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Un po’ prima di mezzogiorno ero in cucina, in pigiama e pantofole, ad aspettare che le fette di pane saltassero fuori dal tostapane, cercando di ignorare il gorgoglio pulsante della caffettiera. Avevo un doposbornia coi fiocchi, e mi era d’aiuto restare assolutamente immobile mentre aspettavo, con le braccia penzoloni sui fianchi, a occhi chiusi. Quando il pane schizzò fuori dal tostapane mi fece sobbalzare. A quel punto dovetti spingermi all’altro lato della cucina; me la cavai camminando senza sollevare le suole delle pantofole dal linoleum. Tirare fuori i piatti non fu troppo difficile, ma i vassoi sono riposti nello stretto spazio tra forno e frigorifero, appoggiati di lato sul pavimento, e dovetti chinarmi. Lo feci con estrema lentezza, piegando soltanto le ginocchia, con gli occhi puntati in avanti. Individuai un vassoio al tatto.

Al grattò alla porta sul retro: avremmo dovuto lasciarlo entrare già da un pezzo, e lo sapeva. A occhi chiusi, lo informai che avevamo deciso di sbarazzarci di lui e prendere al suo posto una pianta. Forse mi credette, perché quando mi avviai verso il frigorifero lo sentii ridiscendere le scale.

Cercavo, con ansia disperata, il succo di pomodoro in mezzo ai cartoni del latte. Mi ero ricordato che vodka e succo di pomodoro dovrebbero essere il rimedio per quel tipo di malessere. Però non ce n’era; lo beviamo di rado. In compenso c’era una bella bottiglia gelata di champagne della California che Jan aveva comperato a una svendita di un negozio di liquori e che teneva da parte per il nostro anniversario. Era un’emergenza. Presi la bottiglia, tolsi il rivestimento di stagnola, ed estrassi il tappo, molto molto attento a non provocare rumore.

Il vassoio vibrò nelle mie mani per tutto il tragitto; i liquidi si rovesciarono. Arrivai in camera da letto. Il viso di Jan era bianco come un osso, sopra la camicia da notte rosa e lo scialle scuro che le copriva le spalle: aveva bevuto più gin di me. Era seduta contro il cuscino, e mi disse: — Oh, grazie a Dio. Io non sarei mai riuscita ad alzarmi. Sarei morta di fame qui. Grazie, Nickie, amore — aggiunse, in un tono così dolce e adorante che la mia coscienza cominciò a pulsare più della testa.

— Ho fatto tutto al tatto. Non osavo aprire gli occhi. — Misi il vassoio al centro del letto e mi arrampicai su. Poi, lentamente, lentissimamente, masticando per puro sforzo di volontà, deglutendo con la massima attenzione, mangiammo il pane tostato. Lo mandammo giù con minuscoli sorsi di uno champagne gelido e incredibilmente delizioso; poi passammo alle aspirine e al caffè. Alla seconda tazza, chiesi: — Come stai?

Jan rifletté, stringendo la tazza con entrambe le mani. — Meglio — rispose, un poco sorpresa. — Il mal di testa non è troppo terribile. Si vede che l’aspirina sta facendo effetto. E mi sento un po’ meno a pezzi in generale. Il caffè e il pane tostato, suppongo.

— Con la fondamentale assistenza dello champagne. Queste cose non bisognerebbe farle, sai. Se no si finisce diritti sulla strada dell’alcolismo.

— Be’, dà una mano. — Sorseggiò un altro po’ di champagne, un altro po’ di caffè, poi sospirò, mise giù la tazza, adagiò la testa sul cuscino, chiuse gli occhi, e si appisolò.

Io restai a guardarla, pallida e vulnerabile: quella era Jan, era mia moglie. La sera prima, e quella prima ancora, io la avevo… Non importava che il corpo fosse suo; avevo posseduto un’altra donna, su quello non c’era il minimo dubbio. Ogni tanto mi ero concesso qualche fantasia su altre donne, però la risposta ai nostri problemi non era mai stata un’altra persona; io volevo sistemare le cose con Jan. Continuai a guardarla, mentre le sue guance riprendevano colore, e ricordai i tempi prima del matrimonio, ricordai la luna di miele, cose del genere. Provavo molta tenerezza per lei, e l’impulso quasi aggressivo di proteggerla. Poi scivolai nel sonno anch’io.

— Nick?

— Sì? — Aprii gli occhi ed eseguii un veloce controllo dei miei sistemi. Sì, stavo proprio guarendo.

Cos’è successo ieri sera? Non ricor… — La sua voce si spense. Jan, aggrottata, fissò i piedi del letto. Poi riportò lo sguardo su me. — Nick! Ieri sera. Ho… ballato? Sì?

— Be’, sì. Un po’.

— Da sola?

Io annuii, guardandola.

— Strano. Quasi non ricordo. Riesco a intravedermi per un attimo, poi l’immagine scompare. — Sgranò gli occhi. — E ho anche cantato, vero? Sulla piattaforma.

Annuii di nuovo.

— Oh, Nick, ma è mostruoso! — Jan si coprì il viso con le mani. — Perché non mi hai fermata? Cosa dirò agli Hurst? — Abbassò le mani e mi fissò, colma di meraviglia. — E poi… Non sono del tutto sicura di ricordare. È come un sogno che mi sfugge. Però… Non abbiamo fatto un giro in auto? A velocità folle? Sbandando in curva? E tu non hai… Sì, Nick. Tu hai lanciato una bottiglia contro un albero!

Annuii un’altra volta.

— Non capisco. Noi non siamo tipi da sbronze! — Jan restò a fissarmi.

Non sapevo cosa rispondere. Non sapevo nemmeno se fosse il caso di dire qualcosa. Scrollai le spalle. — Be’, a volte succede. A tradimento. — C’era un inizio di colore sulle sue guance, ma sotto gli occhi Jan aveva borse nere. Era delicata, fragile, e un’ondata di colpevole tenerezza corse nel mio corpo. — Sono contento che tu ti senta meglio.

Lei sorrise al tono di verità della mia voce. — Lo so. Stai meglio anche tu, no? — Annuii. — Ne sono lieta.

Mi chinai su lei e la baciai teneramente. Poi mi sporsi sul vassoio, presi fra le mani le sue spalle, e la baciai di nuovo, molto più a lungo, con forza. Volevo chiederle perdono per ciò che avevo fatto, e mi pareva che quello fosse il modo giusto. — Ehi! — Jan finse di restare senza fiato. — Che storia è questa? E col doposbornia e tutto quanto.

Sorrisi. — Specialmente con un doposbornia. A me succede così. Non so perché. Mi è sempre successo.

— Sempre? Il che significa…

— Lasciamo perdere la storia antica. Quello che conta è l’oggi. — Mi sporsi ancora sul vassoio, protendendomi verso lei.

— Allora forse è il caso di liberarci di questo, santo cielo. — Jan prese il vassoio e lo mise sul pavimento. Poi si girò verso me, e ci baciammo, a lungo ma dolcemente. Poi appoggiammo tutti e due la testa su un unico cuscino. Sorridemmo, felici l’uno dell’altra, felici di sapere che stavamo per fare l’amore: una sensazione tranquilla, familiare, quasi languida, accentuata dagli ultimi residui del doposbornia.

Ci baciammo di nuovo, ci avvicinammo, ci mettemmo comodi. Jan cercò e trovò il fazzoletto che tiene sotto il cuscino e si soffiò il naso. Io tirai la coperta fin sopra le spalle di tutti e due e sprimacciai il cuscino. Alla base del mio collo era iniziata una pulsazione, un’emicrania indecisa se tornare o no. Ma non mi importava. Dovevo scaricare il fardello dei sensi di colpa nei confronti di Jan, e la cosa bella era che mi piaceva farlo. Adesso la baciavo con lenta passione, e lei rispondeva. I miei sensi cominciavano a risvegliarsi, e io sorrisi di sollievo perché mi stava piacendo quanto la sera prima. Anzi, anche di più. Le mani di Jan si intrecciarono sotto la mia nuca, e lei mi attirò a sé, baciandomi una volta e un’altra e un’altra, a raffica, con forza. Io strinsi le braccia attorno al suo corpo sino a farla boccheggiare. — Jan?

— Sì?…

Provai la travolgente tentazione di convincermi che mi ero ingannato. Avrei voluto crederlo. Gesù, quanto avrei voluto. Ma sapevo che quello era il momento della verità, il test che dovevo assolutamente superare. La spinsi via con tanta violenza che le sue mani intrecciate si divisero in maniera brutale, e lei urlò. Ma io continuai a spingere freneticamente, usando entrambe le mani. — No, porca miseria, no! — Stavo urlando. — Sei tu, e lo so!

— Oh, che differenza fa? — disse Marion, rabbiosa.

— Tutta la differenza di questo mondo! — Avevo steso le gambe per tenerla lontana; la pianta di un piede era premuta contro il suo stomaco.

— Già, è proprio così, no? Tutta la differenza di questo mondo. — Il viso di Jan mi sorrideva, ma gli occhi, sensuali e maliziosi, erano quelli di Marion.

Sono un patito di film muti, definizione che non mi piace molto, ma non ne ho una migliore. E ho visto molte vecchie cose di Keaton, Laurel e Hardy, Chaplin, Mack Sennett. Quindi so che i migliori pezzi forti delle vecchie comiche sono tutt’altro che abborracciati. Poste le premesse iniziali, alcune di queste bellissime vecchie sequenze (come Keaton e il mortaio sul carrello ferroviario, in Il generale) hanno una logica meravigliosa; ogni evento nasce inevitabilmente dal precedente. In un senso molto bizzarro, sono realistiche; sono scene che potrebbero succedere. Quindi, non mi meravigliò scoprire che ciò che accadde lì, nella mia camera da letto, si trasformasse in qualcosa che i poliziotti delle comiche avrebbero capito.

Lei cercò di spostarsi verso me, ma il mio piede era ancora premuto contro il suo stomaco, la teneva ferma; e lei disse: — Nickie, tu ne hai voglia, e lo sai!

Lo sapevo. — No, non ne ho nessuna voglia. Adesso piantala.

All’improvviso, lei fece correre una mano sulla mia gamba, sotto i calzoni del pigiama, grattando con le dita, e la mia gamba si ritrasse per un riflesso automatico. All’istante, lei strisciò verso me, e io abbassai un piede sul pavimento e mi alzai su una gamba sola, traballando. Lei si scaraventò verso me, ridendo come un’ossessa, e una mano scattò ad afferrare un’estremità della cordicella del mio pigiama. La mano diede uno strattone, il nodo si sciolse, e i miei calzoni precipitarono sul pavimento in una pozzanghera di stoffa bianca che mi arrivava alle caviglie. Io mi chinai subito a raccoglierli, ma lei era ormai all’orlo del letto, tentava di abbrancarmi, e io schizzai all’indietro. Un piede uscì dai calzoni, che mi seguirono nella corsa penzolando dall’altra caviglia. Marion stava rotolando giù dal letto in un turbinio di camicia da notte rosa e gambe scaldanti. Io mi sentivo nudo, scoperto. Abbassando con una mano l’orlo della giacca, corsi nella stanza, e liberai l’altro piede dai calzoni. Sul fondo della stanza c’è un grande armadio che occupa tutta la parete. L’anta più vicina a me era aperta, e io entrai. È un’anta scorrevole; la richiusi subito.

Venne riaperta all’istante. Davanti a me c’era Marion, che sorrideva eccitata. Fece un passo avanti, e io schizzai via, scostando freneticamente gli abiti appesi. — Marion, per amor del cielo! È assurdo!

— Però divertente! Divertiamoci nell’armadio, Nick! Urrà!

Adesso ero nella zona di Jan del lungo armadio. Avanzavo alla cieca, scaraventando indietro sull’asticella chili di vestiti. Marion, che mi inseguiva, se li gettava alle spalle quasi con la mia stessa velocità. Era come se stessimo nuotando in un mare di abiti. — Nickie — strillò lei felice, con voce smorzata — non è eccitante?

In un modo piuttosto inquietante, lo era. Se solo lei mi avesse toccato con un dito, sapevo già cosa sarebbe accaduto, lì e subito. Usando entrambe le braccia in uno stile di nuoto non troppo ortodosso, mentre correvo verso l’estremità opposta dell’armadio, cominciai a scaraventare indietro quantità ancora maggiori di vestiti.

Mi fermai di colpo e restai immobile: davanti a me era apparsa una luce improvvisa. L’anta sul fondo dell’armadio si era aperta nel silenzio più totale. Mi misi in ascolto, ma non sentii niente. Stavo cercando di respirare nel modo più calmo possibile. Il silenzio continuò. Capii che lei era di fronte all’armadio, chissà dove, giuliva, ad aspettare che io decidessi per una direzione o per l’altra. Mi trovavo fra le due ante aperte, in una minuscola terra di nessuno sgombra d’abiti, a mezza strada fra la mia parte dell’armadio, che avevo di fronte, e la parte di Jan alle mie spalle. Mi protesi in silenzio. Le mie dita sfiorarono del nylon, e riconobbi la mia giacca da sci. Con molta lentezza, tastai sotto la giacca, toccai un materiale ancora più morbido, e lo strinsi nella mano.

Poi la sentii. Ci fu un tintinnio improvviso di appendiabiti: stava avanzando verso me dalla parte di Jan. Probabilmente sperava di catturarmi mentre procedevo in quella direzione. Sotto le mie camicie, vestiti e calzoni appesi c’era uno spazio vuoto alto un metro. Mi accoccolai sui talloni, poi corsi avanti a testa bassa, e nel silenzio più totale rientrai in camera da letto piegato in due a mo’ di oca. In una mano avevo i miei calzoni da sci azzurro cielo. Mi alzai, mi misi in equilibrio su un piede, e infilai sull’altra gamba i calzoni. Ma ero stato troppo precipitoso: persi l’equilibrio, e fui costretto a mettermi a saltellare. I tonfi del mio piede sul pavimento risuonarono forti come martellate.

La sentii cambiare immediatamente direzione nell’armadio, e poi lei apparve dall’anta sul fondo, dalla parte di Jan. Restò a guardarmi. Sollevò lentamente entrambe le mani all’altezza delle spalle, curvò le dita ad artiglio, e distorse il viso in una parodia cretina di lussuria. Le sue spalle chine in avanti tremavano in una risata muta. A passi lenti, si avviò verso me.

Quando ti inseguono, ti lasci prendere da una specie di panico illogico. Senza riflettere, mi buttai sul pavimento della stanza a quattro zampe, mi diedi una spinta robusta premendo i piedi contro l’armadio, e scivolando sul pavimento mi infilai sotto il letto.

Rotolando freneticamente sullo stomaco, mi girai verso la stanza; poi rimasi lì, sotto il letto, a guardare i suoi piedi nudi, l’orlo della camicia da notte. Marion si aggirava nella camera, boccheggiando per le continue crisi di riso. Avevo una gamba infilata nei calzoni da sci, e cercai di infilare anche l’altra nello spazio di pochi centimetri sotto il letto, ma non riuscivo a trovare l’apertura, non potevo muovermi o vedere alle mie spalle; sudavo come un maiale. Poi il mio piede trovò l’apertura dei calzoni, e, furibondo, infilai l’altra gamba con tutta la forza che avevo.

Lei era china a scrutarmi, coi capelli che quasi toccavano il pavimento. I suoi occhi capovolti, e molto eccitati, erano puntati nei miei. Per un momento, entrambi immobili, ci fissammo. Poi, sotto il suo viso rovesciato, apparve una mano. L’indice piegato a uncino mi invitò lascivamente a uscire, e io mi misi a bestemmiare.

Marion si rialzò. Il letto cominciò a muoversi sulle rotelle, per mettermi a nudo. Io reagii prima di riflettere. Come un soldato che strisci sotto il fuoco nemico, avanzai su gomiti e ginocchia per tenere il passo col letto. Poi, finalmente, il mio cervello riprese a funzionare. Avevo sbattuto la testa contro le molle del letto; mi ero fatto male ai gomiti cadendo sul pavimento; ero accaldato, impolverato, rabbioso; in quel momento, ero in grado di resistere a qualunque donna. Smisi di muovermi e lasciai che il letto si spostasse sino a espormi.

Con una certa difficoltà, mi tirai su aggrappandomi alla testata del letto, che adesso era al centro della stanza, e mi eressi in tutta la mia statura. Somigliavo un po’ a un tritone, immagino, con le gambe incollate l’una all’altra; perché, scopersi, le avevo infilate tutte e due nella stessa gamba dei calzoni da sci. Marion non riusciva a parlare. A braccio teso, puntava l’indice sulle mie gambe fasciate dalla stoffa elastica che sembravano un’unica gamba, enorme e stranamente contorta, con due piedi che spuntavano da un solo risvolto teso fino all’incredibile. Lei era scossa dalle risate, aveva gli occhi sgranati di deliziato stupore. Che io sia dannato se mi metto a saltare, dissi, e restai lì, attaccato alla testata del letto; poi fui costretto a sorridere a mia volta. Marion crollò sul letto, scossa da risate frenetiche, ululando, e io la guardai, e per un po’ continuai a sorridere, poi scoppiai a ridere con lei.

Marion si calmò. Sdraiata sul letto, con le lacrime che le scendevano sulle guance, boccheggiava in cerca d’aria, scuoteva la testa per l’incredulità. Io la guardai, e lottai con me stesso. Lottai con foga maggiore. Lottai furiosamente. E persi. Non potevo camminare, così avanzai balzelloni, piroettai nell’aria, in una nube di stoffa bianca e azzurro cielo. Atterrai al suo fianco, e la abbrancai al primo tentativo.

Quando, più tardi, mi rizzai a sedere, lo feci molto lentamente. Afferrai la coperta, la tirai su, me la avvolsi attorno alle spalle, con un angolo che mi copriva la testa, e restai seduto sul letto, le braccia strette attorno alle ginocchia. — Oh, porca miseria — dissi. — Porcaccia, porcaccia, porcaccia miseria.

— A volte mi fai uscire dai gangheri. — Marion sprimacciò un cuscino, poi si coricò, si coprì col lenzuolo. — Però, che pigiama party! E tu lo sai bene! — Sorrise. — Com’è bello essere tornata! Amare ancora!

— Allora vai a possedere qualcun altro, per la miseria!

— Non posso entrare in una persona qualunque! Questa è casa mia, il mio posto, quindi devo possedere Jean, Jane, June, come diavolo si chiama. Non penserai che mi piaccia? — Fece scendere su un occhio una ciocca di capelli. — Guarda questi capelli stitici. Che colore schifoso. — Lasciò cadere la ciocca. — E sopracciglia folte! Braccia scheletriche! — Una gamba spuntò da sotto il lenzuolo, si alzò in aria, molto aggraziata. — Le gambe non sono male, devo dire. Anche se le mie erano meglio. — Con un sorriso ironico, restò in quella posa finché io non distolsi lo sguardo; poi abbassò la gamba nella mia direzione, con le dita dei piedi tese in avanti per sottolineare l’armonia delle curve.

— Piantala.

Marion riportò la gamba sotto il lenzuolo e cominciò a emettere suoni schioccanti. — L’interno della sua bocca è strano. Non è abbastanza grande, o qualcosa del genere. Però per baciarsi va bene, eh, Nickie? — All’improvviso, tese le braccia, inarcò il corpo sotto il lenzuolo sino a farlo appoggiare soltanto su spalle e talloni. — Oh, è meraviglioso, Nick! Tutto è meraviglioso! È meraviglioso semplicemente potersi stiracchiare! Me n’ero dimenticata! — Si rimise sdraiata, e vide il vassoio sul pavimento, dalla sua parte. — Ehi! È un sacco di tempo che non bevo champagne! — Si sporse dal letto, riempì due bicchieri, si girò e me ne passò uno. Io sorseggiai il mio di pessimo umore. Lei assaggiò, poi mandò giù d’un fiato. — Ragazzi! Se è buono! Dove la trovi roba del genere?

— In un negozio di liquori dalle parti di Haight Street.

— I distillatori clandestini hanno un negozio?

— No. Il proibizionismo è finito, Marion. Da molto prima che io nascessi.

— Be’, un sacco di problemi in meno. — Marion prese la bottiglia, riempì il suo bicchiere, tenne in mano la bottiglia, impaziente, finché io non ebbi finito di bere, poi fece il rifornimento anche a me.

— Marion, devi andartene. E lasciarci in pace. Devi.

— Finché resta ancora dello champagne? Tu non conosci Marion Marsh.

— Sto cominciando a conoscerla.

Finimmo la bottiglia; restava meno di mezzo bicchiere a testa. Marion svuotò il suo, la testa piegata all’indietro, assaporando le ultime gocce, poi mise il bicchiere sul comodino e schioccò le labbra. — C’è bisogno di un altro po’ di questa ottima, ottima roba, Nickie.

— Mai. Tu devi andartene, porca miseria!

Lei lanciò via il lenzuolo e si alzò, nuda e bellissima. Andò all’armadio. L’anta della parte di Jan era aperta. Marion infilò un piede e poi l’altro in un vecchio paio di scarpe di Jan, le uniche coi tacchi alti. Prese la borsetta di Jan dal cassettone, si girò verso la porta della stanza; e mentre usciva, allungò un braccio nell’armadio e prese il soprabito di Jan.

A tempo di record, indossai calzoni e camicia direttamente sopra la giacca del pigiama, e un paio di mocassini sui piedi nudi. Infilai la camicia nei pantaloni mentre correvo giù per le scale. Ma quando arrivai al marciapiede, lei aveva già fatto un bel pezzo di strada. Era quasi all’angolo. Saltai sulla Packard e cominciai a scendere la collina, accelerando per quanto osavo. Prima che io raggiungessi l’angolo, lei svoltò a destra.

Le tenni dietro. Mi infilai direttamente in un parcheggio in fondo all’isolato. Marion era cinquanta metri più avanti di me. Superati il negozio di gastronomia, il salone di bellezza e il parrucchiere, si dirigeva al negozio di liquori la cui insegna si protendeva sul marciapiede, in fondo all’isolato. Quasi direttamente sotto l’insegna, una donna robusta era girata nella direzione dalla quale arrivava Marion. Stava muovendo la bocca, e dopo avere spento il motore mi resi conto che stava chiedendo aiuto con un fil di voce. Ripeté l’invocazione, senza urlarla, quasi sussurrando: — Aiuto. — Poi disse: — Polizia. — Non guardava Marion, ma la schiena di un uomo che si stava allontanando da lei. L’uomo non era vecchio, come mi era parso a una prima occhiata, ma solo molto malconcio. Indossava un cappotto eccessivamente lungo e sporco che gli arrivava fino alle scarpe slacciate; in testa aveva una cuffia abbassata su orecchie e fronte. Stava scrutando Marion, mi resi conto; e in quell’istante, a una decina di metri da Marion, continuando a camminare a passi misurati, l’uomo spalancò il cappotto. Io bestemmiai e scesi dall’automobile. Perché, a parte le scarpe, l’uomo era completamente nudo sotto il cappotto: un esibizionista che teneva ben discosti l’uno dall’altro i lembi del cappotto, gli occhi puntati in quelli di Marion.

Marion non strillò, non rallentò, non distolse lo sguardo, non esitò. All’istante, spalancò il proprio soprabito; e i due, nudi come vermi sotto quell’unico strato di stoffa, fecero ancora qualche passo l’uno verso l’altro, mostrandosi come mamma li aveva fatti.

L’uomo, scioccato, restò a bocca aperta. Si fermò, guardò orripilato; poi alzò le braccia, si riavvolse nel cappotto, se lo strinse addosso, girò sui tacchi e scappò.

Si trovò a correre nella direzione della donna robusta, la quale urlò, si girò, e si diede alla fuga. Tutti e due (la donna che barcollava per il panico, l’uomo che strascicava i piedi per non perdere le scarpe) corsero in strada con una lentezza surreale. Marion, di nuovo avvolta nel soprabito, fece la sua maestosa entrata nel negozio di liquori.

Ero troppo scosso da una risata muta, con le spalle che mi tremavano, per protestare quando la seguii in negozio. Lei comperò quattro bottiglie di champagne. Dei soldi che c’erano nella borsetta di Jan rimasero solo diciannove cents.

Ricordo con una chiarezza abbagliante una parte di ciò che accadde dopo, e del resto non so nulla. Ricordo una corsa giù per le scale interne di casa mia, bottiglie alla mano; Marion indossava la vestaglia rossa con decorazioni in oro e le pantofole di Jan. Sul portico, bussammo a forza di pugni alla porta dei Platt, torcendoci dalle risate. E ricordo le loro facce quando corsero alla porta, la spalancarono, e si trovarono di fronte noi due. Stavano pranzando. Ricordo di averli invitati su a bere champagne, ma non ricordo che siano venuti.

E ricordo Marion e me in cucina, intenti ad aprire una bottiglia di champagne: io la tenevo ferma, e lei girava il tappo. Al grattò alla sua porticina, e io la aprii con un piede. Lui spinse col naso, entrò, e si fermò di botto. Immobile, paralizzato a metà di un passo, fissò Marion. Ovviamente, non riconosceva Jan; quella era un’estranea, e lui la studiò con cautela. Poi Marion estrasse il tappo, si chinò, schioccò amabilmente le dita, e Al le si avvicinò prudentemente. Qualche grattatina sul collo, ed erano amici.

Dovevano essere arrivati i Platt, perché erano lì: Frank sul sedile del bovindo, un bicchiere in mano, pronto a sorridere a qualunque cosa succedesse o venisse detta; Myrtle che scendeva di corsa a casa sua, poi tornava su con un mucchio di vecchi dischi che mise sul tavolino da caffè. Marion frugò nei dischi, disse: — Per mille capperelli, Eddie Cantor! — e me ne passò tre o quattro. Riuscii a infilarli sull’asta del giradischi dopo un paio di tentativi, accesi l’apparecchio, e il suono uscì alla velocità della voce di Paperino, e ululammo tutti. Marion ne fu deliziata; era la prima volta che sentiva musica così veloce. Regolai il giradischi sui 78 giri e ripartimmo.

Ricordo chiaramente di essermi sdraiato sul divano, a grattare le orecchie di Al. Myrtle e Frank, fianco a fianco sul sedile, sorridevano mentre Marion cantava le parole di Ida! Sweet As Apple Cider!, schioccando le dita, all’unisono con la voce ricca, melodiosa di Eddie Cantor. E ricordo Marion insegnarci “come balla Eddie Cantor”. Ci disse di allargare le dita di entrambe le mani, poi avvicinare le mani l’una all’altra e staccarle subito dopo, facendo toccare soltanto le punte delle dita, in una sorta di applauso muto. Diventati padroni di quella tecnica con l’aiuto di altro champagne, Marion ci insegnò a sgranare gli occhi in modo esagerato facendoli roteare di continuo nelle orbite. Dopo di che, roteando gli occhi, applaudendo con le punte delle dita, sollevando il più possibile le ginocchia, cominciammo a dimenarci nella stanza al ritmo di Makin’ Whoopee! Al abbaiava.

Se quello era il modo di ballare di Eddie Cantor, ci piaceva, e tutti quanti sembravamo conoscere più o meno bene le parole di Makin’ Whoopee!; compreso Al, che le ululava con la testa rivolta al soffitto. Accompagnati dalla voce a tutto volume di Eddie Cantor, urlammo e ululammo la canzone, dimenandoci per tutte le stanze della casa nello stile di danza di Eddie Cantor. Pavimenti e vetri delle finestre vibravano, e dopo un po’ da una parete del soggiorno cadde una fotografia incorniciata.

Però non mi sembrò mai di essere ubriaco; o se lo ero, lo champagne mi provocava una forma diversa, più leggera di sbornia. Il pomeriggio passò al volo. Marion continuava a chiedermi che ore fossero, all’infinito mi parve, anche se la cosa non mi diede mai fastidio. Io sorridevo e rispondevo: — Un quarto alle cinque — … — Le sei e quindici — … — Le sette appena passate — …Non ricordo quando noi due abbiamo cominciato a ballare, però ricordo che a un certo punto ballavamo con aria sognante, guancia a guancia, senza quasi muoverci, al ritmo di The Sheik of Araby cantata da Rudy Vallee. Myrtle, seduta sul divano, ci sorrideva raggiante; Frank dormiva su una sedia. Ricordo con un forte, netto imbarazzo il mio cretinissimo senso d’orgoglio all’idea che Marion mi ritenesse degno di tanto disturbo. Le mormorai qualche parola per dirglielo. Lei rispose: — Credi di essere l’unico motivo per il quale sono tornata? Non prenderti in giro da solo, sceicco. Ho motivi molto più consistenti di questo, mi puoi credere! Che ore sono? — Ballando, passammo davanti a Myrtle, e lei disse che era meraviglioso vedere quanta dolcezza, quanta passione esistesse ancora fra Jan e me, e la mia coscienza si mise a urlare. Ma che altro posso fare?, mi chiesi mentalmente. Starmene isolato in un angolo finché lei non se ne andrà?

Ricordo di avere chiuso la portiera della Packard, di avere abbandonato la testa sulla pelle imbottita del sedile, di avere sentito sbattere l’altra portiera e il motore accendersi.

Quando mi svegliai, al volante c’era Marion, e anche se restava dello champagne nelle mie vene e nella mia mente, ancora non mi pareva di essere ubriaco. Aprii gli occhi, con la testa appoggiata all’indietro. Vidi il profilo basso di un edificio scorrere al nostro fianco, e mi resi conto di averlo già visto in passato. Stavamo rallentando all’altezza del marciapiede; era stato quello a svegliarmi. E sì, conoscevo le superfici a tegole del tetto, le mura con lo stucco beige, le porte ad arco di quell’edificio vagamente in stile missione. Cos’era?

Mi tirai su, restai a guardare mentre ci fermavamo. Marion tirò il freno a mano, spense motore e fari. L’edificio era ancora bello, però ormai vecchio, debolmente illuminato da luci troppo scarse; e accanto al lungo marciapiede con il bordo dipinto di rosso non era parcheggiata nemmeno un’altra automobile. — Nick, spicciati! Sistema l’automobile da qualche parte, portala in un garage. Faremo tardi! — Mi girai. Avvolta nel soprabito di Jan, Marion stava scendendo. Chiuse la portiera, fece il giro dell’auto, corse sul marciapiede, ed entrò da una delle porte a due ante disseminate lungo tutta la facciata dell’edificio.

Non sapevo di cosa stesse parlando Marion, però adesso sapevo dove ci trovassimo: eravamo alla stazione ferroviaria. Dopo un momento o giù di lì, scesi dall’auto, entrai, e mi fermai. Al lato opposto del locale, Marion era a uno sportello della biglietteria, girata di schiena. A parte l’impiegato allo sportello, c’era solo un’altra persona in tutta la sala d’attesa, un vecchio che aspettava seduto su una delle lunghe panche in legno. In mezzo ai piedi teneva un sacchetto di carta marrone con l’intera superficie spiegazzata, come fosse stata piegata e ripiegata un’infinità di volte.

Marion si girò, lasciò lo sportello, arrivò al centro della sala e si fermò. Io mi incamminai verso lei, ma lei non mi vide subito. Si stava guardando attorno, scrutava la vecchia stazione, studiava persino il soffitto. Avvicinandomi, notai che i suoi occhi erano esterrefatti. Quando udì i miei passi, si girò. — Nick, dice che il Lark non c’è più! — Si voltò a guardare l’impiegato all’unico sportello aperto; un ragazzo di non più di diciannove anni, un messicano con un filo di baffi, in maniche di camicia. I gomiti sul piano dello sportello, il mento sulle palme delle mani, leggeva una rivista. — Dice che non c’è più nessun treno notturno per Los Angeles! — Le parole di Marion erano un gemito. Temevo che potesse mettersi a piangere.

— Lo so. — Tesi una mano sul suo gomito. Dolcemente, le dissi: — Marion, la gente non viaggia più in treno. Non ce ne sono quasi più.

Lei non rispose, non si mosse. Si guardò attorno, a lungo. Scrutò la panche deserte e male in arnese; la lunga fila di sportelli, quasi tutti chiusi da assi di compensato; il ristorante dalla vetrina polverosa in un angolo della sala d’aspetto, con le grandi maniglie della porta d’ingresso bloccate da catena e lucchetto; il grande cartello elettrico in alto con la scritta ARRIVI-PARTENZE, che al momento annunciava solo il nulla; la tavola calda smantellata, con la fila di supporti metallici degli sgabelli ancora inchiodata al pavimento, mentre gli sgabelli erano scomparsi. Disse: — Sono venuta qui una sera. Recitavo all’Alcazar. Ero nel primo e nel terzo atto, ma non nel secondo, così ho avuto il tempo di correre qui e tornare a teatro per rientrare in scena. Doug Fairbanks e Mary Pickford stavano partendo per Hollywood.

“Tornavano a casa a Pickfair. Si erano fermati qui tre giorni. Avevano visto la commedia in cui recitavo la seconda sera, dalla quinta fila. Li avevo riconosciuti. E adesso rientravano a Hollywood. Sul Lark, ovviamente. Sono arrivata qui in tempo per vederli scendere da una grossa automobile verde scuro, con la capote di tela abbassata. Era una bella sera. È successo proprio lì.” Annuì in direzione della strada e si avviò verso la porta aperta. Io la seguii, continuando a tenerla per il gomito. “Doug salutava con la mano e sorrideva, con quel suo meraviglioso sorriso, e intanto aiutava Mary a scendere dall’auto. E anche lei aveva sulle labbra il suo bellissimo sorriso.” Ci fermammo sul marciapiede. Marion fissò la strada buia, deserta. “Lei aveva tra le braccia un mazzo enorme di rose gialle. E la loro automobile era ferma esattamente dove ho parcheggiato la tua. Qualcuno aveva tenuto libero lo spazio per loro. Però io non sono riuscita ad avvicinarmi. Sul marciapiede e in strada dovevano esserci un migliaio di persone che urlavano ‘Doug! Mary!’ Quelli più vicini cercavano di toccarli. Doug continuava a sorridere, e teneva un braccio attorno a Mary, e intanto percorrevano il marciapiede. Proprio qui, in questo punto esatto! La gente che arrivava per prendere il Lark… ce n’erano centinaia tutte le sere, Nick!… era costretta a scendere da taxi e automobili in mezzo alla strada, ai margini della folla. E la gente si alzava sui predellini delle auto, saltava in aria per cercare di vedere Doug e Mary sopra le teste della folla. Poi tutti li hanno seguiti dentro. Le entrate erano intasate. Siamo andati tutti a vederli partire. Quando il Lark ha lasciato la stazione, in perfetto orario, Doug e Mary erano sulla piattaforma panoramica, appena sopra il grosso cartello rotondo che diceva Lark. Doug salutava la folla col braccio, e Mary lanciava le sue rose alla gente, a una a una. Qualcuno si è messo a correre sul marciapiede a fianco del treno per poterli vedere fino in ultimo. Doug ha continuato a salutare e Mary a scoccare baci finché il treno non è scomparso in lontananza, e noi abbiamo risposto ai loro saluti finché sono rimasti solo due fanalini rossi e il cartello illuminato con la scritta Lark.” Marion si girò a guardare la facciata scolorita della stazione, poi si voltò di scatto, e percorremmo il marciapiede deserto fino all’automobile.

Guidai io, tenendo d’occhio Marion. Si girava a guardare la città che correva al nostro fianco, abbassava gli occhi sul pavimento dell’automobile, guardava di nuovo la città. Dopo un po’, a occhi bassi, disse: — Portami a O’Farrell Street, ti spiace, Nick? Tra la Mason e la Powell — e io annuii.

Attraversai Market Street, imboccai la O’Farrell, aspettai a un semaforo della Mason, poi ripartii lentamente verso la Powell. A metà di un isolato rallentai. — Qui?

— Un po’ più avanti, credo… No, adesso siamo troppo avanti. Oppure no? Aspetta.

Accostai al marciapiede. La capote era ancora abbassata, e Marion si girò a guardare dal retro dell’auto, poi si chinò in avanti, scrutando dal parabrezza. Studiò un edificio appena davanti a noi, sull’altro lato della via. — Moatle? E cosa significa? — Indicava un’enorme insegna in plastica gialla, rossa e bianca sulla facciata dell’edificio.

— Motel — la corressi. — È… una specie di hotel. Però senza atrio o cose del genere. Soltanto stanze e il posto per parcheggiare l’automobile… — La mia voce si spense. Marion stava scuotendo la testa per zittirmi. Chiuse gli occhi e girò la testa nella direzione opposta.

Poi riaprì gli occhi e fissò di nuovo il motel. — Ma guardalo! — disse, rabbiosa. — Gesù, com’è brutto! Portami via di qui, Nick. Un tempo lì c’era l’Alcazar.

Un isolato più avanti chiesi: — Qualcosa d’altro?

— Niente.

— Allora forse dovresti spiegarmi cosa avevi in mente prima. Alla stazione.

Irrequieta, lei rispose: — Dovevamo andare a Hollywood.

— A Hollywood. — Annuii. — E perché?

Perché? Hai visto Ragazze focose! Ero grande — disse semplicemente lei. — Stavo già lavorando in un altro film. E in quello ero ancora più grande. Saremmo andati a Hollywood, Nickie. Come avremmo dovuto fare l’altra volta! Così avrei potuto riprendere la mia carriera.

Annuii ripetutamente, poi dissi con molta dolcezza: — Be’, adesso lo sai. Questo è un mondo diverso, Marion. L’Alcazar è scomparso. Come il Lark. E magari tra un po’ sparirà anche la stazione ferroviaria. E il mondo si sta riempiendo di motel. Ragazze focose è stato tanto, tanto tempo fa. E io non sono mio padre.

Lei annuì, poi abbandonò la testa sul sedile, e io la guardai. Aveva gli occhi chiusi; le lacrime le colavano sulle guance. — Porca miseria. Avevo davanti una grande carriera!

Arrivati a casa, misi il freno a mano. Marion aprì gli occhi e alzò la testa a guardare la casa. Restò a fissarla per qualche secondo, poi si girò verso me. — Addio, Nickie. — Scosse la testa a movimenti lenti. — Sono stanca, così stanca. — Poi sorrise e mi mise una mano sulla spalla. — Però è stato bello, no? — Non le risposi. Dire di sì mi sembrava sleale nei confronti di Jan, e mi sentivo già abbastanza in colpa. — E dai, Nickie — mi sollecitò lei, delusa di me — di’ che è stato bello. Non ti succederà niente.

Restai a guardarla per qualche attimo. — Te ne vai sul serio? Per sempre?

Lei annuì, e deglutì. — Sì.

— Va bene — dissi. — Perché no, allora? Ammetterò che è stato bello perché lo è stato. Non posso farci niente. — Ci riflettei su, poi le sorrisi. — Quindi sì, è stato molto bello, Marion. In effetti, è stato meraviglioso, e io non lo dimenticherò mai.

— Perbacco. — Lei sorrise e appoggiò la testa sul sedile.

Mi sentivo enormemente meglio solo per il fatto di riuscire a dire quelle cose, ammettere la verità. — Sei una ragazza fantastica, Marion. Diversa da tutte le altre che ho conosciuto. Per più di un verso.

— Raccontalo a tutti — mormorò lei, a occhi chiusi. — Io mi impappinerei.

— Non chiedermi di fare paragoni fra te e Jan, perché non li farò. — Fissavo, attraverso il parabrezza, la strada deserta. — Però all’inferno, sì, ammetterò che è stato bello. È stato meraviglioso, Marion. Assolutamente meraviglioso.

— Di che cavolo stai parlando? — Lei si tirò su.

— Jan…?

— Jan? Ma certo che sono Jan. — Si guardò attorno, poi disse: — Oh, mio Dio — e portò una mano alla fronte, abbassando le palpebre. — Nickie… Non mi sento troppo bene. Un’altra volta! — aggiunse, e spalancò gli occhi. — Nick, abbiamo bevuto ancora, eh? Ho gli stessi… ricordi frammentari. Qualche lampo a tratti. Cosa ci sta succedendo? Bere in questo modo due sere di fila come… come se fossimo tornati agli anni Venti o qualcosa del genere!

— Champagne per il doposbornia. È stato quello il nostro grande errore. — Mi protesi ad aprirle la portiera, per troncare la conversazione, e lei scese.

Ma a casa nostra, tutte le luci erano accese, i mobili del soggiorno erano spostati, c’erano patatine fritte rovesciate per tutto il tappeto, una bottiglia vuota di champagne su una sedia, e, trionfo finale dell’anarchia, Al stava dormendo sul divano. Jan guardò, poi scosse la testa, e percorremmo il corridoio verso la camera da letto. Sulla soglia lei si fermò di botto. — Cosa diavolo ci fa il letto al centro della stanza?

— Be’. Hai. Detto. Che. Volevi risistemare l’arredamento.

Non mi ascoltava. Entrata nella stanza, puntò l’indice sul pavimento. — E cosa ci fanno i calzoni del tuo pigiama ?

— Be’… — Tentai un sorrisetto sconcio. — Ce li hai buttati tu.

— Non lo ricordo. — Jan aggrottò la fronte. — Perché dovrei buttare sul pavimento i calzoni del tuo pigiama? A dire il vero, non ricordo nemmeno che abbiamo… Oppure sì? Ricordo di avere cominciato… — A me parve che la cosa più saggia da fare fosse metterci a letto e spegnere la luce, e cominciai a slacciarmi la camicia. Ma Jan adesso puntava l’indice in alto, verso l’anta aperta dell’armadio, e la sua bocca era spalancata per lo stupore. — Cosa ci fanno lassù i tuoi calzoni da sci?

— Be’. Tu. Volevi aggiustarli. Li hai messi lì per ricordartelo. Uno dei risvolti si è scucito. Vedi?

Aggiustarli? I tuoi calzoni da sci? Perché dovrebbero venirmi in mente in un momento come… — Jan si era girata. Si stava sbottonando il soprabito, e restò a fissarmi. — Hai sotto la giacca del pigiama!

— Cristo! — Avevo esaurito le risposte, ma Jan non lo notò. Si fermò a riflettere, poi andò a passi lenti all’armadio, si tolse il soprabito, lo appese, si voltò, poi si accorse del vestito che indossava: cortissimo, e decorato da quelle che sembravano manciate gettate a caso di colori fondamentali. — Avevo detto che non lo avrei mai più messo… Odio questo vestito!

Andò al letto e sedette, scrutando pensosa la stanza. Io, cercando di non dare nell’occhio, recuperai i calzoni del pigiama facendo il minor rumore possibile. Li agganciai col piede, mi tolsi i pantaloni, infilai quelli del pigiama. Stavo appendendo i calzoni quando sentii Jan mormorare: — Adesso mi ricordo di quando lo abbiamo fatto. — Mi girai di scatto a guardarla, ma lei sorrideva e annuiva. — Più o meno — aggiunse. — Una cosa selvaggia… Mio Dio. — Alzò gli occhi su me, improvvisamente felice. — E tu hai detto che è stato meraviglioso. Hai detto che è stato assolutamente meraviglioso. Oh, Nickie, era tanto tempo che non mi dicevi una cosa del genere. — Tentai di sorridere, trattenendo il fiato.

Jan intrecciò le mani in grembo, e il suo viso si fece pensoso. — Ma è come se… non fossi stata io. Lo ero, ovviamente, però… — Scosse la testa. — Però non lo ero. Non so nemmeno cosa voglia esattamente dire, però… — Scosse ancora la testa. — Mi ricordo di quando lo abbiamo fatto. Più o meno. A brandelli? — Restò a fissare il nulla, poi ripeté seccamente, testardamente: — Però non ero io. — Io rimasi immobile all’altro lato della stanza, in pigiama, aspettando. Jan si girò di colpo a guardarmi, a occhi sgranati. — E non ero io ieri sera! Ballare! Cantare! Fare la figura dell’idiota su quella piattaforma! Non farei mai cose simili! — Io pensai di mettermi a strillare, buttarmi sul pavimento, zoppicare su una sola gamba come se l’altra avesse un crampo, ma restai immobile, ipnotizzato. Jan si voltò di nuovo verso la parete. Con estrema lentezza, disse: — E non ero io nemmeno due sere fa. Qui. A letto. Dopo il film di Marion. — Muovendosi come in trance, Jan si alzò. In un soffio, mormorò: — Marion… Ecco cosa hai detto in automobile. «È stato assolutamente meraviglioso… Marion.» — Lo strillò. — Hai detto MARION! Mio Dio… — Crollò a sedere di colpo. — Si è… impossessata di me. Giusto? E tu lo sapevi. Tu lo sapevi! Oh, Nickie — gemette. — Non mi sarei mai sognata che tu potessi tradirmi!

Mentii. Corsi al letto, sedetti al suo fianco, passai un braccio attorno alle sue spalle tremanti; e ascoltandomi mi trovai convincente, perché cominciai con la verità. — Non lo sapevo, Jan! Sono venuto a letto dopo il film di Marion. Tu ti sei svegliata, e… Credevo fossi tu! Mio Dio, perché non avrei dovuto crederlo? — Sotto il mio braccio, il tremito si fermò. Lei mi guardò, e sul suo viso lessi la consapevolezza che quella doveva essere la verità. Poi cominciò la menzogna. — Stessa cosa la sera dopo. Dopo il party con gli Hurst, credevo fossi t…

— In campagna? In automobile? Credevi fossi io!?

— Be’, porco diavolo, sembravi tu! E non dimenticare che eravamo ubriachi.

Lei rifletté, poi scosse la testa, e sottrasse le spalle al mio abbraccio. — Però stamattina sapevi. Perché prima, in automobile, hai detto «E stato meraviglioso, Marion!» Hai una relazione con lei!

— Oh, per amor…

— Vuoi il divorzio?

— Jan, per amor del cielo! E per cosa? Per sposare Marion? — In tono rassicurante, le dissi: — Piccola, piccola, stammi a sentire. Oggi lo sapevo, sì. Ma l’ho scoperto solo… durante.

— E con ciò?

— E con ciò cosa?

— Quando hai capito che non ero io, perché non hai smesso?

— SMETTERE!? Mio Dio, che ispirazione. L’idea è tipica, assolutamente tipica di una quantità di cose che in questa casa non vanno!

Lei saltò su, afferrò l’orlo del vestito di Marion con entrambe le mani, se lo tolse di dosso con un gesto rabbioso; e, scoppiando in lacrime, cominciò a stracciarlo in tanti pezzi; e l’emicrania in agguato nella mia testa sin dal mattino decollò a razzo.

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