«Krell!» La voce riecheggiò nei corridoi cavernosi del Bastione della Tempesta e continuò a rimbombare anche quando gli echi svanirono, rimbalzando all’interno dell’elmo vuoto del cavaliere della morte. «Fatti vedere.»
Il cavaliere della morte riconobbe la voce e si ficcò ancora più in profondità nella sua fossa. Perfino qui, in profondità sottoterra, l’acqua delle tempeste continue che sferzavano l’isola riuscivano a penetrare attraverso fenditure e crepe. La pioggia scorreva in rivoli giù per la parete di pietra. L’acqua filtrava negli stivali vuoti di Krell e gli scorreva negli schinieri.
«Krell», disse cupa la voce, «lo so che sei laggiù. Non farmi venire a prenderti».
«Sì, mio signore», mormorò Krell. «Vengo fuori.»
Sguazzando nell’acqua, il cavaliere della morte percorse il breve corridoio che conduceva a una botola chiusa da una grata di ferro, incardinata in modo che gli schiavi potessero aprirla quando venivano mandati giù a pulire.
Krell salì a passi pesanti le scale infide intagliate nella parete del dirupo. Sbirciando attraverso le fessure per gli occhi dell’elmo, Krell vide la casacca nera e il colletto di pizzo bianco del Signore della Morte. Non vide altro. Krell non aveva il coraggio di guardare negli occhi il dio.
Krell prontamente cadde in ginocchio.
«Mio signore Chemosh», pregò il cavaliere della morte facendosi piccolo per la paura. «Lo so che vi ho deluso. Ammetto di avere perso il pezzo del khas, ma non è stata colpa mia. C’erano un kender e un bastone che si è trasformato in un insetto gigantesco... e come potevo sapere che il monaco avesse intenti suicidi?»
Il Signore della Morte non disse nulla.
In senso metaforico, Krell prese a sudare.
«Mio signore Chemosh», supplicò. «Vi ricompenserò. Vi sarò debitore per sempre. Farò qualunque cosa mi ordinerete. Qualsiasi cosa! Risparmiatemi la vostra collera!»
Chemosh sospirò. «Sei fortunato perché ho bisogno di te, disgraziato miserabile. Alzati in piedi! Mi goccioli sugli stivali.»
Krell si alzò in piedi ponderosamente. «Mi salverete anche da lei?» Spinse il pollice verso il cielo per indicare la dea vendicativa. La furia di Zeboim illuminava il cielo, il suo pugno tonante martellava il terreno.
«Ritengo di esserne costretto», disse Chemosh, e sembrava letargico, troppo sfinito per curarsene. «Come ho detto, ho bisogno di te.»
Krell era a disagio. Non gli piaceva il tono del dio. Azzardandosi a osservare più da vicino, il cavaliere della morte rimase sbalordito da ciò che vide.
Il Signore della Morte appariva peggiore della morte. Si poteva dire che paresse vivo: vivo e sofferente. Aveva il volto pallido, tirato e smunto. Aveva i capelli scarmigliati, gli abiti trasandati. Il pizzo sulla manica era strappato e macchiato. Il colletto era slacciato, la camicia mezzo aperta. Gli occhi erano assenti, la voce cupa. Chemosh si muoveva in maniera languida, come se perfino sollevare la mano gli costasse un grande sforzo. Anche se parlava con Krell, non sembrava realmente vederlo né avere grande interesse per lui.
«Mio signore, che cosa c’è che non va?» domandò Krell. «Sembrate non star bene...»
«Io sono un dio», ribatté con durezza Chemosh. «Io sto sempre bene. Tanto peggio.»
Krell poteva solo immaginare che vi fosse stata qualche sconfitta decisiva nella guerra.
«Nominate il vostro nemico, mio signore», disse Krell, ansioso di compiacerlo, «colui che vi ha fatto questo. Io lo troverò e lo sventrerò...».
«Il mio nemico è Nuitari», disse Chemosh.
«Nuitari», ripeté a disagio il cavaliere della morte, già pentito di quella promessa avventata. «Il Dio della Luna Nera. Perché lui, in particolare?»
«Mina è morta», disse Chemosh.
«Mina è morta?» Krell stava per soggiungere: «Che liberazione!». Ma si rammentò appena in tempo che Chemosh era stato stranamente innamorato di quella femmina umana.
«Sono davvero spiaciuto, mio signore», si corresse Krell, cercando di apparire pieno di commiserazione. «Come è avvenuta questa... ehm... terribile tragedia?»
«Nuitari l’ha assassinata», disse malevolo Chemosh. «La pagherà! Tu gliela farai pagare!»
Krell si allarmò. Nuitari, il potente dio della magia nera, non era proprio il nemico che lui avesse in mente.
«Certo, mio signore, ma io sono sicuro che voi vorrete vendicarvi voi stesso su Nuitari per la morte di Mina. Forse io potrei cercare vendetta su Chislev o su Hiddukel? Erano sicuramente coinvolti nel complotto...»
Chemosh fece scattare un dito, e Krell volò all’indietro schiantandosi contro la parete di pietra. Scivolò giù per la parete e finì disteso con l’armatura ammucchiata in disordine ai piedi del Signore della Morte.
«Rospo piagnucoloso, codardo e viscido», disse freddamente Chemosh. «Farai quello che io ti dirò di fare, altrimenti ti trasformerò in quel mollusco senza spina dorsale che sei e ti consegnerò con i miei omaggi alla dea del mare. Che ne diresti?»
Krell mormorò qualcosa.
Chemosh si chinò. «Non ti ho sentito.»
«Come sempre, mio signore», disse cupo Krell. «Sono ai vostri ordini.»
«Mi pareva proprio», disse Chemosh. «Adesso vieni con me.»
«Non... non a far visita a Nuitari?» disse tremante Krell.
«Nella mia dimora, sciocco», disse Chemosh. «C’è una cosa che devi fare per me prima di tutto.»
Avendo deciso di assumere un interesse più attivo per il mondo dei vivi con la prospettiva di regnare un giorno su quel mondo, il Signore della Morte aveva lasciato il suo palazzo tenebroso sul piano dell’Abisso. Aveva cercato una posizione opportuna per la sua nuova dimora e l’aveva trovata in un castello abbandonato prospiciente il Mare di Sangue nella zona chiamata Desolazione.
Quando il drago dominatore Malys assunse il controllo di questa parte di Ansalon, devastò la campagna, distruggendo campi e terreni coltivati, città e villaggi e metropoli. La terra fu maledetta fintanto che quella femmina di drago rimase al potere. Non crebbe più niente. Fiumi e torrenti si prosciugarono. I campi un tempo fertili divennero deserto spazzato dal vento. Si diffusero inedia e malattie. Le grandi città come Flotsam persero gran parte della popolazione poiché la gente fuggiva dalla maledizione del drago. L’intera zona venne chiamata Desolazione.
Con la morte di Malys per mano di Mina, i terribili effetti della magia malvagia del drago sulla Desolazione si invertirono. Quasi dal momento stesso della dipartita di Malys, i fiumi presero a scorrere e i laghi a riempirsi. Germogli verdi spuntarono dal suolo brullo, come se la vita fosse rimasta lì per tutto quel tempo, aspettando solo che venisse rimosso l’incantesimo che la teneva prigioniera.
Col ritorno degli dèi, questo processo si accelerò, cosicché alcune zone erano quasi tornate alla normalità. La popolazione ritornò e incominciò a ricostruire. Flotsam, ubicata a quasi duecentocinquanta chilometri dal castello di Chemosh, non era proprio il centro indaffarato e gaio di commerci (leciti e illeciti) che era stata un tempo, ma non era più una città fantasma. Pirati e marinai legittimi di tutte le razze vagavano per le strade della famosa città portuale. Mercati e botteghe riaprirono. Flotsam era di nuovo in piena attività.
Vaste zone della Desolazione restavano però ancora maledette. Nessuno sapeva immaginarsi né il come né il perché. Una druida devota a Chislev, dea della natura, stava esplorando queste zone quando si imbatté in una squama di Malys. La druida ipotizzò che la presenza della squama avesse a che fare con la prosecuzione della maledizione. Bruciò la squama in una cerimonia sacra, e si dice che la stessa Chislev, turbata da questo sconvolgimento della natura, avesse benedetto la cerimonia. La distruzione della squama non fece nulla per modificare le cose, ma la storia si diffuse e l’ipotesi prese piede, per cui queste zone maledette vennero chiamate «caduta di squame».
Una di queste zone di caduta di squame fu rivendicata come propria da Chemosh. Il suo castello sorgeva su un promontorio prospiciente il Mare di Sangue su quella che veniva chiamata Costa Tenebrosa.
Chemosh non si curava di quella maledizione persistente. Non aveva alcun interesse per la crescita di roba verde, per cui gli importava poco che le colline e le valli attorno al castello fossero distese spoglie, brulle e deserte di terreno cenerino e pietra bruciacchiata.
Il castello di cui si impadronì era in rovina quando lui lo trovò, poiché il drago aveva ucciso gli occupanti e raso al suolo e incendiato il castello. Chemosh aveva scelto questa ubicazione perché si trovava ad appena un’ottantina di chilometri dalla Torre del Mare di Sangue. Aveva l’intenzione di usare il castello come base operativa, progettando di conservare qui gli oggetti sacri che avrebbe asportato dalle macerie della Torre. Qui, si era immaginato appassionatamente, avrebbe trascorso del tempo a classificare, catalogare e calcolare il valore immenso degli oggetti sacri risalenti all’epoca del Re-Sacerdote di Istar.
Il castello non sarebbe servito soltanto da deposito di oggetti sacri ma anche da fortezza per sorvegliarli. Utilizzando pietre scavate nell’Abisso dalle anime perdute, Chemosh ricostruì il castello, rendendolo tanto forte che nemmeno gli dèi avrebbero potuto attaccarlo. La roccia dell’Abisso era più nera del marmo nero e ben più dura. Soltanto la mano di Chemosh poteva sagomarla in blocchi, e tali blocchi erano così pesanti che soltanto lui poteva sollevarli per sistemarli in posizione. Il castello fu costruito con quattro torri di guardia, una su ciascun angolo. Lo cingevano due muri, uno interno e uno esterno. La caratteristica più singolare di questo castello era che non vi erano porte per penetrare nelle mura. Sembrava non esserci né via d’ingresso né via d’uscita.
I morti che sorvegliavano il castello non avevano bisogno di porte. Gli spettri, i fantasmi e gli spiriti inquieti che Chemosh aveva condotto lì a difendere la sua dimora potevano attraversare la roccia dell’Abisso tanto facilmente quanto un mortale si insinua in un pergolato verde e frondoso. Chemosh aveva però bisogno di un ingresso per i suoi nuovi discepoli. I Prediletti erano morti, ma conservavano ancora la loro forma corporea. Questi entravano attraverso un portale magico ubicato in un unico punto sul muro nord. Il portale poteva essere comandato da Chemosh, padrone del castello, e da un’unica altra persona, colei che doveva essere la padrona del castello.
Mina.
Chemosh intendeva fare del castello un dono per lei. Aveva scelto il nome sia in onore di lei sia come tributo ai suoi nuovi discepoli. L’aveva chiamato Castello dei Prediletti.
Ma era venuto a stabilirvisi soltanto il fantasma di Mina.
Mina era morta, uccisa da Nuitari, il Dio della Luna Nera, lo stesso dio che aveva posto fine ai progetti ambiziosi di Chemosh. Nuitari aveva segretamente ricostruito le rovine della Torre dell’Alta Magia di Istar. Si era impadronito di quella miniera di oggetti sacri che avrebbe dovuto instaurare sul trono Chemosh quale sovrano del pantheon celeste. Nuitari aveva catturato Mina, l’aveva presa prigioniera e, per ostentare il proprio potere sul Signore della Morte, l’aveva uccisa.
Chemosh adesso dimorava da solo nel Castello dei Prediletti. Quel luogo gli era divenuto ripugnante, poiché gli rammentava di continuo la rovina dei suoi progetti e delle sue trame. Per quanto detestasse il castello, scoprì di non riuscire ad andarsene. Perché Mina era lì. Il suo spirito veniva da lui lì. Mina si librava sopra il letto di Chemosh, il loro letto. Gli occhi d’ambra di Mina lo fissavano ma non potevano vederlo. La mano di lei si tendeva verso Chemosh ma non poteva toccarlo. La sua voce parlava, ma non poteva conversare con lui. Mina ascoltava la voce di Chemosh, ma non lo udiva quando lui la chiamava.
La vista della forma spettrale di Mina lo tormentava, e Chemosh cercò innumerevoli volte di allontanarsene. Ritornò alla sua dimora abbandonata nell’Abisso. Lo spirito di Mina non poteva seguirlo laggiù, ma il ricordo di lei era lì, e quel ricordo gli faceva provare un dolore tanto amaro che Chemosh fu costretto a ritornare al Castello dei Prediletti per trovare conforto nella visione del fantasma vagante di Mina.
Chemosh si sarebbe vendicato su Nuitari, questo era garantito. I suoi progetti erano vaghi, però, ancora in via di elaborazione. Il cavaliere della morte da solo non poteva scacciare quel dio potente dalla sua Torre, anche se questo Chemosh non lo disse a Krell. Intendeva lasciare che Krell per un po’ tremasse nei suoi stivali. Krell doveva a Chemosh qualche ora di disagio per avere perso Ariakan.
Chemosh non disse al cavaliere della morte nemmeno che quel suo pasticcio era andato per il meglio. Zeboim era sorella di Nuitari, ma tra i fratelli non vi era affetto. Chemosh adesso aveva modo di acquisire Zeboim come potente alleata.
Il Signore della Morte, accompagnato da un Ausric Krell particolarmente riluttante, attraversò le mura esterne e interne del castello ed entrò nel salone principale, vuoto a parte un trono collocato sopra un palco al centro. Sul palco vi era spazio per due troni, e quando Chemosh aveva costruito il castello c’erano effettivamente due troni. Il più grande e magnifico di tali troni apparteneva al dio. Il trono più piccolo e delicato era previsto per Mina. Chemosh aveva fatto a pezzi quel trono.
Le rovine del trono erano disseminate nel salone. Krell, entrando a passi pesanti dopo di lui, calpestò alcune macerie. Sperando di riguadagnare favore agli occhi del dio, Krell prese a profondersi in ammirazione per la struttura architettonica del castello.
Chemosh non prestò attenzione alle adulazioni del cavaliere della morte. Si sedette sul trono e attese, in tensione, che il fantasma di Mina venisse da lui. L’attesa era sempre un’agonia. Qualcosa in lui segretamente sperava che Mina non comparisse, sperava di non rivederla mai più. Forse allora avrebbe potuto dimenticare. Ma se per qualche motivo passava più tempo del solito e il fantasma non compariva, a Chemosh pareva di impazzire.
Poi Mina arrivò, e Chemosh emise un sospiro che era un miscuglio di disperazione e di sollievo. La forma di Mina, ondeggiante e delicata e pallida come intessuta in tela di ragno, svolazzò per il salone verso di lui. Mina indossava una sorta di lunga veste morbida di seta nera che pareva agitata dalle correnti sotterranee del profondo, poiché ondeggiava delicatamente attorno alla sua forma spettrale. Mina sollevò una mano spettrale nell’avvicinarsi a lui, e aprì la bocca, come stesse dicendo qualcosa. Le sue parole furono soffocate dalla morte.
«Krell», disse concisamente Chemosh. «Tu risiedi sul piano della morte, come lei. Parla per me allo spirito di Mina. Domandale che cosa vuole dirmi tanto disperatamente! È sempre la stessa cosa», mormorò febbrilmente, tirandosi il pizzo sulla manica. «Viene da me e sembra volermi dire qualcosa, e io non riesco a udirla! Forse tu sei capace di comunicare con lei.»
Krell aveva odiato Mina quando era stata in vita. Lei l’aveva affrontato senza paura la prima volta che si erano incontrati, e per questo lui non l’aveva mai perdonata. Era contento che fosse morta, e l’ultima cosa che desiderasse era agire da intermediario fra lei e il suo amato.
«Mio signore», si azzardò a far notare Krell, «voi siete il sovrano del piano dei morti e dei morti viventi. Se non potete comunicare voi...».
Chemosh rivolse uno sguardo bieco al cavaliere della morte, che si inchinò e mormorò qualcosa riguardo al suo essere lieto di parlare con Mina ogni volta che lei dovesse decidere di compiere un’apparizione.
«Lei è qui adesso, Krell. Parlale! Che aspetti? Domandale che cosa vuole!»
Krell si guardò attorno. Non vide niente, ma non voleva deludere il suo signore e così prese a parlare a una crepa nel muro.
«Mina», disse Krell con tono sonoro e mesto, «il mio signore Chemosh vorrebbe sapere...».
«Non lì!» disse esasperato Chemosh. Fece un gesto. «Lei è qui! Vicino a me!»
Krell guardò qua e là nel salone, poi disse quanto più diplomaticamente possibile: «Mio signore, il viaggio dal Bastione della Tempesta è stato arduo. Forse dovreste coricarvi...».
Chemosh saltò giù dal trono e si diresse a passi lunghi e irosi verso il cavaliere della morte. «Di te non resta molto, Krell, ma quello che c’è lo ridurrò in frammenti infinitesimi e lo sparpaglierò ai quattro angoli dell’ Abisso...»
«Vi giuro, mio signore», gridò Krell, arretrando precipitosamente, «che non so di che cosa parliate! Voi dite "parla con Mina" e io sarei lieto di eseguire il vostro ordine, ma non c’è nessuna Mina con cui io possa parlare!».
Chemosh si fermò. «Tu non la vedi?» Indicò il punto in cui si trovava Mina. «Se io allungo il braccio, posso toccarla.» Fece seguire l’azione alle parole e tese la mano verso di lei.
Krell girò la testa munita di elmo nella direzione indicata e fissò con tutte le sue forze. «Oh, certo. Adesso che me la indicate...»
«Non mentirmi, Krell!» gridò irato Chemosh, serrando il pugno.
Il cavaliere della morte indietreggiò. «Mio signore. Mi dispiace veramente. Io voglio vederla, ma non la vedo...»
Chemosh spostò lo sguardo da Krell all’apparizione. Strinse gli occhi. «Tu non la vedi. Strano. Mi domando...»
Alzò la voce, urlando, cosicché riecheggiò nel regno ombroso della morte. «A me! Servi, schiavi! A me! Subito!»
Il salone si riempì di una folla spettrale, costretta ad arrivare all’ordine del padrone. Fantasmi e spettri si radunarono attorno a Chemosh e attesero nel consueto silenzio che lui li comandasse.
«Tu vedi questi miei scagnozzi, vero, Krell?» Chemosh compì un ampio gesto col braccio.
Abbandonati dal fiume di anime che scorreva per l’eternità, i morti viventi caduti in preda alle lusinghe del Signore della Morte si libravano in una palude stagnante fatta della loro stessa malvagità.
«Sì, mio signore», disse Krell. «Li vedo.» Erano creature ignobili, e Krell rivolse loro un’occhiata sdegnosa.
«E non vedi Mina in mezzo a loro?»
Krell rimase tremante in un’agonia di indecisione. «Mio signore, dopo la mia morte la mia vista non è più quella di un tempo...»
«Krell!» urlò Chemosh.
Le spalle del cavaliere della morte si accasciarono. «No, mio signore. Lo so che non volete sentirvelo dire, ma lei non è tra questi...»
Il Signore della Morte cinse con le braccia Krell, stringendolo forte, schiacciandogli l’armatura e sfondandogli la corazza.
«Krell», urlò Chemosh, «mi hai conservato la sanità di mente!».
Gli occhi del cavaliere della morte ebbero un lampo di stupore.
«Mio signore?»
«Che sciocco sono stato!» dichiarò Chemosh. «Ma non più. Lui pagherà per questo! Giuro sul Dio Supremo che mi ha scacciato dal cielo e su Chaos che mi ha salvato che Nuitari la pagherà!»
Lasciando andare Krell e congedando con un gesto impaziente gli altri morti viventi, Chemosh fissò l’immagine di Mina, che ancora gli si librava davanti.
«Dammi la tua spada, Krell», ordinò Chemosh, tendendo la mano.
Il cavaliere della morte estrasse la spada dal fodero e la consegnò al dio.
Afferrando la spada, Chemosh fissò ancora per un lungo momento il fantasma di Mina. Poi, con la spada in mano, la sollevò e balzò contro quell’illusione.
L’immagine di Mina svanì.
Chemosh indietreggiò, pensando ad alta voce. «Un’illusione straordinaria. Ha tratto in inganno perfino me. Ma non poteva trarre in inganno te, mio caro fratello, mio ottimo amico, Lord Krell!»
«Sono lieto di avervi compiaciuto, mio signore.» Krell era confuso; grato, ma confuso. «Però non vi seguo del tutto...»
«Un’illusione, Krell! Il fantasma di Mina era un’illusione! Ecco perché non potevi vederla. Mina non è nel tuo regno, nel regno della morte. Mina è viva, Krell. Viva... e prigioniera.»
Chemosh si fece cupo. «Nuitari mi ha mentito. Non l’ha uccisa, come ha finto di fare. L’ha imprigionata nella sua Torre sotto il Mare di Sangue. Ma perché? Qual è il suo movente? La vuole forse per sé? Ha forse ipotizzato che io la dimenticassi, quando l’avessi ritenuta morta? Ah, capisco il suo gioco. Probabilmente le ha detto che io l’ho abbandonata. Lei non gli crede, però. Mina mi ama. Mi sarà fedele. Devo andare da lei...»
Si interruppe.
«E se lui è riuscito a sedurla? Mina è una mortale, dopo tutto», proseguì il dio, con la voce che gli si induriva. «Questa Mina una volta giurò di amare e seguire la regina Takhisis, solo per passare poi da lei a me. Forse Mina è passata da me a Nuitari. Forse entrambi complottano contro di me. Potrei ficcarmi in una trappola...»
Si voltò di scatto. «Krell!»
«Mio signore!» Il cavaliere della morte cercava disperatamente di tenere il passo delle divagazioni del dio.
«Tu dici che Zeboim ha recuperato il pezzo del khas contenente l’anima di suo figlio?» domandò Chemosh.
«Non è stata colpa mia!» si affrettò a dire Krell. «C’erano un kender e un insetto gigantesco...»
«Smettila di piagnucolare! Una volta tanto hai fatto qualcosa di giusto. Ti manderò a fare una commissione.»
A Krell non piaceva il sorriso malizioso del dio.
«Quale commissione sarà mai, mio signore?» domandò guardingo il cavaliere della morte. «Dove devo andare?»
«Da Zeboim...»
Krell sferragliando cadde in ginocchio. «Potete anche darmi subito il colpo di grazia, mio signore Chemosh, e farla finita con tutto.»
«Su, su, Krell», disse Chemosh con tono tranquillizzante. All’improvviso si ritrovò di ottimo umore. «La dea del mare sarà lieta di vederti. Le recherai notizie gradite... purché lei ti consenta di vivere abbastanza a lungo per riferirle...»
Il nano e il mezzelfo erano intenti a scrutare nella bacinella di metallo dei draghi, ridacchiavano entrambi alla vista dei lamenti di Chemosh per la sua innamorata «morta» e si burlavano del Signore della Morte, facendosi beffe di lui come ormai facevano da molti giorni, quando le cose presero ad andare terribilmente storte.
«Ha capito il nostro gioco!» disse il nano, allarmato.
«No, non è vero», rispose il mezzelfo, schernendolo.
«Ti dico che se n’è accorto!» gridò il nano. «Guarda lì! Ha una spada! Concludi l’incantesimo, Caele! Svelto!»
«Non siamo in pericolo, Basalt, codardo», disse Caele, arricciando il labbro. «Che cosa credi? Che lui salti attraverso il tempo e lo spazio e ci tagli via gli orecchi?»
«Come fai a sapere che non può?» ruggì Basalt. «È un dio! Concludi e basta!»
Caele diede un’occhiata al volto del dio (livido di rabbia, con gli occhi ardenti come i fuochi eterni dell’Abisso) e dedusse che forse il suo collega arcimago aveva ragione. Il mezzelfo pose entrambe le mani sulla pesante bacinella di metallo dei draghi, puntò i piedi e spinse la bacinella giù dal piedistallo, rovesciandone a terra il contenuto. Il sangue schizzò sui piedi nudi di Caele e spruzzò la veste nera del nano.
Il dio e la sua spada svanirono.
Basalt si deterse il viso con la manica nera. «C’è andato vicino!»
«Ancora non credo che potesse fare qualcosa a noi», mormorò Caele. «Non abbiamo osato rischiare.»
Caele ripensò però alla spada enorme che il dio brandiva, e fu costretto a concordare col nano. Lui e Basalt rimasero in silenzio a fissare malinconicamente la bacinella di metallo dei draghi vuota e la pozza di sangue. Entrambi stavano pensando a un altro dio che si sarebbe incollerito, un dio molto più vicino a loro.
«Non è stata colpa nostra», mormorò Caele, mordendosi le unghie. «Dobbiamo dirlo con chiarezza.»
«Era solo questione di tempo perché Chemosh scoprisse l’inganno», concordò Basalt.
«Sono sorpreso che sia durato tanto a lungo», soggiunse Caele. «Lui è un dio, dopo tutto. Bada di rammentarlo al padrone quando gli racconterai che cosa è successo...»
«Quando glielo racconterò io!?» Basalt lo guardò torvo.
«Sì, certo, devi dirglielo tu», affermò con freddezza il mezzelfo. «Sei tu il Custode, dopo tutto. Sei tu che comandi. Io sono soltanto il tuo sottoposto. Diglielo tu al padrone.»
«Io sono il Custode della Torre. Eri tu quello incaricato di creare l’incantesimo dell’illusione. Per quanto ne so, è stata colpa tua se Chemosh se n’è accorto! Forse hai commesso un errore...»
Caele smise di mordersi le unghie. Le lunghe dita sottili si arricciarono ad artiglio. «Forse se tu non ti fossi fatto prendere dal panico e non mi avessi ordinato di concludere prematuramente l’incantesimo...»
«Concludere l’incantesimo! Di che parli?»
Quella voce severa giunse da dietro le loro spalle. I due maghi delle Vesti Nere si scambiarono occhiate allarmate e poi, facendosi piccoli per la paura, si girarono per affrontare il loro padrone, Nuitari, Dio della Luna Nera.
Entrambi i maghi si inchinarono profondamente. Entrambi indossavano una veste nera, simbolo della loro dedizione a Nuitari. A parte questo, le somiglianze fra loro finivano qui. Caele era alto e magro, coi capelli radi e untuosi, che raramente si preoccupava di lavare. Era mezzo umano e mezzo elfo, e univa in sé l’odio per entrambe le razze. Basalt, il nano, era basso di statura e tarchiato. La sua veste nera era linda e pulita, la barba pettinata. A lui non piaceva granché nessuno di nessuna razza.
Drizzandosi, i due cercarono di apparire a proprio agio, come completamente ignari del fatto di trovarsi su un pavimento inondato di sangue di drago, con la bacinella di metallo dei draghi rovesciata e traballante ai loro piedi.
Caele, più alto, guardò giù oltre il proprio lungo naso verso Basalt, il quale osservò Caele con occhio furioso da sotto le folte sopracciglia nere.
«Diglielo», disse Caele col solo movimento delle labbra.
«Diglielo tu», ringhiò Basalt.
«Qualcuno farà meglio a dirmelo, e subito», sibilò Nuitari.
«Chemosh ha scoperto l’illusione», disse Basalt, cercando di incrociare lo sguardo tenebroso e inflessibile del dio, e trovando difficoltà.
«Stava arrivando dritto contro di noi», piagnucolò Caele, «brandendo una spada enorme. Io ho detto a Basalt che il dio non poteva farci del male, ma il nano si è fatto prendere dal panico e ha insistito perché si concludesse l’incantesimo...».
«Io non ho insistito perché tu rovesciassi la bacinella», sbottò Basalt.
«Eri tu quello che ululava come un dragone alato ferito...»
«Tu eri spaventato quanto me!»
Nuitari fece un gesto repentino con le mani.
Basalt, tremante, domandò a bassa voce: «Padrone, Chemosh verrà a liberarla?».
Non c’era bisogno di nominare colei a cui si riferiva il nano.
«Forse», disse Nuitari, «a meno che il Signore della Morte non sia più saggio che ossessionato».
Caele diede un’occhiata di traverso a Basalt, che alzò le spalle.
Il volto a luna piena del dio, con gli occhi privi di palpebre e la bocca dalle labbra carnose, non aveva alcuna espressione. I maghi non sapevano dire se lui fosse soddisfatto o dispiaciuto, sorpreso o allarmato, o semplicemente annoiato dell’intera vicenda.
«Ripulite questo disastro» fu tutto quanto disse Nuitari prima di girare sui talloni e uscire.
Ci vollero sia Caele sia Basalt per sollevare la pesante bacinella, che aveva la forma di un drago serpentino con la coda avvolta a spire a formare l’incavo, e rimetterla sul piedistallo. Una volta rimessa a posto la bacinella, i due guardarono giù la pozza che si allargava sul pavimento in lastre di pietra.
«Dobbiamo cercare di recuperare una parte del sangue?» domandò Basalt. Il sangue di drago, specialmente quello donato volontariamente da un drago, era un bene estremamente raro e prezioso.
Caele scrollò il capo. «Ormai è contaminato. Inoltre, il sangue perde la potenza per gli incantesimi dopo quarantott’ore. Dubito che il padrone ritenterà questo incantesimo in tempi brevi.»
«Be’, allora vai a prendere degli stracci e un secchio e noi...»
«Io sarò anche il tuo sottoposto, Basalt, ma non sono il tuo cagnolino!» ribatté con rabbia Caele. «Io non vado a prendere niente! Prenditi tu gli stracci e il secchio. Io devo esaminare la bacinella per vedere se si è danneggiata.»
Basalt grugnì. La bacinella era fatta di metallo dei draghi. Lui l’avrebbe potuta lasciar cadere dalle vette dei Signori del Destino, e la bacinella avrebbe toccato terra giù in fondo senza subire neanche un’ammaccatura. Basalt sapeva per esperienza, però, che poteva trascorrere la mezz’ora successiva impegnato con Caele in un’aspra discussione in cui il nano non avrebbe mai prevalso, oppure poteva andare a prendere lui gli stracci e il secchio. La dispensa dove tenevano questi oggetti di uso comune era situata a tre livelli di distanza da dove si trovavano adesso, una lunga camminata su e giù per le scale, per le gambe corte del nano. Basalt valutò se rimuovere per magia il sangue versato o fare apparire gli stracci. Respinse entrambe le ipotesi, tuttavia, per timore che Nuitari lo scoprisse.
Nuitari aveva proibito ai suoi maghi di utilizzare la magia per compiti banali o frivoli. Sosteneva che usare la magia per lavare i piatti della cena fosse un insulto agli dèi. Basalt e Caele dovevano lavarsi i panni, pescare per procurarsi i viveri (il motivo per cui avevano inventato l’aggeggio con cui avevano intrappolato Mina), cucinare e fare le pulizie, il tutto senza il beneficio degli incantesimi. Altri maghi che prima o poi fossero venuti a vivere nella Torre avrebbero dovuto vivere con le stesse limitazioni. Sarebbe stato loro richiesto di eseguire tutti questi lavori umili con impegno fisico, non magico. Basalt si incamminò per la sua commissione, ritornando di cattivo umore e con i muscoli dei polpacci che gli dolevano.
Al ritorno trovò Caele che si divertiva a disegnare figure stilizzate immergendo il dito del piede nel sangue di drago.
«Ecco», disse Basalt, gettando a Caele uno straccio. «Adesso che hai esaminato la bacinella, puoi pulirla.»
Caele si penti di non avere approfittato dell’assenza del nano per andarsene. Il mezzelfo aveva continuato a indugiare nella sala degli incantesimi nella speranza che Nuitari ritornasse e rimanesse impressionato nel trovare Caele intento a prendersi cura così bene della bacinella, che era uno degli oggetti magici preferiti dal dio. Poiché vi era ancora la possibilità che Nuitari ritornasse, Caele prese a strofinare via i resti del sangue di drago.
«Allora che voleva dire il padrone riguardo a Chemosh, che dovrebbe essere più saggio che ossessionato?» domandò Basalt. Il nano si era chinato carponi e con una spazzola di setole strofinava vigorosamente la pietra macchiata.
«È ossessionato da questa Mina, fin qui è chiaro. È così che siamo riusciti a perpetrare questo inganno ai suoi danni.»
«Una cosa che io non ho mai capito comunque», brontolò Basalt.
Caele, memore del fatto che il padrone potesse essere a portata d’orecchio, si profuse in lodi.
«In effetti io considero davvero geniale la manovra di Nuitari», disse il mezzelfo. «Quando abbiamo catturato Mina, il padrone intendeva usare la minaccia di darle la morte come metodo per far tenere la bocca chiusa a Chemosh. Vedi, Chemosh aveva minacciato di dire ai due cugini di Nuitari che lui aveva costruito segretamente questa Torre e cercava di stabilire una propria base di potere indipendente da loro. Minacciava di dire a tutti gli dèi che il padrone ha in suo possesso un deposito di oggetti sacri appartenenti a ognuno di loro.»
«Ma la minaccia di morte non ha funzionato», fece notare Basalt. «Chemosh ha abbandonato Mina al suo destino.»
«È qui che si è vista rifulgere la genialità del padrone», disse Caele. «Nuitari l’ha uccisa sotto gli occhi di Chemosh, o meglio il padrone ha fatto finta di ucciderla.»
Caele attese un attimo, sperando che Nuitari entrasse e ringraziasse per i complimenti il suo fedele seguace. Nuitari però non venne, e non vi era segno che avesse udito le osservazioni adulatorie del mezzelfo. Caele ne aveva abbastanza delle pulizie. Gettò a terra lo straccio.
«Ecco, ho finito.»
Basalt si alzò per esaminare l’opera. «Finito!? E quando mai hai cominciato? Guarda qua. C’è sangue sulle squame attorno alla coda, e negli occhi e sui denti, ed è filtrato in tutte queste piccole fenditure tra le squame...»
«È solo un effetto della luce», disse con noncuranza Caele. «Ma se non ti va bene, fallo tu. Io devo andare a studiare i miei incantesimi.»
«È proprio questo il motivo per cui sono stato nominato io Custode!» disse Basalt dietro le spalle di Caele mentre il mezzelfo usciva dalla porta. «Tu sei un maiale! Tutti gli elfi sono maiali.»
Caele si girò, e negli occhi a mandorla gli balenava l’ostilità. Serrò i pugni.
«Ho ucciso degli uomini, per insulti del genere, nano.»
«Hai ucciso una donna per questo, per lo meno», disse Basalt. «L’hai strangolata e spinta giù da un dirupo.»
«Lei ha avuto quello che si meritava e l’avrai anche tu, se continui a parlare così!»
«Così come? Neanche tu ami gli elfi. Tu ne dici di peggio su di loro in continuazione.» Basalt lucidò la bacinella, infilando lo straccio in profondità nelle fenditure.
«Poiché la vacca che mi ha dato alla luce era una degli elfi, posso dire quello che mi pare su di loro», ribatté Caele.
«Bel modo di parlare di tua madre.»
«Ha fatto la sua parte. Mi ha messo al mondo e si è divertita a farlo. Per lo meno io ho avuto una madre. Io non sono spuntato in una grotta buia come qualche sorta di fungo...»
«Adesso stai esagerando!» ululò Basalt.
«Non abbastanza!» sibilò Caele con furia, mentre le lunghe dita gli prudevano.
Il nano gettò a terra lo straccio. Il mezzelfo si scordò degli incantesimi da studiare. I due si guardarono con occhio furioso. L’aria scoppiettava per la magia.
Nuitari, osservando dall’ombra, sorrise. Gli piaceva che i suoi maghi fossero combattivi. Così tenevano affilate le armi.
Basalt era mezzo matto. Caele era totalmente matto. Nuitari lo sapeva molto prima di portarli in questa Torre sotto il Mare di Sangue. Non gli importava, fintanto che erano bravi nel loro lavoro, e tutti e due erano bravissimi, poiché avevano avuto anni per perfezionare le loro doti.
Per via della loro lunga vita, il mezzelfo e il nano erano tra i pochi incantatori rimanenti su Krynn che fossero stati al servizio del Dio della Luna Nera prima che sua madre rubasse il mondo. Entrambi avevano una memoria eccellente e avevano conservato la conoscenza dell’arte magica durante gli anni intercorsi.
Questi due erano stati fra i primi a guardare in cielo e a vedere la luna nera, ed erano stati fra i primi a cadere in ginocchio e a offrire i loro servigi al dio. Nuitari li aveva trasportati in questa Torre a una sola condizione: che non si uccidessero a vicenda. Sia il nano sia il mezzelfo erano maghi eccezionalmente potenti. Una battaglia fra loro non si sarebbe soltanto conclusa con la perdita di due servitori preziosi per Nuitari, ma probabilmente avrebbe anche causato gravi danni a questa Torre da poco ricostruita.
Caele (mezzo kagonesti, mezzo ergothiano) era incline a sfuriate violente. Aveva già commesso degli omicidi e non avrebbe avuto scrupoli a rifarlo. Avendo rinunciato sia al lato umano sia a quello elfico, aveva abbandonato la civiltà, vagando nelle regioni disabitate come una bestia selvatica finché il ritorno della magia gli rese la vita di nuovo degna di essere vissuta. Quanto a Basalt, il suo uso della magia nera gli aveva fatto guadagnare numerosi nemici, i quali, quando gli dèi della magia erano scomparsi, avevano esultato nello scoprire che il loro nemico era improvvisamente privo di poteri. Basalt era stato costretto a nascondersi in profondità sottoterra, dove aveva vissuto per anni nella disperazione, piangendo la perdita della propria arte. Nuitari aveva restituito la vita al nano.
Nuitari attese pazientemente di vedere l’esito del confronto. Questi scoppi d’ira tra i due erano frequenti. L’antipatia e la diffidenza reciproche impallidivano però in confronto alla paura che i due nutrivano per lui, e finora dai loro alterchi non era mai venuto fuori nulla. Questo confronto era più teso del solito, poiché entrambi erano nervosi e irritati dopo l’incontro con Chemosh. Volavano scintille e incantesimi, ma Nuitari diede un forte colpo di tosse.
La testa di Basalt si girò di scatto. Gli occhi di Caele tremolarono per la paura. La tensione magica uscì sibilando dalla sala come l’aria da una vescica di maiale gonfiata.
Basalt si infilò le mani nelle maniche della veste per non essere tentato di usarle. Caele deglutì diverse volte, facendo lavorare le mascelle come se dovesse letteralmente masticare la collera prima di mandarla giù.
«Volete sapere perché mi sono preso la briga di creare questa illusione di Mina?» domandò Nuitari, entrando nella sala.
«Soltanto se volete dircelo, padrone», disse umilmente Basalt.
«Io sono affascinato da questa Mina», disse Nuitari. «Trovo difficile credere che la morte di una semplice mortale possa avere un effetto tanto devastante su un dio, eppure Chemosh era quasi distrutto dal dolore! Che genere di potere esercita su di lui questa Mina? Mi interrogo poi sul rapporto di Mina con Takhisis. Vi sono dicerie secondo cui la Regina delle Tenebre fosse gelosa di questa ragazza. Mia madre! Gelosa di una mortale! Impossibile. È per questo che vi ho ordinato di proseguire l’incantesimo di illusione: per impedire a Chemosh di venire in soccorso di Mina, in modo che noi potessimo studiarla.»
«Avete appreso qualcosa al suo riguardo, padrone?» domandò Caele. «Ritengo che dobbiate avere trovato particolarmente illuminanti le mie relazioni...»
«Le ho lette», ammise Nuitari. Aveva in effetti trovato estremamente illuminanti le relazioni sul comportamento di Mina in cattività, specialmente sotto un certo aspetto, ma a loro due non l’avrebbe rivelato. «Adesso che ho soddisfatto la vostra curiosità, ritornate pure ai vostri doveri.»
Caele raccolse uno straccio e prese a lucidare la bacinella. Basali sciacquò lo straccio nell’acqua che adesso aveva una sfumatura rosea, e si rimise carponi.
Quando i passi di Nuitari non si sentirono più riecheggiare nei corridoi fra le sale della magia, Caele gettò lo straccio nel secchio dell’acqua.
«Finisci tu. Io ho i miei incantesimi da studiare. Se il Signore della Morte è in arrivo per abbattere la nostra Torre, ne avrò bisogno.»
«Vai pure, allora», disse cupo Basalt. «Non mi sei comunque di alcuna utilità. Però lavati i piedi prima di uscire da questa sala. Non voglio vedere impronte di sangue nei miei corridoi puliti!»
Caele, che non portava mai scarpe, infilò i piedi nudi nel secchio dell’acqua. Basalt scrutò il sangue rappreso spruzzato sulla veste già sudicia del mezzelfo ma non disse nulla, sapendo che sarebbe stato inutile. Basalt considerava già una fortuna che Caele si degnasse di indossare una veste. Il mezzelfo aveva trascorso anni a correre per le foreste nudo come un lupo e altrettanto selvaggio.
Caele fece per uscire dalla porta, poi si fermò e si voltò. «Volevo domandarti: quando sei rimasto solo con Mina, ti ha forse parlato di diventare discepolo di Chemosh?»
«Sì», disse Basalt. «Io le ho fatto marameo, naturalmente. E tu?»
«Io le ho riso in faccia», disse Caele.
I due si scrutarono a vicenda sospettosamente.
«Adesso prendo congedo», dichiarò Caele.
«Che liberazione», disse Basali, ma soltanto alla propria barba.
Scrollando il capo, si rimise a strofinare e a mormorare.
«Quel Caele è un maiale. Non mi interessa chi mi ascolta. Quel suo lungo naso è sempre per aria. Crede di essere le palle di Reorx, lui. Ed è anche un bastardo di pigrone. E un bugiardo. Fa fare a me tutto il lavoro e si prende lui la gloria.»
Il nano strofinò vigorosamente. «Non posso lasciare che il sangue inzuppi l’intonaco. Lascia una macchia permanente. Il padrone mi taglierebbe la barba. Mi domando», soggiunse Basalt, sedendosi sulle anche e cercando con lo sguardo il mezzelfo, «se Caele abbia davvero riso in faccia a Mina, o se abbia accettato la sua offerta di diventare uno degli eletti di Chemosh. Forse dovrei farne menzione al padrone...».
Caele si chiuse nella sua stanza ed estrasse un libro di incantesimi. Non lo aprì, però, ma rimase seduto a fissarlo.
«Mi domando se Basalt ci sia cascato con le menzogne di Mina. Non mi stupirebbe affatto. I nani sono così creduloni. Devo ricordarmi di informare Nuitari che Basalt potrebbe essere un traditore...»
La Torre rimaneva in piedi, indisturbata. Chemosh non venne ad abbatterla, pietra magica su pietra magica, per soccorrere la sua amata.
«Diamogli tempo», disse Nuitari.
Il dio si era appostato fuori della stanza in cui teneva imprigionata Mina, ad aspettare il Signore della Morte.
Passò altro tempo. Mina rimaneva in isolamento nella sua cella, tagliata fuori dal contatto con gli dèi e gli uomini, e ancora il suo innamorato non veniva a liberarla.
«Ti ho sottovalutato, mio signore», mormorò Nuitari al suo nemico che non si vedeva. «Per questo ti chiedo scusa.»
Chemosh doveva essere in estasi nel sapere che la donna da lui amata era ancora viva. Doveva essere furioso per l’inganno giocatogli. Il Signore della Morte non era il tipo, a quanto pareva, che permettesse alla gioia o alla collera di privarlo dell’intelletto. Chemosh voleva Mina, ma voleva anche i potenti oggetti sacri che Nuitari teneva sotto chiave dentro la Torre. Il Signore della Morte stava indubbiamente cercando un modo per conseguire l’una e gli altri.
«Che stai facendo?» domandò Nuitari al collega dio. «Sei corso a spifferare segreti agli altri dèi? Stai raccontando loro come il malvagio Nuitari abbia restaurato la Torre dell’Alta Magia di Istar? Come abbia recuperato e rivendicato per sé un tesoro di oggetti sacri? Hai raccontato tutto questo?»
Nuitari sorrise. «No, credo di no. Perché? Perché allora tutti gli dèi conoscerebbero il segreto degli oggetti sacri e, una volta venuti a conoscenza della cosa, vorrebbero tutti farsi restituire i loro giocattoli. E così dove finirebbe Chemosh? Di nuovo nel freddo e buio Abisso.»
Al termine dell’Era del Potere, il Re-Sacerdote di Istar aveva decretato che tutti gli oggetti sacri di quegli dèi che non erano dèi buoni e giusti (a giudizio del Re-Sacerdote) dovessero essere confiscati dagli eserciti di devoti del Re-Sacerdote. Oltre a quegli oggetti che furono confiscati, il Re-Sacerdote offrì laute ricompense per tutti gli oggetti sacri presumibilmente utilizzati per scopi malvagi. Tra i guerrieri devoti, i «buoni» cittadini, i ladri e i saccheggiatori, i templi di quasi ogni dio di Ansalon furono spogliati degli oggetti religiosi.
Prima di tutto si sequestrarono gli oggetti sacri provenienti dai templi degli dèi dichiaratamente malvagi: Chemosh e Takhisis, Sargonnas e Morgion. Toccò poi ai templi degli dèi neutrali cadere vittime dei cacciatori di oggetti sacri, poiché si affermava che «un dio che non è con noi è contro di noi.»
Infine, col diffondersi del fervore religioso (e dell’avidità), i guerrieri devoti razziarono i templi degli dèi della luce, compresi quelli della dea della guarigione, Mishakal, poiché, pur essendo lei consorte di Paladine, Mishakal aveva commesso l’errore di aprire le porte della guarigione a tutti i mortali, perfino a coloro che non erano ritenuti degni della benedizione di un dio. Si sapeva in effetti che i suoi chierici imponevano le mani per guarire ladri e prostitute, kender e nani, e perfino maghi. Quando i chierici di Majere, dio della giustizia, vennero a sapere che i sacerdoti di Mishakal venivano bastonati e gli oggetti sacri alla dea venivano rubati, cercarono di protestare. I loro monasteri furono allora razziati. Toccò ai loro oggetti sacri sparire.
Ben presto gli oggetti sacri a ogni dio del pantheon, con l’eccezione di Paladine, furono rinchiusi in quella che un tempo era stata la Torre dell’Alta Magia di Istar ma che adesso era chiamata Solio Febalas, Sala del Sacrilegio. Si sussurrava che i sacerdoti di Paladine incominciassero a sentirsi nervosi e che più di qualcuno fosse stato visto rinchiudere nei depositi le reliquie sacre al dio. Ma nemmeno queste erano al sicuro.
Quando il Cataclisma colpì Istar, la Sala del Sacrilegio fu distrutta nell’incendio causato dall’ira degli dèi. Gli dèi erano sicuri che gli oggetti sacri fossero stati distrutti nella conflagrazione. Volevano che i mortali per un po’ vivessero con i propri mezzi.
Nessuno più di Nuitari era rimasto sorpreso nello scoprire intatti gli oggetti sacri. La sua idea era stata di rivendicare per sé la Torre. Trovare quegli oggetti era stato un colpo di fortuna. Nuitari sapeva di non poter mantenere per sempre un segreto tanto importante. Era solo questione di tempo perché gli altri dèi scoprissero la verità e arrivassero da lui a esigere la restituzione degli oggetti sacri. Questi ultimi erano in un luogo sicuro, protetti sia da potenti incantesimi magici sia da Midori, un antico e irascibile drago marino. Simili protezioni avrebbero tenuto lontani i mortali; non avrebbero fermato un dio.
Nuitari non doveva preoccuparsi di questo.
Gli dèi avrebbero fermato gli dèi.
Ciascun dio avrebbe desiderato i propri oggetti sacri, naturalmente. Ciascun dio, pur prendendosi i propri oggetti, avrebbe anche desiderato far sì che gli altri dèi non prendessero i loro.
Per esempio, Mishakal non avrebbe voluto che Sargonnas, attualmente il più potente dio delle tenebre, riguadagnasse i suoi oggetti sacri. La dea avrebbe cercato alleati nel tentativo di impedirglielo; alleati improbabili, come Chemosh, il quale avrebbe parteggiato in questo per Mishakal, poiché il Signore della Morte era impegnato in una lotta di potere con Sargonnas e non avrebbe voluto che il Dio dalle Corna divenisse più forte di quanto già era. Poi vi era Gilean, Dio della Bilancia, il quale poteva ben opporsi agli dèi sia della luce sia delle tenebre, per timore che la restituzione di tali oggetti sacri a qualche dio sconvolgesse un equilibrio già vacillante.
La furia sacra si sarebbe veramente scatenata quando gli dèi avessero scoperto che Nuitari era in possesso degli oggetti sacri di Takhisis, la defunta Regina delle Tenebre, e di quelli del dio in esilio volontario, Paladine. Anche se i loro creatori non c’erano più, gli oggetti rimanevano, così come la loro potenza sacra, che poteva essere enormemente utile a qualunque dio o mortale se ne impadronisse. Le dispute su questi soli oggetti potevano ben durare dei secoli.
Frattanto il progetto di Nuitari era di andare in giro per il cielo a stringere patti segreti, consegnando nascostamente un oggetto sacro qui e un altro là, approfittando della contrapposizione fra un dio e l’altro e rafforzando così la propria posizione.
Anche se Nuitari aveva odiato Takhisis e aveva fatto del suo meglio per opporsi a lei in tutto quanto la dea avesse mai fatto, era simile a sua madre sotto un aspetto: aveva la stessa tenebrosa ambizione.
A opporsi a tale ambizione erano i due cugini di Nuitari, Lunitari e Solinari. Le divinità della magia bianca e della magia rossa non avrebbero dato un soldo bucato per gli oggetti sacri. Il Re-Sacerdote, diffidando dei maghi e della loro magia, non aveva tenuto oggetti appartenenti a maghi. Quegli oggetti magici che furono ritrovati (e ve n’erano pochi, dato che i maghi li avevano nascosti quasi tutti) furono immediatamente distrutti. I cugini di Nuitari sarebbero stati furiosi quando fossero venuti a sapere che lui se n’era andato a costruire la sua Torre. Sarebbero stati furiosi... ma anche costernati, addolorati. Fin dall’inizio dei tempi, gli dèi delle tre lune erano rimasti assieme e uniti per salvaguardare ciò che per loro era particolarmente prezioso: la magia.
I tre cugini non avevano mai avuto segreti l’uno per gli altri. Finora.
Nuitari si sentiva in colpa per avere infranto la fiducia dei cugini, ma non tanto in colpa. Fin da quando sua madre, Takhisis, l’aveva tradito sottraendo il mondo (il suo mondo!), lui aveva deciso che da allora in poi non si sarebbe più fidato di nessuno. Inoltre aveva escogitato un metodo per rappacificarsi con i cugini. Niente sarebbe più stato come prima fra loro, naturalmente. Ma d’altronde niente sarebbe più stato come prima per nessun dio. Il mondo, così come il cielo, era cambiato per sempre.
Nuitari si domandava che cosa stesse architettando Chemosh, e questo ricondusse i pensieri del dio a Mina. Nuitari veniva qui spesso. Non per interrogare Mina. Questo lo facevano le sue Vesti Nere, e avevano scoperto ben poco. Nuitari si accontentava di osservarla. Adesso, d’impulso (e pensando inoltre che Chemosh potesse ancora sorprenderlo), Nuitari decise di interrogare personalmente Mina.
L’aveva trasferita dalla cella di cristallo in cui l’aveva imprigionata inizialmente. La vista di lei che vagava qua e là si era rivelata una distrazione eccessiva per i suoi maghi. Nuitari l’aveva avvolta in un bozzolo magico di isolamento, in modo che non potesse comunicare con nessuno in nessun luogo, e l’aveva trasferita in un appartamento previsto come alloggio per gli arcimaghi delle Vesti Nere destinati a popolare la Torre sotto il Mare di Sangue.
Mina era alloggiata in un appartamento destinato a un mago di alto rango. Si componeva di due stanze, un salotto e uno studio, dove dal pavimento fino al soffitto erano allineati scaffali di libri, e di una camera da letto privata.
Mina percorreva a grandi passi il suo alloggio come un minotauro in gabbia, camminava per tutta la lunghezza del salotto, passava da lì alla camera da letto e poi ripercorreva i propri passi verso il salotto. I maghi riferivano che talvolta Mina camminava così per ore, camminava e camminava fino a sfinirsi. Non faceva nient’altro che camminare, malgrado il fatto che Nuitari le avesse fornito libri su una varietà di argomenti, che andavano dalla dottrina religiosa alla poesia, dalla filosofia alla matematica. Mina non apriva mai neanche un libro, riferivano i maghi, per lo meno non se ne erano accorti.
Nuitari aveva fornito altre forme di divertimento. Su un piedistallo in un angolo vi era un tabellone per il khas. I pezzi erano coperti di polvere. Mina non li aveva mai toccati. Mangiava poco, quello che bastava appena per darle la forza di camminare. Nuitari era contento di non essere andato incontro alla spesa di mettere giù un tappeto. Mina vi avrebbe scavato un buco.
Il Dio della Magia Nera avrebbe potuto attraversare le pareti dissolvendosi, se avesse voluto, per coglierla di sorpresa. Decise di non voler iniziare il loro rapporto in maniera tanto antagonistica e allora, rimuovendo dalla porta il potente lucchetto magico, bussò ed educatamente chiese il permesso di entrare.
Mina non interruppe la sua camminata incessante. Se diede un’occhiata verso la porta, fu tutto qui. Divertito, Nuitari aprì la porta ed entrò nella stanza.
Mina non alzò lo sguardo. «Vattene e lasciami in pace. Ho risposto a tutte le tue domande sciocche a cui intendo rispondere, o meglio ancora, vai a dire al tuo padrone che voglio vederlo.»
«Ogni tuo desiderio è per me un ordine, Mina», disse Nuitari. «Il padrone è qui.»
Mina smise di camminare. Non si fece piccola per la paura né apparve minimamente sconcertata. Lo affrontò con aria audace, di sfida. «Lasciatemi andare!» pretese, e poi soggiunse inaspettatamente, con voce bassa e appassionata: «Oppure uccidetemi!».
«Ucciderti?» Nuitari consentì ai propri occhi dalle palpebre pesanti, che parevano sempre semichiusi, di spalancarsi. «Ti ho trattata così male che tu desideri la morte?»
«Non sopporto di restare rinchiusa!» gridò Mina, e il suo sguardo vagò per la stanza, come se volesse perforare con gli occhi la pietra massiccia.
Un attimo dopo Mina riguadagnò la padronanza di sé. Mordendosi il labbro e parendo pentirsi del proprio scatto, soggiunse: «Non avete nessun diritto di tenermi qui».
«Proprio nessun diritto», concordò Nuitari. «Ma d’altronde io sono un dio e con i mortali faccio quello che voglio, e all’inferno i vostri diritti. Però nemmeno io vado in giro ad assassinare gli innocenti, come fa Chemosh. Mi è giunta notizia dei suoi Prediletti, come li definisce lui.»
«Il mio signore non li assassina. Conferisce loro il dono della vita eterna», ribatté Mina, «della giovinezza e della bellezza perenni. Porta via la paura della morte».
«Questo glielo concedo. Fa davvero così», disse asciutto Nuitari. «Per come la capisco io, quando sei morto la paura di morire è notevolmente ridotta. Per lo meno è così che l’hai spiegata a Basalt e Caele quando hai cercato di sedurli.»
Mina sostenne lo sguardo del dio, cosa che Nuitari trovò sconcertante. Ben pochi mortali potevano guardare in faccia lui o qualunque altro dio. Si domandò, con un lampo di irritazione, se questa ragazzetta fosse stata tanto audace con sua madre.
«Io ho parlato loro di Chemosh», disse Mina, senza scusarsi. «Questo è vero.»
«Né Basalt né Caele hanno però accettato la tua offerta, vero?»
«Vero», ammise Mina. «Il rispetto e la riverenza che hanno per voi sono grandi.»
«Diciamo che amano la potenza che io conferisco loro. Quasi tutti i maghi amano la potenza e sarebbero assai contrariati nel perderla, perfino in cambio della "vita eterna" che, da quanto ho osservato, è piuttosto una morte riscaldata. Dubito che tu possa convertire molti maghi all’adorazione del tuo signore.»
«Ne dubito io stessa», disse Mina, e sorrise.
Il sorriso le trasformò il volto, fece ardere i suoi occhi d’ambra, e Nuitari fu attirato dal loro fascino ardente. In effetti si sentì come scivolare dentro quegli occhi, si sentì avvolgere dal loro calore...
Si riprese con un sobbalzo e guardò Mina con occhi socchiusi. Quale potenza possedeva questa mortale da poter sedurre un dio col proprio sorriso? Nuitari aveva visto femmine mortali ben più attraenti. Una delle sue Vesti Nere, una maga di nome Ladonna, era nota per la sua bellezza e di aspetto era ben superiore a questa Mina. Eppure in lei c’era qualcosa che anche adesso lo agitava profondamente.
«Vi prego di capire, mio signore. Dovevo cercare di convertirli. Era l’unico modo per fuggire.»
«Perché vuoi lasciarci, Mina?» disse Nuitari, fingendo risentimento. «Ti abbiamo trattata male in qualche modo? A parte rinchiuderti, naturalmente, e questo è per la tua stessa incolumità. Basalt e Caele sono entrambi, lo confesso, un po’ pazzi. Di Caele, specialmente, non ci si può fidare, per non dire del fatto che vi sono in giro rotoli e oggetti pericolosi che potrebbero farti del male. Io ho cercato di rendere il tuo soggiorno quanto più piacevole possibile. Hai tutti questi libri da leggere...»
Mina diede un’occhiata agli scaffali e fece un gesto sdegnoso. «Li ho già letti.»
«Tutti quanti?» Nuitari la guardò divertito. «Mi perdonerai se non ti credo.»
«Sceglietene uno», lo sfidò Mina.
Nuitari obbedì, prendendo un libro dallo scaffale.
«Com’è intitolato?» domandò lei.
«Draconici. Uno studio. Il bene può derivare dal male?»
«Apritelo alla prima pagina.»
Nuitari obbedì.
Mina prese a recitare: «"Da tempo gli studiosi sostengono che i draconici, essendo stati creati grazie a magia malvagia, nati da uova corrotte di draghi buoni, siano malvagi e destinati a rimanere sempre tali, senza poter possedere qualità in grado di redimerli. Tuttavia l’esame di un gruppo di draconici attualmente insediati nella città di Teyr rivela"...» Si interruppe. «Sto citando correttamente?»
«Parola per parola», disse Nuitari, e richiuse di scatto il libro.
«Ho letto molto quando ero bambina nella Cittadella», disse Mina, e poi si accigliò, «o per lo meno penso di sì. Non mi ricordo realmente di avere letto. Tutto ciò che ricordo è la luce del sole e le onde che mi scorrevano attorno ai piedi e Goldmoon che mi spazzolava i capelli... Eppure penso di avere trascorso moltissimo tempo a leggere, poiché quando prendo in mano un libro scopro di averlo già letto».
«Scommetto che non hai letto questo qui.» Nuitari si fece materializzare in mano un volume. «Incantesimi di evocazione per le Vesti Bianche, livello avanzato.»
Mina alzò le spalle. «Perché dovrei leggerlo? A me non interessa la magia.»
«Accontentami», disse Nuitari. «Leggi il primo capitolo. Se mi fai questo favore, io ti darò il permesso di uscire dalla tua stanza per un’ora ogni giorno. Potrai percorrere le sale e i corridoi della Torre. Sotto sorveglianza, naturalmente. Per la tua stessa incolumità.»
Mina lo scrutò, come domandandosi a che gioco stesse giocando. Tese la mano.
Nuitari non sapeva bene che cosa si aspettasse di ricavare da questo esperimento: forse nulla più del piacere di umiliare questa giovane mortale, che nel complesso era troppo arrogante e audace, per i suoi gusti.
«Ti avverto», disse, consegnandole il libro, «questo ha su di sé un incantesimo...».
«Che genere di incantesimo?» domandò Mina. Prese il libro dalle mani di lui e l’aprì.
«Un incantesimo di protezione», rispose Nuitari, osservando meravigliato.
Rammentava quando Caele aveva preso in mano quel libro. L’autore, un mago delle Vesti Bianche, vi aveva posto sopra un incantesimo di protezione, affinché soltanto i maghi delle Vesti Bianche potessero usarne gli incantesimi. Caele, delle Vesti Nere, aveva lasciato cadere il libro con un’imprecazione e aveva trascorso gli istanti successivi a torcersi le dita scottate e a imprecare. Aveva tenuto il broncio per un giorno e mezzo per via di quell’episodio e si era rifiutato di tornare ad aiutare Basalt a disfare i pacchi.
Una discepola di Chemosh certamente non poteva maneggiare quel libro senza una punizione.
Mina passò le mani sulla rilegatura in pelle morbida. Percorse con le dita il titolo stampato in oro sulla copertina.
Nuitari si domandò se l’incantesimo di protezione si fosse logorato.
Mina aprì il libro, esaminò la prima pagina.
«Voi volete che io legga questa roba?» domandò, scettica.
«Se ti aggrada», disse Nuitari.
Alzando le spalle, Mina incominciò a leggere.
Nuitari era stupito, e non si ricordava l’ultima volta in cui un mortale l’avesse stupito. Mina leggeva le parole del linguaggio della magia, una prodezza che soltanto un mago addestrato poteva eseguire.
La sua pronuncia delle parole dell’incantesimo era impeccabile. Anche dopo ore di studio, i maghi delle Vesti Bianche avrebbero incespicato in questo incantesimo, ed ecco qui Mina, discepola di Chemosh, senza neanche un grammo di magia lunare nelle ossa, che lo leggeva perfettamente la prima volta. Quelle parole filiformi avrebbero dovuto ostruirle la bocca, le si sarebbero dovute conficcare in gola, bruciandole la lingua. Nell’ascoltarla sciorinare le parole con voce monotona e annoiata, Nuitari la osservava con stupore.
Nuitari avrebbe potuto dedurre che Mina fosse una maga mascherata, se non fosse stato per una cosa.
Mina leggeva l’incantesimo in maniera impeccabile ma senza neanche capirlo.
Così poteva leggere una poesia d’amore degli elfi uno studioso umano della lingua elfica. L’essere umano poteva conoscere e capire e saper pronunciare le parole, ma soltanto un elfo poteva assegnare alle parole le delicate sfumature di significato intese dall’elfo autore. Soltanto un mago poteva conferire a queste parole la vita necessaria per creare l’incantesimo. Mina sapeva che cosa stava dicendo. Però non le importava. Recitare l’incantesimo per lei era un esercizio, niente più.
La madre di Nuitari, Takhisis, aveva forse insegnato a Mina la magia?
Nuitari ci pensò su e respinse questa ipotesi.
Takhisis detestava la magia, ne diffidava. Sarebbe stata ben soddisfatta di un mondo che non avesse avuto in sé magia, poiché lei considerava la magia una minaccia ai suoi poteri. Takhisis non aveva insegnato la magia a Mina, e lei certamente non poteva avere imparato a leggere il linguaggio della magia dai mistici della Cittadella della Luce. E nemmeno da Chemosh.
Strano. Molto strano.
Mina si interruppe a metà frase, alzando gli occhi su di lui. «Volete che continui? Il resto è sempre uguale.»
«No, basta così», disse Nuitari. Le prese il libro dalle mani.
«Ho vinto la scommessa. Ho un’ora di libertà.» Mina si diresse verso la porta.
«Tutto a tempo debito», disse Nuitari, fermandola. «Non ho nessuno che possa farti da scorta. Basalt sta ripulendo il sangue versato e, come ho detto, troveresti Caele un accompagnatore pericoloso. Temo che dovrai sopportare me ancora per un po’.»
Nuitari decise di tentare con Mina un altro esperimento: una stranezza che le sue Vesti Nere avevano osservato in lei. Segretamente lanciò un incantesimo contro di lei. Era un semplice incantesimo del sonno, uno dei primi appresi dai maghi novizi. Nuitari avrebbe potuto crearlo in un batter d’occhio, ma non voleva che Mina avesse qualche sospetto di subire una magia. Filo dopo filo, ritorse avanti e indietro, avanti e indietro la trama della magia, tessendo l’incantesimo sopra di lei e attorno a lei, cosicché la magia ricoprì Mina come una coperta calda. Per tutto il tempo la tenne impegnata in una conversazione oziosa, in modo che non notasse ciò che lui stava facendo.
«Tu non sai niente della tua infanzia», le disse, mentre operava la sua magia. «Stando a quanto mi ha scritto Basalt, tu sei stata trovata all’età di otto anni a bordo di una nave abbandonata, portata dalle onde sulla costa dell’isola di Schallsea, presso la Cittadella della Luce. Tu non ricordi niente: né il tuo nome, né i tuoi genitori, né che cosa sia accaduto alla nave...»
«È vero», disse Mina, accigliandosi. Soggiunse con impazienza: «Non vedo che cosa c’entri questo con qualunque cosa».
«Fammi contento, mia cara. Sei stata adottata da Goldmoon, ex seguace di Mishakal, la quale era stata la prima a riportare nel mondo dopo il Cataclisma il culto dei veri dèi. Era stata lei a portare in questo mondo la potenza del cuore dopo la Quinta Era. Goldmoon era una donna buona, una donna devota. Si è interessata a te, ti ha amata come una figlia.»
Terminò il suo incantesimo del sonno e lo lanciò contro Mina. Nuitari osservò e attese.
Mina batté il piede per terra e guardò eloquentemente la porta chiusa. «Mi avete promesso un’ora di libertà», disse.
«Tutto a tempo debito. Da bambina, tu dimostravi curiosità verso molte cose», disse dolcemente Nuitari, mentre crescevano in lui la meraviglia e la perplessità. «Eri nota per fare domande. Eri particolarmente curiosa riguardo agli dèi. Perché se n’erano andati? Dov’erano andati? Goldmoon lamentava l’assenza degli dèi, e poiché tu le volevi bene volevi compiacerla. Le dicevi che saresti andata a cercare gli dèi per riportarli da lei... Ti sembra di avere sonno?»
Mina lo guardò con aria torva e accusatrice. «Non riesco a dormire, non certo in questa gabbia. Cammino così per metà della notte cercando di stancarmi...»
«Avresti dovuto dirmelo prima che soffrivi d’insonnia», disse Nuitari. «Io posso esserti d’aiuto.»
Allungò la mano nella magia, strappando all’etere alcuni petali di rosa. In quanto dio, non aveva bisogno di componenti di magia per eseguire questo incantesimo, ma i mortali ne rimanevano impressionati. «Creerò per te un incantesimo di sonno. Dovresti distenderti, per evitare di cadere e farti male.»
«Non osate eseguire la vostra schifosa magia su di me!» gridò rabbiosamente Mina, andando a grandi passi verso di lui. «Io non...»
Nuitari gettò in aria i petali di rosa, che caddero attorno a Mina mentre lui recitava le parole dell’incantesimo del sonno magico, lo stesso incantesimo che le aveva lanciato in precedenza.
Questa volta l’incantesimo funzionò. A Mina si chiusero gli occhi. Ondeggiò lì dov’era, poi crollò a terra. Al risveglio avrebbe avuto ginocchia e gomiti sbucciati e un bernoccolo in testa, ma d’altronde lui l’aveva avvertita di distendersi.
Nuitari si inginocchiò accanto a lei e la esaminò.
Secondo tutte le apparenze era profondamente addormentata, avvolta nell’incantesimo.
Le pizzicò il braccio, per vedere se fingesse.
Non si svegliò.
Nuitari si alzò in piedi. Diede ancora un’occhiata a Mina, poi uscì dalla stanza. Ripassò a mente la relazione di Basali.
Il soggetto, Mina, è resistente alla magia, aveva scritto Basalt, ma con questa riserva: è resistente alla magia solo se non sa che viene usata magia contro di lei! Basalt aveva sottolineato due volte questa frase. Se si lancia contro di lei un incantesimo a sua insaputa, la magia (anche quella più potente) non ha effetto su di lei. Se però le si dice preventivamente che si userà un incantesimo su di lei, Mina vi cade vittima immediatamente, senza neanche un tentativo di difendersi.
Basalt concludeva scrivendo: in diverse centinaia di anni di pratica della magia, io non ho mai visto prima d’ora un soggetto comportarsi così, e questo vale anche per il mio collega mago.
Nuitari si fermò fuori della stanza di Caele. Sbirciando attraverso le pareti, il dio vide Caele disteso scompostamente sul letto, mentre si concedeva un pisolino pomeridiano. Nuitari bussò alla porta e con voce perentoria chiamò per nome il mezzelfo. Osservò, divertito, Caele destarsi di colpo.
Soffocando uno sbadiglio, Caele aprì la porta. «Padrone», disse. «Stavo studiando i miei incantesimi...»
«Allora devi averli incisi sul retro delle palpebre», disse Nuitari. «Ecco, renditi utile. Riporta questo libro in biblioteca per me.»
Gettò a Caele il libro degli incantesimi dalla rilegatura bianca del mago delle Vesti Bianche.
Istintivamente, Caele lo afferrò.
Dalla rilegatura bianca si sprigionarono scintille azzurre e gialle. Caele guaì e lasciò cadere a terra il libro degli incantesimi. Si ficcò in bocca le dita scottate.
Nuitari grugnì. Girando sui talloni, si allontanò.
Era tutto molto strano.
Chemosh si trovava sul parapetto merlato del suo castello in cima al dirupo, scrutando di malumore il Mare di Sangue e pensando a vari modi per vendicarsi di Nuitari, salvare Mina, rubare la Torre e procurarsi i preziosi oggetti sacri accatastati all’interno. Concepì e poi scartò diversi piani d’azione, e dopo una prolungata riflessione fu costretto ad ammettere che la prospettiva di raggiungere tutti questi obiettivi era probabilmente irrealizzabile. Nuitari era in gamba, maledizione a lui. Nell’eterna partita a khas giocata fra gli dèi, Nuitari aveva previsto e sventato ogni mossa di Chemosh.
Chemosh osservò le onde frangersi sulla costa contornata da scogli. Sotto quelle onde languiva Mina, intrappolata nella prigione di Nuitari. Chemosh ardeva di un feroce desiderio di discendere sul fondo del mare e marciare dentro e prelevarla. Scacciò quella tentazione. Chemosh non avrebbe dato a Nuitari la soddisfazione di burlarsi di lui. Gliel’avrebbe fatta pagare, a Nuitari, e si sarebbe ripreso Mina. Ancora doveva escogitare un modo per riuscirci. Nuitari aveva il dominio assoluto sulla vittoria.
Quasi. C’era sul tabellone un pezzo su cui nessuno aveva dominio. Un pezzo che poteva assegnare la vittoria a Chemosh.
Chemosh stava pensando a questo o quel piano d’azione quando notò un’onda, più grande delle altre, sollevarsi e spostarsi rapidamente verso riva.
«Krell», disse al cavaliere della morte, che si muoveva furtivamente tenendosi ossequioso al servizio del suo signore, «Zeboim viene a rendermi visita».
Krell saltò in aria di trenta centimetri. Se l’acciaio avesse potuto perdere colore, il suo elmo sarebbe diventato bianco.
Chemosh puntò il dito. «Guarda quell’onda.»
Zeboim era in posa aggraziata in cima a quell’onda gigantesca. L’acqua le si arricciava sotto i piedi nudi. I capelli le sventolavano all’indietro. La spuma del mare la avvolgeva. Stringeva il vento fra le mani e lo gettò in avanti a precederla. Delle folate presero a percuotere il castello.
«Potresti provare a nasconderti in cantina», suggerì Chemosh, «oppure nella cripta del tesoro, oppure sotto il letto, se ci stai. Io la terrò occupata. Faresti meglio a sbrigarti...».
Krell non aveva bisogno di solleciti. Stava già correndo verso le scale, con l’armatura che sferragliava e cigolava.
L’onda si franse sul parapetto merlato del Castello dei Prediletti. Il torrente di acqua verde, con sfumature rosse, avrebbe inzuppato il dio che si trovava lì, se lui avesse permesso all’acqua di toccarlo. Per come stavano le cose, il mare gli turbinò attorno agli stivali e discese a cascata lungo le scale. Chemosh udì un ruggito e uno sferragliare. Krell aveva perso l’equilibrio per via dell’inondazione.
Zeboim con calma discese sul parapetto. Con un gesto della mano scacciò il mare, rimandandolo indietro a scagliarsi con furia infinita contro le pendici del dirupo su cui Chemosh aveva costruito il suo castello.
«A che cosa devo l’onore di questa visita?» domandò con noncuranza Chemosh.
«Tu hai in tuo possesso l’anima di mio figlio!» disse Zeboim, con gli occhi color acqua marina che ardevano. «Liberalo: subito!»
«Lo libererò, ma voglio qualcosa in cambio. Dammi Mina», ribatté freddamente Chemosh.
«Pensi che io mi porti dietro in tasca la tua preziosa mortale?» domandò Zeboim. «Non ho idea dove sia finita la tua sgualdrina. E nemmeno mi interessa.»
«Invece dovrebbe interessarti», disse Chemosh. «Tuo fratello sta trattenendo Mina contro la sua volontà. Restituiscimi Mina e io libererò tuo figlio... se lui vorrà andarsene.»
«Lui vorrà andarsene», disse Zeboim. «Io e lui ne abbiamo parlato. È pronto ad andare oltre.» Considerò conclusa la trattativa. «Tu dammi quel disgraziato di Krell», disse digrignando i denti al pronunciarne il nome, «e avremo stipulato il patto».
Chemosh scrollò il capo. «Solo se tu mi dai quel fastidioso monaco di Majere. Prima le cose importanti, però. Tu devi restituirmi Mina. Tuo fratello l’ha rinchiusa nella Torre dell’Alta Magia sotto il Mare di Sangue.»
«Rhys Mason non è un monaco di Majere», gridò Zeboim, offesa. «È il mio monaco e mi è appassionatamente devoto. Mi adora. Farebbe qualunque cosa per me. Se non fosse stato per lui e per la sua fedele dedizione a me, mio figlio sarebbe ancora prigioniero di quel...»
Zeboim si interruppe. Le erano appena arrivate le ultime parole di Chemosh. «Che vuoi dire: Torre dell’Alta Magia nel Mare di Sangue?» si accalorò. «E da quando?»
«Da quando tuo fratello ha restaurato la Torre dell’Alta Magia che un tempo si trovava a Istar. La Torre da lui appena ricostruita adesso si trova sul fondo del Mare di Sangue.»
Zeboim lo schernì. «Una Torre nel Mare di Sangue? Nel mio mare? Senza il mio permesso? Mi prendi per scema, mio signore.»
«Mi dispiace. Pensavo lo sapessi.» Chemosh si finse sorpreso. «Fratello e sorella, così affettuosi e così intimi. Lui di sicuro ti dice tutto. Ti assicuro, mia signora, che tuo fratello Nuitari ha riedificato la Torre che un tempo sorgeva a Istar. La sta restituendo all’antico splendore e progetta di portare maghi delle Vesti Nere sotto il mare per popolarla.»
Zeboim rimase ammutolita. Aprì la bocca, ma non ne uscirono parole. Guardò con occhio furioso Chemosh, convinta che mentisse, eppure gettò occhiate incerte verso il mare che parve tremare davanti al risentimento della dea.
«La Torre non è lontana da qui», soggiunse Chemosh, con un gesto. «Un tiro di sasso. Guarda verso est. Ricordi il punto in cui si trovava il Vortice? A un centinaio di miglia da riva. Possiamo vederlo da dove ci troviamo...»
Zeboim guardò sotto l’acqua. Adesso che le veniva fatto notare, il dio aveva ragione. Lei vedeva una torre.
«Come osa?» si adirò Zeboim.
Un tuono fece tremare le mura del castello, facendo rabbrividire negli stivali Krell, che si faceva piccolo per la paura in fondo a un pozzo. La dea impetuosa si preparava a balzare a capofitto dal parapetto merlato.
«Questo lo vedremo!»
«Aspetta!» gridò Chemosh in risposta al ruggito feroce dell’ira di lei. «E il nostro patto?»
«È vero.» Zeboim rifletté con più calma. «Dobbiamo concludere l’affare prima che io faccia a pezzi i globi oculari di mio fratello e li dia da mangiare al gatto. Tu libererai mio figlio.»
«Se tu liberi Mina.»
«Tu mi darai Krell.»
«Se tu mi dai il monaco.»
«E tu», disse altezzosamente Zeboim, «devi porre fine a questi cosiddetti Prediletti».
«Vuoi forse negarmi dei discepoli?» domandò Chemosh, addolorato. «Potrei anche chiederti di smetterla di adescare marinai.»
«Io non adesco marinai», si adirò Zeboim. «Loro scelgono di adorarmi.»
I due rimasero a scrutarsi reciprocamente, pensando a come ottenere ciò che ciascuno di loro desiderava.
Mina sarà finalmente nelle mie mani, rifletté Zeboim. Dovrò cederla a Chemosh prima o poi, ma per un po’ potrò usarla a mio vantaggio.
Devo affidare Mina alla Strega del Mare? si domandava Chemosh, e poi pensò, rassicurato: Zeboim non oserà farle del male. Io terrò in ostaggio l’anima di suo figlio finché non faremo lo scambio.
Quanto a Krell, tormentarlo è diventato noioso, si rese conto Zeboim. Il mio monaco mi è assai più prezioso, per non dire divertente. Me lo terrò.
Majere è una minaccia ragguardevole, stava pensando Chemosh. Zeboim è un fastidio secondario. Se, come afferma lei, questo monaco impiccione ha trasferito la sua fedeltà dal Dio Mantide alla Strega del Mare, allora Rhys Mason non costituisce più una minaccia per me. Io so come Zeboim tratta i suoi fedeli. Quel poveretto sarà già fortunato a sopravvivere. E avere Krell disponibile per me anziché continuamente nascosto sotto il letto sarà un vantaggio considerevole.
Quanto a questa Torre... Zeboim passò al fastidio successivo. Non mi sorprendo di niente di ciò che fa quel mio fratellino dalla faccia di luna. Pagherà per questa impudenza, certo. Gli scrollerò la Torre fino a ridurla in rovine! Ma perché il Signore della Morte è interessato a una Torre dell’Alta Magia? Perché a Chemosh dovrebbe interessare in un modo o nell’altro? Qui c’è sotto qualcosa di più di quanto appaia a prima vista. Devo scoprire che cosa.
Così Zeboim non sapeva della Torre. Chemosh la riteneva una cosa interessante. Temevo che fratello e sorella fossero in combutta. A quanto pare no. Che farà lei? Che può fare? Nuitari non è tipo da farsi ostacolare neanche da una sorella.
Il mare ondeggiava, e le onde andavano e venivano mentre i due dèi esaminavano il patto sotto ogni angolazione.
Finalmente Zeboim disse cortesemente: «Prometto che Mina ti sarà restituita. So come trattare con mio fratello. Purché, naturalmente, tu in cambio liberi l’anima di mio figlio».
Chemosh fu altrettanto cortese: «Su questo sono d’accordo. Io voglio tenermi Krell. In cambio, ti do il monaco».
Chemosh ha in mente qualcosa. Si arrende troppo facilmente, pensò Zeboim, scrutandolo.
Si arrende troppo facilmente. Zeboim ha in mente qualcosa, pensò Chemosh, scrutandola.
Comunque, pensarono entrambi, da questo patto ci guadagno di più io.
Zeboim tese la mano.
Chemosh le prese la mano e stipularono il patto.
«Portami Mina e io invierò l’anima di tuo figlio nel viaggio verso la sua prossima conquista sanguinosa», disse il Signore della Morte.
«Ritornerò con Mina», disse Zeboim, «e ti farò sapere che cosa avrò scoperto su questa Torre. Sono sicura che debba esserci qualche errore. Mio fratello non mi ingannerebbe mai».
Bugiarda, pensò Chemosh.
«Te l’ho detto soltanto per cortesia», rispose lui con noncuranza, «Ciò che Nuitari fa o non fa con la sua Torre a me non interessa.»
Bugiardo, pensò Zeboim.
«Al prossimo incontro, mio caro amico», disse lei con espansività.
«Al prossimo incontro», disse Chemosh soavemente.
«Uh, come odio quel disgraziato!» disse fra sé Zeboim mentre percorreva a grandi passi il fondo del mare. «Gliela farò pagare!»
«Strega intrigante», mormorò Chemosh. «La sistemerò io.» Alzò la voce. «Krell! Adesso puoi venire fuori! Mina ci verrà presto restituita, e allora io voglio essere pronto ad agire.»
Ignaro del fatto che la sua vita fosse stata usata dalla sua dea come merce di scambio, Rhys rimaneva a Solace, come aveva promesso a Gerard. Trascorsero diversi giorni dopo la loro conversazione, e durante questo tempo Rhys vide ben poco lo sceriffo. Quando si imbatteva in lui, Gerard gli sfrecciava sempre accanto facendo un gesto con la mano e mormorando le parole: «Non posso parlare adesso, ma presto. Molto presto».
Rhys ritornò al suo lavoro alla taverna, dove la proprietaria gli rivolse un caloroso benvenuto.
«Sono contento che siate di ritorno, fratello», disse Laura, detergendosi le mani sul grembiule. «Ci siete mancato, e non solo per tagliare le patate, anche se qui in giro nessuno sa tagliarle in quei bei quadratini come fate voi.»
«Sono contento di essere di nuovo qui», disse Rhys.
«Voi avete un certo modo di fare, fratello», proseguì Laura, dandosi da fare in cucina. Sollevò un coperchio e da un bollitore fuoriuscì un getto di vapore speziato. Laura sbirciò nella pentola, infilò dentro un cucchiaio e scrollò il capo. «Serve ancora sale. Dov’ero rimasta? Ah, sì. Voi avete una sorta di calma che si diffonde in tutti quando ci siete voi, fratello, ed evapora quando non ci siete.»
Prendendo da una pentola di metallo una pallina di pasta di pane, prese a impastarla abilmente, mentre continuava a parlare.
«Il giorno in cui ve ne siete andato, il cuoco ha litigato con la sguattera, e questa è rimasta tanto sconvolta che ha rovesciato una pentola di prosciutto e fagioli e si è quasi ustionata. Per non parlare delle due scazzottate che abbiamo avuto in cortile, e poi c’è stato quel ragazzo a cui è venuto in mente di scivolare lungo tutta la balaustrata dal livello dell’albero fino a terra e ha finito col rompersi il braccio. Quando voi siete qui, fratello, non succede mai niente del genere. Tutto sembra andare liscio come un sedere di signora. Oh, santo cielo!» Laura si batté la mano sulla bocca e arrossì vividamente. «Chiedo perdono, fratello. Non intendevo parlare di un sedere di signora.»
Rhys sorrise. «Credo che sopravvalutiate la mia influenza, padrona Laura. Ora, poiché siamo vicini all’ora di cena, dovrei mettermi all’opera su quelle patate...»
Rhys affettò patate e cipolle, andò a prendere acqua e ascoltò con commiserazione le lamentele del cuoco riguardo alla sguattera, e poi consolò la sguattera, che non sapeva mai che cosa fare per compiacere il cuoco. A Rhys piaceva lavorare nella cucina della taverna. Gli piacevano i momenti frenetici, come il pranzo e la cena, quando spesso faceva tre cose insieme, lavorando con le maniche rimboccate sopra il gomito, correndo qua e là senza tempo per pensare a niente tranne preoccuparsi se le patate erano ancora poco cotte o se il cosciotto di carne che si arrostiva sullo spiedo sopra il fuoco scoperto stava cuocendo in maniera non uniforme.
Quando la folla se ne andava e le porte della taverna si chiudevano per la notte, Rhys si godeva la pace e la tranquillità, anche se vi erano montagne di stoviglie da lavare e bollitori e pentole da strofinare e il pavimento da spazzare e l’acqua da andare a prendere e la pasta di pane da miscelare in modo che potesse passare la notte a lievitare. Quei lavoretti semplici e senza pretese gli rammentavano la sua vita al monastero. Con le braccia immerse fino ai gomiti nell’acqua schiumosa, lavava i boccali per la birra e rifletteva su Majere e si domandava che cosa stesse facendo quel dio enigmatico e perché lo facesse.
Quando finì col rompere un boccale, Rhys si rese conto di essere ancora in collera con Majere e vide che la sua collera, lungi dal placarsi, veniva alimentata dalla presenza continua e ostinata di Majere nella sua vita. Come un bambino viziato e maleducato, i cui genitori insistono a coccolarlo per quanto lui si comporti male, Rhys non si meritava l’interesse del dio nei suoi confronti; si sentiva in colpa nell’accettarlo non potendo contraccambiarlo.
Giunse quasi a provare risentimento per l’emmide. Il giorno prima aveva cercato di abbandonarlo nella sua stanza, ma aveva scoperto di sentirsi goffo e a disagio senza il bastone, quasi stesse attraversando Solace nudo, e Atta fu tanto infastidita da quell’assenza (continuava a fermarsi per fissare Rhys con un’espressione perplessa) che lui alla fine si era arreso ed era ritornato indietro a prenderlo.
La sua fede veniva sottoposta ad altre prove. Talvolta Laura mandava Rhys al mercato per fare la spesa quotidiana, se lei era troppo indaffarata per andarci di persona. Lungo il cammino Rhys passava per la strada che i cittadini per scherzo chiamavano «Via degli Dèi». Qui i chierici delle varie divinità di Krynn costruivano nuovi templi di culto per accogliere il ritorno degli dèi che erano stati a lungo assenti dal mondo. Il tempio di Majere era una struttura modesta ubicata circa a metà della via. Rhys vedeva spesso i chierici di Majere lavorare nell’orto o passeggiare in giardino, ed era dolorosamente tentato di entrare nel tempio e ringraziare umilmente Majere per il suo interesse verso quel servitore indegno e chiedere perdono al dio.
Ogni volta che pensava di farlo, ogni volta che i suoi piedi facevano per condurlo in quella direzione, Rhys rivedeva i suoi confratelli stesi morti sul pavimento del monastero, con i corpi contorti nell’agonia mortale. Pensava a suo fratello e a tutti coloro che suo fratello aveva ingannato e assassinato. Perfino Zeboim (per quanto crudele, arrogante, capricciosa e inaffidabile) aveva fatto più del buono e saggio Majere per aiutare Rhys a trovare risposte alle sue domande. Rhys deviava dal tempio e ritornava al suo incarico di acquistare cipolle.
Mentre Rhys tagliava ortaggi e lottava col suo dio, Nightshade vagava per le strade di Solace, tenendo d’occhio i Prediletti. Atta accompagnava il kender, tenendo d’occhio Nightshade. Atta non doveva impegnarsi molto per mantenere onesto il kender. Nightshade era particolarmente inetto nell’arte secolare e assai celebrata (fra i kender, per lo meno) del «prendere a prestito».
«Ho le mani impacciate e due piedi sinistri», ammetteva allegramente Nightshade.
Non era molto bravo nel prendere a prestito perché non era granché interessato alle cose che interessavano agli altri kender. Non era abbastanza curioso, supponeva, o piuttosto era curioso ma non riguardo agli averi degli altri. Era curioso riguardo alle loro anime, specialmente quelle anime che ancora non avevano progredito verso lo stadio successivo del viaggio della loro vita. Nightshade aveva la capacità di comunicare con tali spiriti, che fossero perduti e vaganti, irati, infelici, vendicativi o distruttivi. Sapeva anche, come aveva detto Rhys a Gerard, vedere i Prediletti per quelli che erano: cadaveri ambulanti.
Talvolta però le mani del kender assumevano vita propria e prendevano a pensare per conto loro, e allora trovavano la strada verso le tasche o il borsellino di qualcuno o distrattamente infilavano un sacchetto di kumquat nella gamba dei pantaloni del kender oppure portavano via una torta che veniva ridotta in briciole prima che Nightshade si rendesse conto di non averla pagata.
Ad Atta era stato insegnato a sorvegliare da vicino il kender, e quando vedeva Nightshade stare troppo vicino a qualcuno o deviare verso la bancarella del fornaio, la cagna frapponeva rapidamente il proprio corpo tra quello del kender e la vittima potenziale e guidava delicatamente il kender verso la retta via.
Così fu che Nightshade poté tenersi lontano dagli assistenti dello sceriffo e concentrarsi sulla ricerca di uno dei Prediletti per predisporre una trappola. Purtroppo ci riuscì.
Tre giorni dopo il loro incontro, verso metà pomeriggio, mentre Rhys tagliava a cubetti le patate, Gerard spinse la porta della cucina e ficcò dentro la testa.
«Fratello Rhys?» chiamò, scrutando in mezzo al vapore. «Oh, siete lì. Se Laura può fare a meno di voi, sarei lieto della vostra compagnia.»
«Andate pure, fratello», disse Laura. «Oggi avete lavorato quanto basta per sei monaci.»
«Tornerò in tempo per aiutarvi con la cena», disse Rhys.
Gerard si schiarì la voce. «Ehm, no, temo di no, fratello.»
«Ce la caveremo lo stesso», disse Laura. Mentre Rhys si toglieva il grembiule, Laura si accigliò guardando Gerard. «Prendetevi cura di lui, sceriffo.»
«Sì, signora», disse Gerard, dimenandosi mentre Rhys appendeva il grembiule e si srotolava le maniche.
Laura si deterse il viso con una mano coperta di farina. «Vi ho visto, sceriffo, con mio fratello Palin, testa a testa, a parlare con sussurri. Non avete in mente nulla di buono, signore, voi due, e io non voglio che ci trasciniate dentro questo fratello qui.»
«No, signora», disse Gerard. «Staremo attenti.»
Afferrando Rhys, Gerard lo condusse di fretta fuori dalla taverna.
«È tutto pronto», disse mentre scendevano di corsa la lunga rampa di scale. In fondo li aspettavano il kender e Atta. «Nightshade ha trovato un candidato. Predisporremo la trappola stanotte.»
Rhys si sentì rabbrividire. Avrebbe di gran lunga preferito tornare al lavoro in cucina. «Che c’entra in questo Palin Majere?» domandò aspramente.
«Be’, a parte il fatto che lui è sindaco di Solace ed è mio dovere di sceriffo informarlo di qualunque pericolo minacci la nostra città, lui è (o era) uno dei più potenti stregoni di Ansalon. Prima ancora era un mago delle Vesti Bianche. Volevo i suoi consigli.»
«Ho sentito dire che lui ha rinunciato alla magia», disse Rhys.
«È vero, fratello», disse Gerard, soggiungendo con una strizzatina d’occhio: «Ma non ha rinunciato a coloro che la praticano. Eccoci qui, Nightshade. Dove ci porti?».
«Verso le scale del ponte», rispose Nightshade. «Mi dispiace dirvelo, sceriffo, ma è una Guardia di Vallen. Probabilmente lo conoscete. Si chiama Cam.»
«Cam! Dannazione!» imprecò Gerard, la cui fronte si incupì. «Sei sicuro?»
Nightshade annuì solennemente. «Sono sicuro.» Mise la mano sulla testa di Atta. «E anche lei.»
Gerard imprecò di nuovo. «Sarà dura!» Si accigliò guardando il kender. «Spero nel cielo che tu ti sbagli.»
«Ci spero anch’io, signore», disse educatamente Nightshade, quindi soggiunse mormorando sottovoce: «Ma sono sicuro di no».
«Che cos’è una Guardia di Vallen?» domandò Rhys per distrarre Gerard, che aveva preso molto male questa notizia.
«Sorvegliano le scale che conducono su alle passerelle», spiegò Gerard, indicando in alto gli stretti ponti che andavano da un ramo all’altro degli alberi. Era un momento indaffarato della giornata e folle di persone percorrevano i ponti, andando e venendo dalle case poste in cima agli alberi oppure frequentando le botteghe costruite fra i rami.
«Abbiamo deciso di limitare il numero di persone che salgono lassù. O possiedi una casa in cima, nel qual caso ti viene dato un lasciapassare, oppure devi dimostrare di avere da fare lassù. Le guardie sorvegliano l’accesso alle scale e registrano chi va su e chi viene giù.»
Arrivarono in vista delle scale di legno che conducevano sui rami degli alberi. Due giovanotti, entrambi con uniformi verdi contrassegnate da una foglia di vallen ricamata sul petto, si trovavano in fondo alle scale, facevano domande alle persone e consentivano loro di salire oppure le mandavano via.
«È lui», disse Nightshade, puntando il dito. «È uno dei Prediletti.»
«Quale dei due?» domandò Gerard, scrutando il kender. «Lì ci sono due giovanotti. Quale dei due è il Prediletto?»
«Quello con i capelli rossi e ricci e le lentiggini», rispose prontamente Nightshade.
«Quello è Cam, giusto», disse Gerard con un sospiro. «Sia dannato nell’Abisso e ritorno!»
«Mi dispiace», disse Nightshade. «Ha davvero un sorriso simpatico. Deve essere stato un bravo ragazzo.»
«Lo è», disse malinconicamente Gerard, «o meglio lo era. E voi, fratello? Potete verificare l’affermazione del kender?».
«Se Nightshade dice che lui è uno dei Prediletti, io lo prendo in parola», rispose Rhys.
«E Atta?» domandò Gerard.
Tutti guardarono giù verso la cagna, che stava in allerta al fianco di Rhys, e tutti poterono vedere che il suo sguardo era fisso sulla giovane guardia dai capelli rossi che chiacchierava e rideva con due ragazze. Nel petto della cagna rimbombò un ringhio cupo. Un angolo del labbro le si arricciò.
«È d’accordo con Nightshade», disse Rhys.
Gerard aveva lo sguardo torvo. «Perdonatemi, fratello, ma mi chiedete di fidarmi della parola di un kender e del ringhio di un cane. Mi sentirei meglio se sentissi la vostra opinione. Io conosco il giovane Cam, e conosco i suoi genitori. Sono brava gente. Se devo arrestarlo, voglio sapere con certezza se è uno di questi Prediletti.»
Rhys rimase immobile. «Io non sono affatto sicuro che mi piaccia questa cosa, sceriffo. Che genere di trappola proponete di predisporre?»
Gerard non rispose. Invece indicò con un gesto il punto in cui il giovane Cam chiacchierava e rideva con le due donne.
«Forse si sta mettendo d’accordo per incontrare una di quelle ragazze stasera, fratello.»
Rhys esitò ancora, poi disse: «Portate via Atta. Se mi vede andare vicino a uno dei Prediletti, potrebbe attaccarlo. Ci rivediamo alla taverna».
Quando Atta scomparve alla vista, Rhys strinse il bastone e si avvicinò alle scale. Sapeva che cosa avrebbe scoperto. Né Nightshade né Atta si erano mai sbagliati in precedenza. Si diresse verso il giovanotto, proprio mentre questi e le giovani donne scoppiavano a ridere.
Vedendo arrivare Rhys, Cam smise di civettare e passò a svolgere il suo dovere.
«Buon pomeriggio, fratello», disse, rivolgendo a Rhys un sorriso accattivante. «Che affari avete lì sopra?»
Rhys guardò dritto negli occhi verdi del giovane.
Non vide luce, soltanto ombre: ombre di speranza inappagata, ombre di un futuro che non sarebbe mai arrivato.
«State poco bene, fratello?» domandò Cam, poggiando premurosamente la mano sul braccio di Rhys. «Non avete un bell’aspetto. Forse dovreste sedervi qui all’ombra e riposare. Posso portarvi un po’ d’acqua...»
«Grazie», disse Rhys, «ma non sarà necessario. Riposerò un momento qui dove fa fresco».
Diversi rivenditori avevano sistemato bancarelle accanto alle scale del ponte per approfittare del traffico pressoché costante. Fra questi vi era un intraprendente venditore di pasticci di carne, che aveva predisposto tavoli e panche a beneficio dei clienti. Le due giovani donne con cui parlava Cam dovevano vendere nastri sulla loro bancarella, ma al momento erano impegnate più a ridacchiare che a commerciare.
«Accomodatevi pure, fratello», disse Cam, e ritornò alla conversazione con le giovani donne.
Ignorando le occhiate torve e i commenti mordaci del venditore di pasticci di carne, a cui non piaceva che i clienti non paganti occupassero spazio ai tavoli, Rhys si sedette sulla panca e ascoltò la conversazione di Cam con le due ragazze. Non dovette ascoltare a lungo. Una si accordò per incontrare Cam quella sera stessa.
Rhys si alzò in piedi e si avviò, con grossa soddisfazione del venditore di pasticci di carne, il quale si diresse rapidamente nel punto in cui era rimasto seduto quel monaco scarmigliato e spolverò la panca.
Rhys trovò Gerard e Nightshade in piedi fuori della taverna in compagnia di due persone, entrambe sconosciute a Rhys.
«Ebbene, fratello?» domandò Gerard.
Rhys non ebbe bisogno di rispondere. Gerard capì dall’espressione sul volto di Rhys che le notizie non erano buone. Imprecò e rabbiosamente con la punta dello stivale scalciò una zolla di terra.
«Il giovanotto si è accordato per incontrarsi con una delle ragazze stasera in un luogo chiamato Panorama di Flint, un’ora dopo l’imbrunire», riferì Rhys.
«Possiamo parlare della questione più tardi. Dimenticate che io aspetto il piacere di una presentazione, sceriffo», disse la donna sconosciuta.
«Sua Signoria Jenna, presidente del Conclave dei Maghi», disse Gerard, «e questo signore è Dominique Helmsman, guerriero devoto a Kiri-Jolith. Il fratello Rhys Mason, ex monaco di Majere».
«Ex monaco?» ripeté Sua Signoria Jenna inarcando le sopracciglia.
Donna in avanti con gli anni, Sua Signoria Jenna era ancora attraente, ancora in grado di affascinare. Aveva occhi grandi e luminosi; le linee sottili attorno agli occhi sembravano svanire alla luce del loro splendore. Indossava una veste di velluto rosso decorata d’oro e d’argento. Alle dita scintillavano dei gioielli. I borsellini che portava alla cintola erano del cuoio più fine, dipinti a mano con fiori e animali fantastici. Al collo le pendeva una catena d’oro con un bellissimo smeraldo. Sua Signoria Jenna non era soltanto uno dei maghi più potenti di Ansalon, ma anche uno dei più ricchi.
«Non ho mai incontrato prima d’ora un "ex" monaco di Majere», proseguì maliziosamente, «e voi dovete spiegarmi perché la vostra veste è di una tonalità di verde piuttosto insolita».
Rhys si inchinò ma rimase in silenzio.
«Il fratello Mason ha incontrato favore agli occhi di Zeboim», disse Gerard.
«Non troppo favore, direi», disse Sua Signoria Jenna, scrutando divertita la veste verde mare di Rhys.
«Siete fortunato ad avere la considerazione di Zeboim, fratello.» Dominique Helmsman si fece avanti porgendo la mano. «Molto meglio avere la Strega del Mare a favore che contro, come la mia gente sa bene.»
Non serviva che Dominique chiamasse per nome la sua gente. Il suo cognome, «timoniere», e la pelle nera come l’inchiostro lo proclamavano ergothiano, una razza di costruttori navali e marinai che viveva sull’isola di Ergoth nella parte occidentale di Ansalon. Poiché Ergoth era un’isola e la sua gente dipendeva dal mare per vivere, gli ergothiani innalzavano numerosi templi a Zeboim ed erano fra i suoi seguaci più devoti. Così perfino un ergothiano guerriero devoto a Kiri-Jolith, dio della luce, poteva proclamare il suo rispetto per la tenebrosa e capricciosa dea del mare senza sentirsi in conflitto.
Rhys aveva sentito parlare di questi paladini di Kiri-Jolith, dio della guerra giusta, anche se prima d’ora non ne aveva mai incontrato nessuno. Dominique sembrava avere circa trentacinque anni. Era alto e muscoloso; aveva un bel viso, anche se pareva piuttosto severo e inavvicinabile, come stesse continuamente riflettendo sul lato serio della vita. Portava una sopravveste bianca e marrone con un emblema a testa di bisonte, simbolo di Kiri-Jolith, sopra una cotta di maglia luccicante. I capelli neri erano raccolti in un’unica treccia che gli pendeva sulla schiena, come era usanza tra la sua gente. Portava la spada lunga, che era l’arma sacra al dio, allacciata attorno alla vita dentro un fodero su cui erano incisi simboli sacri. Il cavaliere non teneva mai la mano lontano dalla spada. Da questo e da altri segni (un guaito di Nightshade) Rhys giudicò che la spada fosse un oggetto sacro e benedetto dal dio.
«Sono onorato di conoscervi entrambi.»
Rhys si inchinò di nuovo verso la signora maga e poi verso il guerriero devoto. Drizzandosi, rimase a guardarli, col bastone in mano. Atta, ben addestrata, sedeva tranquillamente al suo fianco. Rhys si vedeva nei loro occhi: un monaco alto, troppo magro, con addosso una veste stazzonata di un deplorevole colore verde. I suoi unici beni preziosi: un cane bianco e nero e un semplice bastone di legno. Il suo unico compagno: un kender che si succhiava tristemente le dita scottate. Nightshade aveva commesso l’errore di cercare di esaminare la spada sacra di Dominique.
Rhys non poteva fare una colpa a queste due persone importanti perché nutrivano dubbi su di lui, anche se erano troppo educate per darlo a vedere.
Sua Signoria Jenna ruppe il silenzio che incominciava a farsi imbarazzante.
«È un mistero piuttosto carino questo che ci avete messo sotto gli occhi, fratello Rhys Mason. Il signor sceriffo ci ha detto qualcosa di questi cosiddetti "Prediletti di Chemosh". Trovo affascinante questo suo racconto, specialmente l’idea che non possano essere annientati.» Fece un sorriso di condiscendenza. «Almeno da un monaco e da un kender mistico.»
«Io non ho niente contro i mistici», soggiunse Dominique con tono serio e severo, «né contro i kender. È solo che i vostri poteri di affrontare i morti viventi sono comprensibilmente limitati».
«Si è infuriato solo perché ho toccato la sua stupida spada», ringhiò Nightshade. Rivolse al paladino un’occhiata malevola. «È tutta colpa di Atta. Non mi teneva d’occhio. Osservava loro. Non credo che le piaccia nessuno dei due, specialmente la maga.»
Rhys aveva notato che Atta si teneva lontano da Sua Signoria Jenna. La cagna non ringhiava, come avrebbe fatto con uno dei Prediletti, ma si premeva forte contro Rhys e guardava con sospetto la maga.
Sua Signoria Jenna non avrebbe dovuto udire quelle parole, ma con un’alzata di spalle dimostrò di averle udite. «Ha ragione. Non le piaccio. I cani ce l’hanno con me, temo.»
«Mi dispiace, Vostra Signoria...» esordì Rhys.
«Oh, non scusatevi!» Jenna sorrise. «Quasi tutti i cani trovano difficile stare attorno ai maghi. Credo che dipenda dai componenti di incantesimi che portiamo con noi: guano di pipistrello, bulbi oculari di tritone, code di lucertola essiccate. Ai cani non piace l’odore. I gatti, invece, sembrano non badarci. È un motivo per cui i maghi tendono a utilizzare i felini come famigli, immagino.»
Gerard si schiarì la voce. «È tutto molto interessante, ma voi due avete fatto un lungo viaggio e ci sono cose di cui dobbiamo discutere...»
«Giustissimo, sceriffo», disse bruscamente Sua Signoria Jenna. «Ritorniamo alla questione. Dei cani possiamo parlare in un altro momento. Io ho una camera alla taverna. Possiamo parlare lì con maggiore agio e riservatezza. Fratello Mason, se volete porgermi il braccio per sostenere i miei deboli passi, ve ne sarò grata.»
Sua Signoria Jenna fece scivolare la mano ingioiellata sottobraccio a Rhys. I suoi passi non erano più vacillanti di quelli di Atta. Era evidentemente una donna abituata a essere obbedita, però, e Rhys fece come richiesto.
Sua Signoria Jenna trasse a sé Rhys e poi si guardò dietro le spalle vedendo Atta che trotterellava accanto a Nightshade.
«Gerard si è profuso in lodi per questa vostra cagna meravigliosa, fratello. È addestrata per radunare sia le pecore sia i kender, a quanto capisco.»
«Principalmente pecore, Vostra Signoria», disse Rhys con un sorrisetto.
«È stata addestrata a questo compito fin da cucciola?»
«È nata per questo, si potrebbe dire», rispose Rhys. «Entrambi i suoi genitori erano esperti cani pastori.»
«Il motivo per cui domando della cagna non è solo per oziosa curiosità. Io possiedo una bottega di forniture per maghi a Palanthas e ho un tale problema con i kender! Non potete immaginare! Impiego una guardia, ma la spesa è considerevole e quelle bestioline furbe sembrano comunque essere sempre più astute di lui. Stavo pensando che un cane potrebbe essere molto più affidabile, e certamente un cane mangia meno di questo bestione che ho assunto. Sarebbe possibile una cosa simile?»
Jenna pareva seria riguardo alla sua necessità e veramente interessata a ciò che avesse da dire Rhys. Lui immaginò che questa donna sapesse indurre per incanto gli uccelli a uscire dagli alberi di vallen, se si fosse messa in testa di farlo, e non soltanto mediante l’uso della magia. Era pure estremamente pericolosa. In quanto presidente del Conclave dei Maghi, Jenna era a capo della magia divina di Ansalon, una magia che era mancata per anni con l’assenza degli dèi ed era ritornata soltanto di recente. Quella donna era una forza potente in questo mondo e Rhys le vedeva quella potenza negli occhi: un tremolio di fuoco che ardeva senza fiamma in profondità sotto una superficie liscia e placida, un fuoco che parlava di battaglie micidiali combattute e vittorie conseguite ma soltanto a grande prezzo.
Rhys disse educatamente che senza dubbio un cane poteva venire addestrato a eseguire quel compito, però (diversamente da quanto aveva fatto con Gerard) non si offrì di eseguire lui stesso l’addestramento. Dopo avere esaurito l’argomento, mentre salivano le scale che conducevano ai piani superiori della taverna, Jenna presentò le proprie scuse.
«Veramente non intendevo offendervi quando ho detto che a voi e al kender manca la potenza per affrontare questi Prediletti, fratello. Temo di avervi insultato.»
«Forse appena un po’», rispose lui.
«Me ne sono accorta.» Jenna gli diede una pacca sul braccio. «Io ho una spiacevole mancanza di tatto, come mi è stato detto spesso. O forse, come la vostra cagna, a voi non piace il fetore della magia.»
Ammiccò verso di lui.
Rhys non sapeva che cosa dire. Era confuso per il modo in cui la donna sembrava penetrargli nel profondo della sua anima e vedere che cosa ci fosse dentro di lui.
«A ogni modo», proseguì Jenna, prima che lui potesse raccattare qualche scusa, «spero che mi perdonerete. Ecco la mia camera. Attento, fratello!» disse con decisione Jenna, sollevando la mano con un gesto protettivo. «Non toccate la maniglia della porta. Fareste meglio a stare indietro.»
Rhys indietreggiò, evitando per poco di scontrarsi con Gerard e col paladino, che salivano le scale dietro di lui, entrambi tanto immersi nella loro discussione sul famigerato fuorilegge barone Samuval, il quale si era impadronito di metà dell’Abanasinia, che nessuno dei due prestava particolare attenzione a dove stessero andando. Nightshade avanzava a passi pesanti dietro di loro, brontolando di avere saltato la cena.
Attesero tutti mentre Jenna pronunciava alcune parole nella misteriosa lingua della magia che Rhys, rinchiuso nel monastero per gran parte della sua vita, non aveva mai udito in precedenza. Gli venivano in mente zampe di ragno, ragnatele filamentose e campane d’argento. Nightshade rimase fermo a canticchiare una canzoncina e a guardarsi attorno con aria annoiata. La porta emise un breve bagliore azzurrino e poi si aprì.
«Immagino che lei pensi di impressionarci così», disse Nightshade in disparte ad Atta. «Potrei farlo anch’io... se volessi.»
La cagna, a vederla, sembrava condividere i sentimenti del kender.
«Uso sempre la magia per sbarrare la porta», spiegò Jenna mentre li faceva entrare nella camera, la quale era la più bella che la taverna potesse offrire. «Non perché io abbia granché di valore da proteggere. È solo che io sono una frana e perdo sempre le chiavi. Sono perfettamente seria quando dico di volere uno dei vostri cani», soggiunse mentre Rhys le passava accanto. «Non intendevo soltanto rendermi simpatica.»
Jenna conquistò Nightshade facendo girare un vassoio di dolciumi e offrendo loro la scelta fra una birra e un vino pallido e fresco. Quando si furono sistemati, con Nightshade stretto in un angolo da Atta, tutti si volsero verso Rhys.
«Gerard ci ha raccontato una parte della storia, fratello», disse il paladino. «Ma noi vorremmo sentirla dalle vostre parole.»
Rhys narrò con riluttanza la sua storia. Immaginò che nessuno dei due gli credesse. Non gliene faceva una colpa. Al posto loro, lui avrebbe trovato difficile digerire quella storia. Rhys si risolse di non perdere tempo a discutere con loro né a cercare di convincerli che quanto diceva lui era la verità. Se l’avessero schernito, se ne sarebbe andato. Doveva trovare Lleu. Già così aveva perso fin troppo tempo.
Né Jenna né Dominique parlarono durante il discorso di Rhys. Nessuno dei due lo interruppe. Entrambi lo osservavano con solenne attenzione. Nel punto in cui Rhys descrisse brevemente l’assassinio dei monaci, Dominique mormorò qualche parola, e Rhys si rese conto che il paladino recitava una preghiera per le anime dei fedeli di Majere. Dominique si accigliò quando udì Rhys raccontare di come avesse abbandonato Majere e trasferito la sua fedeltà a Zeboim, ma il paladino non pronunciò alcuna parola di rimprovero.
Rhys invitò apposta Nightshade a presentare la sua versione degli eventi. Rhys era giunto ad apprezzare il coraggio e la determinazione del kender e voleva chiarire che loro due erano amici e compagni. Il racconto di Nightshade fu prolungato e sconnesso. Saltava da un pensiero a un altro, per cui di quando in quando risultava incoerente. Sia Jenna sia Dominique ascoltarono con pazienza, ma talvolta Sua Signoria Jenna fu costretta a mettersi la mano sulle labbra che le si contraevano, per impedirsi di ridere.
Quando Rhys e Nightshade non ebbero più nulla da dire, la maga e il paladino rimasero per un attimo in silenzio. Entrambi apparivano estremamente solenni. Nemmeno Gerard disse alcunché. Aspettava che parlassero loro.
Nightshade si dimenava sulla sedia, cercando di attirare lo sguardo di Rhys. Allungò la testa eloquentemente verso la porta e pronunciò col solo movimento delle labbra le parole: «Andiamocene da qui!».
Rhys scrollò il capo, e Nightshade emise un sonoro sospiro e con i tacchi scalciò le traverse della sedia.
«Ebbene, fratello», disse Jenna dopo un attimo, «è una bella storia».
Rhys piegò la testa ma non commentò.
Nightshade si schiarì la gola e disse ad alta voce: «Ehi, sento profumo di braciole di maiale. Qualcun altro sente profumo di braciole di maiale?».
Gerard si piegò in avanti sulla sedia. «Noi riteniamo di avere individuato uno di questi Prediletti. Quello che io propongo è di predisporre una trappola per lui...»
«Per "esso"», lo corresse Dominique. «Questi Prediletti sono involucri di carne, nient’altro. L’anima è riuscita a scappare, o almeno io così devotamente spero e prego.»
«Esso, allora», disse tristemente Gerard, rammentando che «esso» era stato un amico. «Predisporremo una trappola per esso. Dobbiamo cercare di cogliere Cam di sorpresa, interrogarlo.»
Jenna era scettica. «Possiamo provare a interrogare il Prediletto, ma non credo che scopriremo niente di valido. Come dice il paladino, l’anima se n’è andata. Questo qui non è altro che uno schiavo di Chemosh, senza cervello. Se lasciato vivo, commetterà altri crimini efferati nel nome del Signore dei Morti Viventi. Io penso che dovremmo annientarlo.»
«Sono d’accordo», disse con fermezza Dominique. «Anche se, da quanto ci ha detto il fratello Rhys, annientarlo potrebbe non essere facile.»
Rhys alternò lo sguardo fra l’uno e l’altra con uno stupore che si accalorò diventando una sensazione di sollievo travolgente. Gli credevano. Aveva combattuto questa battaglia terribile con soli due amici (una cagna e un kender) ad aiutarlo. Adesso aveva alleati, alleati formidabili. Adesso poteva condividere con altri almeno una parte di questo fardello insopportabilmente pesante.
Quando Gerard chiese il parere di Rhys, questi non riuscì a rispondere subito. Finalmente disse, con voce roca: «Temo di essere d’accordo con loro, sceriffo. Lo so che questo Cam vi è noto, ma il paladino di Kiri-Jolith ha ragione. Questo essere non è più il giovanotto che conoscevate. È un mostro senza cervello e senza anima che ucciderà ancora se non viene fermato».
«È tutto molto facile a dirsi per voi tre, ma io non posso andare in giro ad assassinare i cittadini di Solace!» esclamò Gerard furiosamente. «La popolazione insorgerebbe in armi se io permettessi a una maga di ridurre in cenere il povero Cam o a un paladino di trafiggerlo con una spada sacra! La gente non vedrà in lui un mostro. Vedrà Cam, il ragazzo che ha vinto la corsa nei sacchi alla fiera l’anno scorso! Maledizione, devo riuscire a parlargli. Mi serve la prova che lui sia uno dei Prediletti. Immagino che anche voi due vogliate una prova. Voglio dire, tutti noi ci fidiamo del fratello Rhys, ma...»
Sua Signoria Jenna alzò la mano.
«Capisco, sceriffo», disse dolcemente. «Se vi serve che noi catturiamo vivo questo essere, faremo del nostro meglio per catturarlo.»
Scambiò occhiate con Dominique, per dire che dovevano accontentare quel poveretto, quindi proseguì con delicatezza: «Qual è il vostro piano d’azione per questa trappola, sceriffo?».
«Pensavo di arrestarlo quando torna a casa dopo il lavoro e poi condurlo nel mio ufficio dove potremmo tutti avere un colloquio.»
«È troppo pericoloso, sceriffo», protestò Dominique. «Non solo per voi, ma anche per i passanti innocenti. Non abbiamo idea di quale devastazione possa causare quell’essere se si sentisse costretto all’angolo.»
Gerard sospirò e si passò la mano tra i capelli gialli, facendoli sembrare un appezzamento di grano dopo un forte vento. «Ebbene, che cosa suggerite, signore?» domandò malinconicamente.
«Io ho un’idea», disse Rhys. «Il Prediletto si è accordato per incontrare questa ragazza in un luogo che qui viene chiamato "Panorama di Flint". Si trova fuori Solace, subito discosto dalla strada principale che conduce in città. È il punto più alto per chilometri attorno con una bella vista sulla città. Potremmo attendere lì il Prediletto. Poche persone percorrono la strada dopo l’imbrunire. È un luogo isolato e si trova a distanza di sicurezza dalla città.»
Sua Signoria Jenna stava annuendo.
«Un bel piano d’azione», disse Dominique.
Gerard guardò tutti a turno. «Voglio mettere in chiaro una cosa. Voi mi date prima la possibilità di parlare con Cam, da solo. D’accordo?»
«D’accordo», disse Sua Signoria Jenna, fin troppo prontamente, almeno così pensò Rhys. «Io, se non altro, sarei interessata a sentire che cosa ha da dire una di queste creature.»
Gerard grugnì. Anche se portare a Solace questi due era stata un’idea sua, chiaramente non era contento di questa situazione. Concordarono un’ora per l’appuntamento, quindi Sua Signoria Jenna, alzandosi, indicò educatamente che era ora di andarsene.
«Ho degli incantesimi da studiare», disse, soggiungendo poi, con un’occhiata di scuse a Gerard: «Non si sa mai».
«E io ho le preghiere serali al tempio», disse Dominique.
«E io ho le braciole di maiale in cucina!» gridò allegramente Nightshade.
Il kender fu il primo a uscire dalla porta e a scendere le scale. Atta, dopo un’occhiata a Rhys, ricevette il permesso di accompagnarlo. Il paladino li seguì, e Sua Signoria Jenna chiuse e sbarrò la porta, lasciando soli assieme Gerard e Rhys.
«Davvero non mi piace questa cosa!» mormorò Gerard. «Lo so... ho portato io qui questi due per aiutarci a fermare i Prediletti, ma non sapevo che fosse Cam! Ho visto crescere quel ragazzo. Quando io sono stato assegnato qui prima della Guerra delle Anime, Cam era sempre a ronzare attorno alla caserma. Tutto quello che sapeva dire era che desiderava diventare cavaliere. Gli ho insegnato a usare la spada. Possono dire tutto quello che vogliono, che questo mostro non è lui, ma ha il suo sorriso, la sua risata...»
Gerard interruppe la propria invettiva. Guardò Rhys, emise un sospiro mesto e di nuovo si passò la mano fra i capelli.
«Siete in una posizione difficile, sceriffo», disse con tranquillità Rhys. «Farò quello che posso per aiutarvi.»
«Grazie, fratello», rispose con gratitudine Gerard. «Sapete, talvolta vorrei essere nato kender. Niente preoccupazioni. Niente affanni. Niente responsabilità. Null’altro che braciole di maiale. Ci vediamo stasera, fratello. Vi chiederei di dire una preghiera, ma già così abbiamo dèi fino sopra gli occhi.»
Corse giù per le scale, affrettandosi per compiere il suo dovere. Rhys lo seguì con maggiore lentezza. Pensava con rammarico a quella sensazione di sollievo che aveva provato.
Non era durata a lungo.
Il Panorama di Flint era situato in cima a una collina prospiciente Solace. Gerard e la sua squadra si radunarono presso il macigno dove, secondo la leggenda locale, il famoso Eroe delle Lance Flint Fireforge si era fermato per riposare in quella notte fatidica in cui una donna delle pianure e un bastone di cristallo azzurro avevano recato la notizia del ritorno dei veri dèi, ed era incominciata la Guerra delle Lance.
La vista era spettacolare. Il fumo dei fuochi per cuocere le cibarie si librava pigramente nell’aria. I raggi del sole morente luccicavano arancioni sul lago Crystalmir e scintillavano sulle finestre dalle vetrate a diamante della Taverna dell’Ultima Dimora, uno dei pochi edifici visibili attraverso il denso fogliame degli alberi di vallen.
«È splendido», disse Sua Signoria Jenna, guardandosi attorno. «Tanta pace e tranquillità. Qui il passato sembra molto vicino. Ci si potrebbe quasi aspettare che il vecchio nano arrivasse oltre la collina, assieme al suo amico kender. Loro avrebbero diritto più di noi di sostare qui.»
«Abbiamo già abbastanza problemi con i morti viventi senza che voi evochiate altri fantasmi, Vostra Signoria», disse Gerard. Era inteso in senso scherzoso, ma in quell’atmosfera tesa fece cilecca. Non rise nessuno. «Faremmo meglio a prendere posizione, prima che cali la notte.»
Lasciarono la strada e il macigno del vecchio nano ed entrarono nel limitare della foresta che ricopriva il fianco della collina. Camminarono in mezzo ad abeti e querce, aceri e noci, fermandosi quando Gerard ritenne che non potessero essere visti dalla strada, però la strada era ancora visibile.
«Abbiamo un po’ di tempo prima dell’orario di arrivo di Cam», disse Gerard.
Aveva compiuto la camminata in un silenzio mesto e malinconico, punteggiato di quando in quando da lievi sospiri interiori. A Rhys doleva il cuore per il suo amico, ma sapeva fin troppo bene che non poteva dirgli nulla che potesse apportargli un qualche conforto.
«Ho portato una coperta per evitare l’umidità.» Gerard srotolò una coperta e la stese su un letto di aghi di pino morti. «Tanto vale stare comodi intanto che aspettiamo.»
Fece un gesto verso la coperta con brusca galanteria. «Vostra Signoria Jenna, prego accomodatevi.»
«Grazie, sceriffo», rispose Jenna con un sorriso. «Ma non sono più agile come a vent’anni. Se mi siedo su quella coperta, ci vogliono tre nani di fosso e un apparecchio infernale degli gnomi per rimettermi in piedi. Se nessuno ha obiezioni, io prenderei possesso di questo tronco d’albero.»
Sedendosi su un ceppo di quercia, Jenna si lisciò le vesti e depose con cura a terra ai suoi piedi una lanterna che aveva portato con sé. La lanterna era piccola e delicata, fatta di vetro soffiato a mano e incastonata di argento lavorato a formare una filigrana intricata. All’interno ardeva una candela con una fiamma bianco-azzurra.
«Vedo che ammirate la mia lanterna, fratello», disse Jenna, notando Rhys guardare la lanterna con evidente curiosità. «Avete occhio per la bellezza. E per il valore. La lanterna è molto antica. Risale all’epoca dei Re-Sacerdoti.»
«È splendida», concordò Rhys. «Più bella che utile, si direbbe. Emette soltanto una luce fioca.»
«Non ha lo scopo di illuminare il buio, fratello», ridacchiò Jenna. «Scherma la fiamma che io uso per la mia magia. La lanterna stessa è magica, vedete. Perfino questo pezzetto di candela, una volta collocato dentro la lanterna, arderà per ore di fila. La fiamma non può essere spenta né soffiando né bagnandola, nemmeno se io venissi sorpresa da un ciclone o cadessi in mare. Potete esaminarla più da vicino, fratello. Prendetela su, se volete. Non morde.»
Rhys si accovacciò. Malgrado quanto aveva detto la donna, lui non prevedeva di provare a toccarla. «Una reliquia risalente alla Terza Era deve essere di valore immenso.»
«Se la vendessi, con i ricavi potrei probabilmente acquistare mezza Solace», affermò Jenna.
Rhys alzò lo sguardo verso di lei. «Eppure qui stanotte mettete a rischio un oggetto tanto prezioso.»
Jenna lo osservò attentamente. Rhys notò come le linee sottili attorno agli occhi di lei avessero l’effetto di intensificare il suo sguardo, concentrandolo, come la luce del sole che brillasse attraverso un prisma.
«O voi non capite la natura grave di questa minaccia, fratello, oppure immaginate che non la capisca io», disse bruscamente Jenna. «Io non sono qui in quanto Jenna, amica di lunga data di Palin Majere. Io sono qui nella mia qualità di presidente del Conclave dei Maghi. Subito dopo il mio ritorno presenterò al Conclave una relazione completa, poiché dobbiamo decidere il modo migliore per affrontare questa crisi. Lo stesso vale per il nostro paladino devoto. Lui presenterà relazioni ai sacerdoti e ai chierici di tutti gli dèi della luce, così come alla riunione del Consiglio dei Cavalieri di Solamnia. Questa per noi non è un’escursione tra kender, fratello. Io e Dominique siamo venuti armati per la battaglia. Portiamo con noi le armi migliori che abbiamo a disposizione.»
«Chiedo scusa, Vostra Signoria», disse a bassa voce Rhys. «Non intendevo mancarvi di rispetto.»
Doveva esserne grato. Era quello che voleva, eppure adesso si sentiva fortemente imbarazzato. Da un lato, era soddisfatto perché almeno il mondo avrebbe saputo di questa minaccia. Dall’altro lato, la paura poteva condurre a inquisizioni, torture, persecuzioni di innocenti. Il rimedio poteva essere di gran lunga peggiore del male.
«Nel bene o nel male, la questione adesso non è più nelle vostre mani, fratello», disse Sua Signoria Jenna, indovinando i pensieri di lui. «Oh, no, così no, signore!»
Tirò via una manina, appartenente a Nightshade, che si stava avvicinando alla lanterna. «Guardate laggiù. Mi pare di vedere un poltergeist vagare attorno alla base di quella quercia.»
«Un poltergeist?» disse emozionato Nightshade. «Dove?»
«Laggiù», indicò Jenna. «No, più a sinistra.»
Nightshade corse via all’inseguimento, con Atta che lo tallonava con aria dubbiosa.
Jenna si rivolse di nuovo a Rhys. «Dovete promettermi di tenere quel kender lontano da me quanto umanamente possibile. A proposito, sa davvero parlare con i morti?»
«Sì, signora. L’ho visto io stesso.»
«Straordinario. Una volta o l’altra dovete portarmelo in visita a Palanthas. Ci sono diverse persone morte con cui io vorrei mettermi in contatto. Uno di loro aveva in suo possesso un libro di incantesimi che si ritiene scritto da mio padre, Justarius. Ho cercato di comprarlo da lui, ma quel vecchio sciocco ha detto che se lo sarebbe portato nella tomba piuttosto che vendermelo. A quanto pare ha fatto così, perché io dopo la sua morte gli ho perquisito la casa e non sono riuscita a trovarlo.»
Jenna guardò il cielo. «Lunitari sarà piena stanotte. Ottimo per gli incantesimi.» Fissò Rhys con i suoi occhi prismatici. Aveva l’espressione seria, il tono grave. «Io e il paladino affronteremo il Prediletto, fratello. Voi tenete d’occhio il nostro amico sceriffo.»
Parlando diede un’occhiata a Gerard. «Non bisogna consentirgli di interferire nel nostro operato. Se lo fa, io non sarò responsabile delle conseguenze. Adesso lasciatemi sola, fratello. Voglio ripassare ancora una volta i miei incantesimi.»
Chiuse gli occhi e giunse le mani in grembo.
«Nessuna traccia di poltergeist», disse Nightshade, di ritorno; pareva deluso.
Rhys condusse via il kender allontanandolo sia da Sua Signoria Jenna sia da Dominique, anche se il paladino non avrebbe notato nemmeno cento kender. Dominique era fra loro col corpo, non con lo spirito. Equipaggiato con un’armatura completa e un elmo d’acciaio, indossava la cotta d’arme contrassegnata dal simbolo di Kiri-Jolith. Era inginocchiato a terra, con la spada davanti a sé. Gli occhi gli brillavano di sacro fervore mentre lui mormorava le parole di una preghiera, chiedendo al suo dio di dargli forza nell’ora della prova imminente.
Il fresco vento serale scendeva dalle montagne, raccoglieva foglie secche e le mandava a percorrere la strada deserta sfiorandola e frusciando. Quello stesso vento fresco soffiava nel vuoto dell’anima di Rhys mentre lui guardava il cavaliere pregare.
«C’è stata un’epoca in cui io conoscevo una fede così», disse fra sé sottovoce.
Seguace di Zeboim, avrebbe dovuto invocare l’aiuto della sua dea nell’ora della prova. Non pensava però che la signora approvasse granché i suoi compagni, per cui non la infastidì. Il compito di Rhys, per come lo vedeva lui, era accertarsi che tutti ne venissero fuori relativamente illesi, compreso (per amore di Gerard) quell’essere disgraziato che era stato un giovanotto di buon cuore e amante del divertimento.
Gerard vagava inquieto sotto gli alberi, tenendo d’occhio la strada. Si teneva a una certa distanza dal resto del gruppo, rendendo evidente che non volesse compagnia. Rhys guardò indietro e vide Nightshade inerpicarsi di nuovo per andare a guardare la lanterna, e si affrettò a suggerire che lui, Atta e il kender giocassero a «sasso, tela, forbici.»
Nightshade aveva di recente insegnato ad Atta a praticare questo gioco che richiedeva a ciascun giocatore di scegliere in tre turni se essere «sasso» (pugno chiuso), «tela» (mano aperta) o «forbici» (due dita). Il vincitore veniva stabilito nel modo seguente: il sasso schiaccia le forbici; la tela avvolge il sasso; le forbici tagliano la tela.
Atta metteva la zampa sul ginocchio del kender, e Nightshade interpretava l’azione secondo quanto a suo parere intendesse la cagna, per cui a turno Atta poteva essere «tela» che avvolgeva il sasso o «forbici» che tagliavano la tela.
«Tutti sono così seri», osservò Nightshade. «Atta ha le forbici, Rhys. Tu hai la tela, per cui perdi. Io ho il sasso, Atta. Anche tu perdi. Mi dispiace. Forse la prossima volta vincerai tu.» Diede alla cagna una pacca per alleviarle i sentimenti feriti. «Ho visto riunioni più vivaci in cimitero. Davvero credi che siano in grado di ucciderlo?»
«Zitto, abbassa la voce», avvertì Rhys, dando un’occhiata a Gerard. «Noi abbiamo già combattuto contro i Prediletti. Che pensi delle loro possibilità?»
Nightshade rifletté. «So che la maga non considera granché le mie capacità magiche, e che il guerriero devoto guarda di traverso il tuo bastone. Se vuoi il mio parere, non credo che loro se la caveranno molto meglio. Atta! Hai vinto tu! La tela per asciugare i piatti ci batte tutti e due!»
Il sole era tramontato. Il cielo era illuminato da un giallo pallido che si fondeva con un azzurro tremolante, il quale si scuriva fino a un nero illuminato da stelle oltre le montagne. La luna rossa mandava un luccichio arancione nel riverbero del tramonto. La fiammella della lanterna di Jenna appariva molto più luminosa adesso che l’oscurità li circondava.
Jenna sedeva immobile, tenendo gli occhi chiusi e compiendo con le mani movimenti elaborati nel fare le prove degli incantesimi. Dominique aveva terminato le preghiere. Si alzò rigidamente dalla posizione inginocchiata e con riverenza rinfoderò la spada.
Il silenzio della notte fu rotto da Gerard.
«Cam sta arrivando quassù! Nightshade! Ho bisogno di te! Vieni con me. No, il cane resta qui.»
Nightshade balzò in piedi e partì con Gerard. Rhys si alzò. Con una parola e un colpetto sulla testa tenne Atta al proprio fianco.
Con l’espressione calma e concentrata, Sua Signoria Jenna si spostò da sotto i rami degli alberi verso una chiazza di luce lunare rossa. Sollevò il viso verso la luna e sorrise, come crogiolandosi sotto i raggi benedetti. Dominique la raggiunse e sussurrò qualcosa. Jenna annuì in silenzio per dirsi d’accordo. Infilando la mano in uno dei suoi borsellini, ne estrasse un oggetto e se lo tenne stretto in mano. Dominique si allontanò per prendere posizione a una certa distanza da lei, tenendola però in vista.
I due avevano elaborato segretamente la loro strategia, si rese conto Rhys, probabilmente senza curarsi di parlarne con Gerard.
Rhys strinse forte il suo emmide.
Gerard e Nightshade si trovavano assieme accanto al macigno.
«Eccolo lì», disse Gerard e mise la mano sulla spalla di Nightshade.
Un giovanotto saliva energicamente la collina. Non era possibile confonderlo, poiché recava una fiaccola per rischiararsi il cammino, e la luce del fuoco gli brillava vivida sui capelli rossi.
«Guardalo bene, Nightshade», disse Gerard. «Guardalo bene dentro.»
«Mi dispiace, sceriffo», disse Nightshade. «Lo so che cosa volete che io veda, ma non c’è. Dentro di lui non c’è niente. Non più.»
A Gerard si accasciarono le spalle. «Va bene. Torna indietro e resta con Rhys.»
«Posso aiutarvi a parlare con lui», si offrì Nightshade, sentendosi spiaciuto per l’amico. «Io sono bravo a parlare con i morti.»
«Torna... indietro e basta», ordinò Gerard. Gli si contrasse un nervo nella mascella.
Nightshade corse via.
«Cam sta arrivando», riferì, soggiungendo tristemente: «Più morto di lui non c’è nessuno».
Jenna e Dominique si scambiarono occhiate.
«Nightshade», disse Rhys, chinandosi per sussurrare all’orecchio del kender, «io vado da Gerard».
«Vengo con te...»
«No», disse Rhys. Il suo sguardo si diresse verso Jenna e il paladino. «Credo che tu debba restare qui.»
Dominique pose la mano sull’impugnatura della spada, estraendola parzialmente dal fodero. L’arma prese a brillare di una misteriosa luce bianca.
«Hai ragione. Ho ancora vesciche alle dita.» Nightshade scrutò fra i rami degli alberi. «Da lassù avrò un’ottima visuale dell’azione, e posso lo stesso creare i miei incantesimi, se hai bisogno di me. Dammi una spinta, vuoi?»
Rhys issò il kender verso i rami più bassi del noce. Nightshade si arrampicò di ramo in ramo e ben presto scomparve alla vista.
Rhys procedette silenzioso, muovendosi senza rumore fra le ombre. Atta gli camminava a fianco a passi felpati, e le sue chiazze di pelo bianco assumevano un colore roseo sotto la luce lunare rossa. Né Jenna né Dominique prestarono attenzione a Rhys.
«Ecco, fratello, prendete la fiaccola», disse Gerard, porgendo a Rhys la luce accesa. «Adesso tornate indietro.»
«Penso di dovere restare con voi», disse Rhys.
«Ho detto di tornare indietro, monaco!» si infuriò Gerard. «È mio amico. Ci penso io.»
Rhys nutriva seri dubbi, ma fece come gli era stato ordinato, tornando indietro e mettendosi nell’ombra.
«Chi va là?» gridò Cam, sollevando la fiaccola. «Sceriffo? Siete voi?»
«Sono io, Cam», disse Gerard.
«Che cosa, per l’Abisso, ci fate qui?» domandò Cam.
«Ti aspetto.»
«Perché? Adesso sono fuori servizio. Sono libero di fare ciò che mi pare», ribatté Cam, irritato. «Se proprio volete saperlo, sono qui per incontrare una persona, una ragazza. Pertanto vi auguro una buona notte, sceriffo...»
«Jenny non verrà, Cam», disse tranquillamente Gerard. «Ho detto di te a suo padre e a sua madre.»
«Detto che cosa?» lo provocò Cam.
«Che tu hai giurato fedeltà a Chemosh, Signore della Morte.»
«E anche se fosse?» domandò Cam. «Solace è una città libera, così almeno continua a dire quel vecchio babbeo di un sindaco. Io posso adorare qualunque dio io preferisca...»
«Sbottonati la camicia, figliolo», disse Gerard.
«La camicia?» Cam rise. «Che c’entra la mia camicia?»
«Accontentami», disse Gerard.
«Accontentatevi da solo», disse sgarbatamente Cam. Girandosi, il giovanotto prese ad allontanarsi.
Gerard allungò la mano, afferrò la camicia di Cam e vi diede uno strattone.
Cam si voltò di scatto, col viso lentigginoso contorto per la furia, e i pugni serrati. L’apertura della camicia si spalancò.
«Che cos’è quello?» domandò Gerard, puntando il dito.
Cam abbassò lo sguardo su un marchio a fuoco sul lato sinistro del petto. Sorrise, quindi lo toccò con riverenza con le dita. Tornò a guardare Gerard.
«Il bacio di Mina», disse dolcemente Cam.
Gerard sobbalzò. «Mina! Come fai a conoscere Mina?»
«Non la conosco, ma vedo continuamente il suo volto. Questo è ciò che chiamiamo il marchio del suo amore per noi. Il bacio di Mina.»
«Cam», disse Gerard, con l’espressione grave. «Figliolo, sei proprio nei guai, più di quanto tu possa mai immaginare. Io voglio aiutarti...»
«No, non è vero», ringhiò Cam. «Voi volete ostacolarmi.»
Rhys aveva udito in precedenza quelle parole, o qualcosa di molto simile.
Lui mi avrebbe ostacolato... Le parole di Lleu, pronunciate quando il fratello di Rhys era in piedi sopra il cadavere del Maestro. E poi vi era il povero marito di Lucy, fatto a pezzi. Forse anche lui aveva cercato di ostacolarlo.
«Adesso ascoltami, Cam...»
«Gerard!» gridò Rhys. «Attento!»
L’avvertimento giunse troppo tardi. Cam si tuffò in avanti, puntando con le mani verso la gola di Gerard.
L’attacco colse Gerard completamente alla sprovvista. Lo sceriffo annaspò alla ricerca della spada, ma non ebbe il tempo di estrarla prima che le mani del giovane gli si serrassero attorno al collo con una forza tale da schiacciargli le ossa.
Invocando Kiri-Jolith, Dominique corse in soccorso dello sceriffo. La sua spada fiammeggiava di sacro zelo. Anche Rhys correva, ma il Prediletto possedeva una stretta forte come la morte e altrettanto implacabile. Gerard sarebbe morto, con la trachea schiacciata, prima che Dominique o Rhys potessero raggiungerlo.
Un corpicino peloso bianco e nero sfrecciò accanto a Rhys. Atta si lanciò in aria e si scagliò contro gli uomini che lottavano a corpo a corpo. Si schiantò con il corpo contro di loro, facendo finire a terra sia Cam sia Gerard e costringendo Cam a mollare la presa sulla sua vittima.
Gerard rotolò sulla schiena, ansimando alla ricerca di aria.
Cam combatteva con la cagna, che lo attaccava ferocemente e facendo scattare i denti cercava di mordergli la giugulare.
«Monaco, richiamate il vostro cane!» gridò Dominique.
«Atta!» urlò Rhys. «Da me!»
La cagna era in preda a una furia sanguinaria, era intenzionata a uccidere. Il sangue del lupo che era stato suo lontano antenato le martellava negli orecchi, soffocando il comando del suo padrone.
Cam afferrò Atta per la collottola e se la staccò di dosso. Le torse il collo, quindi scagliò via quel corpo floscio.
Rhys non poteva abbandonare Gerard, che ansimava per respirare. Rhys guardò con dolore Atta. Non la vedeva molto bene, poiché si trovava al di fuori della luce della sua fiaccola. La cagna non sembrava muoversi.
Vi furono un fruscio di foglie e uno schianto, e Nightshade ruzzolò giù dalla sua postazione in mezzo ai rami.
«È conciata male, ma mi occupo io di lei, Rhys!», gridò il kender con un’esitazione nella voce.
Prese in braccio Atta e con le lacrime che gli scendevano sulle guance si mise a cantilenarle dolcemente, dondolandola avanti e indietro.
Rhys staccò a forza lo sguardo dalla cagna dirigendolo verso il confronto tra Dominique e il Prediletto. Cam era riuscito a rimettersi in piedi con rapidità sorprendente. Aveva la gola mezzo squarciata, ma dalle ferite filtrava solo una piccola quantità di sangue.
Sorrise al paladino.
«E tu chi vorresti essere? Il fantasma di Huma?»
Dominique tirò fuori un medaglione sacro che portava attorno al collo. Lo tenne davanti a Cam.
«In nome di Kiri-Jolith, ti impongo di ritornare nell’Abisso da cui sei uscito!»
«Io non vengo dall’Abisso», disse Cam. «Io vengo da Solace, e tu tirami via quella roba dal viso!»
Scaraventò di lato la mano di Dominique, facendo volare via dalla mano del paladino il medaglione sacro.
Calma e fredda, Dominique conficcò la spada nello sterno di Cam.
Cam emise un grido strozzato. Fissò incredulo la spada sepolta fino all’impugnatura nel suo petto.
Dominique strattonò via la lama macchiata di sangue. A Cam cedettero le gambe. Cadde in ginocchio, quindi si rovesciò in avanti e rimase steso immobile.
«Sia benedetto Kiri-Jolith», disse con riverenza Dominique e fece per rinfoderare la spada.
Cam sollevò la testa.
«Ehi, tu, Huma. Hai sbagliato il colpo!»
Dominique barcollò all’indietro, lasciando quasi cadere la spada per lo stupore. Riavendosi, balzò contro il Prediletto e portò giù di taglio la spada descrivendo un arco di fuoco bianco. Il colpo staccò la testa di Cam dal collo.
Il corpo rimase a contorcersi in terra. La testa rotolò via a breve distanza, finendo col viso verso Gerard.
Lo sceriffo era riuscito a riprendere fiato.
«Cam, mi dispiace...» esordì Gerard, poi rimase senza fiato per l’orrore.
Un occhio della testa staccata ammiccò verso di lui.
La bocca si aprì e rise. Il corpo senza testa si tirò su carponi e prese a strisciare verso la testa staccata.
Gerard emise un gorgoglio. «Oh, dèi!» ansimò, con la gola infiammata. «Uccidetelo! Uccidetelo!»
Dominique fissò quel cadavere grottesco che si dimenava per terra. Sollevò la spada per colpirlo di nuovo.
«Toglietevi di mezzo!» gridò Jenna. «Tutti quanti!»
Rhys afferrò Gerard. Dominique si unì a lui e insieme mezzo trasportarono e mezzo trascinarono lo sceriffo più in profondità nella foresta.
Jenna teneva in una mano una gemma arancione luccicante e nell’altra la candela rossa ardente. Prese a cantilenare parole di magia. Sotto gli occhi ipnotizzati di Rhys, la fiamma della candela si fece sempre più grande e più luminosa, fino ad ardere con intensità tanto feroce che la luce gli fece lacrimare gli occhi.
Sotto quella luce brillante, Rhys vide uno spettacolo grottesco. Le braccia del cadavere sollevarono la testa staccata e la rimisero sul collo. Testa e corpo si fusero assieme. Cam, dall’aspetto più o meno uguale a sempre, a parte la camicia spruzzata di sangue, prese a dirigersi verso di loro.
Jenna cacciò un urlo e indicò col dito il Prediletto.
Dalla candela balzò fuori un globo di luce, che ardendo percorse l’oscurità e andò a colpire il Prediletto.
Cam urlò e chiuse gli occhi contro quel bagliore. Di nuovo cadde in ginocchio e rimase lì accovacciato, con una mano a coprirsi gli occhi e l’altra tesa in fuori come per cercare di scacciare l’incantesimo.
Rimase in quell’atteggiamento, immobile, con gli occhi chiusi contro il bagliore, finché Jenna emise un ansimo e crollò, esausta, in ginocchio. La luce vivida scomparve, come se un soffio immenso l’avesse spenta, lasciandoli in un buio tanto profondo che Rhys rimase in effetti accecato.
Dall’oscurità provenne la voce di Cam.
«Credo che me ne andrò adesso, sceriffo, a meno che non abbiate portato qualcun altro che voglia cercare di uccidermi...»
Gerard si scrollò di dosso Rhys che cercava di fermarlo e si alzò in piedi barcollando.
«Non sarò in grado di annientare te, o quello che resta di te», ansimò Gerard, a malapena in grado di parlare. «Ma ti metterò una guardia giorno e notte. Non farai del male a nessun altro, per lo meno non a Solace.»
Cam alzò le spalle. «Come ho detto, me ne vado comunque. Qui non c’è più niente per me.»
Il suo sguardo spaziò sull’intero gruppo. «Siete stati testimoni della potenza di Chemosh. Portate questo messaggio ai vostri maghi e ai vostri paladini devoti: io posso essere annientato, ma il prezzo del mio annientamento sarà tanto elevato che nessuno di voi avrà il coraggio di pagarlo.»
Cam fece un sorriso e un gesto allegro, quindi si girò e si allontanò. Non riprese la strada verso la città ma si diresse verso est.
«Fate qualcosa, paladino!» gridò rabbiosamente Gerard. «Dite una preghiera! Gettategli contro acqua santa. Fate qualcosa!»
«Ho fatto tutto quello che potevo, signore», rispose Dominique. «Porgetemi la fiaccola.»
Tenne la fiaccola sopra la zona dove l’erba calpestata e insanguinata contrassegnava la lotta col Prediletto, e si mise a cercare. Trovato quello che cercava, raccolse il medaglione sacro che il Prediletto gli aveva strappato di mano.
Dominique lo osservò pensosamente, quindi scrollò il capo. «Percepisco l’ira del mio dio. Percepisco anche la sua impotenza.»
Rhys si inginocchiò accanto a Jenna, che era accovacciata sulle ginocchia e fissava incredula il luogo in cui prima si trovava il Prediletto.
«State bene, Signoria?» domandò preoccupato Rhys.
«Quell’incantesimo avrebbe dovuto ridurlo in cenere», disse Jenna, sembrando stordita. «Invece...»
Tese una mano. Una poltiglia fine simile a cenere, che un tempo era stata la gemma arancione, le passò fra le dita e cadde a terra accanto a una pozza di cera rossa, tutto ciò che rimaneva della candela. Un sottile filo di fumo saliva a spirale dai resti anneriti dello stoppino.
«Vi siete scottata la mano», disse Rhys.
«Non è nulla», ribatté Jenna, affrettandosi a fare scivolare la manica sopra la mano. «Aiutatemi, fratello. Fatemi alzare. Grazie. Sto bene. Andate a trovare il vostro povero cane.»
Rhys non aveva bisogno di essere sollecitato. Andò di corsa verso il punto in cui Nightshade sedeva sotto l’albero, tenendo stretta Atta. La cagna era immobile. Aveva gli occhi chiusi.
A Nightshade scendevano le lacrime sulle guance.
Con una stretta al cuore, Rhys si inginocchiò. Tese la mano e accarezzò la cagna.
Atta si agitò fra le braccia del kender, sollevò la testa e aprì gli occhi. Dimenò lievemente la coda.
«L’ho riportata in vita, Rhys!» disse Nightshade con voce strozzata dalle lacrime. «Non respirava, ed era stata così coraggiosa, aveva fatto del suo meglio per uccidere quell’essere, e io non potevo sopportare di pensare di perderla!»
Dovette interrompersi un attimo per mandare giù le lacrime. Anche a Rhys scendevano lacrime sul viso.
«Ho pensato a tutto questo, e a come io e lei ci siamo spartiti una braciola di maiale stasera, anche se io non volevo veramente spartirla. Mi è caduta, e lei è rapida quando si tratta di braciole di maiale. Comunque, avevo nel cuore tutto questo e ho recitato quel piccolo incantesimo che mi hanno insegnato i miei genitori, quello che ho usato per farti stare meglio quella volta che hai combattuto contro tuo fratello. Tutto quello che avevo nel cuore è come traboccato e si è riversato su Atta. Lei ha tirato su col naso e poi ha sbuffato. Quindi ha aperto la bocca e ha sbadigliato, e poi mi ha leccato il viso. Credo che mi sia rimasto sul mento un po’ di grasso della braciola di maiale.»
Rhys aveva il cuore tanto gonfio che non riusciva a parlare. Ci provò, ma non vennero fuori parole.
«Sono così contento che non sia morta», proseguì Nightshade, abbracciando Atta, che gli si strofinava sul viso. «Chi mi terrebbe lontano dai guai?»
Atta si dimenò per tirarsi via dalle braccia di Nightshade. Scrollandosi tutta, si sedette sul piede di Rhys, alzando lo sguardo verso di lui e scodinzolando freneticamente. Il kender si alzò in piedi e si spolverò, quindi si deterse le lacrime e la bava della cagna. Alzò lo sguardo e trovò Sua Signoria Jenna in piedi davanti a lui, a osservarlo con meraviglia.
Jenna tese la mano... togliendosi prima tutti gli anelli.
«Chiedo scusa, Nightshade, per avervi denigrato in precedenza», disse solennemente Jenna. «Desidero stringervi la mano. Siete l’unico a cui abbia funzionato un incantesimo, stasera.»
«Grazie, Vostra Signoria Jenna, e non preoccupatevi delle denigrazioni», la rassicurò Nightshade. «Non mi hanno toccato. Io ero lassù sull’albero. Quanto al vostro incantesimo, era una meraviglia! Vedo ancora macchie azzurre danzarmi negli occhi.»
«Macchie azzurre. È servito soltanto a questo», disse mestamente Jenna. «Ho usato quell’incantesimo contro i morti viventi più volte di quante riesca a contarne. Mai prima d’ora mi aveva tradita.»
«Per lo meno il Prediletto ammette di poter essere annientato», disse Rhys con tono pensoso.
«Già», mormorò Gerard. «A un prezzo tanto elevato che nessuno di noi potrà sostenerlo.»
«Certo che vi è un modo per annientarlo. Chemosh potrà promettere una vita eterna, ma nemmeno lui può garantire l’immortalità», affermò Dominique.
«Perché dircelo, allora?» domandò Jenna, frustrata. «Perché non tenerci all’oscuro?»
«Il dio spera di spaventarci per non farci indagare sulla questione», congetturò Dominique.
«Si prende gioco di noi», disse Gerard, facendo una smorfia mentre si massaggiava il collo dolorante. «Come un assassino che volontariamente lascia un indizio accanto al cadavere.»
Sua Signoria Jenna non pareva soddisfatta di queste risposte. «Che ne pensate, fratello?»
«Il dio sa che il suo segreto è stato svelato. D’ora in poi, ogni mago e ogni chierico di Ansalon cercheranno questi Prediletti. La notizia si diffonderà. Si scatenerà il panico. Il vicino accuserà il vicino. I genitori si metteranno contro i figli. L’unico modo per dimostrare l’innocenza di una persona sarà ucciderla. Se resta morta, non è dei Prediletti. Il prezzo per annientare queste creature sarà davvero elevato.»
«E Chemosh guadagnerà altre anime», soggiunse Nightshade. «È una cosa piuttosto scaltra.»
«Credo che voi ci sottovalutiate, fratello», disse Dominique, accigliandosi. «Noi faremo in modo che nessun innocente ne soffra.»
«Come facevano i chierici del vostro dio ai tempi del Re-Sacerdote?» disse aspramente Sua Signoria Jenna. «Oserei dire che noi maghi saremmo tra i primi a essere accusati! Lo siamo sempre.»
«Vostra Signoria Jenna», disse freddamente Dominique, «vi assicuro che opereremo in stretto contatto con i nostri confratelli delle Torri».
Jenna lo scrutò, quindi sospirò. «Non badatemi, sono soltanto stanca, e ho davanti a me una lunga notte.» Prese a infilarsi nuovamente gli anelli alle dita. «Devo ritornare al Conclave per esporre la mia relazione. È stato bello conoscervi, Rhys Mason, ex monaco di Majere.»
Sottolineò quella parola. I suoi occhi, brillanti sotto la luce rossa di Lunitari, sembravano sfidarlo.
Rhys non raccolse la sfida. Non le domandò che cosa intendesse dire. Temeva una risposta canzonatoria. Per lo meno così disse a se stesso.
«Anche voi, Nightshade. Possano i vostri borsellini essere sempre pieni e le celle di prigione sempre vuote. Dominique, amico mio, mi dispiace di avere parlato con tanto malanimo. Ci terremo in contatto, sceriffo Gerard, grazie per avere sottoposto alla mia attenzione questa terribile faccenda. Infine, addio a voi, signora Atta.» Jenna abbassò la mano per dare una pacca alla cagna, che si fece piccola per la paura sotto quel gesto ma acconsentì a essere accarezzata.
«Prendetevi cura del vostro padrone perduto e badate che trovi la strada di casa. E adesso, amici e conoscenti, vi auguro buona notte!»
Jenna pose la mano destra su un anello che portava al pollice sinistro, pronunciò un’unica parola e scomparve alla loro vista.
«Fiuuu!» sospirò Nightshade. «Ricordo quando l’abbiamo fatto anche noi. E tu, Rhys? Quella volta che Zeboim ci ha condotti per magia al castello del cavaliere della morte...»
Rhys posò la mano sulla spalla del kender.
Nightshade, capendo l’antifona, si zittì.
Dominique aveva ascoltato. Guardò solennemente Rhys, non gradendo che Rhys seguisse una dea malvagia. Parve sul punto di dire qualcosa quando Gerard lo prevenne.
«Una bella serata di lavoro», disse mestamente Gerard. «E tutto quello che abbiamo da far vedere è dell’erba schiacciata, qualche schizzo di sangue e della cera di candela fusa.» Sospirò. «Dovrò riferire tutto questo al sindaco. Vi sarei grato, signor Dominique, se veniste con me. Palin crederà a voi, se non a me.»
«Sarò lieto di accompagnarvi, sceriffo», disse il paladino.
«Non so che cosa lui intenda fare, naturalmente», soggiunse Gerard, mentre si incamminavano giù per la collina, «ma io gli proporrò di indire un’assemblea civica domani per avvertire la popolazione».
«Ottima idea. Potete tenere l’assemblea nel nostro tempio. Concluderemo pregando per avere forza e protezione. Manderemo messaggeri a tutti i nostri chierici, nonché a quelli di Mishakal e di Majere...»
«A proposito di Majere...» Gerard si fermò. «Dov’è fratello Rhys?»
Si girò e vide Rhys, Nightshade e Atta ancora in piedi sotto gli alberi. «Non tornate a Solace con noi, fratello?»
«Credo che resterò qui per un po’», rispose Rhys. «Lascio ad Atta la possibilità di riposare.»
«Io resto con lui», soggiunse Nightshade, anche se nessuno gliel’aveva chiesto.
«Fate come volete. Ci vediamo domattina, fratello», disse Gerard. «Grazie per il vostro aiuto di stasera, e grazie ad Atta per avermi salvato la vita. Troverà un grosso osso di manzo nella ciotola domani.»
Lo sceriffo e Dominique ripresero il cammino e i loro progetti e presto scomparvero alla vista di Rhys.
La notte si era fatta assai buia. Le luci di Solace si erano spente. La città era scomparsa, inghiottita nel sonno. Lunitari sembrava avere perduto interesse per loro, adesso che Jenna non c’era più. La luna rossa si avvolse in un banco di nubi temporalesche e si rifiutò di tornare fuori. Cadde qualche goccia di pioggia. In lontananza rimbombò un tuono.
«Noi non torniamo a Solace, vero?» Nightshade emise un sospiro.
«Pensi che dovremmo?» domandò con tranquillità Rhys.
«Domani è giorno di gnocchi di pollo», disse Nightshade con tono ansioso. «E Atta troverebbe un osso di manzo. Ma immagino che tu abbia ragione. Hanno preso in mano la situazione le persone importanti. Noi saremmo soltanto d’impiccio. Inoltre», soggiunse, rallegrandosi, «ci saranno gnocchi di pollo dovunque capitiamo. Dove andiamo?».
«A est», disse Rhys. «Dietro al Prediletto.»
Monaco, cagna e kender si incamminarono lungo la strada proprio mentre scoppiava il temporale e incominciava a piovere.
Nuitari arrivò tardi al Conclave dei Maghi che era stato convocato in tutta fretta nella Torre dell’Alta Magia di Wayreth. Trovò i suoi cugini, Solinari e Lunitari, già lì. L’espressione sul volto degli dèi era arcigna e rifletteva l’espressione altrettanto arcigna sul volto dei maghi. Qualunque fosse l’argomento in discussione, non lasciava presagire niente di buono per i maghi delle varie Vesti di Ansalon, a quanto pareva.
A Nuitari bastò sentire le parole «Prediletti di Chemosh» per conoscerne il motivo. I cugini al suo ingresso lo guardarono ma non dissero nulla, non volendo perdersi niente della relazione di Jenna ai suoi colleghi.
Questa riunione dei maghi che costituivano il Conclave non era un’assemblea ufficiale. Le assemblee ufficiali del Conclave, convocate a intervalli programmati, erano pianificate con mesi di anticipo. Erano cerimonie sontuose, celebrate secondo i riti prescritti nella Sala dei Maghi della Torre. Questa riunione di emergenza era stata convocata in fretta, senza tempo da perdere in formalità, e si teneva nella biblioteca della Torre, dove i maghi avevano facile accesso ai rotoli e ai libri di consultazione risalenti ai tempi antichi. I maghi si radunarono attorno a un grande tavolo di legno; Vesti Nere sedevano accanto a Vesti Bianche sedute accanto a Vesti Rosse.
Una convocazione di emergenza da parte del presidente del Conclave è generalmente considerata una questione di vita o di morte, che richiede a ogni membro del Conclave di interrompere ciò che sta facendo e percorrere subito i corridoi della magia fino alla Torre dell’Alta Magia di Wayreth. Le sanzioni per la mancata partecipazione sono gravi e possono avere come risultato l’espulsione del mago dal Conclave.
Un antico incantesimo, noto soltanto al presidente del Conclave, permetteva al mago di emettere una simile convocazione di emergenza. Al suo ritorno a casa a Palanthas, Jenna aveva prelevato una scatola di palissandro dal suo nascondiglio nelle pieghe del tempo. All’interno della scatola vi era uno stilo d’argento. Jenna l’aveva immerso in sangue di capra e quindi aveva scritto su pelle di agnello le parole della convocazione. Aveva passato la mano sulle parole da sinistra a destra e poi da destra a sinistra e daccapo, sette volte. Le parole erano scomparse. La pelle di agnello si era raggrinzita ed era svanita.
Nel giro di pochi istanti la convocazione sarebbe apparsa a ciascun membro del Conclave sotto forma di lettere di sangue e di fuoco. Una Veste Bianca, che sonnecchiava nel suo letto, fu svegliata dalla luce vivida di tracciati infuocati che ardevano sul soffitto della camera da letto. Una Veste Nera vide le parole materializzarsi sulla parete del suo laboratorio. Partì subito, ancorché riluttante, poiché aveva appena finito di evocare dall’Abisso un demone, che in sua assenza gli avrebbe indubbiamente spaccato il mobilio. Una Veste Rossa era impegnata a combattere i goblin quando vide le parole incise sulla fronte del suo avversario. La Veste Rossa arrivò piena di lividi e senza fiato, con le mani coperte di sangue di goblin. Il mago era stato costretto ad abbandonare un gruppo di cacciatori di goblin, che adesso si guardavano attorno perplessi e stupiti, domandandosi che ne fosse stato del loro fornitore di magia.
«Così se ne va la mia parte di bottino», mormorò prendendo posto a sedere.
«Aspetta che mio marito si svegli e veda che io non ci sono», disse la Veste Bianca al suo fianco. «Dovrò dare delle spiegazioni quando tornerò a casa.»
«Tu pensi di avere dei problemi», disse la Veste Nera, che sospirò al pensiero del caos che il demone gli stava creando nel laboratorio. Ammesso che lui ancora avesse un laboratorio.
Tutte le seccature personali furono però dimenticate quando i maghi ascoltarono sconvolti il racconto di Jenna. La maga cominciò da principio, narrando la storia di Rhys come lui gliel’aveva raccontata. Finì col malaugurato attacco al Prediletto.
«L’incantesimo che ho creato era "Sole girante"», disse loro. «Presumo che tutti voi lo conosciate bene.»
Le teste incappucciate annuirono.
«Come sapete, questo incantesimo è particolarmente efficace contro i morti viventi. Avrebbe dovuto carbonizzare quel cadavere ambulante. Invece non ha avuto su di lui alcun effetto. Il Prediletto ha riso di me.»
«Poiché sei stata tu, Jenna, a creare l’incantesimo, devo presumere che non vi sia possibilità che tu abbia commesso un errore. Che tu abbia pronunciato male una parola o abbia usato un componente magico impuro.»
Aveva parlato Dalamar lo Scuro, superiore dell’Ordine delle Vesti Nere. Pur essendo un elfo e relativamente giovane secondo i parametri degli elfi, Dalamar appariva più vecchio dell’essere umano più vecchio seduto al tavolo. I capelli neri erano striati di bianco. Gli occhi erano infossati nelle orbite. Il viso dalle ossa fini sembrava intagliato nell’avorio. Anche se appariva fragile, Dalamar era al culmine della sua potenza ed era assai rispettato da tutti gli Ordini.
Sarebbe dovuto diventare presidente del Conclave se non fosse stato per alcuni deplorevoli errori del passato che avevano indotto sia gli dèi sia i maghi a opporsi a lui e a promuovere al suo posto Jenna. I due erano stati amanti molti anni prima ed erano ancora amici quando non erano rivali.
«Poiché sono stata io a creare l’incantesimo», ribatté freddamente Jenna, «posso assicurarti che non vi è alcuna possibilità che io abbia commesso un errore».
Dalamar pareva scettico.
Jenna alzò la mano verso il cielo. «Poiché Lunitari mi è testimone», dichiarò, «che la dea ci mandi un segno se io ho eseguito male l’incantesimo».
«Jenna non ha commesso nessun errore», disse Lunitari con un’occhiata accigliata verso Nuitari.
«Dalamar non ha detto che ne abbia commessi», ribatté Nuitari. «In effetti ha detto di no.»
«Non era ciò che intendeva.»
«Smettetela, voi due», intervenne Solinari. «Questa è una faccenda seria, forse la più seria che ci troviamo di fronte da quando siamo ritornati. Placa la tua ira, cugina. Dalamar lo Scuro ha agito in maniera appropriata nel chiedere rassicurazione.»
«E la otterrà», disse Lunitari.
La biblioteca fu all’improvviso soffusa di calda luce rossa. Jenna sorrise di soddisfazione. Dalamar diede un’occhiata verso il cielo e inclinò la testa incappucciata in segno di deferenza verso la dea.
«Nessuno di noi dubita delle capacità di Sua Signoria Jenna, ma perfino lei deve ammettere che deve esserci qualche modo per annientare questi morti viventi», affermò una Veste Bianca. «Come ha detto il paladino di Kiri-Jolith, nemmeno Chemosh può rendere indistruttibile un mortale.»
«C’è sempre una prima volta per ogni cosa», ribatté caustico Dalamar. «Cento anni fa io non avrei detto che un dio potesse rubare il mondo. Eppure è successo.»
«Forse l’incantesimo di uno stregone può annientarlo», suggerì Coryn la Bianca, il più recente membro del Conclave. Ancorché giovane, aveva grande talento ed era considerata una grande favorita del dio Solinari.
I suoi colleghi maghi, perfino quelli delle Vesti Bianche, la guardarono con disapprovazione.
Gli stregoni erano coloro che usavano la magia primitiva proveniente dal mondo stesso, non la magia divina dei cieli. Gli stregoni avevano praticato la magia su Krynn durante l’assenza degli dèi. Gli stregoni non erano limitati dalle leggi dell’Alta Magia ma operavano in maniera indipendente. Nel periodo precedente al Secondo Cataclisma, questi esseri indipendenti erano stati considerati dei rinnegati e i membri di tutti e tre gli Ordini avevano dato loro la caccia. A molti membri di questo Conclave sarebbe piaciuto farlo anche adesso, ma non lo facevano per diversi motivi: la magia divina era ritornata soltanto da poco su Krynn, i maghi stavano appena ritornando alle antiche pratiche, erano poco numerosi e ancora non ben organizzati.
Sua Signoria Jenna, in quanto presidente del Conclave, era fautrice della politica del «vivi e lascia vivere», che per lo più veniva seguita. Ciò non significava però che i maghi nutrissero sentimenti amichevoli verso gli stregoni. Tutto il contrario.
Coryn la Bianca era stata una fattucchiera che solo di recente aveva rinunciato alla magia primitiva passando alla più disciplinata magia degli dèi. Sapeva che cosa pensavano gli altri maghi riguardo agli stregoni e provava una gioia piuttosto maliziosa nel provocarli. Questa volta però non li stava provocando, era assolutamente seria.
«Sua Signoria Coryn non ha tutti i torti», affermò di malavoglia Jenna. Tutti i maghi la guardarono con stupore. Alcune Vesti Nere si accigliarono e mormorarono.
«Io ho fra i miei clienti diversi stregoni», proseguì Jenna. «Mi metterò in contatto con loro e li inviterò a mettere alla prova le loro capacità contro queste creature. Tuttavia non nutro molte speranze nel fatto che la loro fortuna sia migliore della nostra.»
«Speranze!» ripeté rabbiosamente una Veste Rossa. «Speriamo che questi Prediletti facciano a pezzi gli stregoni! Vi rendete conto che significherebbe se uno stregone sapesse uccidere queste creature nefande e noi no? Saremmo lo zimbello di Ansalon! Io dico di tenere per noi ciò che sappiamo su questi Prediletti. Non diciamolo agli stregoni.»
«Troppo tardi», disse arcignamente una Veste Nera. «Adesso che i chierici lo sanno, celebreranno riti di preghiera, con i fedeli a rotolarsi per terra isterici e i sacerdoti a scagliare acqua santa su tutto ciò che si muove. Troveranno un modo per dare la colpa ai maghi. Aspettate e vedrete se non sarà così.»
«Ed è proprio questo il motivo per cui noi dobbiamo stabilire direttive su come affrontare i Prediletti e rendere nota al pubblico la nostra posizione», disse Jenna. «I maghi devono essere visti collaborare con tutti per trovare una soluzione a questo mistero, anche se ciò significa unire le forze con sacerdoti e stregoni e mistici.»
«Ammettendo così che noi non siamo in grado di risolverlo da soli», disse acidamente una Veste Bianca. «Che ne dite, Vostra Signoria Coryn?»
«Concordo con Sua Signoria Jenna. Dovremmo essere aperti e sinceri riguardo a questi Prediletti. I problemi che noi maghi abbiamo affrontato in passato si sono presentati in conseguenza del nostro volerci avvolgere nel mistero e nella segretezza.»
«Oh, concordo proprio», disse Dalamar. «Dico: spalanchiamo le porte della Torre e invitiamo la marmaglia a venire a passarvi la giornata. Possiamo eseguire dimostrazioni, spedire fuori sfere di fuoco e cose simili, servire sul prato punch al latte e biscotti.»
«Sii sarcastico quanto vuoi, amico mio», ribatté freddamente Jenna. «Ma così non si risolve questa terribile situazione. Hai qualcosa di costruttivo da suggerire, Maestro delle Vesti Nere?»
Dalamar rimase in silenzio per un attimo, tracciando distrattamente con le dita delicate un sigillo sul ripiano del tavolo.
«Ciò che trovo particolarmente affascinante è il coinvolgimento di Mina», disse alla fine.
«Mina!» ribatté Jenna, stupita. «Non vedo perché tu la trovi tanto affascinante. Quella ragazza non ha una mente propria. Un tempo era una pedina di Takhisis. Adesso è una pedina di Chemosh. Ha semplicemente cambiato un padrone con un altro.»
«Trovo affascinante che sia il segno delle sue labbra a essere marchiato a fuoco sulla carne di queste disgraziate creature», disse Dalamar.
«Per favore non fare scarabocchi!» disse Jenna mettendo la mano sopra quella di lui. «L’ultima volta che l’hai fatto, hai bucato il tavolo col fuoco. Quanto a Mina, non è altro che un bel visino che Chemosh usa per attirare giovanotti verso il loro destino.»
Dalamar cancellò il sigillo con la manica della veste nera. «Nondimeno io ritengo che sia lei la chiave in grado di aprire la porta su questo mistero.»
Nuitari non rimase sorpreso del fatto che i pensieri di questo mago puntassero nella stessa direzione imboccata da lui. Il legame fra Nuitari e Dalamar era stretto. I due, dio e mortale, avevano superato assieme molte prove. Nuitari progettava di insediare prima o poi Dalamar quale Maestro della Torre del Mare di Sangue. Non ancora, però. Non prima di avere sistemato tutto con i suoi due cugini.
«Scommetto che non saresti tanto interessato a Mina se lei fosse una vecchiaccia come me», disse Jenna, dando uno schiaffo canzonatorio alla mano di Dalamar.
Dalamar le prese la mano e se la portò alle labbra. «Tu non sarai mai una vecchiaccia, mia cara. E lo sai bene.»
Jenna, che lo sapeva davvero, gli sorrise e ritornò alla questione.
«Avevate qualcosa da aggiungere, Vostra Signoria Coryn?»
«A giudicare dall’indizio datovi dal Prediletto, il modo per annientare questi esseri non verrà scoperto facilmente da nessuno, chierico, mago o stregone. Io suggerirei che gli apprendisti attualmente intenti a studiare nella Torre venissero istruiti a cercare tra gli antichi documenti qualche menzione di esseri analoghi, in particolare in riferimento a Chemosh.»
«Sono già all’opera», disse Jenna. «Mi sono anche messa in contatto con gli Esteti e ho chiesto loro di consultare i libri della Grande Biblioteca. Non credo che avranno molto successo, però. Per quanto ne so, in Ansalon non si è mai visto niente di simile a questi Prediletti. C’è qualcos’altro? Altre domande?»
Jenna diede un’occhiata attorno al tavolo. I maghi sedevano in un silenzio tetro, scrollando le teste incappucciate.
«Molto bene, allora. Andiamo avanti. Il Conclave adesso prenderà in considerazione le direttive che i maghi dovranno seguire se si imbatteranno in qualcuno di questi Prediletti. Prima di tutto, dobbiamo trovare qualche metodo per individuarli.»
«E per proteggere gli innocenti, che sono destinati a essere accusati falsamente», soggiunse una Veste Bianca.
«E per proteggere noi stessi, che siamo destinati a essere accusati falsamente», disse una Veste Nera.
«E allora a me sembra...» disse una Veste Rossa.
Nuitari si voltò. Simili discussioni probabilmente sarebbero proseguite per ore prima che si giungesse a un accordo.
«Cugini miei», disse. «Vorrei parlare con voi.»
«Hai tutta la nostra attenzione, cugino», disse Lunitari, e Solinari, arrivando accanto a lei, annuì.
I tre dèi osservavano i lavori dal loro piano celeste e, malgrado il fatto che nessun occhio mortale potesse vederli, ciascuno aveva assunto il proprio aspetto preferito. Lunitari appariva come vivace donna dai capelli rossi, abbigliata con vesti rosse dalle decorazioni di ermellino e oro. Solinari aveva assunto la forma di un giovanotto fisicamente poderoso. Le sue vesti erano bianche, con decorazioni d’argento. Nuitari aveva assunto la sua forma abituale, quella di uomo dal viso a luna piena, con occhi dalle palpebre pesanti e labbra carnose. Le sue vesti nere come l’inchiostro erano semplici e disadorne.
Lunitari indovinò subito che c’era sotto qualcosa.
«Tu hai informazioni riguardo a questi Prediletti, cugino», disse emozionata. «Chemosh ti ha detto qualcosa.»
Nuitari era sdegnoso. «Chemosh è troppo indaffarato ad andarsene in giro a fare il galletto per parlare con me. Crede di avere fatto qualcosa di veramente astuto. Personalmente non ne sono poi tanto impressionato. Si troverà un modo per annientare questi cadaveri dinoccolati, e questo metterà fine a tutto.»
«Allora di che cosa volevi parlarci?» domandò Solinari.
«Ho costruito una Torre dell’Alta Magia», disse Nuitari. «La mia Torre.»
I cugini lo fissarono con sguardo assente.
«Come?» chiese Lunitari, incapace di credere di avere udito bene.
«Ho costruito una Torre dell’Alta Magia», ripeté Nuitari. «O meglio, ho ricostruito un’antica Torre, quella che si trovava a Istar. Ho riedificato le rovine e ho aggiunto qualche mio ritocco. La Torre è situata sotto il Mare di Sangue. Due mie Vesti Nere adesso ci abitano. Io progetto di invitare in seguito altri maghi a trasferirsi lì.»
«Hai fatto tutto questo in segreto!» disse Lunitari restando senza fiato. «Dietro le nostre spalle!»
«Sì», disse Nuitari. Che altro poteva dire? «Proprio così.»
Lunitari era furiosa. Si tuffò contro di lui e chissà che cosa gli avrebbe fatto se il loro cugino Solinari non l’avesse afferrata e trascinata indietro.
«Nel corso dei secoli, fin dall’epoca della nostra nascita, noi tre siamo stati a spalla a spalla, a fianco a fianco», disse Solinari, tenendo stretta la cugina infuriata. «Siamo rimasti uniti nella causa della magia e, grazie alla nostra unità, la magia ha prosperato. Quando tua madre ci ha traditi, ci siamo addolorati assieme e abbiamo unito le forze per cercare il mondo. Quando l’abbiamo effettivamente trovato, abbiamo agito di concerto per ristabilirvi la magia. E adesso scopriamo che tu ci hai traditi.»
«Domandiamoci chi di noi sia il vero traditore», disse Nuitari. «Mia madre, Takhisis, è stata deposta per il suo crimine, resa mortale e poi uccisa ignominiosamente da una mano di mortale. Tuo padre, cugino Solinari, un tempo era un dio. Adesso è un mendicante che vaga per Ansalon vivendo di elemosine.»
Nuitari scrollò il capo. «E che dire di Nuitari? Mia madre non c’è più. Mio padre, Sargonnas, il toro infuriato, intende far dominare Ansalon dai suoi minotauri! Ha scacciato gli elfi dalla loro patria e adesso invia navi cariche di coloni minotauri. Non gli importa niente di me o di ciò che faccio. Sappiamo tutti che i minotauri, compreso mio padre, tengono in scarsa considerazione i maghi.»
I suoi occhi dalle palpebre pesanti si spostarono su Lunitari. «Invece tuo padre, Gilean, adesso è il dio più potente dei cieli. È forse una coincidenza che le Vesti Rosse di sua figlia predominino sul Conclave?»
«Bisogna mantenere l’equilibrio!» disse Lunitari, ancora non del tutto placata. «Lasciami stare, cugino. Non gli farò del male. Anche se mi piacerebbe strappare via dal cielo la sua luna nera e ficcargliela nel...»
«Pace, cugina», disse Solinari con tono tranquillizzante. Si rivolse a Nuitari. «Il fatto che le Vesti Rosse siano potenti sarà anche vero, sebbene io non lo sostenga», soggiunse in disparte con un’occhiata fredda a Lunitari. «Comunque questo non è una scusante per quello che hai fatto.»
«No, certo», ammise Nuitari. «E io voglio farne ammenda. Ho una proposta, che credo possa piacere a voi due.»
«Ti ascolto, cugino», disse Solinari. Pareva più addolorato che incollerito.
Lunitari indicò, con un brusco cenno del capo, che pure lei era interessata a sentire ciò che aveva da dire Nuitari.
«Adesso in Ansalon vi sono tre Torri dell’Alta Magia», disse Nuitari. «La Torre di Wayreth, la Torre del Nightlund e la mia Torre nel Mare di Sangue. Io propongo che, come avveniva all’epoca del Re-Sacerdote, a ciascun Ordine venga assegnata una sua Torre. Le Vesti Rosse assumeranno il controllo della Torre di Wayreth. Alle Vesti Bianche verrà ceduto il controllo della Torre del Nightlund. Le mie Vesti Nere si impossesseranno della Torre del Mare di Sangue.»
Gli altri due dèi rifletterono su questa proposta. La Torre di Wayreth era a tutti gli effetti sotto il controllo delle Vesti Rosse, poiché Jenna era presidente del Conclave e la Torre era la sede del potere del Conclave. La Torre del Nightlund era chiusa da quando Dalamar ne era stato scacciato per punizione. Nessun mago aveva il permesso di entrarvi, proprio perché gli dèi temevano che la Torre diventasse un pomo della discordia, con le Vesti Nere e le Vesti Bianche a cercare di rivendicarla.
Nuitari aveva appena fornito una soluzione al problema. Lunitari rifletté sul fatto che la nuova Torre del cugino si trovasse sul fondo del mare. Non sarebbe stata facilmente accessibile e pertanto era improbabile che ponesse una grave minaccia alla base di potere della dea. Quanto alla Torre del Nightlund, era situata in mezzo a uno dei luoghi più micidiali di Krynn. Se le Vesti Bianche effettivamente la rivendicavano, dovevano prima combattere per raggiungerne la soglia.
L’opinione di Solinari sulla Torre del Mare di Sangue era più o meno uguale a quella della cugina. La sua opinione sulla Torre del Nightlund era pure simile, a parte il fatto che lui era affascinato dalla possibilità di ripristinare quel territorio maledetto che ora languiva sotto ombre tenebrose. Se le sue Vesti Bianche avessero potuto rimuovere la maledizione che opprimeva il Nightlund, la popolazione avrebbe potuto di nuovo vivere e prosperare laggiù. Tutto Ansalon sarebbe stato in debito verso le Vesti Bianche.
«È una cosa da prendere in considerazione», disse di malavoglia Lunitari.
«Preferirei pensarci su. Ma sono interessato», disse Solinari.
Nuitari si guardò attorno, come temesse che altri orecchi immortali potessero essere in ascolto, e poi con un gesto fece avvicinare i cugini.
«Ho dovuto tenere segreta questa cosa», disse. «Perfino a voi, di cui mi fido più di tutti.»
Lunitari si accigliò, ma chiaramente era curiosa. «Perché?»
«Il Solio Febalas: la Sala del Sacrilegio.»
«È stata distrutta», disse categoricamente Lunitari.
«In effetti», disse Nuitari. «Ma gli oggetti sacri al suo interno no. Io adesso li tengo sotto chiave, sorvegliati da un drago marino di indole particolarmente cattiva.»
«Gli oggetti sacri rubati dal Re-Sacerdote», disse Solinari, meravigliato. «Li hai tu?»
«Forse adesso, poiché abbiamo raggiunto questo accordo fra di noi, dovrei dire che li abbiamo noi.»
«Qualcuno degli altri dèi lo sa?» domandò Lunitari.
«Chemosh è l’unico e finora ha tenuto la bocca chiusa, ma è solo questione di tempo perché lui diffonda la notizia.»
«Gli altri dèi darebbero qualunque cosa per avere indietro quegli oggetti!» disse esultante Lunitari. «D’ora in poi noi maghi, un tempo oltraggiati, saremo una potenza nel mondo.»
«Di qui in avanti nessun chierico oserà alzare la mano su di noi», concordò Solinari.
I tre si zittirono. Nuitari stava pensando che la cosa fosse andata inaspettatamente bene, quando Solinari disse tranquillamente: «Lo sai, cugino, che io non potrò mai più fidarmi di te in nessuna cosa».
«Niente fra di noi sarà mai più come prima», lamentò tristemente Lunitari.
Nuitari alternò lo sguardo fra l’uno e l’altra. Teneva socchiusi gli occhi dalle palpebre pesanti e comprimeva le labbra carnose.
«Prendetene atto, cugini, è sorta una nuova era. Osservate Mishakal. Non più la gentile dea della guarigione, si aggira a grandi passi per il cielo brandendo una spada di fiamma azzurra. I sacerdoti di Kiri-Jolith marciano in guerra. Perfino Majere ha smesso di guardarsi l’ombelico e si è impegnato nel mondo, anche se io non ho idea di che cosa stia combinando. La fiducia tra noi tutti è venuta meno nel momento in cui mia madre ha rubato il mondo. Hai ragione, cugina. Niente sarà mai più come prima. Eravate sciocchi a pensare di sì.»
Mentre si tirava il cappuccio sul viso a luna piena e si allontanava da loro, Nuitari si domandò che cosa avrebbero detto se lui avesse raccontato di avere catturato Mina...
«Basalt!» Caele apostrofò il nano mentre percorreva un corridoio. «È vero che il padrone ha lasciato la Torre?»
«È vero», rispose Basalt.
«Dov’è andato?»
«Come faccio a saperlo?» domandò stizzosamente Basalt. «Non è che mi chieda il permesso.»
Il nano continuò a camminare, e i suoi stivali chiodati risuonavano sul pavimento di pietra mentre lui scalciava l’orlo della veste per evitare di calpestarla. Caele si affrettò a rincorrerlo.
«Forse il padrone è andato a trattare con Chemosh», disse speranzoso il mezzelfo.
«O forse ci ha lasciati ad affrontare da soli il Signore della Morte», ribatté Basalt. Era di umore irritabile.
Caele sbiancò. «Credi davvero?»
A Basalt sarebbe piaciuto dire di sì, giusto per innervosire il mezzelfo. Gli serviva però l’aiuto di Caele, per cui con riluttanza scrollò il capo. «È qualcosa in cui c’entra Chemosh, ma non so che cosa.»
Caele non si sentiva rassicurato. Raggiunse Basalt. «Dove stai andando?»
«Venivo a prenderti. A Mina è concesso di passeggiare nei corridoi per un’ora... sotto la nostra sorveglianza, naturalmente.»
«Sotto la tua sorveglianza», disse Caele. Fece dietro front. «Io non ho alcuna intenzione di fare da balia a quella vacca intrigante.»
«Fai come vuoi», disse con compiacenza Basalt. «Quando ritorna il padrone, dove devo dirgli che ti può trovare? Nella tua stanza? A studiare gli incantesimi?»
Caele si fermò. Imprecando sottovoce, si girò. «Ripensandoci, vengo con te. Mi sentirei malissimo se ti cogliesse un destino terribile per mano di quella donna.»
«Che cosa pensi possa cogliermi?» domandò Basalt, irritandosi. «In lei non c’è neanche un briciolo di magia.»
«A quanto pare il padrone non condivide la tua sicurezza, poiché ha richiesto la presenza di tutti e due per sorvegliarla...»
«Piantala di parlare di lei, per favore», ringhiò Basalt.
«Tu hai paura di lei!» disse con soddisfazione Caele.
«Io no. È solo che... be’, se proprio vuoi saperlo, non mi piace starle vicino. C’è qualcosa di misterioso in quella femmina. Io non ho più trascorso una bella nottata di sonno dal momento in cui l’abbiamo scambiata per un pesce e l’abbiamo presa nella rete. Per la luna nera, magari Chemosh venisse a portarsela via, e non la rivedessimo più!»
«Qualcuno potrebbe ucciderla e gettare il suo corpo agli squali», suggerì Caele.
Fuori della porta della stanza di Mina, potevano udirla all’interno camminare su e giù.
«Potremmo sempre dire al padrone che lei ha cercato di scappare...»
Basalt sbuffò. «E come prevedi di ucciderla? Lanciarle un incantesimo? Può funzionare, ma solo se le dici anticipatamente quello che stai per fare di preciso e come influirà su di lei! Altrimenti puoi anche fare il balletto dei kender.»
Caele fece scivolare all’indietro la veste svelando un coltello allacciato all’avambraccio. «Non ci servirà dirle anticipatamente come influirà su di lei questo qui.»
Basalt scrutò il coltello. Il pensiero era allettante.
«Tu pensi che Chemosh sia furioso con noi adesso...»
«Bah! Nuitari sistemerà questo pasticcio.» Caele si chinò più vicino, parlò a voce più bassa. «Forse è questo che il padrone vuole da noi! Perché altrimenti ci avrebbe detto di farla uscire dalla prigione, se non per indurla a cercare di scappare? Ci ha dato perfino degli ordini su che cosa fare se dovesse succedere. "Se cerca di fuggire, uccidetela". Così ha detto.»
Basalt si lambiccava il cervello, cercando di immaginare perché Nuitari avesse accettato di liberare Mina da quella prigione sicura. Per quanto lui detestasse ammetterlo, Caele diceva una cosa sensata.
«Noi la uccidiamo soltanto se cerca di scappare», affermò Basalt.
«Cercherà», previde Caele. Gli occhi gli luccicarono di brama sanguinaria. La bava gli macchiò le labbra.
«Sei un maiale», disse Basalt e pose la mano sulla porta incominciando a cantilenare l’incantesimo che avrebbe aperto la serratura magica.
Dentro la stanza, Mina interruppe il suo camminare. «Le due Vesti Nere stanno arrivando, mio signore», riferì a Chemosh. «Li sento camminare nel corridoio. Siete certo che Nuitari se ne sia andato?»
«Altrimenti non potrei parlare con te, amore mio. Solo Nuitari sa mantenere attorno a te un incantesimo tanto potente. Ti spaventa, Mina?»
«Nuitari non mi spaventa, mio signore, ma mi fa accapponare la pelle, come toccare un serpente o sentirmi cadere un ragno giù per il collo.»
«Tutti e tre i cugini sono così. È la magia. Alcuni di noi hanno avvertito gli dèi: "Non permettete ai vostri figli di maneggiare una simile potenza! Teneteli sottomessi a voi!". Takhisis non ha voluto ascoltare, però, e nemmeno Paladine e Gilean. Solo più tardi, quando i figli si sono rivoltati contro di loro, hanno incominciato ad ascoltare la nostra saggezza. Ormai, naturalmente, era troppo tardi. Adesso io ho la possibilità di umiliare i cugini, portare loro via il potere, strappare loro le zanne.»
«Come intendete farlo, mio signore?» domandò Mina.
Fuori della stanza, Mina udì una delle Vesti Nere armeggiare con la serratura della porta.
«Presto il mondo vedrà che i maghi sono inermi, impotenti contro i miei Prediletti, e che farà il mondo? Si allontanerà da loro con disgusto! Già adesso i maghi frugano freneticamente nei libri di incantesimi e nei rotoli e negli oggetti sacri, cercando qualche modo per fermarmi. Non ci riusciranno. Niente di ciò che faranno avrà il minimo effetto sui Prediletti.»
«E Nuitari?» Mina ricondusse la conversazione verso il punto da cui era incominciata.
«Ti chiedo perdono per avere divagato dall’argomento, mia cara. Nuitari è andato a partecipare alla riunione del suo Conclave, dove presumo stia dicendo ai cugini che li ha traditi costruendosi una Torre per sé. Non tornerà tanto presto, e fra qualche istante qui attorno si scatenerà il caos. Stai pronta.»
«Sono pronta, mio signore», disse calma Mina.
Udiva cantilenare la voce sonora del nano.
«Hai capito che cosa devi fare?» domandò Chemosh.
«Sì, mio signore.» Mina riprese a camminare su e giù, come non vi fosse nulla fuori posto.
«La Sala del Sacrilegio è ubicata in fondo alla Torre. C’è un guardiano, e la Sala è probabilmente colma di trappole, ma io ti assisterò.»
«Mio signore...» esordì Mina, poi si zittì.
«Parla liberamente, amore mio.»
«Questa cosa è tanto importante per voi, mio signore. Perché non venite voi stesso? È un’altra prova? Dubitate ancora del mio amore e della mia fedeltà?»
«No, Mina, non dubito», rispose Chemosh. «Come dici tu, recuperare questi oggetti sacri è di vitale importanza per me. Non conosco niente di più importante. Ma io non posso entrare nella Torre. Non più. Nuitari ha bloccato il pertugio da cui sono riuscito a infilarmi dentro l’altra volta. Ha fatto di questa Torre il suo dominio. Non può entrarvi nessun altro dio.»
«Allora come vi impadronirete della Torre, mio signore?»
«Molti Prediletti sono già qui e altri ne arrivano ogni giorno. Ho messo al comando Krell, che sta costituendo una legione di guerrieri diversa da ogni altra mai vista finora su Krynn: guerrieri che possono uccidere ma non essere uccisi. Tu non devi preoccuparti di questo. Fai ciò che ti chiedo, quindi ritorna da me il più rapidamente possibile. Mi manchi, Mina.»
Il Signore della Morte si trovava nel Castello dei Prediletti sulle rive del Mare di Sangue, e Mina era in una Torre molto al di sotto della superficie delle onde, eppure lei percepiva il contatto delle mani del dio, sentiva le sue labbra sfiorarle la guancia.
«Anche voi mi mancate, mio signore», disse Mina. Udendo il desiderio nella voce lontana di lui, Mina sentì il cuore addolorarsi. La maniglia della porta sferragliò. Restavano loro pochi istanti da passare assieme.
«Ah, Mina, quando credevo che tu fossi perduta per me, non sopportavo il pensiero di andare avanti. Ho cominciato a pentirmi dell’immortalità. Ricorda, dal Solio Febalas ruba un solo oggetto sacro, uno solo. In questo modo io posso dimostrare agli altri dèi di avere effettivamente trovato il tesoro. Quindi crea sulla porta l’incantesimo che ti ho insegnato. Dopo di che Nuitari potrà sbraitare e farneticare finché vorrà, ma io potrò entrare nella sua torre.»
«Sì, mio signore.»
Se n’era andato.
Mina rivolse l’attenzione ai due maghi che a turno entrarono nella stanza a passi pesanti e furtivi rispettivamente.
Il nano, Basalt, era un ammasso nero e peloso. Mina non l’aveva mai visto in faccia. Basalt quando le stava attorno teneva il cappuccio tirato giù, e fra questo e la cespugliosa barba nera lei ancora non l’aveva visto bene. Vedeva invece il viso del mezzelfo, ed era ancora peggio. Caele non indossava mai il cappuccio sudicio che gli pendeva sulla schiena. In verità il cappuccio era tanto ricoperto di sporcizia da far dubitare a Mina che il mezzelfo potesse staccarlo dalla lurida veste nera.
Basalt teneva il cappuccio abbassato come al solito, ma Mina notò che Caele la fissava e questo la rese inquieta.
Prima d’ora il mezzelfo non l’aveva mai guardata direttamente. Il suo sguardo vagava furtivo per la stanza finché Caele pensava che lei non lo osservasse, e allora Mina si sentiva addosso gli occhi di lui. L’espressione negli occhi di Caele la terrorizzò. Il suo sguardo ardeva di una tale malevolenza che la mano di Mina si portò istintivamente all’anca alla ricerca di un’arma.
Caele guardava dritto verso di lei, con un sorriso da lupo che gli faceva ritrarre le labbra dai denti. Teneva le mani infilate dentro le maniche della veste, un’altra cosa strana per lui. Mina tornò a guardare il nano. Basalt pareva a disagio. Aveva il cappuccio tirato più in giù del solito e continuava a sbirciare da sotto, prima verso Mina, poi verso il mezzelfo, poi di nuovo verso di lei.
Vogliono uccidermi, si rese conto Mina.
Si scoprì più infastidita che spaventata. Questa cosa poteva interferire coi progetti del suo signore. Mina avrebbe dovuto colpire d’anticipo, prima che i due potessero usare su di lei la loro magia. Mina non aveva armi e nessuna prospettiva di procurarsene una, almeno in questa cella di prigione.
«Perché siete qui voi parassiti?» domandò freddamente.
«Vi è stata concessa un’ora di libertà per passeggiare nei corridoi, signora», disse burbero Basalt.
Fece un gesto verso la porta aperta e poi si trasse di lato, così come fece il mezzelfo, per permetterle di superarli.
Aspettavano che lei voltasse loro le spalle.
Avrebbe affrontato per primo il mezzelfo. Il nano pareva meno entusiasta e forse la vista del suo compagno che si contorceva a terra, soffocando nel proprio sangue, l’avrebbe indotto a ripensarci.
Mina era quasi accanto a Caele quando vide la mano di lui contrarsi sotto la manica.
Ha lì un coltello. Intende usare quello, non la sua magia. E certo, trae piacere dall’uccidere con le proprie mani...
Si tese, pronta a colpire, poi la Torre si scosse dal fondo alla sommità, facendole perdere l’equilibrio, cosicché Mina si tuffò su Caele ed entrambi finirono in terra ammucchiati.
Il nano, più compatto, era meno facile da far cadere. Il tremito del pavimento e delle pareti e del soffitto lo fece barcollare, ma lui mantenne l’equilibrio.
«Che mai...» ansimò Basalt.
«Nuitari!» gridò una voce, mentre un’altra scossa investì la Torre. «Vieni fuori di lì, mi senti? Vieni fuori ad affrontarmi!»
«Chemosh!» gridò Caele, dibattendosi al di sotto di Mina, che gli era caduta addosso.
«No, è una voce di donna!» disse Basalt, col volto pallido e gli occhi spalancati. «Zeboim! Ha scoperto la Torre.» Gemette. «Proprio adesso il padrone doveva essere via!»
«Devi parlarle!» ansimò Caele, soggiungendo con un ringhio e una spinta: «Tirati via da me, vacca maldestra!».
Anche se Mina era snella, pesava più del mezzelfo pelle e ossa e gli ostacolava i tentativi di rimettersi in piedi. Aveva le gambe aggrovigliate alle sue; i piedi di lei lo facevano incespicare. Mina lo colpì con un gomito e gli ficcò un ginocchio nel ventre.
Lui cercava di strangolarla quando un’altra scossa investì la Torre e questa volta andò giù perfino il nano. Udirono un rumore di vetri infranti. Le assi di legno gemettero per la sollecitazione.
Caele si rese conto piuttosto tardivamente che questo sarebbe stato il momento ideale per uccidere Mina, e infilò la mano nella manica per prendere il coltello.
Non c’era.
Pensò inizialmente che gli fosse caduto, poi alzando lo sguardo Caele lo trovò.
Mina era in piedi sopra di lui, col coltello in mano.
Chinandosi, gli premette la punta della lama contro la gola.
«Se le tue labbra appena si contraggono, ti apro da un orecchio all’altro», disse. «Lo stesso vale per te, nano. Se pronunci un’unica parola di magia, il tuo compagno muore.»
Vedendo dall’espressione irresoluta di Basalt che forse il nano sarebbe stato disposto a rischiare una simile tragica perdita, Mina gridò: «Mio signore Chemosh, vi prego, tenete a bada questi due mentre io mi occupo della vostra questione».
Nella stanza comparvero due sarcofagi di pietra. Su un sarcofago era intagliata una raffigurazione di Basalt, con gli occhi chiusi e le mani ripiegate sul petto. L’altro sarcofago recava un’analoga rappresentazione di Caele.
«Entra», disse Mina, parlando a Basalt.
Il nano guardò il sarcofago e scrollò la testa incappucciata.
Caele in quel momento si contrasse, e Mina premette un po’ più in profondità la punta del coltello. Sul collo del mezzelfo scivolò giù un rigagnolo rosso, dopo di che lui rimase immobile.
«Ho detto: entra», disse Mina.
Vedendo che il nano non muoveva muscolo, alzò la voce: «Mio signore...».
Basalt si affrettò ad arrampicarsi dentro il sarcofago. Una lastra di pietra discese sulla bara, chiudendo dentro il nano.
«Tocca a te», disse Mina a Caele. Spostò la lama dalla gola alle costole e lo accompagnò all’altro sarcofago. Poiché lui esitava, Mina gli fendette la carne a sufficienza da persuaderlo a obbedire.
Caele si affrettò ad arrampicarsi all’interno, e discese su di lui una lastra di pietra.
«Sono morti, mio signore?» domandò Mina.
«No», rispose Chemosh, la cui voce risuonò al di sopra del rombo furioso della dea del mare. «Non ancora. Hanno aria sufficiente per respirare per breve tempo, se non si fanno prendere dal panico e non consumano tutta l’aria gridando.»
Gli ululati attutiti che provenivano dalla bara del mezzelfo cessarono di colpo.
«Adesso vai dove devi andare», le disse Chemosh.
«E Zeboim?»
«Non ti infastidirà. Cosa piuttosto strana, è qui per salvarti.»
Un altro tremito scosse la Torre, facendo barcollare Mina.
«E Nuitari?»
«Questioni familiari terranno occupato per un periodo considerevole il dio dalla faccia di luna. Sta cercando di sistemare le cose con i cugini. Al suo ritorno scoprirà di dovere molte spiegazioni a sua sorella. Per adesso la Torre del Mare di Sangue è tutta tua, Mina. Sei sola al suo interno.»
«A parte il guardiano. Mi serve un’arma, mio signore.»
«No, non ti serve, Mina», ribatté Chemosh. «Solo una delle dragonlance ti sarebbe d’aiuto contro questo guardiano, e purtroppo non ne ho nessuna a disposizione. Hai il tuo ingegno, Mina, e hai la mia benedizione. Usali entrambi.»
«Sì, mio signore», disse Mina, e rimase sola.
Mina trovò la lunga scala a chiocciola che percorreva l’interno della Torre e incominciò a scenderla. La scala era fatta di madreperla e ruotava a spirale, rammentando a Mina l’interno di una conchiglia di nautilo. Mina vedeva qua e là crepe sulle pareti, presumibilmente dovute alle scosse che la Torre subiva per mano della dea infuriata, e temeva che il prossimo tremito spaccasse le pareti. Fortunatamente le scosse che facevano tremare la Torre cessarono. Mina non riusciva a vedere fuori, ma immaginò che Nuitari fosse ritornato e stesse ora cercando di placare la furiosa sorella.
All’interno della Torre vi era silenzio. L’acqua marina che circondava la struttura sembrava aspirare via i suoni, per cui ogni rumore provocato all’interno risultava attenuato.
Il silenzio aveva un effetto calmante. Adesso che non era più prigioniera, Mina qui si sentiva a casa propria. Trovava confortante sapere che il mare la cullava. Forse questo suscitava qualche ricordo da tempo sepolto del naufragio che le aveva portato via i genitori e l’aveva lasciata orfana, un ricordo che era sempre presente, subito sotto la superficie. Un ricordo che lei non riusciva mai a rievocare del tutto.
«La nostra mente cancella simili eventi traumatici per proteggerci da questi», le aveva detto una volta Goldmoon. «Forse un giorno ricorderai ciò che ti è successo o forse non lo ricorderai mai. Non crucciarti per questo, bambina. È del tutto naturale.»
Mina si era crucciata. Si sentiva in colpa e provava vergogna per non avere alcun ricordo di quei genitori che l’avevano amata teneramente, forse perfino avevano sacrificato la vita per lei, e si sforzava di riportare alla mente i loro volti o il suono della voce di sua madre. Divenne ossessionata dallo sforzo di ricordare, un’ossessione che era terminata soltanto quando l’Unico Dio, Takhisis, l’aveva rimproverata di perdere tempo.
«Non importa chi ti ha dato alla luce!» le aveva detto Takhisis, fredda e furiosa. «Sono io tua madre. Sono io tuo padre. Vieni da me per avere protezione e soccorso e nutrimento.»
Mina aveva obbedito al comando così come aveva obbedito a tutti gli altri impartitile dall’Unico Dio. Non si era mai permessa di pensare più ai suoi genitori, finché non era stata imprigionata in questa Torre sotto il mare. Nella Torre aveva tanto tempo a disposizione, tempo per pensare, tempo per ricordare la propria infanzia. Le erano ritornate la frustrazione e la vergogna e l’esigenza di sapere. Mina aveva cura di tenere per sé la propria ossessione. Non voleva far incollerire Chemosh così come aveva fatto incollerire Takhisis.
La scala a chiocciola era illuminata da globuli magici di luce collocati a intervalli regolari e ravvivati quotidianamente da Basali. Le porte che si aprivano di fianco alle scale conducevano ai vari piani della Torre. Mina le guardò con curiosità. Le sarebbe piaciuto esplorare, vedere come fossero edificate le stanze e che aspetto avessero, poiché la Torre la affascinava.
Non ne aveva il tempo, però. «Lo rimanderò a un altro giorno», si disse, sorridendo a quel pensiero, poiché sapeva perfettamente che non aveva probabilità di rivedere mai più l’interno di questa Torre.
La scala finalmente la condusse alla base della Torre. Mina si imbatté in una porta di acciaio con listelli di bronzo e iscrizioni in rune. Erano state intagliate rune anche sull’arco di pietra attorno alla porta. Mina riconobbe in quelle rune il linguaggio della magia, lo stesso che aveva letto nel libro datole da Nuitari. Sapeva che cosa dicessero le rune; però non sapeva che cosa significassero.
Lasciando perdere le rune, Mina esaminò la porta, cercando qualche modo per entrare. La porta non aveva maniglia né serratura. Le rune probabilmente fornivano informazioni su come aprire la porta. Mina cercò di recitarle ad alta voce, invano. La porta non si smosse.
Frustrata, Mina diede un calcio alla porta.
La porta ruotò agevolmente e silenziosamente attorno a un perno centrale e si aprì.
«È troppo facile. È una trappola», mormorò Mina.
Non entrò. Avvicinandosi alla soglia ad arco, la esaminò attentamente.
«Che idiota sono!» si rimproverò. «Se questa è una trappola, è magica, e io non la scoprirò comunque. Tanto vale provarci.»
Mina varcò la soglia e rimase piacevolmente sorpresa nel trovarsi a emergere incolume dall’altra parte. Rimase meno piacevolmente sorpresa nell’udire la porta ruotare e chiudersi di scatto alle sue spalle. Da questa parte della porta non vi erano rune. A quanto pareva, una volta dentro, bisognava conoscere il segreto di come tornare fuori.
Alzando le spalle, Mina si girò. Avrebbe affrontato questo problema quando fosse giunto il momento. Adesso aveva davanti a sé il suo compito. Un compito strabiliante. Si trovava davanti quella che pareva un’enorme vasca sferica per pesci.
Mina e gli altri bambini dell’orfanotrofio tenevano pesci in vaschette sferiche di vetro piene d’acqua. Ai bambini veniva insegnato a dare da mangiare ai pesci e a prendersi cura di loro. I bambini osservavano le loro abitudini e si meravigliavano di come quelle creature respirassero acqua con altrettanta facilità quanto le persone respiravano aria. Questo globo era simile a quelle vaschette per i pesci, con la differenza che era molto, ma molto più grande: aveva una circonferenza pari alla Torre stessa. Le pareti erano coperte di rune incise nel vetro. Raggi di sole illuminavano il globo e le creature che nuotavano all’interno.
«È bellissimo», disse sottovoce Mina, sgomenta. «Bellissimo e micidiale.»
Le aggraziate meduse, che andavano alla deriva alla mercé delle correnti turbinanti, uccidevano le loro prede pungendole con un veleno che paralizzava la vittima e le impediva di scappare. Queste meduse erano enormi, diverse volte più grandi di Mina, con tentacoli abbastanza lunghi da invischiare un uomo adulto.
Un calamaro gigante, tanto grande da trascinare una nave sotto le onde, era steso scompostamente sul fondo, con i tentacoli che fremevano nel sonno. Vari esemplari di pastinaca scivolavano lungo i lati di cristallo del globo. Mostruosi squali toro nuotavano qua e là, aprendo e chiudendo le fauci colme di denti affilati come rasoi. Il fondo era coperto di coralli urticanti, belli da vedere, ustionanti al contatto.
Al centro del globo, circondato da queste guardie micidiali, vi era il Solio Febalas.
Mina rimase a fissare, sbalordita. La Sala non era affatto ciò che lei si aspettava.
La struttura assomigliava al castello di sabbia di un bambino. Era di disegno semplice, con quattro mura, una torre su ciascun angolo e merlature sul parapetto. Non vi erano finestre. Mina vedeva, da questa angolazione, quella che pareva una porta, ma non riusciva a distinguerne i dettagli. La cosa davvero stupefacente era che la Sala del Sacrilegio, in cui si presumeva fosse contenuto un numero enorme di oggetti sacri, era alta appena un metro e venti centimetri circa e larga altrettanto.
«Deve essere un’illusione, uno scherzo dell’acqua», si disse Mina.
Passò la mano sulla superficie della parete di cristallo, con le rune incise, che le bloccava il passaggio.
«La domanda è: come faccio a raggiungerla? Mi trovo al di fuori di una parete di cristallo impenetrabile che racchiude acqua in cui nuotano centinaia di creature micidiali. Non ho idea di come entrare nel globo, e se ci riesco non posso respirare acqua, e anche se potessi dovrei combattere contro gli squali e queste creature marine e...»
Trattenne il fiato. Una grande barriera corallina che formava una collinetta all’interno del globo di cristallo ebbe un sobbalzo, facendo spostare migliaia di pesci, che si allontanarono in un panico di squame balenanti. Da sotto la barriera corallina emerse una testa, che ora si rivelò essere un guscio enorme, come quello di una testuggine.
Occhi gialli luccicanti la fissarono. Mina aveva trovato il guardiano: un drago marino.
Più esattamente, il drago marino aveva trovato Mina.
Il guardiano della Sala del Sacrilegio era una femmina di drago marino chiamata Midori. Solitaria, irascibile e irritabile, Midori era il più vecchio drago di Krynn, il che la rendeva la più vecchia creatura vivente del mondo.
Contava i suoi anni non in decenni bensì in secoli. Non sapeva esattamente quanto fosse vecchia. Aveva perso il conto attorno alla soglia dei dieci secoli. Il passare del tempo aveva per lei scarso significato. Midori contrassegnava la propria vita in base agli eventi importanti e per di più soltanto quegli eventi che l’avevano influenzata direttamente.
Uno di questi era il Cataclisma, poiché era stato decisamente una seccatura. La montagna infuocata che aveva colpito il mondo, causando migliaia di morti e distruggendo una città, aveva anche fatto crollare una parete della sua grotta marina, destandola rudemente da un pisolino di cinquant’anni. Le rocce erano ruzzolate giù, mezzo seppellendo lei e seppellendo interamente il tesoro da lei accumulato. Midori era riuscita a estrarre dalle macerie gran parte del tesoro, ma alcuni oggetti preziosi erano andati perduti in maniera irrecuperabile. Furiosa, Midori aveva abbandonato la sua tana in rovina e aveva nuotato nel mare aperto per scoprire che cosa fosse tutto quel chiasso.
Solitaria incallita, drago che non faceva segreto di disdegnare e disprezzare ogni altro essere del pianeta, Midori fu costretta ad andare a cercare altri del suo genere e addirittura intrattenere conversazioni con loro. La cosa non migliorò il suo umore.
Udì il racconto del Cataclisma da un giovane ed emozionato drago marino, il quale le narrò la storia dei Re-Sacerdoti umani e delle loro trasgressioni e della susseguente punizione da parte degli dèi. Midori ascoltò con ira crescente. Gli esseri umani erano come i pesci. Un momento qui, un momento là, e sempre molto più numerosi nel luogo da cui provenivano gli altri. Midori non vedeva motivo per cui gli dèi dovessero distruggere una tana così perfetta per una questione tanto insignificante. Fremente, Midori trasportò in un’altra tana ciò che restava del suo tesoro e tornò a dormire.
Dormì per tutta la Guerra delle Lance. l’Estate di Fiamma, la Guerra del Chaos, il furto del mondo e l’arrivo dei draghi dominatori, i quali non sospettarono mai della sua esistenza. Midori avrebbe continuato a dormire profondamente, se non fosse stato per un urlo orripilante che la ridestò di colpo e le fece aprire gli occhi per la prima volta da diversi secoli.
L’urlo era il grido di morte di Takhisis.
Midori non aveva mai avuto una grande opinione della Regina delle Tenebre. Alcuni draghi marini avevano preso parte alle guerre di Takhisis. Midori non era stata fra questi. La sua vita era preziosa per lei, e Midori non vedeva alcuna necessità di rischiarla per la causa di qualcun altro. Che Takhisis dominasse il mondo o no, per Midori faceva lo stesso. Ma ora, come il bambino che è scappato di casa da tempo ma è contento di sapere che la mamma è ancora lì in caso di bisogno, Midori si sentiva in lutto e perfino un po’ timorosa.
Se un destino tanto terribile poteva colpire un dio, nessuno (nemmeno un drago) era al sicuro.
Per la seconda volta nella sua vita, Midori uscì dalla sua tana e andò alla scoperta della verità. Nuotò lentamente e pesantemente nell’acqua, gravata non tanto dagli anni quanto dal peso del guscio enorme che aveva sul dorso. Mentre i draghi di terra hanno sul dorso protuberanze spinose e ali che consentono loro di volare, i draghi marini hanno un guscio enorme, come quello di una testuggine, e pinne al posto delle zampe munite di artigli. Il guscio aveva funzioni di difesa. Midori poteva ritrarvi dentro la testa e le zampe per sicurezza, ed era così che dormiva. Nel corso dei secoli, mentre lei dormiva, il guscio si era ricoperto di coralli e conchiglie, per cui nuotare con tale guscio era equivalente a raccogliere e spostare una barriera corallina.
Pensando che quest’ultima calamità avesse qualcosa a che vedere con Istar e quell’altro Cataclisma, Midori ritornò nel Mare di Sangue e lì si imbatté in Nuitari, impegnato a riedificare le rovine di una vecchia torre in sfacelo. Il dio rimase sbigottito e non fu particolarmente contento di vedere un drago marino, poiché non aveva idea che ce ne fosse uno nelle vicinanze e temeva che provocasse seccature.
Nuitari fu però rispettoso nei confronti di Midori e le raccontò tutta la storia: tutto riguardo agli Irda, al Chaos, al furto del mondo, ai draghi forestieri, ai totem coi teschi, a un kender che viaggiava nel tempo, a una ragazza di nome Mina, alla Guerra delle Anime, alla morte di un dio e all’esilio volontario di un altro.
A mano a mano che ascoltava, Midori sentì crescere i propri timori. Un mondo in cui perfino gli dèi potevano morire era evidentemente un luogo molto più pericoloso di quanto lei si fosse resa conto. Stava pensando a questo e si domandava in che modo potesse mai farsi una bella epoca di sonno quando inaspettatamente Nuitari le fece una proposta. A lui serviva un guardiano per certe reliquie che aveva raccolto sul fondo del mare. Quell’incarico era suo, se Midori lo voleva.
A Midori non piaceva Nuitari. Lo considerava un bambino piagnucoloso e ingrato, non degno della madre che lo aveva messo al mondo. Non gradiva particolarmente lavorare per lui, ma non le piaceva nemmeno il pensiero di ritornare nella sua tana solitaria. Doveva tenere d’occhio alcune cose. Inoltre, se si fosse annoiata o se lui l’avesse infastidita troppo, poteva sempre andarsene. Midori accettò di trasferirsi nella Torre appena restaurata di Nuitari, per custodire lì il deposito di inestimabili oggetti religiosi.
Nuitari le assicurò che, essendo la Torre ubicata molto in profondità nel Mare di Sangue, vi erano scarse probabilità che dei mortali la infastidissero. L’unico che venisse era Caele, un mezzelfo bastardo che era costretto a farle visita di quando in quando per pregarla di donargli un paio di gocce del suo sangue.
Midori avrebbe rifiutato, ma Caele si umiliava tanto bene e la adulava così profusamente, ed era evidentemente tanto spaventato da lei, che Midori scoprì di gradire effettivamente le sue visite. Emergeva dalla sua tana e giocava con lui per un po’, quel tanto che bastava perché lui si svilisse completamente, e allora Midori ringhiando acconsentiva alla sua richiesta, facendo scattare le mascelle verso di lui mentre il mezzelfo raccoglieva il sangue, giusto per il piacere di vederlo balzare qua e là in preda al panico.
Nessun altro veniva a disturbare il riposo e le lunghe meditazioni del drago. Nuitari aveva costruito una tana progettata appositamente per Midori: un grande globo dalle pareti di cristallo inondato di acqua marina e ubicato alla base della Torre. Dentro quel globo enorme il drago poteva nuotare a piacimento, andare e venire come desiderava attraversando a nuoto un portale magico situato nella parete di cristallo.
Al centro del globo vi era la Sala del Sacrilegio; non proprio una sala, ma piuttosto un piccolo castello, dove erano conservati gli oggetti sacri. Qualunque mortale avesse cercato di accedere agli oggetti sacri avrebbe dovuto non solo saper nuotare ma anche trovare un modo per evitare il drago marino e gli altri abitanti delle profondità. Il drago non sopportava il chiasso, per cui lasciava entrare nel suo globo soltanto quelle creature che erano silenziose e se ne stavano per conto loro, come la medusa e la pastinaca. Gli squali erano stupidi e maleducati, ma costituivano uno spuntino gustoso e la divertivano combattendo contro i calamari giganti. I ricci di mare, col loro chiacchiericcio costante, erano banditi.
Dopo tutto, un modo piacevole di trascorrere gli anni del tramonto.
Midori sonnecchiava, con la testa mezzo dentro e mezzo fuori del guscio, cullata in uno stato di tranquillità dai movimenti ondeggianti delle meduse, quando udì aprirsi la porta che conduceva alla sala subacquea. Entrò una persona.
Pensando che fosse il mezzelfo alla ricerca di altro sangue, Midori decise che adesso non voleva essere infastidita da lui. Stava per dirgli di andare a prelevare il suo stesso sangue altrimenti gliel’avrebbe prelevato lei, quando si rese conto all’improvviso che non era il mezzelfo. Era un intruso.
Midori si ritrasse dentro il guscio e rimase assolutamente immobile. Era, secondo tutte le apparenze, una vasta formazione corallina. I pesci nuotavano indisturbati attorno a lei. Le piante marine che le crescevano sul dorso ondeggiavano avanti e indietro con le correnti che turbinavano all’interno del globo. Soltanto un acuto osservatore, guardando molto da vicino, avrebbe visto gli occhi gialli del drago luccicare dentro le profondità tenebrose del guscio.
Ciò che Midori vide la stupì più di ogni altra cosa che l’avesse stupita da diversi millenni a questa parte.
Uscì per indagare più a fondo.
Mina osservò il drago con un terrore che sembrò paralizzarla. Le fauci del drago si spalancarono. I denti aguzzi luccicarono sotto la misteriosa luce solare verde, mentre il drago inspirava facendo scomparire centinaia di pesci inermi dentro la gola della bestia.
Le mascelle del drago si richiusero di scatto. Due enormi zampe a forma di pinna spinsero in su dal fondo coperto di alghe il guscio ponderoso. La coda del drago sferzò l’acqua, sollevando nubi di limo. Le zampe a pinna sospinsero la bestia attraverso l’acqua. Con la testa e il collo spinti in fuori, il drago puntò dritto verso Mina.
Mina temeva che il drago intendesse schiantarsi attraverso la parete di cristallo. Tornò di corsa alla porta e la spinse freneticamente.
La porta non voleva aprirsi. Mina si guardò dietro le spalle. Il drago era quasi sopra di lei. Gli occhi erano enormi: fessure nere circondate da una fiamma verde-oro. Sembrava che gli occhi da soli potessero inghiottire Mina. Le mascelle del drago si aprirono.
Mina premette la schiena contro la porta, con una preghiera a Chemosh sulle labbra.
Il drago raggiunse la parete di cristallo, compì un’improvvisa virata, seguendo la curvatura del globo, e rimase lì fermo a galleggiare. Il drago parlò, emettendo dalla bocca parole e pesci.
«E tu da dove vieni?»
Mina si aspettava una morte violenta, non una domanda insensata. Non riuscì a trovare fiato sufficiente per rispondere.
«Ebbene?» domandò con impazienza il drago.
«Io vengo da... dalla Torre...» Mina indicò con un gesto lieve la porta alle proprie spalle.
«Non intendo questo», sbottò il drago, con furia. «Intendo: da dove vieni? Dove sei stata?»
Mina aveva sentito dire che certi draghi amavano praticare giochi con le loro vittime, ponendo loro indovinelli e giocando con loro prima di ucciderle. Questo drago però non sembrava intento a giocare. Questo drago sembrava ben serio.
Evidentemente io non sono una maga, eppure sono qui in questa Torre. Il guardiano deve pensare che io sia qui su invito di Nuitari. È per questo che non mi ha uccisa. La cosa può giocare a mio vantaggio.
«Io sono un’amica del dio», rispose Mina. Questo almeno era vero. Lei semplicemente non aveva specificato quale dio avesse fatto amicizia con lei. «Quando quei tremori hanno scosso la Torre, lui mi ha mandata a vedere se gli oggetti sacri sono al sicuro.»
Gli occhi a fessura del drago si strinsero. Midori era contrariata. «Ti rifiuti di rispondere alle mie domande?»
Mina era perplessa. «È che... non pensavo che ti interessasse. Non ho niente in contrario a rispondere. Quanto a chi sono io, mi chiamo Mina. Quanto a da dove vengo, non lo so. Sono un’orfana senza ricordi della mia infanzia. Quanto a dove sia stata, sono stata quasi in ogni parte di Ansalon. Raccontarti la mia storia richiederebbe troppo tempo. Io dovrei controllare quegli oggetti sacri...»
«Mi stai facendo perdere tempo. Vieni dentro e controlla gli oggetti sacri, allora. Nessuno ti ferma», ringhiò irascibile il drago.
Mina si rese conto che il drago doveva pensare che Nuitari le avesse svelalo il segreto di come entrare nel globo.
Che sciocca sono stata a parlarne, pensò Mina con irritazione. Adesso che cosa le dico? Che ho dimenticato quanto mi ha detto il dio? Neanche un nano di fosso ci crederebbe!
Il drago la guardò con occhio torvo. «Ebbene, che aspetti? Quanto a quel discorso sconnesso sul fatto che sei orfana...»
Il drago si interruppe. Spalancò gli occhi con furia. Spinse in avanti la testa e picchiò contro il cristallo.
«Per i miei denti e le mie tonsille», esclamò il drago. «Per i miei polmoni e il mio fegato. Per il mio cuore e il mio stomaco, dente e unghia! Tu non lo sai!»
Mina non capiva che cosa volesse dire tutto questo. «Che cosa non so?» domandò al drago.
Ma la creatura mormorava fra sé e non le prestava più attenzione.
Mina colse alcune parole dell’invettiva del drago: «...bastardo... bugiardo... questa la vedremo!».
Mina non riusciva a trarne alcun senso.
«Che cos’è che non so?» domandò di nuovo Mina. Dentro di lei si contorceva qualcosa. Mina aveva la sensazione che questa fosse una cosa disperatamente importante.
«Tu non sai», il drago fece una pausa, «come entrare. Vero?»
Non era questo che intendeva il drago. Il drago adesso la stava prendendo in giro, la stava provocando. Gli occhi a fessura luccicarono. Il labbro verde si increspò. «Non c’è nessun trucco, davvero. Attraversa la parete di cristallo e basta. Quanto a respirare sott’acqua, non avrai difficoltà. Fa tutto parte della magia, vero?»
La bestia sta cercando di attirarmi dentro, ragionò Mina. Io potrei restare qui e tenermi al sicuro dal drago, ma questo vorrebbe dire deludere il mio signore.
«Chemosh, restate con me!» pregò Mina e si avvicinò alla parete di cristallo.
Pose entrambe le mani sul vetro. Con le dita percorse i margini aguzzi delle rune incise sulla superficie. Mina si concentrò sulla sua destinazione, il castello di sabbia al centro del globo, e tenendo lo sguardo fisso su quello e lontano dal drago inspirò profondamente, chiuse gli occhi e avanzò.
Il cristallo si fuse come ghiaccio al suo tocco e Mina si trovò all’interno del globo.
Mina provò una sensazione strana. Non si dibatteva, non annegava, non ansimava in cerca di aria. Era come se il suo corpo avesse perduto solidità. Non respirava l’acqua, piuttosto era tutt’uno con l’acqua. Era fatta di acqua, non più di carne. La sensazione era meravigliosa, liberatoria e allo stesso tempo spaventosa. Non poteva perdere tempo cercando di capire che cosa fosse successo. Tendendosi, Mina si girò per affrontare il drago, sicura che adesso la creatura dovesse attaccare.
Le labbra del drago si ritrassero dai denti ingialliti formando un sorriso. Con stupore di Mina, il drago si spostò qua e là pesantemente nell’acqua e nuotò verso il fondo del globo, dove si adagiò.
«Mi scuserai», disse il drago. «Sono vecchia e tutta questa agitazione mi ha sfinita. Ma non voglio distoglierti dal tuo compito.»
Gli squali giravano attorno a Mina. Le meduse le si libravano fastidiosamente vicino. Il calamaro aprì gli occhi. Le creature marine la osservarono. Nessuna le si avvicinò.
Mina prese a nuotare nell’acqua, dirigendosi verso il castello di sabbia e tenendo d’occhio i suoi nemici.
Muovendosi pigramente in cerchio, gli squali la accompagnarono. Il calamaro si mosse nell’acqua, ma si mantenne a distanza.
Perplessa oltre misura, Mina continuò a nuotare. Le creature marine la seguirono, la osservarono. Il drago la osservò, con gli occhi verde-oro a luccicarle per quello che poteva essere divertimento.
Naturalmente ci sarebbero state delle trappole.
Arrivando alla struttura, Mina nuotò attorno verso la facciata e rimase lì a galleggiare, ondeggiando lievemente con le correnti, e a fissarla con perplessità. L’acqua non le aveva giocato scherzi alla vista. Il Solio Febalas era un castello giocattolo per bambini, fatto di sabbia, che pareva in procinto di sgretolarsi al minimo tocco.
Mina si sarebbe dovuta mettere carponi per strisciare attraverso la porta, e malgrado la sua corporatura snella sarebbe entrata a malapena.
Non Ci sono oggetti sacri! Questa è una burla perpetrata da Nuitari, ma perché? Perché darsi tutta questa pena? Certamente, rifletté Mina, le vie degli dèi vanno al di là della comprensione umana. Il mio signore sarà estremamente deluso.
Mina guardò indietro verso il drago, che sembrava godere per l’imbarazzo di lei. Mina si domandò se continuare a indagare oppure rinunciare e tornare indietro.
Per lo meno dovrei guardare dentro, si risolse. Il mio signore già così sarà abbastanza furioso. Dovrei essere in grado di fornirgli tutti i dettagli.
Mina si avvicinò con cautela al castello di sabbia, badando a eventuali trappole e mezzo timorosa di tirare giù l’intera struttura se l’avesse urtata. La sommità delle pareti le arrivava alle spalle.
Mina tese la mano per toccare con circospezione la parete. La struttura era fatta di sabbia fusa assieme e dura come il marmo. Quando lei toccò il muro non accadde niente. Mina guardò di nuovo indietro verso il drago e poi fuori del globo di cristallo, temendo che Nuitari arrivasse da un momento all’altro.
Non c’era nessuno e il drago non si era mosso.
Mina nuotò attorno verso la facciata del castello di sabbia e trovò l’ingresso: una porta, alta meno di un metro, fatta di migliaia di perle che tremolavano di un luccichio rosa-violaceo. Al centro era incastonata un’unica runa ricavata da un grosso smeraldo. Mina con la punta delle dita sfiorò lo smeraldo.
La runa emise un bagliore verde accecante. La porta di perla si aprì con forza esplosiva. Troppo tardi Mina capì la trappola. L’edificio era a tenuta d’aria, chiuso ermeticamente contro l’acqua. Quando la porta si aprì, la chiusura si ruppe. L’acqua precipitò all’interno, trasportando con sé Mina. L’afflusso rapido di acqua cessò. La porta si richiuse ermeticamente, rendendo il castello di nuovo a tenuta d’aria.
E prendendo Mina, ancora una volta, prigioniera.
Non meravigliava che il drago apparisse divertito.
La forza dell’acqua aveva fatto perdere l’equilibrio a Mina e l’aveva fatta ruzzolare qua e là. Era stesa a pancia in giù nell’acqua che le arrivava al mento. Il livello dell’acqua però scendeva rapidamente. Doveva esserci uno scolo nel pavimento. Mina udiva l’acqua gorgogliare nel deflusso turbinante.
Mina non vedeva niente in quel buio pesto. Si sollevò lentamente da terra, timorosa di sbattere con la testa contro il soffitto basso. Non percepì niente. Sollevò la mano, e ancora non percepì niente al tatto. Cercò di drizzarsi in tutta la sua altezza.
Non sbatté con la testa. Rimase perfettamente immobile, timorosa di muoversi senza vedere niente. A poco a poco gli occhi le si abituarono al buio. La stanza non era oscura come lei aveva inizialmente pensato. Non c’erano luci, ma certi oggetti attorno alla stanza emanavano un lieve bagliore, per cui Mina poté distinguere l’ambiente che la circondava.
Si guardò attorno. Guardò su e guardò giù. Rimase col fiato in gola. Le lacrime le fecero bruciare gli occhi, rendendo indistinte le luci.
Mina si trovava in una sala immensa. Cento passi non l’avrebbero condotta neanche a metà della sala. Il soffitto su cui temeva di sbattere la testa era tanto in alto sopra di lei che Mina riusciva a malapena a vederlo.
E tutto attorno a lei vi erano gli dèi.
Ciascun dio aveva una nicchia intagliata nella parete, e in ciascuna nicchia vi era un altare. Vari oggetti, sacri a ciascun dio, erano collocati sull’altare o sul pavimento davanti all’altare.
Alcuni degli oggetti sacri brillavano di luce radiosa. Alcuni tremolavano, altri luccicavano. Alcuni oggetti sacri erano bui, alcuni parevano assorbire la luce degli altri.
Mina cadde tremante in ginocchio.
La potenza sacra degli dèi parve annientarla.
«Dèi, perdonatemi!» sussurrò. «Che ho fatto? Che ho fatto?»
Nuitari ritornò alla Torre e la trovò sotto assedio. Sua sorella Zeboim, dea delle profondità, a quanto pareva era intenta a scuoterla per farla a pezzi.
Anche se erano fratello e sorella, figli di Takhisis e del suo consorte, il dio della vendetta Sargonnas, Nuitari e Zeboim erano diversi quanto le onde spumose e la luce della luna nera. Zeboim aveva ereditato dalla madre la natura volubile e l’ambizione feroce, ma della madre le mancava la disciplina. Nuitari invece era nato con l’astuzia fredda e calcolatrice della madre, temperata dalla passione per la magia. Zeboim era vicina a suo padre, Sargonnas, e spesso operava con lui per favorire la causa dei suoi amati minotauri, che erano tra i principali adoratori della dea del mare. Nuitari disprezzava il padre e non ne faceva un segreto. Non aveva una grande opinione nemmeno dei minotauri, uno dei motivi per cui vi erano pochi minotauri maghi in circolazione.
Nuitari sapeva che sua sorella sarebbe rimasta sconvolta per il fatto che lui avesse riedificato l’antica Torre dell’Alta Magia nel suo mare senza prima chiederle il permesso. Conoscendola, sapeva che era capace di rifiutarglielo per puro capriccio. Temendo inoltre che questo le mettesse in testa strane idee, Nuitari aveva ritenuto più saggio costruire prima la Torre e poi chiedere perdono alla sorella.
Adesso stava cercando di fare proprio questo, ma Zeboim si rifiutava di ascoltare.
«Te lo giuro, fratello», si adirò Zeboim, «nemmeno una delle tue Vesti Nere oserà mettere piede sull’acqua, altrimenti affronterà la mia ira! Se un mago cercasse di fare un bagno caldo, io lo spingerò sotto! Qualunque nave trasportasse un mago si rovescerà. Le zattere che traghettassero maghi attraverso i fiumi affonderanno. Se un mago metterà il dito del piede in un torrente, io lo rigonfierò facendone un fiume impetuoso. Un mago che appena bevesse un bicchiere d’acqua soffocherà...».
Continuò così, sbraitando e infuriandosi e pestando i piedi. A ogni pestata, il fondo del mare tremava. La sua furia faceva ondeggiare la Torre sulle fondamenta. Nuitari poteva solo immaginare la devastazione che le scosse provocavano all’interno. Aveva perso il contatto con i due maghi, e questo lo preoccupava.
«Mi dispiace, cara sorella, se ti ho sconvolta», disse contrito. «Davvero, non è stato intenzionale.»
«Innalzare questa torre a mia insaputa non è stato intenzionale?» urlò Zeboim.
«Pensavo lo sapessi!» protestò Nuitari, innocenza fatta persona. «Pensavo sapessi tutto quello che avviene nel tuo mare! Se non è così, se questa ti giunge come una sorpresa, è forse colpa mia?»
Fremendo, Zeboim lo guardò con occhio furioso. Si dimenava e si dibatteva, ma non vedeva modo di uscire dalla rete di parole del fratello che l’aveva intrappolata così bene. Se affermava di sapere che lui stava costruendo la Torre, allora perché non l’aveva fermato, visto che ne era tanto offesa? Ammettere di non averlo saputo significava ammettere di non sapere ciò che avveniva nel suo stesso regno.
«Ero impegnata in altre questioni più importanti», disse con tono altezzoso. «Ma adesso che lo so, tu devi fare ammenda.»
«Che cosa desideri?» domandò untuoso Nuitari. «Sarò fin troppo lieto di acconsentire alle tue richieste, cara sorella. Purché siano ragionevoli, naturalmente.»
Presumeva che lei fosse venuta a sapere non soltanto della Torre ma anche della Sala del Sacrilegio. Si immaginava che gli chiedesse la restituzione dei suoi oggetti sacri in cambio del permesso di tenere la Torre. Nuitari era pronto a consegnare un oggetto sacro o forse anche due, se lei avesse persistito nelle minacce contro i maghi. La risposta di Zeboim fu del tutto inaspettata.
«Voglio Mina», dichiarò la dea.
«Mina?» ripeté Nuitari, sbalordito. Prima Takhisis. Poi Chemosh. Adesso Zeboim. Ogni dio dell’universo voleva forse questa ragazza?
«Tu la tieni prigioniera. La consegnerai a me. In cambio potrai tenerti la Torre», propose magnanima Zeboim. «Non te la farò abbattere.»
«Che gentilezza da parte tua, sorella», disse Nuitari con tono adulatorio e velenoso. «Che cosa vuoi da questa femmina umana, se mi permetti di domandartelo?»
Zeboim guardò su verso la superficie del mare illuminata dal sole.
«Quante delle tue Vesti Nere pensi che stiano navigando in mare aperto attualmente, fratello?» domandò. «Io ne conto sei in questo momento.»
Sollevò le mani e l’acqua del mare prese a ribollire attorno a lei. La luce del sole svanì, sopraffatta da nubi temporalesche. Nuitari ebbe visioni dei suoi maghi che cadevano giù da ponti squassati dal rollio.
«Molto bene! L’avrai!» disse rabbiosamente. «Ma non so perché tu la voglia. Lei appartiene a Chemosh, anima e corpo.»
Zeboim sorrise con aria avveduta, e Nuitari indovinò subito che lei e Chemosh avevano stretto qualche sorta di patto.
«Ecco perché il dio non è venuto a reclamare la sua sgualdrina», mormorò Nuitari. «Ha stretto un patto con Zeboim. Mi domando a che scopo. Non la mia Torre, spero.»
Scrutò la sorella. Lei lo scrutò di rimando.
«Vado a prenderla», disse Nuitari.
«Vai», disse Zeboim. «E non metterci molto. Io mi annoio facilmente.»
Impartì alla Torre una scossetta supplementare.
Entrando nella Torre del Mare di Sangue, Nuitari convocò i suoi maghi.
Non risposero.
Lo considerò un cattivo presagio. Caele di solito era sempre pronto, desiderando ardentemente di essere il primo a profondersi in lodi per il ritorno del padrone, e Basalt, solido e affidabile, aspettava di lanciarsi in lamentele nei confronti di Caele.
Nessuno dei due rispose alla convocazione del padrone.
Nuitari li chiamò di nuovo, con tono terribile.
Nessuna risposta.
Nuitari andò al laboratorio, pensando che potessero essere lì. Vi trovò un caos indescrivibile: il pavimento inondato di pozioni versate e vetri rotti, un piccolo fuoco che ardeva in un angolo, diversi folletti evasi che vagavano liberamente qua e là. Nuitari spense il fuoco con uno sbuffo irritato, intrappolò i folletti e li rinchiuse nuovamente nelle loro gabbie, quindi proseguì le ricerche dei maghi scomparsi. Aveva la sensazione di sapere dove guardare.
Arrivando all’appartamento di Mina, trovò la porta spalancata. Nuitari entrò.
Due bare di pietra e nessuna traccia di Mina.
Nuitari sollevò le lastre di pietra dai sarcofagi. Caele, ansimando per respirare, afferrò i lati della bara e si tirò su. Il mezzelfo pareva mezzo morto. Cercò di alzarsi in piedi, ma aveva le gambe troppo malferme. Rimase seduto nella bara e rabbrividì. Poiché i nani erano abituati a vivere in luoghi bui, Basalt aveva affrontato con facilità il suo isolamento. Era molto più preoccupato di affrontare il dio irato, e teneva la testa china, col cappuccio abbassato, cercando disperatamente di evitare lo sguardo torvo di Nuitari.
«Oh, se mi perdonate, padrone, mi occupo io di fare le pulizie...» Basalt cercò di uscire furtivamente dalla stanza.
«Dov’è Mina?» domandò Nuitari.
Basalt si guardò attorno furtivamente, come sperando che Mina si nascondesse sotto il divano. Non trovandola, guardò il padrone e quasi subito distolse di nuovo lo sguardo.
«È stata colpa di Caele», disse Basalt, mormorando nella barba. «Ha cercato di ucciderla, ma ha pasticciato come al solito, e lei gli ha preso il coltello...»
«Serpente!» sibilò Caele. Inerpicandosi fiaccamente per uscire dalla bara, sollevò contro il nano una mano indebolita.
«Smettetela, tutti e due!» comandò Nuitari. «Dov’è Mina?»
«È successo tutto nello stesso momento, padrone», piagnucolò Caele. «Zeboim ha cominciato a scrollare la Torre, e un attimo dopo Mina aveva il mio coltello e minacciava di uccidermi...»
«È vero, padrone», disse Basalt. «Mina minacciava di uccidere il povero Caele se io avessi cercato di fermarla, e naturalmente io temevo per la sua vita, e poi è arrivato Chemosh e ci ha ficcati dentro queste bare...»
«Tu menti», disse con calma Nuitari. «Il Signore della Morte non può entrare nella mia Torre. Non più.»
«Ho udito la sua voce, padrone», ansimò Basalt, trasalendo. «La sua voce era dappertutto. Ha parlato con Mina. Le ha detto che la Torre è sua. A parte il guardiano...»
«Il guardiano», ripeté Nuitari, e capì dove fosse andata Mina: la Sala del Sacrilegio. Si rilassò. «Midori la sistemerà, e questo significa che non ne rimarrà granché. Devo escogitare qualcosa per placare mia sorella. Metterò i resti di Mina in una bella scatola. Zeboim potrà offrire questa a Chemosh in cambio di qualunque cosa lui le abbia promesso; una promessa che lui probabilmente non intenderà comunque mantenere.»
Tornò a guardare i suoi due maghi, che si facevano piccoli per la paura davanti a lui. «Mettetevi a ripulire questo disastro.» Diede un’occhiata alle bare. «Non buttate via queste. Potrebbero tornare utili in futuro se voi oserete disobbedirmi di nuovo.»
«No, padrone», mormorò Basalt.
«Sì, padrone», disse Caele deglutendo.
Soddisfatto, Nuitari si avviò a recuperare il cadavere di Mina.
Nuitari si aspettava di trovare il globo marino in scompiglio: sangue nell’acqua, il drago dall’aria sazia, gli squali intenti a combattere per i rimasugli. Invece le meduse ondeggiavano qua e là nel globo con una calma irritante e il drago era addormentato sul fondo sabbioso.
A quanto pareva si era preoccupato per nulla. Mina dopo tutto non era venuta qui. Nuitari inviò ai suoi maghi il messaggio urgente di perlustrare la Torre alla ricerca di Mina e se ne stava andando per aiutarli quando il drago parlò.
«Se stai cercando l’essere umano, è dentro il tuo castello di sabbia.»
Nuitari per un attimo rimase sbalordito, quindi si lanciò attraverso la parete di cristallo per affrontare il drago.
Midori lo osservò dalle profondità buie del suo guscio.
«Le hai permesso di entrare?» si infuriò Nuitari. «Che razza di guardiano sei?»
«Mi ha detto che la mandavi tu», rispose il drago. Il guscio si spostò leggermente. «Ha detto che tu volevi farle verificare che gli oggetti sacri non fossero stati danneggiati dalle scosse.»
«E tu hai creduto alle sue menzogne?» Nuitari era atterrito.
«No», rispose Midori, con gli occhi verde-oro che luccicavano. «Non più di quanto io creda alle tue menzogne.»
«Alle mie menzogne?» Nuitari non riusciva a trarre un senso da tutto questo. Non aveva mai mentito al drago, non certo riguardo a qualcosa di importante. «Che... Lascia perdere! Perché l’hai lasciata passare?»
«La prossima volta, fai tu il lavoro sporco», ringhiò Midori, ritraendo la testa dentro il guscio. Chiuse gli occhi e finse di dormire.
Nuitari non aveva tempo per decifrare che cosa infastidisse il drago. Doveva impedire a Mina di andarsene con i suoi oggetti sacri. Senza essere né visto né udito, il dio si materializzò all’interno del Solio Febalas.
Mina era lì. Non stava saccheggiando quel luogo, come lui si aspettava. Era in ginocchio, con la testa china e le mani giunte.
«Dèi delle tenebre e dèi della luce e voi dèi che amate il crepuscolo intermedio, perdonate la mia profanazione di questo luogo sacro», pregava sottovoce Mina. «Perdonate l’ignoranza dei mortali, perdonate l’arroganza e la paura che hanno indotto loro a commettere questo crimine contro di voi. Anche se le anime di coloro che rubarono questi oggetti sacri se ne sono andate da tempo, la debolezza negli uomini rimane. Pochi si inchinano davanti a voi. Pochi vi onorano. Molti negano la vostra esistenza o affermano che l’uomo è cresciuto e non abbia ormai più bisogno di voi. Se potessero soltanto vedere questo spettacolo benedetto come lo vedo io e percepire la vostra presenza come la percepisco io, l’intera umanità cadrebbe ai vostri piedi per adorarvi.»
Nuitari intendeva afferrarla per la collottola e contorcerle il corpo a mani nude fino a spezzarle le ossa e a farle sprizzare sangue. Al pari dei suoi maghi, non credeva nell’uso della magia per scopi frivoli.
Invece non la uccise. Guardandosi attorno nella sala, vide quello che vedeva lei: non oggetti da barattare come maiali nel giorno di mercato. Vide gli altari sacri. Vide la luce divina. Vide la potenza terribile degli dèi. Percepì ciò che percepiva lei: una presenza sacra. Nuitari ritrasse la mano.
«Sei l’essere umano più irritante», disse esasperato. «Io non ti capisco!»
Mina sollevò la testa e si girò per guardarlo. Aveva il viso rigato di lacrime. A Nuitari rammentava una bambina smarrita.
«Io non capisco me stessa, mio signore», disse Mina. Chinò il capo. «Toglietemi la vita come punizione per la mia trasgressione in questo luogo sacro. Merito di morire.»
«Effettivamente meriti di morire», le disse arcigno Nuitari. «Ma oggi sei fortunata. Ti ho promessa a mia sorella, che a sua volta ti ha promessa a Chemosh.»
Avrebbe anche potuto parlare di qualcun altro. Mina rimase dov’era, accovacciata per terra, schiacciata, atterrata dal peso del cielo.
«Non mi hai sentito? Sei libera di andartene», disse Nuitari. «Anche se devo avvertirti che se per disgrazia ti sei infilata dentro la manica un anello benedetto o una fiala di pozione vivificante, devi privartene prima di partire. Altrimenti scoprirai che la tua fortuna si è esaurita.»
«Non ho toccato niente, mio signore», rispose Mina.
Alzandosi in piedi, si incamminò verso la porta. Si muoveva lentamente, come riluttante ad andarsene. I suoi occhi si soffermarono sulle reliquie sacre agli dèi.
«Non ritengo mi serva granché domandarti come tu sia riuscita ad aggirare le mie protezioni magiche», disse Nuitari. «Come tu abbia fatto a superare una porta che aveva un sigillo magico e una trappola, e poi ad attraversare le pareti di cristallo incrostate di rune, e a respirare acqua di mare facilmente quanto l’aria. Immagino che Chemosh ti abbia aiutata in tutto questo.»
«Ho pregato il mio dio, sì», rispose distrattamente Mina.
Nuitari attese i dettagli, ma lei non diede ulteriori spiegazioni.
«Mi piacerebbe sapere, tuttavia», proseguì Nuitari, «come tu sia riuscita a superare il drago. Mi ha detto che tu le hai raccontato qualche storia inverosimile dicendo che ti avevo mandata io. Io penso, in verità, che Midori debba essere stata addormentata e abbia paura di ammetterlo davanti a me».
Mina rispose con un mezzo sorriso. «Credo di avere effettivamente detto qualcosa del genere, mio signore. Il drago era sveglissimo. Mi ha vista, mi ha parlato e mi ha posto degli indovinelli da risolvere. Dopo di che il drago mi ha permesso di entrare nel globo.»
«Indovinelli?» Nuitari era scettico. «Quali indovinelli?»
Mina ci pensò su. «Ce n’erano due: "Da dove vieni?" mi ha domandato il drago, e "dove sei stata?"»
«Non granché come indovinelli», affermò asciutto Nuitari.
Mina annuì. «Sono d’accordo, mio signore. Tuttavia il drago si è arrabbiato quando ha pensato che io dessi risposte evasive. È questo che mi ha fatto pensare che fossero indovinelli intesi a ingannarmi.»
Il fondo marino si sollevò e sobbalzò. La Torre si scosse dalle fondamenta, e una voce gridò per avvertimento: «Sbrigati, fratello! Mi sto stancando di aspettare!».
Nuitari tolse il sigillo alla porta e fece un gesto a Mina.
«Questa volta ti risparmio la vita», disse. «La prossima volta non sarò tanto generoso, per cui fai in modo che non ci sia una prossima volta.»
La accompagnò alla porta, che era l’ultima trappola. Non sarebbe stata fatta scattare da un ladro, ma dall’oggetto sacro che il ladro cercasse di portare fuori della Sala. Mina aveva detto di non avere niente in proprio possesso e Nuitari le credeva. Non rimase sorpreso nel vederla attraversare la porta senza danni. Chiuse rapidamente la porta, prendendosi un appunto mentale di rafforzare gli incantesimi che vi aveva applicato. Non aveva idea che Chemosh (perfino da lontano) potesse rivelarsi tanto abile nello sfondare barriere magiche.
Un movimento rapido e leggero della sua mano e Mina sparì, trasportata attraverso acqua, globo di cristallo e pareti della Torre fino al mare al di là, dove la aspettava Zeboim.
Non esattamente disposto a fidarsi di sua sorella, Nuitari la tenne d’occhio, volendo accertarsi che Zeboim mantenesse la parola e terminasse gli attacchi alla Torre. Nel momento in cui ebbe Mina, Zeboim strinse la giovane donna in un abbraccio affettuoso e le due scomparvero.
Nuitari ritornò al globo per interrogare il drago, ma scoprì che Midori non c’era più.
Simili assenze non erano insolite. Il drago di quando in quando se ne andava in battute di caccia. Nuitari aveva la sensazione però che questa volta Midori se ne fosse andata senza alcuna intenzione di tornare. Si era incollerita enormemente con lui.
Nuitari rimase dentro il globo marino a fissare il Solio Febalas. Ripensò a tutto quanto avesse a che fare con Mina.
Mina, si risolse, non voleva dire altro che guai.
«Che liberazione», mormorò. Se ne andò, con un sospiro feroce, per vedere se gli riuscisse di trovare e placare il drago.