Tina poteva dirgli cosa c’era dentro la cassa, ma lui doveva comunque aprirla da solo, a meno che non decidesse di aspettare la sera seguente per farlo fare dal custode. Senza dubbio questa era la decisione più ragionevole.
Scoprì, però, che non aveva nessuna intenzione di essere ragionevole e non gli ci volle più di un minuto per capirne il motivo. Avrebbe visto Lara il giorno dopo e voleva poterle raccontare tutto sulla cassa e sul suo contenuto, di qualunque cosa si trattasse e comunque non voleva essere obbligato a raccontarle che non era stato capace di aprirla da solo. Che cosa avrebbe pensato Lara di un uomo che non sapeva aprire una semplice cassa di legno?
Andò in cucina e si munì del cacciavite di cui aveva appena parlato a Tina e di un grosso coltello da cucina. Osservò la terribile lama ricurva e cercò di ricordare se l’avesse mai usato prima. Probabilmente no; sembrava più adatto a dare il colpo di grazia a grossi animali pelosi. Non poteva certo cominciare a menare fendenti sulla cassa, con Tina lì dentro.
— Tina! — gridò. — Va tutto bene?
Non ci fu nessuna risposta. Appoggiò un orecchio su una fessura, sicuro che, se Tina si fosse mossa, lui l’avrebbe sentita. Dopo qualche secondo, riuscì a distinguere il ronzio della sveglia elettrica e il rumore di qualcuno che si preparava ad andare a letto nell’appartamento accanto, ma non sentì nessun suono provenire dalla fessura. Silenzio di tomba.
— Tina, vuoi farmi uno scherzo?
Afferrò un’altra assicella e cercò di tirarla via, ma quella non si mosse di un centimetro. Forse era inchiodata troppo saldamente o forse lui si era stancato troppo a tirar via la prima.
Eppure si vedeva una leggera crepa. Infilò la lama nella sottile fessura e la mosse avanti e indietro. La fessura si allargò fino a raggiungere il bordo dell’assicella e ad allentare la presa di un chiodo. Inserì la lama sotto l’estremità dell’assicella e fece leva. Aveva sentito dire che era una cosa da non fare, ma scoprì che non gliene importava niente. Anche se la lama si fosse spezzata, avrebbe continuato con quello che ne restava.
Fu invece il chiodo a cedere con uno scricchiolio. Gettò il coltello, afferrò l’assicella e la strappò via.
Adesso l’apertura era raddoppiata e la luce della lampada, che aveva sistemato per Tina, riusciva a illuminare meglio l’interno. La superficie scura e ruvida, che aveva creduto essere quella dell’oggetto imballato, scoprì invece che era un involucro di cartone. Lo toccò con una mano facendo pressione, l’oggetto lì sotto sembrava liscio e resistente. Di Tina nessuna traccia.
Impugnò il coltello e cominciò a lavorare sulla terza assicella, poi si rese conto che stava trascurando di usare lo strumento più efficace. Inserì l’estremità più stretta dell’assicella che aveva appena tirato via sotto la terza e fece forza sull’altra estremità, utilizzando come fulcro il bordo della cassa. I chiodi opposero un po’ di resistenza lamentandosi, ma l’assicella venne via piuttosto facilmente. La stessa cosa accadde con quella seguente, rimaneva così solo l’assicella su cui era appoggiata la lampada.
Cercò di afferrare il cartone da imballaggio e di tirarlo via, ma era troppo resistente e troppo teso per permettergli una buona presa. Avrebbe potuto tagliarlo col coltello, se non avesse temuto di danneggiare l’oggetto all’interno o di fare male a Tina. La chiamò di nuovo, dolcemente, e cercò di dirle quanto fosse preoccupato per lei. Non ricevette alcuna risposta.
Rimise la lampada sul tavolo e cercò di fare ancora leva sotto l’ultima assicella, ma non aveva più un bordo su cui appoggiarsi.
Non c’era nessuna fessura dove potesse vantaggiosamente inserire il coltello. Cercò di fare forza sotto l’estremità dell’ultima assicella e infilò la punta del cacciavite nel sottile varco che era riuscito a praticare; appena tentò di fare leva, il cacciavite si piegò come se fosse di filo di ferro.
Non voleva più usare il coltello perché temeva che si spezzasse. Fino a quel momento non gli sarebbe importato affatto se fosse successo e, anzi, lo avrebbe buttato via senza problemi, se avesse avuto bisogno di fare spazio nella cassetta degli attrezzi. Adesso, invece, lo sentiva suo, come sentiva suoi i blocchetti degli ordini e la penna d’argento a cui aveva sostituito tante volte il ricambio.
Inserì la lama sotto l’altra estremità dell’assicella e mosse lentamente il manico su e giù, dapprima con delicatezza e poi, sentendo che il chiodo faceva resistenza, con sempre maggior forza. Dopo che ebbe allargato di qualche millimetro il varco tra l’assicella e il bordo della cassa, ritirò la lama e afferrò l’estremità del pezzo di legno cercando di schiodarlo. Ripeté il tentativo più volte e con tanta energia che arrivò a sollevare la cassa da terra. Finalmente, quando anche l’ultima assicella saltò via, lui riuscì a vedere l’interno della cassa meglio di quando c’era la lampada appoggiata sopra. Quando avevano preparato la cassa, prima d’inchiodare le assi che facevano da coperchio, avevano appoggiato un cartone da imballaggio ruvido e scuro sopra l’oggetto rettangolare, con i lembi che pendevano sui quatro lati. Tutt’intorno avevano infilato trucioli di legno per assicurare una protezione migliore. Lui tolse tutti i trucioli e tirò via il cartone.
La superficie rettangolare che aveva sentito era il ripiano di uno scrittoio, un pannello scuro di legno tropicale. Lo riconobbe subito, riconobbe ogni graffio e ogni segno del tempo. La ribalta era chiusa, chiusi i cassetti, ma era lo scrittoio, il suo scrittoio.
Adesso le quattro pareti della cassa sarebbero crollate a terra, pensò. Ma si sbagliava. Fu costretto a toglierle a una a una e ad accatastarle in un angolo della stanza. Finito il lavoro, si fermò bagnato di sudore a cercare Tina fra il mucchio di materiali da imballaggio e ad ammirare lo scrittoio. Solo allora notò che il nastro adesivo, che avrebbe dovuto tener ferma la ribalta, era semistaccato. Per un attimo si domandò se fosse stata Tina, se la bambola potesse aver avuto la forza necessaria per staccarlo. Forse sì, concluse. Con le sue dita minuscole poteva aver facilmente sollevato un lembo del nastro adesivo e poi averlo tirato via completamente. Toccò il nastro e notò che non aderiva bene al legno; lo scrittoio probabilmente era stato lucidato a cera di recente.
Rifece mentalmente il probabile percorso di Tina. Forse, trovandosi davanti lo spesso cartone, la bambola aveva tentato di infilarsi sotto. I trucioli potevano averla bloccata e lei forse si era lasciata scivolare giù lungo uno spigolo. In origine, il cartone doveva essere un foglio piatto che era stato ripiegato per aderire allo scrittoio. Tina non poteva essersi arrampicata su per le gambe cerate del mobile, ma gli spigoli di cartone ondulato le avevano offerto un facile appiglio.
Tolse il pezzo di nastro adesivo. Lo scrittoio aveva una serratura di ottone, ma la chiave doveva essersi perduta cento anni prima, o forse anche di più.
— Eccoti qui, Tina, ti ho trovato! — disse aprendo la ribalta.
Ma Tina non c’era. C’era una fila di otto caselle e sotto un’altra di sei, più grandi (le aveva contate spesso nel negozio). Erano tutte vuote, a eccezione di una dove c’era una busta color avorio di piccole dimensioni. Con l’idea che Tina potesse essersi nascosta lì dietro, prese la busta. Tina non c’era e appena ebbe la busta in mano, capì che non avrebbe potuto nascondersi lì dietro. Le quattordici caselle vuote lo fissavano senza espressione e gli sembrò di sentire la risata divertita di Tina.
Si mise a sedere nella vecchia poltrona marrone con la bruciatura di sigaretta sul bracciolo e aprì la busta.
Caro signor Green,
quando avevo dodici anni, mia madre mi regalò una vecchia bambola e da quel momento sono diventata una collezionista di oggetti antichi. Da allora sono passati più di cinquant’anni. Conosce questa poesia di Kipling?
Nessuna armonìa nello stile,
nessun estro nel progetto…
le vestigia in rovina
giacevano sparse sul terreno.
Opere murarie rozze, malfatte.
Ma su ogni pietra portavano inciso:
“Al Costruttore che verrà,
testimoniate che anch’io sapevo”.
Era una delle poesie preferite del mio povero marito.
Buon Natale. Spero che perdonerà a una vecchia donna di essere una sentimentale.
Posta. Lesse di nuovo la lettera, come se dovesse nascondere qualche indizio. Alla televisione c’era sempre qualcuno che si arrampicava su una montagna per chiedere a qualche strano uomo barbuto vestito di un saio di spiegargli il significato della vita. Non ne avrebbe più riso. Nessuno avrebbe potuto farlo. “Nessuna armonia nello stile, / nessun estro nel progetto… / le vestigia in rovina / giacevano sparse sul terreno”.
Prese i soldi che aveva trovato Tina, li contò e se li mise in tasca.
Tina giocava a nascondersi. Solo di questo si trattava. Stava rintanata dentro lo scrittoio o in mezzo al materiale da imballaggio ammucchiato alla parete, oppure — ma era improbabile — era sgattaiolata fuori dalla cassa e ora si nascondeva da qualche parte nell’appartamento. Forse, se fosse andato a letto, lei…
No. Per fargli uno scherzo, Tina si sarebbe nascosta per qualche minuto, non per tanto tempo. Sicuramente non avrebbe voluto che lui si preoccupasse, doveva esserle successo qualcosa.
Tina non poteva essere in uno dei cassetti perché erano ancora chiusi con il nastro adesivo. Strappò ugualmente tutte le strisce e guardò in ogni cassetto. Se avesse potuto, li avrebbe estratti completamente; ma erano trattenuti da fermi applicati prima che fosse fissato il pannello posteriore.
Tina, comunque, non era nascosta in nessun cassetto. Lui si stava comportando come l’uomo della barzelletta che cerca la chiave del portone, non dove l’ha persa, ma sotto il lampione, perché lì c’è più luce. Tina probabilmente aveva sollevato il nastro adesivo che teneva chiusa la ribalta e si era infilata lì dietro. Era possibile che una delle caselle avesse un doppiofondo? Avevano tutte la stessa profondità, le controllò a una a una con la riga. Si accorse però che la loro profondità era minore di circa due centimetri di quella del ripiano superiore dello scrittoio. Tra la base della fila inferiore di caselle e il ripiano della ribalta dello scrittoio, non c’era nulla. O meglio, c’era solo una fascia di legno quasi nero, alta circa otto centimetri.
Cercò di afferrarla, di estrarla, ma non c’era nessuna sporgenza, perché il bordo superiore era a filo delle caselle, gli spigoli laterali erano coperti dalle paretine verticali dello scrittoio e il bordo inferiore aderiva al ripiano.
Prese la lampada da tavolo, l’appoggiò sullo scrittoio e si mise a osservare la fascia di legno uniforme. Era possibile che Tina fosse riuscita a vedere, sotto lo stesso strato di cartone, qualcosa che lui non riusciva a vedere nemmeno alla luce della lampada? Tina poteva solo aver toccato il pannello, ma nel buio pesto in cui si trovava, non poteva aver visto nulla.
Rimise la lampada al suo posto, chiuse gli occhi e passò le dita sul pannello. Non sentì nulla.
Le dita di Tina erano più piccole delle sue, erano quasi sottili come spilli. Prese il coltello e passò leggermente la punta sulla superficie del legno, facendo attenzione a non graffiarlo, o almeno a non graffiarlo più di quanto non lo fosse già dopo due secoli. Per qualche strana ragione i graffi erano più numerosi sul lato sinistro.
Quando la punta del coltello arrivò da quella parte, andò a infilarsi nell’angolo, tra lo spigolo del pannello e la parete verticale dello scrittoio. Lui spinse delicatamente la punta e, più che udire, sentì un clic, mentre il pannello si spostava di mezzo centimetro verso di lui.