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Per cinque miglia, diritta come una freccia, la pista di metallo luccicante avanzava sulla distesa del deserto. Puntava verso nordovest in mezzo al cuore morto del continente, e all’oceano, e anche oltre. Su quella terra, una volta degli aborigeni, nel corso dell’ultima generazione molte strane forme si erano levate rombando. La più grande e la più potente di queste poggiava in fondo alla pista di lancio, lungo la quale si sarebbe avventata verso il cielo.

In quella valle, tra le basse colline, dal deserto era sorta una piccola città. Una città costruita per uno scopo — rappresentato dalle cisterne di combustibile e dalla centrale elettrica in fondo alla pista di cinque miglia. Lì si erano riuniti scienziati e tecnici provenienti da tutti i Paesi del mondo. E lì la «Prometheus», la prima di tutte le navi spaziali, era stata assemblata nel corso degli ultimi tre anni.

Il Prometeo della leggenda aveva portato il fuoco dal cielo sulla terra, la «Prometheus» inglese del ventesimo secolo avrebbe portato il fuoco atomico nella casa degli Dei e avrebbe dimostrato che l’Uomo con i propri sforzi si era finalmente liberato dalle catene che lo avevano tenuto ancorato al suo mondo per un milione di anni.

Nessuno sembrava sapere chi avesse dato alla nave spaziale quel nome. In realtà, non si trattava di una nave singola, ma di due macchine separate. Con notevole mancanza di inventiva, i disegnatori avevano battezzato i due elementi che la componevano «Alpha» e «Beta». Solo la componente superiore era un vero razzo. «Beta», per darle il suo vero nome, era un «atodite ipersonico». Di norma, la maggior parte della gente lo chiamava autoreattore atomico, un modo più semplice e più espressivo al contempo.

Era stata fatta molta strada per passare dalle bombe volanti della Seconda Guerra Mondiale alla «Beta» di 200 tonnellate che sfiorava l’atmosfera a migliaia di miglia orarie. Eppure entrambe operavano in base allo stesso principio: l’uso della velocità in avanti per fornire la compressione al getto. La differenza sostanziale stava nel combustibile. Le V-1 bruciavano idrocarburi; la «Beta» bruciava plutonio e la sua gittata era praticamente illimitata. Fino a quando le prese d’aria dinamiche avessero raccolto e compresso il tenue gas dall’alta atmosfera, la fornace al calor bianco della pila atomica l’avrebbe fatto erompere dai getti. Solo quando alla fine l’aria si fosse fatta troppo sottile per fornire potenza o supporto, essa avrebbe avuto bisogno di iniettare nella pila il metano dei serbatoi di combustibile, e con ciò sarebbe diventata un razzo puro.

La «Beta» poteva abbandonare l’atmosfera, ma non avrebbe mai potuto sfuggire completamente alla Terra. Il suo compito era duplice. Il primo era quello di trasportare i serbatoi di combustibile nell’orbita attorno alla Terra e di lasciarveli a girare come piccole lune fino a quando fossero stati necessari.

E solo quando ciò fosse avvenuto essa avrebbe spinto «Alpha» nello spazio. La nave più piccola a quel punto avrebbe fatto rifornimento in orbita libera attingendo ai serbatoi in attesa, quindi avrebbe acceso i motori per staccarsi dalla Terra e compiere il suo viaggio verso la Luna.

Continuando a girare pazientemente, la Beta avrebbe atteso fino a che la nave spaziale fosse tornata. Alla fine del suo viaggio di mezzo milione di miglia, l’«Alpha» avrebbe avuto a stento combustibile sufficiente per entrare in un’orbita parallela. A questo punto, l’equipaggio e le attrezzature sarebbero stati trasferiti nella «Beta» in attesa, ancora fornita di combustibile sufficiente a riportarli sani e salvi sulla Terra.

Era un progetto elaborato, ma, anche con l’energia atomica, era ancora l’unica strada praticabile per fare il viaggio attorno alla Luna con un razzo che pesava non meno di diverse migliaia di tonnellate. Inoltre, c’erano diversi altri vantaggi. «Alpha» e «Beta» avrebbero potuto svolgere i loro compiti separati con un’efficienza che nessuna nave singola avrebbe potuto sperare di portare a compimento. Era impossibile combinare in un unico veicolo la capacità di volare attraverso l’atmosfera terrestre e quella di atterrare sulla Luna priva d’aria.

Quando fosse giunto il momento di effettuare il viaggio successivo, l’«Alpha» sarebbe stata lì a circolare attorno alla Terra, pronta ad essere rifornita nello spazio e rimessa in uso.

Nessun viaggio successivo sarebbe mai stato difficile quanto lo era stato il primo. Perché ora ci sarebbero stati motori più efficienti; e più tardi ancora, quando fosse stata fondata la colonia lunare, sulla Luna vi sarebbero state stazioni di rifornimento. Poi sarebbe stato facile. I voli spaziali sarebbero diventati un’offerta commerciale — anche se ciò non sarebbe accaduto prima di mezzo secolo.

Frattanto, la «Prometheus», alias «Alpha» e «Beta», luccicava sotto il sole australiano, mentre i tecnici lavoravano su di essa. Si stavano installando e controllando le ultime apparecchiature: il momento del suo destino era imminente. In capo a poche settimane, se tutto fosse andato bene, essa avrebbe portato le speranze e le paure dell’umanità nelle solitarie profondità al di là del Cielo.

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