Quando mi svegliai nella vasca del Limbo, cominciarono subito. Ero andata a procurarmi un corpo nuovo a BOO, e poi l’avevo rovinato, e superavo ancora la mia razione, ed era ora che la smettessi, e al prossimo cambio… probabilmente urlai e mi feci venire una crisi o qualcosa del genere. A quanto pareva, tutti i miei cavi emotivi erano aggrovigliati e qualcosa si era sovraccaricato ed era esploso. Urlai e urlai. Poi mi dissero che urlavo che non volevo un corpo nuovo, volevo restare in eterno nella vasca. Si preoccuparono per me, e centinaia di Q-R cominciarono ad agitarsi intorno a me, cercando di calmarmi. Mi promisero che avrei avuto il corpo che volevo, e che non aveva importanza anche se superavo la mia razione, e su, su, prima o poi dovevo andarmene perché c’erano altri che aspettavano.
Raddoppiarono il numero delle persone che aspettavano ogni volta che tiravano fuori quell’argomento, e immagino che alla fine mi lasciai prendere dall’altruismo e accettai di venir fuori.
Scelsi un corpo femminile terribilmente ordinario. Era magro e fragile, con i seni insignificanti e i capelli lisci e disordinati. Lo progettai con impegno lento, meticoloso, perverso. Feci le gambe e la vita troppo lunghe, gli occhi scuri e opachi, dietro cui nascondermi e stare al sicuro. Sarei stata una stranezza, non come Hatta nella sua ossessione per l’orrore, ma aliena, in un mondo in cui quasi tutti erano bellissimi. Poi restai nel Limbo per millenni, e mi lasciarono fare: solo di tanto in tanto mi ricordarono che avrei fatto bene ad andare a casa.
Vennero a trovarmi Hergal e Hatta.
Hergal era ridiventato un maschio affascinante, guardò il mio aspetto squallido e triste e sembrò un tantino a disagio. A lui piaceva l’erotismo, dopotutto. Hatta invece mi accettò con ogni battito dei suoi quattro occhi rosa carico.
Furono molto prudenti e gentili. Così prudenti e gentili che mi parvero sprezzanti e privi di tatto. Hergal continuava a dire frasi spiritose e a parlarmi delle cose meravigliose che c’erano da vedere fuori, adesso. Hatta si tratteneva a stento dal ripetere la sua abominevole proposta di matrimonio. Ma immagino che mi fecero un certo effetto. Decisi di tornare a casa.
Non mi vollero lasciare andare con la mia sfera. Furono molto diplomatici, ma irremovibili. Mi portarono a casa in volo, con un avioplano a comandi robot, impossibile da manomettere e dai calmanti toni gialli.
Andai sotto al portico, sotto il fiore d’oro che si apriva e si chiudeva, e vagai per le stanze pulitissime, dove alcune macchine erano ancora impegnate a spolverare e a lucidare. Andai in giardino, e all’improvviso vidi la mia bestiola, accanto alla piscina, impegnatissima a lavarsi meticolosamente.
«Oh, bestiolino!» gridai. Ricordo che l’avevo mandato via, a casa da solo, così crudelmente, solo perché mi ricordava i giorni che avevo trascorso con Lorun. Pensai a tutto il tempo che l’avevo lasciato solo, senza pensare mai a lui, e fui presa da brucianti rimorsi. Mi precipitai a braccia aperte, e quello lanciò un ringhio acuto, isterico, e fuggì via per il giardino, urlando.
Mi sentii sconvolta e indebolita. Era il colpo finale. Sedetti sull’orlo della piscina, stringendomi le braccia rifiutate, straziata dal dolore e dal rimorso, e all’improvviso capii cos’era successo. Avrei dovuto ridere, tanto era semplice. Il bestiolino non aveva agito per risentimento, ma per autentica paura. Ero cambiata. Non ero più la ragazza Jang dai capelli scarlatti, dalla vita esile e dal seno esotico, tutta bellezza e grazia. Ero uno stecco sgraziato, magro, con la faccia sbiadita. Non mi conosceva. Farathoom! Probabilmente avevo persino un odore diverso!
Perciò balzai a bordo della mia sfera, mi precipitai al Limbo ed entrai con passo di carica. Mi guardarono con aria strana, quando mi videro. Spiegai tutto e loro arretrarono, dicendo: «Oh no, ehm, no, no, ehm, no di certo…» E allora ricordai come avevo conquistato involontariamente la loro comprensione, prima, e mi feci prendere da un finto attacco isterico, urlai le cose terribili che avrei fatto, per esempio buttarmi nella vasca così com’ero. Mi spruzzarono addosso qualcosa che mi fece cadere inerte, poi discussero concitati e ammisero che era meglio assecondarmi. Così dissi che ripescassero il mio incartamento e ordinai una copia esatta di quello che ero stata, con i capelli scarlatti e tutto il resto.
Mi avviai verso la piscina, il tintinnio delle catenelle di anemoni d’oro e di conchiglie purpuree, cantando una canzoncina Jang. Ero impreparata a quello che successe. La bianca cometa lanosa schizzò fuori dall’erbavetro e mi balzò tra le braccia, coprendomi la faccia di baci umidi.
«Oh, che sciocchi che siamo.» Per poco non piansi, mentre ci rincorrevamo intorno alla piscina e ci rotolavamo sui fiori di seta.
Il bestiolino mi lanciò all’improvviso una lunga, saputa occhiata arancione. Sembrava voler dire: «Sai, qui prima è venuta una stupida femmina che cercava di spacciarsi per te.»
Dopo le cose non andarono troppo male. Sposai Hergal per tre unit, e fu una cosa molto groshing. Il bestiolino lo prese in simpatia, ma Hergal era sempre un po’ tosky, e continuava a guardarsi nervosamente intorno per assicurarsi che quello non si avvicinasse furtivamente per ucciderlo o chissà che. Tutti pensavano che era molto originale da parte mia tornare a un corpo precedente, e molti cominciarono a fare lo stesso. Era divertente. Qualche volta, riuscivi a riconoscere qualcuno. Poi Hergal e Kley si sposarono e andarono a BOO per un po’ di tempo; Kley era femmina e urlava con tutti, perché inspiegabilmente quand’era femmina era sempre così aggressiva. In quanto a Danor, che era ancora una ragazza, era al centro dell’attenzione generale, perché aveva smesso di far l’amore con chichessia; naturalmente tutti le correvano dietro, persino i Jang di altri circoli, e a Quattro BEE era venuto di moda «spasimare per passare un vrek tra le sue braccia.» Ma tra me e Danor c’era ancora una sorta d’ombra gelida e non ne parlavamo mai.
Ricomparve Hatta, e scoprii che anche lui era ritornato a un vecchio corpo, quello con i tre occhi gialli e le chiazze. Comunque, se non altro aveva una testa sola.
«Al Limbo non te l’avevo chiesto,» cominciò, «ma vorrei ancora che mi sposassi per un po’, anche per una mattina sola, se vuoi.»
«Te l’ho già detto,» risposi.
Hatta sospiro; doveva essere addolorato, anche se era difficile capirlo, attraverso quella sua bruttezza.
«Tu non comprendi,» disse.
«No, credo di no.»
«Non comprendi,» insistette lui, in tono patetico, «che non è importante il corpo in cui mi trovo? Sono sempre io.»
«Bene, mettiti in un corpo groshing e ti sposerò immediatamente,» dissi esasperata. «È una promessa.»
«No, no, no,» gemette Hatta. «Oh, senti, ooma. Ti voglio… voglio te. Sei stata cento corpi diversi: ti ho voluta come sei adesso, com’eri con quei capelli d’argento e le antenne com’eri tanti vrek fa con la pelle sfumata di celeste e gli occhi d’oro. Ti ho voluta quand’eri maschio. Ti ho voluta anche quando, l’ultima volta, eri pallida e magra, una ragazza da niente. Tu non puoi fare altrettanto? Non è il corpo che conta: l’aspetto fisico è un scherzo, a Quattro BEE e BAA e BOO. Non ha importanza. È come volere qualcuno solo perché porta anelli rossi alle dita dei piedi. Oh, ooma, non riesci a capire?»
E quasi lo capii. Davvero. Ma non sopportavo l’idea di fare l’amore con lui così com’era adesso.
«Vattene, Hatta,» scattai.
E lui se ne andò.
E quella sera Quattro BEE fu sconvolta, stordita, abbagliata, sbalordita e sorpresa dalla notizia della Grande Spedizione Archeologica.
Le comunicazioni si incrociarono lampeggiando attraverso la città. Un «sintomo dei tempi,» dicevano: un «desiderio generale di uscire e di fare qualcosa!» Io conoscevo molto bene quella sensazione.
A quanto sembrava quell’uomo, un maschio anziano di BEE, aveva individuato quelle che secondo lui potevano essere antiche rovine, nel deserto tra BEE e BOO, ma molto lontano dalla rotta delle navi delle sabbie. Era molto probabile, perché ormai nessuno si addentrava nel deserto, se non per precipitarsi verso un’altra città, preferibilmente senza guardarsi intorno. Ma quel maschio — sembrava proprio un tipo eccentrico, eccitante — c’era proprio andato con il suo speciale avioplano privato… con i finestrini trasparenti! Aveva fatto non so che studi sulla storia pre-città, sulle guerre e sulle saghe e non so su che altro, e sulle civiltà che ne erano nate, come fenici sgargianti, nomadi e insediate nel deserto e così via.
Io rimasi affascinata, quando le notizie continuarono, a lungo. Finivano dicendo che questo supermaschio cercava volontari. Per poco non diventai zaradann. Chiamai il Centro Comunicazioni, e chiesi dove potevo trovarlo. Non stetti a pensare. Mi sentivo di nuovo follemente eccitata. Il mio povero cervello ammaccato si chiudeva a tutte le brutte esperienze recenti e tendeva freneticamente i tentacoli verso la Spedizione.
I robot del Centro Comunicazioni furono molto premurosi. Mi misero in contatto diretto con quell’uomo, nella sua strana villa dalle lunghe colonne e dai tappeti di falso crine. Veniva chiamato Glar Assule, e il glar, presumibilmente, se lo era concesso da solo. Era bello, ma di una bellezza molto strana. Si era scelto un corpo che sembrava piuttosto invecchiato. Voglio dire che aveva rughe e grinze, e i capelli nerissimi partivano da una fronte molto stempiata. Si era reso simile a un vero glar di tutte quelle ere geologiche addietro. Indossava una tunica nera e portava un unico ornamento d’acciaio, appeso ad una catena. Venni a sapere che l’ornamento era ispirato a un modello che egli affermava di aver trovato nel deserto, durante uno dei viaggi precedenti.
«Buonasera, Glar.» Lo capii al volo e irradiai entusiasmo, ma lui non reagì. Mi scrutò aggrottando la fronte.
«In cosa posso aiutarti?» chiese, come se il pensiero di aiutarmi lo gelasse dalla testa ai piedi.
«Ecco,» mormorai, rispettosa, «ho appena saputo della tua grosh… meravigliosa spedizione, e della tua richiesta di volontari.»
«Davvero,» fece lui.
Restammo seduti, a guardare l’uno l’immagine tridimensionale dell’altra.
«Bene,» dissi io, alla fine. «Mi offro volontaria.»
«Capisco.»
Oh, floopy farathoom, era proprio come chiaccherare con un Q-R.
«Senti,» dissi poi, dopo quella lunga pausa abominevole, «se hai bisogno di volontari, questo non è il sistema migliore per procurarteli, direi.»
«In effetti,» rispose in tono grandioso il Glar Assule, «il tipo di volontario che speravo di trovare non era certo uno dei Jang.»
Risi. No, risi davvero. La risata mi uscì spontaneamente dalla gola, come se avesse le ali. Lo detestavo, veramente. Dicendo questo, mi ributtava in faccia tutti i fallimenti dell’ultimo vrek.
«Non vuoi i Jang,» latrai. Lui sobbalzò. Quando mi ci metto, so essere davvero sconvolgente. «Perché no?»
«Non credo di essere tenuto a spiegarlo,» disse lui.
«Oh, sì che sei tenuto. Per normale educazione, oppure non l’hai mai sentita nominare?»
Lui diventò tutto impettito e pomposo, e annunciò:
«I Jang sono troppo irresponsabili, purtroppo, per lo studio serio che ho in mente.»
«Beh,» ribattei, «probabilmente non troverai altro che Jang. Siamo tutti molto droad,» adesso non mi importava di usare lo slang con lui, l’aveva meritato, «e a quanto pare abbiamo questo groshing entusiasmo giovanile che va sprecato. Personalmente, non riesco a pensare a niente di più simpatico che studiare un’antica rovina, in mezzo a quelle montagne nere così derisann; ma se tu parlassi con i miei fattori, ti riderebbero in faccia.» Poi gli feci un segno Jang molto carogna, e premetti l’interuttore.
Beh, tanto non mi avrebbe mai accettata, quindi non c’era niente di male, ragionai, non appena la soddisfazione si dileguò e incominciai a rimproverare me stessa.
Ma poi ebbi una vera sorpresa. Parecchi millenni dopo, quando non sapevo se chiamare o no Thinta, per andare ad annegare i miei dolori da qualche parte in sua compagnia, provando a vedere se il bestiolino era disposto a starmi sulle spalle (non era disposto), si accese la spia della chiamata, e lì c’era di nuovo il Glar Assule, molto a disagio e rosso in faccia.
«Credo,» azzardò, «che la tua bruschezza giovanile indichi uno spirito energico, e dopotutto potrei assegnarti un posto nel mio gruppo.»
Ma io mi sentivo sadica.
«Oh, sì,» ribattei, «e quant’è grande il gruppo?»
Lui lanciò borbottii ed esclamazioni, ma finalmente arrivammo al dunque. C’erano altri tre. A quanto pareva, Assule aveva inviato messaggi personali per millenni, senza fortuna, e la comunicazione ufficiale gli aveva procurato solo quelle tre persone che lo facevano, notai più tardi, solo per un malinteso senso di cultura. Non erano Jang, ma erano inutili. Il vecchio Glar aveva capito che forse mi interessava davvero ascoltarlo mentre esponeva le sue teorie e così via, e frugare tra le scure montagne rombanti del nostro mondo perduto e dimenticato.
Comunque, doveva essere uno scocciatore. Mi avrebbe accettata, disse, purché mi scusassi.
«Chiedo scusa,» dissi subito. Non m’importava affatto. Ma non potei resistere alla tentazione, di fare di nuovo quel segno, non appena la sua immagine scomparve, e di sibilare:
«No, non mi scuso affatto. Penso davvero ogni sillaba di quello che ho detto.»
Puerile, ma abbastanza soddisfacente.
Thinta mi disse che ero zaradann se andavo; Kley rise con voce rauca; Hatta si mostrò triste e ripugnante. Avrei voluto che fosse triste e bello, perché allora avrei potuto dar retta all’impulso di coccolarlo e di dirgli «Oh, ooma, non fare così!» senza aver voglia di vomitare subito dopo. Lui non era bello, comunque, così non lo coccolai.
Rimasi sorpresa quando Danor venne a trovarmi. C’erano undici maschi e persino un paio di femmine che le ronzavano intorno, con sguardi lucidi e avidi d’attesa negli occhi ornati di lustrini.
«Hanno in corso una scommessa,» disse Danor, prendendomi in disparte, «per vedere a chi soccomberò per primo.»
Danor mi sbalordì: un tempo così sfacciato, adesso mi sembrava… serena?
«Mi sembra molto drumdik,» dissi. «Hai provato a ritornare maschio per liberartene?»
«Sì, l’ho fatto,» mormorò Danor. «Si sono suicidati subito tutti e sono tornati cambiati in ragazze.» Ridacchiò, e io vidi una vaga espressione triste di malizia nei suoi occhi. «Comunque, ooma,» continuò, «divertiti tra le rovine.» E mi baciò con tanta dolcezza da indurmi a prendere nota mentalmente che, la prossima volta che io fossi stata maschio e Danor femmina, sarebbe stata un’idea provare ancora i fluttuanti e vedere se stavolta sarebbe andata meglio. In quanto ai corteggiatori, diventarono di tutte le sfumature di verde e di marrone, per il timore che li avessi battuti tutti quanti.
Il Glar Assule mi chiamò di nuovo e disse che il gruppo doveva riunirsi dopo cinque unit davanti — indovinate! — al Museo della Robotica.
«Oh, ma è derisann!» feci, raggiante, e lui mi lanciò un’occhiataccia.
Disse che per tre o quattro unit aveva alcune cose urgenti da sbrigare, e che questo spiegava il ritardo, ma io penso che in realtà volesse procrastinare, nella speranza che qualcun altro lo chiamasse per chiedere di partecipare alla spedizione. Comunque, nessuno lo fece, e cinque unit dopo ci incontrammo, irritati, mentre quella piccola dannata ape robot ci ronzava intorno, captando brandelli d’informazione per i comunicati. Io le dissi di andarsene, e tutti mi guardarono con aria di disapprovazione.
Gli altri tre volontari erano una catastrofe totale. E non erano neppure favorevoli ai Jang, almeno lì. Pensavano che io avrei dovuto essere a far l’amore o ad andare in estasi, ben lontano da loro. Si ostinavano a chiamarmi «cara» continuamente, con una sfumatura di tono che indicava che avrebbero preferito chiamarmi con molti altri nomi, come Maledetta-Peste-che-sei-venuta-a-rovinarci-la-possibilità-di-accalappiare-il-Glair. Erano tutte femmine.
Lui arrivò tardi e soddisfatto di sé. Ci accompagnò ad una nave delle sabbie privata che aveva noleggiato apposta e aveva fatto riprogrammare per portarci nel posto giusto. La nave era piena di apparecchiature, dei suoi robot, delle sue idee sull’arredamento di una nave (cioè drappi pelosi arancione e bronzo accecante) e di lui. Le femmine gli cinguettavano intorno. «Sì, Glar,» e «No, Glar,» trillavano. E il Glar era a suo agio? E potevano dire al robot di portare qualcosa al Glar? Ero così felice di aver portato il bestiolino. Quelle rabbrividivano ogni volta che lui si avvicinava: ma in realtà non lo faceva, se appena poteva evitarle. Glar Assule non se la cavò poi tanto male, comunque. Con l’aria di lottare per non farsi prendere un colpo, accarezzò la testa del bestiolino e per poco non si buscò un morso, e si dichiarò lieto di constatare che mi interessavo alla fauna selvatica del deserto. Io ammisi che il bestiolino era davvero abbastanza selvatico.
Comunque, alla fine partimmo e — gioia e gaudio! — la Torre Trasparente era sempre trasparente. Andammo a sederci là, ma ben presto le tre femmine cominciarono ad agitarsi; se ne andarono a preparare qualche arancio del deserto in ghiaccio o a giocare con le loro macchine a uncinetto.
Io, il bestiolino e il Glar restammo, e il Glar fu molto impressionato nel vedere che il deserto mi affascinava. Una volta vidi un drappello di animali purpurei dal pelo lunghissimo, che scavavano intorno a certe dune, e lui fu addirittura in grado di dirmi che cos’erano.
Cominciai a sentirmi serena e spensierata. Non fate mai una cosa simile: è come attirare qualche forza tenebrosa e malvagia dall’universo.
Durante la notte, mi pare, le tre femmine litigarono per stabilire chi doveva fare l’amore con il caro vecchio Assule, e poi, quando per poco non si furono ammazzate e la vincitrice si avviò barcollando verso la cabina di lui, con le piume strappate e le palpebre macchiate, si scoprì che lui aveva un sonno maledetto, e la buttò fuori quando lei protestò. Ci fu un baccano enorme, ma il bestiolino ed io ci divertimmo un mondo.
Venne l’alba, ed eravamo arrivati. Le femmine erano molto sconvolte perché avevano organizzato un primo pasto molto elaborato per il Glar e lui rifiutò di perder tempo a mangiarlo.
Comunque, fu molto bravo a organizzarci. Suppongo che contribuissero le sue tendenze dominatrici. Prendemmo vino bollente e quattro compresse d’ossigeno a testa.
«Quando arrivate,» disse lui, «ricordate di respirare normalmente e di non sforzarvi per aspirare più aria: non ne avrete bisogno. E non è come nuotare sott’acqua, quando non si respira affatto,» aggiunse rivolgendosi a me. Alzai le spalle. Bene, tutti i Jang nuotano sott’acqua. E con questo? Poi i robot portarono fuori l’equipaggiamento, passando per la piccola valvola stagna, e poi uscimmo anche noi, e oh…
È tutto vero, là fuori.
È tutto bellissimo e vero, e pulsante e canoro e vivo!
Barcollai; il glar mi sorresse e scattò: «Ti avevo detto che dovevi respirare, no? Perché non mi hai dato ascolto?»
Ma io avevo respirato. Era mancato poco che mi rovesciassi i polmoni.
Era tutto così…
E così…
Tremavo.
Era l’alba: rossa, questa volta, a causa di qualche montagna così ooma che eruttava fiamme, e più verde verso la sommità del cielo, e più sopra di velluto scuro, con un’ultima spolverata zuccherina di stelle. Tutto intorno, le sagome altissime, che non erano edifici ma montagne, si innalzavano come se volessero vederci, o forse come se cercassero di non vederci, di guardare soltanto quel gran cielo limpido. E il cielo era così enorme. Mi dava le vertigini.
«Ci siamo,» disse il Glar. grandiosamente, come se avesse inventato tutto lui. «Venite.» E noi marciammo dietro dì lui sulla sabbia inondata dall’alba sanguigna e luminosa.
Assule indicò una piattaforma di roccia e alcune terrazze di roccia che vi salivano.
«Ecco il posto,» annunciò.
«Ed ecco il sole,» mormorai io.
Il bestiolino perse di colpo la testa, o la ritrovò, e schizzò via dal mio fianco per andare a rotolarsi in quella sabbia pazza, spruzzando tutti quanti.
«Oh, fermalo! Ferma quel mostriciattolo!» strillarono le femmine.
Il Glar non se ne accorse neppure.
Avanzava in testa, a grandi passi, seguito dai robot e dal macchinario, scavando grandi rivoli nella sabbia, dove noi dovevamo camminare.
Il sito aveva presumibilmente qualcosa a che fare con i nomadi e cose del genere: una cittadella primitiva di roccia, dove quelli si fermavano di tanto in tanto. E quelle erano le fondamenta. Assule riteneva che fossero state coperte dalla sabbia secoli prima; poi qualche tempesta l’aveva spazzata via. Tra poco avrebbe piovuto, disse, e allora avremmo dovuto tornare in fretta alla nave per ripararci. A quanto pareva, quelle erano piogge che bagnavano.
La terza femmina continuava a sentirsi svenire e ad appoggiarsi ad Assule perché non aveva imparato la tecnica per respirare. Le altre erano furiose di non aver avuto quell’idea prima di lei.
Facemmo il primo pasto sul sito, seduti su pesanti tappeti. Assule continuò a parlare della civiltà che un tempo era sorta lì. Avrebbe potuto essere molto interessante, se non fosse riuscito a renderlo così noioso. Non so come ci riuscisse, in effetti. Forse aveva un talento innato per far diventare tutti droad, suppongo.
Poi cominciò ad aggirarsi per il sito, scomparendo e ricomparendo dietro le guglie di roccia, con sei robot, che l’assistevano. Noi restammo sedute sui tappeti, e intorno a noi il mondo diventò turchese.
Alla fine tornò indietro.
Mi raddrizzai e attesi che mi consegnasse un antico piccone o qualcosa del genere, ma non lo fece. Disse:
«Credo che avvierò le macchine sei e otto, lassù.» E il mio cuore rotolò per la scala delle costole, fino allo stomaco, e restò lì, in tempesta. C’eravamo di nuovo: Consultare sempre il computer… La macchina sa cosa fare… Oh, tanto scattano automaticamente dopo mezzo split…
«Ma, Glar,» sbottai, «non dobbiamo fare qualcosa anche noi?»
«Cosa?» Era sinceramente scandalizzato. «No, naturalmente.»
«Ma non possiamo neppure togliere la sabbia dalle reliquie con il pennello, quando vengono fuori?» implorai: ero molto ottimista sulla possibilità di trovare le reliquie, devo dire.
«No di certo,» disse lui. «Potreste danneggiare qualcosa.»
Le tre femmine svolazzarono per dichiararsi d’accordo e mi guardarono come se fosse un’oscenità già la sola idea di avvicinare le mie goffe mani di Jang a qualcosa di tanto prezioso. Quindi Assule ci voleva lì semplicemente per avere un pubblico per la sua vecchia voce noiosa.
E per tutto quell’unit così derisann nel deserto, mi aggirai tra le macchine, con il bestiolino alle calcagna. Le macchine trapanavano e scavavano e non trovavano niente. Salirono ronzando sulle terrazze e il risultato fu uno zero totale.
«Senza alcun dubbio, sono fondamenta,» borbottava continuamente Assule, fino a quando cominciai a provare un senso di pena per il suo imbarazzo.
Continuò così, unit per unit. Un avioplano con i finestrini coperti arrivò da Quattro BEE per portarci i rifornimenti. Le femmine cogitavano imbronciate. Assule si era rivelato inespugnabile, e adesso loro erano stufe delle sue idee.
E poi, una sera, quando lui stava per diventare zaradann per la frustrazione, una delle macchine lanciò un gran fischio e diede uno strattone, e il pavimento roccioso cedette, e fra tonfi e scrosci e rombi, crollò su un’immensa camera sotterranea. Quando la sabbia e la ghiaia ricaddero, ci avvicinammo e constatammo che avevamo scoperto un magazzino, o qualcosa di simile. Almeno, Assule diceva così, anche se non credo che lo sapesse di preciso, e tirasse a indovinare.
Le macchine calarono altre macchine nella cavità per trasmetterci immagini dell’interno, ed erano poco esaltanti. La ricerca durò millenni, e alla fine disseppellirono soltanto un unico coccio di antica ceramica che, secondo il Glar, non era infrangibile. Perciò non ci permise di avvicinarci, e i robot lo portarono alla nave per esaminarlo.
Era molto tardi quando Assule si precipitò ululando nel salone, balbettando qualcosa a proposito di un’iscrizione.
«È un vecchio proverbio del deserto,» gracchiò, aggrappandosi ad una delle femmine, per reggersi in piedi. Era raggiante. «Sì, sì, è vero. Si riesce a scorgere appena. Guardate la riproduzione tridimensionale che ne ha fatto la macchina numero nove.»
«Cosa dice?» domandammo. Era inintelligibile e confusa, e in un’altra lingua, anche se una o due parole sembravano vagamente familiari, qua e lì.
«Ah,» disse il Glar. Si sedette e ci tenne un’altra conferenza sui popoli nomadi, prima di spiegare. L’iscrizione diceva:
Secondo Assule, era un modo per dire che bisognava restare all’ombra, quand’era possibile, portare l’oosha (una specie di copricapo dell’uomo del deserto) e provvedersi di un’adeguata scorta d’acqua. In altre parole, il sole è un nemico pericoloso: non correre rischi, o sarà peggio per te.
Ma per me, quelle parole avevano anche un altro significato. Mi ossessionarono per tutta la notte, e non riuscii a dormire. Andai a sedermi nella Torre Trasparente, e mi ossessionarono anche lì.
Non mordere il sole, non mordere il sole… la mia bocca bruciava.
La mattina dopo Assule stava molto meglio, o molto peggio, a seconda dei punti di vista. La sua sicurezza era ritornata. Correva in giro a pavoneggiarsi, e si concesse persino di dimostrare una parvenza d’interesse verso una delle tre femmine. Era abbastanza divertente, vedere lei che cercava di attirarlo in qualche grotta, mentre lui voleva soltanto parlarle della tribù terribilmente antica di uomini che avevano l’abitudine di mangiarsi tra di loro, cerimonialmente, è ovvio, quando i branchi di ponka scarseggiavano.
«E adesso che abbiamo incominciato,» si degnò di dirmi mentre mangiavamo il terzo pasto, «troveremo strati di ogni genere, senza dubbio. Le armerie, per esempio.»
Oh, questo poteva essere davvero interessante.
Beh, poteva.
Voglio dire, io ho sempre avuto una passione per le rovine e le cittadelle e le armi e i draghi e gli intrighi esotici e via discorrendo, ma presto Assule ci diede le stesse sensazioni che ci avrebbe dato ascoltarlo parlare della riprogrammazione di uno dei suoi pavimenti mobili.
Comunque, le macchine continuavano a scavare e a rivoltare e a sfondare, e non trovarono assolutamente nulla. Una volta tanto si sentiva qualche «bum», e noi accorrevamo per vedere che cos’era, ma si trattava semplicemente di qualche scarica d’energia.
Quel posto cominciò a darmi la claustrofobia, e avrei voluto correre nel deserto come continuava a fare il bestiolino, ma soffrivo anche di un po’ d’agorafobia, e non ne feci niente. Pensai che il bestiolino potesse fuggire e abbandonarmi per il suo elemento natio, ma tornava sempre da me. Mi abituai a vederlo correre tra i picchi rocciosi e le dune, sporco di sabbia, barrire e sternutire felice e poi balzarmi tra le braccia, gettando sabbia in tutte le direzioni.
Ormai c’era nell’aria una certa tensione. Non era la nostra tensione sciocca e insignificante, però: era la tensione della sabbia e delle montagne e del cielo. Assule ci informò che il deserto attendeva la pioggia. Lo sentiva anche lui, vedete, ma le femmine no. Avevano l’aria vacua e pensavano: Oh, beh, bisogna avere pazienza con questi maschi terribilmente attraenti, che di tanto in tanto danno i numeri.
Arrivò un altro avioplano con le provviste, e una delle femmine si arrese e decise di prenderlo per tornare a casa. Le altre due si scambiarono occhiatacce, per capire chi sarebbe stata la prima ad andarsene, poi. Un po’ più tardi una di esse, la più tipica delle due, mi prese in disparte tra le rocce.
«Sai, cara,» trillò, «davvero non riesco a capire cosa veda qui, per restare, una ragazzina Jang come te.»
«Oh, è per Assule,» dissi io.
«Assule?» chiese lei, scandalizzata.
«Oh, sì,» feci sorridendo. «So che non potrebbe resistere senza di me.»
«Questa poi!» cominciò lei.
«Oh, lo so, può sembrare vanitoso da parte mia,» dissi, dolce e comprensiva, «ma quando lo si conosce da tanto tempo come lo conosco io…»
«Da tanto tempo come…»
«E si sono divisi con lui gli alti e bassi…»
«Alti e bassi…?»
«E si è stati il suo sostegno e il suo conforto nei momenti di angoscia…»
«Conforto…?»
«Allora capisci che ha bisogno di te, veramente, solo per qualche parola d’incoraggiamento, capisci, per qualche caldo abbraccio,» finii, osservando come controllava il crescente isterismo.
«È il tuo fattore,» disse all’improvviso lei in tono d’accusa, cercando una spiegazione ragionevole per quello che avevo detto.
La fissai, offesa.
«No di sicuro,» scattai.
Povera donna. Impallidì di colpo e lanciò fiamme dagli occhi mentre io me ne andavo.
Comunque, era una seccatura. Mi ero gingillata con l’idea di andare a casa, e adesso dovevo resistere fino alla fine. Non potevo permettere che il Glar Assule si aggirasse tutto pieno di gioia e di felicità, senza il suo sostegno e il suo conforto, vi pare?
Ma il deserto mi faceva sentire veramente strana. Continuavo a sognare di essere una donna del deserto, con un oosha e un lungo velo nero, che si aggirava per quella desolazione, durante i giorni brucianti e le notti nere, avendo per lampada qualche vulcano. Talvolta avevo con me un bambino, pallido e ansioso.
«Fattore,» continuava a ripetere, «quand’è che troviamo ancora l’acqua?» E io sapevo che sarebbe morto se non avessi trovato presto l’acqua, e io non sapevo dov’era. E poi il sogno slittava e tutti e due eravamo distesi a faccia in giù sulla sabbia, con l’immenso fuoco arancione che accerchiava il cielo intorno a noi e una voce continuava a ripetere:
«Non mordere il sole. Non mordere il sole.»
E poi ci fu l’invasione.
Oh, sarebbe stato da ridere, veramente, se a ognuno di noi fosse rimasto un brandello di allegria, quella mattina.
Facevamo il primo pasto sulla roccia, Assule, le due femmine, che adesso mi evitavano accuratamente, io e il bestiolino. Alzai gli occhi dal piatto di pane di radici fritto e di miele, e che cosa vidi, oh-oh? Un muso peloso, lionato che mi fissava da una roccia. Il bestiolino abbaiò. Sì, era ancora uno di quegli animali decisi, dalle orecchie lunghe e dai piedi a forma di sci. Agitò le lunghe orecchie e le antenne, e poi fece «Fpmf» attraverso il naso.
«Assule, quello cos’è?» feci per chiedere, quando all’improvviso ci furono addosso. Immagino fossero stati attirati dall’odore del cibo cotto. Probabilmente avevano viaggiato per molti unit tra le sabbie, seguendo i loro nasi pelosi. Le femmine urlarono quando i grandi piedi allungati schiacciarono il pane di radici e le zampe si agitarono tra i vini opalescenti.
«Sono pericolosi?» tentai di chiedere ad Assule, mentre cercavo di non venir schiacciata in mezzo al miele.
«Venite!» gridò Assule: corremmo via, verso la nave della sabbia, abbandonando i tappeti, il pasto, le macchine e tutto quanto, alla mercé di quei grandi piedi e di quelle orecchie ridicole.
Entrammo barcollando nella Torre Trasparente, accendemmo gli schermi e guardammo. Avevamo una magnifica vista delle fondamenta della cittadella brulicanti di corpi pelosi. Le bestie divoravano il cibo, allappavano il vino e facevano «Fpmf!» dappertutto. Cominciarono quasi subito a mangiare i tappeti, dopo averli cosparsi di miele, potrei aggiungere.
«Spero solo che non arrivino alle macchine.» Assule sperava, ma quelli ci arrivarono.
Erano davvero molto intelligenti, in un modo zaradann. Se la spassarono un mondo a scoprire come funzionava ogni apparecchio, e poi a smantellarlo. Guidarono la macchina numero otto giù per le terrazze, aggrappandosi ad essa con forza e battendone i fianchi con le zampe: poi si staccarono e rotolarono via quando finalmente la macchina si rovesciò e andò a schiantarsi tra la sabbia.
Assule, nel frattempo, aveva attaccato un commento musicale di lagni incessanti. Io continuavo a chiedere cos’erano quegli animali, e lui sembrava pensare che fosse sconveniente da parte mia chiederlo. Immagino che fosse veramente troppo, per lui.
Verso mezzogiorno, quell’attività frenetica si acquietò. Gli animali si sdraiarono e si addormentarono.
«Spero solo che non scoprano la nave delle sabbie,» ricominciò Assule: e fu come se avesse dato un segnale. Le zampe pelose puntarono, i nasi sbuffarono «fmpf» e ci fu una corsa generale nella nostra direzione.
«Oh! Oh!» urlarono le due femmine.
«State calme, vi prego,» scattò Assule, deciso improvvisamente a restare calmo anche lui, per una volta. «Siamo al sicuro. Attiverò il muro elettrico.»
Manovrò alcune manopole rosse e altre cose che recavano la scritta «Per fini esclusivamente difensivi. L’uso non autorizzato è punibile con un’ammenda»… Era un’ingiunzione antiquata, poiché ormai nessuno viene più multato per niente, anche se la Commissione probabilmente ci terrebbe. Comunque, il sistema funzionò. Ci fu una specie di fremito nell’aria, all’improvviso, intorno alla nave, e non appena i piedi-a-sci stabilirono il contatto, spiccarono balzi di un metro e mezzo e ricaddero, completamente beati.
«Non li ucciderà, vero?» implorai.
Assule, sorprendentemente, non mi strozzò.
«No,» disse. «Un animale più piccolo resterebbe ucciso, sì, ma questi sono solo storditi. Non ci tengo a danneggiare inutilmente degli esemplari così interessanti.»
Provai un senso di sollievo, ed effettivamente, quelli avevano un’aria beata mentre si allontavano barcollando dalla muraglia elettrica. Insistettero per circa tre split; penso che alcuni di loro lo facessero solo per avere un’Esperienza Essenziale. Li vedevi scrutare i musi estatici dei compagni caduti, prima, e poi quasi valutare la situazione, pensando, «Bene, sembra divertente»; e poi si precipitavano contro la muraglia, con le orecchie e il pelo che volavano. Alla fine, però, si allontanarono e discussero la situazione a forza di «fpmf»; tornarono indietro, e trascinarono via cautamente i feriti (?), poi se li caricarono sulle schiene e si avviarono a grandi balzi sulla sabbia.
Le femmine cominciarono ad aver l’aria di svenire, videro che Assule non se ne accorgeva neppure, e vi rinunciarono.
Attendemmo una ventina di split per essere sicuri, disattivammo la muraglia e ritornammo sul sito degli scavi. Secondo Assule, non c’era pericolo che quelli tornassero. A quanto sembra, non tornano mai sulla scena di una delle loro incursioni; anzi, percorrono molte miglia per evitarla, quando il loro olfatto straordinario li avverte che si stanno avvicinando. La cosa sembrava indicare una specie di complesso di colpa, secondo me, ma Assule mi intimò più o meno di non fare la floop, quando glielo feci osservare.
E il sito degli scavi era drumdik. Un caos squallido, inqualificabile. Una volta tanto io e le femmine ci alleammo per evitare che Assule diventasse completamente zaradann. Non servì a molto, comunque. Si aggirò ruggendo fra le torrette di roccia, sfiorando il miele e i tappeti masticati sulle macchine, stringendo i robot sfasciati, e urlando ai robot intatti di aggiustare tutto. In effetti, quando smise di star loro fra i piedi, i robot venuti dalla nave se la cavarono benissimo. La macchina numero otto fu l’unica perdita, e dovettero smantellarla.
«Per impedire altre calamità, ordinerò ai robot di montare una muraglia elettrica tutto intorno al sito degli scavi,» mi disse Assule, tra il baccano e i tonfi. «Intorno agli scavi e alla nave. Un raggio di circa…» E citò un’area molto vasta. Io l’ascoltavo appena.
«Senti, Assule,» dissi, «adesso abbiamo l’occasione di dimostrare che siamo meglio delle macchine.»
«Cosa?»
«No, ascolta,» insistetti, ignorando la sua indignazione inorridita, «mentre loro sono fuori causa, cerchiamo almeno di trovare qualcosa noi.»
«No di certo,» disse Assule. «Te l’ho detto, le macchine se la cavano meglio.»
«Beh,» dissi io, «non sembra che abbiano trovato molto, fino ad ora.»
«Non dimenticare il frammento di ceramica con l’iscrizione. Certo senza dubbio tu pensi che sia poco, secondo la tua ignorante mentalità di Jang.»
«Senti,» dissi io, «sono interessata quanto te, sinceramente, ma quella macchina è piombata per puro caso in quel tuo magazzino, o quello che è. Avrebbe potuto fracassare e seppellire reperti preziosi di ogni genere, se ve ne fossero stati altri come quello che abbiamo trovato.»
«Questo tuo atteggiamento è offensivo,» tuonò Assule. Era come parlare a un muro.
«Parlare con te è come parlare a un muro,» dissi.
Assule diventò pomposo.
«Devi chiedermi scusa,» mi disse.
«Oh, santo cielo!» esclamai. «Non intendo scusarmi per avere detto la verità. E dacché ci siamo, ritiro le scuse dell’altra volta.»
E poi mi arrabbiai sul serio e tornai a fargli quel segno Jang.
Senza aspettare di vederlo andare in combustione automatica, girai su me stessa, piantando persino la mia ape, e me ne andai.
Via dal sito degli scavi.
Via dalla nave delle sabbie.
Nel deserto.
Avevo sentito dire che qualcuno lo aveva fatto, andarsene in preda al furore senza sapere quel che faceva. Thinta mi aveva detto che una volta l’avevo fatta tanto infuriare, con il mio vizio di rubare, che era caduta nella piscina senza prendere l’ossigeno, ed era finita diritta al Limbo.
Quando me ne resi conto, mi accorsi che non sapevo dov’ero, non sapevo niente di niente. Non c’era più traccia del sito degli scavi o della nave, né il suono dei rumorosi lavori di riparazione che erano ancora in corso quando me ne ero andata. C’era soltanto sabbia e sabbia scintillante, e un orizzonte di picchi neri e di tramonto incombente. Provai un momento di panico assoluto, gelido. Ero perduta. Poi provai un secondo momento di panico gelido e assoluto. L’ossigeno! Quella mattina avevo preso le solite quattro compresse, che mi sarebbero durate fino all’indomani. Ma poi? Oh, mi ero messa in una bella situazione.
Poi mi venne un’idea. Tornare indietro e seguire le mie orme a ritroso sulla sabbia: ecco cosa avrei fatto. E lo feci, e cominciavo già a sentirmi euforica quando all’improvviso mi imbattei in un refolo d’aria fresca. Vi sono sempre lievi venti delle sabbie, e quello s’era dato da fare per perdermi. Mi arrampicai su di una guglia di roccia e mi guardai intorno in tutte le direzioni, ma non vidi altro che lo scintillio dell’arcobaleno, sulle dune lisce e prive di tracce.
E poi vidi qualcosa, qualcosa che si muoveva. Oh, no, pensai, ansimando, i piedi-a-sci mi inseguono. Mi chiesi a quale morte orrenda mi avrebbero condannata. Poi vidi che era una cosa sola, e molto, molto più piccola di un piede-a-sci, e sfrecciava verso di me attraverso il deserto senza volto. Il bestiolino! Meraviglioso! Doveva avermi seguito, lasciando la sua traccia di orme fresche, che ci avrebbe ricondotti alla nave. Strillando e barrendo, ci lanciammo una verso l’altro. Il bestiolino mi balzò tra le braccia e mi baciò appassionatamente sul naso e sulle orecchie.
«Oh, ooma,» ansimai, «bravo, derisann ooma!»
E tenendomelo ben stretto, peloso e consolatore, mi avviai lungo la traccia.
E proprio allora, naturalmente, doveva incominciare la tempesta di sabbia, no?
Ero così spaventata. Non si vedeva niente, non si poteva respirare. Mi sfilai la tunica trasparente e me l’avvolsi attorno alla faccia. In quel modo riuscivo a intravvedere qualcosa tra i ricami e la sabbia, e potevo respirare leggermente; con le compresse d’ossigeno, era abbastanza. Tentai di proteggere il bestiolino, ma lui mi si rannicchiò contro la pelle: sembrava a suo agio. Immagino che avesse affrontato altre tempeste di sabbia. Gonfiò tutto il pelo, per proteggersi. Era inutile andare avanti e, inoltre, la sabbia mi pungeva la pelle nuda: perciò mi misi al riparo della roccia più vicina, mi rannicchiai sulla sabbia e attesi.
Non dimenticherò mai il suono di quel vento carico di sabbia. Credo che lo sentirò per tutta la vita.
Alla fine la visibilità migliorò e mi tirai fuori. Ci fermammo lì, a guardarci intorno. Bene, se ero perduta prima, adesso lo ero ancora di più. Rimisi la tunica e cominciai a camminare senza meta. Ogni tanto ripetevo al bestiolino: «È inutile, a che serve?» e mi lasciavo cadere. E poi mi infuriavo con me stessa e dicevo: «Ma non troverò mai la nave se resto qui seduta, e potrei trovarla, se continuo a camminare.» E andavo avanti, fino a quando crollavo di nuovo.
C’era un gran buio e un gran silenzio. Non c’erano le stelle. E c’era quel colossale senso di attesa. Il bestiolino continuava ad alzare la testa e a fiutare l’aria.
Poi cominciarono i rombi, vicini eppure lontani. Mi chiesi, in preda a un confuso isterismo, se c’erano ancora draghi da quelle parti, o se i piedi-a-sci mostravano, di notte, una personalità nuova e particolarmente spaventosa. Ma in pratica era soltanto il tuono. E presto fu accompagnato da accecanti lampi verdi.
«La pioggia,» dissi al bestiolino, mentre il cuore mi scendeva alle ginocchia, ma lui era eccitato, e si divincolò fino a quando lo lasciai andare. Sfrecciò in giro e si rotolò nella sabbia.
«Bene, sono lieta che ti piaccia,» dissi.
Nei suoi bei tempi nel deserto, pensai, la pioggia era un grande evento: anche se non ne sapevo niente, avevo calcolato che accadesse solo ogni tre vrek, a giudicare da quel che aveva detto Assule.
Poi ci fu quel suono. Una specie di ticchettio sommesso, sommesso, come di minuscole zampe che battevano. Stavo pensando che era carino, disorientata com’ero, quando i cieli si aprirono e il deserto fu sommerso dall’acqua. La pioggia scrosciava e tuonava, ma ancora più forte era il coro di squittii e ululati e trilli eccitati che uscivano da milioni di piccole gole pelose, tutto intorno a me, nelle tane di sabbia e nei buchi della roccia, per celebrare il rito della pioggia. Nel diluvio era impossibile vedere lo scintillio degli occhi, ma io sapevo che c’erano. Il bestiolino prese in bocca una delle catenelle che portavo alle caviglie e, dolcemente ma con fermezza, mi trascinò in una specie di riparo tra le rocce. Un po’ tardi, comunque. Ero bagnata fradicia. Sono sicura che Quattro BEE potrebbe produrre stoffe impermeabili alla pioggia, ma là chi ne ha bisogno? L’unica pioggia è costituita da qualche goccia sparsa, dopo un sabotaggio dei Jang.
Il bestiolino barriva e barriva.
«Hai ragione tu,» dissi, tentando di asciugarmi la faccia bagnata con le mani bagnate. «È davvero bellissimo.»
Lo era davvero: l’acqua d’argento, il canto del deserto che beveva e beveva intorno a me. E dalle buche e dalle tane, veniva il canto della vita.
Non avrei mai pensato di riuscire a dormire con quel rumore e quel fastidio, ma dormii. Sognai che ero una donna del deserto, con un bambino, e finalmente avevamo trovato una fonte.
Mi svegliò l’alba, come una pallida nota verde di musica tra le montagne, e mi levai a sedere, infreddolita, bagnata fradicia, e sola.
Adesso morirò, pensai, qui fuori, senza quei simpatici robot che mi porterebbero al Limbo, morirò di freddo e di fame e di carenza d’ossigeno, e di solitudine. Il bestiolino se ne era andato. «La pioggia è cessata, comunque,» dissi, congratulandomi, mentre uscivo dal covo nella roccia e cominciavo a vedere.
E poi per poco non morii, ma non per una delle ragioni che avevo pensato: per quello che c’era là fuori.
Non avevo mai visto una simile bellezza inaspettata. Non potevo immaginare che le dune, assetate d’acqua per tanta parte della loro vita, potessero rendere un simile ringraziamento per quella che per loro doveva essere stata solo una mezza tazza. Mi inchinai, mentalmente, davanti a quel prodigio.
Il deserto era fiorito.
Pensai che le rocce fossero di nuovo in fiamme, ma era la fiamma dei fiori, le scintille dell’erica eruttata dal suolo. I cactus erano cresciuti enormemente durante la notte, sbocciando in piogge di orchidee verdi. Tra le rocce vi erano pozze, che forse già si stavano asciugando, ma affollate di felci, stellate di petali cresciuti in pochi secondi, liberati dalla pioggia in dieci split. E l’erba delle sabbie ondeggiava. Guardai e in lontananza, in ogni direzione, vidi il porpora e il verde e l’oro, il peridoto degli steli agitati, non seta o vetro o raso d’acciaio, ma piume vive, una verzura che respirava. E anch’io respirai, profondamente, lentamente, perché la vegetazione mi aveva salvato la vita, mi aveva dato, in una notte di miracoli e d’argento, tutto l’ossigeno di cui i miei polmoni potevano avere bisogno.
Avanzai, dapprima innervosita, timorosa di calpestare quel tappeto vivente, ma tutto intorno gli animaletti correvano, saltavano e banchettavano in quel verde. Vidi in lontananza una tribù di piedi-a-sci, che danzavano insieme una danza bizzarra, quasi spaventosa, di gioia primitiva. All’improvviso, ne fui parte. Io, con il mio marchio di essere umano, di Jang, di cittadina. Mi strappai le catenelle ridicole e gli abiti trasparenti, gli orecchini, gli ornamenti. Avrei potuto mettermi fiori veri tra i capelli, ma mi sembrava un sacrilegio coglierli. E poi, i miei capelli erano un manto scarlatto, e io corsi e risi e cantai con gli animaletti impazziti nella gloria del verde ridestato; era così caldo, adesso, ed io ero perfettamente asciutta.
Poi trovai il bestiolino.
Balzò verso di me, dall’erba, come un fiore pallido e puro.
Adesso quasi non ricordo le risa e le corse, e i giochi e le danze: ma ricordo la felicità, la felicità simile ad una ferita che sanguina la scintilla vitale.
Oh, corremmo fianco a fianco, il bestiolino ed io, e non ho mai conosciuto un’eguale vicinanza con qualcuno della mia razza umana, come la sentivo con quell’animale bianco che avevo rubato, per un bisogno casuale e nevrotico, in un negozio di Quattro BEE.
Una volta, mentre eravamo distesi sull’erba, gli dissi:
«Devi avere un nome; no, no, devi averlo. Tu sei una personalità, come me, un essere, una vita.» E chiamai il bestiolino Fiordituono, per via dei fiori intorno a noi, cresciuti dalla pioggia e dai lampi e dal tuono. E poi riprendemmo a correre.
E come sarebbe stato semplice, se non avessimo mai trovato la via per ritornare alla nave delle sabbie. Ma la trovammo. Notai appena la vaga familiarità del paesaggio. Le terrazze rocciose, adesso, erano accese di fiori, nel rosseggiare del crepuscolo.
Continuammo a correre, fianco a fianco. Talvolta io ero un po’ più avanti, tra l’erba delle dune che mi arrivava al ginocchio, talvolta era il bestiolino, con la testa che superava appena il verde, la pelliccia arrossata dal riflesso del tramonto. E poi mi precedette, e lo vidi balzare in alto, al di sopra dell’erba, e ricadere, e non ricomparve più. Poi vidi il fremito dell’aria.
«Oh no!» gridai al deserto e al cielo. «Oh no, oh no, oh no, oh no!» E corsi avanti e mi lanciai contro la muraglia elettrica, che Assule aveva eretto per evitare le calamità.
Sì, è una sensazione strana, un tremito assoluto d’estasi fiammeggiante, come il quasi-orgasmo di una macchina dell’amore, ma ero appena stordita quando i robot vennero a raccogliermi.
Il bestiolino, naturalmente, era morto.
Assule continuava a ripetermi che ero una stupida.
«Te l’avevo detto, della muraglia elettrica,» gridò. «Avresti potuto risentirne molto di più.»
Non parlò del bestiolino. Non disse che quel che mi era capitato era colpa mia perché ero scappata via così sconvenientemente. Io ero distesa nella mia cabina, e lo guardavo, e di tanto in tanto gli dicevo «Stai zitto». Le femmine stavano sulla porta e dicevano che era una vergogna che mi fossi fatta trovare nuda, e dov’erano le mie catenelle e i miei vestiti?
Quando mi lasciarono un po’ in pace mi feci portare da uno dei robot il bianco corpo peloso e inerte del bestiolino. Fissai i suoi occhi arancione, vitrei. Sembrava così pieno di beatitudine, nella morte.
«Voglio un avioplano per tornare in città,» dissi al Glar. «Subito.»
Bene, era fin troppo contento di sbarazzarsi di me, perciò ne chiamò uno, e io salii a bordo e tornai a casa, fissando i finestrini coperti, con il bestiolino sulle ginocchia. Non c’era più niente da vedere, comunque. La fioritura del deserto non resiste per più di un unit. Lo splendore che avevo attraversato stava già morendo.
A Quattro BEE andai subito al Limbo.
«Questo è il mio bestiolino,» dissi, «per me è molto importante. Voglio che gli diate un corpo nuovo.»
Ma quelli non vollero, e io sapevo che non avrebbero voluto. Tentarono di spiegare che c’erano ragioni morali.
«Non possiamo far questo per un animale,» dissero. «E poi, è morto da troppo tempo.» Ma questa era solo una scusa. Oh, spero che fosse una scusa.
Perciò andai a casa sola. E anche là fui sola.
E sognai per tutta la notte il deserto e il sole che non dovevo mordere, e finalmente capii il significato che aveva per me quel proverbio. Ero così stanca che adesso potevo ammetterlo. Avevo tentato tante volte, con tanto slancio, e non era servito a nulla.
Il sole. Oh, sì, il sole. Un pezzetto di argilla fragile mi aveva sconfitta all’improvviso, dal suo nido in un deserto d’arcobaleno e d’eruzione di fuochi. Sapevo cos’era il sole; forse quella scritta l’intendeva nello stesso senso, ma non ne sono sicura. Il sole era il Modo Ordinato di Vivere. Nel mio caso era il Modo Ordinato di andare all’ipnoscuola, di essere Jang, di diventare una Persona Anziana, tutta una vita tracciata irrevocabilmente, persino la morte non era permessa, era soltanto un corpo nuovo, o un lungo riposo in un crepuscolo che oscurava la mente, dopo di che il ciclo ricomincia ancora, quando sono stati cancellati tutti i ricordi del passato. Così irrevocabile, così inevitabile, così terribile, così noioso, così votato alla tragedia che era persino troppo piccolo, troppo opaco per essere veramente una tragedia. Non mordere il sole, ti brucerai la bocca. Io avevo morso continuamente, disperatamente, ed ero bruciata, ero bruciata. Ero una brace spenta.
Sapevo ciò che mi stava succedendo e ripetei a voce alta:
«Il bestiolino mi ha escluso ufficialmente dal suo circolo.» Poi capii che avevo obbedito alle regole e che ero libera di piangere.