10

Vedere Marte da vicino era sempre un’esperienza eccitante per Dom. L’atmosfera sottile del pianeta permetteva di osservarne chiaramente la superficie. Una tempesta di sabbia a forma di ciclone soffiava a ovest delle pianure di Eliade, nell’emisfero sud. Lo strato di ghiaccio della zona polare nord brillava, e sembrava un gioiello bianco sulla sommità del globo. Doris era al fianco di Dom e guardava con grande interesse gli schermi, poiché era il suo primo viaggio su Marte.

Benché fosse arido, spietato, mortale per gli esseri umani che vi si avventurassero senza gli adeguati equipaggiamenti, Marte era la seconda patria di Dom. Negli ultimi anni aveva passato lì tanto tempo quanto ne aveva passato sulla Terra. Era orgoglioso di far parte dell’organizzazione che aveva reso possibile la presenza umana su Marte, e nello stesso tempo era amareggiato, perché gli avvenimenti terrestri ora più che mai minacciavano le strutture che erano state realizzate sul pianeta a costo di grandi sacrifici e perfino di qualche vita umana.

Nei giorni in cui restò a osservare il pianeta diventare un’ enorme sfera sospesa sopra la Kennedy, Dom parlò con Doris e le disse quello che pensava della politica riguardante Marte. Era una politica che veniva decisa sulla Terra, e che era confusa e contraddittoria.

— Prendi per esempio la Kennedy — le disse. — Con quello che è costata, avremmo potuto fornire un mucchio d’acqua all’intero pianeta per l’eternità. — Indicò i depositi di ghiaccio ai poli. — Là c’è abbastanza acqua da cambiare la faccia del pianeta — disse. — Se si potesse liberare tutta l’acqua imprigionata nelle calotte di ghiaccio, il pianeta si coprirebbe di uno strato liquido profondo circa dieci metri. È un calcolo teorico, che sarebbe esatto solo se il pianeta avesse una superficie liscia. Il fatto è che abbiamo speso miliardi per costruire questa nave che deve portare acqua su Marte, quando su Marte stesso c’è già un’enorme quantità d’acqua, o almeno ci sarebbe se avessimo i soldi e la mano d’opera per far sciogliere le calotte di ghiaccio.

Marte era tutt’altro che un pianeta dalla superficie liscia. L’enorme cono vulcanico dalla forma a scudo, il Monte Olimpo, era presente ora all’orizzonte, e la sua altezza era impressionante perfino vista a quella distanza dallo spazio.

— È alto tre volte l’Everest — disse Dom. — Ventiquattro chilometri.

— Che montagna! — disse Doris. — Credo che non mi andrebbe molto di scalarla.

— Non sarebbe poi così dura — disse Dom. — Ricordati che la gravità su Marte è meno di metà di quella della Terra. L’unica parte difficile della scalata è quella che riguarda la zona più bassa, e questo per via dei venti. Ho visto venti soffiare a trecento chilometri all’ora sui pendii più bassi. Ma nessuno si disturba a scalare quel monte. È troppo facile prendere una navetta e farla atterrare sulla cima. Se troveremo il tempo ti ci porterò. Credo che ti piacerebbe.

Dallo spazio, Marte sembrava un pianeta consumato fino all’osso. Un antico alveo di fiume, con gli affluenti che si diramavano da esso come vene da un’arteria, solcava una pianura butterata da crateri di meteoriti. Gli effetti dei venti marziani erano visibili nelle scie scure che si estendevano in fuori partendo dai crateri, e che segnavano il punto dove si erano depositate le particelle brillanti di polvere. Quando, grazie alla rotazione del pianeta, apparve alla vista la zona del canyon, Doris fu di nuovo impressionata dallo spettacolo. La gigantesca gola copriva un’area lunga quanto la distanza tra New York e San Francisco. Il principale crepaccio, la Forra di Titone, faceva sembrare i Gran Canyon del Colorado una ferita da niente. La bellezza aspra e terribile del pianeta diede a Doris un senso di commozione. Doris si appoggiò a Dom e gli posò una mano sul braccio.

— Una volta l’ho odiato, questo pianeta — disse.

— Perché? — disse lui, distratto.

— Perché ti ha portato via a me.

— È stato tanto tempo fa — disse Dom.

— Capisco perché Marte attiri tanto gli uomini — disse Doris. — Capisco, adesso, perché una volta che lo si è visto si sente il bisogno di tornarci.

— Ci sono diecimila persone laggiù — disse Dom, indicando le alte pianure vulcaniche nella zona di Eliade. — Vivono in abitazioni che darebbero alla maggior parte degli uomini che vivono sulla Terra un senso di claustrofobia. Respirano aria riciclata che hanno fabbricato loro stessi estraendo l’ossigeno dal terreno. Dipendono dalla Terra per la maggior parte delle risorse alimentari e dei manufatti. Ci sono cose meravigliose su Marte: minerali, pietre preziose, metalli. È un pianeta che non dovrà mai temere il sovraffollamento, perché non è nato per ospitare l’uomo. Ma può dare molto all’uomo. Su di esso ci sono abbastanza materie prime da soddisfare molti dei bisogni della Terra in tal senso. E noi cosa portiamo sulla Terra quando torniamo da Marte? Fertilizzanti!

— Ho sempre pensato che la politica seguita nei riguardi di Marte fosse tirchia con i centesimi e prodiga con le lire — disse Doris.

— Abbiamo già la tecnologia sufficiente a cambiare l’intero ambiente marziano — disse Dom. — Potremmo usare i motori nucleari per spostare solo un pochino i due satelliti, così da cambiare il moto del pianeta quel tanto da fargli ricevere più luce del sole ai poli. Le calotte si scioglierebbero, e il pianeta sarebbe più umido, più caldo, e quasi autosufficiente.

— T’immagini le urla di protesta degli adoratori della natura? — disse Doris ridendo. — T’immagini le cause che verrebbero intentate se il ministero annunciasse di voler cambiare l’ecologia di un intero pianeta?

— Il grido di battaglia sarebbe: «Anche i licheni hanno dei diritti!» — disse Dom.

I giganteschi motori della Kennedy la stavano facendo rallentare poco a poco. Marte era sospeso, rosso, enorme e bellissimo, sopra la nave. Cominciarono senza fretta i preparativi per l’atterraggio. Benché fosse enorme, la nave era in grado di atterrare e ripartire dal pianeta da sola, grazie alla bassa gravità. Neil la fece atterrare come se fosse una navetta di esplorazione enormemente più piccola della Kennedy. Gli uomini cominciarono a scaricare l’acqua che era quasi troppa per la capienza delle cisterne di Marte. Il lavoro si prospettava lungo, perché gli impianti di pompaggio erano stati progettati per quantità d’acqua molto inferiori.

Dom presentò Doris ai suoi vecchi amici, e la portò al museo a vedere i miseri resti dell’antica vita vegetale e animale estinta. Il museo gli faceva sempre venire tristezza, perché era fin troppo eloquente, in quello che mostrava. Marte un tempo era stato un pianeta vivo sia geologicamente, sia biologicamente. Gli scienziati discutevano tuttora sulle possibili cause dell’estinzione della vita. Al momento, la teoria più in auge era quella che dava la colpa a una variazione nell’attività del Sole. Secondo tale teoria, decine o centinaia di milioni di anni prima il Sole avrebbe irraggiato più energia. A quell’epoca l’acqua ora racchiusa nelle calotte polari si sarebbe trovata allo stato libero sul pianeta, l’atmosfera sarebbe stata più densa e l’umidità più forte, sicché ci sarebbero state le condizioni per lo sviluppo della vita, sia animale, sia vegetale.

Dom era molto favorevole a quella teoria, la cui verità non poteva essere né dimostrata, né confutata. La natura di una stella è tale per cui in un corpo della grandezza del sole l’energia liberata nel nucleo ha bisogno di circa otto milioni di anni per farsi strada fino alla superficie, dove viene irraggiata fino ai pianeti in pochi minuti. L’attività sulla superficie del Sole, la luce che cadeva su Marte quel giorno, rappresentava il risultato di ciò che era avvenuto nel nucleo milioni di anni prima, e non dava modo di sapere quale fosse l’attività nel nucleo stesso in quel momento. Tuttavia, se Marte fosse stato influenzato da un cambiamento brusco di attività del Sole, la Terra avrebbe subito le stesse influenze. Naturalmente sulla Terra c’erano moltissimi reperti che testimoniavano che le condizioni erano cambiate. Le interpretazioni che si potevano dare di tali reperti erano tante.

Le felci fossili e i coralli delle zone artiche si potevano spiegare in vari modi diversi; le due teorie più in auge erano quelle della variazione dell’attività solare, e quella della deriva dei continenti. Attualmente la favorita era la prima, perché serviva anche a spiegare come mai Marte, da pianeta vivo, fosse diventato un pianeta morto la cui unica forma di vita, quando Trelawny vi aveva messo piede per la prima volta, si era rivelata il lichene.

Dom non era convinto di nessuna delle due teorie, che secondo lui lasciavano degli interrogativi irrisolti. La presenza di mammut nelle distese di ghiaccio dell’Alaska e della Siberia, e il fatto che la loro carne, dopo migliaia di anni, poteva ancora essere usata come cibo per i cani da slitta, non erano stati spiegati affatto dai sostenitori delle due teorie. In realtà, gli scienziati avevano semplicemente fatto finta che il problema dei mammut congelati non esistesse.

Dom pensava che la spiegazione potesse attingere sia all’una, sia all’altra ipotesi, con l’aggiunta di alcune cose ancora non teorizzate. Non che lui riuscisse a immaginare queste ultime, ma riteneva che la deriva dei continenti avesse una parte ben precisa nella faccenda. Le prove portate da quelli che studiavano la tettonica a placche erano molto convincenti.

Una cosa era studiare il passato della Terra, un’altra studiare il passato di Marte guardando i patetici resti che testimoniavano come qualche forza terribile avesse trasformato un pianeta vivo in un pianeta morto. L’antica idea romantica di una civiltà marziana scomparsa era già da tempo screditata, ma la vita sul pianeta c’era stata, una vita molto simile a quella della Terra, ed era andata distrutta, eccezion fatta per i licheni.

Doris intuì lo stato d’animo di Dom, il suo momento di malinconia. Propose di andare a consumare un pasto e a prendere un caffè nella principale tavola calda di Marte. Sarebbe stato bello, pensò, stare di nuovo in mezzo alla gente, sentirla parlare, sentire tangibilmente la sua presenza.

Il pasto era a base di proteine coltivate, il caffè era caldo e forte. Chiacchierarono con i due minatori seduti al tavolo vicino al loro, fumarono lentamente le loro sigarette, poi andarono in superficie a prendere la navetta per tornare alla Kennedy. Il giorno marziano di ventiquattr’ore stava per finire quando salirono a bordo. Ellen e J.J. erano di guardia, ed erano ansiosi di finire il loro turno per andare anche loro nelle cupole. Significava solo passare da un ambiente chiuso all’altro, ma era un diversivo per chi era ormai annoiato dalla vita di bordo.

Rimasti soli sulla nave, Dom e Doris si sedettero nella sala di controllo, dove si aveva la vista migliore, presero un bicchiere di vino dalla loro razione personale, e guardarono i piccoli satelliti farsi più brillanti a mano a mano che sul pianeta calava la notte. Nonostante il buio, né Dom né Doris attivarono il sistema di illuminazione.

Dom sentì sempre di più la vicinanza di Doris. E alla fine Doris si abbandonò tra le sue braccia senza protestare. Le sue labbra erano dolcissime. Dom avvertì un senso di possessività e di gioia. Lei era sua, era la sua ragazza, la sua donna. Il pianeta morto davanti all’oblò panoramico pareva dare maggior risalto al loro essere vivi. Erano soli, e sembrava che solo le loro due vite potessero smentire la triste realtà di quel pianeta deserto, là fuori, e della sua superficie fredda e senza aria. Molto lontano da lì, il loro mondo ancora una volta era dilaniato dalle lotte fra i suoi abitanti. Ancora più lontano, c’era una gigante gassosa con un campo gravitazionale micidiale e una pressione mostruosa. Dietro di loro c’erano lotte e incertezze, davanti c’era il pericolo. Il bacio tra Dom e Doris servì come a riaffermare il fatto che per il momento, se non altro, erano vivi. Ma in passato era stato stretto un accordo preciso tra loro.

Dom se ne ricordò e, col respiro affrettato e il cuore che gli batteva forte, la respinse. — Sarà meglio che ti metta in salvo, ragazza mia — sussurrò.

— Non è giusto — disse lei. — Non costringermi a prendere decisioni per tutti e due.

— Le donne scarseggiano su Marte — disse Dom. — Così le cose vengono semplificate al massimo. Non c’è un fidanzamento prematrimoniale. Su Marte si ritiene che non si debba sprecare un solo momento.

— Magnifico — disse Doris.

— Eh?

— D’accordo, cercherò di essere chiara, in modo che perfino un uomo riesca a capire. Sì — disse lei.

— Sì? — disse Dom.

— Sì — scandì lei. — Sì.

— Sei sicura?

— Adesso sembra che sia tu a non essere sicuro — disse Doris, dandogli un piccolo pugno su un braccio. — Senti, mi sento così piccola e tanto insignificante in questo grande universo. Voglio che qualcuno mi rassicuri. Credo di essere molto femmina, perché quello di cui ho bisogno è la sicurezza e la tranquillità che mi danno le tue braccia intorno al mio corpo.

Lui l’abbracciò di slancio, felice. Poi si mise in contatto col controllo terra e fece le sue richieste. Il prete arrivò a bordo della Kennedy nel giro di un’ ora, e diede a Doris appena il tempo di indossare la sua uniforme più bella. Mancando il resto dell’equipaggio, alla breve cerimonia fecero da testimoni due uomini dello staff addetto agli atterraggi. L’evviva alla sposa fu fatto con un brindisi a base di acqua fredda e limpida.

Dom e Doris rimasero di nuovo soli. In un primo tempo ci fu un certo imbarazzo tra loro. Erano nella cabina di Dom che, essendo quella del Comandante, era la più grande. Dom aiutò Doris a trasportareipochi oggetti personali nella stanza, poi tutt’e due bevvero ancora un po’ di vino. Alla fine si strinsero uno vicino all’altra, come a difendersi dalla lunga, triste notte esterna. Doris era ancora più dolce di come Dom la ricordava, e rappresentava tutto quello che lui avesse mai sognato.

La mattina dopo, di buon’ ora, Dom si svegliò e rimase ad ascoltare il lieve respiro della moglie, che ogni tanto ronfava appena, come un gatto che facesse le fusa. Dom si sentì commosso, sorrise guardando il viso di Doris, e gli vennero quasi le lacrime agli occhi per la felicità.

La nave emetteva i suoi soliti ronzii, intorno a loro. Da qualche parte nell’interno della Kennedy si sentì il rumore di un servomeccanismo, e Dom provò ancora una volta la soddisfazione di chi sa di essere su una nave viva. La nave aveva veramente una sua vita. Funzionava dando ordini a se stessa attraverso i complessi circuiti, i chilometri e chilometri di fili. Viveva lei, e permetteva all’equipaggio di vivere. Questo finché i macchinari costruiti dall’uomo avessero continuato a depurare l’aria…

Dom provò una fitta di paura. Doris si mosse nel sonno e posò una delle sue lunghe gambe morbide sopra le sue. Doris era così dolce e tenera, pensò Dom, e lo spazio fuori era così spietato e indifferente all’uomo. Sì, Doris viveva, ma solo perché la nave che lui aveva progettato le forniva l’ambiente adatto. Finché la Kennedy avesse resistito al’freddo e al vuoto, finché lo scafo avesse resistito alla pressione pazzesca dell’atmosfera di Giove, Doris avrebbe continuato a vivere.

La nave li avrebbe portati là e li avrebbe riportati indietro, di questo Dom era sicuro; non aveva presentimenti cattivi, e d’altronde non credeva nemmeno ai presentimenti.

Ma, si disse, che fosse stato un errore quel loro matrimonio? Forse avrebbero dovuto aspettare…

Adesso che aveva conosciuto i caldi recessi umidi del corpo di Doris, adesso che aveva conosciuto il calore dei suoi abbracci e il desiderio che esprimevano le sue labbra e il suo corpo, non avrebbe forse corso il rischio di sbagliare per eccessiva prudenza, pensando a lei?

Così dovevano essere state le cose ai primordi, pensò, quando il primo uomo aveva guardato la sua donna con così tanto desiderio da temere di perderla. Così doveva essere stato agli albori della civiltà, pensò Dom, quando le prime città offrivano protezione contro i crudeli selvaggi che volevano fare la guerra.

Durante tutta la storia e la preistoria, ogni uomo che avesse guardato la sua donna dormire doveva avere provato le stesse paure, fatto gli stessi sogni, temuto nello stesso modo la morte prima del tempo, pur temendola di per sé come evento naturale. L’uomo degli albori della storia proteggeva la sua donna dalle bestie e dalle brame degli altri uomini; e Dominic Gordon, mentre giaceva sveglio accanto a Doris che dormiva, fece il voto di proteggere sua moglie dall’ambiente ostile e dagli altri uomini. L’avrebbe difesa con le unghie e con i denti, nonché con l’esperienza e l’intelligenza. L’avrebbe condotta nell’atmosfera densa di Giove ed esposta così a grande pericolo; e se fossero sopravvissuti, avrebbero dovuto affrontare la rinnovata ferocia dei barbari della Terra.

Non sapeva bene come avrebbe fatto a proteggerla, ma era fermamente convinto che ci sarebbe riuscito. Avrebbe lottato perché l’ambiente fosse sicuro per la sua donna, e per tutte le donne.

Si addormentò, e sognò sangue e uccisioni; sognò di uccidere terristi e salvamondo e tutti quelli che volevano trasformare il suo pianeta in un’arena insanguinata.

Quando la luce si levò all’orizzonte, a est, i servomeccanismi della Kennedy compensarono il cambiamento di temperatura dello scafo. Il Sole, rimpicciolito dalla distanza, appariva ugualmente potente, mentre si levava sopra le montagne aspre ed erose.

— Sono sfrontatamente felice — disse Doris.

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