Naturalmente, quando mi svegliai nella Vasca del Limbo avevo cambiato idea. Un uomo della medicina, un quasi-robot, mi stava sbirciando.
«Stai a sentire, ragazza mia… vedo che sei prevalentemente donna. Stai a sentire, questa storia deve finire. È la seconda volta che torni qui in dieci unit.»
«Uhmm.» Nuotai un po’ qua e là e gli sorrisi con i cavi della reazione emotiva.
Il Q-R se ne andò, e poi entrò qualcuno e mi chiese come volevo venirne fuori; e ormai, capite, ero contraria all’idea di diventare come Hergal. Sarebbe stato drumdik se la gente avesse creduto che fossi davvero Hergal! Con quello, e con quella floop di un’ape che mi sveniva tra i capelli… Mostrai loro la mia nuova me stessa. Come al solito era snella e affascinante, in modo deprimente. Hatta, e tanta altra gente che conosco, ci tiene ad avere una volta ogni tanto un corpo grasso, o con le macchie, o qualcosa del genere. Comunque, questa me aveva un vitino agile come un salice, un busto esotico e lunghissimi capelli scarlatti. Vi entrai, e mi diede un’impressione così strana che dovetti andare in un posto tranquillo a prendere una pillola dell’estasi, per dimenticare per un po’.
Hatta mi trovò, non molto tempo dopo.
«Ooma, Hatta,» dissi, facendo le fusa. Chiunque ti sembra carino, quando sei in estasi, persino Hatta, che era grasso e coperto di macchie, adesso, e con tre occhi.
«Attlevey, ooma. Ancora groshing, vedo. Ma non te ne stufi mai, neanche un po’?»
«No,» dissi io.
«Ti porto fuori a mangiare. Bisogna pur mangiare, prima o poi, no?»
«Beh, ho fame. Sono annegata subito dopo il terzo pasto, e questo corpo nuovo non ha mangiato niente.»
Uscimmo. Hatta mi sorreggeva, perché ero molto in estasi, e andammo al ponte fluttuante. La mia orrenda, abominevole ape ci corse dietro. Non riuscivo proprio a liberarmene. Questa volta cadde addosso a Hatta.
«Onk!» esclamò Hatta, che come al solito era tipicamente, schifosamente blando, qualunque cosa gli capiti. Io buttai l’ape giù dal ponte, ma quella tornò indietro. «Andiamo all’Abisso di Fuoco.»
L’Abisso di Fuoco, dicono, è il posto più adatto dove andare, quando ci si sente giù. Quasi mi rianimai un po’, ma alla fine, poco prima che ci arrivassimo, la mia Esigenza Neurotica si impose, e dovetti lasciare il ponte per andare a rubare qualcosa. Era un qualcosa vivo, questa volta, con il lungo pelo bianco e i grandi occhi arancione. Le sue vibrisse si impigliarono nei miei capelli, e io lo diedi da tenere per un momento alla mia ape, prima di diventare isterica.
«Ecco, ci siamo,» disse Hatta.
Balzammo giù dal ponte, e piombammo per circa sei metri, fino a quando la rete di onde elettriche dell’Abisso di Fuoco ci catturò al volo. Hatta sembrava avere l’aria di scusarsi. Nell’Abisso di Fuoco tutto arde di fiamme scarlatte. I tavoli fluttuano tra le fiamme, che non sono calde, naturalmente, e piccoli fulmini globulari saltellano dolcemente nei piatti. Mi intonai subito.
«Avevo dimenticato i tuoi capelli,» disse Hatta.
Ormai, comunque, mi ero calmata, ma lui mi mise in bocca un’altra pillola dell’estasi, per precauzione, e poi dovette portarmi di peso su un divano.
«Cosa prendi, mia cara?» chiese dolcemente.
Rabbrividii di quel suo vocabolario così poco Jang, augurandomi che nessuno avesse sentito.
Prendemmo una grossa bistecca di noce alla fiamma, con frutti brucianti di ogni genere, infilati sugli spiedini. Hatta tagliò le porzioni con il coltello ad ago molecolare e sbagliò tutto, comunque qualcosa riuscimmo a mangiare. Ormai l’estasi cominciava ad attenuarsi.
«Ho saputo,» borbottò Hatta, masticando la bistecca, «che hai fatto escludere ufficialmente Hergal.»
«Sì,» dissi io.
Per un po’, Hatta continuò a mangiare. Arrivò la nostra bottiglia di fuoco-e-ghiaccio, e lui la fiutò, l’assaggiò e fissò il soffitto fiammeggiante.
«Otto-primo Rorl, non dovrei meravigliarmi,» disse Hatta. Io toccai uno spiedino, ma Hatta si limitò a mormorare: «Ehm, devo ammettere che hai un aspetto veramente groshing.»
«Grazie. Non posso dire altrettanto di te, ooma.»
«Il fatto è,» rispose nervosamente lui, «che ormai non ho più fatto l’amore da due unit, e mi stavo chiedendo se non potremmo sposarci per il pomeriggio.»
«No, non potremmo proprio, finché tu hai quell’aspetto,» dissi io. Beh, dicevo sul serio. Una quantità di foruncoli infiammati e un paio di tonnellate che ti calano addosso, con tre occhi gialli senza pupille per osservare l’effetto!
«Senti,» mi incoraggiò Hatta, «non capisci che è un’Esperienza Essenziale fare all’amore con un corpo verso il quale non provi alcuna attrazione?»
«Perché?» No, non avevo intenzione di lasciarmi rimbambire con il gergo Jang dell’Esperienza Essenziale, particolarmente da quel vecchio reazionario di Hatta.
«Ecco…» cominciò lui.
Fummo interrotti. Kley e Danor erano arrivati con un animale da compagnia, che subito cominciò ad azzuffarsi con la bestiolina bianca che avevo rubato, e quindi con la mia ape. Nella confusione, rovesciarono i divani di fuoco fluttuante e si ingozzarono della nostra bistecca di noce. Questa volta erano entrambi maschi, dai lunghi capelli iridescenti, e Danor aveva quelle stupide ali, come Hergal, che continuavano a far cadere gli oggetti dal tavolo.
Mi salutarono vagamente e cominciarono a chiacchierare con Hatta.
Mi alzai, mi misi sotto il braccio il mio bianco animaletto peloso, e vuotai il terzo calice di fuoco-e-ghiaccio.
«Devo scappare, oomas,» dissi allegramente.
«Oh, ma…» cominciò Hatta.
«Ti ringrazio per il meraviglioso quarto pasto, Hatta,» dissi. «Ci vediamo al tuo prossimo corpo.»
Scappai.
Fuori, era uno di quei deprimenti pomeriggi di cristallo azzurro, con gocce dorate di sole. Il tempo è sempre perfetto, a Quattro BEE, ma di tanto in tanto i Jang riescono a sabotare qualcosa, e allora abbiamo una groshing, urlante tempesta di sabbia, che supera i raggi della barriera e ci rallegra tutti. Non dimenticherò mai quella volta che io e Danor, tutte e due femmine, allora, potrei aggiungere, sabotammo il controllore robot al Posto di Guardia 9A e facemmo entrare una pioggia di cenere vulcanica da una delle grandi montagne nere là fuori, torrenti e torrenti per unit e unit… tutto diventò zaradann. Dovettero consegnare i viveri per avioplano, e le strade erano piene di robot che tentavano di disseppellirci tutti. Una volta, riuscimmo persino a combinare un terremoto. Non crollò nulla, naturalmente, anche se avevamo sperato che cadesse il Museo della Robotica. Hergal ed io, quella volta, eravamo seduti in una grande torre di cristallo, e cercavamo senza riuscirci di fare all’amore telepaticamente, e la torre vibrava come gelatina, molto più di quanto ci riuscissimo noi.
Andai a un posto di chiamata, e feci trasmettere l’immagine del mio corpo nuovo, in modo che i miei amici (?) potessero riconoscermi. Accesi uno schermo per inquadrare il Monumento a Zeefahr e rimasi un’eternità ad aspettare, per vedere se Hergal gli precipitava contro dal cielo, ma non successe niente. Allora chiamai Thinta.
«Attlevey,» disse quando la sua immagine tridimensionale femminile apparve davanti a me. Era carina, piacevolmente grassottella, con grandi occhi verdi e i capelli un po’ lanosi. Non era cambiata da un’eternità: la stabilità, finalmente.
«Oh attlevey, ooma, stavo facendo un vestito d’acqua.»
Lo sollevò per mostrarlo, verde e opalescente, un po’ sgocciolante.
«Thinta,» dissi, «mi sono appena annegata e sono tornata così, e sono assolutamente droad.»
«Oh, non sapevo che eri tu,» rispose Thinta. Evidentemente, non aveva ancora visto il mio comunicato.
«Bene, ooma, perché non vai a una Stanza del Sogno? Se aspetti uno split, ti raggiungo.» E sparì.
A Thinta piacevano le Stanze del Sogno, sebbene fossero considerate molto poco Jang. Vi si incontra sempre una quantità di Anziani con «idee fisse», i quali vi dicono che non dovreste essere lì, dovreste essere fuori a far l’amore o ad andare in estasi o a provare i cambiamenti di sesso o la Distorsione dei Sensi, come ci si aspetta che facciano tutti i giovani. Andai nella Torre di Giada a rubare qualche gioiello mentre attendevo che Thinta arrivasse caprioleggiando col suo minuscolo avioplano rosa.
Il furto è un’arte assoluta, ed è uno dei miei pochi piaceri semplici.
Nella Torre di Giada c’è un grosso drago, allevato in non so che fattoria nei pressi di Quattro BAA. Fa tintinnare le scaglie laminate di giada, e dalla bocca gli esce un fuoco verde che ti fa una doccia completa, profumata di pino, molto tonificante. Quel drago mi è sempre piaciuto. Stimola il mio romanticismo. Una volta sono rimasta seduta per un’eternità nella sua bocca tepida, e ho cercato di convincere Kley a salvarmi, ma lui si è limitato a prendere una pillola dell’estasi ed è crollato scortesemente. Lo avevo messo in imbarazzo, credo.
«Attlevey, drago,» dissi.
Entrai per un po’ nel suo orecchio destro, che sembra una conchiglia, e pensai che cosa mi sarebbe piaciuto rubare, mentre il drago ruggiva e innaffiava tutti quanti.
La mia ape, stringendo la bianca bestiola pelosa che avevo rubata, mi seguì mentre vagavo innocentemente nella Torre di Giada. Mi aspettavo, subconsciamente, che mi cadessero tutti e due sulla testa. Le api degli altri sfrecciavano intorno, tutte efficienza e decisione programmata di servire. Io mi sentivo troppo vistosa — abito trasparente, catene d’anemoni d’oro, anelli alle dita dei piedi, unghie lunghe quanto le dita — estremamente Jang. E in tutta sincerità, non mi era mai piaciuto esagerare. Ci si sente così nudi quando si dimentica di mettere un fiore di orpello all’ombelico, e le unghie troppo lunghe sono pericolose.
Tutti gli Anziani mi rivolgevano cenni d’approvazione. Ero esattamente come dev’essere una persona giovane, tintinnante, quasi nuda, gli occhi monocolori ancora oscurati dall’estasi, e il mio vocabolario Jang che agiva come un catalizzatore in tutto ciò che andavo dicendo.
Mi avvicinai a un grande piatto girevole di orecchini-bomba profumati, che esalavano fumi fragranti, irradiavano luci ammiccanti dalle forme tormentate. Tesi la mano. Uno specchio fluttuante scese verso di me e mi mostrò il mio nuovo viso. Scelsi un paio di orecchini fosforescenti, li magnetizzai alle mie orecchie, e li guardai snodarsi e scendere amorevolmente lungo il collo, sulle spalle, e fermarsi con un sospiro sul mio addome.
«La signora è incantevole!» cantarono voci angeliche dall’alto della cupola trasparente.
Sapevo di essere venuta lì al momento sbagliato. Di solito le ragazze Jang arrivano di mattina, quando la Torre pulsa di Musica per l’Orecchio Superiore Jang, che in realtà non potete udire veramente, ma che in pochi secondi vi lancia nell’euforia. Allora riescono a venderti praticamente tutto, mentre le macchine gridano «Semplicemente groshing!» e «Ooma, è derisann!» tutto intorno a voi.
Poi, di colpo, mi sentii contemporaneamente stordita, felice e abbandonata. Le signore più anziane sembravano sbalordite: e si affrettarono a mettersi ì tappi. La Musica dell’Orecchio Superiore era stata alzata al massimo. Zaradann di gioia, maledissi i robot osservatori della Torre di Giada. Mi tolsi il mio bottino, misi la mano in mezzo a un mucchio di cianfrusaglie e la lasciai lì. Mi ributtai i capelli all’indietro e magnetizzai circa sei paia di orecchini arrotolati, che avevo appena preso, e che erano probabilmente tutti spaiati, sistemandoli nella crocchia sulla nuca. Ma fu solo un riflesso condizionato. Ero troppo estatica per ricavarne una vera e propria soddisfazione.
Passai davanti a una donna, mentre uscivo. Era occupatissima a pagare, in preda ad un’autentica frenesia, e notai che non aveva inserito i tappi per le orecchie, in modo che la Musica dell’Orecchio Superiore potesse aiutarla. Sinceramente, sarebbe stato meglio che lasciasse quelle cose ai Jang.
«È così groshing!» gridava lei mentre la macchina, sintonizzata solo sul suo abbigliamento e sui suoi capelli, stava dicendo:
«Assolutamente incantevole, signora,» e intanto la presa trasmetteva il suo entusiasmo agli elettrodi che cambiavano l’emozione in energia, e la convogliavano negli accumulatori della centrale principale di Quattro BEE.
Era abbastanza triste, tutto sommato. Io non pago mai per quello che prendo, se posso farne a meno. Io mi entusiasmo sempre senza eccitazione, e faccio diventare zaradann tutti gli assistenti robot.
Davanti alla Torre di Giada mi stava aspettando Thinta, spazientita per quanto può esserlo lei: più paziente del solito, infatti.
Tirai fuori i miei orecchini e ne trovai un paio giusto e quattro spaiati. Thinta non mi badò. Li gettai dalla terrazza della Torre di Giada e guardai le reti d’onde elettriche che li catturavano alle varie intersezioni. La mia mente rimbalzò tra le orecchie smagnetizzate, allontanandosi dalla gioia e dalla delizia auditiva che avevano rovinato il mio furto.
«Attlevey, Thinta,» ricordai di dire. All’improvviso mi resi conto che avrei preferito rimanere sola, ma ormai Thinta era lì, e ci stavamo dirigendo verso una Stanza del Sogno.
No, davvero, le Stanze del Sogno mi piacevano. Non direi mai quali sogni programmavo per me stessa, sebbene Hergal sognasse sempre di volare. Penso che Hatta, probabilmente, sognava di essere una sorta di mostro tricefalo.
«Cos’è?» chiese Thinta, alzando lo sguardo verso il mio bestiolino bianco rubato, che scalciava e ululava nelle grinfie della mia ape. L’ape di Thinta si precipitò per aiutare. L’ape di Thinta si precipitava sempre per aiutare. È avvilente. Thinta cercò di accarezzare la mia bestiola, e la mia bestiola cercò di mordere Thinta.
«Finitela!» strillai a tutti quanti. Mi sentivo veramente piuttosto tosky.
Arrivammo alle Stanze del Sogno del Terzo Settore di Quattro BEE senza incidenti. Thinta volava prudentemente, e mi accorsi che preferivo di gran lunga essere con Hergal e sentire il sangue che mi defluiva dalla testa per la paura. Per la verità, quando sono con Hergal mi accorgo sempre che preferisco essere con Thinta, e non sentire il sangue che mi defluisce dalla testa per la paura.
«Siamo arrivate!» gridò Thinta, e atterrò in modo superbo in una delle reti. Voglio dire, non c’è bisogno di guidare niente in una rete. Sono lì apposta per prendervi. Oh, beh.
Uscimmo e salimmo su una motorotaia. C’era una quantità di gente che saliva e scendeva, e una volta tanto c’era una folla di Jang. Quelli che uscivano discutevano ciò che avevano sognato., tutti simboli e proiezioni astrali e così via. Mi sentivo un po’ piccina. Mi capitava spesso. Sinceramente, non riuscivo a sentirmi a mio agio in quel posto, se qualcuno non mi faceva sentire inferiore per quanto riguardava la scelta del sogno. La normale estasi onirica di un Jang è di essere una particella di luce pulsante, risucchiata tra soli ardenti, novae, e pallide lune fumiganti, una sorta di comprensione cosmica dell’atto d’amore. No, veramente, lo capivo in un lampo. Comunque, Hergal sognava di volare. Buon vecchio Hergal.
Il fondo del pozzo è delizioso: masse di architetture di rosee nubi ardenti, attraversate da raggi d’oro, e tutto si muove dolcemente. Alcuni robot che parevano nubi ci guidarono ai piccoli cubicoli trasparenti e ci aiutarono a toglierci gli indumenti e ad ancorarci sui comodi cuscini d’aria che praticano un massaggio tonico stimolante, mentre si sogna.
Salutai Thinta con un cenno della mano, mentre pareti, soffitto e pavimento cominciarono ad affumicarsi ed a diventare opachi, poi mi misi comoda e dettai il mio sogno al mio robot. Basta dare un’idea di quel che si vuole; pensano loro a creare la scena, i costumi, gli effetti speciali, e anche una quantità di piccole sorprese per farti piacere. Ma io ero un po’ una peste. Ho sempre avuto troppa immaginazione. Mi hanno detto, anche se naturalmente non lo ricordo in modo conscio, che durante il mio ventesimo di rorl alla ipnoscuola, quello era il problema peggiore per i miei insegnanti. Ero capace di trasformare un esercizio geometrico eptadimensionale in un’avventura epica, in cui tutti i piani e i doppi piani erano gli abitanti di una cittadella assediata, e combattevano con raggi paralizzatori orde di tripli bisettori.
Il robot lottò valorosamente con le mie descrizioni dettagliate dei colori, i miei rapidi ma complessi bozzetti dei costumi sul pannello ricettore dei pensieri, le mie esigenze in fatto di musiche di sottofondo, e la grandiosità dei palazzi in rovina su cui continuavo a insistere. Penso che Thinta fosse uscita ormai da un pezzo, quando il robot uscì barcollando.
Mi distesi, chiusi gli occhi, e attesi. All’improvviso provi questa sensazione che ti colpisce, e poi sei là…
Oh, molto bello!
La grandiosità dei palazzi in rovina, i blocchi di marmo caduti e le colonne che si levavano verso l’alto, scale sgretolate, e grandi spazi di finestre da cui entravano turbinando frecce ardenti di luce. In cielo un pianeta enorme incombeva, basso, come uno smeraldo butterato nel cielo verdepallido. Il deserto arido, lievemente scintillante, si estendeva a perdita d’occhio.
Ero appena giunta in vista di quel luogo, dopo aver viaggiato per molte unit, senza mangiare, attraverso il Deserto Ardente. Era il crepuscolo. L’enorme bestia lionata e panna che cavalcavo si fermò, con le zampe piantate sulla sabbia, la testa sulla criniera irsuta levata verso il tremendo pianeta. Smontai, e salii una delle scalinate in rovina. Ero tutta d’oro: capelli d’oro, pelle ed occhi d’oro, tunica e stivali alti d’oro, un antico pugnale a doppia lama dall’impugnatura d’oro. Vedevo la mia immagine riflessa nei pavimenti di vetro screpolato e nei frammenti di specchio.
Scese l’oscurità. Sul tetto in rovina, minuscoli animaletti invisibili squittivano.
Due candele rosse, davanti a me. No, non candele. Occhi che mi guardavano. Sentivo che in quel luogo vi era qualcosa che mi avrebbe fatto del male, se non fossi stata prudente. Certo, ero molto debole per la terribile traversata dei Deserti di Cristallo, ma appartenevo ad una stirpe nobile e antica, temprata come il buon acciaio (naturalmente). Non avevo paura (che cos’è?); ma sguainai il pugnale dall’impugnatura d’oro e avanzai nell’addensarsi dell’oscurità verdeggiante.
Gli occhi si mossero.
Là, davanti a me, c’era un mostro terribile, e alitava un fuoco velenoso che quasi mi ustionò. Proferii antiche frasi mistiche per proteggermi dalle fiamme, e mi avvicinai. Il combattimento fu lungo e spaventoso (naturalmente). Ma in ogni mio movimento vi era eleganza, la mia arma era fulminea e sicura (che altro?). Alla fine il mostro crollò, si dileguò come la polvere nel deserto, lasciando soltanto lo scheletro calcinato davanti ai miei piedi. Proseguii. Mi piovvero addosso reti di bronzo. Troppo fiera per dibattermi, venni trascinata verso l’alto, tra le alte file di colonne, verso un enorme bastione. Trovai un tavolo di vetro, apparecchiato con vivande esotiche e vini scintillanti.
«Mangia,» tuonò una voce uscita dal nulla. «Bevi. Sei debole.»
Mi accostai al tavolo e, diffidando dei cibi nonostante la fame, pronunciai una formula magica. Subito tutto sparì tra le fiamme purpuree (sorpresa! sorpresa!) e un tuono tremendo scosse il bastione. Immani orrori alati scesero verso di me. Sferrai colpi contro di essi fino a che le mie forze quasi si esaurirono, e poi, a mezzo di antichi incantesimi, riuscii a sospingerli nel fuoco, dove si consumarono. Molti altri demoni mi assalirono durante quella notte lunga e terribile. Meteore ardenti piombavano stridendo dal cielo ed esplodevano lontano nel deserto, mentre io uccidevo pitoni di fiamma e draghi di bronzo. Mi si presentavano miraggi e tentazioni innumerevoli: resistetti a tutti, e tutti si rivelarono ingannevoli. Finalmente, verso l’alba, quando sapevo ormai di essere quasi troppo sfinita per salvarmi, sebbene la mia bellezza e il mio splendore fossero tuttora inoffuscati (oro pallido, con ombre romantiche sotto gli occhi, tutta svenevole e affascinante), in fondo al bastione apparve un’alta figura.
Un maschio. Una figura mitica e bellissima, incredibile, dagli occhi scuri e dai capelli chiari, ma con il male impresso sul volto meraviglioso. Sguainò una spada lunga e fosforescente, e tutto ricominciò. Non so dove attingessi quella nuova forza, nel sogno (nella realtà lo sapevo benissimo): ma con il mio valore insumatt, alla fine ridussi quell’essere sull’orlo dell’annientamento, sotto il mio lungo pugnale. Ma esitai. Qualcosa mi tratteneva. La sua bellezza offuscava la mia ragione: non potevo colpirlo. Piena di vergogna, gettai al suolo la mia arma e gridai:
«Uccidimi. Sono indegna di essere la tua avversaria.» E la grande spada si levò e scomparve.
Alzai lo sguardo, sbalordita. Il mio nemico non era più mio nemico. Tre volte più meraviglioso, mi abbracciò e mi parlò dell’antica, terribile maledizione che era stata gettata su quel luogo e su di lui. Io, con il mio valore e la mia bellezza, avevo salvato lui e la sua terra (splendido!).
Mi condusse, giù per la scalinata, in una sala meravigliosa d’oro e di fuoco, ed io vidi che il palazzo non era più in rovina. Oltre le grandi finestre scintillava la spiaggia, e tutto intorno il deserto rifioriva.
Mi svegliai, al tremulo tintinnio delle fonti che sgorgavano dalle rocce.
«Chi sono?» Lo pensavo spesso, dopo un sogno. «Dove sono?»
Comunque, non occorre molto per ricordare. Mi sentivo delusa. La vita cominciava soltanto allora per me, per noi. Avremmo banchettato e avremmo fatto l’amore, e ormai non avrei mai saputo come sarebbe stato… Naturalmente, avrei potuto aggiungere anche quello al sogno, se avessi voluto. Però non lo faccio mai. Conosco gente che va nelle Stanze del Sogno solo per avere l’amore, ma a che serve? Voglio dire, potete fare l’amore ogni volta che volete, davvero, e come volete, e ci sono milioni di pillole e di altre cose che garantiscono il risultato. Quindi, perché farlo in sogno?
«Sei stata dentro secoli,» disse Thinta.
Non è il sogno che porta via tempo: alterano il tuo senso del tempo o qualcosa del genere, e ogni sogno dura i dieci split regolamentari; erano state tutte le mie lunghe istruzioni prima del sogno a tenere tutti in ansia.
Thinta stava bevendo un cordiale d’acqua argentea, ma io volevo andarmene da sola, per pensare al mio innamorato e ai draghi che avevo combattuto.
«Devo scappare, Thinta ooma,» dissi. «Devo tornare al Limbo per il controllo del primo unit del mio nuovo corpo.»
È vero. Ci tengono a controllarvi, se non restate per un unit o più. Hergal resta sempre.
«Ma certo, ooma.» Thinta sorrise, assonnata. Forse anche lei voleva restare sola. Ma no. «Verrò anch’io. Dobbiamo ancora pagare.»
Oh, farathoom! Thinta è così seccante, con la sua mania di pagare!
Andammo ai botteghini e lei cominciò.
«Grazie, grazie. È stato assolutamente groshing, groshing! Oh, grazie, sono così felice. È stato così derisann! Oh! Oh! Oh!»
Oh, piantala.
«Grazie,» mormorai educatamente.
Le macchine protestarono, cominciarono ad incoraggiarmi. I botteghini erano pieni di gente che si sgolavano a urlare di gioia e di gratitudine. E va bene, pensai, vi farò vedere io.
Alzai la voce.
«Oh, grazie!» urlai. Presi una pillola dell’estasi e delirai.
Gridai fino a quando la mia gola non resse più. Abbracciai la macchina con sfrenata passione, e lagrime d’amore mi inondarono il volto.
Thinta mi aiutò a uscire: aveva l’aria di approvare.
«Sei stata molto brava,» si congratulò.
La perfetta luce del sole mi investì il viso e gettò ai miei piedi i gusci vuoti delle mie visioni. I draghi svanirono nella dolce brezza. Il mio innamorato sbiadì e scomparve.
Lasciai Thinta e andai al Limbo per Trasferitore. Sono efficienti, ma di solito ti danno la nausea. Ormai non li usa più nessuno, a parte gli Anziani, i quali credono di aver sempre fretta e hanno stomaci di platino. Entrai, feci scattare gli interuttori e mi augurai di non averlo fatto. È molto rapido, naturalmente, ma davvero penso che si perda tanto tempo a star male all’arrivo, che tanto varrebbe saltare su un ponte fluttuante. Comunque, arrivai, e mi sentivo un po’ strana, veramente, come se avessi lasciato indietro qualcosa. Magari la testa.
I robot mi guardarono male. Disapprovavano. I Trasferitori sono non-Jang, e i giovani non-Jang sono nefasti, irragionevoli, tosky, zaradann.
Fecero il controllo. Nel trasferimento avevo perduto un piccolo neo piazzato artisticamente, e loro brontolarono. Per il resto, il mio corpo andava benissimo. Ma ne ero stufa.
«Vorrei far domanda per un corpo nuovo,» dissi.
Silenzio scandalizzato.
«Quanto tempo ci vuole?»
«La tua richiesta è stata registrata,» mi disse il quasi-robot. «Normalmente dovresti aspettare trenta unit. Tuttavia, nella tua scheda risulta che hai cambiato quattordici corpi durante l’ultimo vrek. Perciò dovrai attendere sessanta unit.»
«Posso inoltrare appello?»
«Oh, sì.»
«Servirà a qualcosa?»
«Assolutamente a nulla.»
Uscii.
Il pomeriggio diventava ad ogni secondo sempre più noiosamente incantevole.
Andai giù alla Via dell’Acqua Peridoto e chiamai la mia sfera. L’acqua saliva controcorrente, ed era di un uniforme verde perlaceo. Intorno a me torreggiavano altissimi gli edifici. La mia ape mi cadde sulla testa, ma ero troppo depressa per agitarmi. Poi il bestiolino bianco che avevo rubato mi finì tra le braccia e mi graffiò a dovere. Ci prendemmo reciprocamente a sberle, e poi la bestiola schizzò giù sulla strada fluttuante, dove un magnetizzatore l’afferrò e la mandò a sbattere contro l’artistica statua ottodimensionale di non so chi.
Arrivò la sfera e io salii. Trascinai a bordo la bestiola insieme a me: non so bene perché, immagino perché l’avevo ruata. Attribuisco sempre importanza alle cose che rubo, tranne quando il mio piacere di prenderle viene rovinato, come alla Torre di Giada. L’animaletto sedette e mi mostrò i denti, socchiudendo gli occhioni. Mi massaggiai la mano con un unguento e il graffio si rimarginò. La bestiola sembrava delusa. Regolai la sfera perché mi portasse a casa, ma in realtà non ci volevo andare. Mi annegherò ancora, pensai, e che i loro sessanta unit vadano al farathoom.
Allungai la mano verso i comandi, ma poi pensai alla bestiola. Probabilmente sarebbe diventata zaradann per il panico. Non avrebbe capito, quando l’acqua avrebbe riempito il vano a ossigeno. Non avrebbe sopportato la sonnolenza asmatica della morte, e io non avrei potuto spiegargli niente.
Oh, beh, avrei sempre potuto annegarmi l’indomani.
Casa. Casa è dove leghi la tua sfera, come si dice. Fu lì che legai la mia. Salimmo la rampa mobile, io, la mia ape e il bestiolino, e passammo sotto la grande lampada ornamentale d’oro del portico, che si apre e si chiude come uno di quei fiori antichi. Casa. È tutta di vetro, delicatamente opaca nei punti strategici e screziata d’arcobaleni. Echeggia del tuono di instancabili voci meccaniche, che chiedono cosa possono portarci da mangiare e da bere, o come possono farci ridere. La musica che si può udire (ma è musica, quella), infuriava per le sale di vetro, tutta ticchettii e rulli e tonfi e tintinnii. Diedi un segnale ai miei fattori e andai con il pavimento volante dov’erano loro. Gli Anziani non cambiano quasi mai i loro corpi, e i miei fattori erano tali e quali com’erano da innumerevoli vrek. Erano tutti e due maschi: ormai erano prevalentemente maschi da molto tempo, molto soolka con le barbe scure e i sandali ornati di nappe, e facevano un’orgia non Jang, semplicemente groshing, con una quantità di donne anziane dagli abiti opachi, terribilmente sessuali.
«Chi sei?» mi chiesero gentilmente.
Glielo dissi.
«Oh.» Puntarono su di me alcuni specchi memorizzatori, per archiviare la mia immagine.
«Non disturbatevi,» dissi. «Cambierò ancora tra sessanta unit, più o meno.»
Il pavimento volante mi portò via, e loro ritornarono alla loro orgia senza voltarsi a gettarmi un’occhiata: neppure ai miei capelli. Ricordavo che uno dei due, quello che tanti vrek prima era stato il mio fattore femmina, odiava lo scarlatto. Oh, bene, adesso forse era più tollerante, da quando era quasi sempre maschio. Non riuscivo a ricordare quand’era stato femmina per l’ultima volta. Probabilmente non lo era più stato dal mio periodo d’ipnoscuola, quando loro due avevano deciso di metter su casa e di includere anche me. Di solito la gente non si prende il disturbo di vivere insieme, ma i miei fattori sono sempre stati eccentrici.
Lassù, fra le torrette di vetro che ruotavano lentamente, dovetti attivare lo scarico a vuoto per vomitare. Me l’aspettavo, da quando ero stata nel Trasferitore. Poi mi venne subito fame. Tra una cosa e l’altra, avevo saltato dieci orari dei pasti.
Frutta di forme artistiche, turbini di neve tostata e bevande con ghiaccio argenteo arrivarono precipitosamente in mio soccorso, prima ancora che aprissi bocca. I miei fattori avevano aggiunto unità telepatiche, durante la mia assenza: avrei dovuto essere prudente. Andai nella sala delle pellicce, mentre il pranzo mi seguiva su eleganti vassoi di cristallo, cantando orribili canzoncine per decantare la propria bontà, nel caso che dimenticassi la presenza di quella roba schifosa. Mi sistemai su caldi vortici d’oro fumoso, e mangiai tutto quanto, distrattamente.
Accesi la quadrovisione del soffitto e mi distesi a guardare i più assurdi riti d’amore che avessi mai visto. Ognuno aveva sei corpi, e si intrecciavano e si allacciavano, a colori splendidi, tra l’aroma pesante dell’incenso e il sibilo lento dei cembali. Spensi la quadrovisione è feci aprire il soffitto in un cubo esadimensionale, ma per la contemplazione bisogna essere nello stato d’animo adatto. Talvolta ci riesci davvero, e ti senti risucchiare via, ma quando sei giù di corda è solo un gran pasticcio.
Lasciai la sala delle pellicce e andai in piscina. Mi iniettai ossigeno e nuotai a lungo tra la giungla ondeggiante di alghe esotiche sul fondo. Ero una principessa perduta di un’antica stirpe, e cercavo un mostro nelle profondità di turchese di un mare proibito.
Crash! aveva chiamato quel thalldrap di Kley. L’immagine tridimensionale di Kley e di una festa Jang molto tosky cui prendeva parte dilagò sopra la piscina.
«Collegati, ooma,» chiamò Kley.
«Sono stanca,» dissi. «Va’ via. Va’ via.»
Ma non vollero andarsene. Erano in estasi, ma avevano preso anche pillole energetiche che nello stesso tempo li tenevano su. Oh, era orribile.
Uscii dal mare proibito della mia piscina, ormai rovinato, e l’immagine danzante mi seguì attraverso i nostri lindi giardini, sbattendo contro le sculture astratte, e non so che altro, e impigliandosi nelle colonne pentadimensionali. Trovai l’interruttore d’esclusione, e la festa sparì, esplose dalla sua inesistenza ritornando alla sua esistenza reale, chissà dove.
Vidi la bestiola che saltava in giardino, una macchia bianca tra l’erba di seta d’alluminio.
Avevo bisogno di dormire.
Sognai tutta la notte, sogni non programmati in cui un essere scuro e nebuloso mi inseguiva tra fuochi ed acque e finalmente mi mordeva, mentre in alto le perfette stelle ornamentali, sotto il tetto d’onde invisibili di Quattro BEE, brillavano e scintillavano.
Ricordo quella volta, al Campo dei Giochi del Prisma, quando feci analizzare i miei sogni e Hergal ed io ci perdemmo. Non che avessi capito una sola parola di quello che aveva detto il robot mentre guardavo nei suoi grandi occhi elettrici. Ero troppo occupata ad imprecare contro Hergal per concentrarmi veramente, credo.
Nel sonno, udii uno scroscio spaventoso. Mi svegliai. Tutta la città era illuminata da un bagliore. Di nouvo Hergal. Non eravamo molto lontani dallo Zeefahr, e sentivo quasi sempre il rumore. Resi trasparente una parete e guardai le lingue di fiamma che salivano dal cielo.
Che peste priva d’immaginazione era quel Hergal.
Ma il lampo era più chiaro, adesso, e non era Hergal.
Questa volta era Thinta.
Era terribilmente drumdik.
«Salve, Danor,» dissi io.
Era soddisfatto. Avevo riconosciuto immediatamente il suo nuovo corpo. Avevo visto la trasmissione mentre mi facevo un’iniezione nutriente: non sopporto niente di più solido, di prima mattina. Ma lui è sempre così snello ed ostentatamente elegante, maschio o femmina che sia, che è impossibile sbagliarsi, in verità. Era tutto capelli lunghi e baffi penzolanti, alla moda attuale, e capelli e baffi erano neri come il giaietto con una sorta di lucentezza di zaffiro, occhi blu mezzanotte, e niente ali. Però aveva le antenne.
«Ti piaccio?» Girò lentamente su se stesso, e lo ammirai. Faceva veramente effetto, e indossava una specie di seconda pelle metallica, con stivali del tipo che io avevo programmato nel mio sogno dell’innamorato maledetto.
«Derisann,» dissi.
Era mattino inoltrato. Quando dormo, dormo parecchio, spesso fino a quando Quattro BEE ritorna buio e accende le stelle. Altrimenti tengo testa a chiunque altro, con le pillole per star sveglia.
«Vieni a mangiare,» m’invitò Danor. Lui adorava il cibo.
«Non potrei proprio,» dissi.
«Oh. Al Palazzo delle Dimensioni, allora. Hatta ha detto che c’è un labirinto nuovo, a Super-Sette.»
Era così entusiasta che mi sembrava un peccato spegnere la fiamma. Perciò andammo al Palazzo.
La Commissione, che continua a sfornare rapporti su tutti e su tutto in Quattro BEE, sostiene che il Palazzo delle Dimensioni offre «uno sfogo essenziale per i riflessi motivazionali negativi.» Comunque, è quello che dice nei comunicati.
Le dimensioni, naturalmente, sono interessanti; l’aria può essere solida o di diversi colori, e tutto può essere invertito così che, per esempio, guardate il vostro naso in uno specchio, e vi prende un accidente, perché cresce verso l’interno anziché verso l’esterno, e potete vederlo solo se chiudete gli occhi.
Tutto sommato, il Palazzo delle Dimensioni ti dà davvero una scossa. È molto popolare. Suppongo che non capiti molto spesso di provare una scossa a Quattro BEE, di norma, tranne quando una porta automatica si apre verso l’alto anziché verso il basso, o cose del genere.
Super-Sette era un incubo totale e io non resistetti a lungo. All’improvviso mi trovai in un posto, a guardare me stessa in un altro posto, o meglio il mio corpo dai fianchi in giù, perché mi ero divisa in due. Era veramente orrendo. Voglio dire, ovviamente non è che ti dividi in due o cose simili. È che la legge in quel particolare tratto di dimensione fa sembrare che tu sia proprio così. Potevo ancora sentirmi le gambe e i piedi, e quando abbassavo le mani potevo toccarmi le cosce. Quando lo feci, vidi le mie mani apparire accanto alle cosce, e questo era ragionevole, ma il fatto che le mie cosce fossero dall’altra parte della sala era proprio un po’ drumdik. Poi scoprii che mi ero divisa di nuovo. Stavo sbirciando i miei fianchi e le gambe e i piedi lontani e, un po’ più vicini, la mia vita sottile e il busto esotico e le spalle, tutti cinti ordinatamente dalle ciocche di capelli scarlatti, ma troncati all’altezza del collo. Ero solo una testa, presumibilmente. Mi coprii di sudore, e lo potei sentire dappertutto, per fortuna. Cosa sarebbe accaduto se mi fossi mossa ancora? Corsi il rischio. Farathoom! Adesso guardavo la parte superiore del mio corpo, e un po’ più lontana la mia povera testa disorientata: e in pratica, mi guardavo con i piedi. A quella vista, le mie grida presero forma e svolazzarono tutto intorno. Alla mia cintura scattò il pulsante d’allarme e dopo pochi secondi orde di robot, ignari dell’orrore che avevano intorno, si precipitarono a ricondurmi alla ragione.
Danor ed io galleggiavamo assonnati nei nostri bagni adiacenti di tiepida aria liquida, e tremavamo ancora per l’orrore. Una volta superato il delizioso senso di sollievo, sapevo che come al solito avrei sentito quanto era futile quella specie di terrore non costruttivo. Ma in quel momento, completamente attaccata a me stessa, con i miei capelli che si agitavano come un favoloso anemone rosso, ero felice di essere venuta lì. Danor si accostò fluttuando alla parete divisoria e si issò nel mio bagno. Ci tuffammo e subito cominciammo a baciarci, e poi Danor mi trascinò su uno dei cuscini d’aria.
«Facciamo l’amore,» disse: era una proposta allettante.
«Sai che va bene solo per gli Anziani,» dissi io. «È assolutamente non Jang non sposarsi prima.»
Danor si girò sul dorso e fissò la nebbia a motivi astratti del soffitto.
«Allora sposiamoci,» disse, «per un mid-vrek.»
Un mid-vrek è quaranta unit, proprio parecchio tempo, ma Danor aveva l’aria speranzosa e abbastanza tentatrice, perciò accettai.
Risalimmo con la sua sfera la Via d’Acqua Purpurea e guizzammo tra corridoi di liquido color malva, mentre Danor premeva freneticamente i tasti dei comandi. Sembrava avesse una fretta spaventosa.
La Cupola d’Avorio è un posto bellissimo per sposarsi. I quasi-robot tendono a tenere per sé le loro opinioni, e non continuano a ripeterti che, negli ultimi sei matrimoni, c’era gente più grata ed entusiasta nel pagare, prima di precipitarsi via a fare l’amore. Nel vestibolo color panna comprammo gli anelli, cinque per ciascuno, e io non me la sentii di rubare i miei, dato che Danor si sgolava tanto generosamente al botteghino.
Salimmo con la spirale mobile, trovammo una sala libera, e indossammo tutti gli indumenti bianchi di prammatica. Il quasi-robot dalla tonaca nera e dalla tiara scintillante ricevette con una superba ostentazione d’interesse le nostre promesse di reciproca fedeltà per un mid-vrek.
«Prometto di far l’amore con te e con nessun altro per il periodo predetto, a meno che io chieda l’annullamento, che può essere concesso ad unit alterni per tutto il periodo del matrimonio, e che deve essere pagato.»
Gli accumulatori delle centrali elettriche di Quattro BEE ne ricavano parecchio, in effetti, perché i legami a lungo termine finiscono sempre prima di quanto abbiano previsto i contraenti. Quattro BEE ci guadagna anche con i legami a breve termine: se volete sposarvi per un unit o un pomeriggio, il che naturalmente esclude in pratica la possibilità di un annullamento, dovete pagare tanto prima quanto dopo il periodo che restate insieme.
Danor ed io ci scambiammo i dieci anelli senza lasciarne cadere neppure uno. (Di solito Hergal li faceva cadere tutti, e facevano un rumore terribile, rimbalzando e rotolando sul marmo.) Poi, insieme al nostro robot, pagammo con i soliti «grazie», poi Danor mi trascinò fuori dalla Cupola d’Avorio, a bordo della sfera e sfrecciammo via verso un fluttuante.
I fluttuanti, che vanno dolcemente alla deriva nel cielo e sono fatti di masse nuvolose rinforzate di plastica, sono i preferiti dagli sposini novelli. Io c’ero stata spesso, ma la loro grazia non sembrava sbiadire mai.
Danor mi spinse delicatamente ma con fermezza su un gran letto soffice ma regolabile oro e porpora, e fece scorrere uno scioglitore sui miei vestiti e sui suoi.
«Trovo estremamente attraente il tuo corpo,» mormorò. «È uno dei migliori che tu abbia mai progettato.»
Lusingata, mi accesi alle sue carezze, e rimasi piuttosto sconvolta quando all’improvviso lui si scostò e si mise a sedere.
«Che succede, Danor?»
Danor aveva l’aria triste.
«È inutile,» disse. «Credevo che con te sarebbe stato possibile, ma non lo è.»
Comunque tentammo ancora, in posizioni diverse, e poi cominciò a farsi buio, e ormai noi eravamo stanchi. Riposammo e bevemmo filtri d’amore, inghiottimmo pillole dell’estasi e dell’energia, finalmente rimanemmo distesi fianco a fianco, ansimanti per la fatica inutile.
«Se almeno,» mormorò Danor, «avessimo potuto fare l’amore al Palazzo delle Dimensioni, so che sarebbe andato tutto bene. È stato questo ritardo. È sempre questo ritardo.» Mi guardò, con molto sentimento. «Ormai è da dieci vrek che non riesco a far l’amore.»
Ne fui inorridita. Povero Danor.
«Senza dubbio,» risposi, nascondendo abbastanza bene il disappunto, credo, «è perché sei prevalentemente femmina, come me. Forse ancora di più. L’ultima volta che sono stata maschio e Kley era femmina, è andato tutto splendidamente. Ma tu ormai sei maschio da tanto tempo. Credo che tu abbia bisogno d’un cambiamento.»
«Purtroppo,» disse Danor, «è altrettanto inutile. È solo più facile fingere, quando sono donna.»
Cercai di pensare qualche frase intelligente e incoraggiante, non ne trovai nessuna.
Danor si avvicinò a una parete della nuvola e attivò la pressione, facendo apparire una grande finestra ovale. Guardò Quattro BEE che scintillava laggiù, nel crepuscolo.
«Addio,» disse. E si buttò, precipitò per centinaia di metri verso la città. La scena mi sbalordì. Sembrava che avesse fatto sul serio, sebbene fosse un atto senza scopo, dato che si sarebbero limitati a infilarlo in un corpo nuovo dieci split dopo che aveva toccato terra. Mi prese una sensazione stranissima, come quando incontri il drago in sogno — però diverso, perché quello è un terrore piacevole, e questo non lo era — e mi sforzai per non permettere che quel sentimento mi invadesse. E all’improvviso ricordai che eravamo sposati per un intero mid-vrek, e che adesso avrei dovuto pagare l’annullamento, l’indomani. Perciò sopravvenne una collera calda, rassicurante. Un annullamento non si può rubare, e non si può sposare un altro, neppure per mezz’ora, a meno che prima l’abbia pagato.
Mi agitai inquieta per il fluttuante, tutta la notte. Presi a pugno quelle stupide nuvole e gridai quando servirono quel pasto groshing che non volevo.
Affrontai l’alba tutta scomposta: non volevo restare lassù e non mi andava di pensare a tutti i ringraziamenti che avrei dovuto fare alla Cupola d’Avorio, con il quasi-robot che probabilmente avrebbe avuto l’aria di disapprovare che il matrimonio fosse durato così poco.
«Attlevey, ooma,» disse una voce, e vidi che la luce delle comunicazioni s’era accesa, e nella stanza con me c’era l’immagine tridimensionale di una bellissima ragazza, con un corpo molto simile al mio, a parte i capelli neri come il giaietto e con i riflessi color zaffiro.
«Sono io, Danor,» disse la ragazza.
«Groshing,«dissi io. Qualcosa di freddo mi tintinnò nella mente, ma ne avevo fino ai miei denti di perla, no? E subito dimenticai.
«Pensavo ti avrebbe fatto piacere saperlo,» disse con calma Danor. «Vado subito alla Cupola d’Avorio, a pagare l’annullamento.»
«Grazie!» gridai, e feci scattare l’interruttore.
Mi aggirai tutto il giorno per Quattro BEE, e poi mi sentii un po’ strana e ricordai che non avevo mangiato, e mi feci un’iniezione nutriente.
Incontrai Thinta nei pressi del Museo della Robotica. A lei piace davvero visitarlo. In un primo momento non la riconobbi, con quel suo nuovo corpo, ma in pratica era sempre la stessa, sotto il soffice pelame grigio; e gli occhi, sebbene adesso non avessero più sclerotica, avevano il solito colore verde chiaro.
«È stato nelle Stanze del Sogno,» spiegò Thinta mentre bevevamo neve-in-oro in un ristorante subacqueo. «Sogno sempre di essere una specie di gatto. Volevo che mi facessero un corpo di felino, ma si sono rifiutati. Il pelo, in realtà, è solo un compromesso.» Cominciò a brontolare contro la Commissione che non le aveva permesso di farsi innestare un meccanismo per far le fusa, e io me ne andai appena potei.
Sinceramente, avrei voluto escludere dal mio circolo tutti i miei amici: all’improvviso ero così droad di tutti loro. Ma alla fine esclusi ufficialmente me stessa, il che era molto più semplice, e poi mi sedetti sui gradini della Torre di Giada, sotto i ruggiti e gli spruzzi del drago, e piansi.
Voglio dire, è educazione piangere quando si è esclusi dal circolo di qualcuno, anche se è il tuo. Ma il pianto continuò. Non riuscivo a smettere.
Piansi tutta notte, credo.