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Ci sono innumerevoli cose che possono andare male quando si ha a che fare con un insieme di complessi componenti, e la Kennedy era la nave più complessa che fosse mai stata costruita. Tutti i sistemi di bordo erano stati controllati più e più volte, ma mai in attività. Non si sapeva come avrebbe funzionato quando la nave si fosse sollevata nello spazio con la sua enorme massa di metallo e il suo carico d’acqua.

Per uno scrupolo di sicurezza, tutta la faccia nascosta della Luna venne evacuata. Dom disse una preghiera in silenzio, e pensò che anche gli altri stessero facendo lo stesso, mentre Neil, seduto al posto di comando, terminava l’ultimo controllo della lista e guardava J.J. strizzandogli l’occhio. Neil aveva gli occhi azzurri socchiusi e la bocca contratta in un sorriso che non esprimeva certo divertimento, bensì tensione.

Non ci fu conto alla rovescia.

Quando tutti i sistemi furono pronti e le migliaia di piccole cose furono controllate, J.J. alzò il pollice nel segnale di okay e Neil premette il bottone che attivava il preriscaldatore. Nella sala macchine, Paul Jensen vide la spia luminosa accendersi e controllò i meccanismi automatici. Il suono del preriscaldatore giungeva alle orecchie di Jensen come un rombo ovattato. Si sentì una piccolissima vibrazione che solo una persona esperta poteva captare. Jensen la sentì attraverso le piante dei piedi.

— Bene, piccola — disse Neil. — Fallo per il vecchio Neil.

Quando la tremenda energia cominciò ad accumularsi, non si sentirono rumori intensi, ma solo un lieve ronzio. Si aveva però la sensazione dell’energia, e qualcosa nell’atmosfera chiusa della nave sembrava assorbirla, prendere vita con essa. C’era come una carica nell’aria, un formicolio che penetrava oltre la superficie e diveniva parte dell’intero sistema sensorio.

A poco a poco l’energia sconfisse l’inerzia. Lentamente, quella mostruosa nave col suo enorme carico si mosse. La forza che alimenta le stelle continuò ad accumularsi e accumularsi, mentre i membri dell’equipaggio controllavano e annunciavano i risultati; e ogni volta era un go.

Dom teneva costantemente d’occhio una serie di strumenti che indicavano la pressione esercitata sullo scafo e sui componenti interni. Ci fu, e fu registrata, una deformazione inerziale mi la nave era stata costruita bene, con amore e con passione, da uomini che pensavano potesse essere l’ultima che mai avrebbero costruito.

L’accelerazione fu dolce e più rapida che nei razzi tradizionali. La gravità della Luna era una forza irrilevante davanti alla tremenda energia della propulsione nucleare.

La Kennedy si mosse dolcemente. Neil la fece accelerare e i membri dell’equipaggio si trovarono di colpo schiacciati contro i loro sedili. Presto sarebbe stata in posizione giusta per virare e assumere assetto e velocità di crociera. L’avrebbe fatto solo con una frazione dell’energia disponibile, come una vera e propria creatura dello spazio, enorme, bella, fiera. L’equipaggio cominciò a tenerla d’occhio.

Benché fosse perfetta nelle manovre e benché si stesse comportando benissimo, Neil Walters non dimenticava che si trattava pur sempre di una nave non collaudata e con un equipaggio a bordo. Sapeva che quello della Kennedy era stato un progetto lampo, e a lui non andava molto di pilotare il prodotto dei progetti lampo. Conosceva bene la storia delle conquiste spaziali. Il primo progetto lampo aveva portato alla produzione dei razzi Vanguard, e Neil aveva visto i vecchi film che mostravano i Vanguard esplodere sulla rampa di lancio. Con programmi troppo affrettati succedeva così. Negli anni Cinquanta, gli Stati Uniti avevano fatto le cose di corsa per mettersi alla pari con i sovietici, che avevano spedito una cagnetta, Laika, nello spazio, con un carico utile totale di più di quattrocentocinquanta chili. Fino ad allora il prestigio degli Stati Uniti aveva riposato su un superlavoro di équipe diretto da Werner von Braun. Aveva usato sputo, rottami, vecchi razzi, un mucchio di volontà e di immaginazione, e avevano messo in orbita quattordici chili di carico utile, col minuscolo Jupiter V.

Von Braun aveva dimostrato che la tecnica lampo non falliva sempre, ma rimanevano sempre i Vanguard, che esplodevano con spettacolare regolarità e provavano come fosse deleterio insistere nei progetti troppo affrettati quando si aveva a che fare con cose complesse come i razzi.

La domanda fondamentale che Neil si poneva era questa: la Kennedy era un prodotto tipo Jupiter, frutto di un lavoro d’ équipe ispirato come quello di von Braun, o era un prodotto tipo Vanguard? Se avesse resistito senza avarie e avesse compiuto la sua missione, gli storici del futuro l’avrebbero definita una miracolo della tecnica. Se fosse saltata in aria o se semplicemente avesse fallito la missione a causa magari del mancato funzionamento di qualche piccolo sistema neanche tanto importante, tutti avrebbero ricominciato a chiamarla come all’inizio: Follia.

Effettuarono il controllo generale. Il computer di Doris confermò che gli automatismi, la rotta, il motore e tutto il resto erano a posto; tutto era go.

Neil sentiva la mancanza del rombo familiare dei razzi, muto nello spazio, forte e assordante dentro la nave. Socchiuse di nuovo gli occhi mentre si preparava a portare la Kennedy a velocità di crociera. La sua voce calma e professionale arrivò all’; equipaggio e, via radio, al Con trailo Luna.

— Tutti i sistemi normali, tutti i sistemi go.

Iniziò il periodo di assestamento, durante il quale Neil doveva cercare di portare la Kennedy a velocità di crociera senza farla saltare in aria. Non era semplice come aprire una valvola; l’operazione, nella sua complessità, era condotta dai computer di bordo, che calibravano; l’energia tenendo conto della pressione. Ogni minima azione era controllata con sistemi elettronici e ottici. La nave continuò a ronzare e si mosse sempre più in fretta, mentre l’accelerazione creava una gravità artificiale che schiacciava i membri dell’equipaggio contro i loro sedili.

La nave non saltò in aria. Neil tenne l’equipaggio al lavoro per parecchie ore, durante il periodo iniziale di accelerazione. La Kennedy raggiunse la velocità di crociera il sessantacinque per cento più in fretta delle navi tradizionali. Viaggiava più veloce di qualunque nave che fosse mai stata costruita, e tutti i sistemi furono controllati e ricontrollati in volo.

Alla fine si sentì soddisfatto.

Cominciarono a fare i turni di guardia, e alcuni membri dell’equipaggio si concessero un pisolino. Ormai la Kennedy aveva dato ampia dimostrazione del proprio funzionamento, ed era come se si fosse sottoposta al più completo dei collaudi in volo.

Neil fece il primo turno di guardia. Dom, che avrebbe dovuto fare il secondo, sapeva che non sarebbe riuscito a dormire. Rimase vicino al suo pannello, controllando costantemente la pressione e il carico. Paul Jensen tenne d’occhio i motori. Solo Doris e Art si ritirarono nelle loro cabine.

Fu J.J. a rispondere alla chiamata di Base Luna. Prima ancora che il messaggio fosse terminato, premette il bottone dell’allarme e per tutta la nave lampeggiarono le spie luminose e suonarono le sirene.

L’equipaggio si precipitò ai posti di emergenza, e J.J. trasmise il messaggio ricevuto attraverso l’altoparlante.

— John F. Kennedy, qui è Controllo Luna.

— Controllo Luna, qui è J.F.K.

— J.F.K., è l’ammiraglio Pinkerton che parla. Mettete in stato d’allarme l’equipaggio, subito. Hanno minacciato di fare esplodere una bomba dentro la Kennedy.

— Ora sono in contatto diretto col Controllo Luna — disse J.J. al suo equipaggio. — Controllo Luna, qui è la Kennedy. I particolari, prego.

— J.F.K., una squadra di terristi ha assunto il controllo della stazione otto-cinque e dei suoi impianti di comunicazione. Riteniamo che i terroristi siano in cinque. Siamo in contatto con loro. Hanno avanzato due richieste. La prima è che la Kennedy ritorni sulla Luna. La seconda è che comunichiate al mondo di essere «colpevoli». Sono parole dei terristi.

J.J. scosse la testa, spazientito. — I particolari sulla bomba, prego.

— Un attimo, J.F.K. Quella che segue è la registrazione di ciò che hanno detto i terristi impradonendosi della stazione otto-cinque.

Si sentì un clic, poi una voce concitata di giovane disse: «Controllo Luna, Controllo Luna, questa è la voce della libertà. Ascoltate bene. Ci siamo impadroniti della stazione otto-cinque. Siamo armati fino ai denti, e in grado di resistere a qualsiasi attacco. Ascoltate bene. La follia dell’imperialismo, quella nave che chiamate John F. Kennedy, verrà distrutta, a meno che non soddisfiate le seguenti richieste. Uno, dovete ordinare alla Kennedy di tornare immediatamente sulla Luna. Due, dovete diffondere in tutto il mondo un messaggio, in cui vi scuserete umilmente per essere stati così dissennati da aver usato i soldi e i materiali che sarebbero serviti a nutrire milioni di persone affamate, e per avere perpetrato così un grave crimine ai danni dell’umanità. Tre, metterete a disposizione di questo gruppo di combattenti per la libertà una nave Explorer che li conduca in un porto libero della Terra».

Si sentì di nuovo la voce dell’ammiraglio Pinkerton. — Abbiamo fatto loro ripetere il messaggio. L’hanno scandito parola per parola, come se lo stessero leggendo.

— Controllo Luna, avete chiesto se la bomba si trova a bordo della Kennedy?

Affermativo. Si sono limitati a rileggere il messaggio.

Dom s’intromise nello scambio di comunicazioni. — Ammiraglio, sono Dominic Gordon. Potete mettermi in contatto diretto con i terristi?

— Affermativo, capitano Gordon. Alla stazione otto-cinque hanno le apparecchiature per controllare questo canale.

Dom si stupì di sentirsi chiamare capitano. Non ci era ancora abituato.

— Voglio parlare direttamente con loro, ammiraglio — disse.

— Un attimo. Vi avvertiremo quando si sarà stabilito il contatto.

Mentre Dom aspettava, gli altri si misero subito al lavoro. La! Kennedy era la più complessa nave esistente, ed era possibile controllarne ogni centimetro! con le apposite apparecchiature.

Furono spediti segnali. I servo-meccanismi sondarono e misurarono. Ogni grammo di materiale a bordo della nave fu controllato attentamente dal computer di Doris. Doris lavorò in fretta. Fece controllare proprio! tutto: abiti, effetti personali, approvvigionamenti. Il computer i controllò ogni cosa due volte e non scoprì neanche la più piccola massa estranea.

— Dom — disse Doris. — Non c’è niente di estraneo a bordo di questa nave.

— La bomba potrebbe essere stata incorporata in un elemento strutturale, durante la costruzione — disse Dom.

— Secondo me stanno bluffando — disse J.J.

— È molto probabile, ma possiamo rischiare? — disse Dom.

— Se ci arrendessimo e la riportassimo indietro, la Kennedy non lascerebbe mai più la Luna. E se trasmettessimo quel messaggio al mondo, sarebbe come fare esplodere la nave nello spazio — disse J.J.

— Con una piccola differenza — disse Neil. — Se la riportassimo indietro, rimarremmo vivi.

— Credi poi che ti piacerebbe vivere come una specie di ameba, Neil? — disse J.J.

— No, certo, hai ragione — disse Neil.

— Jensen — disse Dom al microfono del sistema di comunicazione. — Voglio che controlliate la sala macchine in tutti i modi possibili, anche con le mani magari. Noialtri useremo i rivelatori portatili. Sarà meglio sintonizzarli sull’esplosivo al plastico: è il materiale che i terristi usano di più. Ellen, voi controllate le provviste alimentari. Se c’è una bomba a bordo, secondo me dovrebbe essere lì. Se l’hanno incorporata nelle strutture, allora dovrebbero averla messa nella sala macchine, dove provocherebbe il massimo del danno. Doris, risolvimi questo problema. Dimmi cosa ci vuole per far sembrare che la Kennedy deceleri e poi torni verso la Luna. Probabilmente i terristi stanno calcolando la forza delle nostre trasmissioni radio. Bisogna che pensino che stiamo obbedendo ai loro ordini, almeno per un po’.

A Doris occorsero tre minuti per fare i calcoli. — Ho inserito nella radio una curva di potenza automatica. I segnali si faranno leggermente più deboli in rapporto di decelerazione, poi diventeranno più forti.

— J.F. K., qui è Controllo Luna. Pronti al collegamento radio. Dite pure, stazione otto-cinque.

— Gordon — disse la voce giovane e concitata — qui è la voce della libertà.

— Vorrai dire la voce di un teppista — disse Dom. — Voglio che mi ascolti, e che mi ascolti bene. Sappiamo benissimo che il vostro è un bluff. Abbiamo controllato ogni atomo di peso a bordo della nave, e abbiamo scoperto che mentite. Procederemo sulla nostra rotta e continueremo ad accelerare. Volevo solo avere la soddisfazione personale di dirtelo, perché fra circa un minuto ordinerò alle forze di sicurezza della Luna di far saltare in aria la stazione otto-cinque con una piccola bomba atomica. Brucia bene, teppista.

Dal tono della voce il giovane sembrava vicino a una crisi isterica. — Sei tu il teppista, Gordon. Sei tu che stai rapinando la gente. E sei tu quello che salterà in aria, tu e tutti gli altri parassiti che hai a bordo. Possiamo fare esplodere la bomba da qui, e se tu ci butterai addosso un ordigno nucleare, la nostra bomba esploderà quando lo stabilirà il suo timer. In entrambi i casi, per te sarà la morte. Questa che ti offriamo è l’ultima possibilità che hai di tornare indietro. Sarete sottoposti a un giusto processo davanti a un tribunale del popolo.

— Teppista — disse Dom — hai circa un minuto ancora da vivere. Sembra che tu non capisca che vi abbiamo smascherato. Le vostre sono tutte chiacchiere. Voi teppisti non potete avere messo in alcun modo una bomba a bordo della nave. È assolutamente impossibile. Addio, teppa. Controllo Luna, qui è il capitano Gordon. Vi ordino di spedire fra un minuto esatto una piccola testata nucleare contro la stazione otto-cinque. Qui J.F.K., passo e chiudo.

La voce che si sentì un attimo dopo era diversa: calma, fredda, pacata. — Buona fortuna, capitano Gordon — disse. — Noi che amiamo la libertà non crediamo negli inutili spargimenti di sangue, né nello sciupio delle risorse. Se così fosse, premerei io stesso il bottone del detonatore. Ci piacerebbe recuperare la Kennedy e utilizzarneirottami per costruirefabbriche adibite alla produzione di beni di consumo per il popolo.

— Nessuno che riconosca questa voce? — chiese Dom nei circuiti intercom della nave.

— Vi assicuro, Comandante Gordon, che la bomba c’è, e che esploderà nel momento da noi scelto. Vi posso garantire che la Kennedy verrà distrutta completamente.

— Lo riconosco — disse Art nei circuiti di comunicazione interna. — Si chiama Bensen. Ha diretto le operazioni di caricamento dell’acqua.

— La maledetta acqua — disse Dom, togliendosi la cuffia di ascolto. — È nella maledetta acqua. Ha detto che la nave si aprirà come un melone. Una piccola carica non potrebbe spaccare a metà la nave, a meno che l’energia non venisse compressa da un grande volume d’ acqua. Andiamo.

— Comandante Gordon? — disse la voce fredda e pacata.

Dom tornò alla radio. — Dite pure.

— È con piacere che noto come, nonostante le vostre spavalde dichiarazioni, attualmente stiate decelerando.

— Allora avete analizzatori radio — disse Dom.

— Sì. Calcoliamo che vi fermerete e farete l’inversione alle 21,30 ora di Greenwich.

— Un attimo — disse Dom. Lasciò aperto il comunicatore e disse: — Calcolatemi per favore l’ora dell’inversione.

— 21,34 ora di Greenwich — disse Doris.

— Stazione otto-cinque — disse Dom — l’inversione avverrà alle 21,34 ora di Greenwich.

— Bene — disse Bensen. — E adesso l’ammiraglio Pinkerton trasmetterà il suo messaggio alla Terra.

Dom disse: — Il messaggio verrà trasmesso alle 21,34 ora di Greenwich, l’ora in cui la Kennedy farà l’inversione.

Ci fu un attimo di silenzio. Dom immaginò che i terristi si stessero consultando e cercassero di capire perché lui volesse aspettare due ore e quaranta minuti per trasmettere il messaggio. Evidentemente alla fine si convinsero che il rinvio non poteva danneggiare in alcun modo la loro causa, visto che la Kennedy obbediva agli ordini.

— D’accordo — disse Bensen. — Così avremo il tempo di trasmettere al Controllo Luna il testo del messaggio destinato alla popolazione della Terra.

— J.J., occupati tu delle comunicazioni. — Neil, adesso sta a te e me. Abbiamo due ore e trentanove minuti per trovare quella bomba.

— Sono pronto — disse Neil.

Neil infilò la tuta prima di Dom; aveva più pratica. Controllò la riserva di ossigeno di Dom, poi girò le spalle perché Dom controllasse la sua. Dopo meno di cinque minuti entrarono in una camera stagna che dava accesso alla stiva, a quell’enorme spazio che costituiva il principale volume della nave e che era pieno di migliaia di tonnellate di acqua pura.

— Dove pensi che sarebbe meglio cominciare? — chiese Dom, che comunicava con il resto della nave tramite la radio interna della tuta.

— Ho calcolato che per farla saltare in aria occorrerebbero come minimo cinque chili di esplosivo al plastico — disse Doris. Il suo tono era calmo, professionale. — Tuttavia, date le masse con cui ho a che fare quando si parla della stiva non posso distinguere un peso così piccolo. Il problema è costituito da una minima differenza di temperatura che caratterizza le diverse sezioni della stiva, una differenza sufficiente a far variare il peso per unità d’acqua.

— Fatti un appunto su questa cosa — disse Dom. — In futuro dovremo metterci nelle condizioni di poter analizzare l’interno della stiva. In questo momento immagino che ci toccherà setacciarne personalmente ogni centimetro, vero?

— Temo di sì — disse Doris.

— Il massimo dell’effetto si otterrebbe piazzando la carica vicino al centro geometrico — disse Neil.

— Giusta osservazione — disse Dom. — Cominceremo dalle paratie di centro dirigendoci poi verso prua e poppa. Io andrò verso poppa, Neil. Direi di controllare prima di tutto le travi ad arco e i supporti delle paratie. Bensen dev’essere abbastanza intelligente da capire che in questa massa d’acqua ci sono correnti di convezione, e che volendo fare esplodere l’ordigno vicino al centro della massa, bisogna sistemarlo in modo da non farlo sospingere dalle correnti.

— Sì, giusto — disse Neil.

Il compartimento stagno si riempì e si aprì sulla stiva. Dom si sentiva psicologicamente a disagio pensando che aveva adesso tonnellate di acqua sopra la testa. L’oscurità era totale. Le loro torce proiettavano lame di luce negli abissi bui davanti a loro. Nuotarono fianco a fianco nelle profondità della stiva e raggiunsero il centro dopo una nuotata che a Dom parve di chilometri e chilometri. Per un attimo rimasero spalla a spalla a puntare le torce in direzioni diverse. Poi Dom si spostò, muovendo la testa per dirigere la luce della torcia, che era fissata alla testa. Raggiunse il primo sistema di supporti, e iniziò una ricerca veloce ma accurata. Prese nota del tempo che occorreva per esaminare a fondo la paratia e fece un rapido calcolo mentale. Continuando a quel ritmo la bomba avrebbe fatto in tempo a esplodere, considerando che i terristi avrebbero agito quando, sopraggiunta l’ora dell’inversione, avessero visto che il messaggio non veniva trasmesso. E in quel momento loro non sarebbero arrivati a esaminare nemmeno la metà della stiva.


A Dom non era mai piaciuto stare sott’acqua. Lui era per gli spazi aperti. Voleva lo spazio intorno a sé, le grandi distanze interplanetarie, non il peso oppressivo di un liquido. Lottò contro la tentazione di nuotare in su, anche se non c’era un su, per raggiungere la superficie, l’aria. Nemmeno nelle astronavi più piccole si era mai sentito soffocato come lì, nell’acqua dell’immensa stiva. Si sforzò di respirare più piano: tendeva ad ansimare. Continuò a nuotare, dirigendosi verso la successiva serie di travi.

— Ho perso troppo tempo con la prima paratia — disse.

— Ricevuto — disse Neil. — Sono d’accordo.

— E c’è il rischio che limitandoci a controllare i posti più probabili non troviamo lo stesso la bomba — disse Dom. — Non abbiamo altra scelta, però. Bisogna che esploriamo con cura e che speriamo semplicemente che l’abbiano messa vicino al centro, in modo che possiamo trovarla prima delle 21,30.

— Comandante Gordon — disse Ellen Overman, — io sono una specialista dei sistemi di sopravvivenza.

— Vi ricordate come siano costruitiisupporti interni? — chiese Dom.

— Affermativo — disse Ellen.

— Mettetevi la tuta, allora — disse Dom. — Entrate dal compartimento quattro e dirigetevi a prua. Se vedete qualcosa, non fate niente da sola.

— So anche come maneggiare gli esplosivi — disse Ellen.

— Dom — disse Art — posso venire anch’io.

— Neanche per idea — disse Dom. — Non conituoi polmoni.

— Posso farcela — disse Art.

— Sta’ dove sei. È un ordine — disse Dom.

— È da quindici minuti che siete sott’acqua — disse Doris.

— Mancano due ore e ventiquattro minuti al dietro-front.

— Potrebbero concederci qualche minuto in più — disse Dom.

— Non contarci — disse J.J.

— Quando vedranno che non trasmettiamo il messaggio, si faranno sicuramente prendere dalla rabbia e dal panico. Sarà meglio che in quel momento la bomba si trovi nello spazio, a notevole distanza dallo scafo. Se Bensen eisuoi fanatici si convincono che stiamo cercando di fare i furbi, premeranno il bottone senza un attimo di esitazione.

— Non riesco però a capire perché vogliano che la Kennedy torni sulla Luna — disse Paul Jensen. — Per loro sarebbe un vantaggio farla esplodere nello spazio. Così sarebbero sicuri di non vederla mai più.

— Sapete cos’ho pensato quando ho detto loro che non avremmo trasmesso il messaggio finché non avessimo fatto l’inversione? — disse Dom. — Ho pensato che avrebbero fatto esplodere la bomba nell’attimo in cui la trasmissione fosse finita. Non ve l’ho detto perché non volevo angustiare nessuno con le mie paure.

— Voi due col vostro ottimismo siete proprio come due raggi di sole — disse Neil.

Dom nuotava attraverso un dedalo di travi ad arco. La luce della torcia mise in rilievo dozzine di angolini che sarebbero stati ideali per accogliere la bomba.

— Credo che abbiate ragione — disse J.J. — È molto probabile che nel momento in cui la trasmissione finirà, i terristi premeranno il bottone.

— Dio santo — disse Ellen Overman, uscendo dal compartimento stagno nella stiva. — Com’è grande!

— Non ci sono squali — disse Dom. — Almeno abbiamo questo vantaggio. Venite avanti, e vedrete da vicino le travi ad arco.

— Non vi preoccupate, so cosa fare — disse Ellen. — Ho avuto solo un attimo di smarrimento davanti alla grandezza della stiva.

— Venticinque minuti — disse Doris.

Ormai la ricerca era organizzata e sarebbe continuata, con tensione crescente, per altre due ore. Doris diceva a intervalli di cinque minuti quanto tempo era passato dall’immersione, e Dom cominciò a misurare i propri movimenti in base a quegli intervalli.

Alle 21,30 ora di Greenwich sarebbe stata esaminata poco più della metà dei supporti.

Alla fine della prima ora Dom cominciò a temere di avere messo a repentaglio la vita del suo equipaggio e l’esistenza della nave basandosi sulla semplice supposizione che i terristi avessero piazzato la carica al centro della massa. I dubbi gli provocarono sudori freddi, e il sistema di ricupero fluidi dovette lavorare intensamente per togliere le goccioline di sudore da dentro la tuta. Lui e Neil continuarono a cercare separatamente, allontanandosi gradatamente dal centro. Ellen era davanti, e andava nella stessa direzione di Neil. Dopo due ore e mezzo, Neil arrivò alla paratia sette-tre, quella da cui Ellen aveva cominciato la sua ricerca e resistette a stento alla tentazione di controllare ciò che aveva già controllato lei. Se a Ellen era sfuggito qualcosa, pazienza, pensò; in ogni caso, era sempre una questione di fortuna, perché la carica poteva non essere nemmeno nella stiva, ma da qualche altra parte della nave. Nuotò veloce e raggiunse in pochi minuti Ellen.

— Sono contenta di avere compagnia — disse lei.

— Proviamo a esplorare insieme, voi da una parte, io dall’altra — disse Neil. — Alla prossima paratia, voi esaminate a sinistra, io a destra.

Si mossero più in fretta di Dom, che era ancora da solo. L’enorme zona centrale della nave sembrava interminabilmente lunga.

— Sto osservando un fenomeno molto interessante — disse Doris. — I vostri movimenti spediscono impulsi di energia contro lo scafo. Gli indici hanno rivelato lievi impulsi di energia quando tutt’e tre nuotavate per conto vostro, e adesso che Neil e Ellen nuotano insieme la forza generata dai loro movimenti è abbastanza forte da essere registrata chiaramente dagli indici.

— E questo cosa vuol dire? — disse Dom.

— Niente — disse Doris. — Ma basandomi sugli indici direi che lo scafo potrebbe sopportare un’esplosione di poco inferiore a un chilo e mezzo di Dupont XP senza spaccarsi come un melone.

— Potrebbe essere incoraggiante se sapessimo che l’esplosivo è il semplice Dupont XP, e di peso non superiore a un chilo e mezzo — disse J.J.

— Durante l’incursione di Gufport, il mese scorso, hanno usato della nuova roba tedesca — disse Art. — È il venticinque per cento più potente del Dupont XP.

— Be’, se è tedesca, lasciamola ai tedeschi — disse Dom.

— Il Dupont XP è l’esplosivo standard che si usa sulla luna — disse Doris.

— Non aggrappiamoci a speranze così esili — disse Dom. — Credo che la nostra unica possibilità sia trovare la carica e buttarla fuori dalla nave.

— E se non ci riuscissimo entro il tempo stabilito? — disse J.J.

— Bisognerà evacuare la nave — disse Dom. — J.J. e Doris nella capsula uno. Art ed Ellen nella capsula del pilota, assieme a Neil. Io andrò con Paul nella capsula di poppa, ma vi chiedo di restare un po’ più a lungo degli altri, Paul, per darmi tutto il tempo possibile, qui giù.

— Considerato che ci vogliono due minuti per lanciare la capsula di emergenza, e che bisogna lasciarle il tempo di allontanarsi sufficientemente dalla nave, bisognerà avviarsi verso i compartimenti stagni quando mancheranno almeno quindici minuti all’ora zero — disse Doris.

— Posso uscire dalla camera stagna di poppa — disse Dom.

— Lanceremo le capsule dalla direzione della spinta, quindi la nave si allontanerà più in fretta di noi, in questo modo. Posso approfittarne per trattenermi cinque minuti di più.

— Così avresti troppo poco margine — disse Doris.

— Niente eroismi in questo viaggio, Flash — disse J.J. — Voglio che tu sia dentro quella capsula non oltre dodici minuti all’ora zero.

— Ricevuto — disse Dom.

— Inizieremo il conto alla rovescia quando mancheranno quaranta minuti all’ora zero — disse J.J. — A meno quindici minuti, dovranno essere a bordo della capsula tutti, meno Dom e Paul. A meno dodici minuti, Dom e Paul si lanceranno con la loro capsula. Ci ritroveremo nello spazio al mio segnale sulla banda di frequenza sette-zero-tre.

— Sarà magari una domanda stupida — disse Paul — ma non si potrebbe aprire la stiva e gettare tutta l’acqua nello spazio? Effettueremmo la ricerca in molto meno tempo.

— Una buona idea — disse Dom. — Ma per fare un buco in tutti i portelli di carico impiegheremmo cinque ore e mezzo.

— Peccato — disse Jensen. — Continuerò a esplorare i motori.

— A dir la verità, Paul — disse Dom — preferirei che adesso lasciaste stare i motori e faceste un controllo visivo e manuale delle paratie dei compartimenti. In caso si debba abbandonare la nave, esiste la possibilità che essa sopravviva a una piccola esplosione. Assicuratevi che siano tutti chiusi.

— Dagli indici risulta che sono a posto — disse Doris.

— Starò meglio se saranno controllati — disse Dom, nuotando il più veloce possibile verso un altro raggruppamento di paratie.

— Vado — disse Jensen.

— Dom, è passata un’ora e trentanove minuti — disse Doris. — Sessanta minuti ancora, e il conteggio continua.

— Comandante Gordon — disse Jensen, con voce cupa. — Cosa siete, medium, di professione?

— No, di professione sono solo pessimista — disse Dom. — Ditemi.

— Le serrature dei portelli degli sbarramenti stagni di riserva non funzionano — disse Jensen. — E in caso di pericolo toccherebbe solo ai principali reggere tutto lo sforzo.

— Quei dannati affari funzionavano quando li abbiamo controllati — disse Neil.

— Adesso non funzionano — disse Jensen.

Gli sbarramenti stagni di riserva erano stati messi per maggiore sicurezza. Tra la stiva e i compartimenti di prua e di poppa c’erano due serie di sbarramenti stagni. La parete interna non aveva portelli né serrature. Lo sbarramento esterno di riserva aveva il portello, in quanto dava accesso allo spazio d’aria tra le paratie.

— Tutti gli indici sono normali — disse Doris. — Quella dannata bomba dev’essere stata incorporata in qualche elemento.

— E da quando abbiamo controllato è successo qualcosa — disse Neil.

— Una carica acida regolata col timer collocata vicino all’impianto elettrico — disse J.J. — Questa potrebbe essere la causa.

— Questo significa che i terristi avrebbero lavorato su questa nave — disse Dom. — Bisognerebbe che avessero lavorato insieme un tecnico della strumentazione e un elettricista, per collocare le fiale di acido. Poi ci sarebbe voluto un ispettore a sorvegliare il loro lavoro.

— E chissà quanti altri ci saranno stati — disse J.J., con tono frustrato e arrabbiato.

— Art, da’ una mano a Paul e comincia a lavorare attorno ai comandi di quei portelli — disse Dom. — Vedi di chiuderli ermeticamente.

Tutti i pezzi di metallo che componevano i supporti interni avevano cominciato ad apparire uguali a Dom, che temeva di stare girando attorno alle stesse travi senza accorgersene. Era sempre più stanco. Quando si è stanchi, è più facile commettere errori. Aveva il terrore di non vedere per distrazione un piccolo pacco, e di essere costretto a rallentare per la stanchezza.

— Portelli di prua chiusi ermeticamente — disse Paul Jensen. — Mi sposto verso poppa.

— Ricevuto — disse Dom.

Di colpo si ritrovò a pensare a Larry. Ci sarebbe voluto lui, in quel frangente. Larry era capace di mettersi nella testa di quei figli di puttana di terristi sulla Luna, e di indovinare dove avessero messo la carica. Sì, Larry avrebbe riflettuto sul problema qualche minuto, poi, tra una barzelletta e l’altra, avrebbe detto: — Ehi, è semplice.

Allora prova a metterti nella testa di Larry, si disse. Prova a semplificare il problema. Quali erano gli elementi a disposizione? Un’allusione che faceva pensare che la carica potesse trovarsi nella stiva, e i portelli degli sbarramenti stagni di sicurezza sabotati.

— Cavoli — disse a voce alta, — è semplice!

— Che cosa è semplice? — chiese Neil.

— Hanno dovuto architettare tutto con notevole anticipo — disse Dom, eccitato. Mentre parlava, si diresse nuotando verso lo sbarramento stagno di poppa. — Si sono prefissi di provocare un’esplosione che avesse come conseguenza il massimo danno possibile. Così hanno fatto in modo che i portelli di sicurezza non si chiudessero, perché l’esplosione, se non avesse spaccato la carenatura esterna, avrebbe almeno provocato il massimo danno all’interno. Il loro scopo è spedire l’acqua della stiva nell’area di prua e nella sala macchine.

— Mi pare un ragionamento logico — disse J.J.

— Neil, tu ed Ellen cambiate direzione e nuotate più veloci che potete verso la paratia di prua.

— Quaranta minuti e il conteggio continua, Flash — disse J.J. — Sei pronto a rischiare il tutto per tutto in base a un semplice presentimento?

— Affermativo — disse Dom. — Troveremo la bomba sullo sbarramento stagno di poppa, o lì vicino. Giusto in caso avessero piazzato due cariche, voglio che Neil ed Ellen vadano a verificare nello sbarramento di prua. Secondo me, il loro scopo è recare il massimo danno al reparto motori.

Immaginò la scena. Lo sbarramento principale che si spaccava, l’acqua che si riversava nella sala macchine attraverso i portelli aperti degli sbarramenti di riserva. Non c’era nemmeno bisogno che fosse una grossa carica. Una piccola quantità d’ esplosivo sarebbe bastata a fare un gran buco nella paratia stagna.

Neil disse: — Ci stiamo muovendo. Penso che tu abbia ragione, Dom. Un buco del diametro di un metro nello sbarramento stagno provocherebbe quello che hai detto tu.

— Probabilmente la bomba sarà vicino a una giunzione — disse Dom.

Dom ansimava. Il raggio di luce della torcia fendeva l’acqua, davanti a lui. I minuti scorrevano velocissimi. Quando vide i contorni caratteristici dello sbarramento di poppa rallentò e si lasciò trasportare dalla forza d’inerzia. Aveva bisogno di far riposare un attimo il cuore. Lo sbarramento stagno era munito di rinforzi a forma di diamante. Dom si avvicinò, dirigendosi circa verso il centro. Lo sbarramento si estendeva in giù, in su, in lungo e in largo, e la bomba poteva essere stata collocata in un’infinità di posti, tanto più che ciascun diamante di rinforzo creava una serie di piani, che si prestavano a ospitare la bomba.

— Noi stiamo andando — disse Neil. — Ellen, dirigetevi verso lo scafo esterno e cominciate un esame accurato. Potrebbero avere messo una carica vicino alla carena.

— Trentuno e il conteggio continua — disse Doris.

— Paul e Art — disse Dom, — quando troveremo la bomba la porteremo fino alla camera stagna più vicina, quindi tenetevi pronti ad arrivarci in fretta. Paul azioneràicomandi della camera, Art starà presso la camera stagna esterna più vicina. Tutti quanti, se non l’hanno già fatto, indossino tuta ed equipaggiamento. Quando usciremo, bisognerà che una sezione sia chiusa, in modo che Art possa trovare già aperto il compartimento stagno esterno. Chiaro?

— Ricevuto — disse Art.

— Fra quindici minuti dovrete assumere le posizioni di abbandono-nave — disse J.J.

— Fra quindici minuti e il conteggio continua — disse Doris.

Per Domiminuti non erano mai passati così in fretta. Adesso si muoveva velocemente per esaminare tutto lo sbarramento stagno, controllava ciascuno spazio traidiamanti di rinforzo, e verificava con le mani se la superficie fosse liscia. Neil e Ellen dissero di non avere trovato niente.

E finalmente, Dom trovò la carica. Era nello sbarramento di poppa, montata a pochi centimetri dallo scafo esterno su una superficie piatta tra due diamanti di rinforzo. Riempiva completamente lo spazio ed era tenuta ferma da quattro dadi luccicanti fissati a borchie inserite nello sbarramento stesso.

— Neil — disse Dom — l’ho trovata. È nella seconda fila di spazi cavi traidiamanti, in posizione verticale.

— Ricevuto — disse Neil.

— Venti e il conteggio continua — disse Doris.

— Qui non c’è niente — disse Neil.

— Aspetta ancora cinque minuti e controlla un’altra volta — disse Dom. — Paul, ho bisogno di una chiave a settore elettrica da un centimetro, e di una patella da riparazioni di mezzo metro alla camera stagna di poppa di sinistra. Cominciate a riempire il compartimento stagno. Scommetto che questo affare è sistemato in modo da esplodere se viene rimosso sott’acqua. — Aspettò vicino al portello interno del compartimento. — Hanno affrontato troppi rischi per non metterci una sorpresina, in quell’aggeggio.

— Il compartimento stagno è pieno d’acqua e sta aprendosi — disse Paul.

— Qua la ricerca ha dato risultato negativo — disse Neil.

— Ricevuto — disse Dom. — Tu ed Ellen uscite. — Dom afferrò la patella da riparazioni e la chiave elettrica mentre il portello del compartimento si apriva.

— Sedici e il conteggio continua, Dom — disse Doris.

— Gli ordini non cambiano — disse Dom, tornando a nuoto verso la carica. — Assumete le posizioni di abbandono-nave.

— Gli ordini cambiano — disse J.J. — Io resto a bordo. Riusciremo a gettarla fuori in tempo, Flash.

— È una questione di sicurezza, e comando io — disse Dom. — Tu esci con la capsula, ammiraglio.

— Sì, signore — disse J.J., seccato.

Dom gonfiò la patella da riparazioni, pompando acqua intorno alla carica. Quando la bomba fu racchiusa dentro la patella Dom introdusse le mani e usò con prudenza il panno dentro la patella per asciugare la carica e lo sbarramento stagno intorno ad essa. Inserì la chiave, l’attivò e svitò uno dei dadi.

— Quindici e il conteggio continua — disse Doris. — Capsule pronte al lancio.

Due dadi erano già tolti. Il terzo stava venendo via.

— Numero uno lanciata — disse Doris.

— Capsula del pilota lanciata — disse Neil. — Non vediamo l’ora di tornare a bordo fra qualche minuto, Dom.

— Ricevuto, speriamo bene — disse Dom, svitando l’ultimo dado e togliendo la chiave.

— Io sono in attesa — disse Paul Jensen. — Ormai ci siamo solo voi e io, Dom.

Dom aspettò quarantacinque secondi perché le capsule si allontanassero dalla nave almeno di un centinaio di metri. Poi tirò a sé la bomba, che si spostò. Il cuore gli batté forte per la paura che esplodesse. La carica si incagliò, e Dom usò la chiave come una leva per staccarla completamente dalle borchie. La bomba si staccò e gli rimase in mano, dentro la patella da riparazioni. Dom la girò: era regolata in modo da esplodere a contatto con l’acqua. La chiuse in un sacchetto stagno, la tolse dalla patella e lasciò andare quest’ultima.

— Preparatevi ad azionareicomandi del compartimento stagno, Paul — disse. Entrò nuotando nel compartimento e il portello cominciò a chiudersi alle sue spalle. Il congegno esplosivo era complesso; oltre a essere regolato in modo da esplodere nel caso che qualcuno avesse cercato di rimuoverlo, era di quelli che venivano fatti detonare tramite radiosegnale.

— Quattro minuti e il conteggio continua — disse Doris.

— Sono nel compartimento stagno e ho la carica — disse Dom. Ma sapeva come tutti gli altri che ci volevano cinque minuti per vuotare il compartimento e alcuni secondi per aprire il portello esterno, correre lungo il corridoio senz’aria e spedire la bomba nello spazio.

— Dom — disse J.J. — Il Controllo Luna ci ha chiamato. I terristi li hanno avvertiti che se il messaggio non sarà trasmesso all’ora prevista la carica verrà fatta esplodere.

— Perdio, J.J., tu dovresti essere fuori della nave!

— Farai rapporto contro di me per insubordinazione — disse J.J. — Vedrai che ce la farai a gettare la bomba.

— Fermali. Di’ loro di aspettare, non importa con che scusa. Abbiamo bisogno solo di un paio di minuti in più — disse Dom. L’acqua veniva pompata fuori dalla camera stagna con spaventosa lentezza. La pesante bomba in mano a Dom pareva innocua, ma significava morte, non solo per lui, ma anche per la nave.

— Tre minuti, Flash. Controllo Luna dice che chiedere altro tempo è fuori discussione. Sono stati avvertiti di non farlo.

— D’accordo — disse Dom. — Di’ loro di cominciare a trasmettere il messaggio all’ora prevista. Dovrebbe durare almeno un paio di minuti, e potrebbe darci giusto il tempo di fare quello che c’è da fare.

L’acqua era scesa dal soffitto del compartimento di solo mezzo metro. Sull’orologio da polso di Dom i secondi passavano più veloci che mai.

— Quei dannati bastardi — disse J.J. — Quegli sporchi bastardi assassini. Dom, è stato deciso ai vertici di non fare alcuna concessione ai terristi. Non trasmetteranno il messaggio. Abbiamo due minuti e… cinquanta secondi.

Dom aveva paura, ma la sua mente continuava a lavorare, raffigurandosi la pianta della nave. Il compartimento stagno della stiva e il compartimeno stagno esterno dello scafo erano quasi uno davanti all’altro, separati solo da uno stretto corridoio che costeggiava la stiva e collegava l’area di prua con l’area delle macchine.

— Paul! — gridò Dom. — Potete disattivare i dispositivi di sicurezza del compartimento stagno della stiva?

— Affermativo.

— Fatelo. Il compartimento esterno dello scafo è aperto?

— Affermativo. Io sono nel vuoto.

— Quando ve lo dico, tenetevi forte da qualche parte e fate saltare il portello di questa camera stagna. Non mettetevi nel mezzo: verrà risucchiata fuori un mucchio d’acqua.

— Ho capito — disse Jensen. — Ci vorrà un minuto.

— Avete giusto poco più di un minuto — disse J.J.

— Dispositivi di sicurezza disattivati — disse Jensen. — Non funzionano bene. Hanno bisogno di qualche riparazione.

— Ci penseremo dopo — disse Dom. — Fate saltare subito questo portello.

Si piazzò contro il portello, tenendo il sacchetto stagno con la carica proteso verso il ponte. Quando il portello si fosse aperto, il vuoto nel corridoio e lo spazio dietro avrebbero risucchiato con forza tremenda tutta l’acqua del compartimento.

— Pronti — disse Jensen.

Il portello cominciò ad aprirsi. Si sentì un sibilo furioso, a causa della decompressione violenta che risucchiava l’acqua dalla camera stagna. Il risucchio fu così violento, che Dom per poco non fu trascinato via; si aggrappò con una mano a un sostegno, mentre la carica gli veniva strappata di mano dal potente risucchio. La bomba sbatté contro il portello mezzo aperto, poi fu proiettata fuori. Quindi, con la stessa rapidità con cui era cominciata, la decompressione finì, e si fece silenzio. Dom chiuse gli occhi e aspettò l’esplosione. Il portello della camera stagna continuò a salire. Dom guardò nel corridoio e vide Jensen ancora aggrappato ai sostegni. Se ci fosse stata un’altra bomba, a bordo, sarebbe scoppiata adesso.

L’esplosione avvenne nello spazio a circa cinquanta metri dalla nave e leggermente a poppa rispetto al portello esterno aperto, per cui Dom non la sentì. Quella bomba che sarebbe stata spaventosamente distruttiva se fosse esplosa nella stiva piena produsse una detonazione insignificante, nel vuoto dello spazio. Quando in seguito si esaminò lo scafo, si vide che nel rivestimento esterno c’era qualche danno di modestissima entità.

— Signor Jensen — disse Dom, molto formalmente e molto sommessamente — potete chiudere il portello esterno.

Percorse il corridoio e scoprì che ciascun membro dell’equipaggio era al suo posto, e che la notizia del lancio delle capsule gli era stata data per tranquillizzarlo. Da un lato si arrabbiò perché avevano disobbedito ai suoi ordini, dall’altro si commosse nel vedere che tutti quanti avevano rischiato la vita restando a bordo e facendo tutto il possibile per aiutarlo a salvare la nave.

— Cosa posso dire? — disse J.J. — «Un buon lavoro» sarebbe un’espressione inadeguata, data la posta in gioco che c’era.

— Potrai dire quello che hai da dire quando ti metterò a rapporto per avere ignorato gli ordini del Comandante — disse Dom.

Si sentì d’un tratto le ginocchia molli e dovette sedersi. Doris gli porse una tazza di caffè fumante.

— Credo di avere creato un mostro — disse J.J. — Concedete a un ufficiale subalterno un po’ di autorità, e il potere gli darà subito alla testa.

— Risparmiati le chiacchiere — disse Dom. — Presto avrai bisogno di tutte le tue energie. Voglio che la nave venga esaminata il più accuratamente possibile. Non voglio più sorprese. Desidero che siano controllati tutti i circuiti, tutti i componenti, tutti i centimetri quadrati che la compongono.

Doris lo stava guardando con uno strano sorrisetto sulle labbra.

— E tu? — disse Dom. — Credevo al sicuro anche te sulla capsula.

— Scusa — disse lei — ma non potevo. C’erano varie ragioni per non doverlo fare.

— Dom — disse Neil — nessuno di noi se la sarebbe mai sentita di lasciar distruggere questa nave e tornare sulla Luna con una scialuppa di salvataggio.

Dom pensò alle «varie ragioni» che Doris aveva avuto per restare sulla nave finché lui era lì a bordo e correva un pericolo.

— D’accordo — disse. — Immagino che dovrei esservi riconoscente. In effetti lo sono, ma come Comandante di questa nave, desidero che si sappia che non voglio altri ammutinamenti. Chiaro?

— Sissignore — disse J.J. sorridendo.

— Ammiraglio — disse Dom — cominciamo il controllo. Tu puoi cominciare dalle traverse.

E tutti gli angolini furono controllati negli estenuanti giorni che seguirono. Alla fine, l’equipaggio constatò con soddisfazione che la Kennedy non riservava più spiacevoli sorprese. Si rivelò esatta l’ipotesi che i circuiti dei portelli degli sbarramenti stagni di riserva fossero stati bruciati con una carica acida regolata col timer. Il danno non era grave. A poche ore dall’esplosione della bomba nello spazio, i terristi che si erano impadroniti della stazione otto-cinque furono uccisi. Intanto, nei giorni successivi, durante i quali sulla Kennedy si procedette al controllo delle apparecchiature, Marte cessò di apparire come una stella e divenne un piccolo globo, un disco rosso poco appariscente che cresceva rapidamente a mano a mano che le attività a bordo si stabilizzavano nella consueta routine.

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