21. I grandi magazzini

Aveva completamente dimenticato che il negozio era così nuovo e lustro. L’esterno era rivestito di pietra calcarea e la società lo faceva sabbiare ogni due anni. Le grandi vetrine bombate erano profilate d’ottone e venivano lavate ogni mattina dal personale della manutenzione che lucidava anche le cornici fino a farle brillare come se fossero d’oro.

— Non hanno ancora aperto — gli disse una donna grassa, ferma a guardare un prendisole esposto in una delle vetrine.

— Io lavoro qui — disse lui sperando che fosse ancora vero. Il negozio avrebbe aperto alle nove e mezzo in punto, ma gli impiegati del primo turno dovevano timbrare il cartellino alle otto e mezzo. Adesso erano le otto e tre minuti. Girò sul retro e salì i gradini di cemento dell’entrata del personale, dove c’era di guardia Whitey incaricato di controllare che nessuno timbrasse il cartellino per un altro collega.

— Salve — disse Whitey. — Ha fatto una bella vacanza?

Lui annuì. — Mi sembra di essere stato via solo un paio di giorni.

Veramente gli sembrava e non gli sembrava. Non era cambiato niente, solo lui era cambiato.

Resistette alla tentazione di dare un’occhiata al suo reparto e prese l’ascensore fino agli uffici amministrativi. Mentire o dire la verità? Decise di dire la verità, era un pessimo bugiardo e non sarebbe riuscito a inventare una storia che spiegasse la sua lunga assenza.

L’altro problema era: doveva andare dal signor Capper o all’Ufficio Personale? Capper era (o era stato) il suo caporeparto e se l’avesse sostenuto, l’Ufficio Personale non avrebbe potuto toccarlo. D’altra parte, se Capper fosse stato infuriato — il che era molto probabile — il direttore del personale se la sarebbe presa a male perché non si era rivolto prima a lui e si sarebbe opposto a un suo trasferimento.

All’Ufficio Personale inoltre c’erano maggiori possibilità di trovare qualcuno perché Capper poteva essere nel suo ufficio, ma anche in giro per il reparto a controllare il rifornimento della merce. Anzi, poteva addirittura non essere ancora arrivato.

Seduta alla scrivania, Ella si stava mettendo lo smalto alle unghie. Disse: — Ehi, ciao!

Nella stanza c’erano delle sedie pieghevoli per gli aspiranti impiegati. Lui si mise a sedere in quella più vicina alla scrivania. — Sono tornato — le disse.

— Già… — esitò. — Il signor Drummond non è ancora arrivato.

— Lo aspetterò.

— Ti ho segnato in malattia per una settimana. — Anche se erano soli, Ella aveva abbassato la voce. — Poi Drummond mi ha detto di telefonarti. Una volta è perfino venuto nel tuo appartamento di notte e ha suonato il campanello, ma ha detto che non ha risposto nessuno.

— Ero via. Sono tornato ieri e mi sono reso conto di essere stato via a lungo. L’appartamento era pieno di polvere, ci crederesti?

— Hai avuto un’amnesia?

— Non credo. Mi ricordo due notti: una passata in un ospedale e una, anzi due, in una stanza d’albergo. — Non sapendo cos’altro aggiungere disse: — La stessa stanza.

Ella si chinò in avanti e allungò una mano verso di lui. Lui notò quanto somigliasse a Fanny, ma forse non si ricordava più che aspetto aveva Fanny. Ella disse: — Sei stato via più d’un mese.

Lui annuì. — Penso di sì.

Senza rendersene conto anche lui aveva allungato la mano e quando Ella gliela toccò si accorse della fasciatura. — Ma che cosa ti è successo? Anche in faccia… hai una scottatura sulla guancia e una sulla fronte.

— Sono quasi guarito — disse lui. — Non erano molto profonde.

— Hai avuto un incidente? Che ti è successo?

Lui annuì di nuovo. — Stavo in un negozio cinese… quello del signor Sheng. Nello scantinato c’erano dei fuochi d’artificio che hanno preso fuoco. Credo che sia stato un tipo di nome Bill North, perché in quel momento North stava lì sotto e poi fuma sigari. — Anche se si rendeva conto che non avrebbe dovuto, sorrise. — Stavo bevendo il tè col signor Sheng e suo nipote, quando all’improvviso su dalle scale è arrivato un razzo che ha colpito la parete di fronte ed è entrato nella stanza dove ci trovavamo. Eravamo terrorizzati. Poi credo che abbiano preso fuoco altri razzi, perché l’unica cosa che ricordo è che stavo seduto in mezzo alla strada con le orecchie che mi pulsavano e un poliziotto e un infermiere curvi sopra di me. Mi hanno detto che avevano portato il signor Sheng all’ospedale su un’autoambulanza, ma…

Drummond entrò nella stanza, fece un cenno a Ella poi, vedendolo, sollevò un sopracciglio e sorrise.

Ella disse: — Buongiorno, signore.

Drummond entrò nel piccolo ufficio dietro la scrivania di Ella e chiuse la porta.

Ella sussurrò: — Adesso vado da lui e gli parlo. Tu aspetta qui, d’accordo?

Lui annuì e rimase a osservarla mentre entrava nell’ufficio di Drummond. Era più in carne di Fanny, pensò.

Meglio così, se non altro. Aveva i capelli castani, Fanny invece li aveva neri, ne era sicuro. Naturalmente nessuna donna era o poteva essere come Lara, e lui non avrebbe mai scambiato nessuna per lei. Si era accorto subito che Marcella era Lara, anche se Marcella era bionda, o almeno così sembrava. Infatti, non si può mai essere sicuri quando si tratta di immagini in bianco e nero o di ritratti fatti da un artista di seconda categoria.

Dette un’occhiata al suo orologio. Erano le otto e ventotto minuti. Non si ricordava quando era arrivato nell’Ufficio Personale, ma gli sembrava che Ella fosse entrata da Drummond da un bel po’ di tempo.

Nel corridoio c’era una fontanella. Dette una sorsata e si riempì varie volte la bocca di acqua ghiacciata obbligandosi a inghiottirla. Aveva sempre la sensazione di non aver mai bevuto abbastanza acqua e doveva berne sempre un po’ appena gli si presentava l’occasione.

Quando rientrò, Ella stava ancora nell’altra stanza con Drummond. Tra le riviste appoggiate sul tavolo trovò Time e cominciò a sfogliarlo. Il presidente aveva riaffermato il suo impegno verso “la gente comune” e approvato un taglio ai fondi della Previdenza Sociale; il Medio Oriente stava per esplodere. Si domandò se poteva essere una buona soluzione spedire il presidente in Medio Oriente, poi cercò di ricordare se aveva mai visto Time o comunque un qualsiasi giornale. “Là” era la parola che usava per indicare l’altro mondo, il posto dove stava Lara. Non riusciva a ricordarsi di averne mai visto uno, però non poteva esserne sicuro.

Ma sì, certo, aveva visto la foto di Walsh sul giornale. Questo posto era Qui e quello era Là. Non riusciva a ricordare se sui giornali le strisce a fumetti erano le stesse oppure se non ci fossero affatto.

La porta dell’ufficio di Drummond si spalancò e ne uscì Ella. Disse: — Il signor Drummond vuole vederti subito. — Lui mise giù Time ed entrò nella stanza.

Drummond sorrise e disse: — Si sieda. Per prima cosa desidero dirle che è stata tutta colpa mia. Mi piace sapere tutto dei nostri impiegati e avrei dovuto interessarmi di più a lei.

Lui si mise a sedere. Di fronte a lui, oltre a Drummond, c’era una grande targa di bronzo che diceva:


A. DICKSON DRUMMOND
DIRETTORE DEL PERSONALE

Lui disse: — È molto gentile da parte sua, signor Drummond. Ma non è stata colpa sua. — Contò silenziosamente fino a tre e poi aggiunse: — Veramente credo che non sia stata nemmeno colpa mia. È successo.

Drummond scosse la testa. — No, non riesco a perdonarmelo. A proposito, un momento fa parlavo al telefono con il suo medico. Ha detto che è molto tempo che lei non si fa vedere.

Cercò di ricordare se fosse mai andato da un medico. Certamente sì, ma non si ricordava in che occasione. Il dottor Pillo-Lin era stato il suo medico all’ospedale; gli sembrava di capire, però, che Drummond non si riferisse a questo. Rispose: — Immagino che sia così.

— Vogliamo che lei vada dal suo medico immediatamente. Sia ben chiaro: non la settimana prossima, o domani, o questo pomeriggio. Questa mattina, appena esce da questo ufficio.

— Speravo di poter tornare nel mio reparto, signore. È periodo di saldi e hanno bisogno di me.

— Certo che può — gli rispose Drummond — ma prima deve andare dal suo medico. Appena torna venga su da me, mi faccia vedere un biglietto dove si dice che lei è stato dal medico e poi può riprendere subito il suo lavoro.

Si sentì enormemente sollevato.

— Il suo medico la riceverà appena lei arriva allo studio… la dottoressa non dà appuntamenti. Vedrà che sarà di ritorno prima di colazione.

Lui annuì.

— Il suo medico mi ha detto di chiederle se per caso ha ricevuto un colpo alla testa.

Lui annuì. — Sono scivolato sul ghiaccio e ho battuto la testa sul selciato.

Drummond sorrise di nuovo. — Poteva accadere a chiunque, no? Per ora è tutto. Vada pure dal medico e non si dimentichi del biglietto.

Lui si alzò. — Non me ne dimenticherò, signore.

— Un’ultima cosa — Drummond alzò un dito. — Mentre lei era assente ho chiesto a Ella di chiamarla al telefono. Non è mai riuscita a mettersi in contatto con lei, ma una volta ha risposto uno che ha detto di chiamarsi Perlman o qualcosa del genere. Lei sa che ci faceva nel suo appartamento?

Lui si strinse nelle spalle. — Forse era qualcuno dell’amministrazione, signore.

Quando fu di nuovo nella sala d’aspetto cercò di ricordare le telefonate che aveva fatto dai Riuniti.

Quella voce maschile, rauca, era di Perlman?

Ella gli domandò: — Va tutto bene?

— Benissimo — disse lui distrattamente evitando di dirle che sarebbe dovuto andare da un medico di cui non si ricordava nulla. Aveva trovato la fattura di un medico nella cassetta della posta? O in mezzo a tutta quella corrispondenza che aveva ritirato all’ufficio postale? Non l’aveva esaminata con attenzione e non se lo ricordava.

— Ella, hai detto di aver telefonato al mio appartamento?

Lei annuì.

— Anche il signor Drummond me lo ha detto. Mi ha detto anche che una volta hai parlato con un certo Perlman.

Ella scosse la testa. — Non mi ha mai risposto nessuno. — Esitò. — Se ritorni prima di mezzogiorno, perché non ti fai offrire la colazione dall’Ufficio Personale? Festeggiamo il tuo rientro.

— Non hai mai parlato con qualcuno che si chiamava Perlman?

— Non ho mai parlato con nessuno — disse Ella. Sembrò di colpo depressa senza alcuna ragione apparente. — Sono rimasta a casa per la mia schiena e hanno assunto una sostituta. Dopo, Drummond ha continuato a rimproverarmi per errori che aveva fatto quella ragazza. Probabilmente è stata lei a parlare a Perlman. Ma se vuoi sapere la mia opinione, doveva aver sbagliato numero.

Al piano di sotto c’era la sala di soggiorno per il personale, un salone squallido e quasi sempre sporco dove mangiavano gli impiegati che si portavano la colazione da casa. Infilò alcune monete nella macchina del caffè (gli venne in mente Joe nello scantinato dell’ospedale), trovò una sedia pulita e si mise a sedere.

I medici devono essere pagati. Tirò fuori il libretto degli assegni e scorse le matrici. Non aveva firmato nessun assegno per nessun medico. Assolutamente nessuno. Eppure qualcuno doveva pur averlo pagato. Probabilmente il Servizio Assistenza della società, gestito dall’Ufficio Personale.

Ma se avesse chiesto a Ella di dargli il numero telefonico del suo medico, lei l’avrebbe riferito a Drummond. D’altra parte non poteva mettersi a telefonare a tutti i medici. Quanti medici c’erano in città? Migliaia, probabilmente. Cercò di ricordarsi cosa aveva detto Drummond del suo medico. “Il suo medico la riceverà appena arriva allo studio. Il dottore non ha l’abitudine di dare appuntamenti. Vedrà che sarà di ritorno al lavoro prima di colazione”.

No, sbagliava. Non aveva detto “il dottore”, aveva detto “la dottoressa”. “La dottoressa non ha l’abitudine di dare appuntamenti”. Il suo medico era una donna. Forse c’erano migliaia di medici, ma quanti di loro erano donne?

Forse cinquanta. E il suo medico non doveva essere in periferia.

In un angolo della stanza, accanto al telefono, c’era un vecchio elenco consunto. Aprì alle pagine dove erano elencati i medici e tirò fuori la penna.

Decise di considerare uomini i medici che erano registrati con la sola iniziale del nome. Almeno metà delle donne erano ginecologhe e pediatre e potevano essere eliminate. Trascurò anche quei nominativi il cui indirizzo era troppo lontano dal negozio o dal suo appartamento. Rimanevano solo tre nominativi. Infilò le monete nella fessura, tirò fuori il portafoglio e controllò il nome che lui e North avevano scelto all’albergo. A.C. Pine, ecco qual era. Mise la patente sul ripiano.

— Studio della dottoressa Nilson.

Chissà se questa dottoressa dava appuntamenti? Disse: — Mi chiamo Adam Pine. Vorrei un appuntamento con la dottoressa Nilson al più presto… questa mattina, se è possibile.

— La dottoressa Nilson… — In lontananza qualcuno chiamò: — Lara! Lara! — Non riuscì a distinguere se fosse una voce maschile o femminile. Era debole e stridula.

— Può restare in linea un momento, signor Green?

La donna non aspettò che lui rispondesse. Dopo un momento un pianoforte cominciò a suonare il “Chiaro di luna”.

Lui restò in attesa, ripetendosi che avrebbe aspettato tutto il giorno se fosse stato necessario. Il “Chiaro di luna” finì e cominciò un altro pezzo che non riconobbe. Finalmente un’altra voce disse: — Parla la dottoressa Nilson.

— Vorrei parlare con Lara.

— Con Lora? Se n’è appena andata.

— Allora voglio un appuntamento con lei il più presto possibile.

— Io non do appuntamenti. Prima si arriva, prima si viene ricevuti. Venga nel mio studio, al Centro di Igiene Mentale, e la riceverò appena posso.

Al secondo tentativo riuscì a dire: — Credo di essere venuto da lei altre volte. Dovrebbe avere la mia scheda. — Disse il suo nome.

Il tono di voce della dottoressa Nilson divenne cordiale.

— Oh, naturalmente, signor Green. Mi creda o no, stavo esaminando il suo caso l’altra sera e speravo che lei si facesse vivo. Ormai è più di un mese…

Lui cominciò a dire: — Se avesse provato a telefonare…

— Non lo faccio mai, se non in casi di emergenza. È meglio che siano i pazienti a mettersi in contatto con me di loro volontà. Venga pure subito, vedrò di riceverla immediatamente.

— Va bene.

— E ora, se vuole scusarmi…

Lora è andata via e c’è qualcuno sull’altra linea.

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