La taverna, se la si poteva chiamare pomposamente con questo termine, si trovava dentro una barca rovesciata che era stata portata a riva dal vento durante una tempesta. La taverna si chiamava Lo Scafo, ma l’umorismo locale la chiamava Lo Schifo.
Lo Schifo teneva fede al suo nome. Non aveva né tavoli, né sedie, né finestre. Gli avventori se ne stavano raggruppati attorno al bancone che era stato abborracciato con travi di legno in putrefazione, oppure si accovacciavano su cassette di verdura rovesciate. Le crepe nello scafo fornivano quella poca luce che riuscisse a penetrare all’interno, unitamente a un minimo di aria fresca che combatteva una battaglia persa contro il fetore di liquore dei nani, urina e vomito. Coloro che frequentavano Lo Schifo venivano qui principalmente perché erano stati buttati fuori da ogni altro posto.
Rhys e Nightshade sedevano su cassette quanto più vicino possibile a una delle crepe, e anche così Nightshade trovava che l’odore quasi gli guastava l’appetito. Atta contraeva continuamente le narici e starnutiva e tirava su col naso.
Oltre alla mancanza di tavoli e di finestre, non vi erano nemmeno risate, né allegria. L’oste distribuiva un distillato dubbio che lui affermava essere liquore dei nani, ma probabilmente non lo era, versandolo in boccali di stagno ammaccati che erano stati recuperati dal naufragio. Gli avventori per la maggior parte bevevano da soli, sprofondati nella malinconia, fissando storditi i ratti che correvano sul pavimento e che erano gli unici a divertirsi, almeno finché non scorsero Atta. Essendole stato proibito di cacciarli, Atta osservava quelle bestiacce a occhi socchiusi e, quando uno le arrivava troppo vicino, gli ringhiava contro.
Uno degli avventori che bevevano quel giorno era Lleu.
Rhys e Nightshade avevano perso per breve tempo le tracce di Lleu quindi, proprio per caso, avevano ritrovato il suo percorso, diretto da Solace verso sud, non verso est. Lo rintracciarono nella città di New Port situata sulla Baia Nuova nella parte meridionale del Mare Nuovo. Rhys si domandò perché suo fratello andasse verso sud, quando gli altri Prediletti erano attirati verso est. Trovò la risposta quando raggiunse New Port. Lleu aveva prenotato un posto su una nave diretta a Flotsam, la cui partenza era prevista di lì a qualche giorno.
Trovare Lleu non era stato difficile. Rhys era andato semplicemente da un’osteria malfamata all’altra, fornendo agli osti la descrizione di Lleu. A New Port lo individuarono al terzo tentativo.
Gli osti ricordavano sempre Lleu, poiché si distingueva dagli altri clienti, i quali erano generalmente trasandati, schiavi del liquore dei nani che governava la loro vita. Quelli «catturati dai nani», come si usava dire, erano in genere macilenti e pallidi, poiché il liquore diventava per loro pane e carne; avevano gli occhi vitrei, le guance incavate. Lleu, invece, era sano e pasciuto, bello e affascinante. Da tempo aveva abbandonato le vesti di chierico di Kiri-Jolith e adesso indossava la camicia e il farsetto, gli stivali di cuoio e le calze di lana di un giovanotto di nobili natali.
In un modo o nell’altro aveva trovato dei soldi, poiché i suoi abiti erano di buona fattura e lui era riuscito a pagare il prezzo elevato del viaggio per mare. Forse una delle sue vittime era stata ricca. Altrimenti si era dato al furto, il che non sarebbe stato sorprendente. Dopo tutto, Lleu non aveva nulla da temere dalla giustizia, che sarebbe andata incontro a una brutta sorpresa se avesse cercato di impiccarlo.
Quando Rhys entrò nello Schifo, Lleu lo osservò, poi distolse lo sguardo. In quegli occhi morti non vi era traccia di riconoscimento. Lleu non aveva alcun ricordo di Rhys né di alcunché. Lleu sapeva il proprio nome, ed era l’unica cosa che sapesse. Chemosh gli diceva chi era, presumibilmente. Ciò che era stato era andato perduto per sempre.
Gli altri avventori della taverna erano assorti nel bere e non volevano avere nulla a che fare con un forestiero, per cui Lleu intrattenne un’allegra conversazione con se stesso. Si vantava delle sue baldorie e delle donne che si gettavano su di lui. Rideva per le proprie battute e cantava canzoni sguaiate, e a Rhys doleva il cuore. Lleu bevve finché non finì le monete per pagare gli alcolici, quindi cercò di bere a credito. L’oste non voleva saperne, però; eppure Lleu continuò a restare seduto lì, col boccale in mano.
Andò avanti così per l’intero pomeriggio. Lleu da un momento all’altro si dimenticava che non aveva niente da bere e portava il boccale alle labbra. Trovandolo vuoto, sbatteva il boccale sulla cassetta e a voce alta chiedeva dell’altro liquore. L’oste, sapendo che lui non poteva pagare, semplicemente lo ignorava. Lleu continuava a sbattere il boccale sulla cassetta finché dimenticava perché lo facesse, e allora lo metteva giù. Dopo qualche istante lo raccoglieva e urlava per avere ancora da bere.
Rhys stava seduto a osservare quell’essere che un tempo era stato suo fratello e di quando in quando faceva finta di bere il liquore che era stato costretto a pagarsi per placare l’oste. Nightshade si era annoiato, inizialmente, ma poi si era messo a cercare di colpire i ratti con fagioli secchi che aveva trovato in qualche vecchia tela di sacco infilata dentro la cassetta su cui era seduto. Il kender aveva reperito (Rhys non gli domandò come) una fionda, e anche se inizialmente era stato impacciato nell’usarla, poi aveva acquisito una certa abilità. Sapeva colpire un ratto con un fagiolo a venti passi di distanza e fargli fare una capriola sul pavimento di terra. Però si stava stancando di quel divertimento. I ratti intelligenti adesso restavano nelle loro tane e inoltre lui aveva esaurito i fagioli.
«Rhys», disse Nightshade, avvolgendo la fionda e infilandosela alla cintola, «è ora di cena».
«Pensavo che avessi perso l’appetito», disse Rhys sorridendo.
«Il mio naso l’ha perso. Il mio stomaco no», ribatté Nightshade. «Anche Atta pensa che sia ora di cena, vero, ragazza?» Diede alla cagna una pacca sulla testa.
Atta alzò gli occhi e scodinzolò, sperando che stessero per andarsene.
«Non possiamo andarcene ancora», esordì Rhys, e poi, vedendo Nightshade fare il muso lungo e Atta abbassare gli orecchi, soggiunse: «Ma voi due potete andare a fare una passeggiata. Io ho questi avanzi del pranzo».
Rhys e Nightshade avevano aiutato un contadino a rimettere una ruota al carro quella mattina mentre arrivavano in città e, anche se Rhys si era rifiutato di accettare un pagamento, l’uomo aveva spartito con loro i viveri. Rhys porse al kender un pacchetto di carne essiccata.
«La porto fuori per mangiarmela», disse Nightshade. «Così il mio naso potrà avere fame come lo stomaco.»
Si alzò e si sgranchì. Atta si scrollò tutta, partendo dal naso e finendo con la coda, e guardò con entusiasmo la porta.
«E tu?» domandò Nightshade, vedendo che Rhys restava seduto. «Non hai fame?»
Rhys scrollò il capo. «Io resto qui e tengo d’occhio Lleu. Ha detto qualcosa riguardo a un incontro con una ragazza, più tardi stasera.»
Nightshade prese i viveri, ma non se ne andò subito. Rimase a guardare Rhys e parve cercare di decidere se dire qualcosa o no.
«Sì, amico mio», disse dolcemente Rhys. «Che c’è?»
«Parte con una nave fra due giorni», disse Nightshade.
Rhys annuì.
«Che faremo allora? Lo inseguiremo a nuoto sul Mare Nuovo?»
«Ho parlato col capitano. Mi sono offerto di lavorare a bordo della nave in cambio del passaggio.»
«E poi?»
Chinandosi più vicino, Nightshade guardò l’amico dritto negli occhi. «Rhys, ammettilo! Potremo rincorrere tuo fratello ancora quando avrai novant’anni e userai quel tuo bastone per sorreggerti! Lleu sarà giovane come sempre, andrà di taverna in taverna, trangugerà liquore dei nani come non vi fosse un domani. Perché, lo sai, Rhys, per lui non c’è domani!»
Nightshade sospirò e scrollò il capo. «Non è granché la tua vita. È tutto quello che voglio dire.»
Rhys non si difese perché non poteva. Il kender aveva ragione. Non era granché come vita, ma che altro poteva fare? Finché qualche saggio non avesse trovato un modo per fermare i Prediletti, lui poteva per lo meno cercare di impedire a Lleu di reclamare altre vittime, e l’unico modo per farlo era seguire le tracce di suo fratello come un cacciatore segue le tracce di un lupo dedito al saccheggio.
Nightshade vide rabbuiarsi in volto l’amico e provò subito rimorso.
«Rhys, mi dispiace.» Nightshade gli diede una pacca sulla mano. «Non volevo offendere i tuoi sentimenti. È solo che tu sei un uomo buono, e a me sembra che dovresti andare in giro a fare cose buone anziché passare il tempo a impedire a tuo fratello di fare cose cattive.»
«Non mi sono offeso», disse Rhys, toccando delicatamente Nightshade sulla spalla. «Ti ha mai detto nessuno che sei saggio, amico mio?»
«Non di recente», disse Nightshade con un sorriso.
«Ebbene, lo sei. Rifletterò su quello che hai detto. Vai a mangiarti la tua cena.»
Nightshade annuì e strinse la mano di Rhys. Lui e Atta si girarono e si diressero verso l’esterno, quando all’improvviso la porta si spalancò con uno schianto che scosse gli ubriachi dal loro stordimento e fece cadere di mano il boccale a diversi di loro. Una folata di vento, dal forte odore di mare, turbinò nell’interno della taverna, sollevando la polvere e facendola ruotare in minuscoli cicloni che accompagnarono l’ingresso di Zeboim.
La dea con noncuranza scagliò via il kender, che le ostruiva il passaggio, e guardò qua e là nella stanza ombrosa alla ricerca di Rhys.
«Monaco, lo so che sei qui», gridò con una voce di onde frangenti che fece cigolare le assi e mise in fuga i ratti. «Dove sei?»
Il vestito verde-mare le schiumava attorno alle caviglie, i capelli di spuma marina si aggrovigliavano al vento che sibilava attraverso le crepe dello scafo. L’oste rimase a bocca aperta. Gli ubriachi guardavano fisso. Lleu, avvistando una donna bellissima, balzò su e fece un inchino galante.
Rhys, sbalordito oltre misura, si alzò per andare incontro alla dea.
«Sono qui, maestà», gridò.
Atta gli si accucciò fra le gambe e rimase lì a ringhiare. Nightshade si tirò su da terra. Era riuscito, con un’abile acrobazia, a salvare la cena, e si infilò in tasca la carne.
«Sono qui anch’io, dea», cantilenò allegramente.
«Taci, kender», disse Zeboim, «e tu...». Sollevò una mano a protezione, puntando il dito contro Lleu. «Anche tu taci, disgustoso pezzo di carogna.»
Zeboim si concentrò su Rhys, sorridendo dolcemente. «C’è qualcuno che voglio farti conoscere, monaco.»
La dea fece un gesto e, dopo un attimo di esitazione, entrò nella taverna un’altra donna.
«Rhys, questa è Mina», disse Zeboim con noncuranza. «Mina, Rhys Mason... il mio monaco.»
Rhys rimase tanto stupito che cadde all’indietro, inciampando sul bastone e calpestando Atta, la quale guaì per protesta. Rhys non riusciva a dire niente: il suo cervello era in uno scompiglio tale che traeva ben poco senso da ciò che vedeva. Ebbe un’impressione fuggevole di una giovane donna che era non tanto bella quanto straordinaria, con i capelli come di fiamma e gli occhi come lui non ne aveva mai visti.
Gli occhi avevano il colore dell’ambra e Rhys ebbe la strana impressione che, come l’ambra, tenessero imprigionati tutti coloro che lei avesse incontrato. Lo sguardo d’ambra si fissò su di lui, e Rhys si sentì attratto da lei come tutti gli altri, centinaia di migliaia di persone catturate e imprigionate come insetti nella resina.
L’ambra filtrò attorno a lui, calda e dolce.
Rhys urlò e fece scattare in su il braccio per bloccare lo sguardo di lei, come avrebbe fatto scattare il braccio in su per parare un colpo.
L’ambra si incrinò. Gli occhi continuavano a racchiudere i poveri prigionieri, ma adesso Rhys vedeva imperfezioni, minuscole crepe e striature che si diramavano dalle pupille scure.
«Rhys Mason», disse Mina, porgendogli la mano. «Tu conosci la risposta all’indovinello!»
«Lui?» Zeboim lo schernì. «Lui non sa niente, bambina. Adesso dobbiamo proprio andare. Questa è stata una visita fuggevole, Rhys, amore mio. Mi dispiace che non possiamo fermarci. Volevo soltanto che voi due vi conosceste. Mi sembrava il minimo che potessi fare, dato che sono io quella che ti aveva ordinato di perlustrare il mondo alla sua ricerca. Pertanto addio...»
Lleu emise un grido sordo, un piagnucolio soprannaturale, e si scagliò su Mina. Cercò di afferrarla, ma lei indietreggiò allontanandosi da lui.
«Disgraziato», disse freddamente. «Che cosa pensi di fare?»
Lleu cadde in ginocchio. Tese le mani verso di lei, supplicando.
«Mina», gridò Lleu con tono straziante, «non mandarmi via! Tu mi conosci!».
Rhys lo guardò fisso e Nightshade rimase a bocca aperta. Lleu, che non ricordava Rhys, rammentava Mina.
Quanto a lei, lo guardò come avrebbe potuto guardare uno dei ratti. «Ti sbagli...»
«Mi hai baciato!» Lleu si strappò la camicia per svelare il marchio delle labbra di lei, impresso a fuoco nella carne. «Guarda!»
«Ah, tu sei uno dei Prediletti», disse Mina e alzò le spalle. «Hai la benedizione del mio signore...»
«Non la voglio!» gridò con veemenza Lleu. «Toglimela!»
Mina lo fissò, perplessa.
«Toglimela!» strillò Lleu. Serrò le mani ad artiglio verso di lei, ma artigliò l’aria non potendo raggiungerla. «Toglimela! Liberami!»
«Non capisco», disse Mina, e parve veramente meravigliata di quella richiesta. «Io ti ho dato quello che volevi, quello che tutti i mortali vogliono: la vita eterna, la giovinezza eterna, la bellezza eterna...»
«L’infelicità eterna», piagnucolò lui. «Non sopporto la tua voce strepitarmi di continuo negli orecchi. Non sopporto il dolore che mi spinge a uscire di notte, il dolore che niente può soffocare, neanche il liquore più forte...»
Lleu giunse le mani. «Toglimi la "benedizione", Mina. Lasciami andare.»
Lei si ritrasse, altezzosa e sdegnosa. L’ambra si indurì, le crepe si saldarono. «Tu ti sei donato al mio signore. Sei suo. Io non posso farci niente.»
Lleu si tuffò in avanti, sempre in ginocchio. «Ti prego!»
Zeboim rivolse al Prediletto un’occhiata di disgusto e tirò via Mina.
«Vieni, bambina. A proposito di Chemosh, si starà facendo impaziente. Quanto a te, monaco» – Zeboim si voltò per guardare Rhys dietro a sé, e il suo sguardo non era amichevole – «con te parlerò più tardi.»
Venti di tempesta irruppero nella taverna, investirono Rhys e lo scagliarono contro la parete. La sabbia gli punzecchiò il viso. Rhys non riusciva a vedere per via della sabbia e della pioggia sferzante, ma udì la gente imprecare, le cassette venire scagliate qua e là nella stanza. La tempesta infuriò per un istante e poi si placò. Rhys trovò Atta che si faceva piccola per la paura sotto una cassetta. Lleu era ancora in ginocchio. Sperando contro ogni speranza che a suo fratello fosse tornata la memoria, Rhys si affrettò a raggiungerlo.
«Lleu, sono io. Rhys...»
Lleu lo scagliò via. «Non mi importa un corno chi sei. Vai fuori dai piedi. Oste, ancora liquore!»
L’oste comparve, alzandosi da sotto il bancone. Diede un’occhiata in giro alle cassette rovesciate e agli ubriachi sottosopra, quindi si accigliò guardando Lleu.
«Begli amici che hai. Guarda che caos! Chi mi pagherà per questo? Non tu, immagino. Vai via», urlò, agitando il pugno serrato. «E non tornare più!»
Mormorando che aveva cose migliori da fare e posti migliori in cui andare, Lleu uscì a grandi passi dalla taverna, sbattendosi la porta dietro le spalle.
«Pagherò io i danni», disse Rhys, porgendo la sua ultima moneta. Fischiando ad Atta, si incamminò dietro a Lleu, dicendo a Nightshade mentre gli passava accanto: «Svelto! Dobbiamo seguirlo!».
Un gemito di Atta costrinse Rhys a fermarsi e a guardare indietro.
Nightshade fissava il punto in cui si era trovata Mina. Aveva gli occhi spalancati, e Rhys vide con stupore che sulle guance del kender scendevano lacrime.
«Oh, Rhys», disse Nightshade deglutendo. «Che tristezza. Che enorme tristezza!»
Seppellì il volto tra le mani e pianse come se gli si stesse spezzando il cuore.
Rhys si affrettò a tornare dall’amico.
«Nightshade», disse preoccupato. «Mi dispiace di essere stato tanto sconsiderato. Tu ti sei beccato una brutta caduta. Dove ti fa male?»
Ma tutto quello che riuscì a dire Nightshade fu: «Che tristezza! Non posso sopportarla!».
Rhys cinse col braccio il kender e lo condusse via dalla taverna. Atta trotterellò dietro a loro, guardando ansiosamente il suo amico, e di quando in quando dandogli una leccata di commiserazione sulla mano.
Lacerato fra la preoccupazione per l’amico e il timore di perdere le tracce di suo fratello, Rhys fece del proprio meglio per consolare Nightshade, senza mai perdere di vista Lleu.
Suo fratello passeggiava lungo i moli, con le mani in tasca, fischiettando un motivetto stonato, senza alcuna preoccupazione al mondo. Salutava gli sconosciuti come fossero stati vecchi amici e ben presto attaccò discorso con un gruppo di marinai. Rhys ripensò ad appena pochi momenti prima, quando il suo disgraziato fratello aveva implorato la morte, e immaginò di capire perché il kender stesse singhiozzando.
Rhys diede a Nightshade una pacca di consolazione sulla spalla, pensando che presto avrebbe riguadagnato la compostezza, ma il kender era completamente distrutto. Nightshade sapeva soltanto ripetere, deglutendo e piagnucolando, che era una cosa tanto triste, e piangeva ancora più forte. Rhys era preoccupato di dover lasciare il suo amico in questo stato, ma poi vide suo fratello entrare in un’osteria in compagnia dei marinai.
Sicuro che Lleu sarebbe rimasto lì per un po’ di tempo, specialmente se avessero offerto i marinai, Rhys condusse Nightshade in un vicolo tranquillo. Il kender si lasciò cadere di peso a terra e singhiozzò malinconicamente.
«Nightshade», disse Rhys, «lo so che sei dispiaciuto per Lleu, ma questo non serve a niente...».
Nightshade alzò lo sguardo. «Lleu? Io non sono dispiaciuto per lui! È per lei!»
«Lei? Vuoi dire Mina?» domandò Rhys, stupefatto. «È per lei che piangi?»
Nightshade annuì, emettendo altre lacrime.
«Che mi dici di lei?» Rhys ebbe un pensiero improvviso. «Fa parte dei Prediletti? È morta?»
«Oh, no!» Nightshade deglutì. Quindi esitò. Poi ripeté: «No...», ma questa volta più incerto.
«Stai piangendo per il male terribile che lei ha commesso?» La voce di Rhys si indurì. La sua mano si strinse attorno al bastone. «Se è viva, va bene. Può essere uccisa.»
Nightshade sollevò il viso rigato di lacrime e guardò con stupore Rhys. «L’hai detto veramente? Vuoi ucciderla? Tu... il monaco che ha tirato via una mosca da una pozza di birra perché non annegasse?»
Rhys rammentò la supplica disperata di suo fratello e la risposta insensibile e indifferente di Mina. Pensò al giovane Cam di Solace, tutti giovani, schiavi di Chemosh, spinti all’assassinio, con l’impronta delle labbra di lei sopra il cuore. Vorrei averla uccisa quando mi era davanti», disse.
Allungò la mano e scrollò il kender, pizzicandogli forte la spalla. «Rispondimi! Che cosa c’è di tanto triste in lei?»
Nightshade si scostò da lui.
«Veramente non lo so», disse il kender a bassa voce. «Sinceramente! In qualche modo mi è venuta questa sensazione. Non arrabbiarti, Rhys. Adesso cercherò di smettere di piangere.»
Ebbe un singulto, e sulle guance gli scesero altre lacrime, e nascose il viso nel pelo di Atta. La cagna gli strofinò il muso sul collo e gli leccò via le lacrime. I suoi occhi marroni, fissi su Rhys, parevano rimproverarlo.
Il kender si strofinò la spalla nel punto in cui Rhys l’aveva afferrato, e il monaco si sentì un mostro. «Vado a prendere dell’acqua.»
Diede al kender una pacca di scuse con cui però non fece che far piangere più forte Nightshade. Lasciandolo alle cure di Atta, Rhys andò a un vicino pozzo pubblico. Stava tirando su il secchio quando sentì una presenza divina alitargli giù per il collo.
«Che segreto mi tieni nascosto, monaco?» domandò Zeboim.
«Io non ho segreti, maestà», disse Rhys, sospirando.
«Di che indovinello parla quella ragazza, allora? Qual è la risposta?»
«Non so che cosa intendesse Mina con quella domanda, maestà», disse Rhys. «Perché non lo domandate a lei?»
«Perché è una piccola bugiarda. Tu, con tutti i tuoi difetti, non lo sei, per cui dimmi l’indovinello e dimmi la risposta.»
«Vi ho detto, maestà, che non so di che cosa lei parli. Poiché non sono un bugiardo, presumo che dobbiate credermi.» Rhys si riempì la borraccia e fece per tornare nel vicolo.
Zeboim si adirò e lo seguì. «Devi saperlo! Concentrati!»
Rhys udì la voce di suo fratello, la sua supplica disperata per ottenere la morte. Sentì sulla pelle le lacrime di Nightshade. Perdendo la pazienza, Rhys investì con rabbia la dea.
«Tutto ciò che so, maestà, è che voi avevate in vostro possesso la persona che mi avevate ordinato di trovare. Non avete diritto di chiedermi niente!»
Zeboim si fermò, momentaneamente presa alla sprovvista dalla collera di lui. Rhys proseguì il cammino, e Zeboim si affrettò a raggiungerlo. Fece scivolare il braccio sotto quello di Rhys e lo tenne stretto quando cercò di divincolarsi.
«Mi piace quando sei energico, ma non farlo mai più.» Gli diede sulla mano una pacca giocosa che gli intorpidì il braccio fino al gomito. «Quanto a Mina, te l’ho presentata, no? Adesso sai che aspetto ha. L’ho lasciata andare, è vero, ma non avevo scelta nella questione. Ti ricordi mio figlio? La sua anima intrappolata in un pezzo del khas?»
Rhys sospirò. Se lo ricordava, eccome.
«Sarai lieto di sapere che è stato liberato», disse Zeboim.
A Rhys risultò facile contenere il proprio entusiasmo per questa notizia.
La dea rimase in silenzio per un attimo, osservando Rhys con occhi socchiusi, cercando di vedergli nel cuore.
Rhys le aprì la propria anima. Non aveva niente da nascondere, e alla fine la dea si arrese.
«Stai dicendo la verità. Forse non conosci davvero la risposta a questo indovinello», disse Zeboim con un sussurro sibilante. «Se fossi in te, lo scoprirei. Mina è rimasta turbata da te. Io l’ho capito. Non preoccuparti di non riuscire a trovarla, fratello Rhys. Sarà Mina a trovare te!»
Al che, con un turbinio di pioggia, scomparve.
Nightshade e Atta erano entrambi profondamente addormentati. Il kender teneva le braccia attorno al collo di Atta. La cagna gli teneva sul petto una zampa protettiva. Rhys li guardò, stesi scompostamente sui ciottoli di un vicolo squallido e coperto di rifiuti. Atta aveva il pelo arruffato, e quel pelo un tempo lucido aveva perso lucentezza. I cuscinetti carnosi delle zampe erano ruvidi e screpolati. Ogni volta che passavano per prati ondulati e verdi colline, Atta guardava con desiderio i terreni erbosi, e Rhys sapeva che la cagna voleva correre e correre sui prati verdi e non fermarsi mai fino a tornare indietro da lui trotterellando, esausta e felice.
Quanto al kender, Nightshade faceva dei pasti regolari, il che era più di quanto conseguisse prima di conoscere Rhys. Aveva gli abiti stracciati e gli stivali tanto logori che le dita dei piedi facevano capolino. Peggio ancora, lo spirito allegro e vivace del kender gli veniva prosciugato dalla strada che percorrevano a passi pesanti, giorno dopo giorno, seguendo un uomo morto.
I kender non dovrebbero mai piangere, pensò con rimorso Rhys. Non sono fatti per le lacrime.
Rhys si accasciò su un barile. Chinò la testa fra le mani e si premette le palme sugli occhi. Cercò, per consolarsi, di riportarsi alla mente i pascoli verdi e le pecore bianche e la cagna bianca e nera che correva sul fianco della collina. Ma tutto questo non c’era più. Lui non vedeva nulla tranne la strada: una strada di desolazione, degrado, vuoto, morte e disperazione.
Si sentì colmare di vergogna e di disprezzo di sé.
«Ero così compiaciuto, così arrogante», disse, mentre lacrime amare gli bruciavano le palpebre. «Pensavo di poter civettare col diavolo eppure seguire la mia strada. Potevo far finta di essere al servizio di Zeboim, ancorché lei non mi rivendicasse mai. Potevo percorrere un cammino di tenebra senza perdere mai di vista la luce del sole. Ma adesso la luce del sole è svanita e io sono perduto. Non ho lanterna, non ho bussola a guidarmi. Procedo incespicando su un cammino tanto soffocato e coperto di erbacce che io non vedo dove mettere i piedi. Ed è un cammino senza fine.»
Il bastione di Majere, che lui aveva considerato una benedizione, adesso gli parve un rimprovero.
Pensa a quello che saresti potuto essere, sembrava dirgli Majere. Pensa a ciò che hai gettato via. Tieni sempre con te questo bastone, che possa rammentartelo ed essere per te un tormento.
Rhys udì un canticchiare stonato con una voce che aveva imparato a riconoscere. Stancamente, alzò la testa e vide Lleu superare a passo lento l’ingresso del vicolo che già si faceva buio col calare della notte.
Lleu: diretto a un appuntamento amoroso con qualche sventurata ragazza.
Rhys non aveva scelta. Abbassò la mano e scrollò Nightshade per svegliarlo. Atta, sbalordita, balzò in piedi. Cogliendo una zaffata proveniente da Lleu, ringhiò.
«Dobbiamo andare», disse Rhys.
Nightshade annuì e si strofinò gli occhi impastati di lacrime. Rhys aiutò il kender ad alzarsi.
«Nightshade», disse Rhys con rimorso, «mi dispiace. Non volevo sgridarti. E poi, gli dèi lo sanno, non volevo certo farti male».
«È tutto a posto», rispose Nightshade con un sorriso fiacco. «Probabilmente è perché hai fame. Ecco.» Si mise la mano in tasca e tirò fuori la carne maltrattata. Ne tirò via alcuni pezzetti di lanugine della tasca e tolse un chiodo piegato. «Te ne do un po’.»
Rhys non aveva fame, ma accettò una porzione di carne. Cercò di mangiarla, ma all’odore lo stomaco gli si rivoltò, e diede la sua parte ad Atta quando Nightshade non guardava.
Tutti e tre si incamminarono lungo la strada nella notte, seguendo il Prediletto.
Seguirono le tracce di Lleu fino a un molo dove si era accordato per incontrarsi con una giovane donna. Lei però non comparve, e dopo avere atteso per oltre un’ora, Lleu imprecò duramente contro di lei e se ne andò, infilandosi nella prima taverna che trovò. Rhys sapeva per esperienza che suo fratello sarebbe rimasto lì tutta la notte, e il giorno dopo lui l’avrebbe trovato qui oppure nei pressi della taverna. Rhys e Nightshade che sbadigliava e Atta dall’aria abbattuta trovarono un androne riparato e, rannicchiandosi assieme per riscaldarsi, si prepararono a dormire per quel che potevano.
Nightshade russava leggermente e Rhys si stava addormentando quando udì Atta ringhiare. Un uomo dalle vesti bianche che brillavano alla luce della sua lanterna era in piedi sopra di loro e li guardava. Aveva il volto sorridente e preoccupato, e Rhys lenì le preoccupazioni di Atta.
«È tutto a posto, ragazza», disse. «È un chierico di Mishakal.»
«Eh?» Nightshade si svegliò di scatto, sbattendo gli occhi per la luce della lanterna.
«Perdonatemi se vi disturbo, amici», disse l’uomo dalle vesti bianche. «Ma questo è un luogo pericoloso dove passare la notte. Io posso offrirvi riparo, un letto caldo e un pasto caldo domattina.»
Avvicinandosi ulteriormente, tenne alta la lanterna. «Benedetta la mia anima! Un monaco! Fratello, vi prego di accettare la mia ospitalità. Io sono il Riverito Figlio Patrick.»
«Pasto caldo...» ripeté Nightshade. Guardò speranzoso Rhys.
«Accettiamo il vostro invito, Riverito Signore», disse grato Rhys. «Io sono Rhys Mason. Questi sono Nightshade e Atta.»
Il chierico rivolse a tutti loro un saluto cortese, perfino ad Atta, e pur guardando con curiosità la veste verde-acqua di Rhys si trattenne educatamente dal commentare. Patrick illuminò loro il cammino per le strade della città.
«Una lunga camminata, purtroppo», disse in tono di scusa. «Ma al termine troverete pace e riposo. Più o meno come la vita stessa», soggiunse con un sorriso rivolto a Rhys.
Durante il cammino, Patrick spiegò loro che questa parte di New Port era chiamata Porto Vecchio, così detto perché era la parte più vecchia della città nuova. New Port non esisteva prima che il Cataclisma dividesse il continente di Ansalon, innalzando alcune parti del continente e affondandone altre, facendo spaccare alcune parti e staccarsene altre. Una di queste massicce spaccature permise la creazione di un vasto specchio d’acqua chiamato Mare Nuovo.
I primi coloni ad arrivare in questa località (profughi che fuggivano dalla devastazione più a nord) erano dei visionari, che subito videro il vantaggio di edificare qui. La configurazione del terreno formava un porto naturale. Le navi che presto avrebbero solcato le acque del Mare Nuovo potevano attraccare qui, imbarcare merci, effettuare raddobbi e riparazioni, tutto quanto necessario.
La città ebbe un inizio modesto, con una fortificazione prospiciente il porto. La rapida crescita di New Port ben presto andò oltre la fortificazione e si espanse sul lungomare e all’interno.
«Come un figlio ingrato che scopre la ricchezza e il successo e poi si rifiuta di riconoscere gli umili genitori che lo hanno messo al mondo, le parti ricche della città adesso sono molto lontane dalla modesta zona portuale che è stata l’origine del successo», spiegò Patrick, scrollando malinconicamente il capo.
«I fiorenti mercanti che finanziano le navi e possiedono i magazzini vivono lontano dal fetore di pece e di teste di pesce. Bordelli e bettole per il gioco d’azzardo e taverne come Lo Scafo hanno soppiantato esercizi più rispettabili nella zona del porto. Gli alloggi sono a buon mercato vicino alle banchine, perché nessuno che abbia mezzi vuole vivere lì.»
Oltrepassarono file su file di abitazioni cadenti fatte di legno prelevato da magazzini abbandonati, e percorsero strade deprimenti tappezzate di fango. Incrociarono marinai ubriachi e donne lascive. Anche se era passata la mezzanotte, diversi bambini correvano da loro per mendicare monete o rovistavano in mucchi di rifiuti nella speranza di trovare da mangiare. Ogni volta che si imbattevano in simili bambini, Patrick si fermava a parlare con loro, prima di proseguire il cammino.
«Io e mia moglie abbiamo avviato una scuola quaggiù fra le banchine», spiegò. «Insegniamo ai bambini a leggere e scrivere e li mandiamo a casa con almeno un buon pasto nello stomaco. Speriamo di aiutare alcuni di loro a trovare una vita migliore al di fuori di questo luogo disgraziato.»
«Gli dèi benedicano il dono e il donatore», disse a bassa voce Rhys.
«Facciamo quello che possiamo, fratello», disse Patrick, con un sorriso e un sospiro. «Facciamo quello che possiamo. Eccoci. Entrate. Sì, Atta, puoi venire anche tu.»
Il Tempio di Mishakal non era un edificio grandioso, ma una costruzione modesta che evidentemente aveva subito recenti riparazioni, poiché odorava fortemente di imbiancatura. L’unico segno che fosse un tempio era il simbolo sacro di Mishakal da poco dipinto su un muro.
Rhys stava per entrare quando alla luce della lanterna vide qualcosa che lo fece arrestare di colpo, per cui Nightshade lo urtò.
Affissa all’esterno del piccolo tempio, inchiodata al muro, vi era una missiva recante le parole, scritte a grandi lettere con inchiostro rosso: Attenti ai Prediletti di Chemosh!
Più sotto vi era un paragrafo di testo che descriveva i Prediletti, invitando la gente a cercare il marchio del «bacio di Mina» e avvertendo di evitare di pronunciare promesse solenni di servire il Signore della Morte.
«Ah», disse Patrick, vedendo Rhys accigliarsi, «sapete di questi Prediletti di Chemosh?».
«Con mio dolore, sì», rispose Rhys.
«Pensate che il vostro avviso contribuisca a fermare i Prediletti?» domandò Nightshade al chierico.
«No, non proprio», rispose malinconicamente Patrick. «Poche persone qui in giro sanno leggere, ma noi parliamo con tutti coloro che entrano nel nostro tempio, invitandoli a essere prudenti.»
«Qual è stata la reazione?» domandò Rhys.
«Come potete immaginare. Alcuni adesso temono che tutti quelli che incontrano siano intenzionati a ucciderli. Altri pensano che sia un complotto per cercare di obbligare la gente a entrare a far parte della chiesa.» Patrick sorrise amaramente e alzò le spalle. «La maggior parte si fa beffe dell’idea nel suo complesso. Ma noi potremo parlarne ulteriormente domattina. Adesso venite al vostro letto.»
Li sollecitò a entrare e li condusse in una stanza dove era stata predisposta una fila di brande. Diede loro le coperte e augurò la buona notte.
«Possa la benedizione di Mishakal proteggere il vostro riposo stanotte, amici miei», disse mentre se ne andava.
Rhys si stese sulla branda, e forse Mishakal lo toccò effettivamente con delicatezza, perché per la prima volta da molte notti lunghe e sfinite non sognò il suo disgraziato fratello.
Rhys non sognò nulla.
Rhys si alzò alle prime luci e trovò Nightshade che divorava allegramente una scodella di pane e latte in compagnia di una donna di bell’aspetto che si presentò come Riverita Sorella Galena. Invitò Rhys a sedersi e a fare colazione. Lui obbedì contento, poiché scoprì di essere insolitamente affamato.
«Solo se mi è consentito di svolgere del lavoro per voi come pagamento», soggiunse con un sorriso.
«Non è necessario, fratello», disse Galena. «Ma io so che non volete sentirvi rispondere di no, per cui accetto la vostra offerta con sentiti ringraziamenti. Mishakal sa che ci serve tutto l’aiuto possibile.»
«Io e il kender dobbiamo prima curare una certa questione», disse Rhys, lavando i propri piatti, «ma ritorneremo nel pomeriggio».
«Io posso restare qui, Rhys?» domandò ansiosamente Nightshade. «A te non serve realmente il mio aiuto, e la Riverita Sorella ha detto che mi insegna a imbiancare i muri!»
Rhys guardò incerto Galena.
La donna gli rivolse un ampio sorriso. «Certo che può rimanere.»
«Molto bene», disse Rhys. Trasse da parte Nightshade. «Devo andare a cercare Lleu. Ci rivediamo qui. Non dire niente sul fatto che conosci un Prediletto», soggiunse sottovoce. «Non dire niente di Zeboim né di Mina né sul fatto di essere capace di parlare ai morti né di essere un "nightstalker"...»
«Non dirò niente di niente», rispose Nightshade annuendo saggiamente.
«Bene», disse Rhys. Sapeva che il suo consiglio sarebbe stato inutile, ma si sentiva tenuto a provarci. «E tieni le mani a posto. Adesso devo andare. Atta, sorveglialo!»
Puntò il dito verso il kender. Nightshade era andato ad aiutare Galena a lavare i piatti e naturalmente le prime parole che gli uscirono di bocca furono: «Dite, Riverita Sorella, avete qualcuno in famiglia che sia deceduto di recente? Perché, in tal caso...».
Rhys sorrise e scrollò il capo e andò alla ricerca di Lleu.
Trovò suo fratello che passeggiava sui moli in compagnia di una giovane donna, la quale aveva un neonato in braccio e un bambino di circa quattro anni che le camminava accanto, aggrappato alla lunga gonna. Lleu era quanto mai affascinante. La giovane donna lo guardava con occhi adoranti, pendendo da ogni sua parola.
Era carina, anche se troppo magra e col viso che quando era serio appariva smunto. Il suo sorriso pareva forzato. La sua risata era acuta, troppo forte. Sembrava decisa a gradire Lleu e ancora più decisa a farsi gradire da lui.
«Non sei venuta all’appuntamento stanotte», stava dicendo Lleu.
«Mi dispiace», rispose la giovane donna, preoccupata. «Non sei arrabbiato con me, vero? Quella vecchiaccia che doveva venire a tenere i bambini non si è fatta vedere.»
Lleu alzò le spalle. «Non sono arrabbiato. Riesco sempre a trovare una compagnia piacevole...»
La giovane donna si fece ancora più preoccupata. «Ho un’idea. Puoi venire da me stasera, dopo che ho messo a dormire i bambini.»
«Molto bene», disse Lleu. «Dimmi dove abiti.»
Gli diede indicazioni. Lui la baciò sulla guancia, accarezzò la testa del bambino più grande e diede un buffetto sul mento al neonato.
A Rhys venne il voltastomaco alla vista del Prediletto che accarezzava i bambini e lui fece del proprio meglio per restare zitto. Lleu finalmente si allontanò, diretto senza dubbio a un’altra osteria. Rhys seguì la giovane donna, che entrò in una delle stamberghe vicino alle banchine. Rhys attese un attimo, valutando la propria linea di condotta, quindi si decise. Attraversando la strada, bussò alla porta della donna.
La porta si aprì di una fessura. La giovane donna sbirciò fuori.
Parve sbigottita nel vedere un monaco e aprì la porta un po’ di più. «Ebbene, fratello, che posso fare per voi?»
«Mi chiamo Rhys Mason. Voglio parlarvi di Lleu. Posso entrare?» domandò Rhys.
La giovane donna divenne improvvisamente fredda. «No, non potete. Quanto a Lleu, io so quello che faccio. Non ho bisogno di prediche sui miei peccati, per cui andate alle vostre occupazioni, fratello, e lasciate me alle mie.»
Fece per chiudere la porta. Rhys frappose il bastone tra la porta e l’intelaiatura, tenendola aperta.
«Quello che ho da dire è importante, signora. La vostra vita è in pericolo.»
Rhys vedeva, oltre le spalle di lei, il neonato disteso su una coperta in un pagliericcio nell’angolo della stanzetta. Il bambino più grande era dietro la donna e osservava Rhys con gli occhi spalancati. La donna, seguendo il movimento degli occhi di lui, spalancò la porta.
«La mia vita!» Emise una risata amara. «Ecco la mia vita! Sporcizia e squallore. Guardate voi stesso, fratello. Io sono una giovane vedova rimasta indigente, con due bambini piccoli e a malapena ciò che serve per tenere assieme anima e corpo. Non posso uscire a lavorare, perché ho paura di lasciare soli i bambini, per cui mi porto a casa da cucire. In questo modo pago a malapena l’affitto di questo posto orribile.»
«Come vi chiamate, signora?» domandò gentilmente Rhys.
«Camille», rispose lei scontrosa.
«Pensate che Lleu possa aiutarvi, Camille?»
«Mi serve un marito», disse lei con tono duro. «Ai miei figli serve un padre.»
«E i vostri genitori?» domandò Rhys.
Camille scrollò il capo. «Io sono sola al mondo, fratello, ma non per molto. Lleu ha promesso di sposarmi. Io farò tutto quello che sarà necessario per tenermelo accanto. Quanto al fatto che la mia vita sia in pericolo», lo schernì, «lui sarà un po’ troppo attaccato al bere, ma è innocuo.»
Alle sue spalle il neonato si mise a piangere.
«Adesso devo andare a prendermi cura del bambino...» Cercò di nuovo di chiudere la porta.
«Lleu non è innocuo», disse seriamente Rhys. «Avete sentito parlare di Chemosh, il Dio della Morte?»
«Io non so niente di dèi, fratello, e non mi interessa! Adesso devo lasciarvi, o devo forse chiamare la guardia civica?»
«Lleu non vi sposerà, Camille. Ha prenotato un posto a bordo di una nave per Flotsam. Parte domani da New Port.»
La giovane donna lo fissò. Il volto impallidì, le labbra le tremarono. «Non vi credo. Me l’ha promesso! Adesso andate! Andate e basta!»
Il neonato ormai piangeva freneticamente. Il bambino più grande faceva del suo meglio per calmarlo, ma il neonato non voleva saperne.
«Pensate a quello che vi ho detto, signora Camille», la supplicò Rhys. «Non siete sola. Il Tempio di Mishakal non è lontano da qui. Ci siete passata accanto lungo la strada. Andate dai chierici di Mishakal. Assisteranno voi e i vostri figli.»
La donna lo spinse via, scalciò il suo bastone.
«Lleu ha un marchio sul petto», proseguì Rhys. «Il marchio delle labbra di una donna impresso a fuoco nella carne. Cercherà di indurvi a offrire la vostra anima a Chemosh. Non fatelo, signora! Se lo fate, siete perduta! Guardatelo negli occhi!» supplicò. «Guardatelo negli occhi!»
La porta si chiuse sbattendo. Rhys rimase fuori sulla strada, ascoltando le urla del neonato e la voce della madre che cercava di calmarlo. Si domandò che fare. Se questa giovane donna fosse caduta vittima di Lleu, avrebbe abbandonato i propri figli per accompagnarsi al Signore della Morte.
Quindi Rhys si rammentò della missiva affissa al muro del tempio, e il cuore gli si tranquillizzò. Non era solo nella sua battaglia contro i Prediletti. Non più. Poteva cercare aiuto.
Rhys ritornò dai chierici di Mishakal e nel loro umile tempio trovò Nightshade che allegramente imbiancava le pareti, e Atta distesa sotto un tavolo che contenta si sgranocchiava un osso. La cagna scodinzolò quando vide Rhys ma non avrebbe abbandonato l’osso per andare a salutarlo.
«Guarda, Rhys, sto lavorando!» gridò con orgoglio Nightshade, agitando il pennello e spruzzando pittura bianca su se stesso e sul pavimento. «Ho già pagato la cena.»
«Gli ho detto che noi diamo da mangiare a tutti quelli che ne hanno bisogno», disse Patrick. «Ma lui ha insistito. È un kender particolarmente insolito.»
«Sì, davvero», disse Rhys. Fece una pausa e poi disse a bassa voce: «Riverito Figlio, devo parlarvi di una questione importante».
«Pensavo proprio di sì», rispose Patrick. «Il vostro amico ci ha raccontato delle storie molto interessanti. Prego, fratello, sedetevi.»
Galena portò a Rhys una scodella di stufato. Patrick gli rimase seduto accanto mentre lui mangiava, tenendogli compagnia. Si rifiutò di lasciare parlare Rhys di cose serie finché non ebbe finito di mangiare, spiegando che faceva male alla digestione.
Pensando a ciò che doveva dire, Rhys concordò. Invece sollecitò Patrick a raccontare la sua storia.
«Io e mia moglie eravamo entrambi mistici nella Cittadella della Luce. Quando sono ritornati gli dèi, i capi della Cittadella hanno deciso che a tutti i mistici sarebbe stata presentata una scelta: potevamo servire gli dèi oppure potevamo rimanere mistici. La nostra fondatrice, Goldmoon, faceva entrambe le cose, e i capi ritenevano che lei avrebbe voluto così. Io e mia moglie abbiamo pregato per avere indicazioni e la Signora Bianca è giunta in sogno a ciascuno di noi, chiedendoci di seguirla, e così abbiamo fatto. Noi siamo originari di New Port. Sapevamo che qui c’era grande bisogno e abbiamo deciso di ritornare per fare quello che potevamo per essere d’aiuto. Stiamo cominciando con la scuola per bambini e con una casa di guarigione. Un inizio umile, ma per lo meno è un inizio. Nessuno degli altri dèi ha una presenza in questa città; a parte Zeboim, naturalmente», soggiunse Patrick con un sospiro e un’occhiata di traverso a Rhys.
Lui non disse niente, ma continuò a mangiare.
«Il tempio di Zeboim fu l’ultimo che la gente abbandonò dopo la scomparsa degli dèi, e il primo a cui ritornò. In effetti alcuni non l’hanno mai abbandonato. Continuavano a portare doni, anno dopo anno. "Con la Strega del Mare non si sa mai", dicono da queste parti. "Forse sta praticando uno dei suoi giochini. Noi non osiamo rischiare".»
Rhys guardò Nightshade, che spruzzava allegramente pittura dappertutto. Un bel po’ arrivava effettivamente alla parete. Rhys abbassò la mano e accarezzò la testa di Atta.
«Perdonatemi se ve lo domando, fratello», disse Patrick dopo un momento, «voi siete evidentemente un monaco, ma non conosco il vostro ordine...».
«Io ero monaco di Majere», rispose Rhys. «Non lo sono più. Era ottimo», disse a Galena, che gli portava via la scodella. «Grazie.»
Patrick pareva sul punto di dire qualcos’altro, poi cambiò idea. Galena portò i piatti in cucina prima di tornare a sedersi accanto al marito.
«Di che cosa volete parlare con noi, fratello?» domandò Patrick.
«Dei Prediletti», disse Rhys.
L’espressione di Patrick si rabbuiò. «Nightshade ci ha detto che voi siete sulle tracce di uno di loro e che questi è qui, nella nostra città. È una brutta notizia, fratello.»
«C’è di peggio. Il Prediletto si è messo con una giovane donna. Temo che voglia farle del male. Ho cercato di avvertirla, ma è una vedova con due bambini ed è disperatamente bisognosa. Pensa che lui voglia sposarla e si è rifiutata di ascoltare i miei avvertimenti. Lui andrà a trovarla stasera. Dobbiamo fermarlo.»
«A giudicare dalle informazioni sui Prediletti che abbiamo ricevuto dalla Cittadella, fermarlo non sarà facile», disse Galena, turbata.
«Eppure dobbiamo fare qualcosa», disse Patrick. «Avete qualche idea, fratello?»
«Potremmo cercare di arrestarlo. Rinchiuderlo in una cella di prigione. Indubbiamente scapperà di prigione», ammise Rhys. «Serrature e sbarre di ferro non saranno un grosso ostacolo per lui, ma per lo meno questa giovane donna e i suoi figli saranno salvi. Voi potete prenderli in custodia, tenerla lontano da lui finché Lleu non avrà lasciato la città.»
«Quando se ne andrà?»
«Lleu ha prenotato un posto su una nave che salpa da New Port. Intende partire domani.»
«Allora attaccherà qualcun altro.» Patrick si accigliò. «Non mi piace lasciarlo andare.»
«Io sto cercando di procurarmi un posto sulla stessa nave. Continuerò a fare quello che posso per impedire a Lleu di fare del male a qualcuno.»
«Ugualmente non mi piace», disse Patrick.
Galena gli posò la mano sul braccio. «Lo so come ti senti, però, marito mio, pensa a questa povera giovane madre! Dobbiamo salvare lei e i suoi figli.»
«Certamente», disse subito Patrick. «La nostra prima preoccupazione deve essere per lei. Poi decideremo che cosa fare col Prediletto. Dov’è adesso?»
«L’ho lasciato in un’osteria. Passerà lì la giornata, uscirà di notte.»
«Non sarebbe meglio per noi arrestarlo lì?»
«Ci ho pensato», disse Rhys. «Ma questa giovane donna è quel tipo di persona vulnerabile che Chemosh va a cercare. Noi possiamo fermare questo Prediletto, ma che faremo col prossimo che la troverà? Bisogna che lei veda da sola il pericolo.»
«Davvero ci sono in giro tanti di questi mostri?» domandò Galena, sconvolta.
«Non abbiamo modo di saperlo», disse Rhys. «Ma è certo che il loro numero aumenta ogni giorno.»
Nightshade arrivò per unirsi a loro, lasciando sul pavimento una scia di schizzi di pittura.
«Io ne ho visti dieci ieri», riferì. «Giù al porto e su in città.»
«Dieci!» Galena era inorridita. «È terribile.»
«Lleu deve incontrarsi con questa donna stasera a casa sua. Possiamo catturarlo quando arriva.»
«Siete certo che sia uno dei Prediletti?» domandò Patrick, guardando intensamente Rhys. «Perdonatemi se ve lo domando, fratello, ma il nostro timore è che gli innocenti soffrano accanto ai colpevoli.»
«Lleu è, o era, mio fratello», rispose Rhys. «Ha assassinato i nostri genitori e i confratelli del mio Ordine. Ha cercato di assassinare me.»
L’espressione di Patrick si addolcì. Guardò Rhys come se adesso molte cose avessero acquistato un senso. «Mi dispiace veramente, fratello. Dove abita questa donna?»
«Non lontano», disse Rhys. Scrollò il capo. «Non so descrivervi l’ubicazione esatta. La sua abitazione è una fra tante sulla strada, e sembrano tutte uguali. Sarà più facile per me condurvi lì. Dovreste chiamare la guardia civica.»
«Saremo pronti, fratello.»
«Io ritornerò all’imbrunire», disse Rhys. Prendendo il bastone, si alzò in piedi. «Grazie per il pranzo.»
«Non c’è bisogno che ve ne andiate, fratello. Dovreste restare qui e riposare. Sembrate sfinito.»
«Magari potessi», rispose Rhys, e diceva sul serio. La pace di questo luogo tranquillo era un balsamo calmante per la sua anima tormentata. «Ma devo incontrarmi di nuovo col capitano della nave, cercare ancora una volta di persuaderlo a prenderci come passeggeri.»
«Pensa che i kender portino sfortuna», disse allegramente Nightshade. «Io gli ho detto che potrei rendere davvero interessante il viaggio. Ho visto le anime di un bel po’ di marinai morti vagare attorno alla nave, e gli ho detto che tutti volevano parlare con lui. Non sembrava contento di sentire queste cose, però. Si è proprio arrabbiato, specialmente quando io ho menzionato l’ammutinamento e il fatto che li avesse impiccati tutti ai pennoni. Credo che provino ancora animosità.»
Rhys guardò Patrick e tossì. «Non penso che possiate continuare a tenervi il kender...»
«Certamente. Oggi ci è stato di grande aiuto.»
«Può pitturare il pavimento oltre che le pareti», soggiunse Galena, con un’occhiata alla scia di schizzi bianchi.
Rhys fischiò ad Atta, che lasciò con rammarico il suo osso.
«Lo terrò per lei», si offrì Galena. Raccolse l’osso e lo mise su uno scaffale. Atta mantenne il proprio sguardo geloso sull’osso a ogni passo.
«Fratello», disse Patrick, accompagnando Rhys alla porta, «potreste pensare di avvalervi dell’aiuto del chierico di Zeboim. Ha un influsso potente su questi capitani di navi. Saranno disposti ad ascoltarlo, e lui sarà più che disposto ad ascoltare voi».
«Buona idea, Riverito Figlio», disse a bassa voce Rhys. «Grazie.»
«Vi ricorderemo nelle nostre preghiere, fratello», soggiunse Patrick mentre Rhys e Atta si congedavano.
«Pregate per quella giovane donna», disse Rhys. «Le vostre preghiere saranno spese meglio.»
Patrick rimase sulla soglia a osservare Rhys andarsene lungo la strada. Il bastone del monaco faceva tonfi sull’acciottolato. La cagna bianca e nera gli camminava furtivamente al fianco.
Pensoso, Patrick si allontanò.
«Dove vai, caro?» domandò Galena.
«A fare due chiacchiere con Mishakal», rispose.
«Riguardo a quella donna?»
«Io e te possiamo prenderci cura di lei.» Patrick tornò a guardare fuori dalla finestra e vide Rhys e Atta scomparire dietro l’angolo. «Questo è un problema che soltanto la dea può risolvere.»
«E quale sarebbe?» domandò sua moglie.
«Un’anima perduta», rispose Patrick.
Rhys valutò seriamente il consiglio di Patrick riguardo al sacerdote di Zeboim. Decise alla fine di andare da solo dal capitano della nave. A Rhys non piaceva l’idea di essere obbligato verso la dea più di quanto non fosse già, o meglio, di quanto lei pensasse. A dire la verità, aveva fatto più lui per la dea di quanto questa avesse fatto per lui.
Fu fatto aspettare per ore, poiché il capitano di una nave in procinto di salpare è un uomo indaffarato e non ha tempo per parlare con potenziali passeggeri, specialmente con quelli che non possono pagarsi il viaggio. Il pomeriggio avanzò e finalmente, a una tarda ora del giorno, il capitano disse a Rhys che poteva dedicargli qualche istante.
Rhys alla fine persuase l’uomo ad accettare lui e Atta a bordo della nave. Il capitano fu però irremovibile riguardo a Nightshade. Un kender a bordo portava sfortuna. Lo sapevano tutti.
Rhys sospettava che questa fosse una superstizione che il capitano avesse appena opportunamente inventato, ma il capitano fu sordo a tutte le sue argomentazioni. Rhys alla fine e con riluttanza accettò di lasciare a terra il kender.
«Ci mancherà Nightshade, vero, Atta?» disse Rhys al cane mentre ritornavano verso il tempio.
Atta alzò lo sguardo verso di lui con i suoi dolci occhi marroni e scodinzolò leggermente stringendosi a lui. Non capiva le sue parole, ma sapeva dal tono che Rhys era triste e faceva quello che poteva per offrirgli conforto.
A Rhys davvero sarebbe mancato Nightshade. Non certo una persona facile a fare amicizia, Rhys aveva trovato conforto nella compagnia degli altri monaci, ma tra loro non aveva avuto veri amici. Non aveva avuto bisogno di amici. Aveva il suo cane e il suo dio.
Rhys aveva perso il suo dio e i suoi confratelli, ma aveva trovato un amico nel kender. Ripensando alle ultime tetre settimane, Rhys sapeva con certezza che non sarebbe riuscito ad andare avanti se non fosse stato per Nightshade, la cui visione allegra della vita e il cui ottimismo incrollabile avevano tenuto a galla Rhys quando le acque tenebrose erano parse chiudersi sopra di lui. Il coraggio del kender e (per quanto sembrasse strano parlando di un kender) il suo buonsenso avevano tenuto in vita entrambi.
«I chierici di Mishakal lo terranno con loro», disse Rhys ad Atta. «La dea ha sempre avuto un debole per i kender.» Sospirò profondamente e scrollò il capo. «La parte più difficile sarà convincerlo a restare qui. Dovremo sgattaiolare via quando lui dorme, andarcene furtivamente prima che lui sappia che non ci siamo più. Per fortuna la nave salpa con l’alta marea e questo vuol dire all’alba...»
Pensando a Nightshade, Rhys non prestava particolare attenzione a dove stesse andando e all’improvviso scoprì di avere preso una direzione sbagliata. Si trovava in una parte della città a lui completamente sconosciuta. Si infastidì per questo errore, e il fastidio si accrebbe diventando preoccupazione quando notò che l’ora era molto più tarda di quanto avesse pensato. Il cielo era di un colore rosa-rossastro; il sole calava dietro agli edifici. La gente attorno a lui correva a casa per la cena.
Temendo di far tardi al suo appuntamento con i chierici e la guardia civica, Rhys ritornò di corsa sui suoi passi, e dopo avere fermato diverse persone per chiedere indicazioni, lui e Atta si trovarono di nuovo sulla strada che conduceva al tempio.
Rhys camminava quanto più veloce potesse, con Atta a trotterellargli dietro, e senza guardare dove stesse andando. La prima avvisaglia che qualcosa fosse andato storto fu Atta che cercava di spingerlo fuori strada premendogli il corpo contro la gamba. La cagna lo faceva spesso, poiché Rhys talvolta restava tanto assorto nelle sue meditazioni che sarebbe finito a capofitto contro gli alberi o sarebbe ruzzolato nei ruscelli se la cagna non fosse stata lì a tenerlo d’occhio.
Sentendo il peso della cagna contro di sé, Rhys alzò la testa e guardò dritto la luce vivida di una lanterna. La luce lo accecò, per cui non distinse i dettagli di coloro che aveva quasi investito, a parte che era un gruppo di forse sei uomini.
Agilmente scartò di lato per evitare un urto col primo della fila, dicendo con contrizione: «Mi dispiace tanto, signore. Sono di fretta e non stavo guardando...».
La voce gli venne meno. Il fiato gli morì in gola. I suoi occhi si erano abituati alla luce e adesso Rhys poteva vedere chiaramente il colore arancione bruciato delle vesti sacerdotali e il simbolo della rosa di Majere.
Il sacerdote sollevò la lanterna in modo che la luce illuminasse Rhys, il quale non riusciva a credere alla sua sfortuna. Era stato così attento a evitare i sacerdoti di Majere. Adesso si era letteralmente imbattuto in sei di loro. Peggio ancora, il sacerdote alla testa, quello con la lanterna, era, a giudicare dall’abbigliamento, un abate.
L’abate fissava con stupore Rhys, rivolgendo uno sguardo sbalordito al monaco che indossava le vesti di Majere, ma col colore verde acqua di Zeboim. Lo stupore si incupì diventando disapprovazione e, peggio ancora, riconoscimento. L’abate fece ondeggiare la lanterna più vicino al viso di Rhys, cosicché lui fu costretto a distogliere gli occhi dalla luce vivida.
«Rhys Mason», disse severamente l’abate. «Ti stavamo cercando.»
Rhys non aveva tempo per questo. Doveva raggiungere il tempio di Mishakal. Era l’unico che sapesse dove trovare Lleu, il quale probabilmente era già diretto verso la casa della giovane donna.
«Scusatemi, eccellenza, ma sono in ritardo per un appuntamento urgente.» Rhys si inchinò e fece per andarsene.
L’abate afferrò Rhys per il braccio, trattenendolo.
«Perdonatemi, eccellenza», disse Rhys educatamente ma con fermezza. «Sono in ritardo.»
Fece un movimento rapido e abile per sfuggire alla presa dell’abate. Purtroppo l’abate era pure addestrato nell’arte della «disciplina misericordiosa» ed eseguì un’abile contromossa che mantenne Rhys nella sua morsa. Atta, ai piedi di Rhys, ringhiò minacciosa.
L’abate fissò la cagna con lo sguardo severo e sollevò la mano con un gesto imperioso. Atta si stese sul ventre e si mise la testa fra le zampe. Il suo ringhio si smorzò. Atta scodinzolava debolmente.
L’abate si rivolse di nuovo a Rhys.
«Scappi da me, fratello?» domandò l’abate con un tono che era più addolorato che critico.
«Perdonatemi, eccellenza», disse di nuovo Rhys. «Sono di fretta. È una questione di vita o di morte. Per favore, lasciatemi andare.»
«L’anima immortale è più importante del corpo, fratello Rhys. Questa vita è fuggevole, l’anima è eterna. Ho ricevuto notizie secondo cui la tua anima è in pericolo.» L’abate teneva saldamente Rhys. «Ritorna con noi al tempio. Parleremo con te e troveremo un modo per riportare al gregge la pecorella smarrita.»
«Niente mi aggraderebbe di più, eccellenza», rispose seriamente Rhys, «e prometto che verrò al vostro tempio più tardi stasera. Adesso, come vi ho detto, sono richiesto con urgenza altrove. La vita che è in pericolo non è la mia...».
«Perdonami se non mi fido interamente di te, fratello Rhys», disse l’abate.
I sacerdoti di Majere, stringendosi attorno a lui, annuirono con le teste incappucciate.
«I membri del nostro Ordine stanno perlustrando Ansalon alla tua ricerca, e adesso che ti abbiamo trovato intendiamo tenerti. Vieni, procedi con noi, fratello.»
«Non posso, eccellenza!» Rhys incominciava a incollerirsi. «Venite voi con me, se non mi credete! Io vado al tempio di Mishakal. Io e i suoi chierici siamo sulle tracce di uno dei Prediletti, che intende togliere la vita a una giovane madre.»
«Tu sei forse lo sceriffo di questa città, fratello?» domandò l’abate. «È forse tua responsabilità arrestare i criminali?»
«In questo caso, sì!» ribatté Rhys.
Il cielo ormai era buio, erano spuntate le stelle. La giovane donna avrebbe messo a letto i piccoli e sarebbe rimasta sveglia, in attesa di Lleu. «Il Prediletto è, o era, il mio disgraziato fratello. Io sono l’unico che possa riconoscerlo.»
«Nightshade lo conosce», disse imperturbabile l’abate. «Il kender può indicarlo alle guardie.»
Rhys fu colto alla sprovvista. L’abate sembrava sapere tutto di lui.
«Il kender conosce Lleu, ma non sa dove abiti questa giovane donna. Io non l’ho detto né a lui né ai chierici di Mishakal.»
«Perché no?», domandò l’abate. «Avresti potuto fornire ai chierici l’ubicazione della casa della giovane donna.»
Rhys brancolò alla ricerca di una risposta. «Tutte le abitazioni sembrano uguali. Sarebbe stato difficile...»
«Puoi mentire agli altri se necessario, fratello Rhys. Non mentire mai a te stesso. Tu vuoi essere presente. Tu vuoi annientare con le tue mani il mostro che un tempo era tuo fratello. Tu ne hai fatto una vendetta personale, Rhys Mason. Sei consumato dall’odio e dal desiderio di vendicarti, eppure», soggiunse il sacerdote, addolcendo la voce, «Majere ancora ti ama».
Toccò con riverenza il bastone che Rhys teneva in mano.
Come un fulmine che illuminasse il buio, trasformando la notte in un giorno terribile, Rhys vide se stesso con estrema chiarezza. L’abate diceva la verità. Rhys avrebbe potuto fornire a Patrick l’ubicazione dell’abitazione della giovane donna. L’aveva tenuta per sé apposta. Voleva essere presente. Voleva affrontare suo fratello, ed era stato disposto a sacrificare la vita della giovane donna per quella sua odiosa necessità.
Rhys desiderava ardentemente cadere a terra ai piedi dell’abate. Desiderava ardentemente sputare fuori il veleno che lo divorava dentro. Desiderava ardentemente chiedere misericordia, perdono.
L’abate gli teneva l’avambraccio. Lasciando cadere il bastone, Rhys con la mano libera prese il braccio dell’abate e, dando uno strattone, fece perdere l’equilibrio all’abate e lo scaraventò a terra.
«Atta, sorveglialo!» ordinò Rhys.
La cagna balzò in piedi. Non attaccò l’abate. Rimase sopra di lui, con i denti scoperti, ringhiando un avvertimento. L’abate le disse qualcosa, ma Atta adesso aveva ordini diretti del suo padrone e non gli avrebbe disobbedito.
«Fratello Rhys...» esordì l’abate.
«Non vi farà del male se non vi muovete, eccellenza», fece notare freddamente Rhys. Osservava gli altri sacerdoti, che adesso lo circondavano.
Rhys sollevò il bastone col piede e se lo spinse in mano. Si domandò imbarazzato se il bastone avrebbe continuato a combattere per lui. Dopo tutto, lui si stava opponendo ai servi di Majere. Tenne il bastone davanti a sé, quasi aspettandosi che si spezzasse e andasse in frantumi. Il bastone rimase saldo e al tatto pareva caldo e confortevole.
«Non voglio far del male a nessuno di voi», disse Rhys ai sacerdoti. «Lasciatemi passare.»
«Neanche noi vogliamo farti del male, fratello», disse uno dei sacerdoti, «ma non abbiamo intenzione di lasciarti andare».
Intendevano provare a soggiogarlo, a renderlo inerme. Rhys teneva in mente l’immagine della giovane donna e del destino terribile che la attendeva. I cinque sacerdoti si avventarono contro di lui, intendendo trascinarlo a terra.
Rhys portò colpi col bastone. Colpì uno dei sacerdoti sul lato della testa, abbattendolo. Conficcò l’estremità del bastone nello stomaco di un altro sacerdote, facendolo piegare in due, e colse un terzo sulla nuca, il tutto in un turbinio di mosse che richiese appena qualche istante.
Vide subito che i sacerdoti non erano ben addestrati nell’arte della disciplina misericordiosa quanto l’abate, poiché i due che ancora restavano in piedi indietreggiarono, osservandolo guardinghi. L’abate dovette cercare di alzarsi, poiché Rhys udì Atta abbaiare e fare scattare le mascelle. Guardò indietro e vide l’abate che si torceva una mano sanguinante.
Rammaricandosi disperatamente di avere percorso questa strada, di avere messo piede in questa città, Rhys piantò l’estremità larga del bastone saldamente sull’acciottolato e afferrandolo con entrambe le mani lo usò per lanciarsi in aria. Volteggiò sopra le teste dei sacerdoti sbigottiti e atterrò sul marciapiede alle loro spalle. Fischiando ad Atta, Rhys schizzò via lungo la strada.
Arrischiò un’occhiata all’indietro, pensando che lo inseguissero, ma vide soltanto Atta sfrecciare alle sue calcagna. Due sacerdoti si prendevano cura dei caduti. L’abate si massaggiava la mano sanguinante e guardava verso Rhys con espressione addolorata.
Rhys si tolse dalla mente ogni pensiero riguardo ai peccati che aveva commesso, mentre correva.
Raggiunse il tempio di Mishakal e trovò Patrick, sua moglie e Nightshade, assieme alla guardia civica, riuniti davanti all’edificio. Nightshade camminava avanti e indietro, scrutando su e giù per la strada.
«Fratello, siete in ritardo!» gridò Patrick.
«Dove sei stato?» piagnucolò Nightshade, aggrappandosi a lui. «È già buio da un pezzo!»
«Venite con me!» ansimò Rhys. Si scrollò di dosso il kender e continuò a correre.
La giovane madre si chiamava Camille.
Figlia unica di un ricco mercante vedovo, era stata allevata con ogni capriccio ed era testarda e viziata. Quando, a sedici anni, si era innamorata di un marinaio, aveva caparbiamente ignorato il comando di suo padre ed era fuggita per sposare il marinaio. Poco dopo erano arrivati due figli.
Suo padre si era rifiutato di avere più niente a che fare con lei ed era arrivato a modificare il testamento per lasciare il proprio denaro ai soci in affari. Il tempo avrebbe potuto addolcire il vecchio, che amava veramente sua figlia, ma lui morì nel giro di una settimana dopo avere apportato la modifica. Poco dopo la morte del padre di lei, il marito di Camille cadde dal sartiame della nave e si ruppe l’osso del collo.
Adesso era vedova, indigente, con due bambini piccoli da mantenere. La sua vecchia governante le aveva insegnato ad appassionarsi al cucito, e Camille, mandando giù il proprio orgoglio, fu costretta ad andare a chiedere lavoro nelle case delle giovani donne ricche che un tempo erano state sue pari.
La cosa non le procurava molto denaro. Aveva ventun’anni, era sola, mezzo morta di fame e disperata. L’unica altra cosa che avesse da vendere era il proprio corpo, e stava affrontando l’orribile scelta fra darsi alla prostituzione o vedere morire di fame i propri figli, quando conobbe Lleu.
Con le sue maniere affascinanti e il suo bell’aspetto, Lleu sarebbe stato la risposta alle sue preghiere, a parte il fatto che Camille non pregava mai. Aveva sentito parlare degli dèi (qualche vago accenno al fatto che fossero ritornati dopo una lunga assenza) ma era più o meno tutto qui. Remoti e distanti, gli dèi non avevano nulla a che vedere con lei.
Lleu invece era la soluzione ai suoi problemi. Camille non amava Lleu. Era decisa a sposarlo, però. Lleu avrebbe mantenuto lei e i suoi figli, e in cambio Camille sarebbe stata per lui una buona moglie. L’idea che lui potesse ingannarla non le passò mai per la testa. Anche se l’aveva conosciuto soltanto da un paio di giorni, Lleu sembrava stravedere per lei e per i suoi figli. Quando venne a sapere dal monaco che Lleu aveva prenotato un posto su una nave, Camille percepì un colpo alla bocca dello stomaco e trovò facile convincersi che il monaco stesse mentendo.
Diede ai figli quella scarsa quantità di cibo che vi era in casa, restando lei senza mangiare. Mise a letto il neonato, quindi trascorse del tempo a parlare col figlio più grande, un bambino di quattro anni, promettendogli che presto avrebbe avuto un nuovo papà, che l’avrebbe amato teneramente, e che vi sarebbe stato molto da mangiare e vestiti caldi da indossare e una bella casa nuova dove avrebbero tutti vissuto assieme.
Il bambino si addormentò fra le sue braccia, e lei lo portò al pagliericcio nell’angolo di quell’abitazione con un’unica stanza, e lo coricò. Gli rimboccò attorno una coperta, quindi fece quello che poteva fare per rendersi carina. Si sedette sull’unica sedia traballante per aspettare Lleu.
Arrivò più tardi del previsto. Puzzava di liquore dei nani ma non pareva ubriaco. La salutò col suo solito sorriso affascinante e la baciò sulla guancia. Si chiuse la porta dietro le spalle e la sbarrò.
Lleu si mise al centro della stanza con le braccia tese. «Vieni da me, mia dolcissima», disse allegramente.
Camille si abbandonò al suo abbraccio. I baci di lui erano ardenti e appassionati. Quando le sue mani bollenti presero a esplorarle il corpo, Camille però si staccò da lui.
«Lleu, dobbiamo parlare. Mi hai promesso di sposarmi. Io ti amo tanto che non voglio aspettare. Promettimi che mi sposerai domani.»
«Ti sposerò, ma tu in cambio devi promettermi qualcos’altro», disse Lleu, ridendo.
«Mi sposerai?» gridò Camille, estatica. «Domani?»
«Domani, dopodomani, quando vuoi», disse Lleu con indifferenza.
«Che cosa vuoi da me?» domandò Camille, avvicinandosi a lui.
Pensava di conoscere la risposta ed era pronta a concedere il proprio corpo all’uomo che sarebbe diventato suo marito. La risposta di Lleu la colse di sorpresa.
«Io sono un seguace di Chemosh», disse lui. «Voglio che tu ti unisca a me nella sua adorazione. È tutto ciò che ti chiedo. Se lo fai, sarai mia moglie.»
«Chemosh?» ripeté Camille. Si ritrasse, stupita e imbarazzata. «Non mi hai mai detto niente prima d’ora di un dio chiamato Chemosh. Chi è?»
«Il Signore della Vita Eterna», rispose Lleu. «Tu non devi far altro che giurargli di essere al suo servizio, e in cambio lui ti concederà giovinezza eterna, bellezza eterna, vita eterna.»
Le sue parole sembravano artefatte, un discorso che lui avesse imparato a memoria e pronunciasse meccanicamente, come un cattivo attore in una brutta commedia. A Camille tornò in mente l’avvertimento del monaco.
«Su, su, Lleu. Le persone intelligenti non credono negli dèi», disse, con una risata forzata. «L’adorazione degli dèi è per i deboli di mente, per i superstiziosi.»
«Mia moglie deve credere nel mio dio, Camille», disse Lleu, e il suo sorriso affascinante non c’era più. «Se devo sposarti, tu devi giurare di seguire Chemosh. Lui ti ricompenserà con giovinezza eterna, bellezza...»
«Sì, me l’hai già detto», sbottò Camille. Prese tempo. «Quando sarò tua moglie, sarò contenta di conoscere Chemosh. Tu mi insegnerai.»
«Te lo insegnerò subito», disse Lleu, e si chinò su di lei strofinandole il viso sul collo, baciandola.
I suoi baci erano dolci, e lui le aveva promesso di sposarla. Che male ci sarebbe stato nel cedere alla sua sciocca richiesta? Giurare fedeltà a Chemosh. Avrebbe comunque soltanto pronunciato delle parole. Fece scivolare le mani dentro il colletto aperto di lui e vide, sotto le proprie dita, il marchio di labbra di donna impresso a fuoco nella carne.
Camille lo respinse.
Lo guardò, lo guardò negli occhi.
Lì non c’era niente. Niente amore. Niente desiderio. Niente vita. La paura la attanagliò, la fece contorcere interiormente.
«Vattene!» ordinò tremante Camille. «Vai via! Qualunque cosa tu sia! Esci da casa mia!»
«Non posso», ribatté Lleu, con voce aspra. «Mina non me lo permette. Il dolore è troppo intenso da sopportare. Tu devi giurare fedeltà a Chemosh. Lui ti donerà giovinezza eterna, bellezza eterna...»
Camille era intrappolata. Lleu si frapponeva tra lei e la porta, e anche se lei fosse riuscita a fuggire, non l’avrebbe lasciato solo con i suoi figli.
«Lleu, vai via, per favore vai», implorò.
«Vita eterna», disse Lleu. «Giovinezza eterna...»
Se avesse potuto raggiungere la porta, avrebbe potuto aprirla e gridare per chiamare aiuto.
Camille cercò di aggirarlo rapidamente. Lleu fu troppo rapido per lei. La afferrò per i polsi e la trascinò vicino a sé.
«Giura fedeltà a Chemosh!» le ordinò.
Le strinse i polsi, al punto che le articolazioni si incrinarono e Camille urlò di dolore. Lleu la gettò a terra e si scagliò sopra di lei, inchiodandola con le ginocchia. Le strappò la camicetta, scoprendole il seno, e si chinò per baciarla. Lei si dimenò sotto di lui, cercando di spingerlo via, ma lui aveva una forza incredibile.
«Mamma?» La voce tremante del bambino giunse da qualche parte dietro di lei.
«Jeremy!» ansimò Camille. «Per favore, Lleu, no. Non farmi del male... non sotto gli occhi di mio figlio...»
«Giura fedeltà a Chemosh!» disse di nuovo Lleu, con l’alito caldo sul viso di lei. Le strinse le braccia con una forza schiacciante. «Altrimenti uccido il tuo moccioso.»
«Giurerò!» gemette Camille. «Non far del male a mio figlio.»
«Dillo!»
Il dolore e la paura erano troppo da sopportare per Camille.
«Giuro con la mia anima...»
Vi fu un colpo alla porta. Un cane abbaiava ferocemente.
Una voce urlò: «Signora, sono il fratello Rhys Mason. State bene?».
«Aiuto, fratello!» urlò Camille, a cui la speranza diede rinnovata energia. «Aiuto!»
«Abbattetela!» ordinò il monaco, e vi fu uno scalpiccio di passi e un tonfo fragoroso. La porta di legnò tremò.
Lleu era ancora a cavalcioni sopra di lei, le faceva ancora male. Sembrava ignaro di quel fracasso.
«Giura!» Aveva la bava alla bocca. La saliva gocciolava su Camille.
«Ancora una volta dovrebbe bastare!» disse il monaco.
Di nuovo il tonfo, e questa volta la porta si spaccò.
Il monaco e un kender ruzzolarono all’interno. Il monaco balzò su Lleu, ma il bambino, Jeremy, fu il primo a raggiungerlo.
«Smettila di far male alla mia mamma!» gridò il bambino, e colpì Lleu col suo pugnetto.
Lleu emise uno strillo spaventoso. La sua carne si annerì e avvizzì. I globi oculari si seccarono e caddero dalle orbite. Le labbra si ritrassero dai denti creando una smorfia sorridente. Le mani che stringevano Camille erano le mani imputridite di un cadavere. Il nauseante fetore della morte riempì la piccola stanza, ma Lleu non moriva. Il suo cadavere continuava a stringere la donna. Il cranio la guardava con occhi lascivi. La bocca continuava a muoversi.
«Giura fedeltà a Chemosh!»
Camille diventò matta per il terrore. Strillò istericamente e si agitò in preda al panico, cercando di scagliarsi via di dosso il cadavere.
Il bambino, dopo un momento di paralisi per lo spavento, afferrò il cadavere intendendo strapparlo via da sua madre. Al suo tocco, Lleu si incendiò. Il fuoco gli consumò il corpo in un istante. Fuliggine untuosa e cenere si sparsero orribilmente per la stanza, riversandosi sul bambino, ricoprendogli i capelli e la pelle.
Il bambino non emise alcun suono. Prese a tremare e poi gli occhi gli ruotarono all’indietro nella testa. Il corpo gli si irrigidì.
«Jeremy!» Camille pianse e cercò di strisciare verso il figlio, ma tutto divenne buio, e lei svenne.
Rhys fu testimone della fine orribile del Prediletto, con la mente e l’anima distrutte dall’orrore, mentre il corpo di suo fratello si consumava in quel fuoco innaturale. Udì Patrick, in piedi sulla porta alle sue spalle, restare senza fiato, udì una delle guardie vomitare. Nightshade guardava fisso, ammutolito. Il bambino era immobile. La giovane donna era stesa in un mucchio di cenere nera. Niente sembrava muoversi tranne la fuliggine che si librava qua e là nella stanza.
Poi il bambino crollò. Cadde a terra, con gli arti che si contorcevano e scattavano, la lingua che gli sporgeva dalla bocca.
«Sta avendo qualche sorta di attacco! Rhys, che faccio?» gridò Nightshade, in piedi sopra di lui.
«Togliti di mezzo», ordinò Patrick, dando una gomitata a Nightshade. «Di lui mi occupo io.»
Patrick prese il bambino, gli aprì a forza la bocca e gli ficcò dentro un fazzoletto arrotolato per impedirgli di mordersi la lingua. Raccogliendo fra le braccia quel corpicino che si dimenava, pronunciò parole a bassa voce, pregando Mishakal.
Vedendo il bambino in buone mani, Rhys andò in soccorso della madre svenuta, mentre Galena andava a prendere il neonato.
«Dobbiamo portarli via da questo luogo maledetto!» disse in modo pressante Patrick, e Rhys concordò con tutto il cuore.
Porgendo il bastone a Nightshade, Rhys sollevò la giovane donna fra le braccia e la trasportò fuori della porta. Patrick lo seguì col bambino, e Galena arrivò poi col neonato. Rhys consegnò la giovane madre alle cure dei chierici e poi si costrinse a rientrare nella catapecchia.
Lo sceriffo di New Port, un veterano brizzolato dell’ultima guerra, lo accompagnò. Rimasero entrambi al centro della stanza a guardarsi in giro in quel luogo dal macabro rivestimento di cenere nera e untuosa.
«Non ho mai visto nulla di simile», disse lo sceriffo con sgomento. «Che cosa avete usato per annientare quel mostro, fratello? È magico quel vostro bastone, oppure avete un tocco sacro... o che?»
«Non sono stato io», disse Rhys.
Soltanto adesso veniva alle prese con ciò che aveva visto, con ciò che aveva scoperto, e quella consapevolezza lo faceva star male. Si rammentò le parole di Cam, sul fatto che il prezzo da pagare per annientare uno dei Prediletti sarebbe stato più di quanto si potesse tollerare.
Guardò dietro le spalle verso il bambino che era steso in strada e si contorceva spasmodicamente, mentre Patrick sopra di lui pregava.
«È stato il bambino.»
«Che volete dire: è stato il bambino? State dicendo che un bambino ha fatto questo?» Lo sceriffo indicò alcune ossa carbonizzate mescolate alla cenere. «Un bambino ha fatto incendiare quell’essere?»
«Il tocco dell’innocenza. I Prediletti possono essere annientati... ma solo per mano di un bambino.»
«Gli dèi ci salvino!» mormorò lo sceriffo. «Se quello che dite è vero... gli dèi ci salvino». Si accovacciò sulle anche per fissare quel caos annerito sul pavimento.
Rhys tornò fuori, all’aria fresca. La giovane madre si svegliò con un urlo e si guardò attorno freneticamente, lottando contro Galena quando questa cercò di confortarla. Quando si rese conto che lei era al sicuro e che i suoi figli erano ancora vivi, si strinse al petto il neonato e prese a singhiozzare in maniera incontrollata.
«Come sta?» domandò Rhys, accovacciandosi accanto a Patrick e al bambino.
«Il corpo è guarito», disse a bassa voce il chierico, accarezzando i capelli pieni di cenere. «Questo l’ha fatto Mishakal, ma la mente... È stato testimone di tali orrori che forse non si riprenderà mai.»
Galena guardò Rhys, con occhi imploranti. «Ho sentito quello che avete detto allo sceriffo, fratello. Non posso crederci. Di sicuro vi sbagliate. Voi pensate che soltanto i bambini possano uccidere questi Prediletti. È troppo orribile.»
«Io so che cosa ho visto», disse Rhys. «Nel momento in cui il bambino lo ha colpito, il Prediletto è "morto".»
«L’ho visto anch’io», disse Nightshade.
Il kender appariva assai pallido sotto le righe nere di cenere. Teneva un braccio attorno al collo di Atta, strofinandosi le guance con l’altra mano.
«Il bambino ha colpito Lleu alla gamba e... bum! Lleu si è imputridito all’istante e poi si è incendiato. È stato davvero orribile.» A Nightshade tremava la voce. «Vorrei non averlo visto, e io bazzico i morti continuamente.»
«L’innocenza distrugge, e a sua volta l’innocenza viene distrutta», disse Rhys.
Lo sceriffo uscì dalla catapecchia, strofinandosi le mani sui pantaloni. «L’unico modo per mettere alla prova questa teoria è riprovarci.»
Galena lo investì rabbiosamente. «Come potete neanche suggerire una cosa simile, signore? Voi fareste passare a vostro figlio quello che ha passato questo qui stasera?»
«Vi chiedo perdono, signora», disse lo sceriffo, «ma quell’essere intendeva assassinare questa giovane donna e forse anche i suoi figli. Gli dèi soli sanno quante persone questo Prediletto qui dentro ha assassinato finora. Adesso abbiamo trovato un modo per fermarli».
Rhys ripensò a Sua Signoria Jenna. Forse si sarebbe sentita addolorata nel costringere un bambino a uccidere uno dei Prediletti, ma probabilmente non avrebbe esitato a farlo.
«Non possiamo tenere per noi un’informazione tanto importante», stava dicendo lo sceriffo. «Patrick qui mi dice che il kender ha visto soltanto oggi dieci di questi Prediletti. Ora, tenendo conto che il kender probabilmente esagera...»
«Non esagero!» gridò indignato Nightshade.
«...vuol dire almeno due o tre che vagano per la mia città e assassinano persone innocenti come questa giovane donna qui. Se c’è un modo per fermarli, io ho il diritto di provarci, e così pure i rappresentanti della legge in altre città.»
«Penso che tutti noi siamo troppo sconvolti per prendere decisioni in questo momento», disse Patrick. «Riuniamoci domattina, quando l’orrore di questa scena terribile sarà svanito, e allora potremo parlarne. Frattanto noi ospiteremo la madre e i figli. Anche voi siete il benvenuto se tornate con noi, fratello Rhys. E anche tu, Nightshade.»
«Grazie, ma io devo partire stanotte», disse Rhys. «La mia nave salpa...»
«No, non salpa», disse Nightshade.
Rhys guardò il kender. Non aveva idea di che cosa stesse dicendo.
«La tua nave non salpa», ripeté Nightshade. «Be’, sì, probabilmente salpa, ma tu non sei tenuto a esserci sopra. Lleu non c’è più, Rhys. Non devi più rincorrerlo. Ormai è tutto finito.»
Nightshade prese per mano Rhys e disse sottovoce: «Possiamo tornare a casa. Tu e io e Atta. Possiamo tornare a casa».
Rhys era in piedi nel buio e fissava Nightshade. Sentiva il contatto della mano del kender. Sentiva le parole del kender e qualcosa dentro di lui sapeva che quelle parole avevano senso. Qualcos’altro in lui continuava a pensare che doveva andare a quella nave. Doveva continuare a seguire suo fratello. Doveva impedirgli di uccidere chiunque altro. Doveva... doveva...
«È tutto finito», disse. «Lleu non c’è più.»
Rhys non provava tristezza per la morte di suo fratello. Suo fratello era morto molto tempo prima. Questo essere non era Lleu, anche se lui ancora lo chiamava così.
«Sì, Rhys», disse Nightshade. Non gli piaceva l’aria che aveva il suo amico (sembrava perso e stordito) e il kender gli stringeva forte la mano.
Rhys guardò in su e in giù lungo la strada e si rese conto all’improvviso che questa strada e tutte le strade non erano più dei percorsi verso la disperazione desolante. Conducevano tutte verso un unico luogo. Come aveva detto Nightshade, conducevano a casa. Rhys strinse più forte il bastone. Desiderava ardentemente tornare a casa, ma non era pronto per essere accolto lì. Non poteva presentarsi sulla soglia con vesti sudice e scolorite, macchiate dal sangue di innocenti e dalla cenere nera della morte. Doveva rinunciare al mondo, purificare il proprio corpo, purificare la propria anima. Nudo come un bebè, rimproverato e umiliato, si sarebbe presentato davanti al suo dio e avrebbe implorato il suo perdono. Quindi sarebbe tornato a casa.
«Grazie, Nightshade», disse Rhys. Chinandosi, baciò il kender sulla fronte. «Sei un vero amico.»
Nightshade si passò la mano sugli occhi e tirò su col naso nascondendosi nella manica.
Stringendo forte il bastone, Rhys perlustrò con gli occhi la strada. Si era radunata una folla. La storia di ciò che era successo veniva raccontata con entusiasmo, e il racconto si faceva maggiormente fantastico a ogni passaggio. Lo sceriffo ordinò ripetutamente alla gente di tornare a casa, ma nessuno lo ascoltava, e la folla si faceva più numerosa e indisciplinata. Diversi giovani birbanti decisero che volevano vedere di persona quello spettacolo macabro e cercarono di fare irruzione nell’abitazione, provocando una zuffa con le guardie.
Lo sceriffo, prevedendo folle ancora più numerose dopo il sorgere del sole, decise che il modo migliore per porre fine a tutto questo sarebbe stato abbattere la catapecchia e non lasciare ai curiosi altro che una catasta di legname da guardare. Mandò degli uomini a procurarsi gli attrezzi. Alcune guardie non poterono aspettare e si misero subito a buttare giù la catapecchia, usando le mani nude. Altre guardie tenevano a bada la folla. Patrick e Galena non si vedevano da nessuna parte.
«Ho detto loro di portare al tempio quella povera donna e i suoi figli», disse lo sceriffo a Rhys. «Ne hanno già passate troppe senza bisogno di questo.» Diede un’occhiata torva alla gente che lo attorniava sulla strada, allungando il collo e spintonando per vedere meglio.
«Grazie per il vostro aiuto, fratello», soggiunse lo sceriffo. «Peccato che non siamo arrivati un po’ prima, ma quel che è fatto è fatto e per lo meno ci siamo sbarazzati di uno di questi mostri.» Si voltò per rimettersi all’opera.
Rhys rimase zitto e pensieroso durante il ritorno al tempio. Anche Nightshade era silenzioso e di quando in quando guardava Rhys ed emetteva un profondo sospiro. Atta trotterellava dietro di loro, alternando lo sguardo fra l’uno e l’altro, senza capire.
Entrarono nel tempio che odorava fortemente di pittura fresca. L’interno era calmo, dopo il baccano della strada.
«Come sta la donna?» domandò Rhys.
«Galena l’ha portata in cucina e la sta sollecitando a mangiare qualcosa. Oltre a tutto il resto, la povera donna è mezzo morta di fame. Si sentirà meglio quando avrà un po’ di nutrimento.»
«E il bambino?»
Patrick scrollò il capo. «Pregheremo Mishakal e lasceremo il bambino nelle mani benedette della dea. Voi che farete, fratello, adesso che la vostra tenebrosa ricerca è terminata?»
«Ho delle spiegazioni da dare», disse Rhys mestamente, «e molte preghiere di contrizione da recitare e peccati di cui pentirmi. Sapete dirmi dove trovare il tempio di Majere?».
«Volete dire quello di Solace?» domandò Patrick.
«No, Riverito Figlio. Il tempio qui a New Port.»
«Non esiste nessun tempio di Majere a New Port», obiettò Patrick. «Non vi ricordate la nostra conversazione di ieri, fratello? A New Port ci sono soltanto due templi dedicati agli dèi: il nostro e quello di Zeboim.»
«Di sicuro vi sbagliate, Riverito Figlio», disse seriamente Rhys. «Proprio questa sera ho incontrato un gruppo di sacerdoti di Majere, uno dei quali era un abate. Mi ha parlato di un tempio qui...»
«Potete domandare allo sceriffo se volete, fratello, ma per quanto ne so io il più vicino tempio di Majere è quello di Solace. Io non ho sentito parlare di sacerdoti di Majere da queste parti. Se ce ne fossero, sarebbero indubbiamente venuti a cercarci. Avete detto di avere incontrato questi sacerdoti stasera?»
«Sì», rispose Rhys. «Il nostro incontro non è stato particolarmente cordiale. È questo che mi ha fatto ritardare. L’abate mi ha riconosciuto, mi conosceva per nome.»
Rimase in silenzio, sentendo svanire all’improvviso la sensazione di pace e tranquillità.
Patrick lo guardò stranamente. «Voi conoscevate questo abate?»
«No», disse Rhys. «Non l’avevo mai visto prima. Sul momento non ci ho pensato (ero troppo sconvolto) ma adesso che ripenso al nostro incontro trovo molto strano che mi conoscesse. Come faceva?»
Nightshade lo tirò per la manica.
«Rhys», disse il kender, e poi si interruppe.
«Che c’è?» domandò Rhys piuttosto impaziente.
«È solo che... se tu non fossi stato in ritardo, avremmo raggiunto la catapecchia in tempo per fermare Lleu prima che facesse del male alla madre, e allora il bambino non avrebbe dovuto picchiare il Prediletto e lui non si sarebbe incendiato.»
Rhys rimase in silenzio, stringendo il bastone.
«I sacerdoti ti hanno trattenuto quel tanto che bastava, Rhys», insistette Nightshade. «Quel tanto che bastava per farti ritardare, ma non tanto da farti ritardare troppo. Adesso il Riverito Patrick qui ci dice che non ci sono sacerdoti di Majere nel raggio di forse centocinquanta chilometri in ogni direzione e... be’... non posso fare a meno di domandarmi...»
Nightshade si interruppe. Non gli piaceva l’aria che aveva Rhys.
«Di domandarti che cosa?» domandò aspramente Rhys.
Nightshade non sapeva se proseguire o no. «Penso che forse possiamo lasciar perdere fino a domattina.»
«Dimmi», disse Rhys.
«Forse questi sacerdoti non erano veri», ipotizzò umilmente Nightshade.
«Pensi che io menta in proposito?» domandò Rhys.
«No, no, no, non questo, Rhys.» Nightshade incespicò nel parlare per la fretta. «Penso che tu pensi che i sacerdoti fossero veri. È solo...»
Non sapeva come spiegarsi e guardò Patrick per ricevere aiuto.
«Dice che i sacerdoti erano veri, fratelli: veri come li ha creati Majere», disse Patrick.
Rhys si trovava nella pace del tempio di Mishakal, a ripensare agli eventi orripilanti di quella sera. All’improvviso si sentì profondamente e intensamente in collera.
«Che cosa vogliono da me gli dèi?» gridò.
Patrick pareva solenne. Atta si fece piccola per la paura per via di quel tono, e Nightshade fece un passo indietro.
«Giocano con la mia vita», proseguì infuriato Rhys, «e con la vita degli altri. Quel povero bambino e sua madre. Era necessario farli soffrire così? Avranno per il resto della loro vita la maledizione del terribile ricordo di questa notte. Se Majere voleva farmi sapere come annientare questi Prediletti, perché non è venuto da me in persona a dirmelo? Perché Zeboim porta Mina da me e poi me la strappa via?».
«Fratello Rhys», disse Patrick, posando la mano sul braccio del monaco. «Le vie degli dèi non sono comprensibili a noi mortali...»
Rhys lo guardò freddamente. «Risparmiatemi il sermone, Riverito Figlio. L’ho già sentito in precedenza.»
Si girò tanto all’improvviso che calpestò Atta, la quale guaì per il dolore. Si diede una rapida leccata alla zampa offesa e poi corse dietro al suo padrone con aria disposta a perdonare. Nightshade esitò. Rivolse a Patrick un’occhiata rapida e addolorata.
«Penso che sia davvero infuriato con me», disse il kender.
«No», disse Patrick. «È infuriato col cielo. Succede a tutti noi una volta o l’altra.» Fece un sorriso fiacco. «Devo ammettere che in questo momento neanch’io sono particolarmente contento degli dèi, ma loro capiscono. Vagli dietro. Ha bisogno di un amico.»
Rhys doveva camminare molto spedito, poiché Nightshade non vide traccia di lui né di Atta sulla strada. Chiamò per nome Rhys, ma non vi fu risposta. Il kender chiamò per nome Atta, e udì il suo abbaiare.
Seguendo quel suono, trovò il bastone di Rhys steso sul marciapiede. Rhys si stava passando sopra la testa la veste verde-acqua.
«Rhys», disse Nightshade, spaventato. «Che stai facendo?»
«Abbandono tutto», disse Rhys.
Scagliò la veste ammucchiata accanto al bastone e se ne andò, vestito soltanto con i pantaloni alla zuava e gli stivali, col petto e le spalle nudi. Si guardò dietro le spalle e vide Nightshade in piedi inchiodato sul posto e Atta che annusava la veste.
«Vieni o no?» disse freddamente Rhys.
«Oh, certo, Rhys», rispose Nightshade.
«Atta!» gridò Rhys.
La cagna lo guardò e poi abbassò la testa per raccogliere il bastone.
«Lascialo!» ordinò ferocemente Rhys.
Atta balzò all’indietro. Sbigottita per il tono, lo guardò fisso.
«Atta, vieni!»
La cagna immaginò di avere qualche colpa, anche se non aveva idea di che cosa avesse fatto di sbagliato. Con la testa china e la coda abbassata, la cagna avanzò furtivamente verso di lui. Rhys la aspettò, ma non si scusò per l’irascibilità, né con lei né col kender. Avanzò a grandi passi lungo la strada.
Rhys non aveva idea di dove stesse andando. Aveva bisogno di camminare per farsi sbollire la furia e lasciare che la brezza marina gli rinfrescasse la pelle febbricitante. Udiva Nightshade ansimare dietro di lui e Atta ticchettare con le unghie sul marciapiede, per cui sapeva che lo seguivano. Non si voltò indietro. Continuò a camminare e basta.
«Rhys», disse Nightshade dopo qualche istante. «Non penso che tu possa abbandonare un dio.»
Rhys udì la voce del kender e l’abbaiare della cagna, ma era tutto attutito e incorporeo, come avvolto in una fitta nebbia.
«Rhys», insistette Nightshade.
«Per favore, cerca di... stare zitto!» disse Rhys a denti serrati. «E fai stare zitta anche Atta.»
«Va bene, ma prima che stiamo zitti tutti e due penso ti interessi sapere che ci segue qualcuno.»
Rhys si fermò. Aveva infranto la prima regola del Maestro. Aveva ceduto alle proprie emozioni. Aveva consentito alla collera di sopraffarlo, dimenticando completamente nella sua furia cieca che lui e il kender erano soli nel mezzo di una notte buia proprio nella parte peggiore della città. Fece per voltarsi e affrontare la minaccia alle sue spalle e si rese conto che vi era una minaccia anche davanti.
Da un vicolo uscì un grosso minotauro.
Rhys non aveva mai visto prima uno di questi uomini-bestie e rimase sconcertato dalle dimensioni e dalla forza bruta del bestione. Rhys era alto per un essere umano maschio, eppure arrivava appena al petto del minotauro. Vestito con una maglia di cuoio e pantaloni larghi, il minotauro era uno spettacolo che intimidiva. Aveva i piedi nudi e coperti di pelliccia. Un anello d’oro circondava l’estremità di uno dei due corni aguzzi, e su un orecchio luccicava dell’oro. Gli occhi scuri, disposti ravvicinati sopra un muso coperto di pelliccia, guardavano freddamente Rhys dall’alto in basso.
«Quelli che arrivano alle tue spalle sono i miei ragazzi», osservò il minotauro. Guardò giù con occhio furioso verso Atta, che abbaiava freneticamente. Il minotauro pose una mano gigantesca sull’impugnatura di un enorme pugnale che portava in un’ampia fascia alla vita. «Fai stare zitto quel bastardo o lo faccio stare zitto io.»
«Atta, silenzio», disse Rhys. L’abbaiare di Atta si smorzò in ringhi intersecati da ansimi. Rhys sentiva il corpo della cagna tremargli contro la gamba.
«Non abbiamo denaro», disse Rhys con tutta la calma che poté. «Sarebbe inutile derubarci.»
«Denaro?» Il minotauro sbuffò e poi rise, cosicché l’oro sul corno balenò di rosso alla luce di diverse fiaccole ardenti che adesso circondavano Rhys e Nightshade. «Noi non cerchiamo denaro! Noi abbiamo denaro!»
Il bestione spinse il muso contro il viso di Rhys. «Quello che vogliamo sono mani e gambe e schiene forti.»
Si drizzò e fece un gesto. «Prendetelo, compagni.»
«Sì, capitano», gridarono diverse voci gutturali.
Due corpulenti minotauri si avvicinarono a Rhys, il quale ora si rese conto in quale sorta di guaio si fossero cacciati. Si erano imbattuti in un distaccamento di minotauri-pirati alla ricerca di schiavi per le loro navi.
«Questo qui è un kender, capitano», affermò con disgusto uno dei minotauri. Teneva la fiaccola tanto vicino alla testa di Nightshade che nell’aria si spargeva l’odore di capelli bruciacchiati. «Volete anche questo?»
«Certo, mi piacciono i kender», disse il capitano sogghignando. «Al forno, con una mela in bocca. E prendete il cane. Mi piacciono anche i cani.»
«Io non prenderei me, se fossi in voi!» disse Nightshade con la sua voce più profonda, che suonava come se lui soffrisse di un raffreddore di testa. Sollevò la mano sinistra e puntò il dito contro il minotauro. «Chiunque mi tocchi si troverà debole come un bambino appena nato. Ehm, diciamo un vitello.»
Al che tutti i minotauri risero fragorosamente. Uno di loro si mosse verso Nightshade.
«Ehi, io starei attento se fossi in te, Tosh», disse il capitano, facendo l’occhiolino. «Sono feroci, questi kender. Oh, potrebbe pestarti il mignolino del piede!»
I minotauri sorrisero per l’umorismo del capitano. Uno si offrì di scrivere alla vedova di Tosh se non fosse tornato indietro vivo, e questo suscitò ulteriori risate. Rhys non aveva idea di che cosa stesse architettando Nightshade, ma aveva fiducia nel suo amico. Rimase in silenzio a osservare e ad aspettare.
«Io vi ho avvertiti», disse Nightshade e prese ad agitare il dito verso Tosh che gli si stava avvicinando. Quindi il kender incominciò a cantare una canzoncina. «Per le ossa di Krynn sotto i miei piedi, ti colpisco sul becco e ti lascio debole.»
I minotauri ruggirono. La loro ilarità si accrebbe quando Tosh all’improvviso crollò e cadde pesantemente in ginocchio.
«Coraggio, Tosh», disse il capitano, quando riuscì a parlare per il troppo ridere. «Smettila di fare lo sciocco adesso e alzati.»
«Non posso, capitano!» ululò Tosh. «Mi ha fatto qualcosa. Non riesco ad alzarmi né a camminare né niente.»
Il capitano smise di ridere. Guardò il suo uomo, così come fecero gli altri minotauri in silenzio. Nessuno di loro disse una parola e poi, all’improvviso, tutti presero a ridere più forte di prima. Il capitano si piegò in due e si deterse gli occhi che gli colavano.
Tosh ululò di nuovo, questa volta di rabbia.
Il capitano si drizzò e, ancora ridacchiando, allungò la mano enorme per afferrare il kender. Rhys balzò in aria, fece scattare il piede e colpì il minotauro allo stomaco.
Il colpo avrebbe messo fuori combattimento un essere umano, togliendogli il fiato e facendolo volare all’indietro. Il minotauro capitano ansimò, diede un colpo di tosse e si guardò con stupore il ventre. Sollevò la testa munita di corna per guardare con occhio furioso Rhys.
«Mi hai colpito col piede!» Il capitano era indignato. «Non è questo il modo di combattere per un uomo! Non è... onorevole.»
Serrò i pugni che avevano le dimensioni di martelli d’arme.
A Rhys doleva il piede. La gamba gli formicolava come se avesse preso a calci un muro di pietra. Udendo l’altro minotauro arrivargli alle spalle, cercò di restare in equilibrio, pronto a combattere. Atta si accovacciò sul ventre, ringhiando e scoprendo i denti. Nightshade mantenne la sua posizione, col dito creatore di incantesimi a spostarsi minacciosamente da un minotauro all’altro.
Il capitano scrutò quei tre e all’improvviso allentò i pugni. Con il palmo della mano assestò a Rhys un colpo sulla spalla che lo fece barcollare.
«Tu non hai paura di me. Va bene. Mi piaci, uomo. Mi piace anche il kender. Un kender con le corna, per Sargas! Guarda lì il vecchio Tosh, che si dimena come un pesce all’amo!»
Abbassando la mano enorme, il capitano afferrò Nightshade per il colletto, tirò su il kender e lo tenne in aria, mentre questi scalciava e agitava le braccia.
«Mettetelo nel sacco, ragazzi.»
Uno dei minotauri tirò fuori un sacco di iuta. Il capitano lasciò cadere Nightshade nel sacco, quindi si abbassò e afferrò Atta per la collottola e la scaraventò dentro il sacco assieme al kender. Nightshade cacciò un urlo, smorzato dal sacco che gli si richiuse sopra la testa. Il minotauro tirò il cordone, sollevò il sacco e se lo gettò sulle spalle.
«Portateli alla nave», ordinò il capitano.
«Sì, signore. E Tosh?» domandò il minotauro, quando stavano per correre via.
Tosh si rotolava inerme sul marciapiede, guardando in su verso di loro con occhi imploranti.
«Lasciatelo alla guardia civica», ringhiò il capitano. «Gli sta bene, a quel marinaio d’acqua dolce. Forse nominerò primo ufficiale il kender al posto suo.»
«No, capitano, per favore!» gemette Tosh e si agitò, ma riuscì soltanto a rendersi ancora più patetico.
«Voi altri tornate alla nave prima che ci trovino le guardie. Lasciatemi una di quelle fiaccole.»
Gli altri minotauri corsero via, portando con sé Nightshade e Atta. Il capitano si rivolse a Rhys.
«E tu, uomo?» domandò il minotauro, col divertimento che gli luccicava negli occhi neri. «Vuoi scalciarmi di nuovo?»
«Verrò con voi», disse Rhys, «se promettete di non fare del male al mio amico e al cane».
«Oh, verrai con me, certo.»
Il capitano pose una mano sulla spalla di Rhys. Le dita enormi gli si conficcarono in profondità e dolorosamente nei muscoli della spalla, quasi paralizzandogli il braccio. Il capitano spinse avanti Rhys, dandogli uno spintone e un altro pizzicotto quando gli parve che Rhys stesse rallentando.
Il capitano guardò avanti, per assicurarsi che i suoi uomini non fossero più a portata d’orecchio, quindi disse sottovoce: «Mi insegneresti a combattere così? Coi piedi?». Si massaggiò il ventre e fece una smorfia. «Non è onorevole, ma di certo coglierebbe di sorpresa l’avversario. Sento ancora quel colpo, uomo.»
Rhys cercò di immaginarsi a insegnare l’arte della disciplina misericordiosa a un minotauro ma ci rinunciò. Il capitano teneva stretto Rhys per il braccio e lo guidava.
A breve distanza lungo la strada, arrivarono nel punto in cui Rhys aveva gettato via il bastone e si era tolto la veste.
Il capitano vide lo sguardo di Rhys dirigersi verso il bastone e si fermò.
«Ti ho visto gettarlo via. Perché l’hai fatto?» Il minotauro dal senso pratico scrollò il capo. «Il bastone sembra buono e solido. La veste è utilizzabile ed è del colore degli occhi della nostra dea del mare.»
Raccolse la veste e la lisciò con riverenza, quindi la gettò a Rhys. «Le notti sul mare si fanno fredde. Ti serviranno indumenti per scaldarti. Vuoi il bastone?»
Da quello che Rhys aveva sentito dire, gli schiavi a bordo di una nave di minotauri misuravano la durata della propria vita in giorni. Se lui avesse avuto con sé il bastone benedetto, lui, Nightshade e Atta forse non si sarebbero trovati in un simile pericolo terribile. Guardò il bastone, col rimorso che gli colmava il cuore. Prenderlo adesso sarebbe stato ingiusto, come un bambino che dia un calcio negli stinchi al padre e poi corra dal genitore tirando su col naso nel momento in cui si caccia nei guai.
Rhys scrollò il capo.
«Allora lo prendo io», disse il capitano. «Mi serve qualcosa per pulirmi i denti.»
Sogghignando per la sua stessa battuta, il capitano si chinò per raccogliere il bastone. Rhys infilò le braccia nelle maniche e si stava facendo passare la veste sopra la testa quando udì un ruggito. Alzò lo sguardo e vide il capitano che si succhiava le dita e guardava torvo il bastone.
Dal legno spuntavano rose. Spine lunghe come il pollice di un uomo brillavano alla luce della fiaccola.
«Raccoglilo tu», ordinò il capitano. Serrò i denti su una spina conficcata nel palmo, la strappò via e la sputò sulla strada.
Rhys riusciva a malapena a vedere il bastone per via delle lacrime agli occhi. Strinse la mano attorno al bastone, aspettandosi che le spine pungessero la carne anche a lui, poiché si meritava la punizione molto più del minotauro. Il legno era liscio al tatto. Il bastone non gli fece male.
Il capitano rivolse al bastone un’occhiata guardinga. «Adesso capisco perché l’hai gettato via. Questo affare è maledetto da un dio. Mettilo giù. Lascialo trovare a qualche altro sciocco.»
«La maledizione è mia», disse calmo Rhys. «Devo sopportarla io.»
«Non a bordo della mia nave», ringhiò il marinaio. Sputò un’altra spina. Gli occhi presero a luccicargli. «Oppure potremmo vedere come maneggi quel bastone in combattimento. Adesso siamo soli. Soltanto noi due. Se mi batti, ti concedo la libertà.» Il minotauro allungò la mano verso l’impugnatura della spada enorme che portava infilata in una fascia attorno all’ampia vita. «Vieni, monaco. Vediamo come maneggi quel bastone maledetto da un dio!»
«Voi tenete in ostaggio il mio amico e il mio cane», fece notare Rhys. «Io vi ho dato la mia parola che sarei venuto con voi, e verrò.»
Il capitano contrasse il muso. Se lo strofinò, scrutò Rhys. «Allora la tua parola significa qualcosa, vero, monaco?»
«Certo», rispose Rhys.
«Quale dio ti ha imposto la maledizione?»
«Majere.»
«Puah. Un dio severo, quello. Non è un dio da irritare. Che hai fatto Per farlo arrabbiare?»
«Ho tradito qualcuno che aveva riposto in me fede e fiducia», rispose con calma Rhys. «Qualcuno che è stato buono con me.»
I minotauri avevano la reputazione di essere assassini selvaggi e brutali. Il loro dio, Sargonnas, era un dio crudele, dedito alle conquiste. La razza dei minotauri conosceva però l’onore, o per lo meno così aveva sentito dire Rhys.
Il capitano di nuovo si strofinò il muso. «Ti meriti la maledizione, allora.»
«Sì», disse Rhys. «Il bastone me lo rammenta sempre.»
«Non farà del male a me o al mio equipaggio?»
«No, se non cercate di toccarlo.»
«Non lo farà nessuno», disse il capitano, rivolgendo al bastone un’occhiata malevola. Si strappò via un’altra spina e poi, alzando la testa, annusò l’aria. «La marea sta cambiando.» Annuì con soddisfazione e sputò la spina. «Sbrigati, monaco.»
Rhys tenne il passo del minotauro. Per stargli accanto doveva fare due lunghi passi per ognuno di quelli dell’uomo-bestia.
La nave dei minotauri era ancorata al largo, a grande distanza dalle banchine. Una barca equipaggiata da minotauri robusti era a disposizione per traghettarli alla nave. Un’altra barca, che trasportava Nightshade e Atta, era già partita e scivolava sull’acqua.
Rhys si sedette di fronte al capitano, che maneggiava la barra del timone. La barca sobbalzava sulle onde, Rhys osservò il litorale con le sue luci scintillanti allontanarsi da lui. Non maledisse il suo destino. Se l’era attirato lui. Sperava in qualche modo di poter contrattare la vita del kender e di Atta. Non era giusto che loro soffrissero per causa sua.
La nave dei minotauri, di cui si vedeva la silhouette sullo sfondo del mare illuminato dalle stelle, era bella a vedersi. A tre alberi, vantava una prua scolpita nella forma della testa di un drago. I remi, disposti in un singolo ordine, erano sollevati dall’acqua. Rhys osservò l’equipaggio di minotauri spingere a remi la scialuppa e vide i loro muscoli incresparsi sulle ampie schiene. Gli schiavi a bordo delle navi dei minotauri erano messi ai remi, e Rhys si domandò per quanto tempo sarebbe stato capace di andare avanti al loro posto, incatenato alla panca, a fare forza sui remi seguendo il battito ritmico del tamburo.
Rhys era forte, o era stato forte prima che questo viaggio straziante esigesse il suo tributo. Cibo scadente, mancanza di viveri, camminare per le strade e frequentare le taverne avevano richiesto un tributo sia al corpo sia allo spirito.
Come per dargli ragione, la stanchezza lo sopraffece. La testa gli cadde sul petto, e la cosa successiva che percepì furono dei colpi per svegliarlo da parte di un membro dell’equipaggio, che indicava una scala di corda pendente sulla fiancata della nave.
La barchetta rollava e beccheggiava. Anche la scala ondeggiava, però la scala e la barca non erano sincronizzate. A volte erano vicine e altre volte fra la scialuppa e la nave si apriva un baratro enorme: un baratro pieno di acqua marina nera come l’inchiostro.
Il capitano era già salito a bordo, arrampicandosi con facilità sulla scala di corda. I minotauri dell’equipaggio guardavano con occhio torvo Rhys e indicavano energicamente la scala. Uno dei minotauri segnalò con gesti della mano che se Rhys non fosse saltato da solo l’avrebbe issato lui.
Rhys sollevò il bastone. «Non posso saltare col bastone», disse, sperando che venisse capito il gesto, se non le parole.
Il minotauro alzò le spalle e fece un movimento come per gettare. Rhys aveva l’impressione che il minotauro intendesse che lui doveva gettare in mare il bastone. Riteneva probabile che sarebbero finiti lì tutti e due. Scrutò il parapetto della nave, che sembrava lontano, lontano sopra di lui, e poi sollevando il bastone come una lancia, mirò e tirò.
Il bastone descrisse un arco aggraziato e veleggiò oltre il parapetto della nave atterrando sul ponte. Adesso toccava a Rhys.
Era in piedi sulla panca, cercando di sincronizzare il suo balzo con il violento beccheggio della barca. La scala di corda oscillò accanto a lui. Rhys si tuffò disperatamente verso la scala. La afferrò con una mano, la mancò con l’altra e cercò a tentoni un punto d’appoggio. Fu sul punto di mollare la presa e di finire in acqua, ma il minotauro lo spinse da sotto e Rhys fu in grado di arrampicarsi sulla scala. Altri due minotauri lo afferrarono quando raggiunse il parapetto e lo issarono oltre la fiancata, mollandolo sul ponte.
A bordo tutto sembrava in confusione, col capitano che urlava ordini e i marinai che correvano qua e là in risposta, sfrecciando sul ponte e arrampicandosi sul sartiame. Le vele si srotolarono, e l’ancora fu issata a bordo con un verricello. Rhys era fra i piedi di tutti, e fu urtato, spintonato, calpestato e maledetto. Finalmente un minotauro, su ordine del capitano, sollevò di peso Rhys e lo trascinò nel punto in cui venivano fissate al ponte delle casse contenenti il carico.
Il minotauro grugnì qualcosa che Rhys non capì. Dal dito puntato dedusse che doveva restare lì, fuori dei piedi.
Tenendosi stretto il bastone, Rhys osservò in una sorta di stordimento quella frenesia organizzata finché non lo scosse una voce ben nota.
«Eccoti qui! Mi domandavo dove fossi finito.»
«Nightshade?» chiamò, guardandosi attorno senza vederlo.
«Quaggiù», disse il kender.
Rhys guardò giù, e lì vi era il kender dentro una cassa. Atta, afflitta, era dentro un’altra cassa. Rhys si accovacciò, infilò una mano tra le assicelle e riuscì ad accarezzare la cagna sul naso.
«Mi dispiace, Nightshade», disse mestamente. «Cercherò di tirarci fuori di qui.»
«Non sarà facile», disse Nightshade imbronciato, sbirciando Rhys da dietro te assicelle.
Il kender e Atta erano stati messi col resto del bestiame. Accanto alle loro vi era una cassa contenente un maiale che sonnecchiava.
«Questa cosa puzza, Rhys, e non mi riferisco al pesce. Non pensi che sia strano?»
«Sì», disse arcignamente Rhys. «Ma d’altronde io so tanto poco dei minotauri...»
«Non intendo questo. Tanto per cominciare», spiegò Nightshade, «tu vedi altri prigionieri? Che razza di distaccamento va fuori in cerca di schiavi e riporta indietro appena due persone, una delle quali è un kender, anche se io sono un kender con le corna», soggiunse con notevole orgoglio.
«E poi la vista di una nave di pirati minotauri ancorata al largo di una città come New Port dovrebbe indurre la gente a prendere le armi. Dovrebbero esserci campane che suonano l’allarme, donne che urlano, soldati che fanno i soldati, catapulte che scagliano pietre. Invece i minotauri se ne andavano per le strade come fossero stati a casa loro.»
«Hai ragione», disse Rhys, pensieroso.
«È come se», disse Nightshade abbassando la voce, «non li vedesse nessuno. A parte noi».
Si tirò indietro a sedere sui talloni dentro la cassa e guardò Rhys.
La nave ormai era in viaggio, e veleggiava sul mare sotto una brezza che rinforzava. Prendendo il vento, la nave fendeva l’acqua. Onde nere volteggiavano all’indietro sulle fiancate. La spuma spruzzava il viso di Rhys.
Con quel forte vento a sospingerli, i remi furono tirati dentro. I tamburi erano silenziosi.
La velocità della nave aumentò. Le vele si gonfiarono, tese per lo sforzo. Il vento soffiava sempre più forte. Rhys veniva quasi scaraventato giù, e si aggrappava al parapetto per tenersi in piedi. Il ponte si sollevava e si abbassava, un momento quasi sprofondava nelle onde, un momento dopo si alzava sulle creste. L’acqua salata inondava il ponte.
Sicuro che sarebbero affondati, Rhys guardò i minotauri, per vedere come reagissero a quel viaggio spaventoso.
Il capitano era al timone, col petto gonfio come le vele. Prendeva il vento in pieno viso, aspirandolo grato nei polmoni. I membri dell’equipaggio, come Rhys, erano di buon umore, abbeverandosi a quel vento impetuoso.
Un’onda enorme si sollevò dietro di loro. La nave scivolò sulla superficie dell’onda, sollevandosi sempre più in alto, e continuò a procedere, spiccando il volo.
L’onda si franse con uno schianto tonante, molto sotto la chiglia della nave. La nave dei minotauri lasciò il mare per veleggiare sulle onde della notte.
Atta ululò di terrore. Nightshade picchiò sulle assicelle della cassa.
«Rhys! Che succede? Non vedo! No, aspetta! Se è orribile, non dirmelo. Non voglio sapere.»
Nightshade attese. Rhys rimase in silenzio.
«È orribile, vero?» disse con tono compassionevole il kender e si accasciò dentro la cassa.
Rhys si aggrappava al parapetto. Il vento gli sferzava attorno. Il mare si allontanava. L’acqua ribolliva e schiumava molto al di sotto della nave. Sbuffi di nuvole sventolavano come vele sbrindellate dall’albero.
«Te l’avevo detto, Rhys», gridò Nightshade. «Non puoi abbandonare un dio!»
Rhys fece scivolare la mano sul bastone. Ne conosceva ogni nodo e ogni voluta, ogni imperfezione. Sentiva la grana del legno, le strisce che indicavano la durata della vita dell’albero e narravano la storia della sua crescita: le estati calde e secche, le piogge lievi della primavera, i colori splendidi e provocatori dell’autunno, la silente attesa dell’inverno. Sentiva, dentro il bastone, il respiro del dio, e non soltanto perché questo bastone era stato benedetto dal dio. Il respiro del dio era presente in tutti gli esseri viventi.
Il respiro del dio era speranza.
Rhys aveva perduto la speranza, o meglio aveva gettato via la speranza. Però continuava a ritornare da lui. Ostinata, insistente.
Rimase ancorato sul ponte che sfrecciava, col vento della notte buia e malevola a sferzarlo, mentre la nave fantasma lo conduceva verso qualche destinazione ignota. Posò la testa sul bastone e chiuse gli occhi e guardò dentro di sé.
Il kender era saggio, come sono spesso i kender per coloro che hanno la saggezza di capire.
Non si può abbandonare un dio.