22. Il suo medico

Il sole aveva già addolcito l’aria pungente del mattino. Lui camminava a grandi passi con il soprabito ripiegato sul braccio lanciando occhiate alle vetrine. Era raro che al suo reparto toccasse una vetrina — le vetrine erano di solito riservate a quelli dell’Abbigliamento — ma quando succedeva, in genere affidavano a lui l’incarico di allestirla. Era un lavoro che lo interessava o almeno era questo che diceva a se stesso.

Mentre osservava le vetrine si domandava che cosa avrebbe fatto con i soldi del signor Sheng. Prudence (il fantasma di sua madre) gli consigliò di metterli in banca per i giorni di magra. Prudenza gli sussurrò che il Fisco poteva controllare i suoi depositi bancari.

Che spiegazione poteva dare? Non poteva spiegare in nessun modo il fatto di non aver denunciato l’entrata quando aveva consegnato la dichiarazione dei redditi. Invece aveva chiesto un rimborso perché pagava più tasse di quanto guadagnava. No, pensò, perfino l’Ufficio Imposte non l’avrebbe potuto biasimare per non aver denunciato quell’entrata; il modulo si riferiva all’anno passato e lui aveva comprato il denaro nell’anno in corso.

O no? Ora che ci pensava, c’era qualcosa stranamente fuori moda “Là”. La maggior parte degli edifici sembravano vecchi, e perfino quelli che apparivano nuovi avevano uno stile antiquato, erano costruiti con i mattoni tradizionali, avevano i vetri delle finestre che scorrevano su e giù come quelli delle finestre di una casa.

Le piccole automobili scomode gli erano apparse abbastanza moderne; quelle di vecchio tipo erano molto più grandi, con le code allungate e le portiere robuste come quelle del caveau di una banca. “Là” c’erano automobili moderne, anche se avevano il cambio a cloche, ma la Tv era solo in bianco e nero.

Cercò di ricordare la data del giornale su cui aveva letto la notizia della loro fuga e quella dell’incontro di Joe con un altro pugile di cui non ricordava il nome. Ma la data era scomparsa dalla sua mente, si era scolorita fino a diventare invisibile.

Con tutti quei soldi forse poteva fare una crociera ai Caraibi, come quelle di Love Boat. No, perché durante queste crociere si presupponeva che uno si dovesse innamorare di qualcuno, e lui non poteva innamorarsi di nessuno se non di Lara, e ne era già innamorato. Poteva pensare, come aveva fatto nel caso di Fanny, di andare a letto con qualcuno per due o tremila dollari.

Rise di sé. C’era stato un tempo in cui aveva frequentato bar per cuori solitari una o due sere alla settimana, ma tutto era finito quando si era reso conto che le donne non cercavano l’amore ma un marito. No, mai l’amore. Se voleva andare a letto con qualcuno poteva farlo più a buon mercato.

Alcuni uomini in tuta e caschi di sicurezza azzurri lavoravano poco distante dall’edificio. Cavi neri disegnavano morbide curve sul selciato. Fermò un operaio e timidamente gli chiese che cosa stessero facendo. L’uomo gli spiegò che stavano togliendo le linee aeree e le sostituivano con cavi sotterranei.

Lui annuì, lo ringraziò e rimase a guardare la strada, ricordando la porta significativa che non si sarebbe più aperta per lui. Un vigile gli toccò il braccio e indicò il Centro di Igiene Mentale. — È laggiù, signore. Vuole che l’accompagni?

— No. — Lui scosse la testa e si rese conto con un sussulto che per la prima volta da quando era un bambino si era messo a urlare e a strepitare in pubblico. Tirò fuori dal taschino il fazzoletto rosso, si asciugò gli occhi bagnati di lacrime e si soffiò il naso. Quando si sentì presentabile, entrò nell’edificio.

Di fianco agli ascensori una targa diceva che lo studio della dottoressa Nilson era al quarto piano. Si rese conto di saperlo già; sicuramente era scritto sull’elenco che aveva consultato. Chiamò l’ascensore e salì al quarto piano.

Nella sala d’aspetto c’erano tre pazienti: una donna esile dall’espressione malinconica, un ragazzo grasso di circa sedici anni che sorrideva al nulla, e lui. Fu costretto a mettersi a sedere fra i due domandandosi che cosa potevano pensare di lui, come lo avrebbero descritto: probabilmente un piccolo commesso dall’aspetto ordinato… anche se quel giorno non si sentiva molto ordinato.

Alla scrivania non c’era nessuno. Mentre erano lì, il telefono squillò sei volte, ma nessuno rispose.

Quando smise di squillare, lui si alzò ed esaminò la scrivania. Sul ripiano c’erano un vaso con una pianta, un tampone verde e una penna a sfera argentata tra le braccia di un koala rosa. Il cassetto conteneva matite, una penna a sfera, una scatola di fermagli e qualche elastico. A sinistra una finta fila di cassetti nascondeva un vano dentro al quale c’era una macchina per scrivere elettrica fissata a un sostegno retrattile. Sollevò la macchina per scrivere per vedere se c’era niente nascosto lì sotto.

La donna dall’espressione malinconica gli lanciò uno sguardo di disapprovazione.

Non c’era da meravigliarsi se era così giù di morale, pensò. Non vuole che qualcuno si diverta.

I finti cassetti a destra nascondevano un vano dove c’erano dei contenitori con fogli di carta bianca e gialla, carta da lettere con l’intestazione del Centro di Igiene Mentale, buste assortite, carta carbone e carta velina.

Era tutto. Se la persona che aveva usato quella scrivania vi aveva mai conservato oggetti personali, doveva averli portati via. Pensò che anche un dizionario da ufficio avrebbe potuto rivelare il nome della proprietaria, scritto sulla copertina. Ma il dizionario, se mai c’era stato, non c’era più.

Sotto il tampone non c’era nulla e non c’erano etichette sul telefono. Il koala era grazioso e silenzioso. Lui tirò fuori la carta da lettere, la carta uso bollo bianca, la carta gialla e le scompigliò con la vaga idea che potessero nascondere qualcosa. Non c’era nulla. Anche la carta carbone, ancora intatta, e la carta velina non rivelarono nulla. La penna nel cassetto era di plastica, del tipo che i rivenditori di articoli per ufficio distribuiscono per pubblicità. Su un lato della penna c’era scritto SOC. LA TIGRE con l’indirizzo e il numero telefonico. Dall’altra parte: CENTRO DI IGIENE MENTALE — LORA MASTERMAN. Si infilò la penna in tasca e si rimise a sedere.

Una donna ossuta con un ciuffetto di barba uscì a passo di marcia dallo studio del dottore, attraversò la sala d’aspetto come se loro fossero invisibili, e se ne andò. La donna dai denti di coniglio, con cui aveva parlato il giorno in cui aveva scoperto che Lara se n’era andata, guardò attraverso la porta, lo vide e disse: — Prego, signor Green, entri pure.

Il ragazzo grasso si alzò in piedi. — Ma insomma, un momento!

La donna dai denti di coniglio gli disse in tono calmo: — Il caso del signor Green è urgente, signor Bodin. Mi riservo il diritto di vedere i miei pazienti nell’ordine che ritengo opportuno.

Lui disse: — Fra un momento, dottoressa, le dirà che ho preso questa penna dalla scrivania della sua segretaria. — Sollevò la penna in modo che lei potesse vederla. — Ho pensato che forse avrei avuto voglia di prendere nota di quello che dicevamo e mi sono accorto di aver dimenticato la mia penna a casa.

— Non si deve preoccupare, signor Green. Vuole entrare?

Lo studio era più piccolo di quello di Drummond e arredato con più semplicità. Aspettò che la donna si sedesse, si accomodò su una sedia e poi disse: — Che mi sta succedendo dottoressa?

— Non lo so, signor Green. È quello che stiamo cercando di scoprire.

— Sono già venuto da lei altre volte?

Lei annuì.

— Spesso?

— Ha importanza?

— Per me sì. Molta. Spesso?

La dottoressa sfogliò i documenti dentro la cartelletta davanti a lei. — Questa è l’ottava volta. Perché è così importante?

— Perché io mi ricordo di essere venuto una sola volta.

Lei corrugò la fronte. — Interessante. E quando? — Il 14 marzo. Si ricorda cosa le ho domandato quella volta?

— Durante le visite prendo sempre appunti. Lei stava cercando una donna di nome Lara Morgan. L’ha trovata?

— No. Ha una foto di Lora Masterman?

— Se l’avessi, signor Green, non gliela mostrerei. La signora Masterman non lavora più qui e non voglio che sia importunata dai miei pazienti.

— Se n’è andata piuttosto all’improvviso — disse lui. — Le ho parlato quando ho telefonato dal negozio. Mi ha tenuto in linea per circa dieci minuti, prima di farmi parlare con lei. Quando sono arrivato qui, se n’era andata.

La dottoressa annuì ancora. — È vero, se n’è andata senza preavviso, signor Green. Comunque le sue dimissioni sono un problema mio, non suo.

— Mi dica una cosa e non le farò più alcuna domanda su di lei. Lora corrisponde alla descrizione che le ho fatto di Lara quando sono venuto da lei in marzo?

— Deve farmi una promessa solenne, signor Green.

— Va bene, le do la mia parola d’onore che se risponde a questa domanda non le chiederò più nulla su di lei.

La dottoressa annuì. — D’accordo, allora. Mi faccia rileggere quello che aveva detto. — Esaminò il foglio che aveva davanti. — Lei ha detto che Lara Morgan aveva i capelli rossi ed era alta un metro e settantacinque. Ha detto anche che aveva le lentiggini. Indossava un vestito verde, di seta o di nailon e gioielli d’oro. No, signor Green, questa descrizione non corrisponde affatto a Lora.

Lui si piegò in avanti sulla dura sedia di legno. — Si tratta solo del colore dei capelli? Perché…

— Signor Green, lei mi ha dato la sua parola che non mi avrebbe fatto più domande qualora le avessi detto se l’aspetto di Lora corrispondeva o meno alla sua descrizione. Io le ho detto che non corrisponde. Il mio tempo è limitato, e ci sono pazienti che stanno aspettando di vedermi… pazienti che stavano aspettando ancor prima che lei venisse qui.

Lui annuì e le porse la penna di Lora Masterman. — Deve farmi un biglietto dove dichiara che sono venuto da lei, altrimenti non mi riprendono al lavoro. Se me lo fa, me ne vado.

— Non glielo farò, almeno non subito. Lei, come mi ha promesso, non ha più domande da farmi, almeno per quanto riguarda Lora, ma io ne ho molte da fare a lei. La prima è: perché è venuto da me oggi? Ma a questa mi ha appena risposto. La seconda è: perché devo farle questo biglietto? Non è andato a lavorare durante gli ultimi tempi?

Lui scosse la testa. — No. L’ultima volta è stato il 13 marzo, il giorno prima di venire qui.

— E in tutto questo tempo lei è stato alla ricerca, mi pare infruttuosa, di questa Lara Morgan?

— Sì.

— Capisco. — La dottoressa Nilson annotò qualcosa sul suo taccuino. — Mi dia la prova che Lara Morgan esiste, signor Green.

— Va bene, gliela darò se prima lei mi dà la prova che esisteva Lora Masterman.

La dottoressa Nilson lo fissò per qualche secondo poi un leggero sorriso le piegò le labbra. — Lei è molto migliorato o molto peggiorato, signor Green, e le giuro che non so nemmeno io quale delle due ipotesi sia quella giusta. Lei è un’indovinello nascosto in un enigma. Mi sembra di ricordare che Winston Churchill si espresse così a proposito della Russia.

— Può darmi questa prova?

— Sì, certo. E si dà il caso che possa farlo con una certa facilità. C’è un avvocato che lavora qui da poco a tempo pieno. Circa due settimane fa, ha comprato una nuova macchina fotografica e per provarla si è messo a scattare fotografie. Quella che ha fatto a Lora e a me è venuta così bene, almeno secondo lui, che ce ne ha fatta una copia ciascuna. — La dottoressa Nilson aprì un cassetto della scrivania. — La mia copia è ancora qui.

Gli porse una busta marrone dodici per diciotto con la scritta CANDID CAMERA SHOPS.

— No!

— No, che cosa, signor Green?

Lui non rispose.

— Non vuole vedere la foto?

— Non c’è nessuna foto lì dentro — disse lui. — O se c’è non è di Lara. Lora. — Non si rendeva conto di come facesse a saperlo, ma lo sapeva.

— Lei ha ragione quando dice che non è la foto di Lara Morgan, ma è quella di Lora Masterman. Anzi, la stavo guardando solo qualche minuto fa, dopo che Lora se n’è andata così all’improvviso. Era la migliore segretaria che avessi mai avuto.

Tirò fuori dalla busta una fotografia e gliela mostrò. Si vedeva la dottoressa nella sala d’aspetto con un braccio intorno alle spalle di una ragazza bruna e sorridente seduta alla scrivania. Su una semplice targhetta di plastica, appena visibile sul lato destro della foto, si leggeva LORA MASTERMAN.

— Ecco qui, signor Green. Niente lentiggini, pochi gioielli, nessun vestito verde di seta… o almeno io non gliel’ho mai visto… e nessuna pelliccia. Capelli castani, e non rossi. Occhi castani, non verdi.

Lui annuì lentamente. — È Tina.

— Tina?

— Tina è uno dei nomi che lei usa. Quando ha questo aspetto, si fa chiamare Tina.

— Capisco. — La dottoressa Nilson pronunciò le parole in tono indifferente. — Può spiegarmi perché cambia nome?

— No — disse lui. Poi aggiunse: — Qualcosa posso spiegare, ma poco. Ho pensato molto a lei.

— L’avevo capito.

Lui disse lentamente: — Ha mai guardato il cielo di notte, dottoressa?

— Sì, spesso. Ma non tanto quanto avrei voluto. La città è così illuminata che le stelle si vedono raramente. Ma lo scorso inverno c’è stato un oscuramento improvviso… forse se lo ricorda… e io sono rimasta sulla terrazza fino a quando ero quasi congelata.

— E lei sa quanto sono lontane.

— Vagamente. Non sono un’astronoma.

— Una volta alla televisione ho visto Carl Sagan che diceva che molte stelle sono così lontane che ci vogliono milioni di anni perché un raggio di luce arrivi fino a noi, e la luce è la cosa più veloce che ci sia. Si è mai domandata perché Dio le ha messe così lontano?

— Credo che tutti se lo siano domandato, signor Green.

— Eppure qualche volta arrivano qui dei Visitor e ci sono cose del nostro mondo che semplicemente scompaiono.

La dottoressa Nilson annuì. — Come i cartelli all’aeroporto. ARRIVI e PARTENZE.

— Credo di sì. Non sono mai salito su un jet o su un altro aeroplano. Ma so che ci sono persone e cose che all’improvviso svaniscono e certe volte altre persone e altre cose compaiono qui. — Cercò di ricordare che cosa gli aveva detto Fanny dei canali televisivi, ma pensò che non sarebbe stato capace di spiegarlo bene. Disse: — C’è un altro mondo, dietro la porta, se attraversiamo la porta giusta.

La dottoressa Nilson fece qualcosa sotto il ripiano della scrivania. — Vada avanti, la prego, signor Green.

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