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Il mio ufficio è semplicemente un ufficio, non piccolo ma tutt’altro che grande. Ho un tappeto di un bel verde foresta, una scrivania e una poltroncina decenti, una sedia per i visitatori, un tavolo sul quale mettere le cose. E alla parete ho appeso un paio di articoli personali. Uno è una stampa di Brueghel intitolata La torre di Babele, che mi piace guardare perché è piena zeppa di persone piccole piccole impegnate a fare un’infinità di cose per costruire una torre che arriva fino alle nuvole. Mi ricorda le copertine di Boy’s Life di quando ero ragazzo, piene di ragazzi che nuotano, corrono, giocano a calcio, si arrampicano sugli alberi.

Mille cose. Potevi studiare a ripetizione una di quelle copertine, convinto di avere finalmente visto tutto, ma di solito trovavi sempre qualcosa che ti era sfuggita. Be’, io penso che la stampa di Brueghel sia proprio all’altezza delle vecchie copertine di Boy’s Life, e quando sono annoiato mi alzo, mi ci metto davanti, e cerco qualcosa di nuovo. L’altro articolo personale è una fotografia di Fay Wray in costume da giungla; una foto che mi piace moltissimo.

Il giorno dopo avere visto lo spettro di Marion, sedevo nel mio ufficio con la matita in mano, la punta rivolta verso il basso, apparentemente intento a studiare le carte sulla mia scrivania. Lavoro alla Promozione Vendite. Ho a che fare con le mie controparti dell’agenzia pubblicitaria; ogni tanto partecipo a qualche convegno o riunione sulla Costa Ovest, il che è un dubbio beneficio, ma se non altro mi permette di cambiare ambiente; e faccio una notevole varietà di cose legate alla vendita dei nostri articoli, prodotti cartacei di così tanti tipi che un uomo sano di mente non riuscirebbe mai a immaginarli tutti. Parecchia della roba che produciamo è effettivamente utile, e non sforniamo nulla di pericoloso, quindi per lo meno non mi vergogno di quello che faccio.

Ma in quel momento non stavo facendo niente. Avevo per la mente cose più importanti dei tovaglioli di carta. Per tutto il mattino, da che avevo aperto gli occhi, avevo fatto del mio meglio per pensare a ciò che era successo la sera prima, qualunque cosa fosse successa. A mezzogiorno mandai giù un boccone in fretta per avere il tempo di camminare (prima fino al Ferry Building all’inizio di Market Street, poi tra i moli coperti, con la Baia che a tratti appariva fra un molo e l’altro) e pensare ancora un po’, cercando di raggiungere qualche conclusione.

Ma non mi pareva di poter concludere molto. Più che altro, rivissi mentalmente l’esperienza, diverse volte. A titolo sperimentale, tentai di convincermi di avere solo immaginato, o sognato in maniera molto vivida, ciò che era successo, ma la differenza tra il sogno o l’immaginazione e la realtà la conoscono tutti: era successo davvero. Di ritorno alla mia scrivania, l’unica conclusione alla quale giunsi fu che in rare occasioni gli spettri appaiono sul serio.

Non lo avevo raccontato a nessuno, ovviamente, e non intendevo farlo; lo avrei detto solo a Jan. Non appena sceso dall’ascensore nell’atmosfera tanto concreta, tutta luci fluorescenti, macchine per scrivere elettriche e aria condizionata, della Crown Zellerbach, capii subito che non avrei cercato di convincere qualcuno di ciò che era accaduto la sera prima nel buio della nostra vecchia casa. E a colazione non ne parlai con Jan; avrei dovuto ripetermi, parlare e parlare, e non c’era tempo. Glielo avrei raccontato quella sera, e… Una storia fantastica. Sorrisi all’idea, ansioso di dirglielo. E ansioso, mi resi conto, di rivedere Jan. Ricordando il dopofilm della sera prima, quel giorno provavo molto calore e tenerezza per Jan, apprezzavo le sue buone qualità, mi facevano piacere persino i suoi difetti.

Il mio telefono squillò, e siccome stavo pensando a lei, era Jan: è così che vanno le cose, e lo sanno tutti. Dopo i saluti, lei disse: — Non dimenticare il party con gli Hurst, stasera.

— Sì, lo so. Me lo ricordavo. È una prospettiva piacevole.

— Anche per me. È da un po’ che non usciamo a divertirci.

Sorrisi e aprii un cassetto in basso, per appoggiare i piedi. — Non credo sia chic aspettare con tanta impazienza un cocktail party.

— Lo so. Soprattutto un party organizzato per raccogliere fondi. Nickie, ti ho chiamato perché Magnin sta pubblicizzando una svendita di vestiti in saldo. È una vera svendita, e io ho bisogno di un abito nuovo da sera. Qualcosa di semplice. Nero, suppongo. Un vestito che vada sempre. Però…

— Allora vallo a comperare.

— Be’, non sono sicura che possiamo permetterci…

— Quella che non possiamo permetterci è la roba da mangiare. Quindi comprati il vestito. Voglio sperimentare l’ondata di orgoglio che un uomo prova quando a un party tutti i maschi pizzicano il sedere a sua moglie.

— Ottimo. Il primo pizzicotto è tuo. Ci vediamo stasera.

Dopo il lavoro, sceso dall’autobus, tornai a casa a piedi, scrutando la città mentre salivo la collina di Buena Vista. Ero innamorato del mondo e di quel momento, il momento nel quale un bambino di quattro o cinque anni, accoccolato su un solo pattino, mi corse incontro senza nemmeno vedermi, concentrato com’era sul compito di non perdere l’equilibrio. Mi spostai di lato, felice del bambino e della serata che mi attendeva: mi piacciono i party di tutti i tipi, almeno come idea.

Sul portico mi fermai a riprendere fiato, ma solo per un istante o poco più, e salii i gradini della scala interna a due a due: dovevo cambiarmi, poi dovevamo attraversare in auto il Golden Gate Bridge e arrivare a Marin County. Sul pianerottolo strillai: — Sono a casa!

— E io sono qui! — rispose dal bagno la voce di Jan. Lei fece una pausa, poi aggiunse: — Ho paura di uscire.

— Come sarebbe a dire? — chiesi alla porta del bagno, passandole davanti. Entrai in camera da letto e slacciai la cravatta.

— Mi ucciderai.

— Be’, allora esci e facciamola finita. Ti lascio scegliere il metodo che preferisci. — Sbottonando la camicia, puntai gli occhi sulla porta del bagno, all’altro lato del corridoio. Si stava aprendo lentamente verso l’interno, con Jan nascosta dietro. Si spalancò quasi del tutto, e di colpo lei apparve in corridoio. Per metà sorrideva, per metà aveva dipinta in faccia una smorfia implorante. Restai di sasso. Il suo vestito nuovo era folle: una giostra di colori da dare il capogiro, come se qualcuno avesse spruzzato manciate di vernice sulla stoffa; ed era più corto di parecchi centimetri di qualunque cosa Jan avesse mai portato. Guardando meglio, mi resi conto che era un vestito preparato con molta maestria; le macchie di colore erano sistemate in modo armonico e ben proporzionato. Però era un pugno nell’occhio, e dissi: — Ma che diavolo? — Non volevo Jan pensasse che io disapprovavo il vestito che, dopo tutto, doveva portare al party di quella sera, così aggiunsi subito: — È splendido. — E lo era sul serio, mi resi conto. — Credimi, giuro — dissi, e lei sorrise alla sincerità della mia voce. — Mi piace un sacco. Gambe come le tue devono essere messe in mostra. — Per un’incredibile frazione di secondo, mi trovai a paragonare le gambe di Jan con quelle di Marion Marsh, e scacciai quel pensiero idiota. — Sei meravigliosa. Forse dovrò passare la serata a salvarti dalle aggressioni sessuali. Fra parentesi, se avessimo tempo…

— Non lo abbiamo.

— Peccato. Che fine ha fatto il vestitino nero?

Non so — rispose lei, fingendo un gemito di dolore, ed entrò in camera da letto e si mise a studiare l’abito. — Volevo comperare una cosa tranquilla, poi ho visto questo, l’ho provato così per ridere, e… — Girò la testa, sorrise, scrollò le spalle. — Non so cosa mi abbia preso, ma l’ho comperato. Ti piace sul serio? No, non ti piace per niente.

— Sì, sul serio. — Mi stavo mettendo una camicia nuova. — Però tutte le altre donne saranno invisibili. Ti linceranno. Hai dato da mangiare ad Al?

— Sì. Ha insistito.

Nel tragitto verso il ponte, con la capote abbassata, raccontai a Jan quello che era successo la sera prima, con molta calma ma senza trascurare il minimo dettaglio. Volevo farmi capire bene. Lei ascoltò, poi ne parlammo. Jan aveva diverse domande, e io risposi a tutte. E lei disse che le sarebbe piaciuto essere stata con me. Capii che mi credeva; cioè sapeva che non stavo mentendo, che ero convinto di averle raccontato la verità. Ma che fosse successo davvero, o fosse stata solo un’illusione… Chi può dire che certe cose siano reali, se non le ha vissute?

La città di Ross è vecchia, in base agli standard della California, ed è ricca. Ospita tanta gente con tanti soldi da avere tanto potere da mantenerla vecchia. Ci sono ancora strade troppo strette per il traffico moderno; alcune sono soltanto viali col fondo ghiaioso che non sono cambiati di un millimetro da quando i cavalli trainavano carretti, e vengono conservate in quello stato. Ci sono pochissimi parchimetri, non molti cartelli stradali o lampioni, una considerevole assenza di numeri civici; e nel cuore della città si trovano acri di terreno coperto d’alberi, di proprietà dell’Alt and Garden Club, acri che si potrebbero riempire di condominii con notevole profitto economico, ma rimangono intatti. Su alcuni dei viali col fondo in ghiaia sorgono enormi ville che hanno cinquanta, sessanta, settanta, ottanta o più anni. Sono ben conservate e regolarmente ridipinte; sono molto distanziate fra loro e lontane dalla strada, protette da alte siepi o file di alberi, su appezzamenti ricchissimi di verde; sia le case che l’ambiente circostante hanno lo stesso identico aspetto da decenni. Vivrei in una di quelle case, se me la potessi permettere, e fu un piacere scoprire che il party si teneva in una di quelle ville.

Coperta da assicelle in legno splendidamente ingrigite dagli anni, a due piani ma talmente larga da sembrare bassa, sorgeva ad abbondante distanza dalla strada, al termine di un lungo sentiero d’accesso bianco delimitato da alberi. Le auto erano parcheggiate su entrambi i lati del sentiero. Aggiunsi la Packard a una delle file e ci incamminammo verso la casa. Sentivo giungere una musica smorzata dall’interno, ed ero molto eccitato. Chiesi: — A quale causa è consacrato questo party? Per usare un’espressione un po’ forbita.

— È per un asilo nido. Per bambini con madri che lavorano. Un’istituzione interrazziale. Hazel è nel comitato direttivo.

— Benissimo. Il che significa che più ci si sbronza, più si migliorano i rapporti fra le razze. Il che alleggerisce notevolmente la coscienza. Se non finisci ubriaco marcio, sei un maledetto bigotto.

Ci stavamo avvicinando ai gradini in legno di un portico vecchio stile che correva lungo tutta la facciata della casa, e su entrambi i lati. Adesso sentivo benissimo la musica: roba da pianobar. Salimmo i gradini, ci spostammo su un lato del portico, con una gigantesca doppia porta spalancata, e cominciammo a udire il ronzio robusto della conversazione fra parecchie persone. Poi approdammo a un ingresso col pavimento in cotto rosso, e per un attimo restammo a guardare la stanza oltre l’ingresso, e io capii come mai il party si tenesse proprio lì.

Era una stanza immensa, quindici o più metri in ogni direzione orizzontale, con un soffitto alto due piani e lucernari che si potevano aprire grazie ai. meccanismi a ruote e catene disposti sulle pareti. Doveva essere stata pensata come sala da ballo, perché direttamente di fronte all’ingresso c’era una piattaforma fissa, abbastanza grande da ospitare un’intera orchestra, anche se al momento c’era solo un pianoforte: un piano a coda che dominava l’intero salone, suonato da un uomo coi capelli grigi, in smoking grigio con decorazioni in argento. A occhi socchiusi, ondeggiava a tempo con la sua musica lenta, liquida, e aveva sulle labbra un sorriso professionale. Al momento, si stava esibendo in The Way You Look Tonight. Nella stanza c’erano cento o più persone. Chiacchieravano e sorridevano a gruppetti, o si aggiravano a passi lenti tra la folla, o sedevano lungo le pareti su innumerevoli sedie e grandi, vecchi divani imbottiti di velluto, blu sbiadito o marrone. Poi scorgemmo gli Hurst, Hazel e Frank. Si stavano facendo strada verso noi, sorridenti, e noi andammo loro incontro nell’enorme salone.

Venimmo presentati a un gruppo di amici degli Hurst e restammo a fare capannello con loro per qualche minuto. Io scrutai le donne che archiviavano nelle banche della memoria i dettagli completi del vestito di Jan. Una di loro cominciò a parlarci dell’asilo nido, e dopo un po’ a me si appannò lo sguardo. Poi altre due coppie, che conoscevano quasi tutti gli altri, si unirono al nostro circolo, e nel caos dei saluti e delle battute io sfiorai il braccio di Jan. — Andiamo a versare l’obolo per le madri che lavorano.

Avevo visto il bar a un’estremità della stanza, tavolini pieghevoli coperti di tovaglie accostati l’uno all’altro. Dietro, a ridosso della parete, c’era una seconda fila di tavoli, il bar vero e proprio. Quando lo raggiungemmo, tre baristi in giacca rossa stavano servendo sette o otto persone. All’ultimo tavolino, una signora dai capelli grigi, sorridente e molto distinta, sedeva su un seggiolino pieghevole; aveva davanti a sé un mazzo di biglietti e una scatola di metallo nero. Pagai per due biglietti, ognuno dei quali valido, mi informò la signora con voce raffinata. — Per qualunque tipo di drink, dal vino bianco al Martini. — La ringraziai, notai, che anche la mia voce si sforzava di sembrare raffinata, poi mi girai verso Jan per chiederle cosa volesse.

Restai perplesso dalla sua espressione: fissava il bar a bocca socchiusa. I tavoli erano coperti di bottiglie, in enorme quantità, in parte già aperte, in parte ancora chiuse. C’erano whisky di ogni tipo e di molte marche; decine di bottiglie di gin e vodka; c’erano vino e sherry; file di Coca, 7 Up, gazzosa, altre bevande gasate; sul pavimento, sotto il tavolo, erano accatastate casse di liquore e vino. Uno spettacolo imponente, però… Di tanto in tanto, per eccitazione ed esuberanza, Jan, come talora succede ai timidi, si ficca in testa di mettersi a fare il pagliaccio, e di solito sceglie quello che a me sembra il momento sbagliato. Pensai fosse in uno di quegli stati d’animo, e cercai di tirarle una gomitata per farla smettere subito, ma era troppo tardi. Jan fece un sorrisone al barista in attesa, che la fissava a sopracciglia alte, e gli disse: — Wow! Ma guarda tutto quel ben di Dio! È roba buona?

— E dai, Jan — borbottai. — Cosa vuoi?

— Be’, tanto per mettere in moto le cose, prenderò un cocktail Bronx.

Il barista corrugò la fronte. Un tizio a qualche tavolo di distanza ci stava fissando.

Io ripresi a borbottare. — Non credo servano cocktail complicati a un party del genere. Richiedono troppo tempo.

— Okay. Siamo qui per fare i bravi. Allora un gin buck. — Jan fissò il barista, poi scosse la testa, esterrefatta. — Non sai cos’è? Ma dove vivi? È solo gin, ginger ale, e succo di limetta. Mettici molto gin, e lascia pure perdere la limetta. È l’alcol che conta!

— Oh, per amor di Dio — dissi a denti stretti, e mi girai a ricambiare gli sguardi acidi della gente attorno a noi. Il barista diede il drink a Jan, quasi impassibile, anche se mi lasciò intravedere un sogghigno sepolto in fondo agli occhi. Io dissi: — Bourbon e soda — e misi sul tavolo i miei due biglietti. Restai a guardare il barista, che preparò il mio drink abbastanza in fretta. Presi il bicchiere, lieto di potermi voltare. Jan era a metà stanza; stava tornando verso gli Hurst. Poi la vidi fermarsi con un gruppetto di persone, rovesciare la testa all’indietro, e tracannare il liquore come un lupo di mare assetato. A quel punto, si girò e tornò verso me.

— Fallo un’altra volta, ragazzone! — disse, porgendomi il bicchiere vuoto. — È roba forte. Fresca fresca dalla fabbrica!

— Piccola, stai facendo un casino del diavolo, credimi — le dissi. — Lo so che ultimamente siamo usciti poco, ma cerca di cambiare musica, eh? Prima di tornare dagli Hurst e dai loro amici. Aspettami là. Ti porto il tuo drink. — Mi costrinsi a sorriderle, e mi riavvicinai al bar. Porca miseria, era una serata che aspettavo da tanto tempo!

C’era un bar a ogni estremità della stanza, scopersi. Mentre ripartivo verso gli Hurst, vidi Jan e Frank Hurst lasciare il gruppo e dirigersi al lato opposto della stanza; poi vidi il secondo bar. Dopo essermi fatto strada in mezzo alla folla, con varie acrobazie per non rovesciare né il bicchiere di Jan né il mio, lei e Frank stavano tornando. Jan sorseggiava un nuovo drink. Ci raggiunse, rossa in viso, con gli occhi che brillavano. Finì il drink, poi mi passò il bicchiere vuoto, prese quello che le avevo portato io, e si scolò metà cocktail. Un paio di donne la stavano guardando, continuavano a studiare il suo vestito. Jan le fissò con aria insolente finché loro non distolsero lo sguardo. All’improvviso, Jan diede una sventagliata con un fianco e cominciò a schioccare le dita della mano libera. — Questo party sta schiattando — disse. — Diamogli un po’ di movimento! — Si scolò tutto il drink e, senza guardarmi, mi tese il bicchiere. Fui costretto a prenderlo (a quel punto stavo maneggiando tre bicchieri), e Jan lasciò di nuovo il gruppo.

Ero arrabbiato con Jan come mai in vita mia, credo. Mi sforzai di lasciare stampato sulle labbra un sorriso e restai lì, coi due bicchieri vuoti nelle mani abbassate sui fianchi. Speravo che non si notassero troppo. Ascoltai con estrema attenzione una delle donne, che stava parlando della necessità di maggiore spazio e più attrezzature per l’asilo nido. Mi rifiutai di voltarmi per vedere dove stesse andando Jan; sapevo che non aveva soldi.

La donna finì di parlare, qualcuno le rispose, e io bevvi un sorso o due dal mio bicchiere, spostandomi un poco con la massima cautela per lanciare un’occhiata di soppiatto a Jan. Rimasi completamente esterrefatto: era al bar, sorrideva, e stava accettando un drink da un uomo che per lei era un perfetto sconosciuto, ne ero certo. Lui fece un mezzo inchino e agitò una mano in risposta ai ringraziamenti di Jan. Mia moglie alzò il bicchiere in un brindisi, bevve un terzo del liquore, poi si rituffò nella folla: non per tornare al nostro gruppo, come pensai in un primo momento, ma per dirigersi all’altro lato della stanza. Riuscii a seguire per qualche passo il suo vestito, poi scomparve nella marea umana.

Non sapevo che fare. Proprio non lo sapevo. Non potevo creare una situazione imbarazzante per lei o per me andandola a cercare in mezzo alla folla, anche se avrei voluto. Con uno sforzo, restai dov’ero e finii il mio drink. Poi sorrisi a Hazel Hurst, al mio fianco, gesticolai col bicchiere vuoto e chiesi: — Posso portarti un rifornimento, Hazel? — Sapevo che beveva pochissimo, e quando mi rispose di no sorrisi un’altra volta, girai sui tacchi e mi avviai verso il bar, a passo lento e indifferente. Continuai a guardarmi attorno e a cercare di proiettare l’immagine dell’uomo che si sta divertendo. Pensavo che se me la fossi presa calma, forse sarei riuscito ad acchiappare Jan al bar e a trascinarla fuori di lì, in un modo o nell’altro.

A metà strada dal bar, sentii il pianoforte interrompere bruscamente un medley di motivi da musical. Udii un leggero aumento nel livello del ronzio delle conversazioni, vidi teste girarsi verso la piattaforma. Mi voltai anch’io, senza sapere cosa avrei visto; ma quando vidi, mi parve di averlo saputo da una vita. Sulla piattaforma, il pianista sorrideva cortese, a testa china sui tasti, e ascoltava una donna che gli stava sussurrando qualcosa all’orecchio. Fra lei e me c’era la massa del pianoforte, e la testa della donna era parzialmente nascosta da quella del pianista. Non la vedevo, però sapevo. Poi, con un sorriso gigante, Jan rialzò la testa sulla piattaforma. Il suo vestito era l’oggetto più vivace dell’intera sala. Quando il pianista attaccò a suonare quella che doveva essere la sua richiesta, lei balzò a sedere sul pianoforte, sventolando le gambe, e si mise a cantare col pianista Bye Bye Blackbird. Cantava le parole quando le conosceva, e sostituiva quelle che non ricordava con da-da, DA-da.

Se la cavò abbastanza bene: una voce esile, ma intonata. E mentre io camminavo tra la folla verso lei, la canzone terminò (il pianista diede un taglio netto), e le persone raccolte attorno alla piattaforma applaudirono; ma il movimento delle mani era fiacco, pigro: un applauso ironico. Qualcuno urlò beffardamente: — Brava! — Jan scivolò giù dal pianoforte, e la sua testa si chinò di nuovo su quella del pianista. Lui annuì, con un sorriso rigido sulle labbra, e cominciò a suonare Sweet Sue a ritmo molto molto veloce.

Incredibilmente, Jan si mise a ballare, a ginocchia unite, con piedi e gomiti che piroettavano per aria. Il suo vestito era un arcobaleno in volo. Ed era brava, splendida. I suoi piedi guizzavano a ritmo impeccabile, le dita schioccavano, il viso era alzato verso il soffitto, a occhi socchiusi nell’estasi della danza. Erano spalle e braccia a muoversi di più, e le gambe, ma soprattutto dalle ginocchia in giù. A parte l’ondeggiare dei fianchi, il corpo si muoveva pochissimo, e non si spostava. Si sentivano le sue scarpe strusciare sul parquet, ed era una danza selvaggia, eccitante, primitiva, intrisa di un’innocente sessualità; e dopo che mi fui fatto strada fino all’orlo della piattaforma, restai lì a guardare Jan, arrabbiato, furibondo, e al tempo stesso preda di una ridicola sensazione d’orgoglio per quella stupefacente esibizione.

Il pianista concluse con uno scampanellio di note e un accordo, e quasi tutta la sala applaudì, questa volta in maniera sincera. Una dozzina di voci o più urlarono: — Ancora! — e dicevano sul serio. Jan si stava producendo in una serie di inchini quasi da professionista: prima a sinistra, poi a destra, ruotando lentamente su se stessa per abbracciare l’intero pubblico. Nel girarsi, mi vide intento a fissarla, e si portò sull’orlo della piattaforma, direttamente di fronte a me. — Prendimi, Nick! — disse. E si buttò giù dalla piattaforma, all’indietro, fra le mie braccia. I miei tre bicchieri vuoti si frantumarono sul pavimento.

Non mi permisi di pensare al significato di tutto quello. Non per il momento. Con l’eterno sorriso sulle labbra, appoggiai a terra Jan, le passai un braccio attorno alla vita, e le afferrai il polso sinistro con la sinistra. Con l’altra mano le presi il polso destro, e tenendo le mani basse, nascoste agli occhi degli altri, la guidai (la spinsi a forza, in effetti) tra la gente attorno alla piattaforma che ancora sorrideva e applaudiva. La folla si aprì a malincuore per lasciarci passare. Su quel lato della stanza avevo visto una porta a vetri che dava su uno dei portici laterali, e su una breve scala che portava a un prato. Ci dirigemmo in fretta verso la porta. L’avevamo quasi raggiunta, passando davanti al bar, quando Jan si fermò così di scatto che il suo polso sinistro si liberò. Mi girai a guardarla, continuando a tenere stretto l’altro suo braccio, e lei mi tese il palmo della mano libera. — Dammi venti dollari.

— Fuori — mormorai, in tono dolce, per calmarla. — Andiamo fuori e ti…

— No. — Lei agitò la mano nell’aria, spazientita. — Qui. E subito. O non farò un altro passo.

Osservato da tutti, tirai fuori il portafoglio, trovai un biglietto da venti, e lo diedi a Jan. A quel punto, dovetti lasciarla andare. Lei prese i soldi, girò attorno alla signora dai capelli grigi che la fissava a occhi strabuzzati, e raggiunse il bar. Prese una bottiglia ancora chiusa di gin Gordon, si girò, sbatté i venti dollari davanti alla donna, e, seguita da me, si avviò all’uscita. Sorrideva, soffiava baci d’addio alla sala sorridente, mormorante, incredula.

Sulla Packard, ero talmente confuso che ebbi qualche problema a inserire la chiave nell’avviamento; e quando feci marcia indietro sul sentiero d’accesso, per poco non tamponai l’automobile parcheggiata dietro di noi. Svoltai sulla strada bianca e per mezzo isolato guidai con la faccia incollata al parabrezza, cercando di vedere qualcosa al chiaro di luna, prima di ricordarmi di accendere i fari. Volevo trovare un posticino isolato dove fermarci a parlare; al momento, non riuscivo ad aprire bocca.

Ma la capote era abbassata, l’aria della sera mi rinfrescava le guance, e dopo un po’ avevo ritrovato il controllo della voce. Così dissi: — Jan. — Ma lei mi ignorò. Era alle prese col cerchio di plastica attorno al coperchio della bottiglia che teneva in grembo. Impaziente, cominciò a svitare il tappo senza togliere la plastica. I miei nervi erano molto tesi, e mi venne da strillare: — Per la miseria! — Avevamo raggiunto la campagna più o meno aperta. Alle nostre spalle non c’erano più edifici. Accostai sul ciglio della strada e fermai, con una frenata brusca. — Jan, rispondimi, se no, il cielo mi aiuti, io ti…

Lei mi sorrise dolcemente. — Chiamami col mio nome, e ti risponderò.

Restai a fissarla, ma anche questa volta sapevo; e mi sembrava di sapere da molto tempo. Sapevo chi fosse stato, quel pomeriggio, a comperare il vestito sgargiante con l’orlo della gonna venti centimetri sopra le ginocchia, chi conoscesse quasi tutte le parole di Bye Bye, Blackbird, e chi fosse in grado di ballare il charleston come se lo avesse appena inventato. — Marion?

— Parlerò con l’intero mondo sbronzo. Apri questa maledetta bottiglia, Nickie. Hai bisogno di un goccetto!

Aveva ragione. Afferrai la bottiglia e cominciai a togliere il cerchietto di plastica. L’autista di una Volkswagen di passaggio si girò a guardarci. E tre drink e sei chilometri dopo, sulla serpeggiante strada bianca (avevamo superato i limiti della città e l’ultima delle case, eravamo in piena campagna), sentii il bisogno di un altro sorso. Bevvi, reggendo il volante con una sola mano. Il gin scendeva dalla bottiglia direttamente nella mia gola.

— Passa qui. — Obbedii. Lei tracannò, poi sorrise. — Questa non è roba da due soldi fatta in casa, baby. Questo è vero gin di prima della guerra!

Dobbiamo parlare. — Un sentierino davanti a noi portava al recinto di un campo, e io rallentai per imboccarlo.

— Sicuro, ma non adesso. Mi sto divertendo. Guida! — Lei appoggiò il suo piede sul mio e pigiò l’acceleratore a tavoletta. L’automobile fece un balzo in avanti, e io sterzai di colpo per non finire diritto nel fossato sotto il sentiero. — Dai gas! Forza con quel motore! — strillò lei. Si girò, si arrampicò sul sedile, andò a sistemarsi sulla capote abbassata. — Iuuuupiiiii! — urlò, e un frammento della mia mente riuscì a notare che stavo sorridendo, e che il mio piede continuava a tenere schiacciato l’acceleratore.

Era pericoloso. Non c’erano argini nelle curve, e la metà posteriore dell’automobile sbandava a ogni svolta. Ma senza rallentare, mi chinai in avanti e con una mano allentai i due grossi dadi ad alette del parabrezza, e abbassai dolcemente il parabrezza sul cofano.

L’aria della sera, fresca e fragrante degli aromi della campagna, mi arruffò i capelli, mi premette gli occhiali contro la fronte e gli zigomi, mi costrinse a socchiudere gli occhi. Imboccammo un’altra curva. Questa volta le ruote posteriori viaggiarono nel vuoto per un metro buono prima di ritrovare il contatto col terreno. Il cuore mi salì in gola per l’eccitazione, e strillai: — Iuuuupiiiiii! — Seduta sulla capote abbassata, Marion sventolava in aria la bottiglia di gin. In quel momento, nei suoi occhi socchiusi c’era un’espressione di piacere totale. Il sorriso sulle sue labbra esprimeva una pura, incosciente, gioia animale.

— Al diavolo gli sbirri! — strillò lei, e bevve una lunga sorsata di gin. La sua gola era candida nel chiarore lunare. Poi mi passò la bottiglia. Io la afferrai e mandai giù quello che restava del liquore senza sollevare il piede dall’acceleratore. Un albero stava correndo verso noi, e io mi sollevai a metà dal sedile, e con tutta la forza del mio braccio scaraventai la bottiglia contro l’albero. Lo centrò in pieno. Si frantumò in un modo splendido. Schegge di vetro volarono via come punte di ghiaccio, e tutti e due lanciammo un ululato di gioia. Mi sentivo libero e selvaggio, come non ero più stato dall’infanzia, più di quanto ricordassi possibile.

Ma dopo qualche centinaio di metri rallentai, pigiai sui freni, poi imboccai una stradina che portava a una fattoria le cui luci brillavano lontane. C’erano cavalli in un campo, e alberi coi rami che si protendevano sulla strada. Fermai sotto gli alberi, misi il freno a mano, spensi motore e fari. Dovevamo parlare.

Marion stava scivolando sul sedile al mio fianco, e la gonna le risaliva su per le cosce. Si girò verso me, sollevò le braccia. — Oh, Nickie, Nickie — disse. — È così bello essere tornata.

— Ferma. — Dovetti alzare una mano. — Senti, tu sei convinta che io sia mio padre?

— Ma no, naturalmente. Lo credevo ieri sera. Quando abbiamo visto il mio film. Ero ancora confusa. Lo sai? Si perde il senso del tempo. Perché non ha più alcuna importanza.

— Questi non sono gli anni Venti.

— Com’è vero! Che razza di party. Tutti che se ne stanno lì a parlare di asili infantili! Che cavolo di party era? Nessuno che si sbronzasse. Cos’era quel grosso ponte rosso che abbiamo attraversato?

— Il Golden Gate Bridge.

— Che fine hanno fatto i traghetti?

— Eliminati.

— Buonanotte! Che fesseria! Erano divertenti.

— Be’, abbiamo tenuto i tram. Qualcuno.

— Fantastico. Oh, senti! Dempsey ha battuto Tunney?

— No. Ha vinto Tunney. Due volte. C’è stata la rivincita.

— Accidenti. Dempsey è così attraente, molto più carino del principe di Galles. In che anno siamo?

— Millenovecentottantacinque.

Cosa? Cavoli, ma sono passati… cinquantasette anni.

— Cinquantanove.

— Odio l’aritmetica. Il che significa che io ho…

— Ottant’anni.

Lei restò a bocca aperta, poi sorrise. — No, non è vero. E tu lo sai.

Qualcosa si mosse nei recessi della mia mente. Era lì da un po’ di tempo, e adesso si fece avanti, imponendosi alla mia attenzione. — Marion… Ieri sera. Dopo il film. Eri… tu?

Lei si appoggiò alla portiera e mi guardò. Le sue spalle tremavano in una risata muta. Poi annuì.

Mi scostai. Mi girai a fissare gli alberi al nostro fianco. Sentii Marion scivolare sul sedile verso me, poi mi tirò una gomitata al fianco. — Ehi — disse sottovoce — cosa c’è di tanto interessante lì? Ehi, Nickie, guardami! — Io scossi la testa. — Perché no?

— No, all’inferno! — Mi voltai a guardarla, poi scossi la testa, incredulo. — Signore, me ne sto qui a guardare la faccia e il corpo di mia moglie, e parlo con te del fatto che l’ho tradita! È una specie di incesto! Però peggio! — Appoggiai i gomiti sul bordo del grande volante in legno e mi presi la faccia tra le mani. — Gesù! Devo essere l’unico uomo degli ultimi cinquantamila anni che abbia scoperto un nuovo tipo di peccato!

— E non è stato bello? — Io non mi mossi, non risposi. — Andiamo — disse lei, morbida, suadente — dire che è stato bello non ti farà del male. Perché lo è stato. E tu lo sai.

— Col cavolo.

— Oh, sì, è stato bello. Molto meglio che con comesichiama, Janice Lavapiatti, una che non ci sa proprio fare. — Marion restò zitta per un attimo. — Guardami, maledizione! Io non somiglio per niente a tua moglie!

Mi voltai, socchiusi gli occhi. Il viso era quello di Jan, e i capelli, le braccia, le mani e il corpo erano i suoi, però… c’erano una sfrontatezza negli occhi, una pienezza nelle labbra sorridenti, una tensione e un’eccitazione in ogni linea di quel corpo familiare, che io non avevo mai visto. C’era una certa somiglianza con Jan, ma, incredibilmente, nulla di più. Quella era un’altra donna: Marion Marsh, e nessun’altra, che adesso si chinava verso me, sorridendo, offrendosi. — Baciami, Nickie.

Io scossi la testa e mi girai di scatto.

— Perché?

— Per un motivo assolutamente ridicolo. Non voglio tradire mia moglie! — Fissavo, senza quasi vederli, gli alberi a lato dell’automobile, e tentavo di scacciare una tentazione (Gesù, quanto avrei voluto non avere bevuto quel gin) così intensa da mozzarmi il respiro. Desideravo con un’intensità incredibile. Chiusi gli occhi e cominciai a inspirare lentamente, ritmicamente. Raffreddai i miei pensieri, consapevole che al mio fianco c’era una ragazza che si offriva, che aspettava… E vinsi. Quando alla fine riaprii gli occhi, mi sentivo fisicamente debole.

Eseguii qualche altra inspirazione per calmarmi, poi mi voltai verso Marion per farle capire che doveva uscire dalla nostra vita. Ancora girata verso me, sorridente, lei non si mosse, e non disse nulla; restò ad aspettare mentre io andavo in cerca delle parole giuste. Era (ma come poteva esserlo? Com’era possibile?) voluttuosa; il più sensuale e totale concentrato di femminilità che io avessi mai visto. La femminilità brillava nei suoi occhi, trasudava da quel corpo familiare e completamente estraneo, riempiva l’aria. — Nickie — disse dolcemente — ti rendi conto che sotto questo vestito c’è una ragazza nuda? — E l’intensità dell’improvvisa delusione che provai, lo shock raggelante di sapere che avevo vinto, che avrei resistito, fu insopportabile. La abbrancai. La abbrancai, e lei abbrancò me, e lì, coi cavalli che ci guardavano e tutto il resto, fermo in automobile su una strada di campagna come uno studentello, col corpo di mia moglie fra le braccia, io tradii un’altra volta mia moglie. Gesù.


Superammo la villa dove, incredibilmente, il party era ancora in corso e raggiungemmo l’autostrada. Solo a quel punto mi sentii in grado di parlare. Udii la mia voce, solenne e un poco tremante per la serietà di ciò che avevo da dire. — Marion, ascoltami. Non devi mai, mai più farlo. — Ma lei non rispose, e nella luce verdastra di un lampione dell’autostrada vidi che dormiva.

Continuò a dormire sul ponte e mentre attraversavamo San Francisco, ma quando tirai il freno a mano aprì gli occhi al rumore, guardò la casa, poi me. — Ciao — disse.

Con la vista annebbiata dal gin che avevo bevuto, strizzando le palpebre, scrutai il suo volto. Eravamo quasi direttamente sotto il lampione davanti a casa. — Ciao, Jan.

— Ciao. — La sua mano si sollevò alla bocca, in un gesto da vera signora, a soffocare un rutto. Poi Jan appoggiò alla fronte il dorso della mano. — Nickie… Non mi sento molto bene.

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