Ufficialmente era la John F. Kennedy, perché era una buona trovata pubblicitaria chiamare la più grande astronave mai costruita col nome del Presidente che per primo aveva speso i soldi per piazzare il primo americano su un candelotto di dinamite e lanciarlo nello spazio. La decisione di chiamarla così era stata presa ai vertici del MINES.
Quelli che ci lavoravano attorno, però, la chiamavano Follia di J.J. o semplicemente Follia.
Fin dall’inizio la Follia fu un vero e proprio pachiderma. Era un buco gigantesco contornato da uno scafo. Era uno dei più grandi esempi dell’assurdità delle convenienze politiche. Chi ci lavorava attorno diceva che si stavano sciupando buoni tecnici, buoni soldi e buon materiale per una nave che non sarebbe mai stata in grado di uscire dall’orbita della Luna.
Dom fece un ultimo tentativo per cambiare il progetto. Costruì il modellino di uno scafo pressurizzato per resistere a seimila atmosfere, uno scafo semplice e affusolato fatto per trasportare un equipaggio di quattro persone, motori nucleari, e un cavo d’aggancio. Una nave così avrebbe potuto addentrarsi nell’atmosfera di Giove, agganciare la nave aliena e trainarla. E avrebbe avuto ancora un sacco di energia di riserva. Pur essendo studiata per resistere al doppio della pressione prevista, sarebbe venuta a costare un terzo della Follia.
J.J. disse che era un ottimo progetto, ma che non era un’astrocisterna. La Follia invece lo era. Naturalmente lui non la chiamò Follia, ma John F. Kennedy, nome che pronunciava sempre con un senso di profonda reverenza. Ma sapeva benissimo che gli uomini la chiamavano in quell’altro modo.
— So che pensi che è una follia — disse sottolineando significativamente quella parola, — ma non hai idea di quali difficoltà abbiamo avuto per convincereifinanziatori, Dom. Finché avremo più sostenitori dietro le quinte di quanto la gente non pensi, e molti burocrati eletti dal popolo favorevoli alla cosa, nessuno si arrischierà a dire apertamente che si tratta di una follia. Se lo facessero, i terroristi e i salvamondo metterebbero i loro pazzi al posto degli attuali burocrati, perché l’uomo della strada vuole burro, non ufo provenienti da Giove, Ilfatto stesso che la John F. Kennedy sia la nave più grande e più costosa che sia mai stata costruita è a nostro favore, perché la situazione è così brutta che solo le soluzioni drastiche appaiono affascinanti. Il Congresso ha votato il finanziamento perché l’astrocisterna può portare un’enorme quantità d’acqua e di fertilizzanti. Non saremmo riusciti a costruirla senza finanziamenti straordinari. Anche ci fossero bastati i soldi tenuti in serbo per le occasioni speciali, non avremmo potuto costruirla in segreto, perché per costruirla occorre lo sforzo concentrato di tutta quanta l’industria. Il finanziamento è stato concesso perché la nave aiuterebbe a incrementare la produzione di cibo, e i politici pensano di potersela cavare perché giustificherebbero l’enorme spesa con l’utilità dei fini. Solo una dozzina di uomini al di fuori del MINESPOV conoscono il vero scopo per cui la costruiamo.
— E quanti uomini degni di fiducia? — chiese Dom.
— Come facciamo a saperlo? — disse J.J. facendo un gesto con la mano. — Ci sono cinquanta probabilità su cento che uno di loro faccia una soffiata ai terristi prima che la nave sia terminata. Se succederà questo, i terristi cercheranno prima o poi di distruggerla. Ecco perché, a parte il fatto che si costruisce meglio nello spazio, la stiamo costruendo vicino alla Luna. Siamo in grado di proteggere abbastanza bene le squadre dei tecnici, perché c’è un solo modo per arrivare lassù: usare una nave del MINES.
— C’è nessun segno che faccia pensare che i contestatori sospettino qualcosa?
— È difficile a dirsi — disse J.J. — Al Congresso non fanno più baccano del solito contro i finanziamenti per lo spazio, ma ci sono stati alcuni editoriali su giornali che in passato si erano mostrati più o meno neutrali. La settimana scorsa c’è stato un raduno di salvamondo a New York.
— Sì, ne ho sentito parlare — disse Dom. — Solo venticinque morti. Una cosa moderata.
— E a Los Angeles hanno beccato due spaziali, due giorni fa — disse J.J.
— Questo non l’ho saputo.
— Abbiamo cercato di tenere nascosta la cosa — disse J.J.
— Quei dannati cretini sono usciti dalla zona di sicurezza. I terristi hanno usato il coltello, come al solito. Dopo le mutilazioni che hanno subito quei due poveracci, penso che sia stata una fortuna per loro morire.
Dom aveva pensato molto al problema della sicurezza personale. — E se uno volesse andare a fare una passeggiata nel deserto? — disse.
— Prima dovrebbe firmare una bella polizza d’assicurazione. Abbiamo pattuglie che sorvegliano costantemente il perimetro, ma è impossibile tener d’occhio tutto il territorio.
— È stata registrata qualche attività insolita?
— No, ci sono stati i soliti gesti isolati di matti che si mettono in testa di fare gli eroi, ma niente di organizzato. Non ancora.
Il progetto della John F. Kennedy continuò a procedere a rotta di collo. I test dell’incollaggio diedero ottimi risultati. I dati delle prove fatte al Caltech vennero immessi nel computer, e fu dato il via all’operazione. Si cominciò a fabbricare il materiale per le armature interne, e ad assemblare l’impianto di propulsione nucleare.
Da un lato era bello, dall’altro era triste guardare le operazioni procedere. Era bello essere coinvolti in un progetto così grandioso oltre che dispendioso. Era da quando Kennedy aveva messo sotto sforzo le industrie dopo che l’Unione Sovietica aveva spedito nello spazio il primo Sputnik che non si vedeva tanta fervida attività nel campo aerospaziale. Impianti abbandonati da tempo venivano rimessi in funzione. I principali appaltatori cercavano in tutto il mondo tecnici e scienziati. Chiunque avesse una specializzazione e volesse usarla, invece di attingere al denaro delle sovvenzioni statali, poteva trovare lavoro al grandioso disegno.
Dom fino ad allora era stato abituato a lavorare con notevoli restrizioni finanziarie. Una volta il MINES aveva speso migliaia di dollari per avvertire tutto il personale di usare entrambe le facciate della carta per appunti, per risparmiare denaro. La maggior parte dei blocchetti per appunti erano costituiti da foglietti propagandistici dei politici. Adesso era sbalordito nel vedere quanto si fosse liberi di spendere quattrini. Se, per esempio, avesse voluto mettere al lavoro qualcuno al MIT, non avrebbe dovuto fare altro che telefonare, e poi spedire il conto a J.J. Quando si trattava della Follia, non si badava a spese, e si pretendeva il meglio, costasse quel che costasse. I suoi computer di bordo non avrebbero avuto nulla da invidiare a quelli della Terra; era necessario che fossero perfetti, perché nessuno sapeva quanto tempo la nave sarebbe rimasta nella densa atmosfera di Giove, senza contatti con la Terra. Niente doveva essere lasciato al caso. Bisognava dare alla nave la possibilità di compiere la sua missione, e se questo significava spendere alcuni milioni di dollari per un sistema di riserva che scongiurasse il rischio di un guasto pur improbabile, i milioni venivano spesi.
Era bello, ed era triste, guardare le operazioni procedere; bello perché le industrie erano tornate all’attività nonostante il lungo periodo di stasi, triste perché la missione poteva fallire. Poi c’era anche il rischio che la nave aliena deludesse le aspettative e non fosse in grado di fornire informazioni preziose, magari sul viaggio a velocità superiori a quella della luce. Se la missione fosse fallita, o se le cognizioni apprese dalla nave aliena fossero state irrilevanti, la costruzione della Follia avrebbe costituito l’ultimo atto di un dramma che era cominciato quando gli americani avevano sentito il bip-bip dello Sputnik il 4 ottobre 1957.
Era eccitante partecipare a un’impresa così gigantesca e ne erano orgogliosi tutti, dai più in alto nella gerarchia al più umile degli operai. Vennero persino fatte molte ore di straordinario non retribuite.
Durante i primi stadi del progetto, l’équipe di Dom non vide la luce del giorno e rimase ininterrottamente a lavorare, a volte anche per dodici ore filate, nei laboratori e negli uffici sotterranei del MINESPOV. Si aveva la sensazione che il tempo incalzasse. I segnali lontani della nave aliena continuavano ad arrivare da Giove, ma per quanto ancora sarebbero arrivati?
Dall’ufficio di Dom partivano e si diffondevano gli ordini per il MINES, finché raggiungevano l’industria. Vennero puntualmente fatte le prime prove col motore nucleare. Il sistema di sopravvivenza veniva montato in unità portatili, che sarebbero state portate sulla Luna quando fosse stato pronto lo scafo. Doris e la sua squadra verificarono l’efficienza del computer. I metalli della carena vennero fusi e mandati sulla Luna. Il traffico tra i posti di lancio sulla Terra e Base Luna non era così intenso da decenni. Da Canaveral partivano parecchie navi spola al giorno, e portavano sulla Luna travi, bulloni e cibo.
Una delle cose più belle di quell’impresa era il senso di unità che si aveva all’interno del MINESPOV. J.J., che di solito aveva un atteggiamento freddo e riservato, completamente assorbito dai suoi problemi, non disdegnava di passare un po’ di tempo a parlare con i tecnici dei laboratori. Le barriere sociali erano cadute. Era come se tutti fossero sulla stessa barca diretta verso un posto non ben definito, e tutti ben lieti di essere in quella compagnia. La nostalgia era all’ordine del giorno. Si sentiva spesso nominare cari vecchi eroi come Gagarin, Grissom, Shepard, Titov, Glenn, Carpenter e Armstrong, Trelawny, che aveva messo per primo piede su Marte, Jones e Edwin, la cui sonda era arrivata su Venere, Radcliff, che aveva girato attorno agli anelli di Saturno. E si sentivano nominare vettori famosi come la Mercury, la Gemini, l’Agena, la Voskod Uno…
Ma l’argomento principale era la Follia, la terribile Follia, così gigantesca, così complicata, così totalmente assurda; ed essa a poco a poco cominciò a prendere forma e a diventare bellissima, con la rete di rinforzi interni che sembrava un pizzo di geometrica precisione.
Dall’équipe di Dom, nessuno, a parte forse Larry, avrebbe potuto dire con sicurezza quanto tempo fosse rimasto sottoterra, praticamente prigioniero di quella nave enorme che bullone per bullone, giunzione per giunzione, diventava sempre più grande, lassù a gravità zero dove veniva costruita. Larry sì, Larry era probabilmente l’unico che avrebbe saputo dire subito con sicurezza da quanto tempo erano tutti confinati nel sottosuolo; questo perché aveva svolto la sua principale funzione nel giro di un solo giorno. Adesso ci si serviva di lui per tenere i contatti. Era l’unico che ogni tanto lasciasse il MINESPOV, e probabilmente l’avventurarsi fuori era per lui il solo modo di conservare la sanità mentale. Era annoiato e soffriva la solitudine, perché Doris era totalmente assorbita dal suo lavoro col computer.
Le settimane diventarono mesi. Era quasi ora di cominciare a trasferire lo staff al MINESLUN, quando i terristi fecero la loro mossa e denunciarono la propria presenza con una scarica di mortaio che non arrivò nemmeno alla torre di controllo del cancello principale. A quei colpi di avvertimento fece seguito un assalto furioso al perimetro, condotto su due lati.
Quando ci fu la prima esplosione nel sottosuolo Dom non ci badò per niente. Quel rumore non veniva dal suo complesso, e lui era abituato alle prove d’ogni genere che venivano fatte quotidianamente. Continuò a lavorare finché nel suo ufficio non cominciarono a lampeggiare le spie rosse dell’allarme. Le guardò stupito, ma non capì cosa stava succedendo se non quando entrò nel duo ufficio Larry Gomulka. Questa volta, diversamente dal solito, non sorrideva affatto.
— Ci stanno attaccando — disse Larry.
— Non è proprio il momento — disse distratto Dom. — Adesso non ho tempo.
— Non c’è scelta, amico — disse Larry tirando fuori un sorriso. — Vieni nel rifugio.
Dom si preoccupò che il suo staff, di cui facevano parte anche parecchi tecnici, trovasse adeguato riparo. Si recò nell’ufficio di J.J. attivando da solo la monorotaia. Il settore di J.J. era piantonato da marines spaziali. Dom dovette mostrare la carta di riconoscimento, e quando fu fatto entrare nell’ufficio, J.J. non c’era. Un giovane cadetto gli disse di tornare nel suo settore e di trovare riparo.
— Ce la sbrigheremo in fretta — disse il cadetto — e dopo potrete tornare al lavoro.
Dom percorse corridoi vuoti, prese un ascensore e s’infilò in una torre di osservazione. Là trovò J.J. che guardava col binocolo.
Davanti al reticolato che circondava il perimetro si stava combattendo una battaglia su piccola scala. Erano scattate le difese automatiche e i primi terristi che si erano fatti avanti erano stati uccisi dal reticolato elettrificato. Lungo i due lati che gli assalitori avevano scelto per condurre l’attacco, si vedevano file di cadaveri. Sul luogo erano stati mandati i marines, e le loro armi producevano un rombo continuato.
— In quanti sono? — chiese Dom.
— Le prime stime dicono circa cinquemila — disse J.J.
Dom, con un senso di nausea, pensò che potevano diventare cinquemila cadaveri.
— Ma che motivo hanno? — disse J.J., mentre una vecchia granata ad alto potenziale esplodeva a un centinaio di metri dalla torre. — Non capisco proprio.
— Io non riesco mai a capire la stupidità — disse Dom.
— La prima cosa che mi sono chiesto è dove siano le vere truppe d’assalto — disse J.J. — Questa qui non è altro che una diversione.
— Per essere una diversione è abbastanza sanguinosa — disse Dom, cercando di distogliere gli occhi dai cadaveri sparsi lungo il reticolato.
— L’aviazione non ha individuato altro che i due gruppi che hanno attaccato da due lati opposti — disse J.J.
Era puro suicidio. Cosa speravano di ottenere attaccando un grosso complesso ben difeso come quello? Avessero almeno avuto armi avanzate, ma disponevano solo di due vecchi mortai e di alcuni fucili. Una diversione, diceva J.J. Ma una diversione da cosa?
— Il computer! — esclamò Dom d’un tratto.
— Calma — disse J.J. — È la prima cosa cui ho pensato. Ho mandato subito giù un manipolo di marines.
— Vado a dare un’occhiata — disse Dom.
Dopo che si erano viste le prime strutture interne dell’astronave, si era cominciato a pensare alla Follia come a una realtà, ma quei due o tre elementi che erano stati montati non volevano ancora dire niente. Per il momento la Follia esisteva solo in astratto, nel cervello di Dom, di Doris e di Art, e soprattutto nei circuiti del computer principale di Doris. In quella macchina c’erano mesi di lavoro e miliardi di dollari e nessun cervello umano avrebbe potuto fornire quell’enorme quantità di informazioni senza ricominciare tutto da capo. Se fosse stata distrutta la memoria del computer, la John F. Kennedy si sarebbe ridotta a qualche disegno sulla carta, a qualche appunto, e qualche idea tanto preziosa quanto inutile nella mente di chi aveva iniziato il progetto.
Il complesso dove lavorava e abitava lo staff di Dom era nella zona considerata più sicura del MINESPOV, nel profondo sottosuolo, ed era servito solo dalla monorotaia. Tra i laboratori nascosti e il mondo di superficie c’erano più di cento metri di roccia e terreno. La ferrovia sotterranea, sorvegliatissima, penetrava in quel nucleo soltanto da un punto.
Dom si fece riconoscere dai marines di guardia e, mentre veniva trasportato dalla velocissima monorotaia, si disse che forse si stava preoccupando senza ragione. Ben presto la monorotaia si fermò. Dom entrò in un dedalo di corridoi e corse verso la zona del computer. Imboccò il corridoio del rifugio anti-radiazioni e vide subito che la porta interna era spalancata. Quella porta era costruita in modo da far passare solo quelli la cui impronta della mano era registrata (fra costoro, naturalmente, c’era anche lui). Dom trattenne il respiro e sbirciò con prudenza oltre la porta.
La morte, pensò, appare più vicina e tangibile quando colpisce persone che si conoscono. In terra erano riversi vari corpi, alcuni dei quali in posizioni grottesche. Con un senso di nausea, Dom contò i corpi. Il rifugio era destinato a contenere quattordici persone. Lui ne contò undici, più volte, per essere sicuro. Non riusciva a capacitarsi che fossero così tanti.
Erano stati usati proiettili esplosivi. Il pavimento aveva un nuovo tappeto, rosso, attaccaticcio, che emanava un odore caratteristico. Dom dovette spostare tre corpi per riuscire a vederne le facce. Gli undici morti erano tecnici e scienziati che erano stati aggiunti allo staff. Art Donald, Doris e Larry non erano tra loro.
Dom uscì dalla stanza e s’incamminò piano lungo il corridoio, dirigendosi verso i laboratori e la sala del computer. Al primo angolo che girò trovo i corpi di due marines spaziali. I manipoli erano composti di otto uomini. Questo significava che, di quelli mandati da J.J., ne restavano sei.
Dom raccolse un fucile automatico a canne mozze da terra, vicino a uno dei marines. Rimase in ascolto un attimo, e in quel momento nel corridoio echeggiò lo sparo di un’arma automatica. Dom si slanciò avanti e mentre correva alla cieca nel corridoio che portava alla sala del computer, rischiò per un pelo di essere fatto secco. La porta della sala si spalancò di colpo e un uomo in calzamaglia nera, con la faccia nascosta da un cappuccio nero, gli scaricò addosso una pioggia di proiettili. Dom si buttò in un corridoio trasversale, registrando con terrore il frastuono dei proiettili esplosivi che gli sibilavano intorno. Malgrado i polmoni che sembravano volergli scoppiare, s’impose di correre.
Il suo impulso sarebbe stato di fermarsi e aspettare, ma sapeva che doveva muoversi. Si diresse verso l’area residenziale, raggiunse l’appartamento di Doris e spalancò con un calcio la porta. La stanza era vuota. Dom premette il comunicatore. Non funzionava. In ciascuna stanza del complesso c’era un bottone d’allarme che, in caso di pericolo, qualsiasi membro dello staff poteva premere per chiamare le forze della sicurezza. Dom premette il bottone d’allarme della stanza di Doris e aspettò che si accendessero le spie luminose e che suonasse la sirena, ma non successe niente.
Era chiaro che tutto il complesso era stato isolato. Era un lavoro che era stato fatto dall’interno. Là nel rifugio c’erano undici cadaveri, nel corridoio c’erano due marines morti. In quanti erano, i terristi? In quanti erano per aver ucciso tredici, e forse più, persone?
Rifletté se tentare di chiedere aiuto al settore di J.J. Ma i terristi avevano catturato Doris, Larry e Art, e li tenevano prigionieri nella sala del computer.
Sapeva cosa doveva fare, e non poteva fermarsi a riflettervi sopra, perché se l’avesse fatto poi gli sarebbe mancato il coraggio.
Uscì dall’appartamento di Doris e imboccò dei corridoi secondari che giravano intorno alla sala del computer, finché raggiunse una piccola porta così ben levigata da essere quasi invisibile nella parete. Vi premette sopra il palmo della mano, e la porta si aprì. Salì una stretta rampa di scale e aprì, sempre premendo il palmo, un portello. Questi dava nella sezione di riparazione e manutenzione del grande computer, che dal pavimento della sala si levava su su fino all’alto soffitto. Dom entrò nella zona di livello medio. Non aveva il camice sterile, ma quel po’ di polvere che aveva addosso avrebbe certo fatto meno male al computer dei terristi. Percorse i piccoli corridoi della manutenzione che attraversavano il ventre del computer. Quando arrivò in fondo, poté sbirciare di là dalla facciata della macchina attraverso un piccolo oblò.
C’erano tre corpi stesi in terra, tutti e tre con la divisa blu dei marines. Un quarto marine era appoggiato a una parete, aveva il viso pallido e sconvolto, e un moncherino al posto di un braccio. Gli altri due marines impugnavano armi automatiche e avevano di fronte cinque uomini in calzamaglia nera e cappuccio nero.
Doris, Larry e Art, stretti l’uno all’altro, erano sorvegliati dai due marines. I cinque uomini che indossavano la calzamaglia nera tipica dei terristi stavano disfacendo dei pacchi e ammucchiando stecche di esplosivo. Due di loro si accinsero a piazzare le cariche alla base della consolle di controllo. I detonatori erano già al loro posto ed erano stati attivati. Le cariche erano del tipo che veniva fatto esplodere attraverso un segnale radio a distanza di sicurezza. Quegli uomini in calzamaglia nera evidentemente sapevano di avere ben poche speranze di salvezza, pensò Dom, d’altra parte i terristi erano noti per il loro fanatismo. Per loro, il principale obiettivo non era tanto riuscire a salvare la vita, quanto vender cara la pelle. Doris, Art e Larry erano tre ostaggi molto importanti. I terristi avrebbero potuto o usarli come merce di scambio, o usarli come scudo per uccidere più uomini possibile, prima di essere uccisi a loro volta.
Dom aveva sempre considerato i terristi gli esseri più egocentrici del mondo. Le squadre scelte di terristi avevano portato a termine azioni rischiose e clamorose, tra cui l’assassinio di un Presidente e del capo della defunta CIA, ma come si poteva credere di cambiare qualcosa sacrificando vite umane nonché la propria? I terristi semplicemente non riuscivano a capire che le loro azioni, isolate o organizzate che fossero, non avrebbero impedito in alcun modo alla società di precipitare verso l’autodistruzione generata dall’esplosione demografica.
Dom la vedeva in modo diverso. Secondo lui l’umanità, come specie, aveva già abbastanza nemici naturali contro cui lottare. Doveva tuttora vedersela con le forze della natura: con le alluvioni, gli incendi, i terremoti, le bufere di neve, gli uragani, le eruzioni vulcaniche. Il passato di guerre e di sangue dell’umanità poteva apparire come roba da dilettanti se confrontato con la potenza tremenda della natura. E se l’uomo durante la vita non veniva colpito da una calamità naturale, doveva sempre fare i conti con la natura al momento della morte. La natura sembrava decisa a eliminare la razza umana, perché aveva instillato nell’uomo quella mina vagante che era l’istinto della procreazione, un istinto che non si sarebbe fermato finché la morte per fame non avesse eliminato tutti. No, secondo Dom l’uomo aveva già abbastanza nemici naturali, non aveva alcun bisogno di combattere contro se stesso. Se la morte era l’unico obiettivo, tanto valeva lasciare che madre natura seguisse il suo corso. Poi, come aveva detto Robert Frost, la morte sarebbe giunta come una gradita sorpresa.
A Dom parve di riconoscere in uno dei terristi incappucciati un esperto in elettronica che era stato assunto dietro raccomandazione del MINESLUN. Era un tecnico bravo, abbastanza bravo da aver potuto interrompere le comunicazioni e disattivare i sistemi d’allarme.
I due uomini che stavano sistemando gli esplosivi si stavano spostando, con i loro mortali pacchi in spalla. Cominciarono a salire le scalette sulla facciata del computer che portavano a un’entrata che dava sul livello dov’era Dom. Ci sarebbero volute solo tre o quattro cariche sistemate nei posti giusti per distruggere tutto il lavoro fatto fino ad allora per la John F. Kennedy.
Dom si nascose dietro un banco di memoria perché non lo vedessero dal portello d’entrata sul suo livello. Si chiese se non fosse anche lui, come i terristi, troppo egocentrico, visto che stava pensando di potere, da solo, fermare sette uomini armati e bene addestrati. Lui era uno spaziale, un esperto di scafi pressurizzati. Aveva passato alcune settimane nel campo di combattimento dell’Accademia, a suo tempo, e aveva seguito lezioni di lotta corpo a corpo nel quadro delle attività che servivano a mantenere il fisico in forma. Ma non aveva mai imparato a uccidere. A suo favore giocava il fatto che era ancora abbastanza in forma, nonostante i mesi passati a lavorare a tavolino. E c’era il fatto che era veloce. Lo svantaggio più grande era invece che non aveva mai provato a uccidere un uomo.
La testa degli esseri umani è molto, molto resistente. È strutturata in modo da poter sopportare colpi terribilmente forti. Conscio di ciò, Dom esagerò. Nel ventre del computer erano entrati i due terristi che stavano mettendo l’esplosivo, ed erano passati accanto a Dom senza vederlo. Lui abbassò il calcio del fucile con tutte le sue forze sulla testa del terrista che veniva per ultimo. La testa dell’uomo si spappolò, e la materia cerebrale si sparse dappertutto. Dom si mosse in fretta, come aveva imparato all’Accademia, e colpì l’altro uomo che si stava voltando. Vide il sangue sprizzare dai buchi per respirare ritagliati nel cappuccio, e velocissimo colpì una seconda volta. Vide volare in terra dei denti, e colare altro sangue da dietro il cappuccio. L’uomo era sicuramente morto.
Dalla sala, sotto, non veniva alcun suono. Nessuno si era accorto di niente.
Si meravigliò dell’indifferenza con cui aveva ucciso i due. Ansimando guardò se mostrassero ancora qualche segno di vita. Il secondo si mosse un attimo, e cercò di respirare con quella sua faccia che era ormai una macchia informe, poi giacque immobile. Uomini del genere vivevano solo per essere uccisi, pensò, e lui aveva fatto loro un favore. L’errore fondamentale che si faceva quando si parlava di terrorismo era di non capire una cosa importantissima, ovvero che i terroristi si consideravano sacrificabili, quindi erano meno che umani, e per questo andavano eliminati senza pietà dalla società.
Ma Dom non poteva ergersi a giudice. In fin dei conti, non era abituato a uccidere. Lo shock gli venne in ritardo, quando le gambe del secondo uomo si mossero ritmicamente in una danza di morte. E ce n’erano altri cinque di quegli uomini, là sotto.
Oltre naturalmente ad Art, Doris e Larry. Se Dom si fosse lasciato prendere dalla paura del sangue e della carne maciullata, sarebbe stata la fine per i suoi tre amici.
Scavalcò uno dei cadaveri e guardò fuori del portello. I cinque terristi stavano aspettando con vigile ma stoica pazienza. Uno di loro fumava. Dom calcolò se fosse possibile colpirli tutti con una raffica sparata dal portello, e si convinse che non c’era modo: le pallottole avrebbero colpito inevitabilmente anche i suoi amici. Tornò indietro, e strappò il cappuccio al terrista che era morto per primo, quello con la testa spappolata. Fremette sentendo la stoffa bagnata, ma fortunatamente il sangue era soprattutto nella parte posteriore del cappuccio. Dom trasse un respiro profondo e s’infilò il cappuccio. Poi fece capolino fuori del portello e chiamò i terristi con un fischio. Loro alzarono gli occhi a guardarlo, e lui fece segno a uno di venire su. Quello mise il fucile in spalla e si avviò di corsa su per la scala.
Il piano di Dom era di far venire su i terristi a uno o due per volta, ma la cosa non funzionò. L’uomo sulla scala vide i corpi dei suoi compagni e si mise a urlare. Dom gli diede una botta in testa e quello cadde, rimanendo con metà corpo fuori e metà corpo dentro il portello. Una serie di raffiche si abbatté sulla facciata del computer. Dom corse all’oblò da cui si vedeva la sala, sotto, e cominciò a sparare all’impazzata, cercando nel contempo di stare attento a non sparare troppo vicino al gruppo dei suoi amici. I due marines traditori e due dei terristi crollarono esanimi.
Art Donald, con sorprendente rapidità, spinse in terra Doris dietro una consolle, e le si buttò sopra. Così erano fuori dalla traiettoria del fuoco. Larry non fu abbastanza veloce e fu afferrato da uno dei due uomini rimasti. L’altro si mise anche lui al fianco di Larry, e assieme al complice trascinò Gomulka contro la consolle di controllo che stava direttamente sotto Dom, fuori della traiettoria dei suoi proiettili. Uno dei due terristi cominciò a sparare con metodo e precisione contro la facciata dei computer. Sia lui, sia il suo compagno stavano stretti vicino al Larry. Dom non se la sentì di sparare. Dovette cercare di schivare il fuoco che si stava abbattendo sulla facciata del computer. I proiettili esplosivi non penetravano oltre il metallo, ma spedivano dappertutto piccole schegge.
— Non potete uscire di qua vivi — gridò Dom. — Ma se vi arrenderete, potrete avere salva la vita.
Nonostante il fatto che i terristi non venissero mai giustiziati, ma soltanto messi in prigione (quasi che le autorità volessero mantenerli in buona salute in attesa che i loro amici rapissero qualche funzionario importante di cui barattare la vita con la libertà dei loro soci), difficilmente si arrendevano.
— Deponete le armi! — gridò Dom.
La risposta fu una nuova raffica di proiettili. Quando cessò, Dom guardò fuori dall’oblò. C’era stato un cambiamento di strategia. Non essendo riusciti a distruggere le banche dati, adesso i terristi avrebbero cercato di danneggiare il programma uccidendo tre persone importanti. Dom guardò senza poter fare niente uno dei tre terristi sopravvissuti tirar fuori una granata e portarla alla bocca per togliere coi denti al sicura. La granata avrebbe sicuramente ammazzato Art e Doris, senza contare che avevano Larry in mano loro. Dom aveva una possibilità. Sporgendosi fuori e puntando il fucile poteva beccarlo, ma avrebbe inevitabilmente colpito anche Larry coi proiettili esplosivi.
A poco a poco la situazione si avviò verso un’impasse, perché Dom, nemmeno per salvare Doris e Art, se la sentiva di uccidere l’ometto sorridente stretto fra i due terristi. No, non se la sentiva proprio. Non poteva fare nient’altro che gridare la sua disperazione.
Ma Larry Gomulka era un uomo abituato a risolvere problemi. Quella era la sua specialità. Anche lui aveva visto il gesto del terrista che si avvicinava alla bocca la granata, e dalla direzione del suo sguardo capì dove intendeva gettarla.
— Giù la testa! — gridò Larry, buttandosi in avanti e attivando il detonatore manuale di una delle cariche collocate sulla consolle. Tutti i congegni esplosivi dei terristi erano dotati di detonatori manuali. Il suicidio da kamikaze era un hobby popolare tra i terristi, e quando vi si dedicavano, amavano trascinare con sé nella morte gente innocente.
Dom sentì la facciata del computer crollare verso l’interno, avvertì la scossa violenta dell’esplosione e cadde. Lottò per rimettersi in piedi, mentre il rimbombo gli lacerava le orecchie. Art si stava muovendo e cercava di scrollarsi di dosso una parte di consolle. Doris era sotto di lui, e urlava. Dom le vedeva il viso. Lasciò cadere il fucile, che colpì quello che rimaneva di un corpo e rotolò sul pavimento con un suono sordo. Il terrista metà dentro e metà fuori del portello era stato proiettato in avanti dall’esplosione e non aveva più una gamba. La consolle era in pezzi, e nella base del computer si era aperto un buco. Vicino ai resti di una consolle secondaria rovesciata c’era un torso senza braccia. Non era quello di Larry, però: era troppo grande. La calzamaglia nera da terrista era volata via, e il petto appariva nudo, forte e muscoloso. Dom si tirò su puntellandosi alla consolle mentre Art, scrollando la testa, cercava di alzarsi. Doris deglutì a vuoto più volte, per riacquistare l’udito. Dom aiutò Art a rimettersi in piedi, poi lo lasciò appoggiato alla facciata in pezzi del computer e aiutò Doris a rialzarsi.
— Tutto bene? — le chiese, e la sua voce gli sembrò lontana. Aveva ancora nelle orecchie il rimbombo dell’esplosione.
— Non ti sento — disse lei. Parlava a voce alta. — Larry è morto?
Dom annuì. — Ti ha salvato la vita — le disse.
Lei contrasse il viso. Non pianse, ma dalla bocca le uscì un suono strozzato.
La porta esterna si spalancò di colpo e irruppero dentro sei marines spaziali, tutti giovani, tutti convinti della propria efficienza e tutti ormai terribilmente inutili. Dom riconobbe il cadetto che gli aveva assicurato che i marines se la sarebbero sbrigata in un attimo.
La reazione gli venne tutta in una volta. Cominciò a tremare e gli venne voglia di vomitare. In quel momento pensò che sarebbe stato contento di non sentir mai più nominare la Follia. Anche fosse stata la nave più importante dell’universo, non aveva proprio senso che per essa avesse perso la vita quel piccolo uomo sorridente che era Larry. Dom barcollò all’indietro e per poco non scivolò; per sostenersi si afferrò alla consolle semidistrutta. Doris gli posò una mano sul braccio e lo guardò.
— Ha impedito loro di distruggere le banche dei dati — disse. Per un attimo Dom pensò che stesse parlando di lui e gli venne voglia di ridere, ma poi capì che si riferiva a Larry. — Ha salvato il progetto.
Dom pensò che per il momento non aveva importanza cosa Doris credeva: avrebbe capito in seguito qual era la verità. Larry aveva salvato qualcosa cui teneva ben di più delle banche dati del computer. Aveva salvato la vita della donna che amava e quella di un amico.