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Su un lato della stanza degli spessi oblò di plastica permettevano di vedere le stelle non offuscate dall’atmosfera; erano brillanti e vivide, punti di luce in un cielo nero come la pece. In fondo alla sala c’era un piccolo gruppo di persone di cui faceva parte anche Dom, vestito con l’uniforme da cerimonia. Art Donald era l’unico civile presente.

Un ammiraglio con quattro stelle doveva consegnare la medaglia al valore per Larry alla sua vedova, e la cerimonia era seguita in diretta per televisione dalla Terra.

Quando fu terminata e l’ammiraglio tornò al MINESPEST, a Washington, Dom guardò Doris ingollare un lungo sorso di scotch.

— Non la voglio — disse Doris, guardando la piccola medaglia d’oro che aveva in mano.

— Credo di capire i tuoi sentimenti — disse Dom.

— Larry si sarebbe scompisciato dal ridere a vedere questa — disse lei.

— Sì, lo so.

— Avrebbe detto di non avere mai conosciuto un candidato più improbabile di lui alla Medaglia Spaziale al Merito. — Doris abbozzò un sorriso privo di gioia.

— Nessuno l’ha mai meritata di più — disse Dom.

— Amen — disse Art.

— La sua vita valeva dunque tanto? — disse Doris, con amarezza. — Io la mia non la valuto così tanto.

Ad Art andò di traverso lo scotch. — Non intendevo assolutamente dire una cosa del genere.

— Oh, Art, scusa — disse lei. — È solo che mi pare tutto così dannatamente assurdo.

— Coraggio — disse Dom, posando una mano sulla sua.

— Certo Art non può sapere che Larry e io avevamo parlato proprio di questo argomento — disse Doris. — Larry diceva ironicamente che l’eroismo, specialmente quello che comporta il sacrificio della propria vita, è una delle nostre tradizioni più apprezzate, a cominciare da quel ragazzo spartano che per qualche ragione lasciò che una volpe o un ratto o qualcosa del genere gli rodesse le budella. Poi c’è il buon soldato che si getta in mezzo alle granate che esplodono per salvare la vita dei suoi amici a costo di perdere la propria. Non è strano, diceva Larry, che le medaglie più importanti, la Medaglia al Merito del Congresso e la Medaglia al Merito dello Spazio, siano spesso assegnate postume?

— Credo che se gli avessi chiesto cosa pensava realmente della cosa ti avrebbe detto che le medaglie più importanti vengono assegnate postume per far vedere quanto sia grande il rispetto che si ha per le singole vite — disse Dom. — Quando un uomo dà la vita per un amico o per il suo paese…

— Allora diamo la Medaglia al Merito del Congresso a tutti i terristi che commettono suicidio — disse Doris.

— Non è la stessa cosa — disse Art con voce fievole.

— No, infatti — disse Doris.

— Perché i terristi non muoiono per la fede che contraddistingue questa particolare epoca.

— Non sei sicura che Larry sia morto per quello in cui credeva? — disse Dom. Sapeva che Doris era molto tesa, e pensava che forse le avrebbe fatto bene sfogarsi. Si era immersa nel lavoro dopo l’attacco alMINESPOV.Prima aveva aiutato e diretto i lavori di riparazione al computer, poi aveva portato avanti il progetto.

— Ti parrà strano, ma è così — disse lei, aggrottando la fronte. — È così, capisci? — Inghiottì a vuoto, prima di poter continuare. — Se potessi credere che Larry l’ha fatto per il progetto, per il mondo…

— Aveva in mente anche il progetto e il mondo, quando l’ha fatto — disse Dom. — Tu sai quanto era veloce nelle sintesi. Ha pensato a tutto, e a quale effetto avrebbe potuto avere per il futuro dell’umanità la buona riuscita del progetto. Abituato a risolvere problemi, ha capito che per risolvere questo avrebbe dovuto premere il bottone di un detonatore. — Dom parlava così deliberatamente, per indurre Doris a sfogarsi. Lei non aveva pianto fino ad allora, e non aveva mostrato la minima emozione fino a che non le avevano messo in mano quella piccola medaglia d’oro.

Art, che non capiva cosa stesse cercando di fare Dom, appariva a disagio. Cercò di attrarre la sua attenzione e di dirgli che la smettesse.

— Ha messo insieme tutti i dati — continuò Dom. — Ha messo insieme la vita di Doris Gomulka e di Art Donald, la John F. Kennedy, e la nave aliena là nell’atmosfera di Giove. Ha soppesato questi dati, e ha calcolato se valessero il sacrificio della sua vita. Tu, Doris, vorresti convincerti che l’ha fatto solo per il mondo, ma non ci riesci. Non ci riesci perché in cuor tuo pensi che l’abbia fatto per te. Ma perché vuoi togliere questo elemento, la tua vita, dall’insieme di dati che Larry ha preso in considerazione? Perché vuoi togliergli la soddisfazione di avere risolto l’ultimo dei suoi problemi? Sì, è vero, l’ha fatto anche per te, molto per te, e non accettare questo fatto vorrebbe dire fare un torto a Larry, sminuire il suo sacrificio. Se tu credi che la tua vita non valga il prezzo che lui le ha dato, allora Larry ha fatto male i conti, perché ha dato troppo…

Dom stava ancora tenendo la mano di Doris. Doris tentò di respingerla. Respirava affannosamente.

— Larry è morto perché tu potessi vivere. Devi accettarlo consciamente, Doris. Devi concedergli questo, non cercare di sottrargli uno dei suoi meriti.

Doris non tentò di coprirsi la faccia. Piegò le labbra in giù, chiuse gli occhi pieni di lacrime, emise un lamento sommesso e angosciato. Il suo viso era una maschera di dolore, e i suoi singhiozzi erano così penosi che Art non resistette e se ne andò. Doris continuò a singhiozzare. Dom la condusse fino al divano e con delicatezza la fece sedere. Lei teneva le mani serrate a pugno lungo i fianchi e piangeva con grande violenza e rumore, in modo tutt’altro che femminile. I suoi singhiozzi erano rauchi, gutturali, quasi soffocati.

Quando il peggio fu passato, Dom fece sdraiare Doris sul divano e la coprì con una coperta. La lasciò che piangeva ancora, ma più dolcemente.

Mentre si cambiava, nel suo appartamento, e indossava la tuta pesante, si sentì lui stesso un po’ commosso, perché pensò che a Larry sarebbe senz’altro piaciuto vedere la John F. Kennedy sospesa là nello spazio.

Si chiese se sarebbe stato altrettanto rapido e deciso di Larry, trovandosi nella sua stessa situazione. Non seppe rispondersi. Ma non si sarebbe mai più chiesto, pensò, se il suo sacrificio sarebbe valso la pena.

Prese una navetta per andare sul luogo della costruzione. Stavano collocando le lamine sopra lo scheletro interno. Per la mono-saldatura occorreva il quasi-vuoto dello spazio. Dove le saldatrici erano al lavoro erano visibili le stelle, sullo sfondo. Tutto veniva fatto in un silenzio strano, nello spazio senz’aria. Le stelle erano un pubblico muto.

Un buono spaziale ha una sorta di orologio celeste in testa. Dom conosceva, guardando da breve distanza, la posizione relativa dei pianeti nelle loro orbite. Marte era là, chiaramente visibile. Giove, se Dom fosse stato al telescopio, sarebbe risultato nascosto dietro la massa della Luna.

Ma i segnali continuavano ad arrivare. Erano meno intensi, e non facilmente captabili dalla Terra. Erano registrati costantemente dalla Luna e dalle navi nello spazio.

L’insolita libertà di spendere soldi che era la novità del progetto non riguardava solo il luogo della costruzione, ma si estendeva ad altri campi dell’attività spaziale. Poiché era necessario registrare i segnali, venivano spedite nello spazio più navi del solito che, mentre ascoltavano i messaggi provenienti da Giove, svolgevano lavori utili che erano stati programmati tempo addietro ma che da decenni non venivano realizzati per mancanza di fondi. Si ricominciò a vedere lo spazio come un immenso terreno di ricerca, e la scienza come qualcosa dotata di un fascino indipendente dagli scopi pratici, qualcosa che nasceva dal naturale bisogno dell’uomo di scoprire cosa ci fosse oltre le colline.

Una nave che partiva per captare i segnali di Giove poteva nel contempo effettuare misurazioni magnetiche, puntare i telescopi di bordo oltre il sistema solare, prendere campioni di asteroidi, portare a termine uno qualsiasi degli innumerevoli piccoli progetti di ricerca capaci di accrescere il patrimonio di conoscenze scientifiche. Perfino quelli sempre pronti a criticare si convinsero che era giusto sfruttare al massimo per la ricerca il fatto di dover mandare navi nello spazio.

La presenza di Dom sulla Luna non era indispensabile. Il suo lavoro ormai era terminato. Ma per nessuna ragione al mondo Dom avrebbe accettato di andarsene, anche se non partecipava attivamente alla costruzione di quel giocattolo strambo che sarebbe diventato la John F. Kennedy. (Quando la chiamava Follia, Dom aveva preso l’abitudine di aggiungervi davanti un «Grande»). C’erano continuamente delle grane e quindi delle decisioni da prendere, ma Dom poteva lasciare che se ne occupassero ilMINESPOV oilMINESPEST. Se lui non era necessarissimo lì, Doris invece lo era, e c’era bisogno della squadra di Art Donald per condurre dei test sulla costruzione, mano a mano che questa procedeva.

La John F. Kennedy prendeva sempre più forma, e velocemente. In tutto il mondo non c’era in ballo progetto più imponente di quello. Il ministero stava concentrando tuttiisuoi uomini e quasi tutti i suoi soldi su quell’astronave. Tra la gente delminesla John F. Kennedy era l’argomento del giorno, sia sulla Terra sia nello spazio.

L’enorme nave stava prendendo forma nel suo elemento naturale, lo spazio, e aveva come sfondo la superficie butterata della Luna e il nero pece del vuoto. Contribuiva a rendere ancora più bello e sereno lo scenario. Seduto nella navetta a cinquemila metri dalla Kennedy, Dom trovava difficile credere che sulla sfera biancoazzurra della Terra si stavano svolgendo terribili conflitti. I governi venivano continuamente cambiati, i terristi si abbandonavano ai loro ciechi atti di crudeltà, in Senato l’atmosfera era surriscaldata perché i radicali, che erano la maggioranza, erano in furiosa polemica con quelli che ritenevano che l’uomo non dovesse necessariamente restare confinato nel proprio pianeta ad autodistruggersi.

Per settimane e settimane infuriò un dibattito sulla battaglia delMINESPOV.quella in cui erano morti tremiladuecento terristi. Il partito populcratico, che era quello al potere, fu attaccato accanitamente da inferociti terristi e salvamondo, che senza timore si dichiaravano tali. La sinistra versò lacrime accorate, piangendo il massacro di massa avvenuto davanti al perimetro delMINESPOVe, zelante nell’opporsi alla pena di morte per i terroristi, richiese la spietata esecuzione capitale di tutti coloro che erano responsabili di avere massacrato i terroristi stessi, rei soltanto di avere usufruito dei diritti concessi loro dal primo emendamento e di avere espresso la loro disapprovazione per la politica spaziale del governo.

Solo una volta prese la parola un uomo coraggioso che ricordò al Senato che alMINESPOVerano morti due dozzine di civili e più di cento marines spaziali. Fu fischiato da tutti e costretto al silenzio. Mentre tornava al suo appartamento, fu attaccato da una terrista adolescente in abitino sexy, che nascondeva una bomba nel reggiseno imbottito. La bomba provocò la rottura del timpano sinistro del coraggioso senatore e uccise due delle sue guardie del corpo. Così veniva messo a tacere chi aveva il coraggio di dire cose di buon senso; evidentemente, delle libertà sancite dal primo emendamento si teneva conto solo in certi casi e non in altri.

Era come se la maggioranza degli americani si sentisse in colpa per il fatto di accettare la politica del governo, che garantiva la sicurezza dalla culla alla tomba a spese della libertà individuale, o desiderasse essere punita dai coltelli e dalle bombe dei terristi. Sovrappopolato e poco nutrito, il paese era un formicaio formato da metropoli così enormi da essere praticamente unite tra loro, e la gente che viveva il trauma del sovraffollamento sembrava non vedere speranze nel futuro e desiderare soltanto di morire.

La Terra era in tumulto, e non venivano date licenze agli spaziali. Gli impianti limitati della Luna erano messi a dura prova dalle squadre di costruzione, e gli spaziali che arrivavano da Marte o dalle vicinanze di Giove a volte dovevano passare il tempo della licenza a bordo della nave. Se si lamentavano, però, lo facevano bonariamente, perché avevano il vantaggio di vedere costruire la Kennedy.

Dom passava un mucchio di tempo con Neil Walters, che avrebbe collaudato e pilotato la Kennedy. Benché fosse piuttosto anziano, Neil come aspetto sembrava un eterno ragazzo di venticinque anni. Era alto un metro e novantatré ed era sormontato da una massa di capelli biondi e ricci. Aveva occhi profondi che ridevano sempre, e un viso squadrato e incisivo che ben si adattava al suo coraggio e alla sua reputazione. Parlare di volo spaziale gli piaceva quasi quanto il volo spaziale stesso. Si era prefisso di imparare sulla Kennedy tutto il possibile, per poterla conoscere in ogni suo più piccolo particolare. Per Dom la compagnia di Neil era piacevole, perché per lui la Kennedy era diventata la principale ragione di vita.

Quando la nave fosse partita, Neil ne sarebbe stato al comando. Neil aveva un’intelligenza acuta, e Dom non doveva ripetergli mai le spiegazioni sui particolari tecnici più complicati. Anzi, Neil poneva domande che costringevano Dom a tornare in laboratorio e a lavorare assieme a Doris al computer, per controllare e ricontrollare dati. Le domande di Neil erano importanti e acute, e inducevano Dom a controllare tutti i calcoli fondamentali, nonché la teoria che era alla base del concetto rivoluzionario di scafo avvolgentesi. Dom non scoprì niente di seriamente sbagliato ma apportò comunque lievi cambiamenti.

La critica principale di Neil era che sarebbe stato impossibile collaudare lo scafo della Kennedy nelle condizioni di pressione di Giove.

— Sapremo solo quando entreremo nell’atmosfera di Giove se funzionerà o no — disse Dom.

— Be’, se non funziona non possiamo mica più rimediare alla cosa, una volta che siamo là — disse Neil con un gran sorriso.

— Terremo d’occhio momento per momento la situazione, controllando la pressione che si eserciterà sullo scafo — disse Dom. — Se vedessimo segni di cedimento nello scafo, potremmo sempre tornare indietro.

Neil rise. — Be’, almeno un vantaggio ci sarebbe. Se qualcosa andasse male, avrei probabilmente il tempo di sputare in faccia al progettista prima di crepare.

Neil era una compagnia stimolante, ma nemmeno parlare con lui bastava a Dom. Non c’ era molto da fare sulla Luna, e le ore erano lunghe da passare. Bere costava molto perché non c’erano distillerie sul satellite e la sbornia era un genere di lusso non compreso nelle razioni. Dom passava molto tempo negli osservatori, giocava un po’ a bridge, andava un po’ in esplorazione, anche se, una volta che si è visto un acro di Luna, tutti gli altri gli somigliano. I crateri sono uno uguale all’altro, e differiscono solo per la grandezza. Dom si dedicava anche molto alla lettura. Ma i giorni erano ugualmente lunghi da passare, e le settimane e i mesi interminabili. La nave prendeva sempre più forma, e il piacere più grande per Dom era seguire passo passo il lavoro che veniva fatto di giorno in giorno.

Fu interessante quando le minisaldatrici cominciarono a unire le giunzioni legate dall’incollaggio porridge alle lamine di metallo della carenatura. Andò tutto come previsto, senza problemi.

Doris era completamente assorbita dal lavoro. Era sempre occupata e trovava tempo solo ogni tanto per cenare con Dom. Quando era da solo con lei, Dom stava attento a badare solo al lavoro e a non introdurre elementi personali nella conversazione. Dopo avere pianto ed essersi sfogata il giorno che aveva ricevuto la medaglia alla memoria di Larry, Doris riusciva a parlare di lui senza soffrire. Non era più necessario ricordarsi di non nominare Larry, perché lei lo faceva spesso. Come se lui fosse solo lontano per uno dei suoi giri. Doris diceva: — Mi chiedo cosa direbbe Larry di questo. — Lui viveva nella memoria di lei, ma non era diventato un’ossessione. Dom aveva l’impressione che il dolore fosse ancora presente in lei, ma che non fosse più una ferita aperta per Doris. Doris ora riusciva a ridere se le raccontava una barzelletta, e a soffermarsi sul passato senza dare l’idea dell’eterna vedova in gramaglie.

J.J. si recava sulla Luna a intervalli regolari per incoraggiare, indagare, rallegrarsi e incalzare. Era sulla Luna il giorno che l’aria fu pompata nello scafo e per la prima volta gli operai poterono lavorare dentro la Kennedy senza la bombola d’ossigeno. Il lavoro intorno alle finiture e all’equipaggiamento procedette veloce.

J.J. si sedette al posto di pilotaggio ed esaminò gli strumenti davanti a sé.

— Mi sa che dovrò fare un corso d’aggiornamento — disse.

— Per che cosa? — chiese Dom.

— Per riuscire a far volare questa nave.

— Tu?

— Sono l’aiuto pilota — disse J.J.

Dom rifletté sui vantaggi e gli svantaggi della cosa. — Non riesco a pensare a nessuno meglio di te — disse.

— Ti ringrazio, figliolo — disse allegro J.J. — Sia chiaro che io sono superiore solo come grado. Nelle operazioni di navigazione verrò nel comando dopo Neil e te, e solo tu dovrai decidere per le questioni riguardanti la sicurezza.

— Ti ringrazio — disse Dom.

J.J. guardò davanti a sé, fuori dall’oblò. — Flash — disse, — su Giove tutto dipenderà da te. Abbiamo puntato il tutto per tutto su questo viaggio, ma non ha senso morire inutilmente. Se funzionerà, te ne verrà gloria. Se fallirà, nessuno potrà mai dirti che io l’avevo previsto e te l’avevo detto. Ma se falliamo, se l’impresa non avrà successo, l’intera stupida razza umana sarà la prima ad avere perso.

Dom rimase zitto. A un discorso del genere, non c’erano commenti da fare.

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