J.J. Barnes non era certo un angelo. Non lo era mai stato e, a meno che non fosse cambiato moltissimo, non lo sarebbe stato mai. Preciso, calmo, metodico, arrogante, sì. Angelico, proprio no. Alto, brizzolato, con occhi grigi dietro occhiali funzionali non cerchiati, sovrastava l’ambiente intorno a sé; il suo viso era ben rasato, maschio, quasi bello, ma non era certo da angelo.
Tutto questo affiorò a poco a poco alla coscienza di Dom. Il mondo era il viso di J.J., un viso identico a come Dom se lo ricordava. E il mondo era anche un mondo in fiamme, che puzzava di metano bruciato.
Dom sollevò la testa e si guardò in corpo. Aveva i piedi fasciati, che gli facevano male.
— La situazione non è poi così brutta — disse J.J. — Sentirai un po’ di dolore, lo so, ma il danno è lieve. Il male che senti nel culo lo senti perché quello era l’unico posto da cui potessero prendere la pelle per il trapianto.
Dom girò la testa e vide un tavolino da ospedale con sopra una brocca d’acqua, un vassoio con le medicine, un bicchiere e un piccolo vaso di rose.
— Mi senti, Flash? — chiese J.J.
Sentirsi chiamare con quel vecchio soprannome indusse Dom a cercare di mettere a fuoco meglio con gli occhi. — Credo di sì — disse.
— Quel bastardo era passato attraverso due controlli — disse J.J. — Te la senti di starmi ad ascoltare, o vuoi aspettare che la mente ti si schiarisca un po’ di più?
— Acqua — disse Dom.
— Certo. — J.J. riempì il bicchiere e lo porse a Dom.
— Grazie — disse Dom. Sentì una fitta alla natica sinistra. Provò un attimo un lieve giramento di testa, che passò subito. Bevve e restituì il bicchiere a J.J. — Sono pronto — disse.
— Flash, non riusciamo a controllarli tutti. Per quanto ci proviamo, non riusciamo a tenerli tutti lontani. Sono in troppi. È da troppo tempo che si stanno infiltrando, e alcuni di loro sono terribilmente furbi.
— Perché proprio io? — disse Dom.
— Probabilmente perché avevi un adesivo del MINES è una ragione sufficiente, per loro.
Dom si guardò i piedi. La fasciatura andava dal polpaccio in giù. Provò a muovere un dito, e non avvertì molto male. Sentiva che il dito si muoveva, anche se dall’esterno della fasciatura non si vedeva niente.
— Hanno acciuffato i responsabili — disse J.J.
— Sì, ma dopo che mi avevano dato fuoco.
— Non sei messo così male come potresti pensare. Sul collo del piede destro hanno dovuto fare un trapianto, ma con questi nuovi metodi sarai in piedi in men che non si dica.
— Lo so che le ustioni si curano bene — disse Dom. — Quello che non so è perché l’amministratore del MINESPOV stia qui ad accudirmi personalmente. E non mi convince affatto quello che hai detto circa il matto che avrebbe cercato di uccidermi solo perché ero su un veicolo del MINES. Non penso proprio che si sia trattato di una scelta casuale. E mentre mi chiedo queste cose, mi chiedo anche perché il detto amministratore del MINESPOV mi abbia impedito di prendere la licenza che mi spettava dopo ben due anni di ininterrotto lavoro, per farmi venire qua nel deserto a semicarbonizzarmi.
J.J. ridacchiò.
— Perdio, J.J. — disse Dom. — Voglio sapere cosa sta succedendo.
— Vecchio mio, prenditela con filosofia — disse J.J. — Mangia, bevi e riposati. Tra un paio di giorni vedrai che cammini già.
Dom girò la testa per cercare di vedere il punto dove gli avevano preso la pelle, nel sedere. Anche lì era fasciato. — Quando tornasti al passo, avrei dovuto lasciare che quei cadetti ti fottessero — disse.
— Se l’avessi fatto, chi avrebbe detto in giro che eri l’uomo che salvò l’esercito dal fuoco, scusa il riferimento al fuoco, nello zero sei? Adesso fa’ un sonnellino, come un bravo vecchietto che rievoca il passato, e io verrò a trovarti fra due giorno.
— J.J., tu non mi hai fatto chiamare solo per adularmi — disse Dom. — Cosa sta succedendo?
J.J. mise le mani aperte dietro le orecchie e si guardò intorno nella stanza.
Dom afferrò il messaggio: la camera d’ospedale non era stata ripulita. I muri potevano avere orecchie…
— Fra non molto verranno qui due investigatori della base — disse J.J. — Tu di’ semplicemente quello che è realmente successo. Di’ loro che stavi venendo al MINESPOV dietro invito di un tuo vecchio amico, J.J. Barnes, per parlare dei vecchi tempi e fare una bevuta. Digli che non hai idea del perché i terroristi ti abbiano scelto come bersaglio.
— È proprio la verità — disse Dom.
— Quando sarai di nuovo in piedi, sono sicuro che ti farà piacere una mia visitina amichevole.
Dom sospirò stancamente. — Ero stato invitato da un mio vecchio compagno di classe, che a forza di leccare culi è arrivato in alto. Non ho idea del perché mi abbiano preso di mira. E almeno quest’ultima affermazione è proprio vera.
— Calma, Dom — disse J.J. con espressione seria.
Due uomini della sicurezza, in divisa, erano in piedi accanto al suo letto e facevano ripetutamente le stesse domande, ottenendo ripetutamente le stesse risposte. Le risposte riguardavano i fatti. Dominic Gordon, pilota di flottiglia al servizio del MINES, era arrivato da Marte cinque giorni prima, per spendere tutta la sua licenza a Los Angeles. Doveva andare a visitare il MINESPOV dietro invito di J.J. Barnes, responsabile della base. Dominic Gordon non aveva la minima idea del perché fosse stato assalito. Fece un resoconto preciso e dettagliato degli avvenimenti, cominciando dal momento in cui aveva sorpassato la fila di macchine da costruzione. Non aveva visto il suo assalitore in viso: ne aveva visto solo le gambe e le mani.
Gli amici di J.J. Barnes non potevano che essere trattati con grande cortesia. Un amico di Barnes poteva perfino fare domande. Dom chiese se avessero interrogato il suo assalitore. Gli risposero di no, non avevano potuto interrogarlo. Una pattuglia di passaggio aveva visto l’uomo che appiccava fuoco al combustibile e per semplificare le cose lo avevano fatto fuori riempiendogli il petto di piombo, poi avevano coperto lui e il veicolo in fiamme di schiuma antincendio.
— Il vostro problema principale — disse in seguito un’infermiera a Dom, dopo che questi si fu risvegliato da un pisolino, — è che avete aspirato in parte le esalazioni della schiuma. Per un paio di giorni vi faranno male i polmoni.
L’infermiera era una signora dai capelli grigi, prosperosa e materna, con mani dal tocco delicatissimo. Dom se ne innamorò subito e la mattina del terzo giorno, mentre camminava (già abbastanza bene, considerate le fasciature) la baciò sulla guancia e le promise che le avrebbe portato un carbocristallo la prossima volta che fosse tornato da Marte.
Fuori della stanza gli venne incontro uno dei poliziotti che l’avevano interrogato. S’incamminarono in silenzio per un lungo corridoio, entrarono in un ascensore e poi ne uscirono. L’uomo della sicurezza lo fece salire su una monorotaia che partì a velocità pazzesca verso una destinazione sconosciuta, nel sottosuolo. Alla fine arrivarono all’ufficio di J.J., e Dom fu lasciato ad aspettare in anticamera. Passò il tempo osservando il profilo della segretaria: era un gran bel profilo, e lo sguardo sembrava assorto in qualche interessante pensiero. A un certo punto la segretaria si alzò, sorrise, e gli disse che il signor Barnes era pronto a riceverlo.
J.J. indicò a Dom la poltrona davanti alla sua scrivania. Dom si sedette, appoggiando allo schienale la stampella che usava per camminare. Si sentirono un sibilo e un lieve rombo, e intorno alla zona della scrivania si levò uno schermo anti-intercettazioni, che li avvolse in un involucro impenetrabile.
— Hai dei problemi perfino qui? — disse Dom.
— Mi accusano spesso di essere troppo prudente — disse J.J., — ma l’ultima volta che sono stato alla Casa Bianca, i mass media sapevano ogni particolare della discussione prima ancora che io fossi tornato in albergo.
— I giornalisti vogliono sempre poter dimostrare di essere a tu per tu coi potenti — disse Dom. Si agitò sulla poltrona, infastidito dal dolore al sedere.
— Flash — disse J.J., — sei appena tornato da Marte. Che carico avevi?
— Fosfati — disse Dom. Era chiaro che J.J. sapeva già che carico aveva trasportato, me J.J. era fatto così. Era metodico, aveva bisogno di introdurre l’argomento a poco a poco.
— Fosfati agricoli? — disse J.J.
— Sì.
— E nel viaggio precedente?
— Lo stesso.
— Ci rifletti mai, su questa cosa? — chiese J.J.
— Non molto — disse Dom.
— Perché non un carico di carbocristalli? — disse J.J. — O di platino raffinato? O di oro, o di radioelementi, o addirittura di petrolio?
— Non sono io a ordinare il carico — disse Dom. — Se cerchi di impartirmi lezioni sulla legge della domanda e dell’offerta, ti dico subito che so perché trasportiamo acqua su Marte e perché portiamo qui i fosfati. Marte non ha abbastanza acqua e voi non avete abbastanza cibo. Avete lasciato che il suolo di superficie finisse negli oceani, e avete rovinato quello rimasto insistendo con l’agricoltura intensiva.
— Non mi piace la tua scelta dei pronomi — disse J.J. — «Voi». E tu, tu non hai contribuito a consumare fino in fondo le risorse della Terra?
— Io, nel novanta, ho votato per il controllo obbligatorio delle nascite — disse Dom. — Era la prima volta che avevo l’età per votare, e anche in così giovane età ero dotato di buon senso. Voialtri no, invece.
— Non mi disturberò a protestare la mia affinità con te dicendoti che anch’io votai per il controllo delle nascite obbligatorio — osservò J.J. — L’essenziale è che il resto del mondo non votò così. — Guardò Dom pensieroso. — L’uomo che ha tentato di bruciarti vivo era un populcratico, naturalmente.
— Salvamondo?
— La militanza in un partito è pubblicamente permessa, quella in organizzazioni radicali e terroriste no. Immagino che fosse o un salvamondo, o un terrista. Forse un terrista: si sono fatti un po’ più sanguinari, negli ultimi tempi.
— In quale lista elettorale risultava iscritto? — chiese Dom.
— Quella del nostro caro senatore, il gentleman del New Mexico.
— Non hai ancora un’idea del perché abbia scelto me?
— No, non c’è ancora un rapporto ufficiale in tal senso. Nei documenti scritti, l’unico legame che risulta tra noi due è quello di fare entrambi parte dell’Arma dello Spazio. Ma può darsi che agli occhi dei terristi qualunque persona venga al MINESPOV sia un bersaglio prelibato. È probabile che la macchina del MINES sia bastata a fare di te il loro obiettivo. Stanno diventando sempre meno selettivi. Anche solo essere degli spaziali è motivo sufficiente per essere uccisi.
— Lo so. Infatti sono solito passare il tempo in luoghi sorvegliati quando mi trovo sulla cara vecchia madre Terra.
— E non vedi l’ora di tornare nello spazio — disse J.J.
— Già.
— Adesso ti ci vorrà un po’ di tempo prima di tornare nello spazio — disse J.J. — Sei dispensato dai tuoi doveri spaziali e assegnato a questa base.
— Non posso certo ringraziarti — disse Dom.
Barnes aprì un cassetto della scrivania e tirò fuori un registratore. — Penso che sia giunto il momento di farti sentire questo — disse. — Abbiamo corretto adeguatamente gli spazi di tempo tra i due interlocutori. — Premette un bottone.
La stanza si riempì dei suoni dello spazio profondo. Si sentirono il sibilo e il crepitio dei grandi vuoti interstellari e Dom provò una fitta di nostalgia mentre si protendeva in avanti. Le voci erano calme, da professionisti: voci di spaziali che compivano efficacemente il loro dovere lontano da casa, collegati alla Terra solo da fragili radioonde.
Controllo Houston, qui Callisto Explorer. Ore zero-nove-tre-cinque CSET. Ci sentite?
— Dite pure, Callisto Explorer.
— Houston, chiedo controllo veicoli nell’area J-77-343. Ripeto. Chiedo controllo veicoli nell’area J-77-343.
— Un attimo, Callisto Explorer. Aspettate, Callisto Explorer. La più vicina è la nave Queen Anne, del Regno Unito, davanti a voi a centottantasei gradi relativi punto di riferimento due-sette-Baker. La nave sovietica da esplorazione Kruscev è a trecentotredici gradi relativi alla vostra posizione punto di riferimento due-nove-Baker.
— Houston, qui Callisto Explorer. Chiedo controllo posizione zero-nove-sette relativa, punto di riferimento tre-tre-Charlie. Mi sentite?
— Sì, Callisto. Un attimo. Non c’è nient’altro che lo spazio vuoto, là dove dite.
— Houston, a meno che il vostro computer non sia in panne, laggiù c’è un bogie.
— Callisto Explorer, ripetete prego.
— Houston, abbiamo un bogie vicino all’orbita di Giove. Velocità presunta contosessantamila chilometri al secondo. Ripeto, velocità presunta centosessantamila chilometri al secondo. Massa di circa tre-zero-zero-zero tonnellate. Ripeto, tre-zero-zero-zero tonnellate. Houston, stiamo rilevando la traiettoria. Bogie in rotta di collisione con massa planetaria. Tempo previsto di arrivo nell’atmosfera esterna del pianeta: fra quattro ore e ventitré minuti.
— Callisto Explorer, state filmando?
— Affermativo. Stiamo filmando. Sei tu, Paul? Senti, abbiamo scoperto qualcosa di grosso, sai? Aspetta un attimo. Ecco, adesso lo vediamo. Cos’è quello, Dell? Fammi vedere. Cristo, quel bastardo è enorme. Houston? Se si piazzasse quell’affarino sulla Terra occuperebbe quattro campi di football. Presunta lunghezza, quattro-zero-zero metri. Profilo cilindrico, affusolato a entrambe le estremità. Propulsione misteriosa. Forse i razzi sono sul retro. Si avvicina in fretta.
— Callisto Explorer, dov’è il vostro bogie adesso?
— Sta per passare dietro al pianeta relativamente a noi, e lo farà tra circa cinque minuti, Houston. Un attimo, Dell, hai visto anche tu quello che ho visto io? Houston, c’è una qualche attività a bordo del bogie. Ho visto un bagliore, che è apparso sul nostro schermo ed è stato trasmesso dal radar. Sul davanti della nave, relativamente al pianeta. È possibile che l’attività sia in relazione alle operazioni di frenaggio. Si, ha rallentato un po’. Houston, ha rallentato in un tempo impossibile: ha perduto il cinquanta per cento della sua velocità in dieci secondi. La stiamo perdendo adesso, Houston. I suoi contorni stanno diventando indistinti per via dell’atmosfera. Non va dentro direttamente, ma si avvicina in posizione orbitale. Adesso sta scomparendo, e non vediamo altro che il pianeta.
Dom era seduto sull’orlo della poltrona. Sentiva un brividino tipico alla nuca, vicino all’attaccatura dei capelli, il brivido che provava di solito davanti all’ignoto. Il polso e il respiro erano affrettati rispetto alla norma.
— Interessante, vero? — disse J.J. con un sorriso ironico.
— Cos’è un bogie? — chiese Dom che non conosceva quel termine, ma che capiva bene che si riferiva a un’astronave non identificata di proporzioni gigantesche.
— È vecchio slang usato da alcuni astronauti delle navi da esplorazione — disse J.J. — Risale alle guerre del secolo scorso. Una volta ho cercato sui libri, per capire l’origine della parola. E ho scoperto che c’era un tizio di nome Bogart che recitava sempre nel ruolo del bandito in film melodrammatici. Lo chiamavano Bogie. Così nella guerra aerea il nemico, il cattivo, veniva chiamato bogie.
— E quella nave là come fate a sapere che è cattiva?
— Non lo sappiamo. In seguito il termine finì per essere applicato a qualsiasi oggetto volante non identificato.
— E quello lì continua a non essere identificato?
— Sì.
— È entrato nell’atmosfera di Giove?
— Sì. Due mesi fa la Callisto Explorer è stata sospesa dalla sua missione e mandata verso Giove, più vicino al pianeta di quanto siamo mai andati. C’è arrivata però un po’ troppo vicino. Hanno consumato troppo combustibile per uscire dall’attrazione gravitazionale e abbiamo dovuto spedire una nave di salvataggio da Marte. Riusciremo a raggiungerli, ma per adesso sono ancora nello spazio.
— Quella nave sconosciuta è venuta dall’esterno del sistema solare — disse Dom.
— Senza dubbio.
— E si è persa.
— Non necessariamente — disse Barnes sorreggendosi il mento con le mani.
— Smettila di fare il misterioso, J.J. — disse Dom.
— Ascolta — disse J.J., premendo il bottone d’ascolto nel registratore. Dom sentì le intense vibrazioni sonore che costituivano il rumore di fondo di Giove. — Bisogna ascoltare attentamente — disse J.J.
Dom ascoltò con attenzione, e sentì una serie appena percettibile di impulsi, ripetuti con ritmo costante a intervalli di pochi secondi. Era difficile immaginare la potenza di un trasmettitore capace di farsi udire attraverso il torrente di emissioni radio intensissime di quella stella mancata che era Giove.
— Impossibile — disse Dom. — Impossibile che la nave sia penetrata nell’atmosfera di Giove. Niente potrebbe sopportare una pressione di centomila atmosfere.
— Abbiamo esaminato questa serie di impulsi con tutti i computer possibili e immaginabili — disse J.J. — Ci hanno lavorato attorno i tecnici più bravi del mondo, ma non siamo approdati a niente. Se uno che non parlasse la nostra lingua ricevesse il Mayday spedito da una delle nostre navi non riuscirebbe a tirare fuori un ragno da un buco, proprio come noi non riusciamo a tirare fuori niente da questo linguaggio sconosciuto. Ma sappiamo che il segnale è straordinariamente potente; lo deve essere per poter essere trasmesso nonostante le radioonde emesse da Giove. Tutto questo fa pensare che la nave stia effettivamente orbitando all’interno dell’atmosfera. Dopo un attento studio del film girato dalla Callisto Explorer ci è sembrato di capire che la nave si sia diretta verso il pianeta secondo l’angolatura e la velocità sufficienti a farla entrare in un’orbita stabile.
— Quanto dentro? — chiese Dom.
— Ti ricordi quello scafo da immersione che avevi progettato?
— Andava bene per scendere a dodicimila metri di profondità nell’oceano — disse Dom. — Più di mille atmosfere di pressione.
— Bisognerebbe più che raddoppiare la tenuta di quello scafo.
— No — disse Dom scuotendo la testa. — Non si avrebbe alcuna probabilità di tornare.
— Nel nostro caso si tratterebbe di tremila atmosfere — disse J.J.
— No, non c’è modo.
— Un modo c’è — disse J.J. serio. — Un modo c’è, perché c’è una nave aliena, là nell’atmosfera di Giove, che sta sopportando benissimo la pressione.
— Se le osservazioni della Callisto Explorer sono esatte — disse Dom, — la nave è più veloce e più grande di tutte quelle che abbiamo noi in funzione e in cantiere. È venuta dall’esterno del sistema solare, e questo significa o che ha viaggiato per moltissimo tempo, o che ha sconfitto la costante rappresentata dalla velocità della luce. In entrambi i casi la sua tecnologia è molto più avanzata della nostra.
— Dom, ti rendi conto di che vantaggi avremmo se riuscissimo ad allontanare cento milioni di persone dalla Terra e a trasferirle in un pianeta dotato di vita del sistema di Alfa Centauri?
— Se Alfa Centauri avesse pianeti dotati di vita.
— E per ogni nuovo pianeta dotato di vita che si scoprisse, altri milioni di persone potrebbero emigrare — disse J.J. come se non avesse sentito l’interruzione.
— È un vecchio sogno, vecchissimo — disse Dom. — Ed è appunto solo un sogno, finché non ci sarà l’iperpropulsione.
— E se quella nave aliena l’avesse l’iperpropulsione?
Dom scosse la testa, convinto che era impossibile costruire uno scafo capace di resistere a una pressione di tremila atmosfere.
— Ti rendi conto di quanto sia tragica la situazione? — disse J.J. — Il terreno ci sfugge sotto i piedi. Per conservare la vita sulla Terra consumiamo le nostre ultime risorse: trasportiamo fin qui i fertilizzanti che prendiamo su Marte, per produrre cibo appena sufficiente a mantenere miliardi di persone poco al di sopra del livello d’inedia. Tu e io sappiamo che lo spazio potrebbe darci di più, che è la nostra ultima speranza, ma quella gente affamata non la pensa così. Gli affamati, davanti al budget delle imprese spaziali, dicono che si tratta di soldi spesi male, che si potrebbero spendere meglio cercando sulla Terra il modo per produrre più cibo, per sfruttare l’oceano, per bonificare le ultime foreste pluviali tropicali e per irrigare i deserti. È da prima dell’atterraggio sulla Luna che combattiamo contro quelli che ci vogliono ridurre il budget. Ci tagliano e ci riducono i finanziamenti, e alla fine vinceranno loro. Ogni secondo che passa ci sono sempre più bocche da sfamare. I terristi sono già riusciti a fare uscire la Cina dal programma spaziale, e il Giappone ha un programma solo nominale. La Gran Bretagna sta per tirare i remi in barca e arrendersi agli oppositori dello spazio. Perfino la Russia ha qualche problema. Noi adesso stiamo lottando solo per mantenere il budget attuale, e non c’è alcuna probabilità che possiamo vincere. Gli altri sono molti di più. Il budget verrà tagliato, e questo significa la fine delle esplorazioni e dell’espansione nello spazio. Saremo ridotti a fare solo il su e giù per il trasporto dei fertilizzanti. I populcratici hanno la maggioranza assoluta in tutte e due le Camere, e il Presidente è un populcratico.
— Non capisco… — cominciò Dom.
J.J. gli fece segno di stare zitto. — Il Presidente è un brav’uomo. Sotto sotto è dalla nostra parte, ma non può opporsi all’opinione pubblica. È un fatto inevitabile. Ci ridurranno il budget. Prima di tutto dovremo dire addio alle esplorazioni, poi all’elaborazione di nuovi programmi. Cape Canaveral sarà il primo a essere chiuso, questo è poco ma sicuro. Non si costruiranno più navi. C’è anche chi sta cercando di far chiudere l’Accademia e di farla confluire in quella di West Point, per risparmiare denaro. Sai cosa significherebbe tutto questo. Dicono che in parte sarebbe per garantire l’incolumità degli studenti.
— Ho sentito dell’ultimo incidente — disse Dom. — Quei ragazzi sarebbero dovuti rimanere nella zona d’addestramento.
— Non l’hanno fatto, e i terristi ne hanno beccati sei di loro — disse J.J. — E quello, a quanto pare, è stato il primo incidente di una nuova ondata di terrorismo. I cuori nobili dicono che possiamo fermare gli spargimenti di sangue solo abbandonando lo spazio. Dicono che dovremmo lasciare al loro destino i pianeti deserti e inutili, e tornare sulla Terra per lavorare insieme al fine di renderla abitabile. Ma siamo un po’ in ritardo per fare questo. Ormai abbiamo consumato tutte le risorse della Terra, l’abbiamo ridotta a un guscio vuoto. Le abbiamo fatto portare un carico umano troppo pesante: troppa gente, e troppo poco buon senso. Lo sai che uno degli ultimi gruppi terroristici uccide i taglialegna in nome della libertà per gli alberi?
J.J. sbuffò e continuò: — Gli alberi, Cristo. Gli alberi hanno dei diritti, certo: hanno altrettanto diritto a vivere di noi. Non so cosa pensino che possiamo usare per sostituire i prodotti delle foreste, le uniche zone della Terra in cui l’uomo abbia mostrato di saper competere con la natura, visto che è riuscito a escogitare il modo per far crescere gli alberi più in fretta rispetto al ritmo naturale. Ma loro vogliono che smettiamo di uccidere gli alberi. Dicono che è un assassinio, e che contrasta con le leggi sulla libertà dell’individuo.
— A me questa sembra una sindrome da sovraffollamento — disse Dom.
— Già, e questo noi lo capivamo — disse J.J., — ma loro no. Lo spazio è la nostra ultima speranza. È una speranza che perderemo, a meno che non riusciamo a penetrare nell’atmosfera di Giove e a riportare indietro quella nave.
— Uhm — grugnì Dom.
— Dom, tu sei il miglior progettista di scafi di tutto il nostro servizio, e quindi il migliore del mondo. Sei l’uomo anti-pressione. Se sei in grado di progettare uno scafo che resiste a mille atmosfere, sei in grado di progettarne anche uno che resista a tremila atmosfere.
— Resta la faccenda della propulsione — disse Dom. — Fornire una simile nave di combustibile sufficiente significherebbe fare i conti con cifre iperboliche.
— La fonte di energia l’abbiamo già. È nuova e non è ancora collaudata, ma l’abbiamo.
— L’esplosivo nucleare? — disse Dom.
— Sarà come essere seduto in groppa a una bomba.
— Oh-oh.
— Tu sei l’uomo giusto, Flash — disse J.J. — Sta a te tentare. Puoi chiamare a lavorare con te chiunque tu voglia.
— Art Donald.
— È già qui.
— Doris e Larry Gomulka.
— Doris è in viaggio. Larry sta terminando un progetto e sarà qui nel giro di una settimana.
— È un buon inizio — disse Dom.
— È la squadra che usasti per progettare lo scafo da immersione per l’oceano.
— Ci saranno problemi di finanziamento?
— Non stavolta, Flash. Intendiamo giocarci il tutto per tutto in questa faccenda.
— Bene, comincerò con l’addebitarvi un po’ di vestiti da lavoro che comprerò al vostro magazzino.
— Il costo di quelli verrà detratto dal tuo stipendio.
— Come sei buono! — disse Dom.
— Oh, siamo molto generosi, qui al MINESPOV — disse J.J.