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Dom fu svegliato da un brusio di voci. Era tornato in ospedale per facilitare la somministrazione delle medicine. Queste erano così efficaci e gli guarivano le ustioni così in fretta, che al momento del risveglio non sentiva quasi più male, solo un lieve prurito sotto le bende. Si sentiva la mente annebbiata. Aveva ingerito un sedativo per scacciare l’idea di uno scafo capace di sopportare una pressione di tremila atmosfere. Non aveva voglia di aprire gli occhi e di affrontare il problema.

— Credo che ormai risenta dell’età — disse J.J. Barnes.

— In più, ha una totale mancanza di dinamismo e di ambizione — disse un’altra voce.

— Si fa una vita troppo dissoluta, nelle grandi città — disse J.J. Barnes.

Dom aprì un occhio. Erano ai piedi del suo letto, dietro la testiera: J.J. in uniforme, Art Donald in jeans e pullover. Art era un uomo malandato, che sembrava doversi spezzare da un momento all’altro. Aveva dei problemi con i polmoni. Ogni tanto qualche cellula gli soffiava una bolla nel tessuto dei polmoni, e lui era costretto a restare per un po’ immobile in un letto d’ospedale. Aveva i capelli neri e lisci, la pelle butterata a suo tempo dall’acne, gli occhi svegli.

Stava fumando. Art era sconsiderato. Alle feste rischiava di farsi scoppiare i polmoni fumando, bevendo e ballando i balli più frenetici. La sua conoscenza dei metalli era unica al mondo.

— Piacere di vederti, Art — disse Dom.

— Vuoi scendere da letto, adesso? — disse J.J. lievemente irritato.

— No — disse Dom.

— Va bene, se non vuoi vedere un uomo cavalcare una bomba — disse J.J.

— Preferirei guardare una donna fare una cosa qualsiasi — disse Dom, ma saltò giù dal letto e fu subito costretto a chinare la testa per l’improvviso capogiro che gli venne. Subito arrivò un’infermiera che senza preavviso infilò una siringa nel braccio di Dom.

Il liquido cominciò ad agire quasi istantaneamente, mitigando gli effetti del sedativo.

In pochi minuti Dom si vestì e raggiunse J.J. e Art nel corridoio. Non parlarono né in ascensore, né mentre attraversavano l’atrio. Fu solo quando salirono sulla velocissima monorotaia che J.J. spiegò come stavano le cose.

— Abbiamo un veicolo sperimentale in attesa a circa un’unità astronomica da qui, verso la stella polare — disse J.J.

— La nuova propulsione?

— È la prima prova con essere vivente a bordo.

— Chi c’è a bordo? — Neil.

Neil era Neil Walters. Tra spaziali non occorreva specificarne anche il cognome. — Non si potrebbe chiedere di meglio — disse Dom.

Non aveva mai visto le attrezzature di controllo del MINES Sembrava una Houston in miniatura, e Dom si stupì di quella riproduzione così fedele. Si chiese cos’altro ignorasse del MINESPOV.

J.J. li condusse in un buon posto, direttamente dietro il tecnico dei contatti e le consolle. Si stabilì la comunicazione. Era il vecchio, vecchissimo rito del pilota che parlava con la torre di controllo. Un pilota d’aviolinea della metà del ventesimo secolo avrebbe indubbiamente riconosciuto la forma e il gergo di quello scambio, a parte forse qualche termine tecnico. Era in corso il conto alla rovescia, e si stavano esaminando le liste di controllo.

— In quanti sono a bordo? — chiese Dom.

— Solo Neil.

— Il rischio è alto allora, vero? — disse Dom.

— Lui se ne rende perfettamente conto — disse J.J.

— Ed è così coraggioso da tentare lo stesso? — disse Dom. — Neil è, fra gli spaziali, quello che più si avvicina al tipo dell’eroe.

— Accendere i retrorazzi — disse uno degli addetti al controllo.

Alcuni secondi dopo (l’intervallo era dovuto alla distanza tra quella sala e la precaria dimora di Neil Walters a bordo di una nuova astronave nucleare, nello spazio profondo), arrivò la voce calmissima di Neil. — Retrorazzi accesi. — La voce di Neil era sempre calmissima. Una volta Walters aveva pilotato un apparecchio sperimentale che a un certo punto non aveva più risposto ai comandi e aveva cominciato a precipitare verso il deserto; lui aveva ripreso il controllo giusto in tempo per impedire che l’impatto fosse mortale, e durante tutta quell’avventura il suo tono di voce non era mai cambiato. Solo all’ultimo momento aveva smesso di parlare tranquillamente di tecnologie non indovinate e di computer in avaria. Nel rivestimento della cabina era rimasta stampata l’impronta del suo corpo. Dopo alcune settimane passate ad aspettare che le ossa rotte si saldassero, Neil aveva portato il proprio corpo rimesso a nuovo nella troposfera, per un volo di collaudo.

— Ci vorrà circa un quarto d’ora — disse J.J. — Vuoi un po’ di caffè? — Vedendo che Dom annuiva, schioccò le dita, chiamando un cadetto.

— J.J. — disse Dom — era da anni che si progettava la costruzione del motore a propulsione nucleare. Come hai fatto a farlo costruire adesso, con il budget così ridotto?

— Prima non ne avevamo veramente bisogno — disse J.J. — Ci sarebbe stato solo un lieve aumento della velocità perché, più premi contro la costante, più quella ti respinge indietro.

— E adesso che ne abbiamo bisogno non per una questione di velocità, ma di energia, come sei riuscito a farlo costruire?

— Usando fino all’ultimo dollaro i risparmi che avevamo tenuto in serbo proprio per casi di estrema emergenza come questo — disse J.J. — Se riusciremo a tirar fuori tremila tonnellate di nave aliena dall’atmosfera di Giove, ne sarà valsa la pena.

— E i contestatori non sanno dei tuoi progetti col motore a propulsione nucleare?

— Il capo del MINES ha giurato davanti a Dio e alla Commissione Spaziale del Senato degli Stati Uniti che l’idea del motore nucleare è stata completamente abbandonata, e che il MINES non tiene mai nascosto nulla ai funzionari dello Stato.

— Sono sicuro che Dio gli ha perdonato la sua bugia — disse Art.

— Io credevo che parlasse anche a nome di Dio — disse Dom.

— E il Senato lo perdonerà quando riporteremo indietro quella nave — disse J.J.

— Meno dieci e il conteggio continua — rimbombò la voce all’altoparlante.

— Così, ho fatto lega con dei criminali — disse Dom. — Vi rendete conto che c’è chi ha avuto rogne grosse per avere mentito su cose molto meno dispendiose, al Congresso degli Stati Uniti?

— Nessuno vive senza correre rischi — disse J.J.

— C’è una cosa che mi lascia perplesso — disse Dom. — Quel bogie è entrato nell’atmosfera di Giove due mesi fa, e voi avete già una testata all’idrogeno nello spazio pronta per la prova sperimentale. Dovrei credere che avete costruito quel dannato affare in soli due mesi?

— Avevamo i principali componenti pronti da anni — disse J.J. — Non fare quel viso torvo. Non è poi così grave. Non c’è ente governativo che non faccia lo stesso. Se ci attenessimo tutti rigidamente al budget, non potremmo nemmeno mantenere qualche miliardo qui e là per avere il denaro nei momenti di bisogno.

— Quanto denaro c’è voluto per riprodurre fedelmente qui l’impianto di Houston? — disse Dom.

— Cosa succederebbe a tutte le nostre astronavi in viaggio se qualche terrista facesse irruzione nella sale di controllo di Houston con un chilo di esplosivo al plastico? — disse J.J.

— A parte che verrebbero uccise un po’ di persone — disse Art — sarebbe la fine del programma, perché il Congresso ne approfitterebbe per rifiutare di finanziare la ricostruzione degli impianti.

— Perdio, ma è proprio per questo tipo di sperperi che i contestatori fanno tanto rumore — disse Dom. — Per la prima volta capisco un pochino il loro modo di vedere.

— Chi conta sa di questo posto — disse J.J. — Perfino il nostro amico del New Mexico lo sa. A parte il fatto che non c’è modo di tenere nascosto un posto che emette una simile quantità di comunicazioni, il nostro amico ha approvato la decisione che abbiamo preso, dal momento che la scelta del luogo è caduta nel suo Stato e ha significato qualche milione in più per l’economia del New Mexico. È stato uno dei sostenitori più sinceri del progetto, ma solo dietro le quinte, naturalmente.

— Sa del motore all’idrogeno? — chiese Dom.

— Speriamo di no. Lo sapremo fra qualche giorno.

— In che modo?

— Se lo sa il senatore del New Mexico, lo sanno anche i terristri. Se i terristi lo sanno, ci sarà nella migliore delle ipotesi una manifestazione di protesta, nella peggiore un vero e proprio assalto al MINESPOV.

— Sono così forti? — disse Dom.

— Sono forti e lo diventano ogni giorno di più. Secondo me, ci sono cinquanta probabilità su cento che sferrino un attacco frontale al MINESPOV. È isolato. Di primo acchito si direbbe che sia un bersaglio più facile di, mettiamo, Houston o Cape Canaveral, ma in realtà sarebbe più facile conquistare il Pentagono o Fort Knox. Abbiamo due divisioni di marines spaziali capaci di intervenire nel giro di cinque minuti. Abbiamo le armi più moderne che ci siano. E gli uomini della nostra sicurezza sono in grado di friggere, fare a fettine, fare implodere, bruciare, congelare, drogare e gasare molte migliaia di terristi.

— Ma non riuscite a tenerli lontani dagli impianti — disse Dom, agitando uno dei suoi piedi fasciati.

Intorno a loro continuava a fervere l’attività. La voce meccanica del coordinatore dell’esperimento continuò il conto alla rovescia. Don finì il caffè. Il cadetto era lì vicino, pronto a prendere la tazza vuota.

Se le condizioni economiche fossero state ideali, sarebbe stato giusto dotare tutte le astronavi di propulsione nucleare. Se la Callisto Explorer avesse avuto motori nucleari non sarebbe rimasta là bloccata nello spazio, ad aspettare che la sua aria si corrompesse. I motori nucleari non erano una necessità assoluta: i vecchi razzi a combustibile solido erano più che sufficienti per esplorare il sistema solare e per compiere i limitati viaggi di natura commerciale tra la Terra e Marte. L’umanità non si poteva più permettere il lusso di programmi costosi se lo scopo era soltanto il gusto del progresso. I prodotti dell’esplorazione spaziale erano quasi esclusivamente articoli di lusso di cui il mondo poteva fare a meno. Il teflon, i tessuti sintetici, la microelettronica, le nuove tecniche scientifiche, la capacità di individuare per la prima volta dei pianeti orbitanti intorno alle stelle più vicine non portavano cibo sul tavolo dell’umanità; e chi ha fame se ne infischia altamente dei pianeti che orbitano intorno a stelle così lontane da essere raggiungibili solo nel giro di alcune generazioni.

L’energia nucleare aveva risolto ben pochi problemi. C’era abbondanza di elettricità nei paesi industriali, ma non si poteva usare un motore nucleare per azionare i veicoli di terra. L’uso migliore che si poteva fare degli impianti nucleari portatili era nello spazio, e tuttavia non sarebbe bastata nemmeno una propulsione nucleare quasi illimitata a spingere una nave oltre la velocità della luce, rendendo così possibile il volo interstellare.

Come spaziale, Dom era contento di sapere che c’erano installazioni di controllo in grado di rimpiazzare quelle di Houston. Ed era contento anche che il motore nucleare fosse stato finalmente collaudato. Con l’umanità in tumulto, bisognava per forza agire di nascosto e cercare di conquistare lo spazio prima che fosse troppo tardi.

I contestatori avrebbero obiettato che a bordo della Callisto Explorer c’erano solo cinque uomini a respirare aria sempre più viziata in attesa della nave di salvataggio, mentre sulla Terra erano milioni quelli che morivano di fame. Se avessero scoperto che erano stati spesi miliardi per costruire un motore all’idrogeno, i contestatori sarebbero scesi sul piede di guerra e sarebbero piombati in strada ad ammazzare il primo spaziale o il primo cadetto che avessero incontrato.

A Dom non andava di dover pensare a quel tipo di cose. Lui voleva poter essere libero di fare il proprio lavoro a bordo di una nave, e lasciare i problemi del pianeta ai politici. Prima che J.J. lo chiamasse al MINESPOV, aveva fantasticato di poter continuare tutta la vita a viaggiare sulle astronavi, fossero anche astronavi che portavano i fertilizzanti da Marte alla Terra. A volte aveva sognato che da qualche parte, in qualche laboratorio segreto, qualcuno riuscisse a infrangere l’ostacolo della velocità della luce, ma erano solo sogni. Forse però un giorno ci sarebbero riusciti veramente. Non poteva credere che l’uomo fosse nato per restare confinato sulla Terra o sui pianeti morti ad essa vicini. Se c’erano alcune infinitesime particelle subatomiche in grado di viaggiare più veloci della luce, doveva esserci il modo di far viaggiare più veloce della luce anche un’astronave.

Se la nave aliena in orbita intorno a Giove possedeva il segreto dell’ipervelocità, qualsiasi sotterfugio era giustificato. Anche se la missione fosse fallita sarebbe stato lo stesso un guadagno. L’energia non sarebbe mai più stata un problema. Non ci sarebbe mai stata scarsità d’idrogeno nell’universo.

— È quasi ora — disse J.J.

— Sistema d’accensione attivato — disse la voce di Neil, resa più sottile dalla distanza.

— Voglio Neil — disse Dom. — Voglio che sia Neil a pilotare la nave.

— È già stato assegnato altrove — disse J.J.

Dunque, tutto dipendeva da quel motore non collaudato così lontano dalla sala di controllo che, se fosse esploso quando Neil l’avesse acceso, il lampo di luce che avrebbe prodotto avrebbe potuto essere visto solo da telescopi ad alta risoluzione posti su osservatori orbitanti.

— Preriscaldatore attivato — disse Neil.

Adesso era solo Neil a parlare: il conteggio era agli sgoccioli, e l’intervallo temporale dovuto alla distanza non permetteva la comunicazione nei due sensi.

— Interruttore accensione attivato. — La voce era calma, pacata, disturbata solo dal crepitio dell’elettricità statica. — Interruttore accensione di riserva attivato.

Ormai era già successo. Prima ancora che le sue parole arrivassero in quella sala, Neil Walters aveva innescato la bomba che aveva sotto il sedere. — Quattro, tre, due, uno, acceso — disse la sua voce.

Dom sentiva il sangue pulsargli nelle orecchie. Cinquanta persone stavano trattenendo il fiato.

— L’accensione è okay — disse Neil, calmissimo. Nella sala di controllo esplosero gli evviva. — Fattore di accelerazione punto-uno-zero-cinque. Tutti i sistemi attivati. Pronto per l’interruzione.

Funzionava. Nonostante gli scioperi nelle industrie chiave, nonostante le dimostrazioni contro gli impianti aerospaziali, nonostante gli ostacoli opposti dalla burocrazia, nonostante i milioni di persone affamate, nonostante le leggi contro i programmi segreti negli enti governativi, funzionava.

I dati stavano fluendo in abbondanza nei computer di controllo quando Dom, J.J. e Art salirono sulla monorotaia che li riportò in gran fretta nel complesso residenziale.

L’energia non era un problema, dunque. Ne avrebbero avuta abbastanza da scagliare la Terra fuori dalla sua orbita, se avessero voluto costruire un impianto abbastanza grande per farlo. Con la nave a propulsione nucleare avrebbero avuto abbastanza energia da agganciare il bogie, tirarlo fuori dall’atmosfera di Giove e portarlo a casa.

Se il bogie non avesse opposto resistenza.

Se fossero riusciti a costruire una nave in grado di sopportare una pressione di tremila atmosfere senza esplodere.

Se i terristi non avessero organizzato un attacco e non avessero provocato danni irreparabili prima che la nave superpressurizzata fosse in grado di volare.

Se non fossero andati tutti quanti in galera.

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