/6/88, Ospedali Psichiatrici Riuniti. Abile tiratore, porta spesso due, perfino tre pistole. Abile lanciatore di coltelli, può portarli legati al polso, al braccio o alla caviglia. Violento, temperamento impulsivo. Estremamente pericoloso.


C’era anche una foto di North (sembrava un po’ più giovane di come lo ricordava) e una serie di impronte digitali. Rimise il foglio nel raccoglitore e frugò tra le altre carte, in cerca di un rapporto dello stesso tipo sul dottor Applewood o magari su se stesso. Non trovò altro che un foglio intestato Daniel Paul Perlitz e il timbro deceduto. Il dottor Applewood aveva chiamato l’uomo in uniforme proprio Daniel.

Chiuse il baule di colpo, nel timore improvviso di essere osservato. Non sentiva più quel caldo soffocante; mentre ritornava alla porta arrugginita aveva freddo ed era ansioso di raggiungere il calduccio dell’albergo e di ripararsi dal vento. Infilò una mano in tasca per essere sicuro di avere ancora la chiave della sua stanza.

La porta di ferro era chiusa, e né la chiave della stanza né quella dell’auto rincagnata riuscirono ad aprirla. E dopo un istante pensò che quel parcheggio probabilmente era riservato agli impiegati e ai concessionari che affittavano i negozi e gli uffici della galleria. Loro sicuramente avevano anche la chiave per aprire quella porta. Avrebbe dovuto fare il giro per entrare dall’ingresso principale dell’albergo e avrebbe dovuto farlo camminando in mezzo alle raffiche di neve.

Con il bavero del cappotto alzato e la sciarpa sollevata fino a coprirgli il naso (ringraziò tra sé la donna che l’aveva convinto ad acquistarla), si guardò intorno in cerca di un passaggio tra la neve. Non c’era altro che il vialetto da cui erano arrivate le automobili che ora era sepolto dalla neve nei punti in cui batteva il vento. Il vialetto sembrava condurre ad alcune costruzioni sparse che si intravedevano in lontananza, quasi cancellate dal biancore della neve.

L’albergo si apriva in due lunghe ali laterali. Forse non proprio così lunghe se si percorrevano passeggiando per i corridoi, ma lunghissime per lui che avrebbe dovuto camminare con la neve alta fino alla vita, prima in una direzione e poi nell’altra, per aggirare l’edificio. Cominciò a fare qualche passo, poi abbandonò l’idea. Prima o poi il passaggio si sarebbe collegato alla strada che costeggiava il mare.

Attraversò il parcheggio pensando all’insufficienza del suo equipaggiamento: il cappotto, il gilet e la sciarpa erano stati degli ottimi investimenti, ma avrebbe dovuto scegliere un berretto anziché un cappello. Un berretto di pelliccia con i paraorecchie allacciati sotto il mento, o magari uno di quei cappucci di lana che la commessa aveva chiamato balaclavas, ma che lui non aveva degnato di uno sguardo.

Aveva anche bisogno di un paio di guanti. Gli sembrò assurdo non aver pensato a comprarne un paio; aveva le dita gelide, anche se aveva infilato le mani nelle tasche del cappotto. Ma aveva soprattutto bisogno di un paio di stivali invece di quelle scarpe; il breve tentativo di camminare sul vialetto era bastato a riempirgli le scarpe di neve, e nonostante si fosse mosso di continuo, sentiva che gli si stavano gelando i piedi. Come se non bastasse, continuava a scivolare, le suole lisce si rifiutavano di far presa sull’invisibile strato di ghiaccio che ricopriva l’asfalto a chiazze sparse e si rifiutavano di far presa sui mucchi di neve compatta.

Era uscito dal parcheggio e aveva imboccato il sentiero quando vide la foto di Fanny; prese in mano il foglio e si accorse che era identico a quello su North.


NOME: Frances Land, “Frannie Land”, “Faith Lord”.

DATA DI NASCITA: 9/7/64

LUOGO DI NASCITA: Manea AX

STATURA: m 1.60

PESO: kg 47

CAPELLI: Neri, ricci.

OCCHI: Castani.

CARNAGIONE: Chiara.

SEGNI PARTICOLARI: Sei dita nella mano destra. Occhiali da presbite.


Membro associato di Settembre Azzurro, gli Immortali, Stivale di Ferro. Ritenuta simpatizzante.


Scosse la testa, accartocciò il foglio e lo gettò via. Aveva sbagliato tutto su Fanny, tutto. Si corresse… su Frances. Come il dottor Applewood, anche Frances era un’alleata di North. Probabilmente era proprio perché tanti di loro lavoravano qui che North aveva deciso di venire in questo albergo abbandonato da Dio e dagli uomini d’inverno, in questo immenso vecchio albergo, lontano miglia e miglia dalla città.

Allora anche la bionda del salone di bellezza faceva parte dell’organizzazione di North, dato che Fanny aveva l’ordine (ma di chi?) di farle rapporto.

Oppure Fanny era… come si dice? Qualcuno che fa il doppio gioco. Qualcuno che dice di lavorare per uno mentre passa informazioni all’altro. Ma se Fanny non era arrivata con la limousine, con cosa era arrivata? E se la limousine non era di Klamm, perché nel baule c’erano quei documenti, documenti del Servizio Segreto, dell’FBI… della Polizia Segreta, del come diavolo si chiama?

Il passaggio era abbastanza ampio per una macchina, e la neve che si era accumulata ai lati era più alta di lui. Camminava in un mondo in bianco e nero, e dopo un po’ di tempo gli sembrò di non essere altro che il personaggio di un vecchio film, un vecchio film in bianco e nero. Non si vedeva colore da nessuna parte perché la pellicola non era ancora a colori e c’era solo la volta grigia del cielo, la striscia nera dell’asfalto sotto i suoi piedi e la neve su tutti e due i lati. Anche le scarpe erano nere, e quel nuovo cappotto grigio scuro sembrava quasi nero. Era l’inizio dell’ultimo spettacolo? O era la fine, quando lui (di nuovo nel suo appartamento, a guardare come al solito un vecchio film in Tv), si alzava sbadigliando, prendeva il bicchiere e la bottiglia dal tavolino, sapendo già che presto i due amanti si sarebbero abbracciati, la donna vestita come la statua della libertà che regge in mano la torcia.

Camminava guardandosi intorno e d’improvviso capì che sperava di trovare l’altro foglio che era volato via dal baule, perché sentiva che c’era la fotografia di Lara. Due fogli erano volati via e un altro era riuscito ad afferrarlo. Quello che aveva preso parlava di North; uno dei due che erano volati via, di Fanny… Frances. Sicuramente il terzo foglio, che non era riuscito a prendere e che non aveva ancora trovato, doveva essere quello di Lara, Lara che aveva visto per l’ultima volta mentre danzava sull’asfalto, fra la neve, nel vento.

Sentì appena in tempo il rombo alle sue spalle e si tuffò a sinistra nella neve. La grande limousine nera gli passò accanto, talmente vicino che lui sentì il risucchio che per poco non gli portò via una scarpa.

Si rialzò senza imprecare. Era troppo felice di essere vivo — sono vivo! — per farlo. Si accorse che una scheggia di ghiaccio gli aveva procurato un taglio all’indice; cominciò a succhiarlo mentre con la mano bendata spazzolava via la neve dal cappotto. Si tolse il dito di bocca per dargli un’occhiata, e dal taglio uscì un po’ di sangue che cadde sul nero dell’asfalto e sul bianco della neve.

Aveva messo il pacco di fazzoletti insieme alla mappa, nella tasca interna della giacca. Lo tirò fuori e lo aprì, ne sfilò uno e si avvolse l’indice.

Se non avesse temuto di cadere, si sarebbe messo a scivolare sulla neve ghiacciata. Ecco perché (pensava lui) Cary Grant e Rosalind Russell, William Powell e Myrna Loy irradiavano tanta felicità e tanto piacere in quelle pellicole tremolanti trasmesse a tarda notte; ecco perché risplendevano ancora, nonostante il bianco e nero, quando avrebbero invece dovuto essere morti. Come dovevano essere felici di essere ancora vivi là, sugli schermi angusti applicati agli apparecchi radiofonici dei loro tempi. Come erano felici!

Proprio come lui. In questo momento avrebbe potuto essere a casa, morto, morto e putrefatto davanti al televisore, seduto nella poltrona che aveva comprato durante i saldi; invece era lì, vivo, il rosso del suo sangue lo provava, anche se questa poteva essere la sua ultima interpretazione.

Il sentiero risaliva la collina e piegava a destra. Sentì il rumore di un camion, non solo lo sentì, ma lo vide, o almeno vide il tetto arancione e verde fare capolino da dietro i cumuli di neve. Altri cento passi, più o meno, e arrivò al punto in cui il sentiero sbucava su una strada a doppia corsia, pure di asfalto nero, che poteva o no essere quella che aveva percorso quando stava con North. Cercò d’indovinare da che parte fosse l’oceano, ma si sbagliò. Se ne accorse dopo aver percorso mezzo miglio, quando vide da che parte era l’albergo.

Stava già per ritornare sui suoi passi, quando vide un vecchio camioncino rosso con le catene che arrivava sferragliando, guidato da un uomo di mezza età. Lui gli fece cenno di fermarsi e gli spiegò in due parole che era rimasto chiuso fuori dall’albergo.

L’uomo sorrise e gli aprì la portiera. — Mi sa che non gli capiterà più di andare in giro conciato a quel modo!

Lui sghignazzò: — Diamine, no di certo! — Pensò che avrebbe dovuto prendersela, ma ne era assolutamente incapace. Il riscaldamento di quel vecchio furgoncino funzionava, e quel soffio caldo sui suoi piedi gli sembrò l’anteprima del paradiso.

— C’è poca gente d’inverno — disse l’uomo. — La mia Junie ogni tanto ci va a lavorare, ma quando arriva l’autunno, la licenziano. Io neanche sapevo che era aperto.

Lui fece cenno di sì e disse: — È quasi vuoto. Spero che non sia costretto ad andare troppo fuori strada a causa mia.

— Tanto dovevo passare di lì. Vado in città. L’albergo non è lontano, due o tre miglia da dove sto io.

Al termine della strada un segnale di stop indicava l’incrocio con una più ampia. Quando cominciarono a percorrerla, lui sentì il fruscio delle onde. Poi le vide, fredde e verdi e vive, come squame di un serpente acquatico attorcigliato intorno al mondo, pensò, e non tanto ostile quanto crudele.

— Eccoci arrivati. — Il furgoncino si fermò. — A proposito, mi chiamo Grudy.

— Green — disse lui, e si strinsero la mano. — Posso darle qualcosa per il passaggio, signor Grudy?

L’uomo bofonchiò. — Non lo dica nemmeno, signor Green. Se capitasse ancora, lo rifarei e lo stesso farebbe lei per me, ne sono certo.

Ringraziò di nuovo l’uomo e scese dal furgone, chiuse la portiera per bene e lo salutò con la mano guardandolo allontanarsi. Attraversò la terrazza in direzione della vetrata illuminata dell’albergo e guardò l’orologio. Erano le undici e trentaquattro; tra poco al bar avrebbero servito il pranzo. Avrebbe cercato di parlare con Fanny che, anche se faceva il doppio gioco, avrebbe potuto condurlo da quelli che non lo facevano. Rivedendolo, Fanny non avrebbe capito niente di più di quanto non sapesse già; ma lui avrebbe potuto imparare molte cose, perfino come pensa e agisce un cospiratore. A quel punto, questa gli sembrava la cosa più importante.

All’ingresso non c’era nessun fattorino. Tra le due vetrate un cartello diceva: CHIUSO PER TUTTA LA STAGIONE INVERNALE. Dietro al banco, un commesso occhialuto era alle prese con un mucchio di carte. Lui batté sulla porta, ma il commesso entrò in un ufficio e non ricomparve.

Dopo qualche istante le luci dell’atrio si spensero.

Загрузка...