6

Quel mattino c’erano due motivi per alzarsi tardi: non solo era sabato; era anche il mio primo giorno di ferie, e io feci del mio meglio. A occhi ancora chiusi, restai sdraiato a raccontarmi che avevo sonno e mi sarei subito rimesso a dormire, ma dietro le palpebre ero perfettamente sveglio. Perché sapevo.

Mi resi conto che non c’erano suoni in camera da letto; nessun movimento, nessuna presenza al mio fianco, e i miei occhi si aprirono di scatto. La testa si girò a guardare il lato del letto di Jan, vuoto, con le lenzuola scostate. Poi mi rizzai a sedere, e guardai sul pavimento. Da per tutto erano sparsi brandelli di stoffa dagli orli sfilacciati: il vestito nero di Jan, il suo abito migliore, ridotto a decine di frammenti.

Vestendomi il più in fretta possibile, dissi: — Porca miseria. Porcaccia miseria! — ma udii la falsa veemenza della mia voce, e per un istante mi immobilizzai. Poi annuii, e finalmente lo ammisi con me stesso: Marion mi era mancata. Mi era mancata per tutta la settimana. Era una cosa incontrollabile.

Dirò questo a mia difesa. Afferrando la prima camicia che trovai, una camicia bianca, e allacciando solo un bottone sì e uno no; acchiappando un paio di calzoni marroni; infilando i piedi nudi in un paio di mocassini: facendo tutto questo, ebbi il buon gusto di non cercare di dare la colpa a Jan. A quanto sembrava, occorreva qualcun altro, una donna scapestrata ed esuberante come Marion, per portare a galla quello che chiaramente non era il mio vero io, ma un altro uomo stramaledettamente più capace di divertirsi. Non mi piaceva l’idea, non mi piacevano le sue implicazioni, non volevo pensarci; mi rendeva triste; ed era quella la sensazione che volevo provare pensando a Jan.

La casa era muta come nessuna casa lo è quando qualcuno è presente. Ma mentre mi allacciavo la cintura, sentii aprirsi la porta d’ingresso a pianterreno, sentii i suoi passi salire la scala, e uscii sul pianerottolo.

Una valchiria bionda, coi calzoni neri e il maglione a collo alto di Jan, stava salendo. Alzò la testa, mi guardò, sorrise, e batté una mano sui capelli. — Falsi. E da due soldi. Però almeno non sono color topo. Ho comperato la parrucca al salone di bellezza di Haight Street. Jan ha il conto aperto. Spero non ti dispiaccia. — Mi arrivò a fianco. — Dammi il benvenuto, Nickie. — Mi baciò sulla fronte, mi girò attorno ed entrò in soggiorno.

— Non dovevi tornare! — La seguii all’interno. — Avevi detto che non saresti tornata!

Lei si voltò. La sua espressione si fece dura. — E piantala! Il tavolo delle promesse ha chiuso. Adesso sono a colori! Su uno schermo gigante. E c’è… — Si interruppe, poi sorrise. — Ehi, l’epoca del muto è finita! Ehi, Nick, adesso parlano! — Si girò a guardare la parete sopra il divano, poi si avviò in quella direzione, leggendo ad alta voce. — Marion Marsh ha vissuto qui. 14 giugno 1926. — Si voltò a fissarmi, annuì. — Era il giorno in cui avrei dovuto andare a Hollywood. Con Nick Cheyney. — Puntò di nuovo gli occhi sulla parete, annuendo vigorosamente fra sé e sé. — Avevo davanti una carriera. Una grande carriera. Grande quanto quella di Joan Crawford. — Assorta nella propria visione, distolse lo sguardo. — È così che doveva essere — disse in tono veemente, annuendo di nuovo. Poi, più pacata: — Ed è così che sarà. — Guardò me. — Avrò la mia carriera. — All’improvviso, sorrise. — A colori, e parlata.

Io raggiunsi il sedile del bovindo, le indicai il divano, e dopo un attimo lei si accomodò. Sul sedile, mi protesi in avanti, coi gomiti sulle ginocchia, e intrecciai le mani. — Stai a sentire. Tu hai agito d’impulso per tutta la vita, e cos’è successo? Alla fine ti sei ammazzata. Be’, niente è cambiato. La televisione trasmette il tuo vecchio film a più di mezzo secolo di distanza, tu torni a vederlo, e agendo d’impulso mi seduci solo perché assomiglio alla tua vecchia fiamma. Ma questo serve soltanto a provocare guai, e in ogni caso tu scopri che dai tuoi tempi è cambiato tutto. Lo puoi vedere! Sai che non puoi farci niente! Però dai un’occhiata a uno schifoso film con attori che parlano e pessimi colori, e wham!, torni un’altra volta per riprendere la tua vecchia carriera, senza riflettere un secondo su come potrai riuscire a farlo. Ma tu non pensi mai, per la miseria?

L’avevo punta sul vivo; lo vedevo benissimo. Non aveva una risposta, e per un momento o due, cupa in volto, restò zitta. Poi, l’unica cosa che riuscì a dire fu: — Okay, ci vediamo.

— Spiegami come faresti.

Di nuovo, dovette andare in cerca di una risposta; poi, in tono di sfida, disse: — Avevo amici a Hollywood.

— Nel 1926, Marion! Non ci sono più. Sono morti.

— Balle! Le persone che conoscevo io non erano star. Erano giovani! Come me. — Rifletté un istante. — Come il trovarobe di Ragazze focose, Hugo Dahl! Aveva solo diciassette anni. Terzo assistente trovarobe o qualcosa del genere. — Saltò su e corse alla libreria. Tengo sugli scaffali del soggiorno qualche elenco telefonico di altre città che ho rubato negli hotel: un elenco di Manhattan vecchio di due anni, uno di Portland, Oregon, i tre elenchi principali di Los Angeles, un altro di Reno. Marion prese quello che sul dorso aveva stampato BEVERLY HILLS, e in piedi davanti alla libreria sfogliò le pagine in cerca della D. Il suo indice scese lungo una colonna, tornò indietro, si fermò, poi Marion mi guardò trionfante.

— Ed è ancora vivo. Lui mi aiuterà — disse soddisfatta. Chiuse l’elenco, lo rimise al suo posto. — Aveva una cotta per me.

— Gesù, Marion, adesso non ha più diciassette anni. Ne ha più di settanta! — dissi, implorante. — Sarà in pensione. Avrà lasciato il cinema chissà da quanto.

— Forse. E forse no.

— Okay, la cosa non ha importanza, perché senti… Al massimo sei riuscita a possedere Jan per qualche ora. Ti costa fatica, giusto? Energia metapsichica o come diavolo vuoi chiamarla. — Lei non rispose. Si limitò a riprendere l’espressione cupa. — E dopo un po’ tu resti a secco, no? A quel punto devi mollare, e Jan torna. Giusto?

— Forse.

— Forse un corno. Tu non arriveresti nemmeno a Hollywood. Jan riprenderebbe il controllo di sé e tornerebbe a casa. E ammesso che tu ci arrivassi, lei potrebbe fare diecimila cose per rovinare la tua seconda carriera ancora prima che iniziasse.

Marion restò a fissare il pavimento per una decina buona di secondi, poi rialzò la testa. — Dovrebbe lasciarmi fare! — sbottò.

— Lasciarti fare? Regalare una… una fetta della sua vita? A te? Perché diavolo dovrebbe?

Marion borbottò qualcosa, e rifiutò di guardarmi.

— Come?

— Ho detto che non parlavo di sempre!

— Oh. E che quantità di tempo avresti in mente?

— Non so. Esattamente. — Mi guardò, piegò la testa di lato, come qualcuno che stesse riflettendo su un’offerta. — Qualche anno, magari?

Risi, e lei perse tutta la sua sicurezza.

— Va bene. Un anno, Cristo santo! — Saltò su dal divano, intrecciò nervosamente le braccia sul petto, strinse i gomiti con le mani come avesse freddo. E con la parrucca bionda, per quanto artificiale apparisse, coi calzoni neri e il maglione che Jan non portava quasi mai, e con l’espressione decisa che aveva in volto quando cominciò a passeggiare avanti e indietro in soggiorno, non somigliava affatto a Jan. — Non so quanto tempo ci vorrà! — disse. — E poi cosa diavolo importa? Lei cosa fa della sua vita meschina e schifosa? Niente! Buonanotte. Gioca addirittura a bridge!

Scossi la testa. — Gesù… Tu sei completamente spietata, vero? Completamente.

— Tu non conosci i tuoi polli! — Mi scoccò un’occhiata sprezzante. — Non sono più spietata di quanto lo sarebbe chiunque altro. Chiunque provasse le mie stesse sensazioni. — Si piazzò davanti a me, chinandosi bellicosamente in avanti. — È questo che tu non capisci. Non sai cosa provo. Ti preoccupi per Jan. Ti preoccupi per te. Pensa a me! — Mi fissò per un altro istante, poi girò sui tacchi, ricominciò a camminare. — Ho perso tutto — mormorò, a se stessa quanto a me. — Il massimo che chiunque possa perdere. La maggior parte di una vita che sarebbe stata meravigliosa. — Si voltò di nuovo verso me, adesso implorante. — Ti sto chiedendo di farmi un regalo. Di restituirmi solo una piccola parte di ciò che ho perso. Convincila a farlo, Nickie!

Dopo un momento (che altro potevo fare?) scossi la testa in un cenno di diniego, e lei si voltò di scatto. Restai a guardarla percorrere a passi lenti la stanza; toccare soprappensiero un paralume, tastare la stoffa fra pollice e indice; raccogliere un posacenere, dare un’occhiata alla scritta sul fondo, rimetterlo giù; fermarsi a guardare una fotografia; ripartire. — Che gusto schifoso — borbottò a un certo punto. — Tutto così monotono. Ha paura dei colori.

Uscì in corridoio e tornò. Andò a una finestra, scrutò la strada sotto, poi se ne staccò. Una passeggiatina nervosa, dissi a me stesso, ma mi resi conto che era solo una frase fatta, e che non era vera; Marion era piuttosto calma. Allo zoo ho visto una tigre percorrere all’infinito il perimetro della sua gabbia, con gli occhi che non vedevano nemmeno più la folla di curiosi continuamente diversi. E mi sono reso conto che non era nervosa, ma dotata di una pazienza infinita. Non sapeva cosa stesse aspettando. Ma quando finalmente fosse successo, l’avrebbe riconosciuto immediatamente: la serratura lasciata aperta un giorno, per sbaglio; l’inferriata gradualmente erosa da una ruggine di cui nessuno si era mai accorto.

Marion stava semplicemente passeggiando per casa in attesa di ciò che sarebbe accaduto. Avevamo detto tutto quello che c’era da dire. La guardai; guardai il viso di mia moglie sotto l’assurda parrucca bionda, e però non era il viso di mia moglie. Non era di Jan, ma di Marion Marsh, la donna che avrebbe potuto diventare una star del muto. E aveva vissuto quel periodo! Era realmente stata a Hollywood nei remoti, quasi mitici giorni dei film muti. Le chiesi: — Marion, hai mai visto qualche star?

Lei annuì. — Lon Chaney, una volta.

— Non stai scherzando? Dove?

— In una strada di uno studio. All’ora di pranzo. Stavo andando a comperare un cestino alla mensa, e ho svoltato in un vicolo tra due edifici. — Si fermò davanti a me. Io accavallai le gambe, la fissai, rimasi in ascolto. — E lui spunta dietro l’angolo. Camminava diritto verso me. Stavano girando un film. Era truccato e aveva un aspetto assolutamente orribile. Aveva una cicatrice sul sopracciglio sinistro, e un occhio completamente bianco.

— Singapore Joe! Era il trucco da Singapore Joe per Il capitano di Singapore!

— Lo hai visto?

— No. Venderei l’anima per averne una copia. Ne ho soltanto letto. Aveva l’occhio coperto dalla membrana di un uovo.

— Come fai a saperlo?

— Colleziono vecchi film. Non che ne abbia molti. Il segno di Zorro, Giglio infranto. Un paio di episodi di serial. Qualche vecchio cinegiornale. Però so parecchio sull’argomento, e si dice che la membrana d’uovo abbia procurato a Chaney danni permanenti alla vista.

— Be’, era mostruoso, Nickie. — Marion sedette al mio fianco. — Si è accorto che ero un po’ spaventata. Eravamo noi due soli in quel vicoletto. E quando mi è arrivato più vicino, ha chiuso deliberatamente l’altro occhio, così a fissarmi è rimasto solo quello bianco! Mi è scappato uno strillo, e lui ha sorriso, ha chiuso l’occhio bianco, e quando ci siamo incrociati mi ha fatto l’occhiolino con l’occhio buono. Era un uomo dolcissimo. Lo dicevano tutti. Anche piuttosto bello. Una di quelle bellezze da duro.

— Signore. Avere visto dal vivo Lon Chaney. Nel trucco per Il capitano di Singapore. — Sorridevo, scuotevo la testa. — Hai visto qualcun altro?

— Oh… Laura La Plante.

Sul serio?

— Sì. Stava girando sul set vicino al nostro. E quando non c’era bisogno di me per le riprese, andavo a guardare alla porta accanto.

Annuii. Ai tempi del cinema muto, i rumori non avevano importanza, e spesso giravano su set disposti fianco a fianco. — Qual era il film?

— Non ricordo.

— Non ricordi!

— No. — Lei mi guardò, incuriosita.

— Be’, com’era qualche scena? Potrei riconoscerlo da quello.

— Oh, Nickie, che differenza fa? Lei era in cucina a preparare da mangiare o roba del genere. Io volevo vedere Laura La Plante.

— E com’era?

Marion scrollò le spalle. — Okay. Però io ero meglio. — Mi vide sorridere, e sorrise a sua volta. — Lo so. Sembro troppo piena di me. E lo sono. Però è anche vero: io ero molto meglio. Lo sono ancora. E lo sarò sempre.

— Hai mai conosciuto qualche star?

— Sì. Be’, non molto. Non troppo bene. Però ho conosciuto un po’ Valentino. Anche lui ha lavorato su un set vicino al mio, una volta, e abbiamo parlato. Due, tre volte.

— Mio Dio. Valentino! Di cosa avete parlato?

— Oh… — Lei aggrottò la fronte, guardò il pavimento. Poi rialzò la testa. — Di quanto fossero orgogliosi di lui gli abitanti del suo paese. Un paesello italiano. Secondo me era un uomo molto semplice. E molto gentile. Con me lo è stato.

Non riuscivo a smettere di scuotere la testa. — Hai conosciuto Valentino. Non posso proprio crederci. In questi giorni, all’Olympic proiettano un suo film. I quattro cavalieri dell’Apocalisse. L’ho visto due volte.

— Sei proprio un fanatico del cinema, eh? Ho conosciuto un tizio della Paramount che faceva collezione di film come te. A dire il vero, li rubava.

— Cosa?

— Sì. Lavorava al reparto… come lo chiamereste voi?… distribuzione; penso. Era solo un impiegato addetto alle spedizioni. Impacchettava le copie dei nuovi film e le inviava ai distributori. Magari una dozzina a New York, una mezza dozzina a Chicago, un paio a Milwaukee, e così via. Era un lavoro da schifo, e non pagava molto, però anche lui era un patito di film. Come me. Come quasi tutti quanti noi. Eravamo pazzi per i film. E poterci lavorare, avere rapporti col mondo del cinema… Una volta…

— Aspetta un secondo. Parlami un po’ di questo tizio che collezionava film.

— Te l’ho detto. Era pazzo dei film, ma sapeva che non avrebbe mai potuto interpretarne uno. Aveva un naso enorme, girato all’insù. Non mi piaceva guardarlo, anche se era un uomo gentile e andava matto per me. Se un film gli piaceva, se lo teneva, tutto qui. Ordinava una copia in più e se la portava a casa.

Mi alzai in piedi, girandomi a guardarla. Sentivo crescere l’eccitazione, e cercai di frenarla. Mi sembrava di dover stare molto attento, o tutto quello che stavo udendo sarebbe scomparso, svanito come un sogno impossibile da ricordare. — Marion. Stammi a sentire. Che tipo di film gli piaceva?

Lei scrollò le spalle, poi si mise a pensare. — Oh… — Puntò di nuovo gli occhi su me. — Quelli di Griffith, per esempio. Un regista. Lo conosci? D. W. Gr…

— Sì! Lo conosco.

— Be’, quello aveva tutti i suoi film, ricordo. Tutti i suoi lungometraggi.

— Tutti? — mormorai. Le mie ginocchia stavano per sciogliersi. — Tutti i lungometraggi di D. W. Griffith? Gesù. Lo sai che diversi non esistono piu? Sono andati persi! Non ne esiste una sola copia nel mondo intero! E lui li aveva… tutti?

— Sì. — Marion mi fissava colma di meraviglia.

— Che altro? Marion, che altro aveva?

— Nickie, non lo so. Un’infinità di film. Scambiava copie coi suoi amici che facevano lo stesso mestiere in altri studios.

— Mio Dio. — Sedetti al suo fianco, ma mi rialzai subito. — Cioè, per esempio?

— Be’, aveva un amico alla Universal e si scam…

— La Universal! NO! Senti, c’è stato un incendio alla Universal! Dopo la tua morte. Centinaia di film assolutamente senza prezzo andati persi! Film favolosi! Film mitici, oggi! — La scrutai. Il mio viso non aveva più un’espressione. — E lui ne aveva qualcuno. Pensare che li abbia avuti… Senti, quando accadeva tutto questo?

— Nel millenovecentoventisei.

— E lui quanti anni aveva?

— Hmm… Trenta.

Feci i conti, e scossi la testa. — Ormai dovrebbe essere morto. Però forse no. Forse no. Come si chiamava? — Girai sui tacchi, corsi alla libreria, afferrai i tre elenchi telefonici di Los Angeles, e tornai al bovindo. — Come si chiamava, Marion? Potrebbe essere ancora vivo. Potrebbe essere in queste pagine! — Sedetti, coi tre volumi sulle ginocchia, BEVERLY HILLS in cima.

— Quando a Los Angeles ci sono stata io, c’era un solo elenco telefonico, e non era più grande…

Marion! — Lei si zittì. — Come si chiamava?

— Non ricordo.

— MA CERTO CHE PUOI RICORDARE!

— Aspetta un secondo! Buonanotte, infermiera! Aveva un cognome insolito. E un nome molto breve. Dick? No, non Dick. Quello era l’elettricista alto… Però qualcosa di simile. — Aggrottò la fronte. — Norman? No, quello era il giovane falegname coi capelli scuri. E Ned Berman era un cameraman…

— Ma non conoscevi nemmeno una donna, Cristo?

— Non le ricordo troppo bene. Dammi un minuto e me lo ricorderò. Smettila di interrompermi.

Tentai di aspettare con tutta calma, ma ero talmente eccitato che dovetti saltare su e andare in bagno, poi tornai indietro. Lei aveva ancora la fronte corrugata. Fissava il pavimento col labbro inferiore tra i denti. — Ti è venuto in mente? — Mi fermai di fronte a lei.

— No. Non ancora. Perché tutta questa eccitazione, Nick? Lo so che i film ti interessano, però interessano anche a me, e a me non succede di…

Mi interessano? — Dovetti ridere a quel verbo. — Ragazzi, se tu avessi mai collezionato qualcosa… Non lo hai mai fatto, eh?

— Soltanto uomini. — Marion mi sorrideva, come sempre contenta di ogni possibile tipo d’eccitazione. — Perché?

Non potevo restare fermo. Le mani infilate nelle tasche posteriori, mi misi a camminare avanti e indietro davanti a lei, in fretta. — Senti, se sei un collezionista, hai sempre il tuo… come si chiama?… il tuo Santo Graal. Un collezionista di manoscritti si immagina probabilmente nel retro di un vecchio, oscuro negozio di libri usati. Sul fondo di uno scaffale in un angolo buio, sotto una pigna di libri, trova un fascio di vecchie carte che sono lì da anni. Toglie lo spago, e controlla i fogli a uno a uno. Robaccia. E poi, a metà del fascio, eccolo lì. Gli cominciano a tremare le mani perché ha sotto gli occhi la grafia minuta che ha studiato tante volte sulle riproduzioni della firma dell’uomo. E la firma è l’unico esempio di manoscritto lasciato dall’uomo che sia mai stato ritrovato. Esposto in vetrina e sorvegliato notte e giorno al British Museum. Vale un milione di dollari, si pensa, se mai venisse messa in vendita. Eppure adesso… — Ero affascinato da me stesso, dalla mia eloquenza, e Marion sorrideva. — Adesso lui ha trovato pagine e pagine di quella grafia minuta, in un inchiostro arrugginito dal tempo. Con note ai margini! E poi, poi… Dopo molte pagine del manoscritto, trova un monologo. Le prime parole sono state cancellate con dei trattini, ma lui riesce a leggerle. E dicono… — Mi fermai a riflettere. — Dicono Esistere o morire è il mio dilemma, e la penna le ha cancellate. E appena sopra quelle parole, a lettere ancora più piccole, è scritto per la prima volta al mondo, dalla mano stessa dell’autore, Essere o non essere, ecco…

Lei scoppiò a ridere, e io sorrisi. — D’accordo. Okay. Ho esagerato. È ridicolo. Però non del tutto, Marion. Non del tutto. Il Rembrandt sconosciuto, appeso alla parete di un negozio Goodwill Thrift, in vendita per quattro dollari e mezzo, è stato trovato. Come una vecchia teiera di metallo che costava settantacinque cent, e che aveva sul fondo un’incisione a lettere talmente piccole e smangiate che nessun altro le aveva notate: P. Revere, Argentiere. Su una bancarella è stato acquistato per dieci cent un libriccino. Stampato a Boston nel 1827, stando alla prima pagina, che diceva anche Tamerlano e altre poesie di Edgar A. Poe. La molla del collezionismo è il sogno quasi impossibile. E vuoi sapere qual è il mio?

Marion annuì, sorridendo.

— Tutti i rulli… Tutti i quarantadue incredibili rulli del capolavoro perduto di Erich von Stroheim, Greed.

— Lui li aveva.

Non sai di cosa stai parlando!

— Sì che lo so! Ricordo quel film. A San Francisco ne parlavano tutti! Lo hanno girato qui, e io ho assistito a una parte delle riprese! Poi Von Stroheim lo ha terminato, ed era lungo decine e decine di rulli, e lo hanno tagliato brutalmente. È successo alla… M-G-M!

Annuii. Le mie parole erano un sussurro. — Sì. Lo hanno ridotto a dieci soli rulli. E adesso anche alcuni di quelli sono andati persi. Marion… — Mi accoccolai davanti a lei, a fissarla, e la mia voce era un soffio. — Sei sicura di ricordare bene? Aveva tutti e quarantadue i rulli?

— Ma certo. Me ne ha parlato lui. Ha dovuto dare in cambio tre film della Paramount per averli. Ma li ha avuti.

Mi alzai, sedetti al suo fianco, le presi la mano, la guardai negli occhi. — Allora, Marion — le dissi dolcemente — adesso capisci? Capisci perché devi ricordare il suo nome?

Lei annuì. — Sì. Capisco. Quello che provi. — Liberò la mano con uno strattone e saltò su. — Perché tu non capisci quello che provo io? — Restò a fissarmi come se volesse incenerirmi, poi la sua espressione cambiò. — Senti, il cinematografo dove proiettano I quattro cavalieri dell’Apocalisse…

— L’Olympic. È un vecchio locale.

— Fanno matinée?

— Oggi è sabato, giusto? Sì, tutti i weekend.

— Portami a vederlo. — Feci per dire qualcosa, e lei si mise quasi a urlare. — Nickie, non discutere! Sono stufa marcia di discussioni! Fallo e basta!

— Guarda che volevo dire di sì.

Diedi ad Al un paio di biscotti per cani a forma di osso, quelli che non gli piace molto mangiare ma che adora seppellire, e gli diedi anche una tiratina di coda. Poi portai Marion all’Olympic.

È un bellissimo, vecchio locale. Penso risalga proprio agli anni Venti. Gli spettacoli sono in vecchio stile totale, compreso l’accompagnamento d’organo. Trovano sempre ottime copie, e lì tutti prendono molto sul serio i film. Comperammo i popcorn, che vendono in sacchetti a strisce colorate del tutto fuori moda, e ci accomodammo. Per essere una matinée, c’era parecchia gente, ma trovammo due sedili vicini sul lato di una fila.

Le luci si spensero, l’organo cominciò a suonare, il vecchio sipario di velluto rosso si aprì in due cigolando, e iniziò un cinegiornale della Pathé. Un gallo cantò, muto, prima del marchio della casa cinematografica. Cullati da una musica d’organo perfettamente adatta, guardammo una corsa di cavalli ormai dimenticata. Vedemmo un senatore dell’Oklahoma, altrettanto dimenticato, sventolare le braccia dall’ultimo vagone di un treno; una didascalia ci disse che si era appena opposto con coraggio e decisione all’abrogazione dell’Atto Volstead. E guardammo uno scimpanzé su una bicicletta.

Poi ci venne proposto un coro: le parole di Rose Marie scivolarono in alto dal fondo dello schermo, verso dopo verso. L’organo suonava la canzone, e una palla bianca in movimento toccava ogni parola o sillaba nel momento in cui doveva essere cantata. Non molte persone accettarono il gioco, ma Marion lo fece, a voce alta e chiara, e ovviamente io dovetti imitarla, anche se mi abbassai un po’ sul sedile. Ma a quel punto, altre otto o dieci persone si unirono al coro, e poi anche qualche altra. Dopo cinque o sei versi a base di Rose-ma Reeee, yiii luh vue… Rose-ma Reee, mide ear, diventò divertente. Molto poetico. La fine della canzone mi diede una certa tristezza.

Apparvero i titoli di testa di I quattro cavalieri dell’Apocalisse, e ci preparammo spiritualmente a vederlo. All’inizio mi annoiai un po’ (lo avevo già visto due volte), ma ben presto il film mi conquistò, e ricominciai a godermelo. I quattro cavalieri è il film di Valentino con la famosa sequenza del tango, una grande, eccellente scena. Ai tavoli attorno alla pista da ballo di un caffè argentino, decine di clienti ammirano Rodolfo Valentino, nel costume da gaucho del suo personaggio, Julio, mentre balla con Helena Domingues in tenuta da spagnola, con tanto di lungo scialle a frange.

Valentino la tiene romanticamente incollata a sé, le fa rovesciare all’indietro la metà superiore del corpo, si china a fissarla negli occhi; è una scena che si può guardare per farsi due risate, oppure la si può godere sul serio. Io sono uno di quelli che se la godono. Mi irritano moltissimo gli idioti che, alla proiezione di un film muto, fanno sfoggio col resto del pubblico della loro sofisticata cultura sghignazzando di continuo. I vecchi stilemi di recitazione e le storie possono essere cretini, ma andate oltre la superficie, e spesso troverete una quantità di cose degne di essere viste.

Quella era una cosa degna di essere vista. È una grande scena di ballo (Valentino era un ballerino professionista prima di entrare nel cinema), e l’organista era eccellente, come accade di solito all’Olympic: il suo tango era sincronizzato alla perfezione coi movimenti degli attori, come una vera colonna sonora.

Mi pare strano avere capito immediatamente cosa cominciò a succedermi in quel momento, anche se non era poi davvero strano; più di una volta Jan mi aveva già parlato del fenomeno, cercando le parole adatte per descriverlo. Era una sensazione quasi fisica, come se (spero riusciate a immaginare una sensazione del genere) qualcun altro fosse seduto con me sulla mia poltrona, qualcuno che spingeva ma non mi dava fastidio. Sicché, all’improvviso, io e lui occupammo lo stesso spazio. In un lampo, in pochi secondi, qualcun altro si impossessò di me; io mi trovai letteralmente “posseduto”.

Col mio io immobilizzato, impotente e inerme, venni spinto da parte, scacciato in un angolo remoto del mio stesso essere. Percepivo ancora gli impulsi comunicati dai miei sensi. Per qualche secondo continuai a riconoscere i messaggi che i miei occhi e le mie orecchie ricevevano; ma in modo vago, e da una distanza che cresceva di istante in istante, come un bambino che scivoli in fretta nel sonno. Nel giro di due secondi, tre al massimo, io ero completamente scomparso, raggomitolato in un qualche abisso del mio essere; e Rodolfo Valentino si era impossessato di me.

A intervalli (che io vivevo come un bambino che stia cadendo dal sonno, o che abbia la febbre), la presa sul mio io si allentava per un momento, o mezzo momento. Quasi all’istante il potere estraneo mi riprendeva in suo possesso con forza rinnovata, ma in quell’istante io acquisivo una consapevolezza frammentaria di ciò che l’altro vedeva, udiva, e provava, e il ricordo di quei momenti riesce ancora a scuotermi.

Perché ciò che l’altro vedeva, non solo nei bianchi, grigi e neri del vecchio schermo quadrato sul palco polveroso dell’Olympic, ma oltre, e ciò che provava, era più di quanto chiunque altro potesse sperimentare. Diritto sul sedile, proteso in avanti, coi pugni chiusi stretti al petto, il mento alto, non vedeva solo i baluginii dello schermo. Oltre i limiti dello schermo, nei suoi ricordi, un regista a occhi socchiusi, con un berretto di tela e un megafono in mano, lo scrutava. L’obiettivo di una macchina da presa su un treppiede di legno seguiva i suoi movimenti, e l’uomo dietro la macchina era chino sulle ginocchia, con l’occhio incollato al mirino; portava calzoni alla zuava, camicia bianca e cravatta, e il suo pugno destro girava in cerchio con un movimento assolutamente regolare, per filmare le immagini che il pubblico dell’Olympic stava vedendo in quel momento. Dietro la macchina da presa, un gruppo di curiosi e tecnici di studio, due dei quali in tuta, uno con un martello in mano. E al pianoforte, intento a suonare il tango, un uomo col panciotto e, stranamente, un cappello di feltro a tesa larga. Seduta davanti allo schermo, l’altra persona che non ero io vide tutte queste cose nel ricordo. E più di tutto, fu sommersa da un altro ricordo: la colossale sensazione di trionfo alla splendida consapevolezza, nel momento stesso in cui ballava, che quella sarebbe stata una grande scena.

Poi, il nulla improvviso. Il nulla puro; nemmeno il vuoto. Poi un altro momento di stordita semiconsapevolezza: il magnifico tango sullo schermo stava terminando. Stacco su un’altra scena, altri personaggi, e nell’istante dello stacco, la marea di un’unica sensazione. Un’ondata di disperazione così nera che non la descriverei in tutta la sua forza nemmeno se ne fossi capace. Una disperazione totale: l’insopportabile orrore del desiderio, del peggiore di tutti i desideri; il disperato rimpianto per ciò che sarebbe potuto essere.

Negli occhi ancora rivolti allo schermo cominciarono a gonfiarsi lacrime. Scesero giù per le mie guance, e la mano di Marion si posò sul mio braccio. — Mi spiace, Rudy — mormorò lei. — Mi spiace tanto. Ma lui doveva sapere. Grazie.

La mia testa annuì, la mia mano si posò sulla sua per un istante, poi Valentino scomparve; e io rimasi a guardare lo schermo senza vedere, adesso sapendo ciò che non volevo sapere: quanto sia enorme il senso di perdita quando una vita, un talento e una carriera vengono bruscamente interrotti. L’ego umano è inconcepibilmente immenso, e ovviamente con l’eccezione dei politici del nostro Paese, nessuno ama se stesso più di un attore. Rodolfo Valentino, che all’epoca aveva solo trentun anni, aveva davanti a sé decenni di fama mondiale e adulazione. Tanto, tanto tempo. Ma avere perso all’improvviso, assurdamente, tutto quello. Evaporato! Scomparso! Semplicemente, non era sopportabile.

— Adesso capisci? — Marion mi stava guardando, e io sbattei le palpebre, riuscii ad annuire, poi mi passai sugli occhi il dorso della mano.

— Sì. Gesù. Usciamo! — Mi ero alzato e avviato nella fila. Superai sei ginocchia, due barbe, e un paio di occhiali con la montatura in metallo che riflettevano lo schermo. Marion mi seguiva.

Tornando a casa, lasciai la capote abbassata. L’aria nebbiosa del tardo pomeriggio di San Francisco mi rinfrescò il viso. Non aprii bocca finché non ci fermammo a un semaforo, a un paio di isolati da casa. — Il povero figlio di puttana — sussurrai. — Il povero bastardo fregato. L’unica cosa che desiderasse era la sua carriera. Non credo abbia mai dedicato un solo pensiero alla Donna in Nero.

— Chi?

— La donna del mistero sempre vestita di nero, con la veletta, che tutti gli anni si recava sulla sua tomba. Certi anni ce ne sono state quattro o cinque.

Lei non mi ascoltava. Il semaforo diventò verde. Io ripartii, e Marion mormorò: — Prima o poi, tutti perdono la vita, e credimi, non è poi così brutto. Dopo che è successo, a tanta gente non dispiace troppo. Ma per quelli di noi che hanno visto interrompersi di colpo qualcosa di straordinario… — Scosse la testa. — Dovevo proprio farti capire, Nickie. E anche adesso, tu sai solo in parte. Perché Rudy non prova le mie stesse sensazioni. Lui non ha mai desiderato fare quello che sto facendo io. Ha accettato la situazione.

Svoltai in Divisadero, rallentai al marciapiede davanti a casa, frenai, spensi il motore, tirai al massimo il freno a mano, e Marion mi mise una mano sul braccio. — Aiutami, Nickie. Devi aiutarmi.

— Ma come, Marion, come?

— Fai capire a Jan che dovrebbe aiutarmi! Solo per un anno. O sei mesi. Anche solo per un altro film! Userà la sua vita meglio di quanto stia facendo adesso. Faglielo capire, Nickie. Ti prego. Ti prego.

Mi chinai in avanti, appoggiai le braccia sul grande, vecchio volante in legno, e scrutai la strada immobile oltre il parabrezza. Mi sembrava vero; mi sembrava vero che Marion avesse bisogno di una piccola parte della vita di Jan più di quanto ne avesse bisogno Jan. Eppure… Guardai Marion e scossi la testa. — Non è giusto, Marion. Convincere Jan o chiunque altro a rinunciare a un pezzo della propria esistenza.

— Parlale! Raccontale quello che è successo oggi. Spiegale cosa hai provato. E lascia decidere a lei. Almeno potrai parlarle, no?

Dopo un attimo o due, annuii e scrollai le spalle. — Sì, questo posso farlo. Però poi spetterà a lei decidere.

— Va bene. Tu parlale. — Marion appoggiò la testa sul sedile, scrutò la nebbia che si muoveva pigramente nel cielo quasi buio. — Fra parentesi — aggiunse languida — mi sono ricordata quel nome.

Girai la testa di scatto e fissai Marion, ma lei non si mosse. Continuando a scrutare il cielo con espressione sognante, disse in tono indifferente: — Ore fa, per l’esattezza. Nell’appartamento. Ho guardato sull’elenco telefonico di L.A. intanto che tu eri in bagno. — Girò la testa di lato e mi guardò con occhi innocenti. — C’è ancora, Nickie, amore. L’uomo che aveva i film è ancora vivo. E io sono assolutamente certa che li possegga ancora. — Riportò lo sguardo sul cielo. — Per cui, vieni a Hollywood con me, e lo andremo a trovare. Ti dirò come si chiama… — Si voltò a sorridermi, dolce, amorevole. — Quando saremo là. Dopo che tu avrai parlato con Jan.

Chiuse gli occhi, inspirò profondamente una volta, due, e riaprì gli occhi. — Oh, Dio. Ancora. — Jan si guardò attorno, e io non persi tempo.

Le dissi immediatamente: — Senti, siamo soltanto andati al cinema!

Lei annuì, premette l’indice sulla fronte. — Lo so. Quando vedo un film di giorno, mi viene sempre questa leggera emicrania. E poi è talmente ridicolo che so che è vero. — Una smorfia: la sua mano sulla fronte aveva incontrato qualcosa. La mano salì, tastò, poi afferrò la parrucca bionda. Jan se la strappò dalla testa e restò a fissarla. — Questa che diavolo è?

— Andiamo in casa. — Mi chinai in avanti ad aprirle la portiera. — Ho un sacco di cose da raccontarti.

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