Portammo Al a fare una passeggiata. Prima Jan si cambiò; non le piacevano i calzoni e il maglione nero. Entrando in camera da letto, si fermò di botto, passò gli occhi sui brandelli di stoffa nera sparsi sul pavimento, e mi sorprese. — Forse ha ragione lei — mormorò, e si mise l’abito arancio, il più sgargiante che avesse.
Accompagnammo Al al campo giochi, a tre isolati da casa. È un posto che gli piace perché in genere ci sono bambini che gli fanno i complimenti, giocano con lui, e a volte gli danno le caramelle. Però quel giorno non c’era anima viva, così Al si arrangiò al meglio possibile: contò le altalene, gli scivoli, e l’unico, solitario albero. Sedemmo sull’orlo della grande buca di sabbia per i bambini più piccoli, mentre Al scorrazzava in giro, e io parlai con Jan.
In maniera molto esplicita, le dissi cosa volesse Marion e cosa mi era accaduto all’Olympic. Lei ascoltò con tanta attenzione da restare praticamente immobile. Poi, per mezzo minuto buono, rimase muta. — Tu lo faresti? — esplose all’improvviso, quasi furibonda. — Tu rinunceresti a una parte della tua vita per, diciamo, Valentino?
— Be’… Per Valentino non so. Forse per Cary Grant.
— Grant non ne ha bisogno, per amor del cielo! Nick, io so cosa prova Marion. L’ho scoperto come lo hai scoperto tu, con piccoli guizzi qua e là di ritorno di coscienza. Non avevo mai immaginato che un essere umano potesse desiderare qualcosa con tanta forza, eppure… Sai una cosa? A volte quasi la invidio. Vorrei essere io a desiderare qualcosa con quella intensità. Capisci cosa voglio dire?
— Sì. Quando mio padre era un giovanotto che aveva appena finito la scuola, voleva un lavoro. Lo sai perché? Per «poter avere una vita costruttiva». Ne trovò uno qui a San Francisco, da un distributore all’ingrosso di generi alimentari. Lavorava lunghe ore in un magazzino, a caricare camion. Un lavoro pesantissimo, e pagato pochi soldi. Ma a lui andava bene. Perché gli offriva l’occasione di «dimostrare di che stoffa era fatto». Be’, io sono un po’ più furbo. Chi crede in cose del genere, al giorno d’oggi? Nessuno, e abbiamo ragione. Lo stavano solo sfruttando. Però il punto è che io quasi invidio le convinzioni che un tempo la gente aveva, false o no che fossero. Perché non ho niente che possa prendere il posto di quelle convinzioni. E non lo hai nemmeno tu. Quindi sì, capisco quello che vuoi dire.
— Dimmi cosa fare, Nick! E lo farò. Se tu dici che devo, lo farò! Forse la mia piccola stupida vita non è importante, non con…
— Ehi, non dire questo! — Le misi un braccio attorno alle spalle, le strinsi un ginocchio. — Che idea sarebbe, una piccola stupida vita? Non è affatto…
— Oh, sì che lo è — ribatté lei, calma. — È una vita da niente. Mi sembra di avere concluso qualcosa di serio se provo una ricetta nuova e a te piace. Oppure se arredo una stanza come mi consiglia una rivista. O se riesco ad arrivare fino in fondo a un libro pesante.
Parlai, discussi, cercai di consolarla, e lei annuì e finse di sentirsi consolata. Chiamammo Al, lo mettemmo al guinzaglio e tornammo verso casa. Era ancora giorno, ma la nebbia del tardo pomeriggio aveva imbiancato il cielo, e all’improvviso il clima era gelido.
— Dimmi cosa fare, Nick — ripeté Jan mentre camminavamo, ma io scossi la testa.
— No. Devi decidere tu.
Qualche altro passo, e lei disse: — Va bene. Però dimmi cosa faresti tu. Questo me lo puoi dire.
Mi sembrava di pensare in maniera onesta. E credevo che se fossi stato al posto suo, lo avrei fatto.
Così annuii e risposi: — Sì. Penso che lo farei.
— Allora lo farò. Le darò… — Jan esitò, poi concluse quasi con rabbia: — Un paio di settimane, tutto qui. Per cominciare. Poi vedremo come regolarci. Nick, non è onesto?
— Onestissimo. Senti, concedile due settimane piene, e se non succede niente, chiusa lì. Torneremo a casa nella terza settimana delle mie ferie. Ce la spasseremo.
— Oh. Vai anche tu a Hollywood?
Mi sentii arrossire. Non mi era nemmeno venuto in mente di non partire. — Be’, sì. Non penserai che possa… lasciarti là da sola? Per una parte del tempo, ci sarai tu. E sarai sola, se non ci sono anch’io.
— Va bene. Però a volte sono capace di scacciarla. Ho imparato la tecnica, e l’ho già fatto. È un po’ come una lotta libera, e certe volte sono riuscita a… sbatterla fuori. Lei lo sa. Quindi dille che io dovrò tornare tutte le sere, appena lei sarà rientrata all’hotel! E per tutta la notte, ogni notte. Se no salto fuori di colpo nel bel mezzo della sua rentrée e le taglio le gambe.
— Una buona idea. Maledettamente buona.
A casa demmo da mangiare ad Al, poi uscimmo a cena. Nessuno dei due aveva voglia di restare in casa. Io ero depresso; non sapevo di preciso perché, e pensavo potesse esserlo anche Jan. Ci avviammo verso la Haight e un ristorantino che io trovo delizioso perché è tanto economico: “Il nostro vomitorio di quartiere”, come mi è stato proibito di chiamarlo. E camminando, una storia vera che avevo letto tempo addietro mi si affacciò alla mente.
Un uomo era stato assassinato, senza motivi apparenti, nel suo appartamento. In casa erano rimasti soldi, gioielli, parecchi oggetti di valore, compresa una collezione di francobolli. Sembrava non mancasse nulla. Un mistero. Uno dei detective, per puro caso, era un collezionista di francobolli. Controllò gli album del morto e trovò una pagina di francobolli rari, le prime emissioni delle Hawaii; c’era tutto, tranne il pezzo da due cent. E lui sapeva ciò che gli altri poliziotti non sapevano: quello era il più raro degli esemplari hawaiani. Passò in rassegna gli amici del morto finché non individuò un altro collezionista di francobolli. Poi fece conoscenza con l’uomo. Diventarono amici. E alla fine, una sera, l’uomo mostrò al detective il suo orgoglio e la sua gioia, una collezione completa dei primi francobolli hawaiani. Dove aveva trovato il pezzo da due cent? Non era in grado di dirlo. Venne arrestato, accusato d’omicidio, e continuò a non saper spiegare. Non poteva spiegare. Venne processato, condannato, e confessò: l’amico si era rifiutato di vendergli quel francobollo, l’unico che gli mancasse per completare la collezione. Così lo aveva ucciso e derubato. Aveva commesso un omicidio per un vecchio francobollo da due cent.
Mentre camminavo con Jan in direzione di Haight Street, mi dissi che una giuria di dodici collezionisti di francobolli avrebbe assolto l’assassino, ma il pensiero non mi fu d’aiuto. Perché non avevo raccontato a Jan dell’uomo di Hollywood che poteva possedere una collezione da capogiro di film incredibilmente rari? Perché? Ero stato davvero onesto nello spingerla ad accettare la volontà di Marion, in modo che anch’io potessi avere la mia occasione? Stavo vendendo mia moglie (ombre dello schiavismo sudista!) solo per la vaga possibilità di mettere le mani su antichi rulli di pellicola cinematografica? “Mio Dio! pensai. Sto vivendo la sceneggiatura di un film muto! Il film che io voglio è Greed! Avidità!”
Così, a cena, gliene parlai. Le spiegai quanto fossero dubbi i miei motivi. E Jan disse: — Sono sollevata, Nick. Avevo paura che tu volessi andare a Hollywood solo per stare con Marion! — E all’improvviso io mi sentii in grande forma, e ordinai una costosa caraffa del misterioso, torbido liquido rosso che al vomitorio passa per vino. Levammo i bicchieri in un brindisi, bevemmo a occhi socchiusi; e io mi scoprii a chiedermi se andare a Hollywood con Marion non fosse il mio vero motivo, il mio unico motivo. Al diavolo. Coraggiosamente, riempii di nuovo i bicchieri. Più tardi, per la prima volta in vita mia, trovai il coraggio di chiedere il “sacchetto di avanzi per il cane”, in modo che anche Al potesse festeggiare.
Il mattino dopo, preparando le valigie, Jan era un po’ torva; ma se anche aveva voglia di cambiare idea (e secondo me la tentazione la sfiorò), non aprì bocca, e per le otto eravamo pronti. Indossava un vestito rosa, la giacca di stoffa, e un foulard, nel caso avessimo fatto il viaggio con la capote abbassata. Io portavo calzoni marroni, mocassini, camicia sportiva, e un maglioncino senza maniche.
L’ultima cosa che trasportai fu un cartone di cibo per cani, che lasciai sul portico del retro dei Platt; si sarebbero presi cura di Al. E quando Al trotterellò sul portico a investigare, gli spiegai quello che stava succedendo. Secondo me, i cani recepiscono il senso generale di una spiegazione, anche se magari non capiscono proprio tutte le parole.
Mi accoccolai al suo fianco, gli grattai le orecchie, sollevai di tanto in tanto le grosse aree di pelle che ha attorno alle spalle e al collo: i basset hound sono dotati del doppio di pelle rispetto ai loro veri bisogni. Gli dissi: — Senti, non è vero che tu sia stato licenziato dal tuo posto di cane. La posizione resta tua. E non è nemmeno vero che tu sia stato adottato; sei sempre il nostro vero figlio. Okay, staremo via per un po’, però torneremo. E i Platt si prenderanno cura del tuo benessere fisico, se non spirituale. Quindi non preoccuparti, okay? — Lui sventolò la coda e, sono incline a pensare, annuì. Sollevai una manciata enorme di pelle che aveva attorno alle spalle. — Fra parentesi, non so dove tu abbia comperato questo lercio costume da cane, però di sicuro fa schifo. — Lui si lanciò verso il mio orecchio con la lingua, ma io eseguii una manovra evasiva. — E quando torno, mi piacerebbe vederti con un costumino più nuovo e più chic. Ormai le orecchie lunghe non vanno più di moda. — Al pareva interessato. — Perché non provi con un costume da barboncino, la prossima volta? Sono molto carini. Qualcuno gli mette anche i cerchietti alle caviglie e alla coda. Però bisognerà far accorciare le zampe. — Mi rialzai. — Allora, ricordati che torneremo. Torneremo. Nel frattempo, gioca bene le tue carte, e vedrai che riuscirai a scroccare ai Platt un sacco di delizie proibite. — Gli assestai un pugno a una spalla, che è più robusta e più massiccia della mia; poi portai in auto i nostri bagagli.
Non sapevamo quando si sarebbe fatta viva Marion, ma arrivò mentre stavamo partendo. Scendevo le scale con le valigie, e Jan era alle mie spalle, con le chiavi in mano per chiudere la porta, quando la sentii rientrare in casa come se avesse scordato qualcosa. Nel momento in cui alzai gli occhi dal bagagliaio della Packard, lei scendeva dai gradini del portico. A braccia sollevate, stava sistemando la parrucca bionda. E all’improvviso, io mi resi conto che sarei partito per Hollywood in compagnia dello spettro di un’attrice cinematografica morta nel 1926. Probabilmente rimasi a fissarla a bocca aperta, perché lei raggiunse l’automobile, aprì la portiera dalla sua parte, poi si fermò a guardarmi. — E dai, Nickie. Non perdere tempo. Siamo in ritardo di quarantasette anni.
Durante il viaggio accaddero solo un paio di cose degne di nota. È un tragitto non indifferente da percorrere in un solo giorno. La vecchia Packard non è l’automobile ideale per i viaggi lunghi, e io non parlai molto. Chiesi subito a Marion se accettasse i termini di Jan, e lei rispose di sì. Poi le chiesi il nome dell’uomo che possedeva i film, l’incredibile collezione di film muti; ammesso che li avesse ancora; ammesso che le pellicole esistessero ancora.
— Bollinghurst — rispose lei. — Si chiama Ted Bollinghurst. — Era soltanto un nome, ma il mio stomaco si contrasse. L’eccitazione si gonfiò di nuovo in me, e io seppi che quel nome sarebbe rimasto scolpito per sempre nella mia mente. — Abita al 1101 di Keever Street, a Beverly Hills, stando al tuo elenco telefonico. E questo è tutto quello che so, Nick. Non so se abbia ancora i film. Non so nient’altro.
Da quel momento in poi, Marion chiacchierò parecchio, facendomi notare i cambiamenti. Ce n’erano stati parecchi dal 1926, e per la maggior parte del tempo io continuai ad ascoltare e annuire. A pranzo entrammo in un drive-in, e Marion lo trovò bellissimo. Volle a tutti i costi sporgersi dalla mia parte per ordinare dal microfono: frappé per due, cheeseburger per me, hamburger per lei, con tutta la farcitura possibile. Si riadagiò sul sedile, poi aggrottò la fronte e si protese di nuovo in avanti. — Niente cipolle con l’hamburger! — disse nel microfono, e mi sorrise. — Ciao, Nick — disse, e io le diedi una pacca sul ginocchio, lì nel drive-in: Jan non digerisce le cipolle.
L’unica altra cosa che accadde fu che mi trovai a lottare col volante. Il tachimetro segnava cento chilometri orari, una velocità molto, molto alta per la Packard; e i pneumatici ululavano in curva.
Riuscii a riprendere il controllo, decelerando con cautela, finché non tornammo su un rettilineo. Attorno al collo avevo il foulard di Marion, gonfiato alle mie spalle dal vento. Molto romantico. — Cos’è successo?
— Si è messo a guidare Rudy — rispose lei, scusandosi. — Ha voluto entrarti dentro per un po’.
— Be’, come autista fa schifo!
— Lo so. Ha detto che il volante risponde molto peggio della sua Isotta-Fraschini, e che era meglio ridare il comando a te.
— In curva?
— Lo so. È tutto svitato.
Verso le dieci e trenta di quella sera, Jan e io cenammo al piccolo ristorante del Beverly Hills Hotel. Seduti a un séparé, in attesa che ci servissero, eravamo talmente esausti da riuscire solo a fissarci con aria istupidita. — A me restano i suoi mal di testa, i suoi doposbornia, e adesso la sua stanchezza totale — disse Jan, massaggiandosi la fronte. La sua destra sfiorò l’attaccatura dei capelli, incontrò la parrucca bionda, e la tirò giù. Jan scrollò le spalle. Rinunciammo a un budino dall’aspetto delizioso per la spossatezza fisica. Alle undici eravamo a letto, e dormivamo già. La parrucca era sul comodino.
A un certo punto mi svegliai, e mi accorsi che anche Jan era sveglia.
— Nick?
— Sì?
— Non sono sicura di voler andare avanti con questa faccenda. Tu cosa ne pensi?
— Decidi domattina. — Mi rimisi a dormire.
Quando mi svegliai di nuovo era giorno, e Marion, in parrucca e vestito arancio di Jan, era seduta sull’orlo del letto. Aveva al suo fianco un elenco telefonico aperto, e i suoi occhi erano puntati sulla sveglietta da viaggio. — Le sei e quarantacinque sono un po’ troppo presto per telefonare, Nickie?
— Sì. — Tornai a dormire.
Mi svegliai un’altra volta al suono di qualcuno che componeva un numero al telefono, e guardai la sveglia: le otto e un minuto. — Non è troppo presto! — si difese Marion; poi disse nel ricevitore: — Pronto? Il signor Dahl, per favore. Il signor Hugo Dahl. — Ascoltò. — Capisco. E potrei raggiungerlo là? — Ascoltò, annuì. — North Gower Street. Grazie infinite. — Riagganciò e mi guardò, improvvisamente spaventata. — Sta andando allo studio. Lavora ancora nel cinema. Nickie, ho paura! È lui la mia unica speranza. Ho cercato negli elenchi telefonici, e di tutte le persone che conoscevo non c’è nessun altro che possa ancora fare quel lavoro. E se non si ricordasse di me? — Non vedevo come Dahl potesse averla dimenticata, ma non dissi niente. Lei saltò su e corse a sedersi dalla mia parte del letto. — Nickie, oggi verrai con me, vero? Non posso andare agli studios da sola! Ho paura! Sul serio.
— Va bene.
Sollevata, Marion guardò la sveglia. — È troppo presto per partire. Non sarà ancora arrivato. Perché non…
— No.
— Potremmo almeno pomiciare un po’. Porta fortuna.
— Porta sfortuna. — Rotolai all’altro lato del letto, mi sedetti, presi l’elenco telefonico, cercai alla B, e trovai “Bollinghurst, Theo N., 1101 Keever Street.” Guardai Marion e sorrisi. — URRa’ per HOLLywood! — Mi misi a cantare. Saltai a terra e mi feci una doccia, continuando a cantare.
Sul taxi, diretti a est in Wilshire Boulevard, guardai fuori dal finestrino. Non sapevo molto di quella città ed ero curioso. Ma ogni isolato che superavamo, fermandoci spesso ai semafori, sembrava identico al precedente: edifici generalmente bianchi, nuovi o dall’aria nuova, e di altezza piuttosto uniforme, per cui tendevano a confondersi l’uno con l’altro. Però notai che le singole architetture erano spesso notevoli, talora eccentriche, addirittura bizzarre. Uno qualunque degli edifici che incontravamo sarebbe stato memorabile da qualsiasi altra parte; un monumento cittadino. Ma lì, così tante costruzioni tentavano di apparire uniche che l’effetto cumulativo era una monotonia globale. Erano in pietra, ma sembrava difficile credere che fossero realmente state progettate per durare nei secoli. E nella inquietante luce solare di Los Angeles, una luce slavata che filtrava a fatica dalla foschia di perpetuo smog, quegli isolati monotoni parevano privi di sostanza, di vita, e di significato. Esistono nonlibri e noncelebrità, persone la cui unica fama riposa nel fatto che il loro nome, chissà perché, è conosciuto. A me sembrava di trovarmi in un nonposto, e lo dissi a Marion.
— Però un tempo era diverso. Questo era un posto meraviglioso. Una città, una vera città. — Guardò fuori dal finestrino, poi scosse la testa e si rannicchiò sul sedile, come per isolarsi dal paesaggio che avevamo attorno. — Ma adesso non mi piace. Non potrebbe mai piacermi. Non vedo come potrebbe piacere a qualcuno. — All’improvviso, si protese in avanti a parlare all’autista. — Ci riporti all’hotel!
— Okay. — Il taxista scrollò le spalle, controllò nello specchietto retrovisore che non ci fossero in giro poliziotti, e rallentò, in attesa del momento buono per immettersi nel traffico dalla direzione opposta. Poi eseguì un’inversione a U, molto veloce e molto illegale.
Restai in attesa di una spiegazione, e dopo un secondo o due lei alzò entrambe le mani e si tolse la parrucca.
— Jan?
Lei annuì, acida. — Non so se voglio andare avanti con questa cosa, Nick, adesso che siamo qui. Questo posto non mi piace! Cosa ci facciamo qui? — Sbatté di scatto le palpebre, sussultò, e si chinò in avanti. — Ci porti a Gower Street! — disse, e rimise in testa la parrucca.
— Mio Dio. — Mi afflosciai sul sedile e mi voltai verso il finestrino, dissociandomi dalla donna che avevo in quel momento al mio fianco.
— Signora, a me non importa. — L’autista si girò a sorridere con calma forzata. — Se vuole, può andare avanti tutto il giorno, avanti e indietro, purché mi paghi la corsa. Ma se mi beccano per questa inversione, alla multa ci pensa lei! — Direttamente di fronte all’hotel, eseguì una nuova inversione a U e ripartì in direzione est.
— Torniamo all’hotel! — Lei si tolse la parrucca.
— No! — L’autista frenò di colpo, accostò al marciapiede e si fermò. — Non lo faccio! Niente potrebbe costringermi a farlo! Trovatevi un altro ta…
— Calma — intervenni, rassicurante. — Aspetti un secondo. Ci faremo perdonare con la mancia. — Mormorando sottovoce, parlai con Jan. Le ricordai che aveva promesso. La sollecitai ad aspettare di vedere cosa sarebbe successo, e alla fine lei si arrese. — Andiamo — dissi all’autista. — North Gower Street, e questa volta non cambieremo idea.
Restai deluso, enormemente, dall’aspetto esterno dello studio. Non so cosa mi aspettassi, però pensavo di vedere come minimo qualcosa di sfavillante. Invece quella era solo una parete a stucco bianco, molto alta, lunga un intero isolato, quasi spoglia, a lato del marciapiede; di fronte, un parcheggio pubblico scalcagnato, pieno di buche, chiuso da una palizzata bianca in rovina e lastricato di cartacce che nessuno avrebbe mai raccolto. Sulle pareti esterne dello studio, qualche cartellone cinematografico; per il resto, poteva benissimo essere un magazzino. E la porta, l’ingresso principale a uno studio famoso nel mondo intero, era una comune porta a livello della strada, con le maniglie che avevano perso la cromatura, i vetri un po’ sporchi. Non mi avrebbe sorpreso trovare all’interno uno studio dentistico a prezzi stracciati.
Quello che trovammo fu un cubicolo grande abbastanza da contenere noi due e una piccola scrivania che pareva uscita dai saldi di un mobilificio per poveracci. Alle pareti di compensato era appesa qualche fotografia sbiadita di attori cinematografici e star televisive; e dietro la scrivania, un uomo di mezza età dalla faccia simpatica, in un’uniforme vagamente da poliziotto, alzò la testa da una copia di The Hollywood Reporter. — Posso esservi d’aiuto?
Se mi ero preoccupato per le possibili reazioni di Marion, smisi di nutrire timori quando vidi spuntarle il sorriso sulle labbra. E gli occhi dell’uomo mi dissero che il sorriso non era passato inosservato. — Sì, grazie, se non le spiace — disse Marion, guardando l’uomo con quello che sembrava sincero interesse, come se avesse voglia di trascorrere almeno un’ora a chiacchierare con lui.
— Vorrei vedere il signor Hugo Dahl.
— Ha un appuntamento? — L’uomo cominciò ad annuire automaticamente. Era chiaro che gli sarebbe piaciuto evocare dal nulla un appuntamento che forse non esisteva.
— No, però sono una vecchia amica. Se gli fa sapere che c’è Marion Marsh, credo che potrebbe vedermi.
L’uomo consultò un logoro elenco di numeri telefonici appiccicato alla sua scrivania con un nastro adesivo ingiallito, poi chiamò. — Reception. La signora Marion Marsh vorrebbe vedere il signor Dahl. — Ascoltò, poi restò in attesa, sorridendo a Marion. — Solo un secondo — disse nel ricevitore, poi chiese a Marion: — Ha detto Marion Marsh? — Lei annuì, gli scoccò un altro sorriso gigante, che lui ricambiò. — Bene — disse l’uomo nel ricevitore, poi riappese. — Scende subito.
Io non dissi niente. Marion aveva dimenticato che Hugo Dahl avrebbe visto la faccia di Jan? Aspettammo, facendo i pochi passi che la stanzetta permetteva, guardando gli ingrandimenti fotografici molto sgranati. Dopo un po’ sentii aprirsi la porta di un ascensore da qualche parte sulla sinistra dell’ingresso, e passi che si avvicinavano; poi arrivò un uomo alto, magro però con la pancia, sulla settantina. Indossava un abito blu scuro e un maglione. Era calvo, con frange di capelli e basette grigie. Aveva un viso rugoso, cadente, eternamente stanco. Ma i suoi occhi erano svegli e cauti. — Lei è… Marion Marsh?
Lei scrutò l’uomo sulla mezza età avanzata, o sull’inizio della terza età, e per un attimo non rispose. Poi si esibì in un sorriso sfolgorante, e Dahl spalancò la bocca, sorpreso. — Sono la pronipote della Marion Marsh che lei conosceva. Ma forse non la ricorda?
Lui stava rispondendo al sorriso. Le rughe erano momentaneamente scomparse, e adesso si poteva immaginare come fosse stato il suo volto da giovane. — Nessuno ha mai dimenticato Marion Marsh. La ricordo dieci volte meglio delle persone con cui ho pranzato ieri. Lei è la sua pronipote? — chiese incredulo, e Marion annuì, senza smettere di sorridere. — Non le somiglia, a parte il sorriso. Il sorriso è lo stesso. Identico. Come mai porta il cognome Marsh?
— Mi hanno chiamata Marion in suo onore. E la ammiravo così tanto, aveva tanto talento, che ho preso Marsh come cognome d’arte. — Aggiunse timidamente: — Come cognome per la mia carriera cinematografica. O almeno lo spero.
Dahl sorrise. Un bel sorriso: ammiccante, ma dolce. — Ed è qui per questo. Marion le ha parlato di me, eh? È ancora… viva? Mi sembrava di avere sentito…
— Oh, sì! Vivissima! Ha avuto un brutto incidente. Anni fa. Ma si è ripresa. E ha parlato spesso di lei. — Marion esitò, in un modo molto convincente. — Forse non dovrei dirlo, però… Ho sempre avuto la sensazione che lei le piacesse. C’era qualcosa nella sua voce, tutte le volte che faceva il suo nome…
Lui rise. — Se non è vero, e non lo è, non voglio saperlo. Be’, stamattina sto facendo delle audizioni, e se la pronipote di Marion Marsh vuole essere della partita, prego. Mi segua. — Fece per avviarsi, si ricordò di me, e disse: — Viene anche lei?
— Oh, scusi! — disse Marion. — Sono così nervosa. Questo è un mio amico che… È un attore anche lui! Mi dà sostegno morale. Sono spaventata a morte.
— Okay. Venite tutt’e due. La farò preparare per l’audizione, Marion. — Uscimmo dalla stanzetta sulla destra. Marion si girò a sorridere alla guardia alla reception, poi imboccammo un corridoio costellato di porte e targhette con nomi in plastica bianca su fondo nero. Sbucammo in un vicolo o una strada, molto, molto stretta; superammo un vecchio edificio di legno a un piano, grigio, con finestre a doppi telai e un tetto ad assicelle. Dietro diverse delle finestre c’erano donne che battevano a macchina sotto brillanti luci fluorescenti.
Parecchio più avanti sulla strada si stendeva una fila di cupi edifici a mattoni, alti quattro o cinque piani; avevano pochissime finestre, e anche quelle poche sembravano disposte a casaccio, per cui era impossibile farsi un’idea esatta dei piani. Sui lati, scale antincendio sulle quali stavano accoccolate parecchie persone. Continuammo a camminare per almeno un isolato, costruzione dopo costruzione, e io fui orgoglioso di Marion (e anche un po’ sorpreso, lo ammetterò) quando lei si ricordò di me. — Dovrei andare a trovare anche qualcun altro — disse a Dahl. — Ted Bollinghurst. Lei lo ha mai conosciuto?
— Oh, sì, certo. Stavamo allo stesso studio. Poi lui ha traslocato. Alla United Artists, mi pare. Però ho continuato a incontrarlo per tutti gli anni Venti e Trenta. Hollywood era molto più piccola, all’epoca. Poi ho sentito dire che aveva lasciato il cinema e si era messo negli immobili, e per anni non ne ho più saputo nulla. Sa, qui se uno non è nel cinema non esiste. Ma molti anni più tardi ho letto di lui sul giornale, ed era ricco. Come tanta gente che si è messa a vendere case a Hollywood al momento giusto. Gesù, quando penso ai terreni che avrei potuto comperare. Nell’estate del 1928 ho acquistato una spider Dodge allo stesso identico prezzo di sei acri di terreno che non valevano un soldo e che oggi sono in pieno centro di Beverly Hills. Se avessi comperato quelli e me li fossi tenuti stretti, adesso sarei ricco, invece di essere costretto a… Oh, al diavolo. Bollinghurst e tanta altra gente lo hanno fatto, e io no. L’ultima volta che ne ho sentito parlare, negli anni Quaranta, aveva comperato Graustark.
— Comperato cosa? — chiesi.
— Graustark. La vecchia villa di Vilma Banky. Non ne ha mai sentito parlare? — Io scossi la testa. — Era come Pickfair, la casa di Doug Fairbanks e Mary Pickford. Un tempo, nel mondo civile tutti quanti sapevano di Pickfair e Graustark. Posti favolosi. Costruiti su otto o dieci acri di terreno. Un milione di stanze. Piscine. Campi da tennis. Scuderie. Garage pieni di Daimler, Duesenberg e Hispano-Suiza. Be’, Ted ha comperato Graustark. Perché era appartenuta a Vilma Banky, ne sono certo. Era proprio un patito di cinema. La villa era vuota da anni, ridotta in condizioni pietose. Un elefante bianco. Nemmeno il terreno in sé e per sé aveva un valore particolare, per Hollywood. Ma lui l’ha comperata, e ha ristrutturato tutto. E ci è andato a vivere. Per un po’ si è sentito parlare dei party che dava. C’era anche la sala da ballo. Io non ci sono mai andato, ma mi sono arrivate voci. Però sono anni che non sento parlare di party lì. Era molto più vecchio di tutti noi, e dubito sia ancora vivo. Non so nemmeno se Graustark esista ancora. Probabilmente adesso sarà un parcheggio.
— Dove si trovava? — domandai.
Lui rifletté un attimo. — Keever Street. Da qualche parte di Keever Street.
— Attorno al numero millecento?
— Più o meno. Perché?
— Semplice curiosità.
Davanti a noi, una doppia porta in acciaio verniciato di grigio era spalancata. Una donna magra, coi capelli neri, sulla quarantina, uscì e svoltò in strada. — Marie — chiamò Dahl. La donna si girò e restò ad aspettare. — Ne ho un’altra per te — disse Dahl, indicando Marion con un cenno della testa. — Me la puoi preparare? In fretta. Alle scartoffie pensiamo dopo. — La donna soppesò Marion con gli occhi, poi annuì. — Ma certo. — Gesticolò col mento in direzione di Marion. — Vieni.
Le due donne si avviarono, e Dahl mi indicò le porte grigie dell’edificio che sembrava un magazzino, ed entrammo. Non avevo niente di meglio da fare, ed ero curioso. L’interno era enorme: un gigantesco spazio aperto, col soffitto perso nel buio. Non vedevo molto. A parte qualche rara lampadina che illuminava pochissimo, e il bagliore rosso delle uscite di sicurezza, quasi l’intero locale era al buio. Di luminoso c’era solo un angolo molto lontano. Nelle tenebre intravedevo oggetti dal profilo indistinto e una grande, indefinibile impalcatura in legno.
Procedemmo verso l’unica zona illuminata dell’ampio spazio: un angolo con mattoni a vista. Un paio di potenti riflettori montati su supporti mobili fornivano tutta la luce necessaria. E sotto quella luce, una decina di persone (quasi tutti uomini, due o tre donne) chiacchieravano fra loro, stringendo in mano bicchieri da caffè di plastica. Uno, un giovanotto semi-calvo in calzoni e giacca blu, ci individuò e si incamminò verso noi. Reggeva in mano un porta-blocco. — Fred — disse Dahl, quando il tizio si fermò davanti a noi — c’è un altro candidato. Parlagli. — Ormai non si ricordava nemmeno più della mia esistenza. — Vedi se ha qualche specialità. Se ti sembra adatto, assumilo. — Si girò verso me e disse: — Fred è il capo dell’unità esterna. — Non sapevo cosa significasse. Continuammo a procedere verso il gruppo che stava sotto i riflettori.
— Nome? — chiese Fred, con la matita appoggiata sul porta-blocco. Eravamo al margine esterno del cerchio di luce, però io riuscivo a vedere otto o dieci nomi scritti a matita sul modulo fermato dalla molla del porta-blocco di Fred. Stavo per rispondergli che c’era stato un equivoco, ma rimasi orripilato; mi parve di essere sul punto di svenire. L’uomo davanti a me e l’edificio nel quale ci trovavamo avevano cominciato a sparire. Ero svenuto una volta al college, perché per fare economia avevo smesso di mangiare la colazione; lo svenimento era iniziato nello stesso modo, e in quel momento mi chiesi se avrei picchiato la testa sul pavimento. Però non caddi. Per quanto vista e udito stessero diventando sempre più fiochi, sentii la mia voce, lontana, rispondere; e il tono era calmo, sicuro di sé, e parecchio più profondo della mia voce normale.
— Rod. Rod Guglielmi.
— Rod per Rodney?
— No. Rodolfo.
— Qualche specialità?
— Tutto quello che volete. — La scena davanti a me, e le voci, cominciavano a svanire.
— Be’, a noi serve una controfigura, niente di più.
Un attimo di esitazione, poi la mia bocca pronunciò le parole. — Io posso farlo.
— Fare cosa?
— Tutto quello che volete. Guidare automobili da corsa. Camminare su un filo. Lanciarmi da un treno a un altro. Paracadu… — Il nulla. Nemmeno il buio; solo il puro, incolore nulla.
Spesso, svegliandosi, si riesce a capire per quanto tempo si sia dormito; nella stessa maniera, quella volta io riuscii a capire che non era trascorsa più di mezz’ora. Ma era come risvegliarsi da un innaturale sonno febbricitante per un momento o poco più di superchiarezza. Mi trovavo in uno spazio ristretto, un camerino con tavolo, specchio, una sedia, e ganci ai quali erano appesi i miei abiti. Ero in piedi, mi accorsi, con un piede sul pavimento, l’altro sulla sedia, e mi stavo guardando. La metà superiore del mio corpo, scopersi, indossava una camicia di nylon bianco, molto scollata, gonfia sul petto e nelle maniche. I calzoni erano alla cavallerizza. Portavo scarpe coi lacci intrecciati sulle caviglie, e attorno alla gamba posata sul pavimento avevo una fascia di pelle fermata da due fibbie d’ottone. Un’altra fibbia era nelle mie mani; a quanto sembrava, stavo per sistemarla sull’altra gamba. Poi, ancora la sensazione di svenimento, il mondo esterno che svaniva, il nulla che mi correva incontro.
Capii di nuovo che era passato altro tempo. Un’ora e mezzo, forse due ore. Semplicemente, riaprii gli occhi come dopo un sonno senza sogni, e vidi; ma non sapevo cosa vedessi. Era un pavimento, un pavimento enorme, sterminato, ma non di una stanza. Lo guardavo attraverso una foschia uniforme, perplesso dall’incrociarsi casuale di linee grigio-bianche, a volte rette, a volte curve, e dalla successione di mattonelle rosse e verdi grosse come un’unghia, in file parallele. Lontana, lontanissima, vicino all’orlo del pavimento, c’era una curva irregolare, più larga, grigio piombo; e mi resi conto che quello che vedevo era un fiume. E che le linee grigio-bianche erano strade, i quadrati verdi e rossi tetti, e che quell’enorme pavimento si stendeva sotto di me appena oltre l’orlo di una superficie coperta di stoffa sulla quale, appaiate, si trovavano le mie scarpe.
C’era anche un suono, percepii, un ruggito martellante, e una sensazione: ero raggelato dalla continua pressione dell’aria contro petto e costato. E adesso sentivo la stoffa della mia camicia sventolare nell’aria, battermi sulla pelle. Muovendo leggermente gli occhi, vidi una superficie verniciata sopra la mia testa, e intravidi un tirante metallico piegato ad angolo acuto.
Scacciai l’idea dalla mente per tutto il tempo possibile: l’idea che non stavo sognando, ma ero davvero accoccolato su un’ala di un vecchio biplano, centinaia di metri al di sopra di Los Angeles. La mia testa si girò un po’ di più. Vidi le nocche bianche del mio pugno sinistro strette attorno a un puntale, e (sulla mia sinistra, alle mie spalle) la testa del pilota, con casco e occhialoni. Mi si inaridì la gola, il mio intestino si raggrinzì. Sgranai gli occhi per lo shock. Per un altro momento, scrutai il vago, infinitamente lontano orizzonte, chilometri davanti a me e chilometri sotto di me; poi tutto tornò ad annebbiarsi, e questa volta capii che stavo veramente, realmente per svenire.
Ma prima che accadesse, ebbi di nuovo la sensazione di qualcuno che spingeva verso me, contro me, però senza esercitare una pressione fisica; e all’improvviso, ci trovammo a occupare lo stesso spazio, e Rodolfo Guglielmi era tornato. La curiosità, ovviamente, è sempre l’emozione più forte, e io riuscii a chiedermi dove avessi letto o sentito quel nome vagamente familiare. Poi ricordai. Sull’ala di quel primitivo aereo, con me c’era Rodolfo Valentino, scritturato con il suo vero nome come controfigura. Pur di tornare nel mondo del cinema, era pronto a fare anche quello.
Ma non voleva prendere il sopravvento completo su di me. Restammo lì, alti in cielo, immobili su un pezzo di stoffa verniciata… e dopo un po’ capii che lui aveva paura quanto me!
Mi lasciò! Diede un’occhiata all’orrore che si stendeva davanti e sotto noi, e mi abbandonò un’altra volta! Stringevo il montante con tanta forza che il mio braccio si stava addormentando. Guardai più avanti: il lungo, lungo muso dell’aereo dalla forma bizzarra; l’arrugginito tubo di scappamento su un lato della fusoliera; la vernice che si staccava attorno ai fori del tubo; il cerchio tremolante, inconsistente, trasparente dell’elica. E le mie ginocchia si squagliarono, le spalle si abbassarono, e io fui sul punto di cadere a corpo morto nello spazio.
Mi sia concesso dire, a eterno merito e gloria di Rodolfo Valentino, che tornò! Tornò. Assieme, facemmo una profonda, profonda inspirazione, poi lui si girò verso il pilota e si costrinse a sorridere. Un atto eroico. Valentino era un vero uomo. Ci aveva portati lassù, e ci avrebbe riportati giù. Con infinito sollievo mi lasciai invadere dal nulla.
Questa volta trascorsero solo pochi minuti, e di colpo, senza preavviso, rividi la grande pianura nebbiosa che era quasi tutta l’area di Los Angeles, da orizzonte a orizzonte; e l’altitudine era ancora maggiore.
Ma l’ala era scomparsa! Sentivo vicino il ronzio regolare, martellante, antico dell’unico motore, però l’aereo era svanito! Guardando in su (in su? Sì, in su!) vedevo le minuscole linee che erano strade e i puntolini che erano tetti. Avvertivo un dolore alla parte posteriore delle ginocchia (perché?), e il sangue si era congestionato in viso e sul collo. Poi capii: ero capovolto, e con la testa piegata all’indietro scrutavo, oltre il nulla, il pianeta che ruotava lontano sotto di me. Distolsi subito gli occhi, guardai giù (su?), e vidi la mia camicia bianca sventolare all’impazzata nell’aria, da metà del petto alla grande cintura di cuoio; vidi fino alle ginocchia le mie gambe inguainate nei calzoni alla cavallerizza, e nient’altro. Niente fasce, niente scarpe, soltanto l’ala dell’aereo coperta di stoffa. Udii la mia stessa gola emettere un suono strangolato perché (mio Dio!) penzolavo a testa in giù nell’aria con le ginocchia piegate attorno al pattino sotto la fusoliera dell’aereo.
La mia testa si girò di scatto per il terrore, e vidi la testa con casco e occhialoni guardarmi. Le labbra sorrisero, il pilota mi fece un cenno con la mano guantata, e io cominciai a perdere consapevolezza di me; e ne fui lieto, perché preferivo cadere in stato d’incoscienza e morire piuttosto che continuare, anche per un solo secondo, a vedere e capire l’orrore della mia situazione.
Era passato altro tempo, molto altro tempo, quando sentii tornare pensiero e coscienza, e questa volta li sentii tornare in maniera completa. Mi accorsi di provare una terribile stanchezza nel corpo come nella mente, e capii che Valentino se n’era andato in via definitiva. Non volevo, non potevo aprire gli occhi per la paura di vedere. Ma le mie orecchie funzionavano, e il suono del motore dell’aereo era scomparso. Mi resi conto di udire il mormorio di voci impegnate in normalissime conversazioni, e aprii gli occhi.
Mi trovavo in una stanza. No, era un cinematografo, anche se piuttosto strano. Lo schermo bianco davanti a me, la prima cosa che vidi, era in miniatura; al massimo due terzi delle dimensioni normali. E c’erano solo una mezza dozzina di file di poltrone, ciascuna composta di una decina di poltrone. Dieci o undici persone sedevano qua e là. Due file più avanti, sulla mia sinistra, Hugo Dahl era in compagnia di altri due uomini, compreso Fred dell’unità esterna. Appena dietro Dahl sedeva una ragazza con un portablocco in grembo; aveva un portamine con una piccola lampadina vicino alla punta, e la accese un paio di volte. Sparsi in giro, altri uomini e donne, forse attori. Qualcuno mi tirò una gomitata. Mi girai, e al mio fianco c’era Marion (capii che era lei dall’espressione). Doveva essere tornata all’hotel, perché indossava un vestito verde che a Jan non piaceva; non lo portava quasi mai, anche se su Marion stava benissimo. Abbassai gli occhi su di me. Anch’io avevo fatto un salto all’hotel. Portavo un altro vestito, camicia, cravatta. Marion disse: — Penso che stiano per cominciare, Rudy. Sono nervosissima.
Le sussurrai: — Non sono Rudy. Sono Nick.
— Be’, credimi, ne sono contenta. È un uomo impossibile! Non mi ero mai resa conto che per lui esistesse solo l’io, io, io, io. Non sono riuscita a dire una sola parola per l’intera cena!
— Marion, cosa succede? Che ore sono? Hai fatto il tuo provino? Dove stia…
— Oh, sì, stamattina. Hanno sviluppato la pellicola nel pomeriggio. Adesso vedremo i provini. Hugo ci ha invitati.
— Be’, a cosa servono? Per quale film?
— Non lo so. Nessuno lo ha detto. Ma credo…
Hugo Dahl si era girato sulla poltrona a guardarsi attorno. — Ci siamo tutti? — strillò, e, senza attendere risposta, puntò lo sguardo sulla cabina di proiezione. — Okay, Jerry. Andiamo.
Le luci si spensero immediatamente, e sullo schermo apparve un rettangolo di luce lampeggiante. Diventò bianco latte, e poi si materializzò in un lampo un numero 4 capovolto, poi lettere scritte a mano, a loro volta capovolte, e lo spezzone di un vecchio film. All’improvviso, sfuocato, sullo schermo apparve un uomo girato verso la macchina da presa, con qualcosa in mano. L’immagine si mise immediatamente a fuoco e svelò un giovanotto dai capelli lunghi, con baffi un po’ cascanti e una giacca di pelle a frange. Reggeva in mano una lavagnetta sulla quale, a gesso, era scritto HUNTLEY, e sotto CIAK 1, KAI MEISSNER. Nell’altra mano stringeva un’assicella bianca e nera fissata al fondo della lavagnetta. La sbatté contro la lavagnetta e uscì di scena.
La scena (il giovanotto l’aveva quasi completamente nascosta) era un’orchestra di quattro elementi, uomini in giacche a strisce rosse e bianche e cappelli di paglia. Il pianista, con le mani sopra la tastiera, guardò gli altri, poi attaccò a suonare; il trombonista alzò il suo strumento, e le destre degli altri due, suonatori di banjo accoccolati su alti sgabelli, cominciarono a muoversi talmente in fretta da diventare macchie indistinte. L’improvvisa eruzione di musica era un meraviglioso jazz vecchio stile dal ritmo veloce, pronunciato.
La macchina da presa indietreggiò e rivelò un angolo illuminato di palcoscenico, con un tendone di velluto bianco sul fondo. Una ragazza uscì dalle quinte. Indossava un abito rosso a frange lungo fino alle ginocchia; una fascia le cingeva la fronte e i capelli, tagliati corti. Con un sorriso professionale a noi del pubblico, cominciò a ballare. Un ballo veloce e perfettamente a tempo; un’approssimazione del charleston, mi resi conto. Ma i movimenti avevano qualcosa di artificiale, di meccanico, e io ebbi l’improvviso sospetto che la ragazza avesse bluffato, che avesse detto di conoscere quel ballo anche se non era vero. Magari si era fatta dare una lezione velocissima la sera prima del provino. L’esibizione durò forse una ventina di secondi; poi, con un sorrisone a un pubblico inesistente che esplose in un applauso registrato, la ragazza uscì di scena mentre i banjo emettevano un’ultima nota. Dalla strizzatina d’occhi molto poco convinta capii che si era resa conto di avere fatto un buco nell’acqua.
Non ci fu nessuna reazione dal pubblico reale. Marion si chinò verso me a mormorare: — Più che un charleston, sembrava una polka. — Senza il minimo intervallo dopo l’ultima nota, riapparve il giovanotto con la giacca a frange e la lavagnetta. Le due righe in basso erano state cancellate, e sotto HUNTLEY sempre scritto col gesso, lessi CIAK 2, JUNE VAN CLEE.
L’assicella di legno sbatté. Il giovanotto se ne andò, e ricomparve l’orchestrina. Le mani del pianista erano di nuovo sospese sopra la tastiera. La macchina da presa indietreggiò dopo l’uscita di scena del giovanotto, e la stessa musica riattaccò: estremamente ritmata, eseguita con grande sapienza. Mi sarebbe piaciuto restarla ad ascoltare per ore. Una seconda ragazza, più alta e magra della prima, ma vestita nello stesso modo, entrò dalle quinte.
Era molto meglio. Una tipa in gamba. Però, sul minuscolo palcoscenico, si stava semplicemente esibendo con estrema competenza professionale, e per soldi. Nonostante il sorriso, il suo era un ballo privo di gioia e d’ispirazione. Come la strizzatina d’occhio finale; e lo stesso accadde con le ragazze del terzo, quarto, e quinto ciak.
Sempre senza interruzioni nel filmato, riapparve la lavagnetta (CIAK 6, MARION MARSH), il giovanotto se ne andò, e le mani del pianista scesero sulla tastiera. L’esplosione di musica ricominciò, e Marion apparve sul palco in un corto abito rosso pomodoro, fascia sulla fronte, e (particolare diverso da tutte le altre) una cintura a perline che le cingeva la vita. Anche lei sorrise al pubblico immaginario dietro i riflettori, però in quel sorriso c’era tutta la sicurezza di qualcosa che lei sapeva di poter fare in maniera superba. Quel sorriso diceva che era soddisfatta di se stessa e felice, che amava il pubblico che stava per avere il piacere di godersi la sua esibizione. Per un attimo ricordai la minuscola figura in bianco e nero che avevo visto sullo schermo del mio televisore (tanto, tanto tempo fa, mi parve) in Ragazze focose. Era la stessa ragazza, adesso a dimensioni più grandi del naturale, a colori brillanti, e accompagnata da un vortice di musica, ma con l’identica magica presenza. Io sorridevo, rispondevo automaticamente alla sua allegra arroganza, e sapevo già (me lo diceva il brivido che correva su per la mia spina dorsale), che sarebbe stata bravissima.
Il suo corpo passò dal camminare al ballare senza il minimo sforzo, senza una pausa o una transizione, splendidamente libero. Marion non ascoltava la musica, non cercava di coordinare i propri movimenti col ritmo dell’orchestra: il suo corpo, semplicemente, fluì nella musica, si unì a quel jazz frenetico, felice, e ne diventò parte. Piedi e gomiti guizzavano con tanta naturalezza che il ritmo sembrò più lento di quanto fosse stato in altri ciak. E poi, all’unisono, le dita delle sue mani schioccarono, il corpo di Marion si abbandonò a se stesso, e il ballo prese fuoco. Le sue gambe si muovevano in una frenesia estatica ma perfettamente controllata. Il mento si sollevò lentamente, gli occhi si chiusero nel piacere dei sensi. Marion amava quello che stava facendo, si vedeva benissimo, si sentiva; ogni atomo del suo corpo eccitato ne godeva. Una danza selvaggia, frenetica, che terminò di colpo sull’ultima nota. Lei riaprì gli occhi, e quando ci sorrise e ci fece l’occhiolino, lo fece con tanta ilare sensualità che un uomo strillò, e tutti noi scoppiammo in un vero applauso.
Sullo schermo, il giovanotto si stava avvicinando alla macchina da presa con la lavagnetta per il settimo ciak, ma Hugo Dahl era balzato in piedi. — Lo sapevo! Lo sapevo! L’ho detto! Jerry, hai preparato l’altro materiale? Te lo avevo chiesto!
— Sì! L’ho pronto sul secondo proiettore — rispose una voce attutita dalla cabina di proiezione.
— Allora fammelo vedere, Cristo santo! Ci siamo! È lei! — Sullo schermo, l’orchestrina aveva ripreso a suonare; ma di colpo immagini e musica si interruppero. Il ristretto pubblico mormorò, e nel buio Dahl urlò: — Marion, baby, tua nonna non ha mai fatto di meglio! Tu hai un futuro in questo schifoso mestiere, te lo posso promettere!
La mano di Marion, sul bracciolo, aveva afferrato il mio braccio. Stringeva così forte che io stavo perdendo la sensibilità alle dita della mano. Lo schermo si illuminò, mostrò un veloce conto alla rovescia, e in quella luce mi voltai a guardare Marion. La sinistra mi stringeva il braccio, la destra era premuta sul petto; e lei fissava lo schermo, a bocca socchiusa per lo stupefatto, incredulo, sfolgorante sollievo. 7, 6, 5, 4, 3… Credevo che avremmo rivisto Marion, e invece all’improvviso una bottiglia gigantesca riempì lo schermo. L’etichetta era a stento visibile, ma una profonda voce maschile provvide a leggerla: — Ketchup Huntley Ricetta Classica! — Il tappo si svitò da solo, volò via, e la bottiglia si inclinò in avanti. La voce continuò: — Nel nuovo formato con la grande grandissima bocca! — Alla parola “bocca”, sopra la bottiglia apparve una nuvola da fumetto; e mentre all’interno della nuvola si formavano parole, una voce nasale, stridula, comica, la voce della bottiglia di ketchup, le pronunciò: — Però io ho ancora il mio vecchio sapore… Con tutta la tipica bontà di Huntley! — In quel momento, sullo schermo si materializzò di nuovo il sesto ciak, il charleston di Marion; ma questa volta, quando le mani del pianista calarono sulla tastiera, la voce acuta e divertente disse: — Sissignore! Tutto il vecchio straordinario sapore… — L’esplosione di jazz iniziò all’unisono con il termine “sapore”. Sorridente, Marion entrava in scena nel suo vestito rosso pomodoro. — Con tutta la tipica bontà di Huntley! — proseguì la voce; e Marion iniziò a ballare esattamente su “bontà”.
Nei venti secondi di quel charleston spettacoloso, la voce disse: — Sì! Ancora quello straordinario vecchio sapore… Il famoso gusto Huntley dei bei tempi andati! — E, alla fine del ballo, la voce disse: — Con l’antica bontà… Huntley! — nell’esatto preciso momento in cui Marion faceva l’occhiolino.
Marion uscì di scena, l’ultimo accordo di banjo si spense. La bottiglia gigante riempì di nuovo lo schermo, chinandosi in avanti a mostrare la bocca aperta, e sopra apparve un’altra nuvola da fumetto. Simultaneamente, le parole stampate e la voce buffa dissero: — Wow! — e lo schermo rimase vuoto.
— Grande! Grande! — Hugo Dahl si era messo a urlare. — Ci siamo, ci siamo! Non c’è bisogno di vedere altro. Marion, amore, fammi telefonare domattina dal tuo agente. Fred, la tua roba è pronta?
Un attimo prima che il raggio del proiettore si spegnesse, vidi il volto di Marion. Era pallido, stordito, stupefatto, come se qualcuno che lei amava l’avesse presa a schiaffi. Poi, nel buio, sentii il suo fiato sulla mia guancia quando mi sussurrò: — Nick, ma cos’è? Cos’è?
Più avanti, Fred stava parlando. Mi chinai su Marion e le mormorai, disfatto: — Uno spot.
— Un cosa?
— Una… una specie di annuncio pubblicitario. Come sui giornali. Non è per il cinema, Marion. È per la televisione.
— Quell’aggeggio sul quale abbiamo visto il mio film? È questo che ho girato? Non un film, ma… Il mio charleston serviva solo a fare pubblicità al ketchup? — Annuii nel buio, le presi la mano.
Fred stava dicendo: — Abbiamo provato con un professionista del biliardo. Colpi da maestro. E il tipo era grande. Interessante, ma fiacco, senza vita. Ho eliminato il pezzo. Abbiamo provato con un’idea umoristica. Il cattivo che lega la ragazza ai binari del treno, cose del genere. Non funziona, Hugo. Però abbiamo girato qualcosa che funziona sul serio. Un’intera giornata di lavoro. Abbiamo già montato tutto. Aspetta di vederlo. Jerry, sei pronto? Fai partire.
Sapevo. Quando la bottiglia gigante si inclinò in avanti e la voce ridicola ululò: — Nel nuovo formato con la grande grandissima bocca! — io sapevo cosa stava per apparire sullo schermo, e chiusi gli occhi. Ma quando il filmato pubblicitario si interruppe, e il rombo del motore di un antico biplano riempì la sala, mi appoggiai una mano sugli occhi subito dopo averli riaperti. Poi allargai le dita, e malgrado me stesso restai a guardare.
Incredibilmente, eccomi là in camicia bianca sventolante, calzoni da cavallerizzo e fasce di pelle, sull’ala più bassa di un antico biplano, sullo sfondo di un cielo azzurro chiaro. Le immagini erano state girate a una certa distanza dall’aereo, di lato alla fusoliera; nel frastuono del mio motore, non mi ero accorto della presenza dell’altro apparecchio, che si trovava un po’ sotto di noi. Il mio stomaco si contrasse. Sapevo che Los Angeles era un paio di chilometri sotto i miei piedi, immobili sull’ala dell’aereo, ma la macchina, da presa inquadrava soltanto l’uomo sull’ala e il cielo sopra; avremmo anche potuto essere a sei o sette metri dal suolo.
Di nuovo, a livello quasi fisico, come già era accaduto all’Olympic di San Francisco, percepii la fusione con qualcun altro, sentii che il mio corpo veniva occupato; avvertii il tentativo quasi irritato di spingermi da parte, cacciarmi in un angolo remoto del mio essere. Ma questa volta opposi una rabbiosa resistenza. Questa volta tenni duro, e… Sullo schermo la scena cambiò e, affascinati, noi due guardammo assieme.
Un’auto sportiva vecchio modello, con la capote nera abbassata, correva su una strada bianca, sbandando da un lato all’altro. Chiaramente, le riprese erano state effettuate da un elicottero che volava appena sopra l’auto, leggermente più indietro e di lato. L’autista della vecchia automobile aveva una mano sul volante, e con l’altra teneva ferma una ragazza che si divincolava al suo fianco. La ragazza portava un lungo vestito bianco. Aveva le mani legate dietro la schiena, ed era imbavagliata. — Sì! — stava dicendo la voce ridicola. — Tutto il grandioso vecchio sapore… — L’antico biplano apparve nell’angolo in alto a sinistra dello schermo, puntando sull’automobile. Il mio corpo penzolava in aria a testa in giù, con la camicia che sventolava e le ginocchia strette attorno al pattino. Quando l’aereo si trovò direttamente sopra l’automobile (mi sfuggì un urletto dalle labbra), la figura si lasciò cadere. Eseguì un perfetto salto mortale e atterrò sul sedile posteriore. Primo piano: in piedi sul sedile posteriore, io tenevo un braccio attorno al collo dell’autista, e tendevo l’altra mano per togliere la chiave dal cruscotto e impadronirmi del volante. Altro stacco: l’automobile ferma a lato della strada, con l’autista legato e imbavagliate, e la ragazza fra le mie braccia che puntava lo sguardo sul pubblico. — Con tutta la bontà dei bei vecchi tempi! — disse la voce buffa, ed esattamente su “bontà” la ragazza fece l’occhiolino, e io avvertii l’improvvisa scomparsa della pressione sui miei muscoli, i miei nervi, i sensi e la mente.
Sullo schermo, la grande bottiglia di ketchup si piegò in avanti, e la voce continuò a parlare. Ma io mi ero girato sulla poltrona a guardare sul fondo della sala di proiezione, e lo vidi. Camminava a passi lenti appena sotto il raggio bianco del proiettore, chiaro e trasparente; la parete dietro di lui era perfettamente visibile. Riconobbi il profilo aquilino, gli occhi socchiusi, e i capelli neri impomatati, tratti che mi erano familiari da centinaia di libri sul cinema e da una decina di film, di Rodolfo Valentino. Indossava quello che era forse il costume che aveva scelto per l’eternità: lunghi calzoni scuri, gonfi quasi fino alle caviglie; stivali; una cintura borchiata in pelle alta una ventina di centimetri; uno scialle ruvido gettato su una spalla della camicia. Ma adesso, quelle spalle un tempo così fiere si erano afflosciate. E nella destra, appeso per il sottogola, aveva il resto del suo costume: il grande cappello da gaucho che pendeva inerte, sconfitto. Senza guardare lo schermo, rabbrividendo alla voce della bottiglia di ketchup Huntley, camminò verso l’uscita, ma non la raggiunse mai. Mentre la voce ridicola urlava: — Wow! — Rodolfo Guglielmi scomparve come una luce spenta all’improvviso.
Marion e io uscimmo. Scivolammo nella nostra fila di poltrone e corremmo fuori prima che in sala si riaccendessero le luci. Camminammo sulla stretta strada, malamente illuminata da lampioni di foggia antica, forse i residui di un film dimenticato. La luna era alta, quasi piena, e il suo chiarore dolce, morbido. I vecchi edifici in legno e mattoni che superavamo erano bui e muti, con finestre nere come l’inchiostro, oppure gialle nella luce lunare. All’angolo, svoltammo verso il cancello d’ingresso dello studio e la guardiola dove un uomo della sicurezza stava leggendo una rivista. Arrivati lì, Marion mi mise una mano sul braccio, e ci fermammo.
Si girò a guardare la strada deserta sotto la luna, immobile come quella di una città fantasma. Fissò l’edificio scuro e morto al nostro fianco. Poi si girò verso me. — Abbracciami, Nickie — disse. Io obbedii, e lei studiò il mio viso. — Sembri proprio lui. Quasi. Quasi perfettamente identico, però… Non lo sei. Non lo sei. Baciami lo stesso, Nickie. Dammi il bacio dell’addio! Perché non tornerò mai più.
La attirai a me, la baciai con dolcezza, con tenerezza. Le sfiorai il viso con le dita, le guance; le scostai i capelli dalle tempie; e lei, pallidissima nel chiarore lunare, mi sorrise. Poi io la baciai di nuovo, e dopo un attimo lei indietreggiò. — Ehi. Era per me o per Marion?
— Per Marion. Quel bacio era per Marion. Volevo farle sapere che qualcuno tiene a lei. E che si ricorderà. — Presi Jan fra le braccia. — Però questo è per te.
Trovammo un taxi e demmo l’indirizzo dell’hotel. Il mattino dopo, di buon’ora, saremmo tornati a casa. Non sarei mai entrato al 1101 di Keever Street, ormai lo sapevo, però dovevo vedere quella villa, e così chiesi all’autista di passarci davanti.
Quando svoltammo in Keever Street e io lessi la targa della via, mi guardai attorno. Non sapevo se fossimo ancora a Beverly Hills o no; la zona non collimava con la mia idea di Beverly Hills. C’erano negozietti su entrambi i lati della strada: una drogheria dall’illuminazione sfavillante, coi clienti che spingevano carrelli per la spesa; un negozio di dischi; una lavanderia; stazioni di servizio; tre ristoranti con servizio di cibi da asportare, tutti pieni zeppi: erano le nove di sera. E disseminati tra un negozio e l’altro, isolati oppure a gruppi di due o tre, sorgevano i resti laminati in amianto di quella che un tempo era stata la zona residenziale del quartiere. Non erano più case per una sola famiglia (si vedevano otto o dieci cassette della posta sotto ogni portico), ma condomini, con la demolizione come unica prospettiva futura. Non era una zona povera; non credo che qui sia permessa l’esistenza di zone povere, però era l’equivalente della povertà a Los Angeles.
Percorremmo lentamente l’isolato coi numeri dal settecento in su; poi l’ottocento, il novecento, il mille, ed erano tutti uguali. E lo era anche l’isolato del millecento, sul nostro lato della via. Ma non sull’altro.
Il taxista mise in folle e fermò al marciapiede di quello che doveva essere il numero 1101, perché non c’erano altre case. Guardammo. Alle nostre spalle, le luci e le insegne di un negozio di biciclette e di uno di liquori, entrambi aperti; e a poche decine di metri di distanza, all’angolo, l’illuminazione a giorno di una stazione di servizio Standard non concedeva un solo millimetro alla sera. Ma sul lato opposto della via, una grande area buia, illuminata soltanto dalla luna, era muta e immobile, immersa in un altro tempo.
Sotto il grande disco lunare si stendeva un isolato circondato da mura in pietra alte a petto d’uomo; facevano da base a una recinzione in ferro alta almeno tre metri. Le mura si interrompevano in un solo punto, direttamente di fronte a noi: un doppio cancello in ferro battuto, magnificamente lavorato, alto sei metri, immetteva su un sentiero d’accesso in ghiaia. Dietro il cancello e le pareti che si protendevano sulla via in entrambe le direzioni c’erano acri (masse nere nel chiarore lunare) di enormi alberi, con le cime che si stagliavano contro il cielo luminoso; grandi grumi di alte siepi; argentee distese di prato; sentieri bianchi e statue appena intraviste; e sul fondo, oltre le massicce presenze di alberi e siepi, la casa, un’enorme villa a quattro piani in stile spagnolo.
Non una finestra del lato che potevamo vedere era illuminata. La grande casa, lontana dalla via, più nascosta che visibile, dava l’idea di non avere mai conosciuto l’illuminazione, e di non essere destinata a conoscerla in futuro. La tentazione di scendere dal taxi e correre al cancello fu irresistibile. Lo scrutai dal marciapiede. Al centro di ciascuna delle due metà, incastonato nel ferro battuto, un grande ovale convesso di metallo, incorniciato da una corona d’alloro. Su quello di sinistra, in uno stile molto elaborato, era sbalzata la lettera V, e sull’altro una B. Mi aggrappai alle sbarre e scrutai nel buio. Sentivo solo il rumore dei rami mossi dalla brezza, e il fruscio leggero di una foglia sulla ghiaia del sentiero d’accesso. D’impulso, tentai di dare una scrollata alle sbarre che stringevo in mano, ma erano inamovibili, come affondate nell’acciaio. Restai a guardare per qualche altro istante, poi tornai indietro.
Al lato opposto della via, fermo davanti al taxi prima di risalire, mi girai di nuovo a guardare. Là dentro, da qualche parte… Ma scossi la testa, irritato con me stesso; e cercai di non pensare a quello che poteva trovarsi all’interno della villa lontana, immersa nel buio, lambita dai raggi della luna; e salii sul taxi.
All’hotel, raccontai a Jan della giornata e di Rodolfo Guglielmi. Lei mi ascoltò, scosse la testa, mi sorrise incredula, scosse di nuovo la testa. E parlammo di Marion; dicemmo il poco che c’era da dire. A pianterreno, nell’atrio, avevo comperato il Times di Los Angeles, e lo sfogliammo a letto; ma per noi era difficile da seguire, e molte delle notizie non ci interessavano, come succede sempre col quotidiano di un’altra città. Mi alzai, andai allo scrittoio, sfogliai le pagine del giornale che raccontava cosa si potesse fare in città; ma a quanto sembrava, al di fuori del nostro hotel non succedeva proprio niente. In un cassetto c’erano delle cartoline, già affrancate dalla direzione, scoprii; un vero tocco di classe. E siccome sapevo che le avrei comunque pagate, ne presi una (una foto della piscina dell’hotel) e mi misi a scrivere. “Caro Al, eccoci qua nella celebre, eccitante Hollywood! C’è pieno di star! Domani andiamo a Forest Lawn, a visitare il mausoleo famoso nel mondo intero di Felix il Gatto. Con affetto, il tuo amico Nick.” In corridoio non c’era nessuno. Lasciando aperta la porta della stanza, schizzai fuori in pigiama, infilai la cartolina nella buca accanto all’ascensore, e tornai al riparo sano e salvo. Verso le undici, o un paio di minuti dopo, spegnemmo la luce, e il telefono squillò quasi all’istante.
Jan era la più vicina all’apparecchio. Alzò il ricevitore e rispose. — Pronto? — Nel buio, cercai e trovai l’interruttore della lampada sul comodino. Jan sussultò al tono esagitato della voce, poi scostò il ricevitore dall’orecchio, e io mi avvicinai ad ascoltare. — Che diavolo di fine hai fatto? — stava strillando una voce maschile. — Dove sei andata? Ho dovuto…
— Chi parla?
— Hugo Dahl, per la miseria! È tutta la sera che chiamo, ogni mezz’ora! Adesso stammi a sentire. Hai visto il tizio che stava con me in sala di proiezione? Giovane, calvo, vestito marrone? Be’, è Jerry Houk! Un produttore. Cinema, non televisione. È un pezzo grosso, e tu gli piaci. Stanno finendo un film. C’è una parte disponibile. Molto piccola. Una scena velocissima. Che hanno già girato. Però sono ancora sul set. Domani è l’ultimo giorno di riprese. Trovati lì all’una, e cercheranno di infilarci dentro un paio di inquadrature con te prima di chiudere. Se le troveranno buone, le useranno. Okay? Gesù, è un’ora e mezzo che tento di raggiungerti!
Jan fissava il telefono. Mi guardò, e accennò a passarmi il ricevitore, poi incollò il microfono all’orecchio.
— Allora? — chiese la voce di Dahl. — Cosa ne dici? Vuoi… Ehi, ma tu sei davvero Marion Marsh?
Jan esitò per un altro istante. Poi, con voce decisa, rispose: — Sì. Sì, sono Marion Marsh. E ci sarò. Domani all’una. Sono rimasta sorpresa per un attimo, signor Dahl. Non riuscivo più a parlare. Ma ci sarò. E non so dirle quanto apprezzi la sua gentilezza.
— Non se ne parla nemmeno. Ho sempre avuto un debole per Marion Marsh. Buona fortuna, ragazza. E salutami… mio Dio!… tua nonna!
Jan riagganciò. Col telefono in mano, rimase a guardare nella mia direzione, al lato opposto della stanza. — Ma come… — le dissi.
Jan si limitò a scuotere la testa.
— Lei lo saprà — rispose. — Lo saprà. E ci sarà.