Chemosh si trovava sui bastioni del suo castello-fortezza e osservava la farsa che si svolgeva su un tratto di terreno riarso davanti a lui. La bella fronte del Signore della Morte era corrugata. Chemosh se ne stava con le braccia incrociate sul petto. Di quando in quando la crescente frustrazione lo costringeva a smettere di guardare e a mettersi a camminare su e giù per i bastioni. Quindi si fermava, tornando a guardare nella speranza che le cose avessero preso una piega per il meglio. Invece gli sembrava che andassero di male in peggio.
«Eccovi qui, mio signore», disse Mina, emergendo da una porta ricavata in una delle torri d’angolo. «Vi ho cercato dappertutto.»
Andò da lui e lo cinse con le braccia.
Chemosh la respinse, disgustato dal contatto con lei. «Non sono di buon umore», le disse. «Faresti bene a lasciarmi solo.»
Mina seguì il suo sguardo irato verso il punto in cui il cavaliere della morte, Ausric Krell, stava tentando di addestrare i Prediletti di Chemosh facendone una truppa combattente.
«Che cosa c’è che non va, mio signore?» domandò Mina.
«Guarda tu stessa!» Chemosh fece un gesto. «Quella marmaglia indisciplinata è il mio esercito. L’esercito che deve marciare sotto il mare per conquistare la torre di Nuitari. Bah!» Si voltò disgustato. «Quell’esercito non riuscirebbe a razziare un picnic di kender!»
Krell stava tentando di disporre in ranghi i Prediletti. Molti di quei morti viventi semplicemente lo ignoravano. Quelli che effettivamente obbedivano ai suoi comandi prendevano posto in riga solo per dimenticarsi dopo pochi istanti perché fossero lì e allontanarsi. Krell cercava di angariare e minacciare quelli che si rifiutavano di obbedire, ma i Prediletti erano insensibili alla sua presenza terrificante. Krell avrebbe potuto spezzare loro tutte le ossa del corpo e quelli avrebbero alzato le spalle e si sarebbero bevuti un’altra sorsata dalle fiaschette che portavano alla cintola.
Krell andò a radunare quelli che si erano allontanati e ordinò loro di rimettersi in riga. Mentre lui era via, altri disertarono, costringendo Krell ad andare con passi pesanti a inseguirli. Alcuni Prediletti semplicemente restavano dove era stato loro detto di restare, senza interessarsi di nulla, guardando in su verso il cielo oppure giù verso l’erba oppure di fianco l’uno verso l’altro.
«Ecco che cosa faccio alle reclute che non obbediscono ai miei comandi!» urlò infuriato Krell. «Che vi serva da lezione!»
Sguainando la spada, prese a menare fendenti ai Prediletti, staccando braccia e mani e teste. I Prediletti caddero morti a terra, dove nel giro di pochi istanti presero a contorcersi e a rimettersi orribilmente a posto.
«Ecco! Voi altri avete visto?» Krell si girò, ma scoprì che il resto della compagnia se n’era andato, in direzione della città più vicina, tutti sospinti dal loro disperato bisogno di uccidere.
«Ho creato i soldati perfetti», si adirò Chemosh. «Insensibili al dolore. Dieci volte più forti del mortale più forte. Inattaccabili da magie di ogni tipo. Non conoscono paura. Non possono essere uccisi. Sarebbero capaci di uccidere la propria madre. C’è un unico problema.» Inspirò fremendo. «Sono tutti idioti!»
Mina rammentò di essersi una volta immaginata un esercito di morti: cadaveri che marciavano in battaglia. Al pari del Signore della Morte, aveva immaginato che questo fosse l’esercito perfetto. Come lui, Mina adesso incominciò a capire che proprio le caratteristiche che rendevano debole un uomo erano quelle che pure ne facevano un buon soldato.
«Non me ne va dritta una!» Chemosh smise di osservare quella scena ridicola sulla piazza d’armi e si diresse a grandi passi verso la porta che conduceva all’interno del castello. «Tutti mi hanno deluso. Perfino tu, che sostieni di amarmi.»
«Non dite che vi ho deluso, mio signore», supplicò Mina.
Lo raggiunse e intrecciò le mani attorno al braccio di lui.
«No?» La guardò con occhio furioso e la scaraventò via. «Dove sono i miei oggetti sacri? Tu eri all’interno del Solio Febalas. Avevi i miei oggetti sacri a portata di mano, e sei tornata senza niente. Niente! E ti rifiuti di tornare là.»
Mina abbassò gli occhi davanti alla furia di lui. Gli guardò le mani, il pizzo che gli ricadeva sulle dita snelle. Quelle mani ormai da molte notti non la accarezzavano più, e lei desiderava ardentemente quel contatto.
«Non siate in collera con me, mio amato signore. Ho cercato di spiegarvi. Il Solio Febalas è... sacro. Santificato. In quella sala vi sono la potenza e la maestà degli dèi: di tutti gli dèi. Io non potevo toccare niente. Non osavo! Non potevo fare altro che cadere in ginocchio in adorazione...»
«Risparmiami queste stupidaggini!» ringhiò Chemosh. «Forse con la tua ostentazione di pietà ingannavi Takhisis. Ma non inganni me!»
Se ne andò, lasciando lì Mina nel suo silenzio offeso. Raggiungendo la porta, si fermò, quindi si voltò e tornò indietro a grandi passi.
«Lo sai che penso, signora?» disse freddamente. «Penso che tu abbia preso alcuni di quegli oggetti sacri e li tenga per te.»
«Non farei una cosa simile, mio signore!» ansimò Mina, sconvolta.
«O forse li hai dati a Zeboim. Voi due siete così amiche...»
«No, mio signore!» gridò Mina.
Chemosh la afferrò, la strinse forte. Mina sobbalzò per il dolore.
«Allora ritorna nella Torre del Mare di Sangue! Dimostra il tuo amore per me. La magia di Nuitari non può fermarti. Il drago ti lascerà passare...»
«Non posso tornare là, mio signore», disse Mina, con la voce bassa e tremante. Si fece piccola nella stretta di lui. «Io vi amo. Farei qualunque cosa per voi. Solo... questo non posso farlo.»
Chemosh la scagliò via, scaraventandola contro la parete di pietra.
«Proprio come pensavo. Tu hai gli oggetti sacri e vuoi tenere per te la loro potenza.» Chemosh puntò un dito contro di lei. «Li troverò, signora! Non puoi tenerli nascosti a me, e quando li troverò...»
Non terminò la sua minaccia, ma guardò Mina con occhio furioso, tenebroso e minaccioso. Poi, girando sui talloni, se ne andò a grandi passi. Spalancò la porta con uno schianto, entrò e la richiuse sbattendosela dietro le spalle.
Mina scivolò giù lungo la parete, era troppo debole per restare in piedi. Era sfinita, sbigottita e confusa. Chemosh era rimasto compiaciuto della descrizione delle meraviglie da lei scoperte nella Sala del Sacrilegio. Il compiacimento era rapidamente svanito quando Mina aveva parlato della propria riverenza e del proprio sgomento.
«Lascia perdere questo. Quali mie meraviglie hai portato via con te?» le aveva domandato.
«Nessuna, mio signore», aveva balbettato Mina. «Come potevo osare toccare qualcosa?»
Lui si era alzato dal letto ed era uscito a grandi passi e non era più tornato.
Adesso Chemosh credeva che lei gli stesse mentendo, gli nascondesse qualcosa. Peggio ancora, era geloso di Zeboim, la quale aveva fatto tutto il possibile per alimentare la sua gelosia, anche se Mina non ne era al corrente.
«Perdonami per non averti riportato immediatamente questa affascinante giovane umana», aveva detto Zeboim a Chemosh, al loro ritorno. «Abbiamo fatto una piccola deviazione. Volevo che lei conoscesse il mio monaco. Te lo ricordi? Rhys Mason. Me l’hai dato in cambio di Krell. Si è rivelata un’esperienza particolarmente interessante.»
Chemosh si sarebbe gettato fra le braccia del Chaos piuttosto che concedere a Zeboim la soddisfazione di domandarle che cosa era successo. Aveva domandato a Mina del monaco, ma lei era stata vaga ed evasiva, alimentando ulteriormente i sospetti del dio.
Mina non voleva parlare di quella visita fuggevole e fastidiosa. Non riusciva a togliersi di testa il viso del monaco. Ancora adesso, amaramente infelice e addolorata, Mina vedeva gli occhi di quell’uomo. Non amava il monaco. Non pensava affatto a lui in quel modo. L’aveva guardato negli occhi e aveva visto che lui la conosceva. Proprio come la conosceva il drago.
Sto nascondendo dei segreti al mio signore, ammise a se stessa Mina, consumata dal senso di colpa. Non i segreti di cui mi accusa lui. D’altronde, ha importanza? Forse dovrei dirgli la verità, dirgli perché non posso tornare nella Torre. Dirgli che è il drago a spaventarmi. Il drago e i suoi terribili indovinelli.
Terribili... perché Mina non sapeva risolverli.
Ma il monaco sì.
Chemosh non avrebbe capito. Si sarebbe fatto beffe di lei oppure, peggio ancora, non le avrebbe creduto. Mina, che aveva ucciso il potente drago dominatore Malys, aveva paura di un drago marino anziano, praticamente sdentato? Eppure Mina aveva paura. Lo stomaco le si contorceva ogni volta che udiva quella voce di rettile domandare: «Chi sei? Da dove vieni?».
Chemosh emerse nel salone e trovò Krell che entrava proprio in quel momento. Diversi Prediletti vagavano qua e là senza meta, alcuni ordinavano birra, altri chiedevano da mangiare. Alcuni guardarono su verso il Signore della Morte, ma poi distolsero lo sguardo senza interesse. Non prestavano alcuna attenzione a Krell, che li malediceva e agitava verso di loro il pugno coperto di maglia di ferro. Non prestavano attenzione l’uno all’altro, e questa era la cosa più strana di tutte.
«Potreste anche mettere in campo un reggimento di nani di fosso, mio signore», ringhiò Krell. «Questi zucconi che avete creato...»
«Taci», ordinò Chemosh, poiché in quel momento Mina stava scendendo le scale. Era molto pallida ed evidentemente aveva pianto, poiché aveva gli occhi rossi e tracce di lacrime sulle guance. Chemosh provò una fitta di rimorso. Sapeva di essere stato ingiusto con lei. Non credeva veramente che lei avesse rubato oggetti sacri e glieli tenesse nascosti. Aveva detto così per ferirla. Aveva bisogno di dare frustate, di far del male a qualcuno.
Non gli stava andando bene niente. Nessuno dei suoi grandiosi progetti si stava realizzando come lui si aspettava. Nuitari rideva di lui. Zeboim lo scherniva. Sargonnas, che attualmente era il dio più potente del pantheon delle tenebre, spadroneggiava su di lui. La Signora Bianca, Mishakal, di recente gli si era scagliata contro con uno scoppio di furia bianco-azzurra, esigendo che lui annientasse i Prediletti altrimenti ne avrebbe pagato le conseguenze. Chemosh naturalmente l’aveva respinta con disdegno. La dea se n’era andata con l’avvertimento che i suoi chierici stavano dichiarando guerra aperta ai seguaci di lui ed era sua intenzione cancellare dalla faccia di Krynn tutti i discepoli di Chemosh.
Mishakal non poteva annientare facilmente i Prediletti; Chemosh aveva sistemato bene le cose in proposito, ma non aveva poi tanti seguaci viventi, e incominciava a rendersi conto del loro valore.
Stava meditando su questo e altri guai, quando Krell all’improvviso lo toccò col gomito.
«Mio signore», disse sottovoce il cavaliere della morte. «Guardate!»
I Prediletti, fino a qualche istante prima, avevano vagato senza meta per il salone. Alcuni avevano perfino urtato il Signore della Morte senza neanche accorgersene. Adesso però i Prediletti erano fermi. Stavano tutti zitti. La loro attenzione era fissata su qualcosa.
«Mina!»
Qualcuno pronunciò quel nome con riverenza.
«Mina!»
Altri lo urlarono con dolore.
«Mina...»
Che fosse pronunciato con ammirazione o con implorazione o con terrore, quel nome era sulle labbra inanimate di tutti i Prediletti.
Il nome di Mina. Non il nome del loro dio, del loro signore. Non il nome di Chemosh.
Mina fissò con stupore quella folla di Prediletti che si accalcavano attorno alla scalinata e sollevavano le mani verso di lei e la chiamavano per nome.
«No», disse loro Mina, confusa. «Non venite da me. Io non sono il vostro signore...»
Percepì la presenza di Chemosh, se ne sentì trafitta come da una lancia. Alzò la testa, affranta, per incrociare lo sguardo di lui.
Il sangue caldo le inondò il viso. Il sangue caldo della colpa.
«Mina, Mina...» I Prediletti presero a cantilenare il suo nome. «Baciami ancora!» gridò qualcuno; «Distruggimi!» piagnucolarono altri.
Chemosh rimase lì a osservare, meravigliato.
«Mio signore!» La voce disperata di Mina si levò al di sopra del tumulto crescente. Mina corse giù per le scale, cercò di avvicinarsi a Chemosh, ma i Prediletti si accalcarono attorno a lei, desiderando ardentemente toccarla, supplicarla, maledirla.
Chemosh rammentò una conversazione che aveva udito fra Mina e il minotauro Galdar, che era stato suo fedele amico.
«Io ho radunato un esercito di morti», disse Mina. «Ho combattuto e ucciso due draghi poderosi. Ho sconfitto gli elfi e li ho tenuti sotto il tallone dei miei stivali. Ho sconfitto i Cavalieri di Solamnia e li ho visti scappare via da me come cani bastonati. Ho fatto dei Cavalieri delle Tenebre una potenza da temere e da rispettare.»
«E tutto in nome di Takhisis», disse Galdar.
«Volevo che fosse in nome mio...»
Volevo che fosse in nome mio.
«Silenzio!» La voce di Mina risuonò in tutto il salone. «Fatevi da parte. Non toccatemi.»
Al suo ordine i Prediletti indietreggiarono.
«Il vostro signore è Chemosh», proseguì Mina, e rivolse lo sguardo carico di sensi di colpa verso il dio, che si trovava sul lato opposto del salone. «È lui che vi ha conferito il dono della vita eterna. Io sono soltanto il veicolo del suo dono. Non dimenticatelo mai.»
Nessuno dei Prediletti disse una parola. Si fecero da parte, lasciandola passare.
Krell sbuffò. «Crede di essere tanto in gamba. Che comandi lei questa vostra brutta copia di esercito, mio signore.»
Il cavaliere della morte non aveva idea di quanto fosse andato vicino all’essere spezzato in due e scaraventato nell’oblio. Chemosh però trattenne la propria furia.
Mina superò rapidamente la folla di Prediletti. Attraversò il salone, affrettando il passo. Raggiungendo Chemosh, cadde in ginocchio davanti a lui.
«Mio signore, vi prego di non essere in collera con me! Loro non sanno ciò che dicono...»
«Non sono in collera, Mina». Chemosh le prese le mani e la fece alzare in piedi. «In verità, sono io che dovrei chiederti perdono, amore mio.»
Le baciò le mani e poi le baciò le labbra. «Sono di cattivo umore in questi giorni. Ho sfogato su di te la mia frustrazione e la mia collera. Mi dispiace.»
Gli occhi d’ambra di Mina brillarono di piacere e, notò lui, di sollievo.
«Mio signore, vi amo tanto», disse Mina a bassa voce. «Credete a questo se non volete credere ad altro.»
«Ci credo», la rassicurò lui, accarezzandole i capelli di colore castano dorato. «Adesso vai nella nostra camera e fatti bella per me. Ti raggiungerò fra breve.»
«Venite presto da me, mio signore», disse Mina e, dopo un bacio insistente, si allontanò da lui.
Chemosh guardò infastidito i Prediletti, i quali, adesso che Mina non c’era più, avevano ripreso a vagare qua e là. Accigliandosi, rivolse a Krell un gesto perentorio.
Il cavaliere della morte sentì l’odore del sangue e si avvicinò con prontezza. «Quali sono i vostri ordini, mio signore?»
«Mina sta architettando qualcosa, e io devo sapere che cosa. Tu la sorveglierai, Krell», disse Chemosh. «Giorno e notte. Voglio conoscere ogni suo movimento. Voglio udire ogni sua parola.»
«Avrete queste informazioni, mio signore.»
«Lei non deve sospettare di essere spiata», avvertì Chemosh. «Tu non puoi andare in giro a incespicare qua e là, cigolando e sferragliando come un golem a vapore creato da qualche gnomo impazzito. Pensi di farcela, Krell?»
«Sì, mio signore», lo rassicurò Ausric Krell.
Chemosh vide ardere in quelle orbite vuote il bagliore feroce dell’odio, e i suoi dubbi si dissiparono. Krell non aveva dimenticato che Mina aveva prevalso su di lui nella sua stessa torre, l’aveva colto di sorpresa, l’aveva quasi annientato. Né avrebbe dimenticato che i Prediletti avevano obbedito timidamente ai comandi di lei, mentre si erano fatti beffe dei suoi.
«Potete fidarvi di me, mio signore.»
«Bene», disse Chemosh.
Mina sedeva davanti allo specchio nella sua camera da letto e si spazzolava i lunghi capelli di colore castano dorato. Indossava una camicia da notte di seta finissima che le aveva regalato il suo signore. Il cuore di Mina batteva rapido in previsione delle carezze di lui e per la consapevolezza gioiosa che Chemosh l’amava ancora.
Voleva farsi carina per lui, e fu allora che vide un filo di perle nere steso sul comodino. Pensando al suo signore, Mina prese in mano le perle. Udì invece la voce di Zeboim e trovò la dea in piedi alle sue spalle.
«Quella collana è incantata», disse la dea del mare. «Ti porterà ciò che desidera il tuo cuore.»
Mina era turbata. «Maestà, grazie, ma io ho tutto ciò che desidero. Non c’è niente che io voglia...»
Si interruppe a metà frase. Si era appena ricordata che desiderava qualcosa. Che desiderava moltissimo.
«Le perle ti condurranno a una grotta. Dentro vi troverai ciò che brami. Non c’è bisogno di ringraziare, bambina», disse la dea del mare. «Io mi delizio nel rendere felici i mortali.»
Zeboim armeggiò con le perle, le dispose nel modo più consono sul collo snello di Mina.
«Ricorda chi ha fatto questo per te, bambina», le disse Zeboim mentre scompariva, lasciandosi dietro un odore persistente di tonificante aria di mare.
Chemosh entrò nella stanza e trovò Mina intenta a spazzolarsi i capelli.
«Che...» La fissò. «Dove hai preso quella collana?»
«Me l’ha regalata Zeboim, mio signore», disse Mina. Mantenne lo sguardo sul proprio riflesso mentre continuava a spazzolarsi i capelli. «Non avevo mai visto prima d’ora delle perle nere. Brillano con una radiosità graziosa e strana, vero? Come un arcobaleno scuro. A me sembrano bellissime.»
«A me sembra che assomiglino a cacche di coniglio su uno spago», disse freddamente Chemosh. «Toglitele.»
«Credo che siate geloso, mio signore», disse Mina.
«Ho detto toglitele», ordinò Chemosh.
Mina sospirò, sollevando riluttante le mani verso il fermaglio. Vi armeggiò sopra, incapace di aprirlo. «Mio signore, se poteste aiutarmi...»
Chemosh era pronto a strapparle le perle dal collo... Poi si bloccò.
Da quando in qua la Strega del Mare offre doni ai mortali? si domandò. Da quando in qua quella vacca egoista fa regali a qualcuno, se è per questo? Perché mai Zeboim dovrebbe offrire delle perle a Mina? Qui c’è sotto qualcosa. Complottano contro di me. Faccio male a obiettare. Devo sembrare stupido come loro evidentemente pensano che io sia.
Chemosh sollevò i capelli rigogliosi di Mina e li scostò di lato. Con la punta delle dita sfiorò le perle.
«C’è magia qui», disse con tono accusatorio. «Magia divina.»
Il riflesso di Mina guardò verso di lui. Gli occhi d’ambra tremolavano di lacrime non versate. «Le perle sono effettivamente incantate, mio signore. Zeboim mi ha detto che mi avrebbero portato ciò che desidera il mio cuore.»
Mina gli prese la mano, vi premette sopra le labbra. «Lo so che ho perso la vostra considerazione. Farei qualunque cosa per innalzarmi di nuovo nella vostra stima. Qualunque cosa per recuperare quella felicità che condividevamo. Siete voi ciò che desidera il mio cuore, mio signore. Le perle sono fatte per compiacervi, per riportarvi da me!»
Era così amorevole, così contrita! Chemosh quasi riuscì a credere che lei dicesse la verità.
Quasi.
«Tieni quelle perle», disse magnanimo Chemosh. Le prese la spazzola e la mise da parte. La strinse nell’abbraccio. «La collana è bellissima, ma non tanto bella quanto te, mia cara.»
La baciò, e lei cedette al contatto con lui, e Chemosh si abbandonò al piacere.
Poteva permettersi di divertirsi con lei.
Ausric Krell osservava nell’ombra.
Mina dormì a sprazzi, entrando e uscendo dai sogni. Si svegliò e si trovò sola nel letto. Chemosh se n’era andato in un certo momento della notte; lei non sapeva bene quando.
Incapace di riprendere sonno, Mina osservò l’ombra pallida e grigia del mattino penetrare furtivamente dalla finestra e pensò a Zeboim e al dono della dea. Ciò che desiderava il suo cuore.
Non aveva mentito al suo dio. Chemosh era davvero ciò che desiderava il suo cuore, ma c’era qualcos’altro che lei desiderava altrettanto intensamente quanto l’amore di lui. Qualcosa di cui aveva bisogno, forse più che dell’amore di lui.
Gettò via le coperte e si alzò dal letto. Si tolse la camicia da notte di seta e indossò un abito dritto e sciolto di lino, molto semplice, che aveva trovato negli appartamenti abbandonati della servitù, e si mise un paio di scarpe morbide di cuoio. Sperava di sgattaiolare fuori del castello senza attirare l’attenzione di Chemosh. Se si fosse imbattuta in lui, aveva la scusa pronta. Non le piaceva mentire al suo signore, però, e sperava di riuscire a evitarlo e di evitare anche i Prediletti che, se l’avessero vista, avrebbero ripreso le loro suppliche e i loro gemiti chiassosi.
Si avvolse in uno scialle spesso e caldo e se lo tirò sopra la testa. Uscendo dalla camera da letto, Mina attraversò a passi felpati i corridoi ancora bui.
Rifletté sulle proprie menzogne al suo signore. Aveva detto la verità a Chemosh quando gli aveva detto che l’amava e che avrebbe fatto qualunque cosa per riguadagnare il suo favore. Lo amava davvero, più della propria vita. Perché mentirgli su questo? Perché non dirgli la verità?
Perché un dio non avrebbe capito.
Mina non era sicura di capire del tutto neanche lei. Goldmoon le aveva detto ripetutamente che non aveva importanza chi fossero stati i suoi genitori. Il passato era passato. Era importante il qui e ora della sua vita. Se suo padre fosse stato un pescivendolo e sua madre la moglie di un pescivendolo, avrebbe fatto qualche differenza?
«Ma se», aveva argomentato la piccola Mina, «mio padre era un re e mia madre una regina? E se io una principessa? Non farebbe qualche differenza?».
Goldmoon aveva sorriso e le aveva detto: «Io ero una principessa, Mina, e pensavo proprio che facesse qualche differenza. Ho scoperto, quando ho aperto il mio cuore a Mishakal, che simili titoli sono privi di senso. Ciò che importa veramente è quello che siamo agli occhi degli dèi. O meglio, ciò che siamo nel nostro cuore», aveva soggiunto Goldmoon con un sospiro, poiché allora gli dèi se n’erano andati da tempo.
Mina aveva cercato di capire e aveva provato a togliersi dalla testa ogni pensiero sui propri genitori, e per un certo tempo ci era riuscita. Naturalmente aveva domandato all’Unico Dio, ma Takhisis aveva dato a Mina più o meno la stessa risposta di Goldmoon, solo non così gentilmente. L’Unico Dio aveva considerato quel desiderio di Mina una debolezza, un cancro che l’avrebbe divorata se non fosse stato rapidamente e brutalmente asportato.
Forse era il ricordo terribile della punizione di Takhisis a rendere Mina riluttante a parlarne con Chemosh. Lui era un dio. Non poteva proprio capire. Il segreto di Mina era ben piccolo. Era innocuo. Mina gli avrebbe raccontato tutto quando avesse saputo la verità. Allora, insieme, avrebbero potuto ridere del fatto che lei fosse figlia di un pescivendolo.
Badando a scegliere scale nascoste e passaggi in rovina, Mina arrivò in quella che un tempo era stata la cucina e da lì passò a una dispensa, dove gli antichi proprietari del castello conservavano barili di birra, botti di vino, ceste di mele e patate, carne affumicata, sacchi di cipolle. Persistevano ancora i fantasmi di buoni odori, ma nel palazzo del Signore della Morte svolazzavano tanti fantasmi che Mina vi prestò scarsa attenzione. Aveva fame, ma non di cibo.
Mina non aveva idea di dove fosse Chemosh. Forse stava reclutando discepoli o giudicando anime o giocando a khas con Krell, oppure faceva tutte e tre le cose contemporaneamente. Lei avrebbe scommesso di sapere dove lui non era: in quel magazzino. L’improvvisa comparsa di Chemosh, pertanto, quando il dio le si piazzò davanti, fu per lei una sorpresa considerevole.
Si aspettava recriminazioni, accuse, invettive. Lui la guardò con moderato interesse, come si fossero incontrati a colazione, e le domandò: «Ti sei alzata presto, mia cara. Esci?».
«Pensavo di andare a fare una nuotata in mare, mio signore», rispose fiaccamente Mina, offrendo la scusa che aveva preparato.
Non poteva sapere, naturalmente, che questa era l’unica scusa che Chemosh avrebbe trovato particolarmente sospetta.
«Non fa un po’ freddo per un bagno in mare?» domandò lui sarcasticamente, con uno strano sorriso sulle labbra.
«Anche se l’aria è fredda, l’acqua è calda e sembrerà ancora più calda», balbettò Mina, con le guance in fiamme.
«Indossi ancora le perle, vedo. Non stanno granché bene con un abito così semplice. Non hai paura di perderle?»
«Il fermaglio è duro, mio signore», rispose Mina. Involontariamente portò la mano alla collana. «Non credo...»
«Perché sei in questo magazzino?» domandò lui, guardandosi attorno.
«Questa parte è più vicina alla riva, mio signore», ribatté Mina. Aveva superato il brutto colpo e adesso incominciava a sentirsi irritata. «Mio signore, sono vostra prigioniera, visto che sentite il bisogno di interrogarmi su dove vado e vengo?»
«Ti ho perduta una volta, Mina», disse tranquillamente Chemosh. «Non voglio perderti di nuovo.»
Mina all’improvviso si sentì sopraffatta dal senso di colpa. «Io sono vostra, mio signore, per sempre, finché...»
«Finché non morirai. Perché tu un giorno morirai, Mina.»
«È vero, mio signore», rispose lei. Lo guardava imbarazzata, domandandosi se non fosse una minaccia.
Lui era opaco, insondabile.
«Fai una bella nuotata, mia cara», disse Chemosh, baciandola sulla guancia.
Mina rimase lì per lunghi istanti dopo che lui se ne fu andato, e con la mano stringeva le perle. Il cuore le veniva meno. La coscienza la rimproverava. Fu sul punto di tornarsene di corsa nella propria camera.
A fare che? A passare le ore camminando su e giù, come aveva fatto nella Torre dell’Alta Magia? A fare la pedina prima di un dio, poi di un altro, poi di un altro, e di un altro ancora. Takhisis, Chemosh, Zeboim, Nuitari... «Che cosa vogliono da me?» domandò Mina, frustrata.
Era sola nel magazzino freddo e vuoto e fissava il buio senza vedere niente. «Non capisco! Io do e do tanto a loro, e loro non mi danno niente in cambio. Oh, loro dicono di sì. Chemosh afferma di avermi dato il potere sui Prediletti, eppure quando vede che io esercito potere su di loro è chiaramente geloso. Zeboim mi regala perle che mi promettono ciò che desidera il mio cuore e queste non mi portano altro che guai. Io non posso compiacere questi dèi. Nessuno di loro! Devo fare qualcosa per me. Per Mina. Devo sapere chi sono io.»
Risoluta, proseguì per la sua strada.
Chemosh le aveva fornito il segreto dei portali magici che consentivano di entrare e uscire dal castello. Mina temeva che lui potesse avere annullato la magia, e provò sollievo quando il portale funzionò e lei poté uscire. Il magazzino si apriva su un cortile pieno di fabbricati annessi fatiscenti. Al di là di questo, un portone nelle mura si apriva su un sentiero che conduceva alla riva. Il portone peraltro non c’era più. Non restavano che listelli di ferro arrugginiti e assi annerite.
Una volta fuori delle mura del castello, Mina si fermò per guardarsi attorno. Non aveva alcuna idea chiara su dove andare a cercare questa grotta. Zeboim le aveva detto soltanto che le perle l’avrebbero guidata. Mina toccò le perle, pensando che avrebbe percepito qualche sensazione o che le balzasse alla mente un’immagine.
Il sole del primo mattino brillava sull’acqua. Il castello era costruito su un promontorio roccioso. Qui, dove si trovava Mina, il litorale si incuneava all’indietro rispetto al promontorio formando un’insenatura che era stata scavata nella roccia ed era contornata da una spiaggia sabbiosa a forma di mezzaluna estesa per circa ottocento metri e terminante su un frangiflutti di pietra che si protendeva nell’acqua. Il frangiflutti su un lato e i dirupi sull’altro fermavano la forza delle onde, cosicché quando giungevano a riva sulla spiaggia rotolavano timidamente sulla sabbia, depositando spuma e alghe.
La sabbia era umida, così come le pareti di roccia retrostanti. Mina (figlia del mare) si rese conto che con l’alta marea la spiaggia si sarebbe trovata sott’acqua. Solo con la bassa marea qualcuno poteva camminare o giocare sulla riva.
Mina passò in rassegna la parete del dirupo e non vide alcuna grotta. Provò un deprimente senso di delusione. Passò le dita sulle perle, l’una dopo l’altra.
Al tatto parevano irregolari... come perle.
Un movimento nel mare al largo attirò il suo sguardo. Una nave solcava il mare: una nave dei minotauri, a giudicare dalle vele dai colori vistosi. Mina guardò con curiosità, pensando che viaggiasse nella sua direzione, poi si rese conto che si stava allontanando rapidamente da lei. Guardò la nave finché non ebbe superato la linea dell’orizzonte e scomparve alla vista.
Mina sospirò e si guardò attorno di nuovo domandandosi che fare. Decise di andare a farsi una nuotata.
Escogitata questa storia, avrebbe fatto meglio ad attenervisi. Chemosh poteva osservarla. Con quel pensiero in mente, diede un’occhiata indietro verso i bastioni del castello. Lui non c’era, oppure se c’era stava attento a non farsi vedere.
Imboccò il sentiero che conduceva giù alla spiaggia. Nel momento in cui vi mise piede, Mina seppe esattamente dove andare. Anche se non aveva mai messo piede su quel sentiero, le pareva di conoscerlo bene come se l’avesse percorso ogni giorno da un anno a questa parte.
Sussurrando delle scuse a Zeboim per avere dubitato di lei, Mina si affrettò a raggiungere la spiaggia. Non sapeva dove stesse andando, eppure sapeva dove si trovasse e sapeva che ogni passo la portava più vicino. Quella sensazione era particolarmente sconcertante.
Mina proseguì, correndo sulla sabbia umida che sentiva salda sotto i piedi. Scrutò le onde, cercando di stabilire se la marea si stesse alzando o abbassando. A giudicare dall’umidità delle rocce, la marea stava crescendo. Con l’alta marea, il livello dell’acqua le sarebbe arrivato almeno fino alle spalle, forse più in su, a seconda del ciclo delle lune.
Mina raggiunse il frangiflutti di pietra ancora senza vedere traccia di una grotta. Si arrampicò su macigni di granito dai margini frastagliati, maledicendo il fatto che le sue scarpe morbide di cuoio non fossero fatte per arrampicarsi sulle rocce.
Sull’altro lato del frangiflutti il litorale si incurvava decisamente. Mina, guardandosi dietro le spalle, non vedeva il castello, e chiunque percorresse le mura del castello non poteva vedere lei.
Oltre il frangiflutti di pietra si estendevano dune di sabbia. In cima il terreno si appiattiva. Probabilmente c’era una strada lassù, una strada che conduceva al castello. Mina avanzò di un passo, diretta verso le dune, e capì subito che quella era la strada sbagliata. Si era persa, non aveva idea di dove si trovasse né di dove stesse andando.
Mina cambiò direzione, ritornando verso i dirupi, e le ritornò la sensazione di trovarsi in un luogo familiare. Proseguì, lasciandosi alle spalle le dune di sabbia e arrampicandosi sul terreno disseminato di pietre, fermandosi ogni tanto per guardare i dirupi, cercando di individuare un’apertura.
Non vedeva niente ma adesso confidava di puntare nella direzione giusta, e proseguì. Era ulteriormente convinta dalle tracce sul terreno indicanti che di recente qualcun altro era venuto da questa parte prima di lei. In un tratto sabbioso vide l’impronta di uno stivale: uno stivale estremamente grande.
Mina incominciò a pensare che avrebbe dovuto portare con sé un’arma. Continuò a camminare, muovendosi con maggiore cautela e tenendo aperti gli occhi e gli orecchi.
La grotta si rivelò tanto ben nascosta che lei la oltrepassò senza saperlo. Solo quando il passo successivo le diede la sensazione deprimente di essersi persa Mina si rese conto di non avere visto il segnale. Si girò e fissò la parete del dirupo, e ancora non riusciva a trovarla.
Finalmente si avventurò attorno a un grosso mucchio di pietre e lì vi era l’ingresso della grotta, mezzo sepolto da una frana. In precedenza la grotta doveva essere stata interamente sepolta, si rese conto Mina, avventurandosi nelle sue vicinanze. Vedeva che i detriti erano stati rimossi, accumulati sui due lati. Quel lavoro era stato fatto di recente, a giudicare dall’apparenza. Il terreno sotto la frana era ancora umido.
Mina si fermò all’esterno della grotta. Adesso che l’aveva raggiunta, esitava a entrarvi. Era il luogo ideale per un’imboscata, non visibile dalle mura del castello. Nessuno avrebbe potuto vederla né udirla se avesse avuto bisogno di aiuto. Si rammentò della grande impronta di stivale. Era tre volte le dimensioni del suo piede.
Portando la mano alle perle, Mina ne percepì il calore rassicurante. Era arrivata fin qui, rischiando l’ira del suo signore. Ora non poteva tornare indietro.
L’ingresso era abbastanza grande da consentire l’accesso a due uomini dalle spalle larghe, ma la volta era bassa. Mina doveva chinare la testa e le spalle per incunearsi all’interno. Si stava chinando quando, da qualche parte lì dentro, udì l’abbaiare di un cane.
A Mina per l’emozione si accelerò il battito cardiaco. La paura scomparve. Il monaco era stato nell’occhio della sua mente fin dal loro incontro. Il suo volto era chiaro; Mina avrebbe potuto dipingerne il ritratto. Vedeva il viso di lui: scolpito, smunto. Gli occhi: grandi e calmi come l’acqua scura. La veste arancione: il colore sacro a Majere, decorata con l’emblema della rosa del dio, che gli pendeva dalle spalle magre e muscolose; la veste era allacciata attorno alla vita sottile. Ogni suo movimento, ogni sua parola: controllati e disciplinati.
E il cane, bianco e nero, che guardava al monaco come a un padrone.
«Grazie, maestà», disse sottovoce Mina e sollevò le perle alle labbra e le baciò.
Quindi entrò nella grotta.
Ausric Krell, muovendosi silenzioso e furtivo, seguiva Mina a distanza con discrezione. Sorprendentemente Krell sapeva muoversi silenzioso e furtivo, quando voleva. Al cavaliere della morte non piaceva procedere a passi felpati come qualche viscido ladro dei bassifondi. Krell si divertiva ad avanzare sferragliando nella sua armatura. L’acciaio cigolante significava morte, infondeva terrore in coloro che lo udivano arrivare. Ma se necessario sapeva camminare cauto. Al pari della sua vita, la sua armatura era del materiale della magia maledetta, e anche se lui era legato per sempre alla sua armatura poteva farla risuonare e sferragliare oppure no, a suo piacimento.
Krell avrebbe sacrificato ben di più per poter scaraventare Mina giù da quell’alto trespolo su cui si trovava e da cui lo scherniva.
Mina non aveva mai tenuto segreto il fatto che lo disprezzava per avere tradito Lord Ariakan. Non solo, lei aveva prevalso su di lui in combattimento e l’aveva umiliato davanti al Signore della Morte. I Prediletti non avevano alcun rispetto per Krell, neanche quando lui li faceva a pezzi, ma bastava che Mina agitasse il mignolo e loro le facevano le feste e gridavano il suo nome.
Krell avrebbe potuto ucciderla subito, ma sapeva che non se la sarebbe mai cavata. Chemosh l’avrà anche guardata con occhio torvo imprecando contro di lei, ma continuava a saltare nel suo letto ogni notte. E poi c’era Zeboim, arcinemica di Krell, che la colmava di doni. Zeboim si sarebbe potuta risentire se Krell avesse assassinato la sua pupilla, e pertanto il cavaliere della morte doveva trattenersi, agire subdolamente. Un compito difficile, ma l’odio può smuovere le montagne.
Adesso tutto ciò che doveva fare Krell era cogliere Mina in un atto di tradimento. Sapeva per triste esperienza che cosa avveniva quando si faceva arrabbiare un dio, e Krell si divertiva, mentre la seguiva, a immaginarsi in dettagli vividi il tormento che Mina avrebbe subito. È sorprendente quanto a lungo si possa vivere dopo essere stati sbudellati.
Quando vide Mina entrare nella grotta, Krell saltò alla conclusione che lei avrebbe incontrato un amante. Avvicinandosi di soppiatto, Krell provò una soddisfazione immensa nell’udire la voce profonda di un uomo. Rimase piuttosto sconcertato nell’udire anche quella che sembrava in modo sospetto la voce acuta di un kender, ma Krell era di larghe vedute. Quello che più ti aggrada era sempre stato il suo motto.
Strofinandosi con gioia le mani guantate, si spostò guardingo verso l’ingresso, sperando di udire più chiaramente. Scoprì, con delusione, che i suoni provenienti dalla grotta erano attutiti e indistinti. Krell non se ne preoccupò. Non importava che cosa avvenisse veramente lì dentro. Poteva sempre inventarsi qualcosa. Il geloso Chemosh sarebbe stato lesto a credere il peggio. Krell si acquattò fuori della grotta e attese che Mina ne riemergesse.
A bordo della nave dei minotauri Rhys perse ogni senso del tempo. Il viaggio attraverso le onde sferzanti della notte, sballottato dalle tempeste della magia, pareva infinito. Il vento gemeva tra il sartiame, le vele erano gonfie. La nave sbandava precariamente. Il capitano ruggiva, e l’equipaggio acclamava e urlava al vento la propria sfida.
Quanto a Rhys, trascorse la notte buia in preghiera. Rhys aveva abbandonato il suo dio, ma il suo dio si era rifiutato di abbandonare lui. Rhys si inginocchiò sul ponte, con la testa china per la vergogna e la contrizione, le guance bagnate di lacrime, mentre chiedeva umilmente perdono al dio. Anche se la notte e quel viaggio spettrale erano terribili, lui era in pace.
Spuntò l’alba. La nave uscì dal mare della magia e si depositò sull’acqua calma. Il minotauro capitano trascinò fuori dalle casse il kender tremante e il cane accasciato e li consegnò all’equipaggio. Guardò giù verso Rhys, che era ancora inginocchiato sul ponte.
«Stavi pregando, presumo», disse il capitano facendo con la testa un cenno di approvazione. «Ebbene, fratello, le tue preghiere hanno trovato risposta. Hai superato la notte incolume.»
«Davvero, signore», disse Rhys con tranquillità, e si alzò in piedi.
I minotauri li spinsero ruvidamente nella scialuppa, quindi vogarono per condurli a un approdo sconosciuto. Rhys guardò giù l’acqua del mare che aveva il colore del sangue. Guardò il sole che sorgeva dal mare, e di colpo capì. Durante quella notte tumultuosa, la loro nave aveva viaggiato nel tempo e nello spazio. Adesso si trovavano sull’altro lato del continente.
Rhys vide la silhouette di un castello-fortezza sullo sfondo delle stelle che svanivano, ma fu tutto ciò che vide prima che i minotauri lo sollevassero dalla barca e lo trascinassero oltre una spiaggia umida e sopra dune sabbiose fino al fianco di un dirupo.
Arrivando sul punto di una frana, i minotauri lasciarono cadere a terra Rhys e il kender e il cane e presero a sollevare macigni giganteschi e a gettarli di lato. Rhys non capiva la loro lingua, ma udì le parole «grotta» e «Zeboim» ed ebbe l’impressione, per via del loro atteggiamento silenzioso e riverente, che dietro la frana vi fosse qualche sorta di tempio della dea del mare.
Finalmente i minotauri sgomberarono la frana ed entrarono nella grotta, lasciando fuori Rhys con una guardia. Lui udì colpi e martellamenti e il tintinnare del ferro. I minotauri ritornarono e raccolsero Rhys trascinandolo dentro, assieme ad Atta e a Nightshade.
Da anelli di ferro di recente conficcati nelle pareti di pietra pendevano catene. Lavorando alla luce fioca che riusciva a insinuarsi all’interno, i minotauri incatenarono Rhys e Nightshade agli anelli di ferro, gettarono giù un sacchetto di viveri e un secchio d’acqua, quindi si allontanarono senza una parola, rifiutandosi di rispondere a qualunque domanda di Rhys.
Le catene erano assicurate con pesanti ceppi alle caviglie e ai polsi ed erano abbastanza lunghe da consentire a Rhys e a Nightshade un limitato movimento. Ciascuno di loro poteva distendersi sul fondo roccioso oppure alzarsi in piedi e camminare per circa cinque passi.
Traumatizzata dagli eventi a bordo della nave, Atta era troppo scossa per stare in piedi. Rotolò su un fianco e rimase stesa ansimando sul fondo della caverna. Rhys, esausto, prese fra le braccia la cagna terrorizzata e fece del proprio meglio per cercare di calmarla. Nightshade aveva gli abiti inzuppati, e la grotta era fredda. Il kender si sedette rannicchiato e abbattuto e cercò di scaldarsi dandosi manate sulle braccia.
«Quei minotauri non erano fantasmi, Rhys», disse Nightshade. «Inizialmente pensavo di sì, ma non lo erano. Erano assolutamente veri. Fin troppo veri, se vuoi saperlo.» Si strofinò la spalla nel punto in cui uno dei minotauri l’aveva pizzicato. «Avrò lividi dappertutto per un mese.»
Non vi fu risposta, e Nightshade vide che Rhys si era addormentato seduto, con la schiena contro la parete di roccia.
«Immagino che non vi sia altro da fare che dormire», si disse Nightshade. Chiuse gli occhi e sperò che al risveglio tutto questo si rivelasse un sogno e lui si trovasse nella Taverna dell’Ultima Dimora nella giornata degli gnocchi di pollo...
Rhys si svegliò all’improvviso, scosso dal sonno da un vivido raggio di luce solare che gli cadeva sul viso. La luce illuminava la grotta, e Rhys vide, all’altra estremità, a pochi passi da lui, un altare scolpito nella pietra. L’altare era ricoperto di polvere e apparentemente era stato abbandonato da tempo. Le pareti della caverna erano decorate da affreschi. Erano tanto sbiaditi che lui non riusciva a distinguere ciò che erano stati. Una grande conchiglia ornava l’altare.
Nightshade era steso a terra accanto a lui. Atta gli stava rannicchiata attorno alle gambe. E vi era il suo bastone appoggiato alla parete a qualche distanza. Su ordine del loro capitano, i minotauri avevano portato lì il bastone avvolto in un grosso pezzo di cuoio. L’avevano lasciato lì per lui, ma fuori portata.
La grotta in cui erano imprigionati era di forma circolare, con un diametro di circa venti passi in ogni direzione. La volta era abbastanza alta da avere consentito ai minotauri di stare in piedi senza chinarsi, anche se Rhys rammentava che quei bestioni avevano avuto notevoli difficoltà nello spingersi all’interno e giù per lo stretto corridoio che si apriva in questa cavità.
Dal pozzo affluiva nella grotta aria fresca. Rhys non rammentava di avere visto altri passaggi, ma era il primo ad ammettere che era stato troppo sfinito ed esausto per prestare molta attenzione.
Atta si svegliò rinvigorita dal sonnellino. Balzando in piedi, guardò Rhys con grande aspettativa, scodinzolando, pronta a sentirsi dire da lui che sarebbero usciti da questo posto e si sarebbero diretti verso la strada. Rhys si alzò in piedi rigidamente, facendo tintinnare le catene. Quel rumore spaventò Atta, che indietreggiò con un balzo, mentre le catene si trascinavano sul fondo roccioso. Poi, guardinga, Atta avanzò lentamente per annusare le catene e osservò con meraviglia perplessa Rhys, che faceva smorfie per la rigidità alla schiena e al collo, attraversare zoppicando la grotta fino al secchio dell’acqua.
I minotauri avevano lasciato una coppa di stagno da immergere per bere. Rhys diede dell’acqua ad Atta e bevve a sua volta. L’acqua aveva un sapore cattivo ma gli spense la sete. Rhys diede un’occhiata al sacchetto dei viveri, ma l’odore era stantio e lui si risolse di non avere poi tanta fame. Ritornò zoppicando al suo posto contro la parete e si mise a sedere.
Atta si mise sopra di lui a fissarlo. Gli diede un colpetto col naso.
«Mi dispiace, ragazza», disse Rhys, allungando la mano per accarezzarle gli orecchi. Le mostrò i polsi stretti nei ceppi, anche se sapeva che la cagna non poteva capire. «Temo...»
Nightshade si svegliò con un guaito terrorizzato. Si tirò su dritto a sedere, guardandosi attorno freneticamente. «Stiamo affondando!» gridò. «Annegheremo tutti!»
«Nightshade», disse fermamente Rhys. «Sei al sicuro. Non siamo più sulla nave.»
Ci volle un po’ perché questa informazione arrivasse a Nightshade. Il kender guardò perplesso qua e là nella grotta, quindi si osservò le mani. Sentì il peso dei ceppi e udì lo sferragliare delle catene, ed emise un sospiro di contentezza.
«Fiuuu! Prigione! Che sollievo!»
Rhys non poté fare a meno di sorridere. «Perché la prigione è un sollievo?»
«È sicura ed è sulla terraferma», disse Nightshade, dando al fondo roccioso una pacca di gratitudine. «Dove siamo?»
Rhys osservò un attimo di pausa, domandandosi come mettere la cosa, poi si convinse che il modo migliore fosse essere sincero. «Penso che ci troviamo sulla costa del Mare di Sangue.»
Nightshade lo guardò a bocca aperta. «Il Mare di Sangue.»
«Penso di sì», disse Rhys. «Non posso esserne sicuro, naturalmente.»
«Quel Mare di Sangue», ripeté il kender. «Quello dall’altra parte del continente?» Sottolineò con forza le parole.
«Ci sono due Mari di Sangue?» domandò Rhys.
«Potrebbero esserci», rispose Nightshade. «Non si sa mai. Acqua rossa, colore del sangue, e...»
«...il sole che sorge dal mare», concluse Rhys. «E tutto questo mi induce a credere che siamo sulla costa orientale di Ansalon.»
«Be’, che io sia uno sporco cane giallo», disse sottovoce Nightshade. «Senza offesa», soggiunse, dando una pacca ad Atta. Trascorse qualche momento a convincersi di questo e poi, annusando l’aria, vide il sacco e si illuminò. «Per lo meno non ci lasciano morire di fame. Vediamo che cosa c’è per colazione.»
Si alzò e rapidamente e involontariamente tornò a sedersi. «Pesanti!» brontolò, intendendo i ceppi.
Riprovò, alzandosi in piedi con cautela e poi facendo scivolare in avanti i piedi e strattonando le braccia per trascinarsi dietro le catene di ferro. Riuscì a raggiungere il sacco, ma lo sforzo gli costò molto, e dovette fermarsi a riposare quando arrivò lì. Aprendo il sacco, sbirciò dentro.
«Carne di maiale salata.» Fece una smorfia, soggiungendo triste: «Spero che non sia il mio vicino: il maiale della cassa accanto. Io e lui e Atta avevamo fatto amicizia». Fece per infilare dentro la mano. «Comunque, la pancetta è il destino del maiale, immagino. Hai fame, Rhys?»
Prima che lui potesse rispondere, Atta si mise ad abbaiare.
«C’è qualcuno lì fuori», avvertì Rhys. «Forse dovresti tornare a sederti.»
«Ma ci hanno lasciato dei viveri da mangiare», ribatté Nightshade. «Potrebbero offendersi se non mangiamo.»
«Nightshade, per favore...»
«Oh, va bene.» Il kender tornò strascicando i piedi al suo posto accanto alla parete e si accovacciò.
«Atta, buona!» ordinò Rhys. «Da me!»
La cagna rinunciò ad abbaiare e tornò a stendersi accanto a lui. Rimase vigile, con gli orecchi ritti e il corpo teso per saltare.
Mina entrò nella grotta.
Rhys non sapeva che cosa si aspettasse: Zeboim, il capitano dei minotauri, uno dei Prediletti. Tutto tranne lei. La guardò con stupore.
Mina a sua volta guardò lui. La luce dentro la piccola cavità si era fatta sempre più vivida con l’alzarsi del sole, ma comunque ci volle un po’ perché gli occhi di Mina si adattassero all’interno ombroso della grotta.
Dopo qualche istante Mina avanzò e rimase a guardare giù verso Rhys. Gli occhi d’ambra lo osservarono attentamente, e Mina si accigliò.
«Sei diverso», gli disse con tono accusatorio.
Rhys scrollò il capo. Aveva il cervello intorpidito per lo sfinimento, i suoi processi mentali incespicavano come il kender incatenato.
«Temo di non capire che cosa vogliate dire, signora...»
«Invece sì!» Mina era in collera. «La tua veste è diversa! Tu indossavi una veste arancione decorata con rose quando ti ho visto in quella taverna, e adesso la tua veste è di un verde sporco. Anche i tuoi occhi sono diversi.»
«I miei occhi sono i miei occhi, signora», disse Rhys, sconcertato. Si domandò dove lei avesse raccattato quell’immagine di lui come era stato, non come era. «Non riesco molto bene a cambiarli. E la mia veste è la veste che indossavo quando ci siamo incontrati...»
«Non mentirmi!» Mina gli diede uno schiaffo in faccia.
«Atta, no!» Rhys trattenne la cagna furiosa per la collottola e la trascinò via fisicamente dall’attacco.
«Fai qualcosa con quel bastardo», disse freddamente Mina, «altrimenti gli rompo l’osso del collo».
A Rhys pizzicava la guancia. Lo zigomo gli doleva. Tenne stretta la cagna adirata. «Atta, vai da Nightshade.»
Atta lo guardò per accertarsi che dicesse sul serio e poi, con la testa china e la coda abbassata, andò a stendersi accanto al kender.
«Vi sto dicendo la verità, signora», disse tranquillamente Rhys. «Io non mento.»
«Certo che menti», disse sdegnosa Mina. «Tutti mentono. Gli dèi mentono. Gli uomini mentono. Noi mentiamo a noi stessi, se non c’è nessun altro a cui mentire. L’ultima volta che ti ho visto, indossavi una veste arancione e mi hai riconosciuta. Mi hai guardata e dai tuoi occhi ho visto che sapevi tutto di me.»
«Signora», disse Rhys smarrito, «quella era la prima volta che vi vedevo nella mia vita».
«Adesso non hai quello sguardo negli occhi, ma ce l’avevi quando ci siamo incontrati l’altra volta.» Mina serrò i pugni, conficcandosi le unghie nei palmi. «Dimmi che cosa sai di me!»
«Tutto ciò che so è che avete tolto la vita a mio fratello e ne avete fatto un vostro schiavo...»
«Non un mio schiavo!» gridò Mina con veemenza inattesa. Si guardò attorno colpevole, come temendo che qualcuno la ascoltasse. «Non è un mio schiavo. Nessuno di loro è mio schiavo. Sono tutti seguaci del mio signore Chemosh. Smettila di piagnucolare, kender! Che hai? Frignavi così l’ultima volta che ti ho visto!»
Assalì Nightshade, che era accovacciato a terra, gli occhi colmi di lacrime che gli colavano sulle guance. Cercava di restare in silenzio. Aveva le labbra serrate, ma ogni tanto gli sfuggiva un gemito.
«Non posso farne a meno, signora.» Nightshade si passò la manica sul naso. «È una cosa tanto triste.»
«Che cosa è triste? Se non la smetti, ti do io qualcosa per cui piangere.»
«Me l’avete già dato», disse Nightshade. «Siete voi. Voi siete tanto triste.»
Mina rise. «Non essere ridicolo! Io non sono triste. Io ho tutto ciò che voglio. Ho l’amore e la fiducia del mio signore, e ho potere...»
Si zittì. La sua risata svanì, e Mina si strinse maggiormente nello scialle. Sentiva fresca l’aria nella grotta, dopo essere stata fuori al calore della luce solare. «Io non sono triste.»
«Non voglio dire che siete triste voi», balbettò Nightshade. Diede un’occhiata a Rhys, cercando il suo aiuto.
Rhys non ne aveva da offrire. Non aveva idea di che cosa stesse dicendo il kender.
«Quando vi guardo, mi sento triste.»
«E fai bene», disse minacciosamente Mina. Tornò a rivolgersi a Rhys. «Dimmi, monaco. Dimmi la risposta all’indovinello.»
«Quale indovinello, signora?» domandò stancamente Rhys.
Mina ci ripensò. «Il drago sembrava sorpreso di vedermi. Non era arrabbiato né furioso. Era sorpreso. Mi ha detto: "Chi sei? Da dove vieni?"»
Mina si inginocchiò davanti a Rhys per guardarlo dritto negli occhi. «Questo è l’indovinello. Io non so rispondere, ma tu sì. Tu lo sai chi sono io.»
Rhys fece del suo meglio per spiegare. «Signora, il drago vi ha posto l’indovinello eterno: l’indovinello che l’intera umanità si pone e a cui nessuno sa dare risposta. "Chi sono io? Da dove vengo?" Noi ci sforziamo per tutta la vita di capire...»
Lo sguardo di Mina si fece distratto. Lei lo guardava, ma non lo vedeva. Stava vedendo il drago.
«No», disse a bassa voce. «Non va bene. Non è così che l’ha detto. L’inflessione è sbagliata.»
«L’inflessione?» Rhys scrollò il capo. «Non so che cosa intendiate, signora.»
«Il drago non intendeva: "Chi sei?" Il drago intendeva: "Chi sei tu? Da dove vieni tu?"»
Gli occhi d’ambra di Mina si concentrarono di nuovo su di lui. «Hai capito la differenza?»
Rhys alzò le spalle. «Io non conosco la risposta. Dovreste parlare col drago, non con me.»
«Il drago si è infuriato. Pensava che lo prendessi in giro, e non voleva più avere niente a che fare con me. Io veramente non so che cosa intendesse, ma tu sì, e me lo dirai.»
Mina gli afferrò il mento e gli sbatté la testa contro la parete di roccia frastagliata. Il colpo gli spedì scintille di dolore feroce nel cranio. La vista gli si annebbiò, e per un momento Rhys temette di svenire. Sentì in bocca il sapore del sangue per essersi morso l’interno della guancia. La testa gli pulsava.
«Non posso dirvi ciò che non so», disse Rhys, sputando sangue.
«Non vuoi dirmelo, intendi.»
Mina lo guardò con occhio furioso. «Ho sentito dire che voi monaci siete addestrati a sopportare il dolore, ma questo solo quando siete vivi.»
Si chinò su di lui, mise le mani sul fondo roccioso sui due lati di Rhys. I suoi occhi d’ambra, da vicino, parevano inghiottirlo. «Uno dei Prediletti mi direbbe tutto ciò che voglio farmi dire. I Prediletti non mentono a me. Tu potresti assaporare il bacio di Mina, monaco.»
Le labbra di lei gli sfiorarono la guancia.
A Rhys si strinse lo stomaco. Il cuore gli si accartocciò. Pensò a Lleu, un mostro che ardeva di dolore e che poteva trovare sollievo soltanto nell’assassinio.
Rhys inspirò e disse, con tutta la calma che poté: «Dovrei pronunciare un giuramento a Chemosh, e questo non lo farò mai».
Mina sorrise sdegnosa. «Non fingere di essere tanto virtuoso, monaco. Tu sei vincolato da giuramento a Zeboim. Me l’ha detto lei. Se io glielo chiedo, lei venderà la tua anima a Chemosh...»
«Io sono vincolato da giuramento a Majere», disse tranquillamente Rhys.
Mina si tirò indietro a sedere sui talloni. Arricciò il labbro. «Bugiardo! Tu hai abbandonato Majere. Me l’ha detto Zeboim.»
«Grazie alla saggezza di un kender e al rifiuto del mio dio di abbandonarmi, ho imparato la lezione», disse Rhys. «Ho chiesto perdono a Majere e lui mi ha concesso la sua benedizione.»
Mina rise di nuovo e fece un gesto verso Rhys. «Eccoti qui, incatenato a una parete dentro una grotta lontano da tutto. Sei completamente alla mia mercé. È uno strano modo per un dio di dimostrare il suo amore.»
«Come dite voi, signora, io sono incatenato a una parete. Non ho dubbi che voi intendiate uccidermi, eppure sì, il mio dio mi ama. Infatti finalmente io ho la risposta al mio indovinello. Io so chi sono.»
Rhys alzò lo sguardo verso di lei. «Mi dispiace, signora, ma io non vi conosco.»
Mina lo fissò in silenzio, ribollendo. Gli occhi d’ambra ardevano.
«Ti sbagli, monaco», disse alla fine, quando riuscì a parlare. «Io non ti ucciderò. Io ucciderò loro.» Indicò Nightshade e Atta. «Hai tutta la giornata per riflettere sul mio indovinello, monaco: una giornata in cui puoi immaginarti la loro agonia. Moriranno fra dolori lancinanti. Prima il cane e poi il kender. Ritornerò al tramonto.»
Li lasciò, uscendo dalla grotta a passi lunghi e rabbiosi.
Appostato fuori delle pareti rocciose, Krell udì Mina annunciare la propria partenza, ed ebbe appena il tempo di scomparire alla vista prima che lei riemergesse. Mina aveva il viso pallido, gli occhi d’ambra luccicanti, le labbra serrate. La sua espressione non era l’espressione di una donna innamorata. Appariva chiaramente incollerita; incollerita e respinta. Krell non si preoccupava di simili dettagli, però. Sapeva che cosa volesse sentirsi dire il suo padrone ed era pronto a dirglielo.
Adesso tutto ciò che serviva a Krell era un nome.
Aveva fatto del suo meglio per ascoltare la conversazione, ma questa gli era giunta attutita e indistinta. Aveva capito ben poco di ciò che era stato detto, ma gli venne in mente, dopo diversi istanti, che la voce dell’uomo gli suonava familiare.
Krell era sicurissimo di avere già udito in precedenza quella voce, da qualche parte. Non si ricordava dove. Ultimamente aveva udito tante voci che tutte gli crepitavano confuse dentro l’elmo vuoto. Ciò che sapeva era che il suono della voce calma di quell’uomo gli suscitava qualche sensazione molto violenta. Krell nutriva un rancore contro quella voce. Se solo fosse riuscito a ricordare quale.
Il cavaliere della morte seguì Mina finché vide che era diretta verso il castello, poi ritornò alla grotta. Aveva intenzione di entrare, per vedere quest’uomo di persona e scoprire dove e quando si fossero incontrati...
Dalla grotta schizzarono fuori una folata di vento e pioggia, spuma di mare e furia.
«Che cosa vuoi dire che sei vincolato da giuramento a Majere?» La dea strillava e ululava. «Tu sei mio! Tu ti sei dedicato a me!»
Krell conosceva quella voce come nessun’altra. Zeboim. Ed era in tempesta.
Krell non aveva idea del perché la sua castigatrice si trovasse lì dentro; e nemmeno gli importava, poiché gli era appena venuto in mente che Chemosh sarebbe stato impaziente di ricevere il suo rapporto.
«Non devo far aspettare il mio padrone», si disse Krell, e si girò e scappò via.
«Che cosa vuoi dire che sei vincolato da giuramento a Majere?» Zeboim urlava tempestosamente. «Tu sei mio, monaco! Tu ti sei dedicato a me!»
La dea si era materializzata nella grotta con una folata di vento e pioggia scrosciante. Il vestito verde le schiumava attorno. I lunghi capelli, agitati dal vento, sferzavano in viso Rhys, facendolo sanguinare. Gli occhi grigio-verdi della dea ardevano su di lui. Digrignando i denti, Zeboim colpì Rhys, con le unghie contratte in artigli.
«Miserabile ingrato! Dopo tutto quello che ho fatto per te! Potrei cavarti gli occhi! Al diavolo agli occhi, potrei strapparti il fegato!»
Nightshade si faceva piccolo per la paura contro la parete. Atta piagnucolava. Rhys rivolse una muta preghiera a Majere e attese.
Zeboim si drizzò, torcendosi le mani. Inspirò, quindi inspirò di nuovo. Lentamente padroneggiò la propria furia. Le riuscì perfino un sorriso a labbra serrate.
Zeboim si inginocchiò accanto a Rhys, gli fece scivolare la mano in maniera seducente su per il braccio e disse a bassa voce: «Ti darò un’altra possibilità per tornare da me, monaco. Ti salverò da Mina. Ti salverò da Chemosh. In cambio ti chiedo soltanto un piccolo favore».
«Maestà, io...»
Zeboim gli mise le dita sulla bocca. «No, no. Aspetta di sentire quello che voglio. È una cosa piccola, più piccola del piccolo. Infinitesima. Un nonnulla. Solo... dimmi la risposta.»
Rhys era perplesso.
«La risposta all’indovinello», chiarì Zeboim. «Chi è Mina? Da dove viene?»
Rhys sospirò e chiuse gli occhi. «In verità, non lo so, maestà. Come potrei? Perché è importante?»
Zeboim si alzò in piedi. Congiungendo le mani e tamburellando con le dita, prese a camminare su e giù per la caverna, col vestito verde che le ondeggiava attorno alle caviglie.
«Perché è importante? Io mi domando la stessa cosa. Perché è importante chi abbia messo al mondo questo irritante essere umano? Per me non è importante. Per qualche bizzarro motivo importa a mio fratello. Nuitari si è spinto a far visita a Sargonnas per domandargli che cosa sapesse di Mina. A quanto pare lei aveva un amico che era un minotauro o qualcosa del genere. Questo Galdar è stato trovato, ma non è stato di alcun aiuto.»
Zeboim emise un sospiro esasperato. «Il succo del discorso è: adesso tutti gli dèi si lambiccano su questo interrogativo stupido. Il drago che vi ha dato inizio è scomparso senza lasciare traccia, come se i mari l’avessero inghiottito, il che non è successo. Per lo meno per questo posso garantire io. Rimani solo tu.»
«Maestà», disse Rhys. «Io non so...»
Zeboim interruppe i propri passi e si girò per guardarlo in faccia. «Lei sostiene di sì.»
«Lei sostiene anche che io indossavo la veste arancione di Majere quando ci siamo incontrati. Voi c’eravate, maestà. Voi sapete che indossavo la veste verde che mi avevate donato.»
Zeboim lo guardò. Gli guardò la veste. Tornò a guardare lui. Smise di vederlo. Il suo sguardo si fece assorto.
«Mi domando...» disse a bassa voce.
Strinse gli occhi, tornando a metterli a fuoco su di lui. Si accovacciò davanti a Rhys, flessuosa, aggraziata e micidiale. «Donati a me, monaco, e io ti libererò. In questo momento. Libererò perfino il kender e il bastardino. Giura fedeltà a me, e io convocherò la nave dei minotauri, che ti trasporterà dovunque tu voglia andare in questo vasto mondo.»
«Non posso giurare a voi ciò che non ho più da dare, mia signora», rispose gentilmente Rhys. «La mia fedeltà, la mia anima sono nelle mani di Majere.»
«Mina mantiene la parola», ribatté rabbiosamente Zeboim. Indicò Nightshade. «Ucciderà il tuo cane e quel disgraziato di kender. Avranno una morte lenta e dolorosa, e tutto per causa tua.»
«Majere vigila sui suoi», disse Rhys. Guardò il bastone, appoggiato alla parete.
«Lascerai morire fra i tormenti coloro che confidano in te pur di raggiungere la tua salvezza! Bell’amico sei, fratello!»
«Rhys non ci lascerà morire fra i tormenti!» gridò fermamente Nightshade. «Noi vogliamo morire fra i tormenti, vero, Atta? Oops», soggiunse a bassa voce. «Non mi è venuta granché bene.»
Zeboim si alzò, maestosa e fredda. «Così sia, monaco. Ti ucciderei io stessa subito, ma non priverò Mina di questo piacere. Stanne certo, io starò a guardare e assaporerò ogni goccia di sangue! Oh, e caso mai tu pensassi che quello possa servirti...»
Puntò un dito contro il bastone, che esplose con un’orribile fiammata verde. In tutta la caverna volarono schegge di legno. Una scheggia incise la carne della mano di Rhys. Lui si coprì rapidamente la ferita, in modo che Zeboim non vedesse.
La dea svanì con un tuono, una folata di vento carico di pioggia e un ghigno.
Rhys si guardò la mano, la lunga e frastagliata lacerazione causata dalla scheggia. Dalla ferita sgorgava sangue. Rhys vi premette sopra l’orlo della manica. Tutto ciò che rimaneva del bastone (la scheggia che l’aveva tagliato) era steso sul pavimento al suo fianco. Rhys raccolse la scheggia e vi chiuse sopra la mano.
Aveva la risposta di Majere, ed era contento.
«Non essere triste, Rhys», stava dicendo allegramente Nightshade. «A me non importa di morire. E neanche ad Atta. Potrebbe essere divertente essere un fantasma: potrei scivolare attraverso i muri e andarmene in giro di notte. Io e Atta verremo a trovarti nella nostra forma spettrale. Non che io abbia visto molti fantasmi di cani, bada. Chissà perché? Forse perché le anime dei cani hanno già completato il loro viaggio e sono libere di andare a giocare per sempre nei campi erbosi. Forse rincorrono le anime dei conigli. Cioè, se i conigli hanno un’anima... non farmi parlare di conigli...»
Rhys attese pazientemente che il kender concludesse le sue divagazioni metafisiche. Quando Nightshade si stancò di parlare e fece per mettersi a giocare a sasso, tela e forbici con Atta, Rhys disse: «Tu puoi sfilarti i ceppi dalle mani, vero?».
Nightshade finse di non avere udito. «La tela avvolge il sasso. Hai perso di nuovo, Atta.»
«Nightshade...» insistette Rhys.
«Non interromperci, Rhys», disse Nightshade, interrompendolo. «Questo è un gioco assai serio.»
Rhys ci riprovò. «Nightshade, lo so...»
«No, non lo sai!» gridò Nightshade, guardando Rhys con occhio torvo. Tornando al gioco, il kender schiaffeggiò leggermente Atta sulla zampa. «Stai imbrogliando. Non puoi cambiare idea a metà! La prima volta hai detto "sasso"...»
Rhys rimase zitto.
Nightshade continuava a sbirciare verso di lui con la coda dell’occhio, dimenandosi imbarazzato. Continuò a giocare, ma dimenticò quello che aveva detto di avere (sasso, tela o forbici) e questo confuse il gioco.
All’improvviso gridò: «E va bene! I ceppi ai miei polsi potrebbero essere un po’ allentati».
Si guardò i piedi e si illuminò. «Ma non potrei mai far passare i piedi attraverso i ceppi delle caviglie!»
«Potresti», disse Rhys, «se li ungessi con un po’ di grasso della carne di maiale salata».
Il kender arricciò il labbro inferiore. «Mi rovinerà gli stivali.»
Rhys diede un’occhiata agli stivali. Due dita rosee dei piedi facevano capolino attraverso i buchi nelle suole.
«Quando fa buio», disse Rhys, «ti liberi e prendi Atta e te ne vai».
Nightshade scrollò il capo. «Non senza di te. Useremo il grasso per liberarti le mani...»
«I ceppi sono stretti ai miei polsi e ancora più stretti alle caviglie. Non posso scappare. Tu e Atta sì.»
«Non farmi andar via!» supplicò Nightshade.
Rhys mise il braccio attorno alle spalle del kender. «Sei un amico buono e fedele, Nightshade, il migliore amico che io abbia mai conosciuto. La tua saggezza mi ha riportato al mio dio. Guardami.»
Nightshade scrollò il capo e fissò ostinatamente il terreno.
«Guardami», disse gentilmente Rhys.
Nightshade sollevò la testa. Le lacrime gli rigavano le guance.
«Io so sopportare il dolore», disse Rhys. «Io non ho paura della morte. Majere attende di accogliermi. Ciò che non posso sopportare è vedere soffrire voi due. La mia morte sarà tanto più facile se io so che tu e Atta siete in salvo. Farai quest’ultimo sacrificio per me, Nightshade?»
Nightshade dovette deglutire alcune volte, e poi disse miserevolmente: «Sì, Rhys».
Atta guardò il suo padrone. Era una buona cosa che non potesse capire ciò che stava dicendo. Avrebbe decisamente rifiutato.
«Così va bene», disse Rhys. «Adesso penso che dovremmo prenderci qualcosa da mangiare e da bere, e poi riposarci un po’.»
«Io non ho fame», mormorò Nightshade.
«Io sì», affermò Rhys. «E so che anche Atta ha fame.»
Al sentir parlare di mangiare, la cagna si leccò i baffi e si alzò, scodinzolando.
«Penso che abbia fame anche tu», soggiunse Rhys, sorridendo.
«Be’, giusto un po’», disse Nightshade e, con un sospiro mesto, fece scivolare le mani fuori dei ceppi e andò sferragliando verso il sacco di carne di maiale salata.
Il mare ribollì quando Zeboim entrò a grandi passi nell’acqua, e la dea era avviluppata dal vapore quando salì a bordo della nave dei minotauri. Il capitano si inchinò profondamente verso di lei, e l’equipaggio si toccò con le nocche la fronte ispida. «Dove siete diretta, o Gloriosa?» domandò umilmente il capitano.
«Al Tempio di Majere», rispose la dea.
Il capitano si strofinò il muso e la osservò con aria spiacente. «Temo di non sapere...»
Zeboim agitò la mano. «È da qualche parte su una montagna. Ho dimenticato il nome. Vi guiderò io. Affrettatevi.»
«Sì, o Gloriosa.» Il capitano si inchinò di nuovo e poi si mise a urlare ordini. L’equipaggio corse al sartiame.
Zeboim sollevò le mani e convocò il vento, e le vele si gonfiarono.
«A nord», disse la dea, e le onde si incresparono schiumando sotto la prua mentre il vento spingeva la nave sopra le onde e su verso le nuvole.
I venti della volontà della dea spinsero la nave attraverso l’etere che schiumava sotto la chiglia e la trasportarono in un luogo remoto che non compariva su nessuna carta geografica di Krynn, poiché pochi mortali l’avevano mai visto o erano al corrente della sua esistenza. Coloro che lo conoscevano non avevano bisogno di carte geografiche, poiché sapevano dove si trovavano.
Era un territorio di alte montagne e valli profonde. Su quei monti imponenti non cresceva nulla. Le valli erano sfregi intagliati nella pietra con qualche collinetta erbosa e di quando in quando un pino scabro o un abete piegato dal vento. I nomadi che dimoravano in questa regione desolata vagavano sulle montagne con i loro greggi di capre, conducendo una magra esistenza. Questi esseri umani vivevano adesso come vivevano secoli fa, senza sapere niente del mondo al di là e senza chiedere nulla a quel mondo tranne di essere lasciati in pace.
Avvicinandosi alla sua destinazione, la dea avvolse la nave nelle nubi, per timore che Majere, dio solitario e isolato, si accorgesse del suo arrivo e se ne andasse prima che lei potesse parlargli.
«Mia gentile signora, questa è follia» disse il minotauro-capitano. Diede un’occhiata stralunata oltre la prua. Dovunque le nubi si aprissero, vedeva la sua nave veleggiare pericolosamente vicino a vette frastagliate e innevate. «Ci schianteremo a capofitto contro una montagna e per noi sarà la fine!»
«Ancorate qui», ordinò Zeboim. «Siamo vicini alla mia destinazione. Compirò da sola il resto del viaggio.»
Il capitano fu fin troppo felice di obbedire. Arrestò la nave, lasciandola a librarsi fra le nuvole.
Avvolgendosi in una nebbiolina grigia che si gettò addosso come uno scialle di seta, Zeboim discese lungo il fianco della montagna, alla ricerca della dimora di Majere. Non tornava lì da eoni e aveva dimenticato dove si trovasse di preciso. Emergendo su un altopiano che si estendeva in mezzo a due vette, Zeboim pensò che quel luogo le paresse familiare e sollevò con le mani il velo di nebbia per sbirciare fuori. Sorrise con soddisfazione.
Sull’altopiano sorgeva una casa semplice, di antica costruzione, con linee sobrie ed eleganti. Oltre alla casa vi erano un cortile pavimentato e un giardino, il tutto circondato da un muro che era stato costruito pietra su pietra dalle mani del proprietario. Quelle stesse mani avevano costruito la casa e curavano anche il giardino.
«Oh dèi, diventerei matta come un pesce palla, bloccata qui tutta sola», mormorò Zeboim. «Nessuno che ti ascolti quando parli. Nessuno che obbedisca ai tuoi ordini. Nessuna vita di mortale da aggrovigliare e contorcere. Tuttavia... non è del tutto vero, no, amico mio?» Zeboim sorrise, con un sorriso crudele e sardonico. Quindi rabbrividì.
«Ascoltami. Sono qui da appena qualche minuto e già parlo da sola! Fra un attimo mi metterò a cantilenare e a saltellare qua e là, agitando le mani e suonando campanelline. Ah, eccoti qui.»
Trovò la sua preda da sola nel cortile, a eseguire quello che pareva qualche sorta di esercizio o forse una danza lenta e sinuosa. Malgrado il freddo che gelava le ossa e che faceva battere i denti alla dea del mare, Majere era a petto nudo e a piedi nudi e indossava soltanto dei pantaloni morbidi legati in vita da una cintura di stoffa. Aveva i capelli grigio-ferro legati in una treccia che gli scendeva alla vita. Aveva lo sguardo rivolto dentro di sé, corpo e mente una cosa sola, mentre si muoveva al ritmo della musica delle sfere.
Zeboim piombò su di lui come un cormorano in picchiata e atterrò nel cortile giusto davanti a lui.
Lui sapeva della presenza della dea. Zeboim lo capì dal lieve balenare degli occhi. Forse sapeva della sua presenza da tempo. Era difficile dirlo, perché il dio non diede segno di notare la sua presenza nemmeno quando lei pronunciò il suo nome.
«Majere», disse severamente la dea, «dobbiamo parlare».
Gli dèi non hanno forme corporee, e non ne hanno bisogno. Possono comunicare fra loro da mente a mente, i loro pensieri vagano per l’universo, non conoscendo limiti. Al pari dei mortali, però, gli dèi hanno segreti (pensieri che non vogliono comunicare, progetti e intrighi che non vogliono svelare), per cui trovano preferibile usare le loro incarnazioni non solo quando devono comunicare con i mortali, ma anche fra loro. Il dio permette soltanto a una parte di sé di entrare nell’incarnazione, tenendo così nascosta la propria mente.
L’incarnazione di Majere proseguì l’esercizio: le mani si muovevano aggraziate nell’aria rarefatta e frizzante; i piedi nudi si muovevano silenziosamente sulla pietra da lastrico. Zeboim fu costretta a danzare a sua volta (scansandosi per evitarlo, balzando di lato) mentre cercava di tenere il suo passo e rimanere in vista del suo viso.
«Presumo che tu non possa stare fermo per un attimo», disse alla fine, irritata. Aveva appena inciampato sull’orlo della propria veste.
Majere continuò a eseguire il suo rituale quotidiano. Il suo sguardo era rivolto alle montagne, non a lei.
«Sappiamo tutti e due perché io sono qui. Quel tuo monaco: il monaco che Mina sta per sbudellare, o scorticare, o qualunque divertimento progetti di procurarsi con lui.»
Majere si distolse da lei, con i lenti movimenti prescritti, ma non prima che Zeboim vedesse un lampo negli occhi grigi del dio.
«Ah, bene!» gridò Zeboim, sfrecciando dall’altra parte per guardarlo in faccia. «Mina. Questo nome ti è familiare, vero? Perché? Questo è il problema. Penso che tu sappia qualcosa di lei. Penso che tu sappia molto di lei.»
La mano del dio descrisse in aria un arco aggraziato. Zeboim allungò la mano e gli afferrò il polso. Majere fu costretto a guardarla.
«Penso che tu abbia commesso un errore», disse la dea.
Majere rimase in piedi perfettamente fermo, calmo e composto. Aveva ogni apparenza di continuare a stare così per il secolo successivo, e l’impaziente Zeboim mollò la presa. Majere proseguì l’esercizio come se non fosse intervenuto nulla a interromperlo.
«Ecco la mia teoria», disse Zeboim. Era sfinita dal cercare di tenere il passo del dio e si sedette sul muro di pietra mentre esponeva la propria opinione. «Tu sapevi oppure hai capito qualcosa riguardo a Mina. Qualunque cosa fosse, hai deciso di incaricarne i tuoi monaci, e così il primo discepolo di Mina (il disgraziato fratello del monaco) è arrivato al tuo monastero. Che cosa doveva succedere? I monaci dovevano forse riportarlo in vita con le preghiere? Toglierli la maledizione?»
Si interruppe per consentire a Majere di fornirle qualche risposta, ma il dio non reagì.
«Comunque», proseguì Zeboim, «qualunque cosa doveva succedere non è successa, e quello che è successo è stato disastroso. Forse Chemosh l’ha scoperto e ha agito in modo da mandare all’aria i tuoi piani. Il suo discepolo ha assassinato i monaci. Tutti tranne uno: Rhys Mason. Lui doveva diventare il tuo paladino, ma oops! L’hai perso. Lui, comprensibilmente, era furioso con te. Dov’eri tu quando i tuoi monaci venivano massacrati? Eri impegnato a fare il tuo balletto? Tutto ciò riguarda la questione del libero arbitrio». La dea si strofinò le braccia, cercando di scaldarsi. «Voi dèi della luce promuovete sempre il libero arbitrio, e qui abbiamo un ottimo esempio del perché una simile idea sia assolutamente ridicola. Eccoti qui, in disperato bisogno del tuo discepolo, e lui che fa? Esercita il suo libero arbitrio. Ti abbandona e si rivolge a me per avere aiuto. Tu ti rifiuti di abbandonarlo, però. Molto clemente e comprensivo da parte tua, devo ammettere», soggiunse Zeboim con un’alzata di spalle. «Se avesse fatto così uno dei miei discepoli, l’avrei annegato nel suo stesso sangue. Ma tu no. Tu gli cammini accanto con pazienza. Con pazienza cerchi di guidarlo, ma da qualche parte, di nuovo, qualcosa va storto. Non so bene che cosa, ma qualcosa sì.»
Majere proseguiva l’esercizio. Non parlava. Non la guardava. Però l’ascoltava. Di questo lei era certa.
«Io ho lanciato Mina contro di te, o meglio contro Rhys. Non era veramente mia intenzione. Eravamo di fretta. Dovevo restituirla a Chemosh nell’ambito di un patto che abbiamo stipulato. Pensavo però di dover far conoscere quei due, poiché avevo insistito io affinché Rhys la trovasse. Volevo fargli sapere quale aspetto avesse Mina. Ebbene, signore! Immagina la mia sorpresa quando Mina afferma che lui la conosce! Lui sostiene di no, e a me è perfettamente evidente che lui dice la verità. Quel povero sciocco non sa mentire. Io gli credo, ma Mina no. Io sì. Decido di riportare assieme questi due. Per giunta, così facendo rendo la vita impossibile a Chemosh, ma questo non c’entra. Mina si incontra con Rhys, e adesso lui non la conosce e lei sa che lui non la conosce. Lei è confusa, povera cara. Non posso dire di fargliene una colpa. Lei gli dice però qualcosa di molto interessante. Dice che la prima volta che lei l’ha visto lui indossava una veste arancione. Rhys non indossava niente del genere. Indossava una veste verde assai carina, che gli avevo donato io, per cui o Mina è daltonica oppure è squilibrata.»
Zeboim si interruppe per riprendere fiato. Il solo osservare Majere pareva sfinirla. Ormai non si aspettava più che parlasse.
«Non credo che Mina sia daltonica e neanche pazza. Credo che abbia visto ciò che ha visto. Credo che abbia visto Rhys Mason in un’epoca della sua vita in cui davvero indossava una veste arancione e in cui davvero sa chi è lei. Non adesso, perché non lo sa. Non nel passato, perché non lo sapeva. Pertanto rimane... un’epoca in cui lo saprà.»
Zeboim fece una pausa per creare un effetto e poi disse: «Mina ha visto il tuo monaco nel futuro, un futuro in cui lui è ritornato da te, un futuro in cui lui saprà qualcosa di Mina. Lui sa effettivamente qualcosa, perché gliel’hai detto tu».
Zeboim alzò le spalle. «Il problema che hai tu, Majere, è che adesso questo futuro non arriverà mai, perché Mina progetta di torturare a morte il tuo povero monaco. E poi c’è la questione del kender che scoppia in piagnistei sentimentali e lacrimosi ogni volta che vede Mina, ma non ti annoierò con questo. È un kender, dopo tutto. Da quelli lì non ti puoi aspettare niente di sensato.»
Zeboim scrutò Majere.
«Vai avanti. Fai il tuo balletto. Fingi pure di essere al di sopra di tutto questo. La verità è: sei in un pasticcio. Io non sono la sola a domandarmi che cosa succeda con questa mortale di nome Mina. Mio fratello Nuitari sarà una spina nel fianco, ma non è stupido. Lui e i suoi strani cugini fanno domande. A Sargonnas non piace il fatto che questi Prediletti si congreghino nell’est di Ansalon, così vicino al suo impero. A Nuitari non va che siano tanto prossimi alla sua preziosa Torre. Mishakal è furiosa perché per distruggerli bisogna usare la mano di un bambino: un tocco meraviglioso di Chemosh, devo ammettere. Sono proprio divertita al pensiero di dolci monelli costretti a diventare assassini assetati di sangue. Perché io sono qui, Majere? Ti vedo porti questa domanda. Sono venuta ad avvisarti. Io sono il primo dio a farti visita ma non sarò l’ultimo. Tutti gli indizi puntano verso di te. Gli altri troveranno la via per raggiungere la tua fortezza sulle montagne, e alcuni (penso specificamente a mio padre) non saranno dolci e affascinanti quanto me. Faresti meglio a fare qualcosa prima di perdere completamente il controllo della situazione. Se non l’hai già perso, vale a dire. Vorresti forse toglierti un peso? Dirmi la verità? Io sarei lieta di aiutare Rhys Mason... a un certo prezzo. Io placherò mio padre e mio fratello, impedirò loro di disturbarti. Dimmi ciò che sai di Mina. Sarà il nostro segreto: lo giuro!»
Zeboim attese, strofinandosi le braccia e pestando i piedi.
Majere continuò a muoversi silenziosamente sulla pietra fredda. Il suo volto era privo di espressione, i suoi occhi insondabili, imperscrutabili.
«Tieniti il tuo segreto, allora!» gridò Zeboim con tono scortese. «Così facendo non avrai guai. Il tuo povero monaco morirà prima di rivelarlo. Ah, dimenticavo!» Batté le mani. «Non può rivelarlo perché non lo sa! Verrà torturato per un’informazione che non ha e che pertanto non potrà mai dare. Che scherzo meraviglioso a quel poveretto. Così imparerà a riporre fede in un dio come te!»
Zeboim se ne andò stizzita, lasciandosi dietro una scia di nebbia e foschia. Ritornando alla nave, ordinò ai minotauri di levare l’ancora e di affrettarsi a trovare climi più caldi.
Nel cortile, Majere cercò di proseguire il suo rituale, ma scoprì di non riuscirci. Per la meditazione la mente deve essere calma e tranquilla, e la sua mente era in subbuglio.
«Paladine», disse sottovoce. «Il tuo corpo mortale non può udirmi, ma forse la tua anima sì. Ti ho deluso. Ti chiedo perdono. Cercherò di fare ammenda. Anche se temo che sia già troppo tardi.»
Chemosh si trovava sul parapetto merlato del Castello dei Prediletti (stava valutando seriamente se cambiargli nome) e osservava Mina correre lungo la spiaggia. Le onde le lambivano i piedi, lavando via le orme. Chemosh rimase a osservare finché Mina non fu ritornata al castello e lui non riuscì più a vederla.
Voltandosi, quasi si scontrò con Ausric Krell.
Chemosh imprecò, ricadendo all’indietro.
«Ma che fai? Arrivarmi dietro furtivamente così!»
«Mi avete ordinato voi di essere discreto», ribatté scontroso Krell.
«Attorno a Mina, razza di pentola ambulante! Quando sei attorno a me, puoi sferragliare e cigolare quanto vuoi. Ebbene?» soggiunse, dopo una pausa. «Che notizie mi porti?»
«Avevate ragione, mio signore», disse Krell esultante. «È andata a incontrarsi con Zeboim!»
«Non con un amante?» ripeté Chemosh, stupito.
Krell vide di avere commesso un errore. «Anche questo», si affrettò a dire. «Mina è andata a incontrarsi con la Strega del Mare e anche con un amante.» Alzò le spalle. «Probabilmente qualche sacerdote di Zeboim.»
«Probabilmente?» ripeté Chemosh, accigliandosi. «Non lo sai? Non l’hai visto?»
Krell era in agitazione. «Io... ehm... non potevo, mio signore. Zeboim era lì e... e voi non avreste voluto farle sapere che noi stavamo spiando...»
«Vuoi dire che non volevi farle sapere che sotto tutta quell’armatura d’acciaio si nasconde un vigliacco pusillanime.» Chemosh si incamminò verso la torre con le scale. «Vieni con me. Mi mostrerai dove trovare questo amante. Mi piacerebbe conoscerlo.»
Krell era in imbarazzo. Il suo resoconto era credibile... fin qui. Aveva lasciato fuori il kender e il cane, ma questo, più ci pensava, non aggiungeva nulla al suo racconto di amanti e appuntamenti segreti. Poi c’era la libertà che si era preso sulla cronologia degli eventi: Zeboim era arrivata, ma soltanto dopo che Mina se n’era andata, una cosa strana per due che dovevano far parte di un complotto.
«Aspettate, mio signore!» gridò con sollecitudine Krell.
«Che c’è?» Chemosh si girò a guardarlo impaziente.
«Ehm... l’imbrunire», disse Krell ispirato. «Ho sentito Mina dire a quest’uomo che sarebbe ritornata da lui stasera. Potrete coglierli sul fatto», soggiunse, sicuro che questo sarebbe piaciuto al padrone.
Chemosh si fece estremamente pallido. Le mani, sotto il pizzo sbrindellato, si serravano e si aprivano. I capelli scarmigliati erano arruffati dal vento.
«Hai ragione», disse Chemosh con una voce priva di inflessioni. «È quello che farò.»
Krell emise, ma solo interiormente, un grande sospiro di sollievo. Salutò militarmente il suo signore e girò sui talloni. Sarebbe ritornato alla grotta, assicurandosi che al suo arrivo Chemosh trovasse ciò che Krell gli aveva detto di aspettarsi.
«Krell», disse all’improvviso Chemosh. «Sono annoiato. Vieni a giocare a khas con me. Così mi distolgo la mente dalle cose.»
A Krell si accasciarono le spalle. Odiava giocare a khas con Chemosh. Tanto per cominciare, il dio vinceva sempre. Non è difficile quando si vedono con un’occhiata tutte le mosse possibili, tutti gli esiti possibili. E per finire Krell aveva un impegno urgente in quella grotta. Doveva sistemare un kender e un cane.
«Sarei fin troppo lieto di fare una partita con voi, mio signore, ma ho i Prediletti da addestrare. Perché non fate un giochino con Mina? Potreste anche rifarvi delle spese...»
Krell si rese conto mentre stava parlando di avere commesso un errore. Avrebbe voluto inghiottire quelle parole, se avesse potuto, e anche se stesso, ma era troppo tardi. Gli occhi scuri di Chemosh avevano un’aria che al cavaliere della morte fece desiderare di strisciare dentro la propria armatura e non uscirne più.
Vi fu un attimo di silenzio orribile, poi Chemosh disse freddamente: «D’ora in poi, Mina addestrerà i Prediletti. Tu giocherai a khas».
«Sì, mio signore», mormorò Krell.
Il cavaliere della morte andò a passi pesanti dietro a Chemosh, seguendolo giù per le scale e nella sala. Krell sarà anche stato in disgrazia, ma aveva un pensiero consolante: in questo momento non si sarebbe voluto trovare nei panni di Mina per nulla che il cielo o l’Abisso potessero offrire.
Mina fece una nuotata nel mare, anche se non fu proprio intenzionale. Le onde sollevate dall’ira di Zeboim allagarono la sottile striscia di spiaggia che andava dal frangiflutti di pietra al dirupo su cui sorgeva il castello. L’acqua non era profonda, e la forza delle onde era frenata dagli scogli. Mina sapeva nuotare bene e apprezzò quell’esercizio fisico che le riscaldò i muscoli e le sgombrò la mente, costringendola ad accettare una verità spiacevole.
Credeva al monaco. Lui non le stava mentendo. Mina conosceva gli uomini, e lui era del tipo incapace di mentire. Le ricordava, stranamente, Galdar, il suo ufficiale e fedele amico. Anche Galdar era incapace di dire una bugia, anche quando sapeva che lei avrebbe preferito una bugia piuttosto che la verità. Mina si domandò, con una fitta, dove fosse Galdar. Sperava che stesse bene. All’improvviso le venne il desiderio di vederlo. Desiderò per un attimo che lui fosse lì a cingerla con un braccio (con quel braccio che lei gli aveva miracolosamente restituito) e a dirle che tutto sarebbe andato bene.
Emergendo dal mare, Mina si strizzò l’acqua dai capelli e dall’abito e smise di desiderare ciò che non sarebbe mai avvenuto. Doveva decidere che fare del monaco. Adesso lui non la conosceva, ma l’aveva conosciuta quando si erano incontrati per la prima volta. Nei suoi occhi lei aveva visto che la riconosceva, che sapeva di lei. Lui l’aveva dimenticato, oppure era successo qualcosa che gliel’aveva fatto dimenticare.
Un modo per ristabilire i ricordi era mediante il dolore. Mina aveva ordinato di praticare la tortura sui suoi prigionieri. I Cavalieri delle Tenebre ne erano esperti. Aveva guardato degli uomini soffrire e talvolta morire, sicura di fare le cose più giuste, di servire una causa lodevole: la causa dell’Unico Dio.
Adesso era insicura, incerta. Incominciava a dubitare. Quella mattina era stata tanto in collera che avrebbe potuto levare la pelle dalle ossa del monaco senza provare mai neanche uno scrupolo. Riflettendoci si domandò: Posso torturare un uomo a sangue freddo? Se sì, posso fidarmi delle informazioni estorte con la violenza?
Galdar era stato sempre dubbioso sulla tortura come metodo per ricavare informazioni.
«Gli uomini sono disposti a dire qualunque cosa pur di far cessare il dolore», l’aveva avvertita.
Mina sapeva che era vero. Era lei quella in preda ai tormenti, e avrebbe fatto qualunque cosa per far cessare quel dolore.
C’era un altro modo. I morti non hanno segreti. Non certo davanti al Signore della Morte.
Portando la mano alla collana di perle nere, Mina si decise. Avrebbe detto tutto a Chemosh. Gli avrebbe aperto la propria anima. Lui l’avrebbe aiutata a estorcere la verità al monaco.
Mina afferrò la collana, se la strappò dal collo e la gettò in mare. Col cuore sollevato, ritornò al castello, si vestì con qualcosa di carino e andò a cercare Chemosh.
Trovò il Signore della Morte nel suo studio, che giocava a khas con Krell.
Mina e il cavaliere della morte si scambiarono occhiate che rivelavano il loro disprezzo reciproco, quindi Krell tornò a studiare il tabellone. Mina lo osservò più attentamente. Aveva quell’aria di bestione crudele e volgare che aveva sempre, eppure in lui vi era un compiacimento untuoso che lei trovò nuovo e inquietante. Trovò inquietante anche il fatto che lui e il suo signore paressero a proprio agio insieme. Quando lei entrò nello studio Chemosh stava addirittura ridendo di qualcosa che aveva detto Krell.
Mina fece per parlare, ma Chemosh la prevenne. Le rivolse un’occhiata indifferente.
«Ti è piaciuta la nuotata, signora?»
A Mina tremò il cuore. Il tono di lui era freddo, le sue parole un insulto. Signora! Come se parlasse a una sconosciuta.
«Sì», rispose Mina, e proseguì rapidamente prima di perdere il coraggio. «Mio signore, devo parlarvi.» Diede un’occhiata a Krell. «In privato.»
«Sono nel bel mezzo di una partita», ribatté languido Chemosh. «Sembra che Krell possa battermi. Che ne pensi, Krell?»
«Vi sto mettendo in fuga, mio signore», disse il cavaliere della morte senza entusiasmo.
Mina deglutì. «Dopo la partita, allora, mio signore?»
«Temo di no», disse Chemosh. Allungò la mano e mosse un cavaliere, facendolo scivolare sul tabellone e usandolo per gettare a terra una delle pedine di Krell. «So tutto del tuo amante, Mina, per cui non c’è bisogno che continui a mentirmi.»
«Amante?» ripeté Mina, sbigottita. «Non so di che parliate, mio signore. Io non ho nessun amante.»
«E quell’uomo che hai nascosto nella grotta?» domandò Chemosh, e si contorse sulla sedia per guardarla bene in faccia.
Mina tremò. Le vennero in mente dieci cose da dire a propria difesa, ma nessuna pareva plausibile. Aprì la bocca, ma non le uscirono parole. Il sangue caldo le affluì alle guance, e lei capì in un attimo che il rossore e il silenzio l’avevano appena proclamata colpevole.
«Mio signore», disse disperatamente, ritrovando la voce. «Posso spiegare...»
«Non mi interessano le spiegazioni», disse freddamente Chemosh, e tornò alla partita. «Ti ucciderei per il tuo tradimento, signora, ma poi sarei perseguitato per l’eternità dal tuo penoso fantasma. Inoltre, la tua morte sarebbe uno spreco di un bene prezioso.»
Non la guardò mentre continuava a parlare, ma rifletté sulla sua prossima mossa sul tabellone.
«Tu devi assumere il comando dei Prediletti, signora. Loro ti ascoltano, ti obbediscono. Tu hai esperienza sul campo di battaglia. Tu sei la comandante giusta, pertanto, per fare di loro un esercito e prepararli a marciare contro la Torre di Nuitari. Tu organizzerai i Prediletti e li condurrai a un accampamento che io ho creato in un luogo remoto lontano da qui.»
La sala si fece buia. Il pavimento ondeggiò, le pareti si mossero. Mina dovette afferrarsi a un tavolo per restare in piedi.
«Mi state scacciando dalla vostra presenza, mio signore?» domandò debolmente, a malapena in grado di trovare il fiato per pronunciare la domanda.
Lui non si degnò di rispondere.
«Potrei addestrarli qui», disse Mina.
«Non sarebbe di mio gradimento. Trovo che sono stanco di vederli. E di vedere te.»
Mina si spostò stordita su un pavimento che si muoveva e tremava sotto i suoi piedi. Arrivando da Chemosh, cadde in ginocchio di fianco a lui e gli prese il braccio.
«Mio signore, permettetemi di spiegare! Vi prego!»
«Te l"ho detto, Mina, sono nel bel mezzo di una partita...»
«Ho gettato via le perle!» gridò lei. «Lo so che vi ho dato un dispiacere. Devo dirvi...»
Chemosh tolse il braccio dalla stretta di Mina e risistemò il pizzo che lei aveva spostato. «Partirai domani. Oggi resterai chiusa nella tua camera sotto sorveglianza. Io intendo far visita al tuo amante questa sera, e non voglio che tu sgattaioli fuori per cercare di avvertirlo.»
Mina stava per crollare. Le tremavano le gambe e le mani. Era coperta di sudori freddi. Quindi Krell fece un rumore. Ridacchiò, con voce bassa e profonda. Mina guardò gli occhi ardenti e suini del cavaliere della morte e vide un trionfo. Allora capì chi l’avesse spiata.
Il suo odio per Krell le diede la forza di alzarsi in piedi, le asciugò le lacrime e le diede il coraggio di dire: «Come desiderate, mio signore».
Chemosh mosse un altro pezzo. «Hai il permesso di andare.»
Mina uscì dalla sala; non aveva idea di come ne uscì. Non vedeva niente. Non percepiva niente. Aveva perso ogni sensazione. Avanzò barcollando finché poté e riuscì a raggiungere la sua camera da letto prima che il buio la sopraffacesse; si accasciò sul pavimento e rimase lì distesa come morta.
Dopo che Mina se ne fu andata, Krell guardò giù sul tabellone e si rese conto, con stupore, che aveva vinto.
Il cavaliere della morte mosse una pedina, afferrò la regina nera e la portò via.
«Il vostro re è intrappolato, mio signore», affermò esultante Krell. «Non ha dove andare. La partita è mia.»
Chemosh lo guardò.
Krell deglutì. «O forse no. Quest’ultima mossa... ho commesso un errore. È stata una mossa illegale.» Rapidamente ricollocò la regina sul suo esagono. «Chiedo scusa, mio signore. Non so proprio a che cosa stessi pensando...»
Chemosh tirò su il tabellone del khas e lo scaraventò in faccia a Krell.
«Dovessi avere bisogno di me, sarò nella Sala delle Anime di Passaggio. Non perdere di vista Mina! E raccogli i pezzi», soggiunse Chemosh, andandosene.
«Sì, mio signore», mormorò Ausric Krell.
Il freddo del pavimento di pietra destò Mina dallo svenimento. Tremava al punto che riuscì a malapena ad alzarsi in piedi. Tirandosi su con forza, si avvolse nella coperta del letto e andò a mettersi accanto alla finestra.
La brezza era leggera. Il Mare di Sangue era calmo. Le onde lievi bagnavano gli scogli causando appena qualche spruzzo. I pellicani, volando in formazione come una squadriglia di draghi azzurri, erano alla ricerca di pesce. Il corpo luccicante di un delfino emerse in superficie e ritornò giù silenziosamente.
Mina doveva parlare con Chemosh. Doveva costringerlo ad ascoltarla. Questo era tutto un malinteso o piuttosto una malignità.
Mina andò alla porta della camera e scoprì che non era sbarrata come lei aveva temuto. La spalancò.
Si trovò davanti Ausric Krell.
Mina gli rivolse un’occhiata severa e fece per aggirarlo.
Krell si spostò per bloccarla.
Mina fu costretta ad affrontarlo. «Togliti dai piedi.»
«Ho i miei ordini», disse Krell, gongolando. «Tu devi restare nella tua camera. Se hai bisogno di far passare il tempo, ti suggerisco di cominciare a fare i bagagli per il viaggio. Farai meglio a prendere tutto quello che possiedi. Qui non tornerai più.»
Mina lo guardò con furia fredda.
«Tu sai che l’uomo nella caverna non è il mio amante.»
«Io non so niente del genere», ribatté Krell.
«Una ragazza di solito non incatena alla parete il suo amante né lo minaccia di morte», disse caustica Mina. «E il kender? È anche lui un mio amante?»
«Tutti hanno le proprie piccole stravaganze», affermò magnanimo Krell. «Quando ero vivo, mi piaceva che le mie donne opponessero resistenza, strillassero un po’. Non sarò certo io a tranciare giudizi.»
«Il mio signore non è uno sciocco. Quando va alla grotta stasera e trova un monaco emaciato e un piccolo kender piagnucoloso incatenati alla parete, saprà che tu gli hai mentito.»
«Forse», disse impassibile Krell. «O forse no.»
Mina serrò i pugni per la frustrazione. «Sei stupido come sembri, Krell? Quando Chemosh scoprirà che gli hai mentito su di me, sarà furioso con te. Potrebbe anche consegnarti a Zeboim. Ma tu puoi ancora salvarti. Vai da Chemosh e digli che ci hai ripensato e che ti sei sbagliato...»
Krell non era stupido. Ci aveva ripensato eccome. Sapeva bene che cosa dovesse fare per proteggersi.
«Il mio signore Chemosh ha dato ordine di non essere disturbato», disse Krell, e assestò a Mina uno spintone che la ributtò dentro la camera.
Krell chiuse la porta sbattendola, la sbarrò dall’esterno e riprese la posizione davanti all’uscio.
Mina tornò alla finestra. Sapeva che cosa complottasse Krell. Tutto ciò che doveva fare lui era andare alla grotta, sbarazzarsi del kender e del cane, uccidere il monaco e togliergli le catene, lasciando trovare a Chemosh il cadavere, assieme alle prove per dimostrare che la grotta era stata il nido d’amore di Mina.
Forse Krell l’aveva già fatto. Questo sicuramente avrebbe spiegato la sua aria soddisfatta. Mina non sapeva quanto tempo fosse rimasta priva di sensi. Ore, per lo meno. Il castello era rivolto a est e la sua ombra si stagliava scura sulle onde rosso sangue. Il sole stava già calando verso la fine della giornata.
Mina rimase alla finestra. Devo riconquistare la fiducia e l’affetto del mio signore. Deve esserci un modo per dimostrargli il mio amore. Se potessi offrirgli un dono. Qualcosa che lui brami possedere.
Ma che cosa c’è che un dio non può avere se lo desidera?
Una cosa sola. Una cosa che Chemosh voleva e non poteva ottenere.
La Torre di Nuitari.
«Se potessi offrirgliela, lo farei», disse sottovoce Mina, «ancorché mi costasse la vita...».
Chiuse gli occhi e si trovò sotto il mare. La Torre dell’Alta Magia si ergeva davanti a lei. Le pareti cristalline riflettevano l’acqua azzurra limpida, il corallo rosso e le piante marine verdi e le creature marine multicolori: un panorama costante di vita marina scivolava davanti alla sua superficie sfaccettata.
Mina si trovava all’interno della Torre, nella sua prigione, e parlava con Nuitari. Era nell’acqua del globo, e parlava col drago. Era dentro il Solio Febalas, sopraffatta dallo sgomento e dalla meraviglia, circondata dal miracolo sublime rappresentato dagli dèi.
Mina tese le mani. Il suo desiderio ardente si intensificò, proruppe dentro di lei. Il cuore le martellava, i muscoli le si irrigidivano. Cadde in ginocchio con un gemito, e ancora tese le mani verso la Torre che era dappertutto dentro di lei.
Quel desiderio ardente si impadronì di lei e la sopraffece. Mina non riusciva a fermarsi. Non voleva fermarsi. Si abbandonò a quel desiderio, e le parve che il cuore le si lacerasse. Ansimò. Sentì in bocca il sapore del sangue. Rabbrividì e gemette di nuovo, e all’improvviso dentro di lei scattò qualcosa.
Il desiderio, la brama, le defluì dalle mani tese e Mina trovò la calma e la pace...
Krell aveva escogitato una via d’uscita dalla sua situazione incresciosa, ma non nel modo immaginato da Mina. Il piano d’azione secondo lei richiedeva che Krell lasciasse il castello, e lui era terrorizzato a farlo, per timore che Chemosh ritornasse da un momento all’altro. Krell avrà anche avuto il cervello di un roditore, ma aveva il doppio di astuzia per compensarlo. Il suo piano d’azione era semplice e diretto.
Non era necessario uccidere il kender, il monaco o il cane. Tutto ciò che dovesse fare Krell era uccidere Mina.
Una volta che Mina fosse morta, fine della storia. Chemosh non avrebbe avuto motivo di andare alla grotta per affrontare l’amante di lei, e il problema di Krell sarebbe stato risolto.
Krell detestava Mina e l’avrebbe assassinata molto tempo prima, ma temeva che Chemosh assassinasse lui; non certo una cosa facile a farsi, poiché Krell era già morto, ma Krell era piuttosto sicuro che il Signore della Morte avrebbe trovato un modo e non sarebbe stato piacevole.
Krell adesso riteneva privo di pericolo uccidere Mina. Chemosh la disprezzava. Provava avversione per lei. Non sopportava di vederla.
«Ha cercato di fuggire, mio signore», disse Krell, facendo le prove del suo discorso. «Non intendevo ucciderla. È che non mi rendo conto della mia forza.»
Essendosi risolto a uccidere Mina, Krell doveva soltanto decidere quando. A questo proposito tentennava. Chemosh aveva detto che sarebbe andato nella Sala delle Anime di Passaggio, ma diceva sul serio? Il dio se n’era andato, oppure era ancora appostato da qualche parte nel castello?
Ogni volta che Krell faceva per mettere la mano sulla maniglia della porta, aveva la visione di Chemosh che entrava nella stanza in tempo per osservare il cavaliere della morte tagliare la gola alla sua amante. Chemosh ormai la disprezzava, ma uno spettacolo tanto macabro poteva comunque sconvolgerlo.
Krell non osava abbandonare la propria postazione per andare ad accertarsene. Alla fine bloccò uno scagnozzo spettrale di passaggio e gli ordinò di andare a informarsi. Lo scagnozzo rimase lontano per un certo tempo, durante il quale Krell camminò su e giù per il corridoio e si raffigurò la propria vendetta su Mina, facendosi sempre più emozionato al pensiero.
Lo scagnozzo gli portò notizie gradite. Chemosh si trovava nella Sala delle Anime di Passaggio e a quanto pareva non aveva fretta di ritornare.
Perfetto. Chemosh sarebbe stato lì a vedere arrivare l’anima di Mina. Non avrebbe avuto motivo di andare alla grotta. Proprio nessun motivo.
Krell fece per allungare la mano verso la maniglia della porta e poi si fermò. Attorno all’intelaiatura della porta prese a brillare una luce d’ambra. Sotto il suo sguardo accigliato la luce ardente si fece sempre più intensa.
Quindi Krell sorrise. Era meglio di quanto avesse sperato. Mina a quanto pareva aveva incendiato quel luogo.
Colpì la porta col pugno, sguainò la spada ed entrò a grandi passi.
La grotta odorava di carne di maiale salata. Atta si leccò i baffi e fissò bramosa Nightshade, che rispettosamente, ancorché malinconicamente, si strofinava l’interno degli stivali con un pezzo di carne untuosa. Rhys aveva argomentato che sarebbe stato più facile per il kender fare scivolare i piedi fuori dagli stivali che cercare di fare scivolare gli stivali fuori dai ceppi.
«Ecco, ho finito!» annunciò Nightshade. Diede da mangiare ciò che rimaneva della carne di maiale sciupata ad Atta, che inghiottì tutto con un sol boccone e poi prese ad annusargli famelica gli stivali.
«Atta, ferma», ordinò Rhys, e la cagna obbediente arrivò trotterellando per stendersi al suo fianco.
Nightshade dimenò il piede destro ed emise un grugnito. «Niente», disse dopo un momento di sforzi. «Non si muove. Mi dispiace, Rhys. Valeva la pena tentare...»
«Devi muovere effettivamente il piede, Nightshade», disse Rhys con un sorriso.
«L’ho mosso», protestò Nightshade. «Gli stivali sono lì ben stretti. Mi sono stati sempre un po’ piccoli. È per questo che in punta mi escono le dita dei piedi. Adesso parliamo di come possiamo scappare tutti e due.»
«Ne parliamo dopo che tu ti sarai liberato», controbatté Rhys.
«Promesso?» Nightshade scrutò Rhys con aria sospettosa.
«Promesso», disse Rhys.
Nightshade afferrò la fascetta di ferro che gli stringeva la caviglia e prese a spingere la fascetta e lo stivale.
«Inclina il piede», disse Rhys con pazienza.
«Chi credi che io sia?» domandò Nightshade. «Uno di quei tipi del circo che si legano le gambe a nodo dietro il collo e camminano sulle mani? Io so che non so farlo, perché una volta ho provato. Mio padre ha dovuto slegarmi...»
«Nightshade», disse Rhys, «non abbiamo quasi più tempo».
La luce del giorno all’esterno svaniva. La grotta si faceva buia.
Nightshade emise un profondo sospiro. Contraendo il viso, spingeva e tirava. Il piede destro scivolò agevolmente fuori dallo stivale. Poi toccò al piede sinistro. Il kender tolse gli stivali dai ceppi e li scrutò malinconico.
«Tutti i cani di sei contee mi correranno dietro», disse scontroso. Si mise gli stivali untuosi e, afferrando un altro pezzo di carne salata, si chinò accanto a Rhys. «Tocca a te.»
«Nightshade, guarda.» Rhys indicò i ceppi che gli stringevano forte le caviglie ossute. Tirò su i ceppi che erano serrati sui polsi, tanto stretti da strofinargli la pelle a carne viva.
Nightshade guardò. Il labbro inferiore gli tremò. «È colpa mia.»
«No, naturalmente, non è colpa tua, Nightshade», disse Rhys, sconvolto. «Che cosa te lo fa pensare?»
«Se io fossi un kender come si deve, tu non saresti bloccato qui a morire!» gridò Nightshade. «Avrei con me degli attrezzi da scassinatore, capisci, e potrei aprire quei lucchetti così.» Fece schioccare le dita, o almeno ci provò. Per via del grasso, lo schiocco non gli venne molto bene. «Mio padre mi aveva regalato i miei attrezzi da scassinatore quando avevo dodici anni, e aveva provato a insegnarmi a usarli. Non ero molto bravo. Una volta mi è caduto l’attrezzo che ha fatto "bum!" e ha svegliato tutta la casa. Un’altra volta l’attrezzo ha attraversato la serratura (ancora non so bene come) ed è finito dall’altra parte della porta, e così quello l’ho perso...»
Nightshade incrociò le braccia sul petto. «Io non me ne vado! Non puoi costringermi!»
«Nightshade», disse fermamente Rhys, «devi.»
«No, non devo.»
«È l’unico modo per salvarmi», disse Rhys con tono solenne.
Nightshade alzò lo sguardo.
«Stavo pensando», proseguì Rhys. «Noi siamo sul Mare di Sangue. Dobbiamo trovarci da qualche parte vicino a Flotsam. A Flotsam c’è un tempio di Majere...»
«C’è? È meraviglioso!», gridò Nightshade, emozionato. «Io posso correre a Flotsam e trovare il tempio, radunare i monaci, portarli qui, e loro prenderanno tutti a calci nel sedere e noi ti salveremo!»
«È un piano d’azione eccellente», disse Rhys.
Nightshade si dimenò per mettersi in piedi. «Parto subito!»
«Devi portare con te Atta», disse Rhys. «Per protezione. Flotsam è una città senza legge, almeno così ho sentito dire.»
«Giusto! Andiamo, Atta!» Nightshade fischiò.
Atta si alzò in piedi ma non lo seguì. Guardò Rhys. Percepiva che qualcosa non andava bene.
«Atta, sorveglialo», disse Rhys puntando il dito contro il kender.
Spesso le aveva fatto «sorvegliare» qualcosa, e questo voleva dire che Atta doveva tenere d’occhio un oggetto, non lasciare avvicinarsi nessuno. La lasciava a sorvegliare le pecore ammalate mentre lui andava a cercare aiuto. Spesso le diceva di sorvegliare Nightshade.
In questo caso, però, Rhys non se ne andava. Rimaneva lì, e l’oggetto che Atta doveva sorvegliare se ne andava. Rhys non sapeva se la cagna avrebbe capito e obbedito. Era abituata a tenere d’occhio il kender, però, e Rhys sperava che sarebbe andata con lui adesso come aveva fatto in passato. Aveva pensato di provare a fabbricare un guinzaglio per lei, ma Atta non aveva mai saputo che cosa volesse dire essere legata. Rhys immaginava che la cagna si sarebbe ribellata al guinzaglio e lui non aveva tempo per questo. La notte stava calando rapidamente.
«Atta, qui.»
La cagna andò da lui. Rhys le mise le mani sulla testa e la guardò negli occhi marroni.
«Vai con Nightshade», disse. «Tienilo d’occhio. Sorveglialo.»
Rhys la avvicinò e la baciò delicatamente sulla fronte. Quindi la lasciò andare.
«Chiamala di nuovo.»
«Atta, vieni», disse Nightshade.
Atta guardò Rhys. Lui fece un gesto verso il kender.
«Vattene via adesso», ordinò Rhys a Nightshade. «Svelto.»
Nightshade obbedì, incamminandosi verso l’ingresso della grotta. Atta diede un’ultima occhiata a Rhys, quindi obbediente seguì il kender. Rhys emise un lieve sospiro.
Nightshade si fermò. «Torniamo presto, Rhys. Non... non andare da nessuna parte.»
«Stai tranquillo, amico mio», rispose Rhys. «Tu e Atta prendetevi cura l’uno dell’altra.»
«Certamente.» Nightshade esitò, quindi si girò e schizzò fuori della grotta. Atta corse dietro al kender, così come aveva fatto molte volte in precedenza.
Rhys si accasciò contro la parete di roccia. Gli vennero le lacrime agli occhi, ma lui sorrise tra le lacrime.
«Perdonatemi la bugia, Maestro», disse sottovoce.
In tutta la lunga storia dei monaci di Majere, non avevano mai costruito un tempio a Flotsam.
Chemosh era sempre nella Sala delle Anime di Passaggio e ci andava molto poco: una contraddizione che si può spiegare col fatto che uno degli aspetti del Signore della Morte era sempre presente nella Sala, seduto sul trono scuro, a passare in rassegna tutte quelle anime che avevano abbandonato la carne mortale e stavano per affrontare la fase successiva del viaggio eterno.
Chemosh ritornava raramente a questo suo aspetto. Questo luogo era troppo isolato, troppo lontano dal mondo degli dèi e degli uomini. Agli altri dèi era proibito venire nella Sala, affinché non esercitassero un’indebita influenza sulle anime sottoposte a giudizio.
Al Signore della Morte era concessa l’ultima possibilità di influenzare le anime per indurle a passare alla sua causa malvagia, di impedire loro di proseguire il viaggio, di catturarle e tenerle con sé. Le anime che avevano appreso le lezioni della vita riuscivano facilmente a evitare le sue insidie, così come ci riuscivano le anime innocenti, per esempio quelle dei bambini.
Uno degli dèi della luce o della neutralità poteva intercedere per conto di un’anima, ma solo impartendo una benedizione a quell’anima prima che entrasse nella Sala. Una di tali anime si trovava adesso davanti al trono di onice e argento: un’anima che era annerita eppure pervasa da una luce azzurra. L’uomo aveva commesso atti ripugnanti, eppure aveva sacrificato la propria vita per salvare dei bambini intrappolati in un incendio. Il viaggio della sua anima non sarebbe stato facile, poiché lui aveva ancora molto da imparare, ma Mishakal l’aveva benedetto, e lui riuscì a sfuggire alla mano ossuta del Signore della Morte che cercava di ghermirlo. Quando Chemosh intrappolava un’anima, la prendeva e la scaraventava nell’Abisso oppure la rispediva indietro ad abitare il corpo morto che adesso sarebbe diventato la sua terribile prigione.
Anche gli dèi delle tenebre potevano rivendicare anime. Le anime già promesse a Morgion o maledette da Zeboim entravano nella Sala avvolte in catene per essere consegnate dal Signore della Morte a quegli dèi che loro avevano giurato di servire.
Chemosh nel suo aspetto di «mortale» veniva nella Sala soltanto durante quei periodi in cui era profondamente turbato. Si divertiva a farsi rammentare il proprio potere. Qualunque dio avesse adorato in vita un mortale, quando quella vita si concludeva l’anima si presentava davanti a lui. Anche coloro che negavano l’esistenza degli dèi si ritrovavano qui: un brutto colpo per molti. Venivano giudicati in base a come avevano vissuto la propria vita, non al fatto che avessero o no professato una fede in un dio durante tale vita. Una strega che avesse aiutato gli altri per tutta la vita veniva fatta proseguire, mentre l’anima cupida e bramosa che aveva regolarmente imbrogliato i clienti senza però mai perdersi una cerimonia di preghiera cadeva vittima delle lusinghe del Signore della Morte e finiva nell’Abisso.
Alcune anime potevano andarsene ma sceglievano di non farlo. Una madre era riluttante ad abbandonare i figli piccoli; un marito non voleva lasciare la moglie. Queste rimanevano legate a coloro che amavano finché non si persuadevano che era giusto per loro proseguire, che i vivi dovevano andare avanti con la loro vita e anche i morti dovevano andare avanti.
Chemosh era in piedi nella Sala a osservare formarsi la fila di anime, una fila che doveva essere eterna, e si rammentò di quell’epoca terribile in cui la fila si era interrotta di colpo in maniera inaspettata. L’epoca in cui era comparsa davanti a lui l’ultima anima, e lui si era guardato attorno con uno stupore che non conosceva limiti. Il Signore della Morte si era alzato dal trono per la prima volta da quando aveva preso posto lì dall’inizio della creazione e si era precipitato fuori della Sala infuriato solo per scoprire che Takhisis aveva rubato il mondo e si era portata via le anime.
Chemosh aveva allora appreso la verità di un adagio dei mortali: non si apprezza mai ciò che si ha finché non lo si perde.
Inoltre si promette solennemente che non lo si perderà mai più.
Chemosh osservava le anime arrivare davanti a lui e ascoltava le loro storie e mercanteggiava e pronunciava il suo giudizio, e ne catturava alcune e ne lasciava andare altre, e aspettava di provare il caldo bagliore della soddisfazione.
In questo giorno non arrivava. Chemosh si sentiva decisamente insoddisfatto. Ciò che doveva andare bene stava andando tutto male. Aveva perso il controllo della situazione, e non aveva idea di come se lo fosse lasciato sfuggire. Era come se lui fosse stato maledetto...
A quella parola si rese conto all’improvviso perché fosse stato attirato qui, si rese conto di ciò che cercava.
Si trovava nella Sala delle Anime di Passaggio e vedeva di nuovo la prima anima che era arrivata davanti a lui quando il mondo era stato restituito: l’anima mortale di Takhisis. Tutti gli dèi erano stati presenti al suo passaggio. Chemosh udiva ancora le parole di lei, in parte supplica disperata e in parte ringhio di sfida.
«State commettendo un errore!» aveva detto loro Takhisis. «Ciò che io ho fatto non può essere disfatto. La maledizione è su di voi. Se distruggete me, distruggete voi stessi.»
Chemosh non poteva giudicarla. Nessuno degli dèi poteva farlo. Lei era stata una di loro, dopo tutto. Il Dio Supremo era venuto a rivendicare l’anima della figlia perduta, e il regno di Takhisis, Regina delle Tenebre, aveva avuto fine, e il tempo e l’universo erano andati avanti.
Chemosh all’epoca non aveva tenuto in nessuna considerazione la predizione di Takhisis. Chiacchiere, vaneggiamenti, minacce: Takhisis aveva sputato simili veleni per eoni. Chemosh non poté fare a meno di pensarci adesso, pensarci e domandarsi inquieto che cosa avesse voluto effettivamente dire la defunta e non compianta Regina.
C’era una sola persona che poteva saperlo, una sola persona che era stata vicina a Takhisis più di chiunque altro nella storia. L’unica persona che lui aveva scacciato dalla propria presenza.
Mina.
Nightshade si allontanò dalla grotta con un peso sul cuore: il cuore gli pesava troppo per restare nel petto, gli sprofondò nello stomaco, dove si offese per via della carne di maiale salata e gli fece venire il mal di pancia. Da lì il cuore sprofondò ulteriormente, aumentandogli il peso dei piedi cosicché questi si muovevano sempre più lenti, finché non divenne uno sforzo anche il minimo movimento. Il cuore gli si faceva sempre più pesante quanto più lui si allontanava.
Il cervello di Nightshade continuava a dirgli che lui era in missione urgente per salvare Rhys. Il problema era che il cuore non ci credeva, per cui non solo il cuore era giù dalle parti delle scarpe, a imbarazzargli i piedi, ma il cuore era anche impegnato a discutere con la testa, per non parlare della carne di maiale salata.
Nightshade ignorò il cuore e obbedì alla testa. La testa significava Logica, e gli esseri umani erano impressionati dalla Logica e sottolineavano sempre quanto fosse importante comportarsi in maniera logica. La Logica affermava che Nightshade avrebbe avuto maggiori possibilità di salvare Rhys se gli avesse portato aiuto sotto forma di monaci di Majere anziché se lui (un semplice kender) fosse rimasto con Rhys nella grotta. Era stata la Logica dell’argomentazione di Rhys a persuadere Nightshade ad andarsene, e questa stessa Logica lo faceva avanzare anche se il cuore lo sollecitava a voltarsi e tornare indietro di corsa.
Atta gli restava alle calcagna, come le era stato ordinato. Anche lei doveva essere infastidita dal cuore, poiché continuava a fermarsi, attirandosi severi rimproveri da parte del kender.
«Atta! Qui, ragazza! Devi starmi dietro!» la ammoniva Nightshade. «Non abbiamo tempo per bighellonare.»
Atta gli trotterellava dietro perché le era stato detto di fare così, ma non era contenta, e non lo era nemmeno Nightshade.
Il camminare stesso era un altro problema. Solinari e Limitari erano entrambe nel cielo quella notte. Solinari era mezza piena e Lunitari completamente piena, per cui sembrava che le lune facessero l’occhiolino a Nightshade come occhi male assortiti. Il kender vedeva in alto il contorno di una cresta montuosa e calcolava (logicamente) che in cima a quella cresta avrebbe trovato una strada, e che quella strada avrebbe condotto a Flotsam. La cresta non sembrava tanto lontana: appena un saltino sopra certe dune di sabbia, seguito da un’arrampicata fra certi macigni.
Le dune di sabbia si rivelarono però difficili da superare. Il saltino fu un fallimento completo. La sabbia era instabile e molliccia e gli scivolava via da sotto gli stivali che erano già viscidi per la carne di maiale. Nightshade invidiava Atta, che scalpicciava sopra la sabbia, e desiderava avere quattro zampe. Nightshade si dibatté nella sabbia per quello che gli parve un tempo infinito, passando più tempo carponi che in piedi. Si sentì accaldato e sfinito, e ogni volta che guardava gli pareva che te cresta si spostasse più lontano.
Tutte le cose giungono al termine, però, perfino le dune di sabbia. Restavano i macigni. Nightshade immaginava che i macigni fossero meglio delle dune e con sollievo prese ad arrampicarsi sulla cresta.
Il sollievo evaporò presto.
Nightshade non sapeva che i macigni fossero anche di dimensioni così enormi, né che fossero tanto aguzzi, né che scalarli fosse così difficile, né che i ratti dimoranti in mezzo ai macigni fossero così grossi e cattivi. Fortunatamente aveva con sé Atta, altrimenti i ratti l’avrebbero portato via, poiché non avevano la minima paura di un kender. Il cane però a loro non piaceva. Atta abbaiava ai ratti. Loro la fissavano torvi con gli occhi rossi, squittivano verso di lei, poi sgattaiolavano via.
Dopo appena un breve soggiorno fra i macigni, Nightshade aveva le mani graffiate e sanguinanti e la caviglia ferita dopo essere scivolato ed essersela incuneata in una fenditura. Dovette fermarsi a un certo punto per vomitare, ma in questo modo almeno risolse il problema della carne di maiale salata.
Poi, proprio quando pareva che questi macigni dovessero proseguire all’infinito, raggiunse la cima della cresta.
Nightshade arrivò sulla strada che l’avrebbe condotto a Flotsam e ai monaci, e guardò in su e in giù per quella strada. Il suo primo pensiero fu che la parola «strada» rivolgesse a questa striscia rocciosa di solchi di carri un complimento che non si meritava. Il suo secondo pensiero fu più cupo. La cosiddetta strada si estendeva all’infinito, per quanto lui potesse vedere, in entrambe le direzioni.
Al termine di entrambe le direzioni non vi era nessuna città.
Flotsam era immensa. Per tutta la vita lui aveva udito storie riguardo a Flotsam. Era una città che non dormiva mai. Era una città di luci delle fiaccole, di luci delle taverne, falò sulle spiagge e fuochi domestici che brillavano alle finestre delle case. Nightshade aveva ipotizzato che quando avesse raggiunto la strada sarebbe stato in grado di vedere le luci di Flotsam.
Le uniche luci che vedeva erano le stelle pallide e fredde e gli esasperanti occhi ammiccanti delle due lune.
«E allora dov’è?» Nightshade si girò da una parte, poi dall’altra. «Da che parte vado?»
La verità giunse a destinazione. La verità gli fece sprofondare il cuore. La verità fece affondare la logica.
«Non importa da che parte sia Flotsam», disse Nightshade con un’improvvisa e terribile constatazione. «Perché, da qualunque parte sia Flotsam, è troppo lontana. Rhys lo sapeva! Sapeva che non saremmo mai arrivati a Flotsam e ritornati in tempo. Ci ha mandati via perché sapeva che lui sarebbe morto!»
Il kender si sedette a terra e, cingendo con le braccia il collo della cagna, la abbracciò forte. «Che facciamo, Atta?»
Per tutta risposta, la cagna si staccò da lui e corse indietro verso i macigni. Fermandosi, lo guardò ansiosa e scodinzolò.
«Non servirebbe a niente tornare indietro, Atta», disse sconsolato Nightshade. «Anche se io riuscissi a scendere per quelle stupide rocce senza rompermi l’osso del collo, cosa che non credo di poter fare, non servirebbe.»
Si deterse il sudore dal viso.
«Non possiamo salvare Rhys, non certo noi due soli. Io sono un kender e tu un cane. Abbiamo bisogno di aiuto.»
Era seduto sulla strada, immerso nella disperazione, con la testa fra le mani. Atta gli leccò la guancia e gli diede un colpetto col naso sotto l’ascella, cercando di pungolarlo all’azione.
Nightshade sollevò la testa. Gli era venuto un pensiero, un pensiero che lo faceva ardere di follia.
«Eccoci qui, Atta, quasi ci uccidiamo per aiutare Rhys, e il suo dio che cosa sta facendo in tutto questo tempo? Niente, ecco che cosa! Gli dèi possono fare qualunque cosa! Majere poteva mettere Flotsam dove noi potevamo trovarla. Majere poteva rendere dura quella sabbia molliccia e teneri quei macigni aguzzi. Majere poteva far cadere via le catene di Rhys! Majere poteva mandare da me sei monaci subito, in cammino lungo la strada per salvare Rhys. State ascoltando, Majere?» Nightshade strillava verso il cielo.
Attese alcuni istanti, dando una possibilità al dio, ma i sei monaci non comparvero.
«Adesso l’avete combinata», disse minaccioso il kender e si alzò sui due piedi, guardò su verso il cielo, si mise le mani sui fianchi e diede al dio una lavata di capo.
«Non so se mi state ascoltando o no, Majere», disse Nightshade con tono severo. «Probabilmente no, poiché io sono un kender e nessuno ascolta noi, e io sono anche un mistico, il che significa che non vi venero. Comunque, sapete, non dovrebbe fare nessuna differenza. Voi siete un dio del bene, secondo quanto dice Rhys, e questo vuol dire che dovreste ascoltare la gente (tutti, compresi i kender e i mistici), che noi vi veneriamo o no. Ora, io posso capire che voi non consideriate giusto da parte mia chiedervi aiuto, poiché io non ho mai fatto niente per voi, ma voi siete molto più grande di me e molto più potente, per cui penso voi possiate permettervi di essere magenta o magnesio o qualunque sia quella parola che vuol dire essere gentile e generoso con la gente anche se non se lo merita. E forse io non merito il vostro aiuto, ma Rhys sì. D’accordo, ha smesso di venerare voi per venerare Zeboim, ma dovete sapere che l’ha fatto solo perché voi l’avevate abbandonato. Oh, ho sentito tutte quelle chiacchiere sul fatto che noi non possiamo capire la mente degli dèi, ma si presume che voi dèi capiate invece il cuore degli uomini, per cui voi Majere dovreste capire che Rhys se n’è andato perché era incollerito e offeso. Adesso ve lo siete ripreso e questo è davvero bello da parte vostra, ma dopo tutto non è che quanto avreste dovuto fare in primo luogo, poiché voi siete un dio del bene, per cui non ve ne faccio un gran merito.»
Nightshade si interruppe per riprendere fiato e per cercare di mettere ordine nei pensieri, che si erano piuttosto ingarbugliati. Fatto questo, proseguì la sua argomentazione, accalorandosi sempre più. «Rhys ha dimostrato la sua fedeltà a voi respingendo Zeboim quando lei avrebbe potuto salvare lui e anche noi, e sta dimostrando la sua fedeltà restandosene lì in quella grotta in attesa di morire quando Mina torna per torturarlo. Voi che state facendo in cambio? Lo lasciate lì incatenato in quella grotta!»
Nightshade alzò le braccia e la voce e gridò: «Tutto questo ha un senso per voi, Majere?».
Si zittì, lasciando al dio il tempo per rispondere.
Nightshade udì dei gabbiani accapigliarsi per un pesce morto, le onde frangersi sulla riva, il vento fare crepitare l’erba morta. Niente di tutto questo gli parve la voce di un dio.
Nightshade emise un sospiro. «Immagino che potrei offrirvi qualcosa perché tutto questo valga la pena per voi. Potrei offrirvi di diventare un vostro fedele, ma (a essere sincero) sarebbe una menzogna. A me piace essere un "nightstalker". Mi piace aiutare le anime morte a trovare la strada per lasciare questo mondo se è questo che vogliono, e mi piace tenere loro compagnia se preferiscono restare. Mi piace la sensazione che provo quando creo uno dei miei incantesimi mistici e lo spirito della terra si insinua dentro di me e mi prorompe nel cuore e mi si riversa nella punta delle dita, e le mani mi formicolano tutte e io (io, un kender) faccio piegare in due un grosso, enorme minotauro. Allora non penso di poter contrattare con voi, e sapete una cosa, Majere, io non penso che la gente debba contrattare con gli dèi. Perché? Perché voi siete davvero un dio e perché voi siete grande, meraviglioso e potente, e perché io sono solo un kender, e Atta è solo un cane, e Rhys è solo un uomo, e noi abbiamo bisogno di voi. Allora mandatemi quei sei monaci e sbrigatevi.»
Nightshade abbassò le braccia, emise un sospiro tremendo e attese fiducioso.
Il bisticcio fra i gabbiani si concluse quando uno di loro se ne volò via col pesce. Le onde continuarono a frangersi, ma lo facevano da sempre. Il vento si era smorzato, per cui l’erba era silenziosa. E così pure il dio.
«Forse non proprio sei monaci», prese tempo Nightshade. «Che ne direste di due monaci e un cavaliere? Oppure un monaco e un mago?»
Atta piagnucolò e gli batté la zampa sulla gamba. Nightshade si chinò per accarezzarle la testa, ma la cagna ritrasse la testa da sotto la mano. Lo guardò e strinse gli occhi. Non lo stava sollecitando. Gli stava dicendo qualcosa.
Basta con queste sciocchezze. Torniamo indietro.
Lo sguardo intenso della cagna lo fece sentire tutto contorto dentro.
«Adesso so che cosa si prova a essere una pecora», mormorò, cercando di evitare lo sguardo penetrante di Atta. «Aspettiamo ancora un minuto, Atta. Diamo una possibilità al dio. Sono quei macigni, lo sai. Non mi resta più pelle sulle mani... Che cos’è?»
Nightshade intravide del movimento. Ruotò su se stesso e guardò fisso lungo la strada e vide, alla luce delle lune ammiccanti, due persone che arrivavano nella sua direzione.
«Grazie, Majere!» gridò Nightshade e prese a correre lungo la strada agitando le braccia e gridando: «Aiuto! Aiuto!»
Atta gli corse dietro, abbaiando furiosamente. Il kender era tanto emozionato e sollevato che non prestò attenzione al tono dell’abbaiare. Continuava a correre e continuava a urlare. «Ragazzi, sono contento di vedervi!» e soltanto quando fu molto più vicino ai due e li guardò bene si rese conto che non lo era.
Contento di vederli.
Erano i Prediletti.
Mina guardò fuori dalla finestra verso il Mare di Sangue che era calmo nell’oscurità illuminata dalla luna. La luce rossa di Lunitari brillava sulle onde, formando una radura lunare, un percorso rosso sull’acqua rossa macchiata del viola della notte. Il desiderio ardente di Mina la trasportava fuori dalla sua prigione verso il mare eterno e infinito. Le onde le lambivano i piedi e lei entrava a grandi passi nell’acqua...
Alle sue spalle la porta cigolò nell’aprirsi.
«Chemosh!» disse Mina con gioia accorata. «È venuto da me!»
Mina in un attimo fu di nuovo nella sua camera, di nuovo nella sua prigione. Con le braccia tese, si girò per accogliere il suo amato, pronta a gettarsi ai suoi piedi e a implorare il suo perdono.
«Mio signore...» gridò.
Le parole le morirono sulle labbra. La gioia le morì nel cuore.
«Krell», disse, e non fece alcuno sforzo per mascherare il proprio disprezzo. «Che vuoi?»
Il cavaliere della morte entrò nella stanza sferragliando pesantemente. La testa munita di elmo, decorato con le corna di ariete incurvate, la guardava con occhi lascivi. Quegli occhi suini fiammeggiavano.
«Ucciderti.»
Krell chiuse la porta con un calcio. Estrasse la spada dal fodero e avanzò verso di lei.
Mina si drizzò, lo affrontò con sdegno. «Il mio signore non ti permetterà di toccarmi!»
«Al tuo signore non importa un culo di topo di te», la schernì Krell. «Avanti. Invocalo. Vedi se ti risponde.»
Mina rammentò lo sguardo di odio che Chemosh le aveva rivolto, rammentò che lui l’aveva scacciata dalla sua presenza, si era perfino rifiutato di ascoltarla. Si immaginò di invocare il suo aiuto e udì nel proprio cuore il silenzio riecheggiante del rifiuto di Chemosh.
Questo non poteva sopportarlo.
Krell l’aveva minacciata in precedenza, ma le sue minacce erano state semplici spavalderie e spacconate. Non aveva osato farle del male fintanto che Chemosh la proteggeva. Questa era un’occasione per Krell. Lei era sola e inerme. Non aveva armi. Nemmeno preghiere, poiché Chemosh le aveva voltato le spalle.
Mina perlustrò la stanza alla ricerca di qualcosa, qualunque cosa, che potesse usare a propria difesa. Non che potesse fare qualche differenza. La spada più affilata mai costruita non avrebbe potuto neanche ammaccare l’armatura del cavaliere della morte.
Mina non intendeva però morire senza combattere. La sua anima sarebbe andata con orgoglio alla Sala delle Anime di Passaggio. Chemosh non si sarebbe vergognato di lei.
Anche Krell si guardava attorno nella camera, ma non per lo stesso motivo.
«Da dove viene quella strana luce?» domandò. «Hai dato fuoco a qualcosa?»
Su un tavolo vi era un candeliere; era fatto di ferro contorto, con un piede artigliato e tre mani simili ad artigli che reggevano le candele. Era grosso e pesante. Il problema era che si trovava a diversi passi da lei.
«Sì», disse Mina. «Ho evocato uno spiritello del fuoco.»
Indicò una parte della stanza dall’altro lato rispetto al candeliere.
«Uno spiritello del fuoco!» Soltanto Krell ci sarebbe cascato. Ruotò la testa.
Mina balzò verso il tavolo e si tuffò per prendere il candeliere. Strinse le mani attorno alla base e lo sollevò e, oscillando nel girarsi, colpì con tutta la propria forza l’elmo di Krell.
L’ultima volta che aveva lottato con Krell nel Bastione della Tempesta, gli aveva staccato la testa dalle spalle. Quella volta Chemosh era con lei.
Questa volta nessun dio parteggiava per lei. Nessun dio combatteva per lei.
Il candeliere di ferro si schiantò contro l’elmo di Krell, ma il colpo non gli fece nulla. Forse non lo sentì nemmeno. L’urto del colpo e il contatto feroce col cavaliere della morte fecero vibrare le braccia di Mina dal polso alla spalla, paralizzandola momentaneamente. Il candeliere le scivolò dalle mani che le si erano all’improvviso intorpidite.
Krell si girò di nuovo verso di lei. Le afferrò il braccio, glielo torse e la scagliò contro il muro. Mina restò senza fiato per il dolore ma non urlò. Lui la circondò con le braccia, cosicché lei non poteva scappare. Krell spinse la testa munita di elmo vicino a lei. Mina vedeva il vuoto all’interno e sentiva il fetore nauseabondo della corruzione e della morte.
«Vorrei essere un uomo vivo», disse Krell, gongolando sopra di lei. «Mi divertirei un po’ con te prima di ucciderti, proprio come ai vecchi tempi. Mi piaceva vedere la paura nei loro occhi. Sapevano che cosa avrei fatto a loro, e strillavano e pregavano e imploravano per salvarsi la miserabile vita, e io dicevo loro che se avessero fatto le brave bambine e mi avessero lasciato divertire con loro le avrei lasciate vivere. Mentivo, naturalmente. Quando avevo finito, stringevo loro le mani al collo (avevano un collo morbido e snello, come il tuo) e le strozzavo.»
Prese ad accarezzarle il collo con una forza dolorosa.
«Immagino che dovrò accontentarmi di strozzarti.»
Le sue dita le si chiusero attorno al collo e presero a stringere.
La furia (ardente e arroventata e dal sapore amaro) ribolliva nel profondo di Mina. La luce d’ambra le ardeva negli occhi. Una luce d’ambra le proruppe dalla punta delle dita. Mina afferrò i polsi di Krell, gli strappò via le mani dal proprio collo e lo scaraventò via da lei.
«Uomo vivo!» gridò, e la sua furia scosse le mura del castello. «Tu vuoi essere un uomo vivo! Io esaudisco il tuo desiderio!»
Puntò il dito contro Krell, e la luce d’ambra lo inondò. Krell urlò e prese a dimenarsi dentro l’armatura, e all’improvviso l’armatura andò in pezzi e scomparve.
Ausric Krell era davanti a lei, con la carne nuda che tremava, il corpo nudo che rabbrividiva. Gli occhietti suini erano iniettati di sangue, contornati di bianco, e la fissavano con uno stupore terrorizzato.
«Inginocchiati davanti a me!» comandò Mina.
Krell crollò bocconi afflosciandosi ai suoi piedi.
«D’ora in poi sarai al mio servizio!» gli disse Mina.
Krell borbottò qualcosa di inintelligibile.
Mina lo scalciò e lui gridò di dolore.
«Sì, sì! Sarò al tuo servizio!» gemette Krell.
Mina superò Krell, che si faceva piccolo per la paura, e avanzò a grandi passi verso la porta. La toccò e la porta esplose con una fiammata color ambra. Mina attraversò la pioggia di tizzoni e uscì nel corridoio buio. Guardò una parete di pietra e questa si fuse; comparve una scala di pietra. Mina salì la scala che procedeva a spirale, conducendo su verso i bastioni.
«Riferisci al mio signore Chemosh, quando ritorna», la voce di Mina risuonava negli orecchi di Krell, «che sono andata a prendere ciò che desidera il suo cuore.»
Krell rimase accasciato e apatico a terra. Era terrorizzato ad aprire gli occhi per paura di vedere Mina. Alla fine però il pavimento di pietra cominciò a fargli male sulle ginocchia ossute. Il freddo gli provocava la pelle d’oca sulle braccia nude e gli faceva raggrinzire le parti intime. Krell si pizzicò il braccio ed emise un guaito, quindi gemette e imprecò.
Non c’era da dubitarne. Di mezza età, con i capelli grigi e la calvizie incipiente, la pelle giallastra e il ventre floscio, aveva visto avverarsi il suo desiderio.
Krell era di nuovo un uomo vivo.
Mentre Ausric Krell se la passava molto male dentro il Castello dei Prediletti, Nightshade se la passava ancora peggio al di fuori.
Avrebbe dovuto riconoscere subito i morti viventi discepoli di Chemosh. Se avesse prestato attenzione, avrebbe notato che i due uomini (quelli che lui aveva sperato fossero stati mandati dal dio a salvare Rhys) in cammino lungo la strada non erano affatto uomini. In loro non vi era nessun bagliore confortante, nessuna luce di vita che ardesse dentro di loro. Non erano altro che forme nella notte. Atta lo sapeva. Il suo abbaiare era stato un avvertimento, non un benvenuto. Adesso la cagna se ne stava tremante al suo fianco, ringhiando a denti sbarrati.
I due Prediletti si fermarono. Fissarono Nightshade con i loro occhi vuoti, e lui incominciò a sentirsi a disagio. Non sapeva bene perché, anche se più o meno si ricordava di avere sentito da Gerard qualcosa riguardo al marito di una tizia fatto a pezzi. Ma all’epoca stava pensando a che cosa ci sarebbe stato per cena e non vi aveva prestato attenzione.
I Prediletti che lui aveva incontrato in precedenza erano stati tutti piuttosto docili, fintanto che non avevano cercato di sedurre qualcuno, e finora nessun essere umano (Prediletto o no) aveva mai cercato di sedurre Nightshade (se si esclude quella prostituta in un vicolo di Palanthas, la quale in quel momento era completamente ubriaca).
Comunque a Nightshade non piaceva il modo in cui questi due lo guardavano. I Prediletti in genere non si preoccupavano di fissarlo. I più si limitavano a ignorarlo, e lui era giunto a preferire che fosse così.
«Scusate, amici», disse Nightshade, rivolgendo loro un saluto con la mano. «Errore mio. Pensavo foste qualcun altro. Qualcuno di vivo», mormorò sottovoce.
Non sapeva che fare. Doveva forse superarli spensieratamente con un allegro «ciao ciao» o doveva voltarsi e scappare? L’istinto votava per voltarsi e scappare. Stava per obbedire, quando vide uno degli uomini estrarre un coltello.
«Che stai facendo?» domandò il suo compagno. «È un kender.»
«Sì», disse Nightshade, indietreggiando. «Sono un kender.»
«Non mi interessa», disse l’uomo con voce cattiva. «Lo spedisco da Chemosh.»
«Ma è un kender», ripeté il suo compagno con disgusto. «Chemosh non vuole kender.»
«Ha ragione, sai», assicurò Nightshade a quello che brandiva il coltello. «Come dicono nelle taverne, "non si fa servizio ai kender; niente kender nell’Abisso". Io ho visto i cartelli. Sono appesi dappertutto.»
Si guardò attorno inquieto, ma non era in vista nessun aiuto, nient’altro che strada deserta. Continuò a indietreggiare.
«A Chemosh non interessa», ribatté il Prediletto. «Per lui i morti sono morti, e uccidere fa passare il dolore.»
Avanzo verso Nightshade, brandendo il coltello. Nightshade vedeva macchie scure sulla lama.
«Ho assassinato una donna la notte scorsa», proseguì il Prediletto con tono colloquiale. «Ho sventrato quella vacca. Non voleva giurare fedeltà a Chemosh, ma il dolore mi si è alleviato. Prova anche tu. Aiutami a uccidere questa mezza cartuccia.»
Alzando le spalle, l’altro Prediletto raccolse un pezzo di legno da usare come bastone, e tutti e due si avvicinarono a Nightshade.
I Prediletti non uccidevano più per guadagnare convertiti a Chemosh, si rese conto con sgomento Nightshade. Uccidevano e basta!
Era intento a puntare il dito contro i Prediletti, pronto ad abbatterli come aveva abbattuto il minotauro, quando si rammentò all’improvviso che la sua magia non avrebbe funzionato contro di loro. Il cuore, che gli era finito nelle scarpe, adesso gli si arrampicò lungo le interiora fino a prenderlo per la gola e scuoterlo.
Nightshade col suo tentativo di incantesimo aveva perso del tempo prezioso per fuggire. Lo compensò ruotando su se stesso e scappando più forte che poté, e anche di più.
«Atta, vieni!» ansimò, e la cagna gli corse dietro.
Nightshade era bravo negli scatti; aveva molta pratica nel correre più veloce di sceriffi, casalinghe arrabbiate, contadini furiosi e mercanti irati. Il suo improvviso impeto di velocità colse di sorpresa i Prediletti, e per un po’ lui li distanziò, ma era già stanco per essersi trascinato sulla sabbia ed essersi graffiato le mani sui macigni. Il suo scatto non aveva la potenza per durare. Le forze cominciarono a venirgli meno. Non lo aiutavano i solchi sulla strada né le sparse zolle di erba ed erbacce secche né gli stivali viscidi per la carne di maiale.
I Prediletti frattanto avevano preso velocità. Essendo morti, potevano correre per tutto il mese se volevano, mentre Nightshade immaginava di farcela ancora per qualche istante. Non osava perdere tempo a guardarsi indietro, ma non gli serviva: sentiva il respiro aspro e i tonfi dei passi, e sapeva che stavano guadagnando terreno.
Atta abbaiava furiosamente, per metà correndo dietro a Nightshade e per metà girandosi per minacciare i Prediletti.
A Nightshade il respiro prese ad arrivare con ansimi irregolari e dolorosi. I piedi gli vacillavano e incespicavano sul terreno irregolare. Era quasi spacciato.
Uno dei Prediletti afferrò la falda svolazzante della camicia del kender. Nightshade diede uno strattone, cercando di liberarsi, ma finì col ruzzolare a capofitto in una grande chiazza di erbacce. Era pronto a combattere per salvarsi la vita, quando all’improvviso si trovò nel mezzo di quella che si poteva descrivere soltanto come un’esplosione di cavallette.
Nugoli di quegli insetti volanti e saltellanti ronzarono in aria. Vivevano in quella chiazza di erbacce, ed erano furiosi per essere stati disturbati in maniera tanto sgarbata. Nightshade aveva cavallette negli occhi, su per il naso e giù per il collo e nei pantaloni. Il kender rotolò via dalla chiazza di erbacce, dando manate e schiaffi e dimenandosi. Atta correva in cerchio, facendo scattare le mascelle e mordendo gli insetti. Nightshade freneticamente se ne scacciò diversi dagli occhi e quindi vide con stupore che le cavallette avevano aggredito i Prediletti.
I due uomini erano letteralmente brulicanti di insetti. Le cavallette si aggrappavano a ogni parte del loro corpo; erano in bocca e sciamavano attorno agli occhi e intasavano le narici. Quegli insetti ronzanti e frenetici strisciavano tra i capelli e decoravano le braccia e coprivano le gambe, e altre cavallette ancora convergevano sui Prediletti, alzandosi in volo con un ronzio irato dalle erbacce di tutto il ciglio della strada.
I Prediletti agitavano le braccia e saltavano anche loro lottando per scacciare gli insetti, ma più lottavano e più le cavallette parevano offendersi e attaccarli freneticamente.
Le cavallette che avevano infastidito Nightshade parvero rendersi conto che si stavano perdendo il divertimento, poiché si allontanarono ronzando per unirsi alle colleghe. Nel giro di qualche istante i Prediletti scomparvero alla vista, intrappolati dentro un nugolo roteante di insetti.
«Accidenti!» disse Nightshade con sgomento, e poi soggiunse, parlando ad Atta: «È la nostra occasione! Via di corsa!».
Gli restava ancora un piccolo impulso di energia, e si mise a testa bassa, gonfiando i muscoli delle gambe, e corse a rotta di collo lungo la strada.
Correva, correva, correva senza guardare dove stesse andando, e Atta gli ansimava accanto, quando il kender finì a capofitto contro qualcosa: blam!
Il kender rimbalzò e si rovesciò cadendo a terra sulla schiena lungo la strada. Scuotendo la testa stordito, alzò lo sguardo.
«Accidenti», disse di nuovo Nightshade.
«Mi dispiace, amico», disse il monaco, e allungò una mano premurosa per aiutare Nightshade ad alzarsi in piedi. «Avrei dovuto guardare dove stavo andando.»
Il monaco guardò Nightshade, e poi lungo la strada dove i Prediletti fuggivano in direzione opposta, cercando di sbarazzarsi delle cavallette, che li attaccavano ancora. Il monaco ebbe un lieve sorriso e osservò preoccupato il kender.
«Stai bene?» domandò. «Ti hanno fatto del male?»
«N-no, fratello», balbettò Nightshade. «È stata una fortuna che siano arrivate quelle cavallette...»
Il kender ebbe un pensiero improvviso.
Il monaco era magro, snello e tutto muscoli, come Nightshade aveva motivo di sapere, poiché scontrarsi col monaco era stato come scontrarsi col fianco di una montagna. Il monaco aveva i capelli grigio-ferro che portava in una semplice treccia sulla nuca. Indossava una veste semplice di un colore arancione lucido, decorata con un disegno di rose attorno all’orlo e alle maniche. Aveva gli zigomi alti e la mascella forte e occhi scuri che adesso sorridevano, ma che probabilmente sapevano essere molto feroci se il monaco voleva.
Nightshade consentì al monaco di sollevarlo in piedi. Lasciò che il monaco gli spazzolasse via la polvere dagli abiti e gli strappasse via dai capelli una cavalletta dispersa e ostinata. Il kender vide che Atta si teneva indietro, facendosi piccola per la paura, senza avvicinarsi al monaco, e allora e soltanto allora il kender liberò la propria voce, che gli si era impigliata in gola.
«Ti ha mandato Majere, fratello? Che sto dicendo? Certo che ti ha mandato lui, così come ha mandato quelle cavallette!» Nightshade afferrò la mano del monaco e la strattonò. «Andiamo! Ti porto da Rhys!»
Il monaco rimase immobile. Nightshade non riuscì a spostarlo e finì quasi a gambe all’aria lui stesso.
«Io sto cercando Mina», disse il monaco. «Tu sai dove posso trovarla?»
«Mina! Chi se ne importa di lei?» gridò Nightshade.
Fissò il monaco con uno sguardo severo. «Ti sei confuso, fratello. Tu non stai cercando Mina. Io non ho mai chiesto niente a Majere riguardo a Mina. Tu stai cercando Rhys. Rhys Mason, seguace di Majere. Mina lavora per Chemosh... tutto un altro dio.»
«Nondimeno», disse il monaco, «io sto cercando Mina e devo trovarla rapidamente, prima che sia troppo tardi».
«Troppo tardi per che cosa? Oh, troppo tardi per Rhys! Ecco perché dobbiamo affrettarci! Su, fratello! Andiamo!»
Il monaco non si mosse. Diede un’occhiata accigliata verso il cielo.
«Già, strano colore, vero?» Nightshade allungò il collo. «Lo stavo notando anch’io. Una sorta di strano bagliore d’ambra. Credo che sia l’aura bori-rale o come la chiamano.»
Il kender si fece severo e assai serio. «Adesso guarda, fratello monaco, io sono grato per le cavallette e tutto, ma non abbiamo tempo di star qui a cianciare dello strano colore del cielo notturno! Rhys è in pericolo. Dobbiamo andare! Subito!»
Il monaco non sembrava udirlo. Guardava in lontananza, come cercando qualcosa, e poi scrollò il capo.
«Cieco!» mormorò. «Io sono cieco! Tutti noi... ciechi. Lei è qui, ma io non la vedo. Non la trovo.»
Nightshade udì il dolore nella voce del monaco, e gli si strinse il cuore. Vedeva anche qualcos’altro, qualcosa nel monaco che, al pari dei Prediletti, avrebbe dovuto notare in precedenza. Guardò Atta, che si faceva piccola per la paura: una cosa che quel cane valoroso non faceva quasi mai.
Nessuna luce di vita brillava nel corpo del monaco, ma diversamente dai Prediletti il corpo aveva in sé una qualità eterea e inconsistente, quasi come se il monaco fosse stato dipinto sulla tela della notte. I pezzi del rompicapo presero a combaciare per Nightshade, cadendo tanto forte che gli assestarono un bel colpo sul lato della testa.
«Oh, mio dio!» ansimò Nightshade, e poi, rendendosi conto di ciò che aveva detto, si sbatté la mano sulla bocca. «Mi dispiace, signore!» mormorò fra le dita. «Non intendevo pronunciare il vostro nome invano. Mi è scappato!»
Cadde in ginocchio e chinò il capo.
«Va tutto bene riguardo a Rhys, maestà divina», disse miserevolmente il kender. «Adesso so perché dovete andare da Mina. Be’, forse non lo so, ma posso immaginarlo.» Sollevò la testa e vide che il monaco lo osservava stranamente. «È una cosa tanto triste, vero? Riguardo a Mina, intendo.»
«Sì», disse il monaco con tranquillità. «Tanto triste.»
Majere si inginocchiò accanto a Nightshade e gli posò la mano sulla testa. Mise l’altra mano su Atta, che abbassò la testa sotto il tocco delicato del dio.
«Avete la mia benedizione, tutti e due, e Rhys Mason ha la mia benedizione. Lui ha fede e ha coraggio, e ha l’affetto di veri amici. Tornate da lui. Ha bisogno del vostro aiuto. Il mio dovere è altrove stanotte, ma sappiate che io sono con voi.»
Majere si alzò e guardò verso il castello, le cui mura erano inondate di quel bagliore livido e misterioso. Si incamminò in quella direzione.
Nightshade balzò in piedi. Si sentì rinvigorito, come se avesse dormito per una settimana e per giunta avesse mangiato quattordici pranzi enormi. Il corpo gli ferveva di rinnovata forza ed energia. Diede un’occhiata lungo la cresta in direzione della grotta, e la gioia gli svanì.
«Fratello dio!» gridò Nightshade. «Mi dispiace importunarvi ancora, dopo tutto quello che avete fatto per noi. Grazie per le cavallette, a proposito, e per la vostra benedizione. Mi sento molto meglio. C’è soltanto una cosa ancora.»
Agitò la mano. «Quei macigni sono difficili da scalare e sono terribilmente duri, signore», disse umilmente, «e aguzzi».
Il monaco sorrise e a quel sorriso i macigni scomparvero e il fianco della collina fu inondato di rigogliosa erba verde.
«Evviva!» gridò Nightshade. Agitando le braccia e urlando, sfrecciò giù per la collina. «Rhys, Rhys, tieni duro! Stiamo venendo a salvarti! Majere ci ha benedetti, Rhys! Ha benedetto me, un kender!»
Atta, contenta di trovarsi finalmente nella direzione giusta, sfrecciò sul terreno, superando agevolmente il kender urlante e lasciandolo presto molto indietro.
Rhys sedeva nell’oscurità della grotta e, all’avvicinarsi della morte, pensava alla vita. Alla sua vita. Pensava alla paura e alla codardia, all’arroganza e all’orgoglio, e tenendo stretta la scheggia di legno che gli aveva inciso la carne si inginocchiava davanti a Majere e umilmente gli chiedeva perdono.
Majere chiede a ciascuno dei suoi monaci di allontanarsi dalla vita in convento e viaggiare nel mondo almeno una volta nella vita. Intraprendere questo viaggio è volontario, non è obbligatorio. Nessun monaco è costretto a farlo, così come nessun monaco è mai costretto a fare alcunché. Tutti i voti che i monaci prendono sono ispirati dall’amore e vengono rispettati perché vale la pena di rispettarli. Il dio insegna saggiamente che le promesse fatte per costrizione e per paura della punizione sono prive di significato.
Rhys aveva scelto di non allontanarsi dal monastero. All’epoca non l’avrebbe mai ammesso, ma adesso si rendeva conto del motivo. Aveva pensato, per orgoglio e arroganza, di avere raggiunto la perfezione spirituale. Il mondo non aveva più niente da insegnargli. Majere non aveva più niente da insegnargli.
«Io sapevo tutto», disse sottovoce Rhys rivolto all’oscurità. «Ero felice e contento. Il cammino che percorrevo era agevole e facile e procedeva ripetutamente in circolo. L’avevo percorso tante volte che non lo vedevo più. Avrei potuto percorrerlo alla cieca. Mi sarebbe bastato continuare a camminare e sarebbe stato sempre lì per me. Mi dicevo che il cammino girava attorno a Majere. In verità, non girava attorno a niente. Il centro era vuoto. Senza saperlo, percorrevo il ciglio di un precipizio e, quando è arrivata la catastrofe e il cammino mi si è frantumato sotto i piedi, non avevo più dove andare. Sono caduto nell’oscurità. Anche allora Majere ha cercato di salvarmi. Mi ha teso la mano, ma io l’ho respinto categoricamente. Avevo paura. La mia vita comoda e illuminata dal sole mi era stata strappata via. Ne davo la colpa al dio, quando avrei dovuto dare la colpa a me stesso. Forse se fossi stato presente non avrei potuto impedire a Lleu di uccidere i miei genitori, ma sarei dovuto essere maggiormente comprensivo riguardo al dolore dei miei genitori. Avrei dovuto tendere loro la mano quando sono venuti da me in cerca di aiuto. Invece li ho respinti. Provavo risentimento verso di loro per avere introdotto indebitamente nella mia vita il loro dolore e la loro paura. Non provavo alcun sentimento per loro. Soltanto per me stesso.»
Rhys alzò gli occhi verso il cielo che non poteva vedere. «Soltanto quando ho perso la fede l’ho trovata. Come può avvenire un miracolo del genere? Perché voi, mio dio, non avete mai perso fede in me. Io percorro senza timore l’oscurità, perché ho dentro di me la vostra luce...»
Una luminosità pallida e fredda rischiarò la grotta, come la luce chiamata fuoco fatuo, quella fiamma lambente che talvolta si vede ardere sopra una tomba e che la superstizione ritiene essere un presagio di morte.
L’uomo si materializzò nella grotta. Era pallido e di una bellezza fredda. Aveva lunghi capelli scuri ed era vestito sontuosamente di velluto nero e fine lino bianco con pizzi ai polsini. Osservò Rhys con occhi che non avevano né fine né inizio.
«Io sono Chemosh, Signore della Morte, e chi» soggiunse il dio, con occhio torvo, «sei tu?».
Rhys si alzò in piedi, facendo sferragliare le catene attorno a sé, e si inchinò con riverenza. Avrà anche aborrito Chemosh per il male che apportava al mondo, però lui era un dio e davanti a questo dio l’intera umanità doveva un giorno presentarsi.
«Io mi chiamo Rhys Mason, mio signore.»
«Non mi interessa affatto come ti chiami!» disse stizzoso Chemosh. «Tu sei l’amante di Mina! Ecco chi sei!»
Rhys guardò il dio con uno stupore tanto profondo che non gli venne in mente nessuna risposta da poter offrire a questa accusa sbalorditiva.
Chemosh stesso parve avere un ripensamento. Il Signore della Morte si guardò attorno in quella grotta spoglia, notando le catene e i resti untuosi della carne di maiale salata, l’acqua fetida e il fetore nauseabondo, poiché Rhys non poteva andare da nessuna parte per fare i suoi bisogni se non nella grotta.
«Questo non è precisamente quello che definirei un nido d’amore», osservò Chemosh. «E nemmeno», scrutò Rhys con ripugnanza, «tu mi impressioni molto come amante.»
«Io sono un monaco di Majere, mio signore», disse Rhys.
«Questo lo vedo», disse Chemosh, arricciando il labbro nel dare un’occhiata alla veste sbrindellata di Rhys che in quella luce misteriosa aveva assunto una sfumatura arancione. «L’interrogativo allora diventa: se tu non sei l’amante di Mina, che cosa sei per lei? Mina ha portato qui te: un monaco macilento e pulcioso.» Chemosh si avvicinò. «Perché?»
«Dovete domandarlo a lei, mio signore», disse Rhys.
Aveva parlato con fermezza, anche se gli ci era voluto uno sforzo. Tenendo stretta la scheggia di legno del bastone, Rhys in silenzio chiese a Majere di dargli coraggio. Il suo spirito poteva accettare l’inevitabilità della morte, ma la sua carne mortale rabbrividiva e lo stomaco gli si stringeva.
«Perché tu dovresti esserle fedele?» domandò Chemosh, irato. «Perché tutti le sono fedeli? Io giuro sul Dio Supremo che ci ha creati e sul Chaos che ci annienterà che io non capisco!»
La sua furia investì la caverna come un vento caldo. Sudando, Rhys si conficcò nei palmi della mano la punta aguzza della scheggia, usando il dolore per impedirsi di crollare.
«Mina ti incatena a una parete e ti tormenta: vedo il segno della sua ira sulla tua guancia. Ti ha lasciato qui a morire di fame oppure...»
Chemosh si interruppe, osservò attentamente Rhys. «Ha intenzione di ritornare. Per torturarti. Perché? Tu hai qualcosa che lei vuole. Questo è il motivo. Che cos’è, Rhys Mason? Deve essere di grande valore...»
Rhys avrebbe potuto fornire la spiegazione, ma andava contro tutte le sue convinzioni. L’anima di un uomo è sua, insegnava Majere. I suoi misteri possono essere svelati oppure no, a sua scelta. Mina, per qualunque ragione, aveva scelto di mantenere il proprio segreto. Non l’aveva detto a Chemosh. Anche se l’anima di Mina poteva essere nera per i suoi crimini, quell’anima era sua. Il segreto doveva svelarlo lei, non lui.
Rhys rimase in silenzio. Gli colava sangue lungo il palmo della mano e fra le dita serrate.
«La tua carne può sfidarmi», disse Chemosh, con l’alito freddo come aria che fuoriuscisse da una tomba. «Ma il tuo spirito no. I morti non possono mentirmi. Quando la tua anima sarà davanti a me nella Sala delle Anime di Passaggio, tu mi dirai tutto ciò che sai.»
Allora andrete incontro a una triste delusione, mio signore, pensò mestamente Rhys, poiché in verità io non so niente.
Chemosh si avvicinò, con la mano tesa. «Ti ucciderò rapidamente. Non soffrirai, come ti capiterebbe per mano di Mina.»
Rhys fece un breve cenno del capo per rassegnazione. Il cuore gli batteva rapido; aveva la bocca secca. Non riusciva più a parlare. Inspirò, indubbiamente per l’ultima volta, e si fece coraggio. Chiudendo gli occhi, per cancellare il terrore di quel dio tremendo, affidò il proprio spirito a Majere.
Sentì la benedizione del dio scorrere in lui, e con quella benedizione giunsero una serenità estatica e un abbaiare.
L’abbaiare di un cane. Subito fuori della grotta. E con l’abbaiare di Atta giunse la voce acuta di Nightshade.
«Rhys! Siamo tornati! Ehi, ho incontrato il tuo dio! Mi ha dato la sua benedizione...»
Rhys aprì gli occhi. La serenità defluì da lui.
Chemosh si voltò per metà, guardò verso l’ingresso della grotta. «Che cosa c’è? Un kender e un cane?»
«I miei compagni di viaggio», disse Rhys. «Lasciateli andare, mio signore. Sono innocenti, coinvolti per caso in questa storia.»
Chemosh parve affascinato. «Il kender afferma di avere incontrato il tuo dio...»
«È un kender, mio signore», disse disperato Rhys.
In quel momento inopportuno Nightshade urlò: «Ehi, Rhys, sono venuto a trattare con quella persona Mina!». La sua voce e i suoi passi riecheggiarono in tutta la grotta. «Atta, non così veloce!»
«Trattare con Mina?» ripeté Chemosh. «Non mi sembra tanto innocente. Sembra che adesso avrò due anime da interrogare...»
«Nightshade!» gridò Rhys. «Non entrare qui! Scappa! Prendi Atta e...»
«Silenzio, monaco», ordinò Chemosh, e con la mano chiuse la bocca di Rhys.
Il freddo della morte pervase le membra di Rhys. Quel freddo terribile era come un afflusso di frammenti di ghiaccio nel sangue. Un dolore freddo e lancinante gli sconvolgeva il corpo. Rhys gemette e si dibatté.
Il Signore della Morte lo tenne stretto, il suo tocco crudele gli gelava il sangue. Rhys crollò in ginocchio.
Atta schizzò dentro la cavità. Vide il suo padrone in ginocchio, evidentemente in pericolo, e un uomo chino su di lui. Ad Atta non piaceva quest’uomo. In lui vi era qualcosa di sinistro, qualcosa che la spaventava. L’uomo non aveva alcun odore, tanto per cominciare. Ogni creatura viva e ogni creatura morta hanno un odore, alcune piacevole, altre non tanto, ma non quest’uomo, e la cosa la spaventava. L’uomo era, sotto questo aspetto, come quella donna chiassosa e antipatica proveniente dal mare, e come il monaco che aveva appena imposto su di lei mani delicate. Nessuno di loro aveva odore, e la cagna trovava tutto questo misterioso e terrificante.
Atta era spaventata. Il suo cuore semplice tremava. L’istinto la sollecitava a voltarsi e scappare, ma questo strano uomo stava facendo del male al suo padrone, e questo non si poteva permettere. Il cuore le si gonfiò di furia, e Atta balzò all’attacco. Non puntò alla gola, poiché l’uomo le dava le spalle, chino sopra Rhys. Atta cercò invece di azzoppare il nemico. La saggezza tramandatale dall’antico antenato, il lupo, le diceva come abbattere un nemico più grosso: puntare alla gamba. Spezzare l’osso o tranciare un tendine.
Atta affondò i denti nella caviglia di Chemosh.
L’aspetto di un dio è formato dall’essenza del dio intessuta in un’immagine che alla mente degli uomini appare quella di un mortale. L’aspetto è visibile all’occhio dei mortali, è percepibile al tatto di un mortale. L’aspetto del dio può parlare ai mortali, udirli e reagire a loro. Poiché l’aspetto è costituito da essenza immortale, non percepisce dolore né sensazioni piacevoli della carne. Il dio spesso finge di sì, per apparire ai mortali maggiormente simile a un vivente. Nel caso di Chemosh e del suo amore per Mina, il dio può perfino persuadersi a credere a questa menzogna.
Chemosh non avrebbe assolutamente potuto sentire i denti aguzzi di Atta stringergli la gamba, ma li sentì. In verità, i denti percepiti da Chemosh non erano quelli della cagna. Erano i denti dell’ira di Majere. Fu così che la dragonlance di Huma, benedetta da tutti gli dèi del bene, inferse all’aspetto di Takhisis un colpo che lei percepì e che la costrinse a ritirarsi dal mondo, sputando e ringhiando in segno di sfida. Gli dèi hanno il potere di infliggersi a vicenda dolore, anche se sono riluttanti a farlo, poiché ciascun dio conosce le conseguenze terribili che potrebbero derivare da una simile azione. Gli dèi ricorrono a simili misure drastiche solo quando è loro chiaro che l’equilibrio sta per essere rovesciato, poiché il Chaos è subito oltre, in attesa ansiosa dello scoppio della guerra nei cieli. Quando ciò accadrà, gli dèi si annienteranno a vicenda e daranno al Chaos la vittoria da tempo cercata: la fine di tutte le cose.
Un dio di rado attaccherà direttamente un altro dio, ma agirà soltanto attraverso i mortali. L’attacco è di portata limitata e ha scarse probabilità di causare danni gravi all’aspetto mortale: solo quel che basta per far sapere all’altro dio che ha trasgredito, è andato troppo oltre, ha oltrepassato la linea.
L’ira di Majere morse la caviglia di Chemosh con i denti di Atta, e il Signore della Morte ruggì di furore. Si staccò da Rhys, scalciò con la gamba e si scaraventò via di dosso Atta. Sollevando il piede sopra il corpo della cagna, Chemosh stava per dimostrare a Majere ciò che pensava di lui calpestando a morte questo cane bastardo.
Rhys teneva ancora nella mano insanguinata la scheggia del bastone. Era la sua unica arma e lui la conficcò con tutta la propria forza nella schiena del dio. La furia di Majere spinse la scheggia in profondità nel Signore della Morte. Chemosh rimase senza fiato. Il suo scalciare si fece frenetico. Atta balzò in piedi e interpose il proprio corpo davanti a Rhys. Con i denti scoperti, affrontò con aria di sfida il dio.
In quel momento arrivò di corsa dentro la grotta Nightshade, coi pugni serrati.
«Rhys, sono qui...» Il kender si fermò, sgranando gli occhi. «Chi siete voi? Aspettate! Credo di conoscervi! Mi sembrate piuttosto noto... Oh, dèi!» Nightshade prese a tremare tutto. «Vi conosco, sì! Siete la Morte!»
«Sono la tua morte, per lo meno», disse freddamente Chemosh, e allungò la mano per strozzare il kender.
Il terreno ebbe uno scossone improvviso e violento che fece perdere l’equilibrio a Chemosh. Le pareti della caverna rabbrividirono e si fendettero. Pezzi di roccia e terra piovvero su di loro e poi, con un lieve fremito, la terra si assestò e si acquietò.
Il dio e i mortali si fissarono a vicenda. Chemosh era ancora carponi. Atta era accovacciata sul ventre e gemeva.
Il Signore della Morte si tirò su da terra. Ignorando i mortali, alzò lo sguardo verso il buio.
«Chi di voi fa tremare il mondo?» gridò, con i pugni serrati. «Tu, Sargonnas? Zeboim? Tu, Majere?»
Se vi fu risposta, i mortali non la udirono. Rhys era a malapena cosciente, distrutto dal dolore, appena consapevole di ciò che stava succedendo. Nightshade aveva gli occhi chiusi e sperava che al prossimo tremito la terra si aprisse e lo risucchiasse all’interno. Meglio così che sentirsi addosso nuovamente lo sguardo della Morte.
«Ci incontreremo nell’Abisso, monaco», promise Chemosh, e scomparve.
«Oooh, ragazzi», disse Nightshade, rabbrividendo. «Sono contento che se ne sia andato. Avrebbe però potuto lasciarci un po’ di luce. Qui dentro è buio come le interiora di un goblin. Rhys...»
La terra tremò di nuovo.
Nightshade si gettò disteso a terra, con un braccio ad afferrare Atta e l’altro a coprirsi la testa.
Le spaccature nelle pareti della grotta si ampliarono. Piovvero sopra di loro rocce e sassi, zolle di terra e alcuni scarafaggi sloggiati. Poi vi fu uno schianto orribile e un rumore di stritolamento, e Nightshade chiuse forte gli occhi e attese la fine.
Ancora una volta tutto si calmò. Il terreno cessò i suoi frenetici movimenti sussultori. Nightshade però non si fidava, e tenne gli occhi chiusi. Atta prese a dimenarsi e a contorcersi sotto la sua stretta. Lui la lasciò andare, e la cagna si affrettò a uscire da sotto di lui. Quindi il kender sentì uno scarafaggio strisciargli fra i capelli, e questo gli fece aprire gli occhi. Afferrò lo scarafaggio e lo scagliò via.
Atta prese ad abbaiare aspramente. Nightshade si strofinò via la terra dalle palpebre e si guardò attorno, scoprendo che tenere gli occhi chiusi o aperti non faceva molta differenza. Era buio in un modo o nell’altro.
Atta continuò ad abbaiare.
Nightshade aveva paura di alzarsi in piedi per timore di urtare qualcosa, per cui strisciò sulle mani, tastando il terreno e seguendo il suono dei guaiti frenetici di Atta.
«Atta?» Tese la mano e percepì il corpo peloso della cagna, che raspava qualcosa e continuava ad abbaiare.
Nightshade annaspò qua e là con le mani e sentì molte rocce aguzze e poi qualcosa di caldo e morbido.
«Rhys!» Nightshade sospirò di gratitudine.
Tastò qua e là e sentì il naso e gli occhi dell’amico: gli occhi erano chiusi. Rhys aveva la fronte calda. Respirava, ma doveva essere privo di sensi. La mano di Nightshade toccò la testa di Rhys e percepì qualcosa di caldo e appiccicoso che colava sulla nuca di Rhys.
Atta smise di raspare contro Rhys e prese a leccargli la guancia.
«Non credo che la saliva di cane possa fargli granché bene, Atta», disse Nightshade, spingendo via la cagna. «Dobbiamo portarlo fuori da qui.»
Sentiva ancora l’odore di aria salmastra, e sperava volesse dire che l’ingresso della grotta non era crollato. Nightshade afferrò Rhys per le spalle, gli diede uno strattone di prova e fu rincuorato nel sentire il corpo dell’amico scivolare sul terreno. Era preoccupato che Rhys potesse essere mezzo sepolto tra le macerie.
Nightshade tirò di nuovo, e Rhys gli venne dietro, e il kender stava cominciando a pensare che potessero farcela a uscire vivi da lì quando udì un rumore che quasi lo seppellì nella disperazione.
Lo sferragliare delle catene.
Nightshade gemette. Aveva dimenticato il fatto che Rhys era incatenato alla parete.
«Forse la frana ha rimosso gli anelli di ferro», disse speranzoso Nightshade.
Trovando il ceppo attorno al polso di Rhys, Nightshade annaspò risalendo per tutta la lunghezza della catena fino al punto in cui era attaccata all’anello di ferro, che era ancora attaccato – e saldamente – alla parete.
Nightshade disse una parolaccia e poi rammentò. Era benedetto da un dio!
«Forse mi ha dato la forza di dieci draghi!» disse emozionato Nightshade, e afferrò la catena e fece una smorfia per il dolore delle ferite alle mani. Convinto che uno con la forza di drago non dovesse essere scoraggiato dal dolore lancinante, piantò i talloni e scacciò Atta con uno «sciò», quindi tirò la catena con tutte le sue forze.
La catena scivolò tra le mani di Nightshade, e il kender finì col sedere a terra.
Ripeté la parolaccia. Alzandosi in piedi, riprovò e questa volta tenne salda la catena.
L’anello di ferro non si smosse.
Nightshade rinunciò. Seguendo la catena, ritornò nel punto in cui Rhys era steso a terra e, inginocchiandosi accanto all’amico, gli lisciò via dal viso immobile i capelli incrostati di sangue. Atta si stese accanto a lui e prese di nuovo a leccare assiduamente la guancia di Rhys.
«Noi non ce ne andiamo, Rhys», gli disse Nightshade. «Vero, Atta? Vedi: dice di no, non ce ne andiamo. Non certo questa volta.» Cercò di trovare una nota allegra. «Forse la prossima volta che trema la terra, la parete si apre e fa staccare quegli anelli di ferro!»
Naturalmente, disse fra sé Nightshade, se la parete effettivamente si apre, la volta si schianta sopra di noi e ci seppellisce vivi, ma io non ne faccio menzione.
«Io sono qui, Rhys.» Nightshade prese la mano inerte dell’amico e la tenne stretta. «E anche Atta.»
La terra riprese a tremare.
Sotto le acque dalla sfumatura rossa del Mare di Sangue, dentro la Torre dell’Alta Magia, Basalt e Caele erano intenti all’opera di pulizia e lucidatura, nei preparativi per un’affluenza di maghi: quella ventina circa di Vesti Nere elette che avrebbero lasciato le loro dimore sulla terra per raggiungere Nuitari.
La Torre del Mare di Sangue adesso era aperta e pronta a operare.
In seguito all’incontro con i cugini, Nuitari si era reso conto che non c’era più necessità di mantenere segreta la Torre. Diede la notizia a Dalamar, superiore delle Vesti Nere, e disse all’arcimago elfo di trasmettere l’invito a tutte le Vesti Nere che volessero venire a studiare nella nuova Torre.
L’invito includeva Dalamar, il quale rispettosamente aveva rifiutato, sostenendo che era necessario mantenere una rappresentanza delle Vesti Nere a Wayreth. Privatamente Dalamar pensò che avrebbe preferito essere rinchiuso in una tomba piuttosto che sepolto sotto il mare, lontano dal vento e dagli alberi, dal cielo azzurro e dalla vivida luce solare. Lo disse a Jenna.
In quanto presidente del Conclave, Jenna non era affatto contenta della decisione presa dagli dèi. Era contraria a separare nuovamente le Vesti. Era stato fatto così prima del Re-Sacerdote, quando ogni Ordine aveva rivendicato la propria Torre, con esiti tragici. Jenna fece conoscere a Limitari la propria contrarietà, ma la dea della Luna Rossa era così smodatamente soddisfatta di avere tutta per sé la magnifica Torre di Wayreth che non volle ascoltarla. Quanto a Solinari, la sua eletta, Coryn la Bianca, stava già mettendo assieme una spedizione di Vesti Bianche per andare a recuperare la Torre maledetta che in precedenza era stata a Palanthas e adesso si trovava dentro il cuore della tenebrosa terra dei morti viventi, il Nightlund.
Quanto a Dalamar, le sue riserve non avevano nulla a che vedere con la Torre stessa, ma soltanto con la sua ubicazione. Riteneva che una Torre per le Vesti Nere fosse attesa da troppo tempo. Soltanto Jenna aveva gravi riserve, ma non poteva realmente dedicare del tempo a perseguirle come avrebbe potuto fare. Il Conclave era in preda a un’aspra discussione su come gestire la situazione dei Prediletti, adesso che era divenuto noto il metodo orribile per il loro annientamento. Le Vesti Nere erano tutte favorevoli a reclutare eserciti di bambini e mandarli in battaglia. C’erano dicerie secondo cui qualcuno l’aveva già fatto.
Col diffondersi delle notizie e della paura, ogni persona che avesse avuto la sfortuna di essere diversa dai vicini o fosse caduta in disgrazia tra i cittadini o semplicemente si trovasse nel posto sbagliato nel momento sbagliato poteva essere accusata di essere un Prediletto ed essere arrestata o aggredita dalla folla. Poiché i maghi tendevano a essere persone misteriose che se ne stavano per conto loro ed erano generalmente temute, divennero bersagli facili. Jenna adesso era intenta a cercare un incantesimo magico per porre fine ai Prediletti, finora senza successo. Una Torre sotto il mare era l’ultima delle sue preoccupazioni, per cui lasciò cadere la discussione.
Nuitari aveva vinto e doveva ringraziare Chemosh, il che dal Dio della Luna Nera veniva considerato estremamente ironico.
Dentro la Torre, Basalt stava preparando i letti, mentre Caele per lo più si aggirava qua e là osservando Basalt. Una grande catasta di materassi era stata trasportata su dal magazzino. I due maghi dovevano portare ciascun materasso in una camera, issarlo faticosamente sull’intelaiatura in legno del letto e poi coprirlo con lenzuola e coperte.
I due stavano lavorando nelle camere in cui avrebbero abitato le Vesti Nere di alto rango, ciascuna nel proprio appartamento privato. I materassi di questi letti erano fatti di piumino d’oca, le lenzuola erano di lino fine, le coperte della lana più morbida. Le camere per i maghi di rango inferiore erano più piccole e avevano materassi di paglia. Gli apprendisti maghi avevano camere in comune e in certi casi anche materassi in comune. Finora erano stati invitati dal dio soltanto maghi di alto rango. Sarebbero arrivati l’indomani mattina.
«Dovrai aiutarmi a spostare questo», disse Basalt. Indicò un materasso in cima alla catasta che era fuori portata delle braccia corte del nano. «Non riesco a raggiungerlo.»
Caele emise il sospiro di lunga sofferenza di chi lavora troppo e afferrò le estremità del materasso. Fece un tentativo poco convinto, poi gemette e si strinse la schiena.
«Tutto questo piegarsi e sollevare. Mi sono preso uno strappo muscolare.»
Basalt lo guardò con occhio torvo. «Come hai fatto a prenderti uno strappo muscolare? La cosa più pesante che tu abbia sollevato finora è un bicchiere del vino migliore del padrone, e non pensare che non glielo dirò!»
«Lo assaggiavo per vedere se fosse andato a male», disse Caele scontroso. «Non vorrai servire vino cattivo agli arcimaghi, vero?»
«Aiutami a sollevare questo dannato materasso e basta», ringhiò Basalt.
Caele sollevò le mani, e prima che Basalt potesse fermarlo l’elfo agitò le mani e mormorò alcune parole. Il materasso si sollevò dalla catasta e rimase sospeso in aria.
«Che stai facendo? Non devi usare la magia per i lavori domestici!» gridò Basalt, scandalizzato. «E se ti vede il padrone? Termina quell’incantesimo!»
«Molto bene», disse Caele, e ritrasse la magia, col risultato che il materasso si abbatté sopra il nano, travolgendolo.
Caele sogghignò. Basalt emise un ululato attutito. Il nano emerse da sotto il materasso con occhi da omicida.
«Mi hai detto tu di terminare l’incantesimo.» Caele arricciò il labbro. «Io stavo semplicemente obbedendo agli ordini. Sei tu il Custode, dopo tutto...»
Caele smise di parlare. Spalancò gli occhi. «Che cos’è questo?»
Basalt aveva gli occhi contornati di bianco. Rabbrividì a quel suono terribile. «Non lo so! Non ho mai udito niente di simile.»
Quel rumore sordo e rimbombante, come enormi macigni che venissero fatti ruzzolare qua e là, frantumandosi l’uno contro l’altro, proveniva da molto, ma molto lontano sotto i loro piedi. Il rumore si faceva più forte, avvicinandosi sempre più. La catasta di materassi prese a dondolare. Il pavimento incominciò a tremare. Scrivanie e intelaiature dei letti presero a spostarsi e a danzare sul pavimento. Le pareti fremevano.
Il tremito entrò nei piedi di Basalt e da lì gli penetrò nelle ossa. I denti gli sbattevano, e si morse la lingua. Caele barcollò finendo contro la catasta di materassi e vi rimase appoggiato.
Il tremito cessò.
Basalt emise un gracchiare ansimante e puntò il dito.
Il pavimento, che era stato perfettamente orizzontale, adesso era inclinato con un’angolazione ripida. Un’intelaiatura di letto arrivò scivolando lentamente lungo il corridoio con una scrivania subito dietro. Caele si spinse via dai materassi.
«Zeboim!» ringhiò. «La vacca del mare è tornata!»
Basalt barcollò nell’attraversare il pavimento inclinato, camminando in salita, ed entrò in una delle camere. Tutti i mobili erano accatastati in mucchio contro la parete opposta. Basalt ignorò quella devastazione e si diresse verso la finestra di cristallo, che offriva un panorama spettacolare del regno subacqueo della Torre. Caele seguiva da presso, alle calcagna del nano.
Entrambi guardarono fuori verso l’acqua che era densa del limo rosso del fondo marino rimescolato. Il limo vorticava attorno alla Torre come ondate di sangue.
«Non vedo niente in questo buio», si lamentò Caele.
«Neanch’io», disse Basalt, frustrato.
La Torre riprese a tremare. Questa volta il pavimento si inclinò nell’altra direzione.
Caele e Basalt furono investiti da una cascata di mobili che scivolavano sul pavimento. Entrambi finirono sbattuti contro la parete, Basalt intrappolato da una scrivania e Caele inchiodato da un’intelaiatura di letto.
Il tremito cessò. Basalt ebbe la stranissima sensazione che qualunque cosa provocasse questo sollevamento stesse riposando, riprendendo fiato.
Spinse via l’intelaiatura di letto e, ignorando le richieste di aiuto di Caele, corse di nuovo alla finestra e guardò fuori.
Col naso premuto contro il cristallo, Basalt vide, in mezzo alla fanghiglia vorticante e pezzi di alghe e pesci che schizzavano qua e là freneticamente, una barriera corallina che si innalzava serpeggiando dal fondo del mare. Basalt si era spesso goduto lo spettacolo di questa barriera, poiché gli rammentava le formazioni del mondo sotterraneo in cui aveva vissuto per tanto tempo e di cui di quando in quando sentiva ancora la mancanza.
Da questo punto di osservazione avrebbe dovuto vedere la barriera direttamente davanti a sé.
Adesso invece vedeva la barriera al di sotto. Si trovava centinaia di metri sotto di lui. Guardò su e vide la luce lunare e le stelle...
«Padrone», disse sottovoce Basalt, e poi urlò: «Padrone! Nuitari! Salvateci!».
La Torre riprese a tremare.
Mina si trovava da sola sul parapetto merlato del castello del Signore della Morte. Un misterioso fulgore d’ambra illuminava il cielo, l’acqua e la terra. Mina era un’oscurità al centro del bagliore e nessuno poteva vederla, anche se la stavano cercando. Dèi, mortali, tutti stavano cercando il motivo per cui la terra tremasse.
Mina guardò l’acqua. Il suo amore, la sua brama ardente, il suo desiderio fluivano da lei e diventavano acqua. Mina ne espresse la volontà, e il Mare di Sangue prese a ribollire. Mina ne espresse la volontà, e il movimento dell’acqua si fece irregolare. Le onde si incrociavano e si intersecavano e venivano ricacciate l’una sull’altra.
Mina infilò le mani in quell’acqua rosso-sangue e afferrò il gioiello, l’oggetto del desiderio del suo signore, il dono che l’avrebbe fatto innamorare di lei. Lo scosse per liberarlo, poi lo strappò via dagli ormeggi. I suoi sforzi la sfinivano, e Mina dovette fermarsi per riposare e recuperare, quindi ricominciò.
L’acqua del Mare di Sangue prese a vorticare lentamente attorno a un punto centrale. Il Vortice (creato dagli dèi per costituire per sempre un avvertimento all’umanità nella Quarta Era) ritornò, muovendosi dapprima pigramente, poi roteando sempre più veloce attorno al punto centrale costituito da Mina. Le onde si schiantavano sui dirupi, spruzzando spuma e acqua marina. Mina sentì la spuma salata fresca sul viso. Si leccò le labbra e sentì il sapore del sale, amaro come le lacrime, e dell’acqua, dolce, come il sangue.
Mina sollevò la mano, e dal centro del vortice uscì un’isola di roccia vulcanica nera. L’acqua marina si riversò via dall’isola quando questa spuntò fuori dal centro del vortice, con l’acqua che scendeva a cascata lungo rupi nere lucenti. Mina collocò il suo gioiello sull’isola, come una pietra preziosa su un vassoio nero. La Torre dell’Alta Magia che in precedenza era stata sotto le onde adesso si innalzava al di sopra di esse.
La Torre, con le sue pareti di cristallo sfaccettate, attirava e tratteneva la luce d’ambra degli occhi di Mina, così come l’ambra dei suoi occhi attirava e tratteneva la Torre.
Il vortice smise di roteare. Il mare si acquietò. L’acqua defluì dalle rocce nere dell’isola appena nata e si riversò a catinelle giù dalle lisce pareti di cristallo della Torre.
Mina sorrise. Quindi crollò.
Il bagliore d’ambra svanì. Soltanto la luce delle due lune, argentea e rossa, brillava sulle pareti della Torre, e questi occhi divini non ammiccavano più.
Erano spalancati per la sorpresa.
Nightshade si svegliò con l’acqua fredda in viso e un dolore martellante in testa. Questo lo indusse ad arguire di essere di nuovo un kender bambino, tornato nel suo letto e svegliato dai genitori, i quali avevano scoperto che solo applicando insieme l’acqua e un bel colpo sulla guancia potevano svegliare il figlio che trascorreva le notti a vagare nei cimiteri.
«È ancora buio, mamma!» mormorò irritato Nightshade, e si girò dall’altra parte.
Sua madre abbaiò.
Nightshade lo considerò un comportamento strano per una madre, perfino per una madre kender, ma la testa gli doleva troppo per pensarci. Lui voleva solo tornare a dormire, per cui chiuse gli occhi e cercò di ignorare l’acqua fredda che gli filtrava nei pantaloni alla zuava.
Sua madre lo morsicò piuttosto dolorosamente all’orecchio.
«Ma insomma, mamma!» esclamò Nightshade, indignato, si tirò su a sedere e aprì gli occhi.
«Mamma?» Non vedeva niente, ma al tatto capiva che non si trovava a letto. Era seduto su un mucchio di pietre estremamente aguzze che lo punzecchiavano nei punti molli: le pietre erano bagnate e si bagnavano sempre più.
Gli rispose un abbaiare, una lingua ruvida gli leccò il viso, una zampa dalle unghie affilate lo grattò, e Nightshade ricordò tutto.
«Rhys!» Rimase senza fiato e allungò la mano per toccare quella di Rhys. Rhys era appena tiepido, e anche lui era bagnato.
Nightshade non aveva idea del perché una grotta precedentemente asciuttissima dovesse ora riempirsi di acqua marina, ma a quanto pareva stava accadendo proprio questo. Il kender sentiva l’acqua gorgogliare fra le macerie disseminate sul fondo della caverna. Ancora non era molto profonda; finora era solo un rigagnolo. L’acqua poteva continuare a essere un rigagnolo, ma d’altronde anche no. Poteva diventare un’inondazione. Se la grotta fosse stata inondata, loro non avrebbero avuto via di scampo. L’acqua si sarebbe fatta sempre più profonda...
«Rhys», disse con fermezza Nightshade, e questa volta faceva sul serio. «Dobbiamo uscire da qui.»
Picchiò la mano sulle pietre per sottolineare la propria determinazione e disse: «Ahi!» seguito da: «Maledizione!».
Aveva picchiato la mano su una scheggia di legno che gli si era sepolta nella parte morbida e carnosa della mano. La estrasse e stava per gettarla via quando gli venne in mente che era una cosa strana trovare una scheggia di legno qui nella grotta. Essendo un kender, Nightshade era per natura curioso (perfino in una situazione così terribile) e passò la mano sulla scheggia, notando che era lunga e liscia e aveva una punta aguzza a entrambe le estremità.
«Ah, capisco. Fa parte del bastone di Rhys», disse tristemente Nightshade serrando la mano sopra la scheggia. «La terrò da parte per lui. Un ricordo. Gli piacerà.»
Nightshade emise un sospiro e appoggiò sulle braccia la testa dolorante, domandandosi come potessero mai uscire da questo luogo orribile. Si sentiva nauseato e assonnato, e di nuovo era un kender bambino, però questa volta suo padre stava cercando di mostrargli come scassinare una serratura.
«Si sfruttano il tatto e il rumore», gli stava spiegando suo padre. «Metti qui dentro l’attrezzo e lo fai oscillare attorno finché non senti che prende...»
Nightshade tirò su la testa tanto rapidamente che gli esplose un dolore lancinante dietro i globi oculari. Non lo notò. Non più di tanto. Guardò giù verso la scheggia che aveva in mano, anche se non riusciva a vederla, essendo tanto buia la grotta, ma non gli serviva vedere. Si sfruttavano il tatto e il rumore.
L’unico problema era che Nightshade non era mai riuscito a scassinare una serratura in vita sua. Per molti versi era stato, come suo padre lamentava spesso, un fallimento in quanto kender.
«Non questa volta», promise solennemente Nightshade, determinato. «Questa volta ci riuscirò. Devo riuscirci», soggiunse in silenzio. «Devo proprio!»
Annaspò con le mani finché trovò uno dei ceppi serrati attorno ai polsi ossuti di Rhys. Il livello dell’acqua continuava a salire, ma Nightshade se lo tolse di testa.
Atta gemette sottovoce e leccò il viso a Rhys e si stese sul ventre accanto a lui. Il fatto che in questo modo causasse uno spruzzo fu piuttosto sconcertante. Nightshade non si permise di pensarci. Aveva altre cose a cui pensare, la prima delle quali era convincere la propria mano a smettere di tremare. Gli ci vollero alcuni istanti e poi, trattenendo il fiato e spingendo fuori la lingua, cosa essenziale per scassinare con successo una serratura, inserì la scheggia di legno nel lucchetto sul ceppo.
«Per favore non spezzarti!» disse alla scheggia, quindi rammentò che il bastone era stato benedetto dal dio, per cui forse anche la scheggia era benedetta.
E anch’io! si rammentò all’improvviso Nightshade.
«Non credo», mormorò Nightshade, parlando al dio, «che abbiate mai aiutato nessuno a scassinare una serratura prima d’ora, né che abbiate mai inteso aiutare qualcuno a scassinare una serratura prima d’ora, ma per favore, Majere, per favore aiutatemi a farlo!».
Il sudore gli colava lungo il naso. Nightshade fece ruotare la scheggia qua e là nel lucchetto, cercando quella cosa che doveva trovare e che doveva fare clic e aprire il lucchetto. Tutto ciò che sapeva era che l’avrebbe sentita al tatto, l’avrebbe fatta scattare e, in caso di successo, avrebbe udito un rumore secco.
Si concentrò, escludendo da sé ogni altra cosa, e all’improvviso lo inondò una sensazione dolce: una sensazione di gioia, la sensazione che tutto in questo mondo appartenesse a lui, e che se non ci fossero state serrature, né porte chiuse, né segreti, questo mondo sarebbe stato un luogo notevolmente migliore. Sentì la gioia della strada aperta, del non dormire mai due volte nello stesso posto, del trovare una prigione che fosse calda e asciutta e un carceriere simpatico come Gerard. Sentì la gioia dell’imbattersi in cose interessanti che luccicavano, avevano un buon odore o erano morbide o lucenti. Sentì la gioia dei borsellini pieni.
La scheggia toccò ciò che doveva toccare, e qualcosa scattò, e quello fu il rumore più bello dell’universo.
Il ceppo si aprì nella mano di Nightshade.
«Papà!» gridò emozionato. «Papà, hai visto?»
Non aveva il tempo di attendere una risposta, che poteva metterci molto ad arrivare, poiché suo padre da tempo se n’era andato a scassinare serrature in un’altra esistenza. Strisciando sopra le macerie e nell’acqua, e tenendosi stretta la scheggia, Nightshade trovò il ceppo che era serrato attorno all’altro polso di Rhys e spinse la scheggia nel lucchetto e anche questo scattò.
Nightshade impiegò un momento per sollevare la testa di Rhys fuori dall’acqua. Appoggiò Rhys a una pietra e poi cercò nell’acqua finché trovò i piedi di Rhys. Nightshade dovette estrarli da sotto una catasta di macerie ma Atta lo aiutò, e dopo altre abili operazioni di scasso udì altri due scatti immensamente soddisfacenti, e Rhys fu libero.
Un’ottima cosa, poiché ormai il livello dell’acqua nella grotta si era innalzato tanto che, anche con la testa sollevata, Rhys era in pericolo di annegamento.
Nightshade si accovacciò accanto all’amico. «Rhys, se tu adesso potessi svegliarti, sarebbe davvero utile, perché a me fa male la testa, ho le gambe tutte malferme e ci sono tante pietre in mezzo, per non parlare dell’acqua. Non credo di poterti trasportare fuori di qui, per cui se tu potessi alzarti e camminare...»
Nightshade attese speranzoso, ma Rhys non si mosse.
Il kender emise un altro sospiro profondo e poi, infilandosi in tasca la preziosa scheggia, abbassò le mani e afferrò Rhys per le spalle, intendendo trascinarlo sul fondo della grotta.
Ci riuscì per una quindicina di centimetri, poi le braccia gli cedettero e anche le gambe. Si sedette con un tonfo nell’acqua e si deterse il sudore.
Atta ringhiò.
«Non ce la faccio, Atta», mormorò Nightshade. «Mi dispiace. Ci ho provato. Davvero ci ho provato...»
Atta non ringhiava verso di lui. Nightshade udì un rumore di piedi (tantissimi piedi) che sguazzavano nell’acqua. Quindi vi fu una luce vivida che gli fece dolere gli occhi, e sei monaci di Majere, abbigliati con vesti arancioni e con in mano fiaccole ardenti, superarono di corsa il kender.
Due dei monaci tennero le fiaccole. Quattro monaci si chinarono, sollevarono delicatamente Rhys per le braccia e le gambe e lo trasportarono rapidamente fuori della grotta. Atta corse dietro di loro.
Nightshade rimase seduto da solo nel buio, a guardarsi attorno con meraviglia stupita.
La luce delle fiaccole ritornò. Un monaco si mise davanti a lui e lo guardò. «Sei ferito, amico?»
«No», disse Nightshade. «Sì. Forse un po’.»
Il monaco mise una mano fresca sulla fronte di Nightshade. Il dolore scomparve. La forza gli inondò le membra.
«Grazie, fratello», disse Nightshade, consentendo al monaco di aiutarlo a rimettersi in piedi. Si sentiva ancora un po’ malfermo. «Immagino che vi abbia mandati Majere, eh?»
Il monaco non rispose, ma continuò a sorridere, per cui Nightshade, sapendo che nemmeno Rhys parlava molto e presumendo che fosse una cosa normale tra i monaci, prese il silenzio del monaco per un sì.
Mentre Nightshade e il monaco procedevano verso l’ingresso, il kender era immerso nei pensieri, e subito prima che uscissero dalla grotta Nightshade afferrò la manica del monaco e diede uno strattone.
«Io ho parlato a Majere con quello che si potrebbe definire un tono aspro», disse con rimorso Nightshade. «Sono stato piuttosto sfacciato, e potrei avere urtato i suoi sentimenti. Potreste dirgli che mi dispiace?»
«Majere sa che hai parlato per amore del tuo amico», disse il monaco. «Non è in collera. Ti rispetta per la tua fedeltà.»
«Davvero?» Nightshade arrossì di piacere. Quindi si sentì sopraffatto dal senso di colpa. «Mi ha aiutato a scassinare la serratura. Mi ha benedetto. Immagino che dovrei adorarlo, ma non posso. Non mi sembra giusto.»
«Che cosa crediamo non è importante», disse gentilmente il monaco. «L’importante è che crediamo.»
Il monaco si inchinò verso Nightshade, il quale rimase notevolmente turbato da questa dimostrazione di rispetto. A sua volta fece un inchino goffo, piegandosi all’altezza della vita, il che gli fece ruzzolare fuori dalla tasca della camicia diversi oggetti preziosi che lui non ricordava di avere. Si abbassò per ripescarli dall’acqua, e solo quando li ebbe recuperati o li ebbe considerati persi per sempre si rese conto che il monaco e la fiaccola non c’erano più.
Ormai, però, Nightshade non aveva bisogno della luce. Era avvolto in quello strano bagliore d’ambra che aveva notato in precedenza.
Uscì dalla grotta, pensando che mai nella sua vita era stato così contento di uscire da qualunque posto e promettendo solennemente che finché fosse vissuto non avrebbe più messo piede in un’altra grotta. Si guardò attorno, sperando di parlare di nuovo col monaco, poiché non aveva capito bene quella cosa riguardo al credere.
Non c’erano monaci.
Però c’era Rhys, seduto su una collinetta, che cercava di calmare Atta, la quale gli leccava il viso e le mani e gli saliva sopra, facendolo quasi cadere con le sue attenzioni frenetiche.
Nightshade emise un grido di contentezza e corse su per la collina.
Rhys lo abbracciò e lo strinse forte.
«Grazie, amico mio», disse con voce strozzata.
Nightshade sentì di dover tirare su col naso, e l’avrebbe fatto con abbandono, ma in quel momento Atta gli balzò addosso e lo fece cadere a terra, e il naso fu inondato di saliva di cane.
Quando Nightshade finalmente poté togliersi di dosso la cagna emozionata, vide Rhys in piedi che guardava fisso verso il mare, con un’espressione di meraviglia sul volto.
La luce argentea di Solinari brillava fredda su un’isola in mezzo al mare. La luce rossa di Lunitari illuminava una torre, nera sullo sfondo delle stelle, puntata, come un’accusa tenebrosa, contro il cielo.
«Quella lì c’era già prima?» domandò Nightshade, grattandosi la testa e tirandosi via un altro scarafaggio.
«No», disse Rhys.
«Ehi, ragazzi!» esclamò Nightshade, sgomento. «Chissà chi l’ha messa lì?»
E anche se non lo sapeva stava riecheggiando gli dèi.
La prima cosa che Chemosh vide entrando nel suo palazzo fu Ausric Krell, vivo e vegeto e nudo come il giorno in cui era venuto (di sedere) al mondo. Il formidabile cavaliere della morte sedeva rannicchiato in un angolo del grande salone, compiangendo il proprio destino e rabbrividendo.
Udendo l’ingresso del Signore della Morte, Krell balzò in piedi e gridò infuriato: «Guardate che cosa mi ha fatto quella lì, mio signore!». La sua voce si innalzò fino a diventare uno strillo. «Guardate!»
Chemosh guardò e desiderò di non avere guardato. La vista del corpo nudo di quell’uomo di mezza età, villoso, pallido come il ventre di un pesce, panciuto e flaccido, era sufficiente a fare rivoltare lo stomaco perfino a un dio. Guardò torvo Krell con disgusto mescolato a collera.
«Allora Zeboim ti ha beccato», disse freddamente Chemosh. «Dov’è?»
«Zeboim? Non è stata Zeboim!» Krell nella sua furia artigliò l’aria con le mani, come artigliando la carne di qualcuno. «È stata Mina! Mina!»
«Non mentirmi, perdigiorno», disse Chemosh, ma pur respingendo l’affermazione di Krell il Signore della Morte sentì un dubbio terribile oscurargli la mente. «Dov’è Mina? Ancora rinchiusa?»
Krell si mise a ridere. Il suo volto si contorse per il disprezzo e la paura. «Rinchiusa!» ripeté, con l’ilarità che gli gorgogliava in gola come se questa fosse stata la cosa più buffa del mondo.
«Questo disgraziato è impazzito», mormorò Chemosh, e abbandonò il delirante Krell per andare a cercare Mina.
La notte era illuminata da un bagliore d’ambra che inondava le finestre e brillava attraverso le fessure delle pareti e le crepe nella muratura. Chemosh trovava difficile vedere a causa di quella luce sfolgorante e, mentre si schermava gli occhi immortali contro quella luce, i dubbi gli aumentarono.
Si stava dirigendo verso la camera di Mina quando il castello si scosse e i muri tremarono. Un rombo tonante e fragoroso come lui aveva udito solo una volta in precedenza lo fece fermare per lo stupore. L’ultima volta che aveva udito quel rombo era stato quando era nato il mondo. Venivano sollevate le montagne, si intagliavano baratri in mezzo ai monti, e i mari erano bianchi per la spuma e per la gloria della creazione.
Chemosh cercò di vedere che cosa stesse succedendo, ma la luce era troppo intensa. Corse su per le scale uscendo sul parapetto merlato e si fermò di colpo.
Su un’isola di roccia nera appena formatasi sorgeva la Torre del Mare di Sangue. La Torre brillava di un bagliore d’ambra, e lì vi era Mina, in piedi davanti a lui con le braccia allargate, e alla vista abbagliata di Chemosh parve che Mina tenesse la torre fra le mani. Quindi Mina crollò sulla pietra e rimase lì immobile.
Chemosh poté soltanto restare a guardare.
Zeboim si sollevò dal mare, percorse l’etere e venne a mettersi in piedi sopra Mina.
I tre cugini abbandonarono le loro dimore celesti e discesero per guardare Mina.
L’uomo-toro, Sargonnas, scavalcò il muro del castello e si piantò nel cortile guardando torvo Chemosh. Comparve pure Kiri-Jolith, armato e abbigliato per la battaglia; e la Signora Bianca, Mishakal, bellissima e forte, al suo fianco. Arrivò Habbakuk, e Branchala con la sua arpa, e il vento toccò le corde e ne ricavò un suono mesto.
Morgion rimase nell’ombra, osservando tutti quanti con disprezzo ma trovandosi qui comunque, fra di loro. Chislev, Shinare, Simon erano assieme, accomunati dalla meraviglia. Reorx si accarezzava la barba. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi sentendo il peso del silenzio il dio dei nani richiuse di scatto la bocca e parve a disagio. Hiddukel aveva l’aria arcigna e nervosa, nella certezza che la cosa sarebbe stata negativa per gli affari. Zivilyn e Gilean arrivarono per ultimi, impegnati in una conversazione, ma si zittirono quando videro gli altri dèi.
«Manca uno di noi», disse Gilean, e il suo tono era terribile. «Dov’è Majere?»
«Sono qui.» Majere camminò lentamente in mezzo a loro, senza dirigere lo sguardo su nessuno. Guardò soltanto Mina e sul suo volto vi era un dolore inesprimibile.
«Zivilyn mi dice che tu ne sai qualcosa.»
Majere continuò a guardare Mina. «Sì, Dio del Libro.»
«Da quando lo sai?»
«Da molti, molti eoni, Dio del Libro.»
«Perché tenerlo segreto?» domandò Gilean.
«Non stava a me svelarlo», rispose Majere. «Ho dato il mio giuramento solenne.»
«A chi?» domandò Gilean.
«A qualcuno che non è più tra noi.»
Gli dèi rimasero in silenzio.
«Presumo che tu intenda Paladine», affermò Gilean. «Ma ce n’è un’altra che non è più tra noi. Questo ha qualcosa a che vedere con lei?»
«Takhisis?» Majere parlò aspramente. La sua voce si indurì. «È lei responsabile di tutto questo.»
Parlò Chemosh: «Le sue ultime parole, prima che il Dio Supremo venisse a prenderla, sono state queste: "State commettendo un errore! Ciò che io ho fatto non può essere disfatto. La maledizione è su di voi.
Se distruggete me distruggete voi stessi"».
«Perché non ce l’hai detto?» ruggì Sargonnas.
«Lei lanciava sempre minacce.» Chemosh alzò le spalle. «Perché questa doveva essere diversa?»
Gli altri dèi non sapevano che rispondere. Rimasero in silenzio, in attesa.
«La colpa è mia», disse alla fine Majere. «Io ho agito per il meglio, o così credevo.»
Mina giaceva fredda e immobile. Chemosh voleva andare da lei, ma non poteva, non certo con tutti loro a osservarlo. Domandò a Majere: «È morta?».
«Non è morta, perché non può morire.» Majere guardò ognuno di loro, l’uno dopo l’altro. «Siete stati ciechi, ma adesso vedete la verità.»
«Vediamo, ma non capiamo.»
«Invece sì», disse Majere. Congiunse le mani e guardò verso il firmamento. «Non volete capire.»
Non vedeva le stelle. Vedeva la prima luce delle stelle.
«È cominciato all’inizio del tempo», disse, «ed è cominciato con gioia». Sospirò profondamente. «Adesso, poiché io non ho parlato, potrebbe finire con aspro dolore.»
«Spiegati, Majere!» ringhiò Sargonnas. «Non abbiamo tempo per le tue ciance!»
Majere spostò lo sguardo dall’inizio del tempo al presente. Guardò i suoi compagni.
«Non vi serve nessuna spiegazione. Potete vedere da soli. Mina è una dea. Una dea che non sa di essere una dea. È una dea ingannata da Takhisis, che l’ha convinta di essere una mortale.»
«Una dea delle tenebre!» disse Sargonnas, esultante.
Majere fece una pausa. Quando parlò, teneva la voce bassa per il dolore. «È stata ingannata da Takhisis che l’ha convinta a mettersi al servizio delle tenebre. Lei è – o era – una dea della luce».