PARTE PRIMA Nel nome di Chemosh

Prologo

Timothy Tanner non era un uomo cattivo, soltanto debole.

Aveva una moglie, Getta, e un figlio neonato, che era sano e grazioso. Timothy li amava teneramente entrambi e avrebbe dato la vita per loro. Ma proprio non riusciva a restare fedele. Si sentiva terribilmente in colpa per via del proprio «sfarfallare», come lo chiamava lui, e quando arrivò il neonato Timothy si ripromise di non guardare più alcuna altra donna.

Trascorsero tre mesi e Timothy mantenne la sua promessa. Effettivamente respinse un paio di sue precedenti amanti, dicendo loro che era un uomo cambiato, e sembrava proprio che fosse così, poiché veramente adorava il figlio e provava per la moglie tanto amore e gratitudine.

Poi un giorno entrò nella sua bottega Lucy Wheelwright.

Pur provenendo da una famiglia di conciatori, Timothy era stato apprendista presso un calzolaio e adesso si guadagnava da vivere fabbricando stivali e scarpe di cuoio.

«Vorrei sapere se questa scarpa si può aggiustare», disse Lucy.

Posò il piede su uno sgabello dalle gambe corte e si tirò su la gonna ben oltre il ginocchio scoprendo una gamba molto ben tornita e anche dell’altro.

«Ebbene, mastro calzolaio?» disse maliziosamente.

Timothy distolse a forza lo sguardo dalla gamba per osservare la scarpa. Era nuovissima. Timothy alzò lo sguardo sulla donna, che gli sorrise. Abbassando la gonna, Lucy si chinò, fingendo di allacciarsi la scarpa, ma offrendogli nel frattempo un panorama del seno prosperoso. Timothy notò sopra il seno sinistro un marchio strano: sembrava il bacio di due labbra. Si immaginò di accostare le proprie labbra a quel punto, e trattenne il respiro.

Lucy era una delle ragazze più carine di Solace e anche una delle più inavvicinabili, anche se vi erano dicerie...

Era sposata, come Timothy. Suo marito era un bestione di uomo, fortemente geloso.

Lucy si drizzò, risistemandosi la camicetta e dando un’occhiata alla porta. «Potresti forse sistemare subito questa scarpa? Ne ho bisogno veramente. Un bisogno acuto...»

«E tuo marito?» Timothy tossì.

«È via per una partita di caccia. Inoltre tu potresti sbarrare la porta, così nessuno interromperà il tuo lavoro.»

Timothy pensò alla moglie, al figlio, ma loro non erano qui e Lucy sì. Timothy si alzò dalla panca e andò alla porta, chiudendola e sbarrandola. Era quasi mezzogiorno; i clienti avrebbero pensato che lui fosse andato a casa per il pranzo.

Tanto per essere sicuro, condusse Lucy nel ripostiglio. Mentre ancora attraversavano la bottega, lei lo baciava, lo accarezzava, gli slacciava la camicia, armeggiava con le mani sui suoi calzoni alla zuava. Timothy non aveva mai conosciuto una donna tanto ardente, ed era consumato dalla passione. Ruzzolarono su una catasta di pelli. Lucy si contorse per liberarsi della camicetta, e lui le baciò un punto sul seno giusto sopra a quella strana voglia con la forma di due labbra.

Lucy gli mise la mano sulla bocca. «Voglio che tu faccia una cosa per me, Timothy», disse, col respiro affannoso.

«Qualunque cosa!» Premette il corpo più vicino al suo.

Lei lo tenne a bada. «Voglio che tu ti offra a Chemosh.»

«Chemosh?» Timothy rise. Era un momento particolarmente inopportuno per parlare di religione! «Il dio della morte? Che cosa ti ci fa pensare?»

«Solo un mio capriccio», disse Lucy, avvolgendosi più volte attorno al dito i capelli di lui. «Io sono una sua seguace. Lui è il dio della vita, non della morte. Quegli orrendi chierici di Mishakal dicono di lui queste cose cattive. Tu non devi crederci.»

«Non so...» A Timothy tutto questo pareva molto strano.

«Tu vuoi farmi contenta, vero?» disse Lucy, baciandogli il lobo dell’orecchio. «Io sono molto grata agli uomini che mi fanno contenta.»

Gli passò le mani sul corpo. Era abile, e Timothy gemette di desiderio.

«Ti basta pronunciare le parole "io mi offro a Chemosh"», sussurrò Lucy. «In cambio avrai vita eterna, giovinezza eterna, e avrai me. Noi potremo fare l’amore così ogni giorno, se lo desideri.»

Timothy non era un uomo cattivo, soltanto debole. Non aveva mai desiderato una donna tanto quanto desiderava Lucy in quel momento. Non era poi tanto religioso, e non vedeva che male ci fosse nel promettersi a Chemosh se questo rendeva felice Lucy.

«Io mi offro a Chemosh... e a Lucy», disse con tono canzonatorio.

Lucy gli sorrise e gli premette le labbra sul lato sinistro del petto, sopra il cuore.

Timothy fu scosso da un dolore terribile. Il cuore gli prese a battere in maniera tumultuosa e irregolare. Il dolore gli arse nelle braccia e nel tronco e nelle gambe. Timothy cercò freneticamente di spingere via Lucy, ma lei aveva una forza incredibile e lo teneva inchiodato e continuava a premergli le labbra sul petto. Il cuore di Timothy ebbe un sobbalzo. L’uomo cercò di urlare, ma non ne ebbe il fiato. Il corpo gli rabbrividì, fu preda di convulsioni e si irrigidì, mentre il dolore, come la mano di un dio malvagio, lo prendeva e lo contorceva, lo tormentava, lo frantumava e lo trasportava nell’oscurità.


Timothy uscì dall’oscurità. Entrò in un mondo che pareva tutto un crepuscolo. Vide oggetti che gli sembravano familiari, ma non riusciva a collocarli. Sapeva dove si trovava, ma non gli importava. Non gli interessava. La donna che era stata con lui non c’era più. Timothy cercò di ricordarne il nome, ma non ci riuscì.

Nella sua mente vi era soltanto un nome, e lui sussurrò quel nome: «Mina...»

La conosceva, anche se non l’aveva mai incontrata. Aveva bellissimi occhi d’ambra.

«Vieni da me», disse Mina. «Il mio signore Chemosh ha bisogno di te.»

«Verrò», promise Timothy. «Dove ti trovo?»

«Segui la strada verso il sorgere del sole.»

«Vuoi dire andarmene di casa? No, non posso...»

Il dolore pugnalò Timothy, un dolore orribile che era come il dolore del morire.

«Segui la strada verso il sorgere del sole», disse Mina.

«Va bene!» ansimò Timothy, e il dolore si alleviò.

«Portami dei discepoli», gli disse Mina. «Offri agli altri il dono che è stato offerto a te. Non morirai mai, Timothy. Non invecchierai mai. Non conoscerai mai la paura. Offri agli altri questo dono.»

Gli venne in mente un’immagine di sua moglie. Timothy aveva la vaga idea di non voler fare tutto questo, di poter causare un dolore terribile a Gerta se le avesse fatto questo. Non voleva...

Il dolore lo lacerò, lo piegò e lo contorse.

«Va bene, Mina!» gemette. «Va bene!»


Timothy tornò a casa dalla sua famiglia. Il bambino dormiva nella culla, per il pisolino pomeridiano. Timothy non prestò attenzione al figlio. Non si ricordava che fosse suo figlio. Non gliene importava nulla. Vedeva soltanto sua moglie e udiva soltanto quella voce, la voce di Mina, che gli diceva: «Portami lei...».

«Mio caro!» lo salutò Gerta, compiaciuta ma sorpresa. «Che ci fai a casa? Siamo a metà giornata!»

«Sono tornato a casa per stare con te, amore mio», disse Timothy. La cinse con le braccia e la baciò. «Vieni a letto, moglie.»

«Tim!» Gerta ridacchiò e cercò con poca convinzione di respingerlo. «È ancora chiaro!»

«Che importa?» Lui la baciava, la toccava, e la sentì sciogliersi tra le sue braccia.

Gerta oppose un’ultima fievole protesta: «Il bambino...».

«Dorme. Vieni.» Timothy trascinò la moglie sul letto. «Lascia che ti dimostri il mio amore!»

«Lo so che mi ami», disse Gerta e si rannicchiò accanto a lui, cominciando a rispondere ai suoi baci.

Gerta prese a slacciargli la tunica, ma lui le afferrò le mani e gliele strinse.

«C’è una cosa che devi fare per dimostrare che mi ami, moglie. Ultimamente sono diventato un seguace del dio Chemosh. Voglio che tu condivida la gioia che io ho scoperto nel seguire questo dio.»

«Ma certo, marito mio, se è questo che vuoi», disse Gerta. «Ma io non so niente degli dèi. Che razza di dio è questo Chemosh?»

«Il dio della vita eterna», disse Timothy. «Vuoi prometterti a lui?»

«Farò qualunque cosa per te, marito mio.»

Timothy aprì la bocca per dire qualcosa, poi si fermò. Gerta percepì in lui una qualche lotta interiore. Il volto di Timothy si contorse per il dolore.

«Che ti succede?» domandò Gerta, allarmata.

«Niente!» ansimò lui. «Un crampo al piede. Tutto qui. Pronuncia le parole: "Io mi offro a Chemosh".»

Gerta ripeté le parole e soggiunse: «Ti amo».

Allora Timothy disse qualcosa di molto strano mentre si chinava e premeva le labbra sul seno sinistro di lei, sopra il cuore.

«Perdonami...»

1

Sotto gli occhi sbalorditi di Ausric Krell, cavaliere della morte, il pezzo del khas con la forma di un kender bianco sfrecciò sul tabellone, balzò tutto piegato in avanti contro il pezzo del khas con la forma di un cavaliere nero di Ausric e lottò a corpo a corpo con quest’ultimo. Entrambi i pezzi caddero dal tabellone e presero a rotolare qua e là sul pavimento.

«Ehi! Questo è contro le regole», fu il primo pensiero risentito di Krell.

Il secondo e più stupefatto pensiero fu: «Non ho mai visto prima d’ora un pezzo del khas fare così».

Il terzo pensiero fu accompagnato da un barlume di rivelazione: «Questo non è un pezzo del khas normale».

Il quarto pensiero fu profondamente sospettoso: «Qui sta succedendo qualcosa di strano».

I suoi pensieri successivi furono confusi, indubbiamente a causa del fatto che Ausric era impegnato in una battaglia per salvare la propria vita di morto vivente contro un’orribile mantide gigante.

Krell aveva sempre detestato gli insetti, e questa particolare mantide era davvero terrificante, poiché era alta tre metri e aveva occhi tondeggianti, una corazza verde e sei enormi zampe verdi, due delle quali afferrarono Krell mentre le mandibole gli stringevano lo spirito che si faceva piccolo per la paura, e incominciavano a masticargli il cervello.

Dopo un momento orripilante Krell si rese conto che questo non era un insetto normale. Da qualche parte in tutto questo era mescolato un dio, un dio a cui lui non piaceva granché. Non era niente di straordinario. Krell durante la sua vita era riuscito a offendere diversi dèi, compresa la defunta e non compianta Takhisis, Regina delle Tenebre, e la sua figlia caotica e vendicativa, la dea del mare Zeboim, la quale si era risentita quando aveva scoperto che Krell era responsabile del tradimento e dell’assassinio dell’amato figlio della dea, Lord Ariakan.

Zeboim aveva catturato Krell e l’aveva ucciso lentamente, facendo le cose con calma. Quando alla fine nel corpo straziato di Krell non rimase più alcuna scintilla di vita, Zeboim l’aveva maledetto trasformandolo in un cavaliere della morte e imprigionandolo sull’isola sperduta ed esecranda chiamata Bastione della Tempesta, dove un tempo lui era stato al servizio dell’uomo che aveva tradito, e dove avrebbe ora vissuto la sua esistenza eterna con il ricordo del suo crimine sempre davanti agli occhi.

La punizione di Zeboim non aveva avuto precisamente l’effetto da lei sperato. Un altro famoso cavaliere della morte, Lord Soth, era stato una figura tragica, consumata dal rimorso e alla fine in grado di trovare la salvezza. A Krell, invece, piaceva abbastanza essere un cavaliere della morte. Aveva trovato nella morte ciò che gli era sempre piaciuto in vita: la capacità di angariare e tormentare quelli che erano più deboli di lui. In vita, quel guastafeste di Ariakan aveva impedito a Krell di indulgere nei suoi piaceri sadici. Adesso Krell era uno degli esseri più potenti di Krynn e ne approfittava con gioia.

La sola vista di Krell con l’armatura nera e l’elmo dalle corna d’ariete, dietro al quale ardevano gli occhi rossi da morto vivente, infondeva terrore nel cuore di quanti erano tanto sciocchi o intrepidi da avventurarsi sul Bastione della Tempesta alla ricerca del tesoro presumibilmente abbandonato dai cavalieri. Krell apprezzava enormemente questa compagnia. Costringeva le sue vittime a giocare a khas con lui, ravvivando il gioco con la loro tortura finché non soccombevano.

Zeboim era stata una seccatura, l’aveva tenuto prigioniero sul Bastione della Tempesta finché lui aveva attirato l’attenzione di Chemosh, Signore della Morte. Krell aveva stretto un patto con Chemosh e aveva guadagnato la libertà dal Bastione della Tempesta. Con Chemosh a proteggerlo, Krell aveva potuto perfino fare marameo a Zeboim, premendosi il naso imputridito.

Chemosh aveva in suo possesso l’anima di Lord Ariakan, amato figlio della dea del mare. L’anima era intrappolata in un pezzo del khas. Chemosh teneva in ostaggio quell’anima per garantirsi un «buon comportamento» da parte di Zeboim. Chemosh aveva dei progetti su una certa torre ubicata nel Mare di Sangue, e non voleva che la dea del mare si intromettesse.

Zeboim, furibonda, aveva inviato al Bastione della Tempesta un suo fedele (un certo monaco disgraziato) per salvare suo figlio. Krell aveva scoperto il monaco che curiosava in giro e, sempre felice di ricevere visite, aveva «invitato» il monaco a giocare a khas con lui.

Per essere giusti con Krell, lui non sapeva che il monaco fosse stato inviato dalla dea. Il pensiero che il monaco potesse essere lì per rubare il pezzo del khas contenente l’anima di Ariakan non si insinuò mai nel cervello di Krell, un cervello che dichiaratamente non era tanto grande già per cominciare e adesso era ulteriormente ostacolato dal fatto di essere racchiuso in un elmo d’acciaio ponderoso e temibile; un cervello su cui ora banchettava un insetto gigantesco, inviato da un dio.

Il dio appoggiava questo malefico monaco, un monaco che non aveva giocato lealmente. Primo, il monaco aveva portato con sé un pezzo del khas irregolare; secondo, quel pezzo del khas aveva compiuto una mossa illegale; terzo, il monaco, invece di contorcersi e gemere per il dolore dopo che Krell gli aveva spezzato diverse dita, aveva attaccato fisicamente il cavaliere della morte con un bastone che si era rivelato essere un dio.

Krell combatté contro la mantide accecato dal panico, portando pugni e calci e agitando le braccia contro l’insetto finché questo all’improvviso scomparve.

Il bastone del monaco era di nuovo un bastone, steso a terra. Krell era pronto a calpestarlo per ridurlo in frammenti quando gli venne un quinto pensiero.

Supponiamo che toccare il bastone lo faccia trasformare di nuovo in insetto?

Tenendo d’occhio guardingo il bastone, Krell compì un’ampia deviazione attorno a questo mentre valutava la situazione. Il monaco era scappato. Questo poteva aspettarselo. Krell l’avrebbe sistemato più tardi. Dopo tutto, non sarebbe andato da nessuna parte, non certo via da questo scoglio maledetto. La massiccia fortezza sorgeva in cima a dirupi scoscesi graffiati dalle onde sferzanti del mare turbolento. Krell raddrizzò il tabellone rovesciato dal monaco. Raccolse i pezzi, giusto per accertarsi che il prezioso pezzo del khas donatogli da Chemosh fosse al sicuro.

Non lo era.

Febbrilmente Krell sistemò tutti i pezzi sul tabellone del khas. Ne mancavano due, uno dei quali era il pezzo del khas contenente l’anima di Ariakan: il pezzo del khas che Chemosh aveva ordinato a Krell di custodire a prezzo della propria vita di morto vivente.

Al cavaliere della morte vennero i sudori freddi, non certo una cosa facile da farsi quando non si ha carne che rabbrividisca, né cuore che palpiti, né visceri che si contraggano. Krell cadde in ginocchio. Scrutò sotto il tavolo e cercò a tentoni con le mani. Il pezzo con la forma di cavaliere non c’era; e neanche il kender.

«Il monaco!» ringhiò Krell.

Spronato dall’immagine vivida di quello che gli avrebbe fatto Chemosh se lui avesse perduto il pezzo del khas contenente l’anima di Lord Ariakan, Krell si lanciò all’inseguimento.

Non prevedeva che durasse a lungo. Il monaco era menomato, tanto nelle ossa quanto nello spirito. Poteva a malapena camminare, tanto meno correre.

Krell uscì dalla torre, dove stava giocando una partita tanto comoda e amichevole finché il monaco non l’aveva rovinata, e arrivò nel cortile centrale della fortezza. Vide subito che il monaco aveva un’alleata: Zeboim, la dea del mare. Alla vista di Krell, nel cielo si radunarono dense nubi temporalesche, e un fulmine sfrigolante colpì la torre che lui aveva appena lasciato.

Krell non era uno dei grandi pensatori intellettuali del mondo, ma di quando in quando aveva qualche sprazzo di genialità disperata.

«Giù le mani da me, Zeboim!» urlò Krell. «Il vostro monaco ha rubato il pezzo sbagliato del khas! Vostro figlio è ancora in mio possesso. Se farete qualcosa per aiutare il ladro a fuggire, Chemosh fonderà il vostro bel ragazzo di peltro e gli martellerà l’anima fino all’oblio!»

Lo stratagemma di Krell funzionò. I fulmini balenarono incerti di nuvola in nuvola. Il vento si smorzò. Il cielo si fece cupo. Alcuni chicchi di grandine tintinnarono sull’elmo d’acciaio di Krell. La dea sputò pioggia su di lui, e tutto finì lì.

La dea non osava fargli niente. Non si azzardava a venire in aiuto del monaco.

Quanto al monaco, si arrampicava arditamente sulle rocce, cercando invano di sfuggire a Krell. All’uomo si accasciarono le spalle. Gemette cercando di respirare. Era quasi spacciato. La sua dea l’aveva abbandonato. Krell si aspettava che il monaco rinunciasse, si arrendesse, cadesse in ginocchio e supplicasse per salvarsi la miserabile vita. Era quello che aveva fatto lo stesso Krell in una situazione analoga. Per lui non aveva funzionato, e non avrebbe funzionato neanche per questo monaco.

Di nuovo il monaco non giocò lealmente. Anziché arrendersi, si arrampicò con le ultime forze fin sul ciglio del dirupo.

Madre dell’Abisso! Krell capì, sconvolto. Quel bastardo vuole saltare giù!

Se fosse saltato, avrebbe portato con sé il pezzo del khas, e non ci sarebbe stato modo per Krell di recuperarlo. Lui non aveva alcuna intenzione di andare a nuotare in acque infestate da Zeboim.

Krell doveva afferrare il monaco e impedirgli di saltare. Purtroppo non si sarebbe rivelato un compito facile da eseguire. Con la figura corpulenta racchiusa nell’armatura e nella cotta di maglia di un cavaliere della morte, Krell si muoveva in modo goffo e pesante. Non poteva correre.

L’armatura di Krell sferragliava e cigolava. I suoi passi pesanti facevano tremare il terreno. Krell osservava, con terrore crescente, il monaco che lo distanziava.

Krell trovò un’alleata inattesa in Zeboim. Anche la dea temeva per il pezzo del khas che il monaco aveva con sé. Cercò di fermarlo. Martellò il monaco con la pioggia e gli fece perdere l’equilibrio con una folata di vento. Quel monaco disgraziato si rialzò e proseguì.

Raggiunse il ciglio del dirupo. Krell sapeva che cosa vi fosse lì sotto: un salto di venti metri su aguzzi macigni di granito.

«Fermatelo, Zeboim», gridò infuriato Krell. «Se non lo farete, ve ne pentirete!»

Il monaco teneva in mano una bisaccia di cuoio. Si infilò la bisaccia nel pettorale della veste macchiata di sangue.

Krell si arrampicò con difficoltà incespicando fra le rocce, imprecando e agitando la spada.

Il monaco salì su una sporgenza che si protendeva sul mare. Sollevò il viso verso il cielo velato dalla tempesta e illuminato a giorno dalla paura della dea.

«Zeboim», gridò il monaco, «siamo nelle vostre mani».

Krell ruggì.

Il monaco saltò.

Krell avanzò annaspando fra le rocce, e per lo slancio si spinse avanti a un ritmo tanto frenetico che prima di rendersene conto si ritrovò sul ciglio del dirupo e quasi precipitò anche lui in mare.

Krell traballò avanti e indietro per quello che sarebbe stato un momento da cardiopalmo, se lui avesse avuto un cuore, prima di riguadagnare frettolosamente l’equilibrio. Vacillò all’indietro di diversi passi e poi, avanzando di pochi centimetri per volta, sbirciò con prudenza oltre il ciglio. Si aspettava di vedere il corpo straziato del monaco steso scompostamente sugli scogli, con Zeboim a leccargli il sangue.

Niente.

«Sono fregato», mormorò malinconicamente Krell.

Guardò il cielo, dove le nubi si facevano più scure e più dense. Il vento prese ad alzarsi. La pioggia incominciò a riversarsi su di lui, assieme a chicchi di grandine e fulmini, nevischio e neve, e grossi pezzi di una vicina torre.

Krell sarebbe potuto correre da Chemosh per farsi proteggere, ma purtroppo Chemosh era il dio che aveva dato a Krell quel pezzo del khas per salvaguardarlo: il pezzo del khas che Krell adesso aveva perso. Il Signore della Morte non era noto per essere misericordioso né incline al perdono.

«Da qualche parte su quest’isola», arguì Krell, mentre evitava per un pelo di essere schiacciato da una gargouille di pietra che gli sfrecciò accanto, «deve esserci una fossa abbastanza profonda e abbastanza buia dove nessun dio possa trovarmi».

Krell girò sui tacchi e si incamminò a passi goffi e pesanti in mezzo all’infuriare della tempesta.

2

Era Rhys Mason il monaco che aveva preso la decisione disperata di saltare giù dal dirupo del Bastione della Tempesta. Era un azzardo, rischiare la propria vita e quella del suo amico kender, Nightshade, puntando sul fatto che Zeboim non li avrebbe lasciati morire. Non poteva lasciarli morire, poiché Rhys aveva in possesso l’anima del figlio della dea.

Per lo meno, questo è quanto sperava Rhys. In mente aveva anche il pensiero che se la dea l’avesse abbandonato lui sarebbe morto lentamente e nei tormenti secondo il capriccio crudele del cavaliere della morte, oppure rapidamente sugli scogli sottostanti.

Per pura fortuna, Rhys saltò nell’acqua in una zona attorno al Bastione della Tempesta che era priva di scogli. Precipitò in mare, affondando tanto da lasciarsi molto al di sopra la luce del giorno. Si dibatté nell’oscurità che gli gelava le ossa, senza avere modo di dire da quale parte fosse l’alto e da quale il basso. Non che importasse, comunque. Rhys non avrebbe mai potuto raggiungere la superficie. Stava annegando, i polmoni gli scoppiavano. Quando avesse aperto la bocca, avrebbe aspirato la morte, gorgogliante, soffocante...

La mano immortale di una dea furiosa si immerse nelle profondità del suo mare, afferrò Rhys Mason per la collottola, lo tirò fuori dal mare e lo scagliò a riva.

«Come osi mettere in pericolo mio figlio?» gridò la dea.

Continuò a infuriarsi, ma Rhys non la udiva. La furia della dea gli si richiuse sopra la testa come le acque scure del mare, e Rhys non seppe più nulla.


Rhys giaceva a faccia in giù sulla sabbia calda. La sua veste da monaco era inzuppata, così come le scarpe. I capelli fradici gli rigavano il viso. Aveva le labbra contornate di sale, come pure l’interno della bocca e la gola. Ebbe un conato, vomitò e si sforzò di respirare.

All’improvviso mani forti presero a martellarlo sulla schiena e gli fecero oscillare le braccia sopra la testa, muovendogli le braccia in su e in giù con un’azione a pompa per spingergli l’aria fuori dai polmoni.

Tossendo, Rhys sputò dalla bocca acqua marina.

«Era ora che rinvenissi», disse Zeboim, continuando a strattonarlo e a pomparlo.

Gemendo, Rhys riuscì a gracchiare: «Basta! Per favore!». Rigurgitò dell’altra acqua.

La dea lo mollò, lasciandogli cadere le braccia flosce sulla sabbia.

A Rhys bruciavano gli occhi per il sale. Riusciva a malapena ad aprirli. Sbirciò da sotto le palpebre semichiuse vedendo accanto alla propria testa l’orlo di una lunga veste verde incresparsi sulla sabbia. Il dito di un piede nudo e tornito lo pungolò.

«Dov’è lui, monaco?» domandò Zeboim.

La dea si inginocchiò accanto a lui. I suoi occhi verde-azzurro ardevano. Un vento incessante le agitava i capelli di spuma di mare. La dea afferrò Rhys per i capelli, gli strattonò la testa sollevandogliela da terra e lo guardò furiosa negli occhi.

«Dov’è mio figlio?»

Rhys cercò di parlare. Aveva la gola dolorante e riarsa. Si passò la lingua sulle labbra ricoperte di sale e disse con voce stridula: «Acqua!».

«Acqua!» si infiammò Zeboim. «Ti sei inghiottito metà del mio mare! Oh, benissimo», soggiunse stizzita, mentre Rhys chiudeva gli occhi e ricadeva floscio sulla sabbia. «Ecco. Non berne troppa, se no vomiti di nuovo. Sciacquati la bocca e basta.»

Con la mano lo sostenne mentre gli accostava alle labbra una coppa di acqua fresca. La dea sapeva avere un tocco delicato quando voleva. Rhys sorseggiò grato quel liquido fresco. La dea gli passò la punta delle dita umide sulle labbra e sulle palpebre, tirandogli via il sale.

«Ecco», disse con tono calmante Zeboim. «Hai avuto la tua acqua.» La voce le si indurì. «Adesso smettila di cincischiare. Voglio mio figlio.»

Mentre faceva per infilare una mano nel petto sotto la veste dove aveva sistemato la bisaccia di cuoio, Rhys fu percorso da una fitta di dolore e rimase senza fiato. Sollevò le mani. Aveva le dita violacee e gonfie e piegate a strane angolazioni. Non riusciva a muoverle.

Zeboim lo guardò tirando su col naso.

«Io non sono la dea della guarigione, se è questo che pensi!» disse freddamente.

«Non vi ho chiesto di guarirmi, vostra maestà», ribatté Rhys a denti stretti.

Lentamente si infilò una mano ferita dentro la veste e sospirò di sollievo nel percepire al tatto il cuoio umido. Aveva temuto di avere perso la bisaccia durante il tuffo giù dal dirupo. Armeggiò con la borsa, ma le dita spezzate non funzionavano abbastanza bene da consentirgli di aprirla.

La dea gli prese le mani e, un dito dopo l’altro, gli strattonò le ossa rimettendogliele a posto. Il dolore era lancinante. Rhys per un attimo temette di perdere i sensi. Quando la dea ebbe finito, però, le ossa spezzate si erano riaggiustate. I lividi scomparvero. Il gonfiore prese a recedere. Zeboim aveva il suo tocco guaritore, a quanto pareva.

Rhys rimase disteso sulla sabbia, bagnato di sudore, ad attendere che gli passasse la nausea.

«Ti avevo avvertito», disse serenamente Zeboim. «Io non sono Mishakal.»

«No, maestà», mormorò Rhys. «Grazie lo stesso.»

Infilò le mani guarite dentro la veste e ne estrasse la borsa di cuoio. Aprendone il cordone di chiusura, rovesciò la bisaccia. Caddero fuori sulla sabbia due pezzi del khas: un cavaliere nero in groppa a un drago azzurro e un kender.

Zeboim afferrò il cavaliere nero. Tenendolo in mano, accarezzò amorevolmente la figura e le parlò cantilenando. «Figlio mio! Figlio mio carissimo! La tua anima sarà liberata. Andremo subito da Chemosh.»

Vi fu una pausa, come se la dea stesse ascoltando, poi Zeboim disse, con voce alterata: «Non discutere con me, Ariakan. La mamma sa che cosa è meglio!».

Cullando tra le mani il pezzo del khas, Zeboim si alzò. Le nubi temporalesche oscurarono il cielo. Il vento si levò, soffiando sabbia pungente negli occhi di Rhys.

«Non andatevene ancora, maestà!» gridò disperatamente. «Togliete l’incantesimo al kender!»

«Quale kender?» domandò noncurante Zeboim. Sbuffi di nuvole si avvolsero a spirale attorno a lei, pronti a condurla via.

Rhys balzò in piedi. Afferrò il pezzo a forma di kender e lo tenne davanti alla dea.

«Il kender ha rischiato la vita per voi», disse Rhys, «come ho fatto io. Ponetevi questa domanda, maestà: perché Chemosh dovrebbe liberare l’anima di vostro figlio?».

«Perché? Perché io lo ordino, ecco perché!» ribatté Zeboim, seppure non col suo spirito consueto. Appariva incerta.

«Chemosh ha fatto tutto questo per un motivo, maestà», disse Rhys. «Lo ha fatto perché vi teme.»

«Certo che sì», ribatté Zeboim, alzando le spalle. «Tutti mi temono.»

Esitò e poi disse: «Ma non mi dispiace sentire quello che tu hai da dire in proposito. Perché pensi che Chemosh mi tema?».

«Perché siete venuta a sapere troppe cose riguardo ai Prediletti, quei terribili morti viventi che lui ha creato. Siete venuta a sapere troppe cose riguardo a quella donna, Mina, che li comanda.»

«Hai ragione. Quella ragazzetta, Mina. Mi ero completamente dimenticata di lei.» Zeboim rivolse a Rhys un’occhiata di riluttante riconoscenza. «Hai anche ragione sul fatto che il Signore della Morte non libererà l’anima di mio figlio, non certo senza costrizione. Mi serve qualcosa per forzargli la mano. Mi serve Mina. Tu devi trovarla e portarla da me. Il compito, ti ricordo, che ti avevo assegnato inizialmente.»

Zeboim lo guardò con occhio torvo. «Allora perché non l’hai eseguito?»

«Stavo salvando vostro figlio, maestà», disse Rhys. «Riprenderò le ricerche, ma per trovare Mina necessito dei servigi del kender...»

«Quale kender?»

«Questo kender. Nightshade, maestà», disse Rhys, sollevando il pezzo del khas che agitava freneticamente le minuscole braccia. «Il kender "nightstalker".»

«Oh, benissimo!» Zeboim gettò sabbia sul pezzo del khas, e Nightshade, in tutti i suoi 135 centimetri, sbocciò a fianco di Rhys.

«Riportami alla normalità!» stava gridando il kender.

Si guardò attorno e sbatté gli occhi. «Oh, ce l’hai fatta! Fiuuu! Grazie!»

Nightshade si diede dei colpetti dappertutto. Si portò la mano alla testa per accertarsi che il ciuffo ci fosse ancora, ed era così. Si guardò la camicia per accertarsi di averla ancora ed era così. Aveva anche i calzoni alla zuava, del suo colore preferito, viola, o per lo meno erano stati un tempo viola. Adesso avevano uno strano color malva. Strizzò l’acqua da camicia, calzoni e ciuffo, e si sentì meglio.

«Non mi lamenterò mai più di essere basso di statura», confidò a Rhys con tono accorato.

«Se è tutto quello che posso fare per voi due», disse caustica Zeboim, «ho degli affari urgenti...».

«Ancora una cosa, maestà», disse Rhys. «Dove siamo?»

Zeboim diede un’occhiata assente attorno. «Siete su una spiaggia sul mare. Come potrei sapere dove? Per me è tutto uguale. Io non presto attenzione a queste cose.»

«Noi dobbiamo tornare a Solace, maestà», disse Rhys, «per cercare Mina. Lo so che avete fretta, ma se poteste soltanto condurci là...».

«E vorreste che vi riempissi le tasche di smeraldi?» domandò Zeboim arricciando le labbra con sarcasmo. «E donarvi un castello prospiciente le coste del Mare di Sirrion?»

«Sì!» gridò con entusiasmo Nightshade.

«No, maestà», disse Rhys. «Ci basta che ci riportiate a...»

Si interruppe perché non vi era più alcuna dea ad ascoltarlo. Vi erano soltanto Nightshade, diverse persone dall’aria estremamente sbalordita e un poderoso albero di vallen che sui rami robusti reggeva un edificio col tetto a due spioventi.

Squarciò l’aria un abbaiare gioioso. Un cane bianco e nero si slanciò dal pianerottolo sui cui stava sonnecchiando al sole. Il cane scese ruzzolando dalle scale, scansando le gambe della gente, quasi mandando a gambe all’aria più di qualcuno.

Sfrecciando sul prato, Atta si lanciò verso Rhys e gli balzò fra le braccia.

Rhys afferrò quel corpo peloso che si dimenava e lo strinse a sé, seppellendo la testa nella pelliccia, con gli occhi umidi di acqua più dolce di quella del mare.

Le finestre con le vetrate dai colori vivaci coglievano gli ultimi raggi del sole pomeridiano. La gente si faceva strada per salire e scendere dalla lunga scalinata che conduceva da terra alla Taverna dell’Ultima Dimora sulla cima dell’albero.

«Solace», disse con soddisfazione Nightshade.

3

«Be’, che io diventi il figlio di un orco dagli occhi azzurri amante degli elfi!» Gerard diede a Rhys una pacca sulle spalle, poi scrollò il capo e quindi gli diede un’altra pacca sulle spalle, e infine rimase lì a sorridergli. «Non mi sarei mai aspettato di rivedervi da questa parte dell’Abisso.»

Gerard osservò una pausa, poi disse per metà scherzando e per metà no: «Immagino che rivogliate indietro il vostro cane che tiene a bada i kender...».

Atta andò di corsa a dimenarsi contro Nightshade e a dargli una rapida leccata, quindi tornò sempre di corsa da Rhys. Si sedette ai suoi piedi, guardando in su verso di lui, con la bocca spalancata e la lingua penzolante.

«Sì», rispose Rhys, abbassando la mano per accarezzarle gli orecchi. «Rivoglio la mia cagna.»

«Lo temevo. Solace adesso ha i kender meglio educati di tutto Ansalon. Senza offesa, amico», soggiunse dando un’occhiata a Nightshade.

«Non mi offendo», disse allegramente Nightshade, poi annusò l’aria. «Che specialità prevede il menu della Taverna stasera?»

«Va bene, voialtri, tornate ai vostri affari», disse Gerard, agitando le mani verso la folla che si era radunata. «Lo spettacolo è finito.» Guardò di traverso Rhys e disse sottovoce: «Confido che lo spettacolo sia davvero finito, no, fratello? Non state per prendere fuoco spontaneamente o qualcosa del genere?».

«Spero di no», rispose con cautela Rhys. Quando era coinvolta Zeboim, lui sapeva che era meglio non promettere niente.

Alcuni si soffermarono ancora, sperando in altro divertimento, ma quando i minuti passarono e non si vide nulla di più interessante di un monaco gocciolante e un kender inzuppato, anche i bighelloni si allontanarono.

Gerard si girò per fissare Rhys. «Che cosa avete combinato, fratello? Vi siete lavato la veste con voi dentro? Anche il kender.» Allungando la mano, strappò via dai capelli del kender un pezzetto di vegetale rosso brunastro e viscido. «Alghe! E il mare più vicino è a centocinquanta chilometri da qui.»

Gerard li scrutò. «Ma d’altronde perché sono sorpreso? L’ultima volta che vi ho visti, eravate entrambi chiusi a chiave in una cella di prigione con una donna pazza. Un attimo dopo eravate scomparsi e a me restava una femmina matta che aveva la capacità di sbattermi fuori dalla cella con un buffetto, e poi mi ha chiuso fuori dalla mia stessa prigione e non voleva lasciarmi entrare. E quindi è scomparsa anche lei!»

«Credo di dovervi una spiegazione», disse Rhys.

«Credo proprio di sì!» grugnì Gerard. «Venite dentro la Taverna. Potrete asciugarvi in cucina, e Laura vi combinerà qualcosa da mangiare...»

«Che giorno è oggi?» domandò Nightshade interrompendo.

«Oggi? Quarto giorno», disse impaziente Gerard. «Perché?»

«Quarto giorno... Oh, la specialità del menu sarà costolette d’agnello!» disse emozionato Nightshade. «Con patate bollite e gelatina di menta.»

«Non penso che sia una buona idea andare alla Taverna», disse Rhys. «Dobbiamo parlare in privato.»

«Oh, ma Rhys...» frignò Nightshade, «sono costolette d’agnello!»

«Andremo a casa mia», disse Gerard. «Non è lontana. Non ho costolette d’agnello», soggiunse, vedendo che Nightshade pareva malinconico. «Ma nessuno sa stufare il pollo meglio di me, scusate se ve lo dico io stesso.»

La gente guardava fisso il monaco e il kender percorrere le strade di Solace e si domandava evidentemente come fossero riusciti quei due a bagnarsi tanto in una giornata in cui splendeva il sole e non c’era una nuvola in cielo. Non erano andati lontano, però, quando Nightshade si fermò di colpo.

«Perché andiamo verso la prigione?» domandò sospettoso.

«Non preoccuparti», lo rassicurò Gerard. «La mia casa è situata accanto alla prigione. Io vivo vicino al carcere, caso mai vi siano seccature. La casa fa parte della mia retribuzione.»

«Oh, be’, allora va tutto bene», disse Nightshade, con sollievo.

«Prenderemo qualcosa da mangiare e da bere, e voi potrete recuperare il vostro bastone già che ci siete, fratello», soggiunse Gerard come ripensandoci. «L’ho conservato per voi.»

«Il mio bastone!» Adesso fu Rhys a fermarsi. Guardò stupito il suo amico.

«Credo che sia vostro», disse Gerard. «L’ho trovato nella cella della prigione quando ve ne siete andati. Avevate tanta fretta», soggiunse sarcasticamente, «che ve lo siete dimenticato».

«Siete sicuro che il bastone sia mio?»

«Se io non ne ero sicuro, Atta sì», rispose Gerard. «Ci dorme accanto ogni notte.»

Nightshade fissava Rhys con gli occhi spalancati.

«Rhys...» disse il kender.

Rhys scrollò il capo, sperando di scacciare le domande che sapeva essere in arrivo.

Nightshade era insistente. «Ma, Rhys, il tuo bastone...»

«… e rimasto in mani sicure per tutto questo tempo», disse Rhys. «Non me ne sarei dovuto preoccupare.»

Nightshade si placò, ma continuò a lanciare occhiate perplesse a Rhys mentre proseguivano il cammino. Rhys non aveva dimenticato il suo bastone. L’emmide era stato con lui quando avevano compiuto quel viaggio inatteso al castello del cavaliere della morte. Il bastone probabilmente aveva salvato loro la vita, subendo una trasformazione miracolosa, mutandosi da consunto bastone di legno in gigantesca mantide religiosa che aveva attaccato il cavaliere della morte. Rhys aveva considerato perduto sul Bastione della Tempesta quel bastone e aveva provato una fitta di rimorso, anche se stava fuggendo per salvarsi la vita, nel doverlo lasciare lì. L’emmide era sacro a Majere, il dio che Rhys aveva abbandonato.

Il dio che a quanto pareva si rifiutava di abbandonare Rhys.

Umiliato, grato e confuso, Rhys rifletté sulla presenza di Majere nella sua vita. Rhys aveva considerato quel bastone sacro un dono di commiato da parte del suo dio, un segno indicante che Majere capiva e perdonava il suo seguace caduto nel peccato. Quando l’emmide si era trasformato nella mantide religiosa per attaccare Krell, Rhys l’aveva considerata l’ultima benedizione del dio. Eppure adesso l’emmide era ritornato. Era stato dato in custodia a Gerard, un ex cavaliere di Solamnia: forse un segno del fatto che di quest’uomo ci si poteva fidare, e anche un segno del fatto che Majere provava ancora un vivo interesse per il suo monaco.

«La via per arrivare a me passa attraverso di te», insegnava Majere. «Conosci te stesso e giungerai a conoscere me.»

Rhys pensava di conoscere se stesso, e poi era arrivato quel giorno terribile in cui il suo disgraziato fratello aveva assassinato i loro genitori e i confratelli dell’ordine di Rhys. Adesso Rhys si rendeva conto di avere conosciuto di sé soltanto il lato che procedeva alla luce del sole lungo la riva del fiume. Non aveva conosciuto il lato di sé che strisciava nel baratro oscuro della sua anima. Non aveva conosciuto quel lato finché questo non si era precipitato fuori a urlare la propria furia e il proprio desiderio di vendetta.

Quel lato oscuro di sé aveva sollecitato Rhys a ripudiare Majere in quanto dio «nullafacente» e allearsi a Zeboim. Aveva lasciato il monastero per uscire nel mondo, trovare il fratello maledetto, Lleu, e assicurarlo alla giustizia. Aveva trovato suo fratello, ma le cose non erano state così semplici.

Forse nemmeno Majere e i suoi insegnamenti erano tanto semplici. e il dio era ben più complicato di quanto Rhys si fosse reso conto.

Certamente la vita era molto più complicata di quanto lui avesse mai immaginato.

Un deciso strattone alla manica richiamò indietro Rhys dalle sue riflessioni. Guardò Nightshade.

«Sì, che c’è?»

«Non a me», disse il kender, puntando il dito. «A lui.»

Rhys si rese conto che Gerard doveva avergli parlato tutto il tempo. «Vi chiedo scusa, sceriffo. Mi sono incamminato su un percorso di pensieri e non riuscivo a trovare la strada per uscirne. Mi avete chiesto qualcosa?»

«Vi ho chiesto se avete più visto quella donna pazza che a quanto pare si sente libera di entrare e uscire dalla mia prigione quando ne ha voglia.»

«Adesso è lì?» domandò Rhys, allarmato.

«Non lo so», ribatté seccamente Gerard. «Negli ultimi cinque minuti non ci ho guardato. Voi che cosa sapete di lei?»

Rhys si decise. Anche se molte cose erano ancora oscure, il segno del dio pareva chiaro. Gerard era un uomo dì cui ci si poteva fidare. E Rhys, gli dèi lo sapevano, doveva proprio fidarsi di qualcuno! Non poteva più portare tutto da solo questo fardello.

«Vi spiegherò tutto, sceriffo, almeno quello che può essere spiegato.»

«Che non è molto», mormorò Nightshade.

«A questo punto vi sarò grato per qualunque cosa», affermò con sentimento Gerard.


La spiegazione fu rinviata per breve tempo. L’acqua salata incrostata sulla pelle incominciava a prudere, per cui sia Rhys sia Nightshade decisero di fare il bagno nel lago di Crystalmir. La dea del mare, avendo recuperato il figlio, si era generosamente degnata di rimuovere la maledizione che vi aveva inflitto, e il lago era ritornato alla sua condizione di purezza cristallina. I pesci morti che soffocavano il lago erano stati trasportati via e gettati nei campi per essere usati come nutrimento per le coltivazioni, ma il fetore persisteva ancora nell’aria, e i due si lavarono il più rapidamente possibile. Dopo il bagno, Rhys si ripulì la veste dal sangue e dal sale, e Nightshade si strofinò i propri abiti. Gerard fornì loro indumenti da indossare mentre i loro abiti si asciugavano al sole.

Mentre i due facevano il bagno, Gerard fece stufare un pollo in un brodo insaporito con cipolle, carote, patate e quello che lui definì il suo speciale ingrediente segreto: chiodi di garofano.

La casa di Gerard era piccola ma confortevole. Era costruita al livello del terreno, non sui rami di uno dei famosi alberi di vallen per cui era famosa Solace.

«Senza offesa per chi abita sugli alberi», disse Gerard, versando col mestolo lo stufato di pollo e passando i piatti. «A me piace vivere in un luogo dove se mi capita di fare il sonnambulo non mi rompo l’osso del collo.»

Diede ad Atta un osso di manzo, e la cagna si sistemò sopra i piedi di Rhys a sgranocchiare contenta. Il bastone di Rhys era poggiato nell’angolo accanto al camino.

«È il vostro... come lo chiamate?» domandò Gerard.

«Emmide.» Rhys passò la mano sul legno. Ne rammentava ogni imperfezione, ogni protuberanza e ogni nodo, ogni tacca e ogni taglio che l’emmide aveva acquisito nel corso dei cinquecento anni in cui aveva protetto gli innocenti.

«Il bastone è imperfetto, eppure il dio lo ama», disse sottovoce Rhys. «Majere potrebbe avere un bastone dello stesso metallo magico con cui furono forgiate le dragonlance, eppure il suo bastone è di legno: normale e semplice e difettoso. Per quanto difettoso, non si è mai spezzato.»

«Se state dicendo qualcosa di importante, fratello», disse Gerard, «allora dovete parlare a voce più alta».

Rhys rivolse al bastone un’ultima occhiata insistente, quindi ritornò alla propria sedia.

«Il bastone è mio», disse. «Grazie per avermelo conservato.»

«Non è granché da sorvegliare», disse Gerard. «Comunque sembrate tenerlo in gran conto.»

Attese che Rhys si servisse della pietanza e poi disse con calma: «Molto bene, fratello. Sentiamo la vostra storia».

Nightshade teneva un pezzo di pane in una mano e una coscia di pollo nell’altra, mordendo alternativamente l’uno e l’altra e mangiando con molta rapidità, tanto che a un certo punto quasi soffocò.

«Vai piano, kender», disse Gerard. «Che fretta c’è?»

«Ho paura che non resteremo qui molto a lungo», bofonchiò Nightshade mentre gli colava brodo lungo il mento.

«E perché?»

«Perché voi non ci crederete. Vi do circa tre minuti per scaraventarci fuori dalla porta.»

Gerard si accigliò e tornò a guardare Rhys. «Ebbene, fratello? Devo scaraventarvi fuori?»

Rhys rimase in silenzio per un attimo, domandandosi da che parte cominciare.

«Vi ricordate che qualche giorno fa vi ho posto una domanda ipotetica: "Che cosa direste se vi dicessi che mio fratello è un assassino?" Ve lo ricordate?»

«Certo!» esclamò Gerard. «Quasi vi ho messo sotto chiave per non avere denunciato un omicidio. Qualcosa riguardo a vostro fratello che avrebbe ucciso una ragazza: Lucy Wheelwright, vero? Sembravate dire sul serio, fratello. Vi avrei creduto se non avessi visto Lucy io stesso quella mattina, viva quanto voi e ben più carina.»

Rhys osservò attentamente Gerard. «Avete più rivisto Lucy Wheelwright?»

«No. Però ho visto suo marito.» Gerard era cupo. «Quello che restava di lui. Fatto a pezzi con una scure e i resti legati in un sacco e gettati nei boschi.»

«Gli dèi ci salvino!» esclamò Rhys, orripilato.

«Forse ha detto di non volere adorare Chemosh», disse tristemente Nightshade. «Come i tuoi monaci.»

«Quali monaci?» domandò Gerard.

Rhys non rispose subito. «Avete detto che Lucy è scomparsa?»

«Già. Ha detto alla gente che lei e suo marito lasciavano la città per far visita a un villaggio vicino, ma io ho controllato. Lucy non è mai tornata e naturalmente adesso sappiamo che cosa è successo a suo marito.»

«Avete controllato?» domandò Rhys, stupito. «Pensavo che non mi aveste preso sul serio.»

«Inizialmente no», ammise Gerard, sistemandosi comodamente all’indietro sulla sedia. «Ma poi, quando abbiamo trovato il corpo del marito, mi sono messo a pensare. Come vi ho detto in quella stessa conversazione, voi non siete molto loquace, fratello. Doveva esserci qualche motivo per dirmi quello che mi avevate detto, e così, più ci pensavo, meno la cosa mi piaceva. Io ho combattuto nella Guerra delle Anime. Ho affrontato un esercito di spettri. Io non ci avrei creduto se qualcuno me l’avesse raccontato. Ho mandato uno dei miei uomini a quel villaggio per vedere se ci fosse Lucy.»

«Suppongo di no.»

«Nessuno in quel villaggio ne aveva mai sentito parlare. È venuto fuori che lei non è mai arrivata neanche vicino a quel luogo, e non è l’unica a essere scomparsa. Abbiamo avuto un sacco di giovani che sono svaniti all’improvviso. Hanno abbandonato la casa, la famiglia, hanno lasciato lavori ben pagati senza dire una parola. Una giovane coppia, Timothy e Gerta Tanner, ha abbandonato il figlio di tre mesi: un figlio che entrambi amavano teneramente.» Ammiccò a Nightshade. «Allora non serve che tu ti ingozzi di cibo, kender. Non vi getterò fuori.»

«Che sollievo», disse Nightshade, spazzando via le briciole dalla camicia presa a prestito. Si prese una mela.

«Per non parlare della vostra misteriosa scomparsa dalla cella di prigione», soggiunse Gerard. «Ma partiamo da Lucy e da vostro fratello Lleu. Voi affermate che lui l’ha assassinata...»

«Proprio così», disse calmo Rhys. Provò un improvviso sollievo, come se gli fosse stato tolto dal cuore un pesante fardello. «L’ha assassinata nel nome di Chemosh, Signore della Morte.»

Gerard si tirò in avanti sulla sedia, guardando negli occhi Rhys. Era viva quando l’ho vista io, fratello.»

«No non più», ribatté Rhys, «e nemmeno mio fratello. Entrambi erano... sono... morti.»

«Morti come un ghiro», disse Nightshade con compiacenza, mordendo la mela. Si deterse il succo col dorso della mano. «Si vede dagli occhi.»

Gerard scrollò il capo. «Meglio se cominciaste dall’inizio, fratello.»

«Magari potessi», disse sottovoce Rhys.

4

«Vedete, sceriffo, non so dove incominci la storia», spiegò Rhys. «La storia sembra avermi trovato da qualche parte in mezzo. È incominciata quando mio fratello Lleu è venuto a trovarmi al monastero. L’hanno portato lì i nostri genitori. Lui conduceva una vita sfrenata, faceva baldoria, frequentava cattive compagnie. Io in questo non vedevo altro che l’esuberanza della gioventù. Però è venuto fuori che io ero cieco. Il Maestro del nostro ordine e Atta vedevano chiaramente quello che io non vedevo: che in Lleu c’era qualcosa di terribilmente fuori posto.»

Atta sollevò la testa e guardò Rhys scodinzolando. Lui le accarezzò il pelo morbido. «Avrei dovuto ascoltare Atta. Lei aveva capito subito che mio fratello era una minaccia. L’ha perfino morso, una cosa che lei non fa mai.»

Gerard scrutò la cagna, si strofinò il mento. «Vero. Neanche se è stata provocata.» Rimase in silenzio, pensieroso, fissando la cagna. «Ora, mi domando...»

«Vi domandate che cosa, sceriffo?»

Gerard agitò la mano. «Non importa, per adesso, fratello. Proseguite.»

«Quella sera», continuò Rhys, «mio fratello ha avvelenato i miei confratelli e i nostri genitori. Ha assassinato venti persone in nome di Chemosh».

Gerard si drizzò sulla sedia. Guardò sbalordito Rhys.

«Ha cercato di assassinare anche me. Atta mi ha salvato la vita.» Rhys posò la mano con gratitudine sulla testa della cagna. «Quella sera io ho perso la fede nel mio dio. Ero in collera con Majere per avere consentito che accadesse un simile orrore a coloro che erano suoi fedeli e devoti servitori. Ho cercato un nuovo dio, che mi aiutasse a trovare mio fratello e a vendicare la morte di coloro che amavo. Ho urlato verso il cielo, e un dio mi ha risposto.»

Gerard appariva serio. «Un dio che risponde. Non va mai bene.»

«Era una dea, Zeboim», disse Rhys.

«Ma voi non vi siete messo dalla sua parte...» Gerard lo fissò. «Santo cielo, sì! È per questo che non siete più un monaco! E quella donna... Quella femmina pazza nella mia prigione... E i pesci morti... Zeboim», dedusse, sgomento.

«Era sconvolta», disse Rhys a mo’ di scusante. «Chemosh teneva prigioniera l’anima di suo figlio.»

«Mi ha trasformato in un pezzo del khas», interloquì Nightshade. «Senza chiedermelo!» Indignato, si servì nuovamente di pollo. «Poi ci ha spediti sul Bastione della Tempesta per affrontare un cavaliere della morte. Un cavaliere della morte! Uno che va in giro a maciullare la gente! Che pazzia è questa? E poi c’è suo figlio, Ariakan. Non fatemi neanche parlare di lui!»

«Lord Ariakan», disse lentamente Gerard. «Il comandante dei Cavalieri delle Tenebre durante la Guerra del Chaos.»

«Proprio lui.»

«Quello che è morto da una cinquantina d’anni?»

«Come dicono le lapidi, "morto ma non dimenticato"», citò Nightshade. «Questo era proprio il suo problema. Lord Ariakan non riusciva a dimenticare. E vi pare che fosse grato a me e a Rhys per avere cercato di salvarlo? Neanche un po’. Lord Ariakan si rifiutava categoricamente di venire con me. Sono stato costretto a correre lungo il tabellone e a scaraventare a terra Ariakan. Quel momento sì che è stato emozionante.»

Nightshade sorrise a quel ricordo, poi parve all’improvviso colto da rimorsi. «O meglio lo sarebbe stato, se Rhys non fosse stato sanguinante, con pezzi d’osso a spuntargli dalla pelle dove il cavaliere della morte gli aveva spezzato le dita.»

Gerard guardò le mani di Rhys. Le dita parevano perfettamente integre.

«Capisco», disse. «Dita spezzate.»

«Ciò che ci è capitato non è importante, sceriffo», disse Rhys. «Ciò che importa è che noi dobbiamo trovare qualche modo per fermare questi Prediletti di Chemosh, come si definiscono. Sono mostri che vanno in giro a uccidere i giovani trasformandoli in schiavi di Chemosh. Sembrano vivi ma in effetti sono morti...»

«Io posso garantirlo», disse Nightshade.

«E per di più non possono essere annientati. Io lo so», soggiunse Rhys con semplicità. «Ho provato. Ho ucciso mio fratello. Ho spezzato il collo a Lleu con l’emmide. Lui si è ripreso subito, come ci si riprende dopo avere sbattuto contro una porta.»

«E io ho cercato di creare contro di lui uno dei miei incantesimi. Io sono un mistico, sapete», soggiunse con orgoglio Nightshade. Quindi sospirò. «Non credo che Lleu l’abbia nemmeno notato. Eppure ho creato uno dei miei incantesimi più potenti.»

«Dovete riconoscere la natura terribile di questa situazione, sceriffo», proseguì serio Rhys. «I Prediletti attirano giovani ignari verso la loro dannazione e non possono essere fermati, almeno non con i mezzi che noi abbiamo sperimentato. Per di più, noi non possiamo mettere in guardia la gente contro di loro perché nessuno ci crederebbe. I Prediletti sembrano e agiscono sotto tutti gli aspetti proprio come tutti gli altri. Io potrei essere uno di loro adesso, sceriffo, e voi non lo sapreste mai.»

«Non lo è, per inciso», disse Nightshade. «Io posso dirlo.»

«Com’è che puoi dirlo?» domandò Gerard.

«Quelli come me vedono subito che loro sono morti», disse Nightshade. «Non vi è un bagliore caldo che provenga dai loro corpi, come vi è da voi e da Rhys e da Atta e da chiunque altro purché sia vivo.»

«Quelli come te», disse Gerard. «Vuoi dire i kender?»

«Non i kender qualsiasi. I kender "nightstalker". Mio padre dice che però non siamo in molti.»

«E voi, fratello? Sapete dirlo guardandoli?» Gerard evidentemente si sforzava di non apparire scettico.

«Non a prima vista. Però, se mi avvicino abbastanza, come dice Nightshade, posso vederlo dagli occhi. Lì non c’è luce, non c’è vita. Gli occhi dei Prediletti sono gli occhi morti e vacui di un cadavere. Ci sono altri metodi con cui si possono identificare. I Prediletti di Chemosh hanno una forza incredibile. Non possono essere feriti o uccisi. E ritengo probabile che ciascuno di loro abbia un marchio sul petto a sinistra, sopra il cuore. Il marchio del bacio micidiale che li ha uccisi.»

Rhys rimase soprappensiero, cercando di rammentare tutto ciò che potesse riguardo a suo fratello.

«C’è un’altra cosa che è strana riguardo a Lleu e che potrebbe valere per tutti i Prediletti. Col passare del tempo, mio fratello, o piuttosto quell’essere che un tempo era mio fratello, sembrava perdere la memoria. Lleu adesso non ha alcun ricordo di me. Non si rammenta di avere ucciso i suoi genitori, né di alcuno degli altri crimini da lui commessi. A quanto pare non è in grado di ricordare niente a lungo. L’ho visto mangiare un pasto completo e un attimo dopo lamentarsi di morire di fame.»

«Eppure ricorda di dover uccidere in nome di Chemosh», disse Gerard.

«Sì», concordò malinconicamente Rhys. «Questa è l’unica cosa che effettivamente ricordano.»

«Atta riconosce i Prediletti quando li vede», disse Nightshade, dando una pacca alla cagna, che la accettò di buona grazia, anche se evidentemente sperava in un altro osso. «Se Atta lo sa, forse lo sanno anche altri cani.»

«Questo potrebbe spiegare un piccolo mistero su cui mi arrovellavo», disse Gerard, osservando con interesse Atta. Scrollò il capo. «Se però è così, è una notizia dolorosa. Vedete, tengo con me la cagna quando faccio il mio lavoro. Mi aiuta col problema dei kender e mi è utile anche in altri modi. È una brava compagna. Mi mancherà, fratello. Non mi vergogno a dirvelo.»

«Forse, quando ritornerò al monastero, potrò addestrare un altro cane, sceriffo...» Rhys si interruppe, interrogandosi su ciò che aveva appena detto. Quando ritornerò. Non aveva mai avuto intenzione di tornarci.

«Davvero, fratello?» Gerard era soddisfatto. «Sarebbe fantastico! Comunque, tornando a quello che stavo dicendo: ogni giorno io e Atta pranziamo alla Taverna dell’Ultima Dimora. Lì tutti – la solita folla – ormai conoscono Atta. I miei amici vengono a farle le coccole e a parlarle. Lei è sempre una signora. Sempre cortese ed educata.»

Rhys accarezzò gli orecchi serici della cagna.

«Ebbene, un giorno – era ieri – uno degli avventori abituali, un contadino venuto a vendere i suoi prodotti al mercato, ha pranzato alla Taverna come al solito. Si è chinato per fare le coccole ad Atta come fa sempre. Però questa volta lei gli ha ringhiato e ha cercato di morderlo. Lui ha riso e si è allontanato, dicendo di averla presa per il verso sbagliato. Poi si è messo a sedere accanto a me. Atta è scattata subito in piedi. Si è messa col corpo fra me e lui. Aveva i peli ritti. Ha scoperto i denti, ritraendo il labbro. Non riuscivo a immaginare che cosa le avesse preso!»

Gerard pareva a disagio. «Io le ho parlato con una certa durezza, temo, fratello. E l’ho portata alle stalle per legarla finché avesse imparato a comportarsi bene. Adesso penso di doverle delle scuse.» Prendendo una fettina di pollo, la porse alla cagna. «Mi dispiace, Atta. Sembra che tu sapessi fin da principio quello che facevi.»

«Che è successo al contadino?»

Gerard scrollò il capo. «Non l’ho più rivisto.» Si appoggiò all’indietro sulla sedia, accigliandosi.

«Che pensate, sceriffo?» domandò Rhys.

«Penso che se questi due sanno riconoscere a vista uno di questi Prediletti, potremmo organizzare una trappola. Coglierne uno sul fatto.»

«Io ci ho provato», disse cupo Rhys. «Sono rimasto lì inerme mentre mio fratello uccideva una ragazza innocente. Non commetterò di nuovo lo stesso errore.»

«Questa volta non succederà, fratello», arguì Gerard. «Ho un piano d’azione. Prenderemo con noi delle guardie. I miei uomini migliori. Inviteremo il Prediletto ad arrendersi. Se non funziona, prenderemo provvedimenti più drastici. Nessuno si farà male. Ci penserò io.»

Rhys rimaneva poco convinto.

«Ancora una domanda», disse Gerard. «Che c’entra Zeboim in tutto questo?»

«Sembra che ci sia una guerra fra gli dèi...»

«Proprio quello che ci serve», sbottò incollerito Gerard. «Noi mortali finalmente conseguiamo la pace su Ansalon – relativamente parlando – e adesso gli dèi si mettono a darsele di nuovo. Qualche sorta di lotta di potere adesso che la Regina delle Tenebre è morta e sepolta, scommetto. E noi poveri mortali siamo presi in mezzo. Perché gli dèi non ci lasciano in pace, fratello? A risolvere i nostri problemi!»

«Ce la siamo cavata bene finora», disse asciutto Rhys.

«Tutti i guai che hanno mai infestato questo mondo sono stati causati dagli dèi», affermò accalorato Gerard.

«Non dagli dèi», ribatté con delicatezza Rhys. «Dai mortali in nome degli dèi.»

Gerard sbuffò. «Non dico che le cose andassero benissimo quando gli dèi non c’erano, ma per lo meno non avevamo dei morti che andassero in giro a commettere omicidi...» Vide che Rhys pareva a disagio e interruppe la sua arringa.

«Mi dispiace, fratello. Non badatemi. Io mi irrito per queste cose. Andate avanti con la vostra storia. Mi serve sapere tutto il possibile se devo combattere contro questi esseri.»

Rhys esitò, quindi disse con calma: «Quando ho perduto la mia fede, ho invocato un dio – qualunque dio – perché parteggiasse per me. Zeboim ha risposto alla mia preghiera. Una delle poche volte in cui abbia risposto a qualche mia preghiera. La dea mi ha detto che la persona dietro tutto questo era una certa Mina...».

«Mina!»

Gerard si alzò tanto di scatto che rovesciò la zuppiera, versando lo stufato per terra, con grande gioia di Atta. Lei era troppo ben addestrata per implorare ma, secondo la Legge Immortale dei Cani, se del cibo cade in terra è a disposizione di chi se lo prende.

Nightshade emise un grido di costernazione e si tuffò per salvare il pranzo, ma Atta fu troppo rapida per lui. La cagna trangugiò il resto del pollo, senza nemmeno preoccuparsi di masticarlo.

«Che sapete di questa Mina?», domandò Rhys, sbalordito dalla reazione violenta di Gerard.

«Che so di lei? Fratello, l’ho conosciuta», disse Gerard. Si passò la mano fra i capelli gialli, facendoseli rizzare. «E vi dico, Rhys Mason, non è una cosa che io voglia ripetere. È stramba, quella lì. Se c’è lei dietro tutto questo...» Si zittì, rimuginando.

«Sì?» lo sollecitò Rhys. «Se c’è lei dietro tutto questo, allora?»

«Allora credo che farei meglio a riesaminare il mio piano d’azione», disse cupo Gerard. Si diresse verso la porta. «Voi e il kender restate qui. Io ho del lavoro da sbrigare. Mi serve che restiate a Solace alcuni giorni, fratello.»

Rhys scrollò il capo. «Mi dispiace, sceriffo, ma devo proseguire la ricerca di mio fratello. Ho perso del tempo prezioso già così...»

Gerard si fermò davanti alla porta aperta, si girò.

«E se lo trovate, fratello, che fate? Continuate a seguirlo, lo osservate uccidere la gente? Oppure volete bloccarlo una volta per tutte?»

Rhys non rispose. Guardò in silenzio Gerard.

«Mi farebbe comodo il vostro aiuto, fratello. Il vostro e quello di Atta e, ebbene sì, perfino del kender», soggiunse con riluttanza Gerard. «Non volete fermarvi tutti e tre, solo per pochi giorni?»

«Uno sceriffo che chiede aiuto a un kender!» disse Nightshade, sgomento. «Scommetto che non è mai successo in tutta la storia del mondo. Restiamo, Rhys.»

Gli occhi di Rhys furono attratti verso l’emmide, in piedi nell’angolo. «E va bene, sceriffo. Restiamo.»

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