PARTE SECONDA

1.

Tornai a casa verso mattina, e scoprii che i miei fattori erano in procinto di dividersi.

«La casa è tua,» mi dissero gentilmente. «Noi ci siamo già sistemati.» Gli Anziani sono capaci di fare cose del genere… Prendono su e si lasciano per andarsene con qualcun altro, quando vogliono. Erano ancora maschi, tutti e due.

I robot stavano portando via la loro roba. Mi fece un effetto strano, vederli andar via così: non che fossimo mai stati molto vicini o cose simili. Non stai mai veramente insieme ai tuoi fattori, anche se loro restano nello stesso posto insieme a te, dopo che è finita l’ipnoscuola.

«Non preoccuparti per il pagamento della casa alla Commissione, ogni terzo vrek,» aggiunsero. «Sappiamo che detesti pagare, perciò abbiamo preso accordi per pagare noi per te, alternativamente. Ci sembra giusto, dopo tanto tempo.»

Ero quasi contenta, quando finalmente se ne andarono. Era una faccenda così strana.

E la casa, ecco, era come se… echeggiasse. Non so.


Hatta mi chiamò secoli dopo; o magari non era passato davvero tanto tempo, ma parevano secoli. La sua voce invase la mia intimità, ma senza immagini… il che probabilmente era meglio, conoscendo Hatta.

«Attlevey, Hatta,» sospirai.

«Cos’è questa storia?» domandò lui. «Ti sei esclusa dal tuo circolo? Non puoi. Non è… beh… non è morale.»

«Oh,» feci io.

«No,» disse Hatta. «Ti senti giù per via di quell’annullamento con Danor?»

«No,» dissi io. Non ne ero sicura.

«Hai bisogno di tirarti un po’ su,» mi disse Hatta. «Ti porterò fuori per un pasto.»

«No grazie.»

«Bene, allora il Palazzo dell’Avventura? C’è una nuova sinfonia dell’Orecchio Superiore nel Quarto Settore. O a cavalcare il fuoco?»

«Davvero, Hatta. Sinceramente non me la sento…»

«Ascolta, ooma, dico sul serio,» disse Hatta in tono grave. Lo maledissi, ma piuttosto fiaccamente. «Mi piacerebbe tanto sposarti. Solo per il pomeriggio.»

«Fatti vedere,» dissi io, freddamente.

«Beh, ecco,» fece Hatta.

«La tua immagine,» insistetti. «Subito.»

«I comandi non funzionano troppo bene. Sembra che non riesca a trasmetterti l’immagine…»

«I comandi non hanno mai niente,» dissi io. Era vero. Hatta borbottò. E poi, eccolo lì.

«Oh, Hatta!» gridai. «Che thalldrap! Che floop! Oh, vattene!»

Era enorme, bluastro, lucido, claudicante, ma furono le due teste a smontarmi completamente.

«Ma, ooma…»

«No. Nononononono! Se ci tieni tanto a me, procurati un corpo sopportabile.» Lui restò lì librato a mezz’aria, indeciso, e così drumdik da farmi quasi perdere la ragione. Gli lanciai contro una scultura di pietra astratta a colori mobili, e premetti l’interruttore più vicino.

Comunque, mi sentii meglio, dopo aver tirato la scultura contro Hatta. Suppongo che sia il mio caratteraccio. La bestiola arrivò di corsa dal giardino e mi morse, e io l’inseguii per tutta la casa, cercando di centrarla con un grosso cuscino peloso, mentre le macchine scattavano e ticchettavano intorno a noi in toni di disapprovazione, e tentavano di rimettere in ordine. Fu abbastanza divertente.

Alla fine il bestiolino si raggomitolò guardingo su un pavimento volante sospeso, fuori dalla mia portata, e si addormentò, tenendo aperto un occhio arancione e una zanna delicatamente scoperta, tanto per rinfrescarmi la memoria, credo.

Mangiai un pasto e cominciai a pensare.

Ero stanca di essere Jang.

2.

Portai la mia sfera giù per la Via d’Acqua Peridoto, con la bestiola che mi guardava, sdraiata sul sedile passeggeri. Avevo cercato di lasciarla a casa, ma non avevo chiuso in tempo la sfera. Tra un’occhiata e l’altra a me, aveva inventato un gioco nuovo: consisteva nel cercare di prendere a zampate la mia ape che ronzava in alto, e minacciava sempre di cadere. Notai che l’ape sembrava tenersi in volo molto meglio, adesso che sei zampe bianche e una bocca piena di zanne la minacciavano di continuo.

Legai la sfera un po’ più giù del Monumento a Zeefahr e presi una strada mobile per il Palazzo delle Commissioni del Secondo Settore. La mia bestiola azzannò diverse gambe per la strada, e ci fu un po’ di chiasso, anche se gli Anziani sembravano perdonarmi perché ero Jang. Che ironia!

Saltammo giù, io, la mia ape e il bestiolino, ed entrammo nel Palazzo, che è nero e imponente. Cercano di dargli un aspetto il più possibile scostante per tenere alla larga la gente, ma sembra che sia inutile. Era affollatissimo.

Sedetti in uno spazio libero, in uno dei cerchi di sedili che giravano dolcemente e premetti il pulsante luminoso «Si richiede attenzione». Quel giorno sembrava che tutti avessero da lamentarsi. Lagnanze sui programmi della quadrovisione che non erano abbastanza erotici, e su famosi lassativi e afrodisiaci che sembrava non facessero più effetto. Lamenti sull’erba-seta che sbiadiva nei parchi, sulle foglie cadenti che erano più pesanti del vrek precendente, sulla luce delle stelle che si era accesa tardi o troppo fioca o qualcosa del genere sul Primo Settore, la notte precedente. C’era gente che si lamentava perché doveva pagare troppo spesso per la casa, e maniaci dei ringraziamenti che dicevano di non pagare abbastanza spesso.

Un robot si fermò davanti a me.

«Richiesta?»

«Cambiamento di età e di posizione sociale,» dissi io.

Cadde una specie di silenzio, e potei sentire gli sguardi che mi fissavano, mentre le menti piccine pensavano: «Evviva! Una freak

«Registrato,» scattò il robot; poi non seppe resistere alla tentazione di aggiungere: «Uno-A, Prima Classe Eccezionale. Hai qualche ragione medica per la richiesta?»

«No.»

«Hai una qualche ragione?»

«Io penso di sì,» dissi. «Tu, probabilmente, la penseresti in un altro modo.»

Mi girai per lanciare occhiatacce a quelli che mi sbirciavano e all’improvviso mi accorsi che anche la bestiola lanciava occhiatacce, ringhiando e soffiando rabbiosa. Le accarezzai la testolina chiara e riuscii a ritirare le dita appena in tempo.

Il robot si era allontanato, ma un messaggero mi si avicinò volando e mi segnalò di seguirlo. Tutti gli altri brontolarono. Ero passata al primo posto, grazie esclusivamente all’originalità. Probabilmente qualcuno aveva voglia di farsi quattro risate prima di continuare con la solita, noioissima routine.

Salii la spirale mobile, seguendo il messaggero, e venni condotta lungo corridoi di vetro in una stanzetta rotonda, con un dipinto mobile sul soffitto e un tappeto d’acqua asciutta. Un funzionario quasi-robot sedeva su una sedia fluttuante di crystallize, anche quella ancorata ma un po’ più in basso, e con mia sorpresa e sconforto, la bestiola spiccò un gran balzo e si posò saldamente sulle mie ginocchia. Rimasi seduta, molto eretta, e guardai il Q-R. Lui guardò me.

«Ora,» disse il quasi-robot, agitando dolcemente i baffi, «vuoi ripetermi la tua richiesta?»

«Cambiamento d’età e di posizione sociale,» dissi, intrepida. Beh, almeno fingevo di esserlo.

«Uhm,» disse il quasi-robot. Fissò serenamente un punto, appena al di sopra dei miei occhi. La mia ape mi cadde sulla testa, il bestiolino spiccò un balzo per afferrarla, la sedia s’inclinò, e tutti finimmo sul tappeto d’acqua, creando un’orrenda ondata di piena.

«Oh, farath… onk!» Cominciai ad imprecare e mi affrettai a smorzare l’imprecazione: non si poteva mai sapere, con i Q-R.

La sedia mi seguì e io tornai a sedermi. La bestiola, purtroppo, tornò a balzarmi in grembo.

«Sì,» disse il Q-R. «Capisco.»

Fluttuammo graziosamente per circa cinque milioni di vrek, e poi egli aggiunse: «Sei Jang, naturalmente.»

«Sì.»

«Uhmm.»

«Ed è proprio questo il guaio,» gli dissi.

«Oh, suvvia,» cantilenò il Q-R, proprio come se fosse un fattore. «Il fiore della vita. Totale consapevolezza degli ottanta sensi, il vertice delle risorse dell’immaginazione…»

Detesto veramente la gente che mi snocciola queste sciocchezze; ma restai seduta immobile e ascoltai educatamente, raggiante, come se pensassi che lui era la cosa assolutamente più groshing con cui avessi mai fluttuato. Alla fine stette zitto, e io dissi:

«Hai tutte le ragioni, certo, ma sinceramente ritengo di aver accelerato un po’ il mio sviluppo, e ho bisogno di passare allo stadio successivo, di diventare Anziana.»

«E da quanto tempo, mia cara,» fece il Q-R, sorridendo, «sei una dei Jang?»

«Da millenni,» feci io.

«Uhmm.»

Fluttuammo ancora. Alzai gli occhi verso il dipinto del soffitto, e c’erano corpi bellissimi, da cui spuntavano foglie e fiori: eseguivano una specie di danza dimensionale, in modo che certi pezzi sparivano e riapparivano continuamente da qualche altra parte.

«Ho appena consultato il tuo fascicolo nell’archivio,» mi disse bruscamente il Q-R. Lo fanno con le unità telepatiche che hanno nei gomiti, così dice Hatta, ma per essere assolutamente sinceri ti fa impressione lo stesso. Di solito, la frase sconcertante è: «Ho appena consultato il tuo fascicolo nell’archivio, e il tuo nuovo corpo non è stato ancora registrato. Quindi, sei temporaneamente morto.» Ricordo che era accaduto una volta anche a Hergal, quand’ero con lui al Palazzo dell’Avventura. Fece a tutti e due un effetto molto strano. Credo sia per quello che adesso resta nel Limbo per uno o due unit, per precauzione. Comunque il Q-R continuò:

«Secondo la documentazione, tu sei Jang solo da un quarto di rorl. Il periodo abituale è di almeno mezzo rorl, mia cara signorina. Tranne, naturalmente, nei casi molto eccezionali.»

«Io sono un caso eccezionale!» gridai.

«Oh, non credo proprio, mia cara,» fece il Q-R.

Cominciò a spiegare, ma io non capii, e sinceramente credo che non capisse neppure lui. Perciò l’interruppi:

«Non puoi mettermi alla prova? Non c’è una specie di sistema per scoprire i casi speciali?»

«Beh, ehm.» disse il Q-R. Tornò di nuovo in trance, frugando nei banchi della memoria e in chissà che. «È una faccenda abbastanza complessa. Esami fisici e mentali e così via.»

«Giusto,» dissi io.

Lo avevo veramente sbalordito… Derisann.

«Cosa?»

«Sono pronta,» dissi. «Quando cominciamo?»

Per un po’ restò lì a guardarmi, sbattendo gli occhi.

«Ehm. Vuoi aspettare un momento?» disse, e abbassò la sedia sul pavimento. Passò attraverso il tappeto d’acqua e mi lasciò lì. Voglio dire, questo non lo fanno mai. Per motivi di superiorità, stanno sempre sulle loro sedie, e tocca a te muoverti. Lo avevo davvero confuso. Mi sentivo le orecchie calde per l’eccitazione e un po’ anche per una specie di panico. Ero veramente pronta a passare allo stadio successivo? Era quella la soluzione? All’improvviso provai l’impulso di lanciarmi fuori dalla stanza, ma mi trattenni. Era il fatto di essere Jang a deprimermi. Doveva essere quello. Perciò, secondo la logica, essere non Jang mi avrebbe aiutata a sentirmi meglio. La porta si alzò e un altro messaggero mi segnalò di seguirlo.

Lo seguii, tremando come se fossi nel Palazzo delle Dimensioni.

3.

Passammo per una sotterranea, sotto la Via d’Acqua Aurea, una sotterranea privata di proprietà del Palazzo della Commissione, a bordo d’una piccola slitta che sobbalzava a trenta centimetri dal suolo su getti di un bel vapore roseo. La luce dorata dell’acqua splendeva attraverso il tetto trasparente, e faceva apparire tutto piuttosto gaio; tranne me, ci scommetterei. Presi una pillola della serenità, e mi sentii dolcemente euforica e capace di affrontare qualunque cosa.

La slitta passò sotto varie arcate e andò a fermarsi in una grande galleria, piena di pavimenti volanti. Il messaggero mi fece salire su uno di essi, l’ape vi cadde sopra e la mia bestiola ci seguì a unghiate. Salimmo tutti e arrivammo in una grande sala di acciaio e crystallize, dove l’ape si trovò improvvisamente magnetizzata su una rastrelliera piena d’altre api, e la bestiola venne portata via in fretta e furia dai robot, che brontolavano perché il pelo era antigienico e così via.

Mi ricordava certe parti del Limbo, e me lo ricordò anche l’uomo della medicina, un quasi-robot vestito di chiaro, che mi indicò garbatamente un gran divano morbido e mi sedette di fronte (più in alto di me, naturalmente), con le mani giunte, e qualche registratore in funzione, senza dubbio, dentro di lui.

E ricominciammo daccapo. Ovvio, immagino. Avrei dovuto aspettare un altro quarto di rorl prima di tornare. Sapevo (Fatto Accidentale Interessante) che spesso la gente era ancora prevalentemente Jang dopo mezzo rorl, e talvolta addirittura continuava per un rorl intero? E allora non era possibile, dissi io, che alcuni uscissero dalla fase Jang dopo un quarto di rorl? Beh, effettivamente era accaduto, molto di rado, ammise lui (Soave Concessione), ma in tali casi il loro comportamento lo confermava, mentre il mio, apparentemente, non lo confermava affatto. Comunque, dissi io, adesso sono qui, perciò tanto vale che cominci a farmi questi esami. Immagino che dovrò pagare, qualunque cosa succeda. Lui mi sembrò leggermente imbarazzato ma la prese bene. Certo che poteva, disse, se questo serviva a tranquillizzarmi (Blanda Diplomazia per Trattare con la Barbara Jang).

«Prima qualche semplice domanda,» annunciò, per consolarmi, e indicò uno schermo che aveva acceso sulla colonna che gli stava davanti. «Innanzi tutto, hai mai rubato?»

Beh, d’accordo, sussultai. Era intile mentire. Del resto, per quel che ne sapevo io, poteva anche essere uno dei primi segni del vero anti-Jang.

«Qualche volta,» dissi.

«E cosa rubi?»

Ebbi l’improvvisa sensazione inquietante che ce l’avessero con me per l’Evasione, perciò non dissi una parola.

«Posso assicurarti,» disse allora lui, «che quanto dirai durante questi esami rimarrà strettamente confidenziale. L’unico uso che si farà delle informazioni sarà per scoprire che cos’è meglio per il tuo futuro.»

Bene, i robot non mentono, perciò risposi:

«Diverse cose. Non è che importi molto. Lo faccio quando sono depressa, di solito, o quando mi sento droad.»

Lui annuì, e io pensai che fosse soddisfatto, il che doveva essere un male: ma ormai era troppo tardi.

«Ora, per quanto riguarda la tua vita sessuale… ehm, ’fare l’amore’. Sei prevalentemente femmina, ma una volta ogni tanto maschio, vedo. Hai trovato un equilibrio molto ragionevole, debbo dire.»

Congratulazioni a me stessa. Quello stava già abbattendo le mie povere, piccole difese, non era così?

«Esatto,» dissi io. «Ma mi è stata imposta una restrizione di sessanta unit, per aver cambiato corpo troppo spesso.»

Volevo che disapprovasse, ma quello continuò con il solito sorrisetto. Oh, onk!

«E quanto fai l’amore?»

«Oh, molto spesso, veramente.»

«Potresti essere un po’ più precisa?»

«In media una volta ogni sei unit. Però, recentemente, un po’ meno.»

Avevo fatto centro. Non è Jang non fare l’amore praticamente sempre, ed era vero che avevo perduto l’interesse…

«Quando ti sei sposata l’ultima volta?»

«Due unit fa.»

«Capisco.» Era soddisfatto di nuovo.

«Ma non è andata bene…» mi affrettai ad aggiungere; ma lui sorvolò.

«Hai un cibo o una bevanda preferita?»

Dissi di no. Il cibo non contava molto, per me. Mi chiese che cosa avrei preferito se avessi dovuto mangiare ora, perciò dissi «bistecca di noce», la prima cosa che mi venne in mente. Non riuscii più a capire le sue reazioni, da quel momento. Era diventato molto più guardingo.

Poi passò ai vestiti.

Ero uscita di proposito con l’abito meno Jang che fossi riuscita a trovare, ma è abbastanza difficile trovare roba veramente soolka. Quell’abito era trasparente, per la metà superiore, ma coperto di gemme e di ricami, e le maniche e la gonna erano color oro cupo, quasi opache. Non avevo neppure ornamenti, e avevo i capelli lisci, non ravvolti con fiori o perle e gingilli metallici, e campanellini d’oro all’estremità d’ogni ciocca.

«Mi piacciono i colori carichi,» dissi, sinceramente. «Non la seta metallica trasparente che mostra tutto quanto.»

«Sì, capisco. E cosa porti? Vedo che la metà superiore del tuo abito rivela tutto quel che può… ed è anche molto attraente.»

Oh, che razza di v…n!

«Non è quel che preferisco…» cominciai.

«E allora perché lo porti, mia cara?»

Continuò a parlare mentre io cercavo freneticamente di spiegare che la Torre di Giada e la Montagna d’Argento, e tutti gli altri centri che vendono vestiti e gioielli, ti trascinano ai banchi Jang e ti stordiscono con la musica dell’Orecchio Superiore, e sembra impossibile trovare qualcosa di adatto ai vecchi, per quanto strilli e strepiti.

«Attività.» Sentii che faceva le fusa, quando finalmente rinunciai a tentare di farmi dare ascolto. «Vai al Palazzo delle Dimensioni?»

«Sì,» dissi io.

«Al Palazzo dell’Avventura?»

«Sì.»

«Alle Stanze del Sogno?»

«Sì.» Anti-Jang? Evidentemente no.

«Uhm. Programmi sempre gli stessi sogni?»

Ahah, pensai, adesso ci sei, ooma. I miei sogni sono non-non-non tutto quello che i comunicati dicono che debbono essere i sogni Jang.

«Più o meno gli stessi,» cominciai. «E…»

«Bene,» disse lui. Solo «Bene».

«Non vuoi sentire cosa sogno?»

«Non credo che abbia importanza.»

«Beh, io credo che ne abbia.» Gli parlai del mio ultimo sogno, insistendo sul drago, sull’innamorato e sul riforire del deserto. Lui restò lì seduto ad ascoltare. Quando smisi, sorrise.

«Mi sembra molto piacevole, anche se un po’ energico,» mi elogiò.

«Ma è strano, non è vero? Un sogno anormale?»

«Per nulla,» disse lui. «Piacevolmente normale. Tanto per cominciare, è evidente che hai coordinato molto bene le tue tendenze maschili con quelle femminili. Ti trasformi tanto nell’eroe che combatte quanto nella fanciulla che sviene. Provi un desiderio subconscio e riposante di veder fiorire il deserto. E hai anche un ottimo senso del colore, potrei aggiungere.»

«Secondo i comunicati,» cominciai, accalorandomi, «il sogno estatico del Jang normale è essere una particella di luce pulsante, risucchiata tra soli ardenti…»

«La media, mia cara, non sempre è totalmente rappresentativa come dovrebbe. Tu sei quel che viene definito un sognatore attivo. Ti piace costruire una storia. Per la verità, molti giovani che frequentano il Palazzo dell’Avventura oltre alle Stanze del Sogno inventano saghe simili alla tua.»

Mi sentii distrutta. Impallidii, credo. Nessuno ne parlava mai, di sogni del genere. Suppongo che pensassimo, sinceramente, che era strano farlo, e dopo raccontavano di essere stati particelle luminose, perché gli altri non ridessero. E all’improvviso pensai a Hergal, che mi aveva confidato di sognare di volare.

«Ma impiego moltissimo tempo nella programmazione,» tentai, fiaccamente, «a disegnare tutti i costumi e così via.»

«Ciò significa semplicemente che la tua mente è più produttiva, in questo campo, delle menti dei tuoi amici che si affidano al giudizio del robot. E non sei l’unica.»

Vi furono alcune altre domande, che passarono in una specie di stordimento. Poi arrivammo alle immagini.


«Quello è rosso», dissi, mentre lo schermo diventava rosso. «E quello è blu. Rosa.» aggiunsi. «Rosa con orli azzurri. Verde. Verde e rosso. Porpora.» Lo schermo passò dai colori alle forme, accelerando sempre di più. «Quadrato. Cerchio. Cubo. Cubo esadimensionale. Rettangolo quadridimensionale. Cerchio. Ottagono.» Non riuscivo a capire il perché di tutto questo, ma passammo ad una successione di edifici, di giardini e di altre cose. Cercava di misurarmi la vista? O di stabilire se riuscivo a parlare tanto in fretta? E poi gli edifici e i giardini cominciarono ad apparire tra strane nebbie colorate, con draghi che li rovesciavano e nubi di fuoco che si levavano tutto intorno, e alla fine chiesi davvero che bisogno aveva di fare così, perché mi sentivo strana. Non potei farne a meno, davvero mi sentivo strana. E lui sembrò veramente soddisfatto, quel floop.

Dopo giocammo una specie di gioco in cui appariva l’immagine d’una persona o di una cosa, e io potevo dirigere verso di essa gli oggetti, cui quella reagiva. C’erano scialuppe celesti che potevo far perdere nelle nuvole, e una bellissima inquadratura del Museo della Robotica che io inondai con un’enorme valanga di sciroppo e di frutta, e diedi la caccia ai burberi quasi-robot con le formiche meccaniche, e finalmente mi resi conto che il Q-R mi aveva raggirata e che mi stavo divertendo, e probabilmente avevo sbagliato tutto, dimostrando che avrei dovuto continuare ad essere Jang per chissà quanti rorl. C’era anche una specie di musica suadente e impercettibile; e forse avevo fatto male a prendere quella pillola, nel venire lì. Mi sembrava di non riuscire più a innestare il freno.

Dopo le immagini bidimensionali, passammo a quelle tridimensionali, con odori, suoni, atmosfera e tutto il resto.

Ho dimenticato quasi tutto. C’era l’immagine di un serpente che divorava se stesso e continuava a ricrearsi, di una donna vestita di fiamme, che danzava al suono dei tamburi, che quasi mi fece impazzire dal desiderio di far l’amore con lei, o dal desiderio che lei facesse l’amore con qualcun altro, o non so cosa. Cominciavo a sentirmi confusa. Uno volta, sinceramente, pensai di essere un maschio. Vedete, sapevo di esserlo, però non lo ero.

Poi ci furono le ultime due immagini. La prima era un giovane maschio scintillante di cianfrusaglie Jang e un paio di grandi ali, con i capelli lunghi e i baffi color rame, e un bellissimo corpo virile. Oh, era derisann. Poi accanto a lui apparve un uomo più vecchio, soolka e dall’aria solida. Potevi immaginarlo mentre pagava tutto e ti chiamava «mia cara», come fa Hatta, anzi peggio. Ed era così ovvio che, sebbene stordita, scattai sul chi vive, e quando il quasi-robot tese la mano io ero pronta.

«Cosa pensi di questo giovane maschio?» domandò, tutto sorrisi, e io mi feci forza. Sentivo di tradire l’essere affascinante, incantevole, desiderabile che era il maschio Jang, condannandomi ad una vita senza l’amore con uno come lui. Ma dissi serenamente:

«Molto carino. Ma quelle ali sono una seccatura, no?» E questo, almeno, l’avevo sempre pensato, anche se in quel momento lui mi piaceva, ali e tutto.

Il quasi-robot tuttavia, non si scompose. Sempre tutto sorrisi, indicò l’altro maschio.

«E questo?»

«Oh, è groshing, assolutamente derisann! Mi fa diventare zuradann! Lo voglio!»

E poi…! Le due immagini si erano scambiate i vestiti, espressioni, ali, tutto. Mi sentivo completamente frastornata. Sapevo vagamente che non era giusto… nei miei confronti. Fissai il giovane maschio con gli abiti soolka e l’espressione seria, e il maschio più vecchio tutto nudità, catenelle e gaiezza, con due grandi, stupide ali che svolazzavano dietro di lui, e il quasi-robot disse:

«E quale preferisci, adesso?»

E sembrò tutto ciò. Davvero. Logico. Il giovane maschio era diventato un Anziano, e l’Anziano era Jang. Avevo vinto. E presto avrei cancellato quell’aria pomposa da quell’ooma dai capelli di rame.

«Lui,» dissi, e indicai il petto, ora nascosto ma bellissimo, del giovane.

E il quasi robot assunse un’espressione compiaciuta.

«Bene, è giusto, no?» gridai . «Lui è non Jang, vero? Assolutamente soolka, anzi.»

«Ho notato,» osservò il Q-R, piuttosto gentilmente, «che hai usato prevalentemente lo slang dei Jang, durante il nostro colloquio.»

«Bene,» scattai. «Non ho sentito altro per un quarto di rorl. Che cosa pretendi? E non hai risposto alla mia domanda. Il maschio giovane adesso è non-Jang, no?»

«Comunque,» disse il Q-R, «è sempre un maschio giovane.» E, garantito, non riuscii a capire, fino a quando un messaggero mi ebbe condotto via per la visita medica, e io mi trovai sdraiata sul dorso, esaminata internamente dagli apparecchi fissati al soffitto.

4.

Mi controllarono meticolosamente, per accertarsi che ai miei nervi e al mio cervello non fosse successo nulla che potesse creare depressione o isteria, e presero appunti sul modo in cui avevo progettato il mio ultimo corpo. Era un corpo Jang, naturalmente… Non era bizzarro, fatto per l’Esperienza Essenziale, come quelli di Hatta, è vero: tuttavia era Jang, spensierato e simile ad un fiore. Inoltre esaminarono scrupolosamente i fascicoli relativi agli altri miei corpi recenti, e immagino che fossero tutti dello stesso tipo. Controllarono le mie reazioni all’estasi e all’energia, e mi misero addirittura in stato di trance, nel quale credetti di stare sposando per il pomeriggio quell’affascinante maschio dai capelli color rame, e poi facevo l’amore con lui. Devo ammettere che era derisann: ma quando mi svegliai di nuovo, mi resi conto di essere andata a fondo come un sasso.

Anche il cordiale d’acqua argenteo che mi offrirono, per darmi la forza di affrontare di nuovo il Palazzo della Commissione, fu una specie di esame.

Percorsi la sotterranea su di una slitta: stavolta ero sola. A quanto sembrava, un robot aveva già portato alla mia sfera la mia ape e il bestiolino.

Un messaggero mi ricondusse nella stanza rotonda dal tappeto d’acqua: sedetti sulla sedia fluttuante, di fronte al primo Q-R che mi aveva ricevuta.

«Ah, sì,» fece lui, in tono benevolo. «Non troppo esausta, spero. Purtroppo, questi esami sono piuttosto stancanti.»

«Sì,» ammisi io. «Allora?»

Lui sorrise.

«Allora.» Allargò le mani immacolate. «Credo che tu lo sappia già.»

«Rifiuti di mandarmi alla fase successiva?»

«Non sei ancora pronta, mia cara signorina. La tua mentalità, i tuoi gusti, i tuoi appetiti appartengono tutti ai Jang. Le deviazioni minori non contano. Se, per errore, avessimo chiesto il cambiamento proposto da te, ti avrebbe causato angosce quasi immediate.»

«È assurdo,» dissi io. «Sono angosciata adesso.»

«Naturalmente.» Mi guardò, come se tenesse molto alla mia felicità. «Credo scoprirai che la soluzione del tuo problema consiste nel dedicarti con maggiore slancio alle attività dei Jang. Occupa il tuo tempo. Smetti di pensare ’Devo essere felice’, per poi odiare tutti quando non riesci a trovare la gioia in questo modo. Rilassati.»

«Grazie,» dissi, impettita. «Immagino che dovrò pagare?»

«Questo sta a te,» rispose in tono mite il Q-R. «se preferisci di no, non è necessario.»

Quindi, almeno questo mi era risparmiato.

Uscii disperata, in una specie di incubo. Continuavo a ripetermi incessantemente: Mi hanno imbrogliata. È una grande congiura. Nessuna di quelle domande aveva senso, era solo una specie di gioco per indurmi a credere che avevano tentato.

Raggiunsi la sfera e chiusi la portiera, presi a calci la mia ape riducendola a una relativa sottomissione. Sedetti, e il bestiolino mi balzò in grembo. Lo guardai, guardai gli occhi che sembravano giungle arancioni, vissuti lontano, nei pressi di Quattro BOO, tra gli spuntoni di roccia e il deserto irrequieto.

«Hanno ragione loro,» dissi. «È inutile. Sono ancora Jang, e non voglio affatto correre avanti. Cos’è che non va, allora? Che cosa c’è di tanto terribile?»

Cinsi la bestiola con le braccia, appoggiandole la guancia sul pelo morbido: mi lasciò stare così per dieci split prima di darmi un morso.

5.

Hatta mi chiamò di nuovo, e io ero così stufa e frastornata che finii per dirgli che mi sarei trovata con lui per l’ottavo pasto.

Andammo al Cielo Azzurro e sedemmo sul pavimento trasparente, mentre la città che si oscurava si muoveva lentamente sotto di noi, e cercammo di mangiare l’insalata in ghiaccio senza lasciarci prendere dalle vertigini.

Al Palazzo della Commissione mi avevano assicurato che il mio disonorevole desiderio di smettere d’essere Jang non sarebbe mai trapelato e che i miei amici, quindi, non si sarebbero mai raggomitolati in preda a un isterismo urlante per la mia stupidità… cito più o meno alla lettera. Provavo comunque l’impulso incontrollabile di dirlo a Hatta: sembrava sempre così fidato e pacioso. Suppongo che la sua bruttezza contribuisse a dare quell’impressione. Ma non dissi niente. Credo che quelli della Commissione avessero veramente fatto un buon lavoro: e mi vergognavo davvero.

Quando arrivammo al momento delle confetture e dell’ananas-cactus, Hatta mi rivolse ancora una volta una proposta di matrimonio, e ancora una volta io rifiutai.

«Non potrei sopportarlo,» dissi. «Mi sento già abbastanza tosky così.»

Restammo seduti a guardare le luci che si accendevano, e io mi chiesi perché, se Hatta aveva tanto bisogno di me, non si cambiava in qualcosa di piacevole. Hatta mi era simpatico, dopotutto, e con un bel corpo sarebbe stato attraente. Poi pensai: Forse lo fa apposta per impedirmi di accettare. Forse in realtà non mi vuole affatto, si diverte solo a illudersi di volermi. Questo pensiero mi avvilì ancora di più, e dissi che volevo andare a casa.

Hatta è veramente molto buono. Sai che sarà sempre lì, disponibile, quando avrai bisogno di lui, e che se ne andrà quando vorrai che se ne vada.

Mi aggirai per il mio solitario palazzo di vetro, cercando vagamente la bestiola, che non si fece vedere.

«Dovresti dedicarti con maggiore slancio alle attività dei Jang,» mi aveva detto il Q-R. Rivolgiti da qualunque altra parte, presumibilmente, ma non alla Commissione. Benissimo, avrei preparato un programma di avventure per l’indomani. Migliaia di split più tardi persi la testa e non so cosa, e cominciai ad aggirami furibonda, totalmente frustrata per la mia mancanza di entusiasmo per tutto ciò che riuscivo a pensare. Accesi tutte le quadrovisioni e gli impianti musicali, e svegliai i pulitori della cucina e della casa, e restai lì seduta, in mezzo al caos più assoluto, tirandomi le ciocche dei capelli.

Mi portai a letto un ipnonastro e lo regolai perché mi dicesse per tutta la notte, nel sonno:

«Sarò costruttiva, sarò costruttiva. Penserò qualcosa di meraviglioso da fare.»

6.

E pensai qualcosa.

Davvero. Aprii gli occhi, con l’idea annidata nel mio cervello.

Avrei lavorato.

Qualcosa che mi interessasse, che occupasse il mio tempo, qualcosa per cui valesse la pena di svegliarmi. Non ero del tutto sicura che ci fossero cose del genere, a Quattro BEE. Uno dei miei fattori, una volta, era stato un po’ con le comunicazioni e tornava a casa ogni mid-vrek, meravigliosamente rilassato.

Guazzai felice nel mio bagno-laguna, mi vestii nel modo più Jang possibile, proprio per accontentarli tutti, e con la mia sfera corsi al Monumento di Zeefahr, e di lì al Palazzo della Commissione.


Venni introdotta immediatamente dal mio vecchio amico dal tappeto d’acqua, che mi guardò innervosito.

«Ho deciso di accettare il tuo consiglio,» dichiarai. «Mi piace essere Jang.»

«Uhm, bene,» rispose lui.

«Ti piace?» Girai su me stessa, mostrando tutte le mie conterie, le catenelle d’oro e i fiori e gli orpelli e le trasparenze. «E ho mangiato il primo pasto più popolare tra i Jang, pane degli angeli tostato, e ho comprato un’intera registrazione nuova di Musica per l’Orecchio Superiore… per la verità l’ho rubata,» confidai, con gaio abbandono. Era davvero una pazzia. Ma il mio Q-R neanche aveva capito. Le sue antenne delle emozioni dovevano essere ritte come penne d’oca. Sorrise e disse:

«E cosa vuoi, precisamente, signorina?»

«Lavorare,» tubai io.

«Capisco,» disse lui. E restammo lì a guardarci.

«Purtroppo,» disse ancora lui, dopo un po’, «dobbiamo tornare al problema iniziale.»

«Oh, sì?» dissi. Dovevo avere l’aria minacciosa. Lui portò distrattamente la mano su un pulsante d’allarme, pronto a far accorrere un milione di robot in suo soccorso, se gli fossi saltata addosso per strappargli i baffi o qualcosa del genere.

«Vedi,» disse, tenendomi d’occhio, «la Commissione non dà impieghi ai Jang. Le vostre menti debbono essere libere di pensare alla ricreazione e al piacere. Gli Anziani, se lo desiderano, possono prestare servizi volontari di vario tipo, certamente, ma negli anni formativi…»

«Hai mai chiesto a uno Jang se gli piacerebbe trascorrere qualche anno formativo facendo qualcosa di utile?» domandai.

«Ehm…» fece lui.

«’Nuove leggi per i mondi nuovi’, mi pare che sia uno dei motti della Commissione,» prosegui al galoppo.

«Questo non è…» tentò il Q-R.

«E come fai a sapere che questa generazione di Jang sia proprio eguale alla precedente? E allora? Potremmo essere tutti varianti emotive, e tu te ne stai lì e ci ignori!»

Il quasi-Robot sembrava turbato, ma non dalla mia brillante logica oratoria. Era turbato come lo siete voi quando cercate di spiegare a un animale del deserto che deve far pipì nello scarico a vuoto, non nella quadrovisione. Ma poi, all’improvviso, mi tolse il fiato chiedendomi:

«E a cosa pensi di lavorare?»

«Beh, cosa c’è da fare?» balbettai io.

«Pochissimo,» mi rispose. «Particolarmente in questo momento.» Poi aggiunse: «Toglieresti la possibilità di lavorare a un Anziano, che ha il diritto di farlo?» Ma non gli diedi ascolto. A chi poteva importare? A lui no di sicuro, ci avrei scommesso.

Poi si alzò.

«Ti accompagnerò,» disse, «a fare un breve giro nei centri di lavoro di Quattro BEE. È la procedura consueta, quando qualcuno fa una richiesta del genere.»


Uscimmo a bordo di una piccola barca celeste del Palazzo della Commissione, che volava a bassa quota. Il vento continuava a sbattere i miei chilometri di capelli scarlatti negli occhi del Q-R, ma lui fu molto buono. La mia ape gli cadde sulla testa e lui fu molto buono anche in questo caso.

Finimmo nella rete del Centro Trasmissioni del Secondo Settore, e il modo in cui il Q-R bloccò bruscamente i comandi e ci fece scendere a casaccio, rischiando di mancare del tutto le reti, mi fece ricordare Hergal, con un senso di nostalgia.

All’interno era tutto fulgido, con slogan ingemmati e targhe che ricordavano eventi particolarmente brillanti (?) come l’ultimo sabotaggio dei Jang: avevano lasciato entrare una nube vulcanica nel Primo Settore, due notti prima, nascondendo le stelle (oh, sì, lo ricordavamo bene, io e il Q-R); o come quando un animale del deserto era fuggito nel Quarto Settore e aveva causato «caos e distruzione». Beh, caos, forse… credo. Nella sala principale c’erano robot che andavano e venivano, portando notizie da ogni angolo della città, e gli schermi trasmettevano inquadrature riprese dall’alto, con tanto di zoomate se cominciava a succedere qualcosa di epicamente frenetico, come una strada mobile che si incastrava per due split. Devo dire che tutto quanto mi diede un’impressione di efficienza e di vivacità… cioè, a parte gli Anziani. Erano due: stavano seduti a guardare la quadrovisione e di tanto in tanto premevano un pulsante o facevano scattare un interruttore.

«I robot, gli schermi e il resto raccolgono le notizie per le trasmissioni, come puoi vedere. I banchi dei monitor, qui, ricevono e selezionano i rapporti della Commissione ed i saggi sul comportamento sociale. Questo computer trasmette direttamente dal Limbo, ogni giorno, l’elenco dei cambiamenti di corpo via via che viene compilato, e questo trasmette le identificazioni individuali su richiesta degli interessati.» Il Q-R mi fece fare il giro della sala, mentre mi teneva questa lezioncina.

«E loro?» chiesi, indicando i due distratti lavoratori.

«Oh,» disse il Q-R, «fanno scattare i pulsanti che attivano ogni comunicazione.»

«Quindi, senza di loro, va tutto quanto a catafascio?» domandai io.

«Beh, non proprio,» ammise il Q-R. «Ogni pulsante scatta automaticamente dopo uno split.»

«Capisco,» dissi.

C’era un altro paio di lavori altrettanto eccitanti, e tutti venivano svolti automaticamente se gli Anziani se ne dimenticavano, e questo era un bene, perché si vedeva benissimo che i due lavoratori si erano appena assopiti.

«Grazie,» dissi io. «E adesso dove andiamo?»

Molto patetico, in realtà. Pensavo che Urbanistica suonasse molto promettente. In realtà, ecco cosa succede: la Commissione svolge un’indagine, per esempio, e scopre che il traffico aereo diretto al Palazzo dell’Avventura si ingorga nei pressi del Monumento al Tempo e allo Spazio. Allora la Commissione redige un rapporto in cui dice che questo succede a causa della coda degli avioplani che aspettano di cadere nelle reti del Monumento, e che bisogna fare un ponte speciale perché si mettano in coda, perché in tal modo non sono più d’intralcio. Tutto questo arriva tramite un computer e viene tradotto da un altro computer, dopodiché il messaggio viene consegnato a un Anziano, ufficialmente designato Pianificatore. Felice di quel compito esaltante, quello scova un assortimento di macchine adatte e le programma perché trovino il modo migliore di costruire il ponte, di deviare il traffico nel frattempo, eccetera. Poi, fierissimo, portando i calcoli matematici delle macchine, le proposte dei colori, le indicazioni d’equilibrio artistico e della disposizione dei cartelli segnaletici nelle mani sudate per l’entusiasmo, va a un altro parco macchine, incarica un robot di inserire le istruzioni nel computer competente e, palpitando, guarda l’apparato metallico che si mette all’opera per costruire il ponte della deviazione. E quelli si illudono davvero di aver fatto qualcosa.

«La spirale che ho costruito vicino al Museo del Pensiero,» lasciano cadere modestamente, tenendo sempre d’occhio il computer più vicino, nell’eventualità che la Comissione trovi un blocco nella Via d’Acqua Purpurea, o qualcosa di altrettanto sconvolgente.

Ormai ero preparata a vedere il peggio, al Centro delle Realizzazioni Artistiche.

È a colori pastello: fuori ci sono statue d’acqua, gigantesche e quasi invisibili, e alberi di bronzo che ti fanno pendere addosso il loro fogliame. Io mi impigliai con i capelli e per poco non mi strangolai, prima che il Q-R mi districasse. Mi diede un’occhiata strana. Forse pensava che volessi un altro corpo nuovo.

E poi entrammo, salimmo un paio di pavimenti volanti, e io mi eccitai perché lì la gente faceva veramente qualcosa. Strillai per l’emozione.

«Oh, sì,» fece in tono gentile il mio Q-R, «qui c’è spazio libero per il tocco personale.»

Poi ci fermammo a guardare una femmina euforica che scalpellava via pezzetti di marmo da un enorme masso bianco, e notai che a) usava una macchina con un dente affilato a un’estremità, e b) che la pietra era contrassegnata in modo molto chiaro, e che i segni magnetizzavano il dente. Un po’ più avanti, gli artisti si erano stancati e lasciavano che le macchine continuassero da sole il lavoro, mentre loro si ingozzavano di fuoco-di-vino e di biscotti.

Il mio Q-R dovette accorgersi che ero pallida ed esasperata. Si affrettò a dirmi:

«Però i progetti vengono fatti proprio dagli artisti.»

«Dimostralo,» lo sfidai.

Salimmo ancora, e trovammo alcuni artisti impegnatissimi, effettivamente, solo che le cose si svolgevano così:


Domanda dell’artista: «Se inserisco una bacchetta ad angolo retto sulla sinistra, starà in equilibrio?»

Luce rossa, indicante che l’oggetto cadrà.

Domanda dell’artista: «Se sostengo la bacchetta con una seconda bacchetta, di larghezza doppia, e le sostengo entrambe con una intelaiatura a cubo inserita di traverso, allora saranno in equilibrio?»

Luce gialla, e un rotolo di cartamodello indicante che, sì, può andare e (consiglio utile) forse sarebbe meglio mettere due intelaiature cubiche contrapposte.


O anche: «Stai a sentire, robot, io posso fare gli occhi se tu mi dai una mano con gli zigomi.» Oppure: «La tua macchina potrebbe prepararmi quella meravigliosa sfumatura gialla che assume il cielo al tramonto? La mia è diventata troppo rosa.»

Io restai lì a guardare tutto quanto, e mi sentii diventare zaradann.

«Procuratemi un po’ di pietra!» urlai a tutti. La cosa li sconvolse. Il mio Q-R mi toccò il braccio e urlò ancora più forte: «Pietra e una macchina scalpellatrice! E colori! Subito!»

7.

Bene, ero un’idiota, no?

Andò a pezzi, no?

Ma solo dopo che io ce l’avevo messa veramente tutta.


I robot lo portarono e quasi me lo scaraventarono sui piedi, quel grande blocco rozzo di roba che sembrava impossibile. Io non sapevo bene quello che stavo facendo, e gli altri mi stavano intorno a bocca aperta. Il Q-R si sedette su una poltroncina molto artistica, e assunse un’aria contemplativa.

Presi la mira. Lì non c’erano i facili segni magnetizzati, ma lo slancio con cui partì il dente dello scalpello per poco non mi strappò via il braccio. E mi accorsi che ero passata adirittura dall’altra parte. Beh, voglio dire, era questo che avevo avuto intenzione di fare, no? Coraggio! Tentai ancora e questa volta poco mancò che passassi anch’io attraverso il blocco, trascinata dallo scalpello. Mi ributtai all’indietro i capelli e riprovai ancora, e riuscii a congiungere i due buchi con un arco sottile e slanciato. Qualcosa ero riuscita a combinare.

Scalpellai e raschiai per millenni, mentre le schegge volavano nei cestini magnetizzati, e presto mi trovai a strisciare dentro le cavità, a trapanare e a colpire violentemente. Era molto intricato e a me piaceva, e quasi non badavo più agli occhi che mi stavano sbirciando.

All’improvviso, qualcuno mi afferrò i capelli, in una torsione torturante. Imprecai energicamente, fino a quando mi accorsi che non era stato nessuno. I miei capelli scarlatti si erano impigliati nella trina marmorea. Il Q-R dovette scendere, con la solita pazienza, per districarmi, e dopo quella dovette scendere molte altre volte.

«Oh, prendi qualcosa per tagliare,» scattai quando finalmente mi trovai appesa in un grande varco ovale, in una sorta di frenetica ragnatela di capelli, in cui fremevano milioni di schegge di pietra. I miei capelli diventarono sempre più corti e, quando si ridussero lunghi solo fino alle ginocchia, decisi di averne avuto abbastanza e uscii fuori prima di diventare calva.

C’erano enormi barattoli di colore dalle tinte splendide, intorno all’area dove lavoravo, e cominciai a intingere nell’uno e nell’altro, soddisfatta. Anch’io cominciai a cambiare colore. I miei capelli erano diventati rosa platino, e avevo il naso color verde veronese. Giocai con i colori per creare illusioni, dipingendo i recessi in ombra a toni vividi e luminosi, e i piani sporgenti a cremisi e violetti tonanti, conducendo il motivo d’una linea ininterrotta attraverso vari angoli, e facendo apparire e sparire nella pietra vortici che parevano di fuoco.

Saltammo innumerevoli pasti, il mio pubblico ed io. Ormai era pomeriggio inoltrato.

Poi feci qualche passo indietro e mi passai la mano sulla fronte, dimenticando che mi sarei sporcata ancora di colore. Comunque non m’importava. Ero fierissima. Mi pareva già di vedere la mia opera, sistemata nei Giardini del Sole al Quarto Settore, o messa ad abbellire qualche marciapiedi di vetro lungo una via d’acqua, dolcemente riflessa nella corrente. Ma non avevo notato le minuscole crepe nei punti in cui il dente dello scalpello era slittato leggermente, il lieve squilibrio, il fatto che una parte era un poco più pesante dell’altra.

Mi avvicinai e posai la mano sulla sommità, una specie di affettuosa carezza sulla testa della mia incantevole bestiola di pietra. Nell’istante in cui la toccai, emise un suono spaventoso e tutto quanto, sbavando colore non cementato, crollò lentamente, con lurida implacabilità, fino a ridursi un mucchio di pietrisco.

Mi tirarono fuori.

Il Q-R sorrise.

«È sempre opportuno,» disse, «chiedere il consiglio del computer, in queste cose.»

«V…n il computer!» esclamai: e in silenzio scandalizzato, il Q-R mi trascinò via.

8.

Fu molto gentile, davvero. Non mi disse di non stare lì seduta a rimuginare, mentre stavo seduta a rimuginare.

Facemmo un pasto per iniezione a testa, e pagò lui, ma non credo che lo facesse tanto per cavalleria. I Q-R trovano maggiore facilità a farlo, poiché i circuiti relativi li hanno incorporati. Poi svolazzammo un po’ in giro e vedemmo centinaia di persone annoiate che facevano i supervisori del Flusso dell’Acqua, del Traffico Aereo, della Pianificazione Alimentare, e così via. Non avevano da fare altro che premere pulsanti e girare manopole, che del resto si premevano e si giravano da soli. Cominciò a farsi buio, e il quasi-robot disse che quello era tutto, a parte il Centro Ideazione della Quadrovisione, e io lo agguantai e gli dissi che volevo vederlo, perciò andammo anche là. Credo che il mio entusiasmo fosse semplicemente un riflesso. Tanto, avrei trovato ancora macchinari e computer come altrove, no?

È un grande edificio a cupola, con quadrovisioni di figure enormi, gigantesche, che si muovono in atteggiamenti erotici e via di seguito.

Entrammo, e salimmo e scendemmo per corridoi illuminati dolcemente da luci dorate, fumosi d’incenso, con grandi fiamme metalliche che si attorcevano sul soffitto, e vedemmo una quantità di stanzini chiusi, dove gli Ideatori, tutti soli, erano al lavoro. Non eravamo autorizzati a entrare e a disturbarli: ma potevi innestare un piccolo apparecchio e avere un riassunto completo di quel che succedeva. E quel che facevano quegli individui, in realtà, usciva proprio dalle loro menti. Si servivano di macchinari per i riferimenti, per esempio per accertarsi che una data sequenza non stridesse con un’altra, trasmessa dieci split prima, o non le somigliasse troppo. E manovravano personalmente i comandi per formare le immagini che volevano sul grande schermo a soffitto.

Ma le idee erano abbastanza monotone: danze, abbracci e amplessi, il tutto pieno di fiori e di capelli svolazzanti. Affascinante, ma banale. Una sfida.

«Eccolo,» dissi io.

«Cosa?» chiese il Q-R.

«Il lavoro che voglio fare,» dissi. «Cioè, sono proprio loro a farlo, vero?»

Il quasi-robot mi sembrò un po’ turbato, appena appena, ma disse che avrebbe cercato di trovarmi uno stanzino libero per provare, se volevo. Io volevo. Il Q-R si avviò lungo il corridoio, mentre io ronzavo intorno ai piccoli ufficetti lindi, sbirciando all’interno e spaventando probabilmente coloro che c’erano dentro, con i miei capelli striati di vernice e il naso verde, che avevo temporaneamente dimenticato.

Una spirale scese turbinando all’improvviso accanto a me e mi invitò a salire, e io salii, tra membra in movimento e corpi fioriti, in un altro corridoio, dove un messaggero a strisce gaiamente colorate mi fece accomodare nel mio minuscolo campo giochi, con il mio piccolo banco dei comandi e il mio piccolo grande schermo.

Dovetti effettivamente chiedere alla macchina come funzionava la baracca, ma in realtà era molto semplice. E volevano simbolismo, no, ed emozioni? Benissimo. Devo ammettere, comunque, che mi basai un po’ sulla Distorsione dei Sensi, anche se sul momento non me ne resi conto.

Cominciai con una ragazza dai capelli d’oro che passeggiava in una foresta soleggiata di piante mobili, e dopo un po’, le piante diventarono maschi. In principio solo leggermente, ma presto cominciò a capirsi benissimo. Erano bellissimi, con le gambe lunghe, veramente groshing, ma ancora imprigionati nei tronchi degli alberi, e si capiva che li vedevi attraverso gli occhi della ragazza, e lei in realtà immaginava che fossero maschi. Poi diventò veramente strano. Si vedeva che, mentre lei guardava gli alberi come se fossero stati uomini, gli alberi la guardavano come un’altra pianta, una specie di fiore fantastico dal lungo stelo, con le braccia come lunghe foglie, i capelli come una raggera di enormi petali dorati, che non camminava più, dondolava dolcemente in mezzo a loro. Allora cominciarono a tendersi verso di lei, prima uno alla volta, poi tutti insieme, agitando tralci che diventavano braccia, e con movimenti delle gambe muscolose che ritornavano radici frementi. Suppongo che fosse una licenza poetica, immaginare che la foresta fosse così affamata di sesso da diventare completamente zaradann per quel fiorellino fragile, ma non aveva importanza. Comunque, la lotta finiva, e il vincitore era un albero scuro, o un maschio dalla pelle scura e dai lunghi capelli neri. Si muoveva seguendo la ragazza-fiore; e cominciava una specie di danza fatta di fughe e di avvicinamenti, e finalmente facevano l’amore, aggrovigliati tra petali e foglie e rami, il che era bello e strano, più che erotico: comunque, io ne ero soddisfatta.

Premetti il pulsante di chiamata, e scese un canestro e portò via la registrazione. Restai seduta ad attendere.

Comunque, non dovetti aspettare molto.

Squillò il segnale dell’intercom, e a mezzo metro da me apparve l’immagine di un controllore Q-R.

«Ah, sì,» disse il controllore. «Un tentativo molto ragionevole, debbo dire. Ci è piaciuto abbastanza.»

«Urrah!» feci io. Lo sapevo già.

«Il guaio, mia cara,» mormorò in tono molto triste il controllore, «è che c’è troppa azione e troppo poco erotismo. Devi capire,» continuò, precedendo ogni mia possibile esplosione di protesta, che del resto non mi sentivo di fare perché ero troppo stanca, «che la quadrovisione viene vista quasi esclusivamente dai più anziani di Quattro BEE. Inoltre, coloro che la guardano amano semplicemente accenderla e spegnerla quando ne hanno voglia, e se tutte le nostre trasmissioni avessero una trama, sarebbe una confusione terribile, non è vero?» Una pausa per una risatella alla quale non mi associai. «Tuttavia,» concluse il controllore, «il tuo senso del colore e la tua originalità sono promettenti. Forse dovremmo rivederci, quando avrai completato il tuo periodo come Jang. Allora avrai idee più addolcite, più convenzionali, più accettabili: ne sono sicuro. Perciò ti consiglio di tornare allora, se te la sentirai ancora di aiutare la nostra piccola compagnia.»

Provai la tentazione di tirargli addosso la macchina di consultazione, ma desistetti.

Il mio Q-R mi aspettava nel corridoio.

«Non disperarti,» disse. «Riposati un po’. Frequenta i tuoi amici. Andavi così bene, questa mattina.»

«Il pane degli angeli tostato,» dissi, «mi dà la nausea.» E me ne andai, piantandolo lì, e tornai a casa.

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