Silenziosamente, senza mostrare sorpresa, Na-sinisul lo conduce in una cella vuota e gli fa cenno di togliersi i vestiti. Gundersen si spoglia. Le sue dita hanno solo qualche marginale difficoltà con le fibbie e le chiusure. Seguendo le indicazioni del sulidor Gundersen si stende sul pavimento. Come hanno fatto tutti gli altri candidati alla rinascita. La pietra è così fredda che si lascia sfuggire un sibilo quando la sua pelle la tocca. Na-sinisul esce. Gundersen guarda i fungoidi luminescenti, sulla volta lontana del soffitto. La camera è grande abbastanza da contenere comodamente un nildor, a Gundersen, steso sul pavimento, sembra immensa.
Na-sinisul ritorna portando una ciotola fatta con un tronco cavo. La offre a Gundersen. La ciotola contiene un liquido azzurro pallido. — Bevi — dice il sulidor sommessamente.
Gundersen beve.
Il sapore è dolce, come acqua zuccherata. È una cosa che ha già assaggiato, e ricorda dove: alla stazione dei serpenti, anni prima. È il veleno proibito. Vuota la tazza, e Na-sinisul esce.
Due sulidoror che Gundersen non conosce entrano nella cella. Si inginocchiano al suo fianco, uno da una parte e uno dall’altra e iniziano una lenta cantilena, una specie di rituale. Non riesce a capirne una parola. Gli massaggiano il corpo, le loro mani, con i terribili artigli retratti, sono stranamente morbide, come i cuscinetti di un gatto. È teso, ma la tensione svanisce. Sente che la droga fa effetto: un senso di pesantezza alla nuca, al petto, un annebbiamento della vista. Na-sinisul è tornato nella stanza, anche se Gundersen non l’ha visto entrare. Porta con sé una ciotola.
— Bevi — dice, e Gundersen beve.
È un liquido completamente diverso, o forse un diverso distillato del veleno. Ha un sapore amaro, con un fondo di fumo e cenere. Deve fare uno sforzo per arrivare al fondo della ciotola, ma Na-sinisul attende, con silenziosa insistenza, che lui finisca. Ancora una volta il vecchio sulidor esce, all’ingresso della cella si volta e dice qualcosa a Gundersen, ma le parole sono sovraccariche di una spessa pelliccia blu, e non riescono a entrare nelle orecchie di Gundersen. — Cosa hai detto? — chiede il terrestre. — Cosa? Cosa? — Le sue parole emettono pesi di piombo a forma di lacrima, oscuri. Cadono immediatamente a terra e vanno in frantumi. Uno dei sulidoror cantilenanti scopa le parole spezzate in un angolo con rapidi movimenti della coda.
Gundersen sente un suono gocciolante, una spirale scintillante di rumore, come di acqua che scorra nella sua cella. Ha gli occhi chiusi, ma avverte l’umidità roteargli attorno. Ma non è acqua. Ha una consistenza più solida. Una specie di gelatina, forse. Steso sulla schiena, è immerso in essa per parecchi centimetri, e il livello si sta alzando. È fresca ma non fredda, e lo isola ottimamente dalla roccia ghiacciata del pavimento. È consapevole dell’odore lievemente rosa della gelatina, e della sua consistenza solida, come i toni di un fagotto nel registro più basso. I sulidoror proseguono nella loro cantilena. Sente un tubo che gli scivola nella bocca, con un liscio grido da ottavino, e dal suo stretto cannello cola un’altra sostanza, densa e oleosa, che emette il suono di un timpano in sordina quando gli colpisce il palato. Adesso la gelatina ha raggiunto la curva inferiore della sua mascella. Saluta con piacere la sua avanzata. Gli accarezza delicatamente il mento. Il tubo gli viene ritirato dalla bocca, proprio mentre la gelatina gli copre le labbra. — Potrò respirare? — chiede. Un sulidor gli risponde con criptiche frasi sumere, e Gundersen si sente rassicurato.
È interamente avvolto dalla gelatina. Essa ricopre il pavimento della camera per l’altezza di un metro. La luce la penetra fiocamente. Gundersen sa che la superficie è liscia è impeccabile, e forma un perfetto sigillo dove tocca le pareti della cella. Adesso è diventato una crisalide. Non gli verrà dato altro da bere. Giacerà lì e rinascerà.
Uno deve morire per poter rinascere.
La morte giunge e lo avvolge. Dolcemente scivola nell’abisso nero. Tenero è l’abbraccio della morte. Gundersen galleggia in un regno di vuoto tremolante. È sospeso nel nero nulla. Raggi di luce scarlatta e purpurea lo trafiggono, colpendolo come sbarre di metallo. Egli trema. Gira su se stesso. Si innalza.
Incontra di nuovo la morte, e lottano, ed è sconfitto dalla morte, e il suo corpo viene rabbrividito in frammenti e una cascata di luminosi pezzi di Gundersen si sparpaglia nello spazio.
I frammenti si cercano. Girano solennemente l’uno intorno all’altro. Si uniscono. Prendono la forma di Edmund Gundersen, ma questo nuovo Gundersen brilla come puro, trasparente cristallo: un uomo trasparente attraverso cui la luce passa senza resistenza. Uno spettro di luce scaturisce dal suo petto. Lo splendore del suo corpo illumina le galassie.
Strisce di colore emanano da lui e lo uniscono a tutti coloro che nell’universo possiedono g’rakh.
Partecipa della saggezza biologica del cosmo.
Accorda la sua anima all’essenza di ciò che è e di ciò che dove essere. È senza limiti. Può toccare qualsiasi anima. Si protende verso l’anima di Na-sinisul, e il sulidor lo saluta e lo accoglie. Si protende verso Srin’gahar, verso Vol’himyor il molte-volte-nato, verso Luu’khamin, Se-holomir, Yi-gartigok, verso i nildor e i sulidoror che giacciono nelle caverne della metamorfosi, e verso gli abitatori della foresta delle nebbie, e verso gli abitatori delle giungle umide e verso coloro che danzano rabbiosamente sull’altopiano selvaggio, e verso tutti coloro su Belzagor che condividono g’rakh.
E raggiunge qualcuno che non è né nildor né sulidor, un’anima dormiente, un’anima velata, un’anima di un colore e di un timbro e di una consistenza diversa da tutte le altre. È un’anima nata sulla Terra, l’anima di Seena, e la chiama sommessamente, dicendo: Svegliati, svegliati, ti amo, sono venuto per te. Lei non si sveglia. La chiama: sono nuovo, sono rinato, trabocco di amore. Unisciti a me. Diventa parte di me. Seena? Seena? Seena? E lei non risponde.
Vede anche le anime di altri terrestri ora. Hanno g’rakh, ma la razionalità non basta; le loro anime sono cieche e silenziose. Qui c’è Van Beneker; qui i turisti; qui i guardiani di avamposti solitari nella giungla. Qui il vuoto grigio e carbonizzato dov’era l’anima di Cedric Cullen.
Non riesce a raggiungere alcuno di loro.
Si sposta e una nuova anima risplende oltre la nebbia. È l’anima di Kurtz. Kurtz viene da lui o lui va da Kurtz e Kurtz non è addormentato.
Adesso sei fra di noi, dice Kurtz, e Gundersen dice: Sì, sono qui finalmente. Anima si apre ad anima e Gundersen guarda nell’oscurità di Kurtz, oltre la cortina grigio perla che circonda il suo spirito, in un luogo di terrore dove nere figure dalle molte gambe si spostano lungo ragnatele nodose. Forme caotiche si coagulano, si espandono, si dissolvono all’interno di Kurtz. Gundersen guarda al di là di questa oscura e lugubre zona, e al di là di questa trova una luce fredda e dura che brilla bianca dal luogo più profondo, e allora Kurtz dice: Vedi? Vedi? Sono un mostro? Ho del buono in me.
Non sei un mostro, dice Gundersen.
Ma ho sofferto, dice Kurtz.
Per i tuoi peccati, dice Gundersen.
Ho pagato per i miei peccati con le mie sofferenze, e adesso dovrei essere libero.
Sì, hai sofferto, dice Gundersen.
Quando finiranno le mie sofferenze, dunque?
Gundersen risponde che non lo sa, che non è lui a dare un limite a queste cose.
Kurtz dice: Ti conoscevo. Un giovane simpatico, un po’ tardo. Seena dice bene di te. Qualche volta desidera che le cose fossero andate in un’altra maniera per te e lei. Invece ha avuto me. Ed eccomi qui. Eccoci qui. Perché non mi liberi?
Cosa posso fare? chiede Gundersen.
Lasciami tornare alla montagna. Lasciami terminare la mia rinascita.
Gundersen non sa cosa rispondere, e cerca nel circuito di g’rakh, consulta Na-sinisul, consulta Vol’himyor, consulta tutti i molte-volte-nati, ed essi si uniscono, si uniscono, parlano con una voce sola, dicono a Gundersen con voce di tuono che Kurtz ha terminato, che la sua rinascita è finita, che non può tornare alla montagna.
Gundersen riferisce questo a Kurtz, ma Kurtz ha già sentito. Kurtz si contrae. Kurtz scompare nel buio. Viene invischiato nelle sue ragnatele.
Abbi pietà di me, grida a Gundersen attraverso un vasto abisso. Abbi pietà di me, poiché questo è l’inferno, e io ci sono dentro.
Gundersen dice: Ho pietà di te. Ho pietà di te. Ho pietà di te. Ho pietà di te.
L’eco della sua voce diminuisce infinitamente. Tutto è silenzio. Dal vuoto, d’improvviso, giunge la risposta senza parole di Kurtz, un crescendo acuto e assordante di rabbia e odio e malvagità, l’urlo di un Prometeo imperfetto che cerca di allontanare il becco che lo dilania. L’urlo raggiunge un culmine di distruttiva intensità. Si spegne. Il tessuto tremante dell’universo ritorna immobile. Una morbida luce viola appare, assorbendo le restanti disarmonie di quel terribile grido.
Gundersen piange per Kurtz.
Il cosmo si riempie di lacrime scintillanti, e su quel fiume salato galleggia Gundersen, trasportato senza volontà, visitando questo e quel mondo, scivolando fra le nebulose, attraversando nuvole di polvere cosmica, librandosi sopra strani soli.
Non è solo. Na-sinisul è con lui, e Srin’gahar, e Vol’himyor, e tutti gli altri.
Diviene consapevole dell’armonia di tutte le cose g’rakh. Vede per la prima volta i legami che uniscono g’rakh a g’rakh. Colui che giace nella rinascita è in contatto con tutte quante, in ogni momento e in tutti i momenti, ogni anima del pianeta unita in un contatto senza parole.
Vede l’unità di tutto il g’rakh, e questo lo fa sentire umile e timoroso.
Percepisce la complessità di questo popolo doppio, il ritmo della sua esistenza, l’infinito alternarsi di cicli di rinascita e di nuova creazione, al di sopra dell’unione, dell’unità fondamentale. Percepisce il proprio mostruoso isolamento, le mura che lo separano dagli altri uomini, che separano uomo da uomo, ciascuno prigioniero nel proprio cranio. Vede cosa significa vivere fra gente che ha imparato come liberare il prigioniero del cranio.
Questa consapevolezza lo fa sentire piccolo, lo schiaccia. Pensa: Li abbiamo fatti schiavi, li abbiamo chiamati bestie, e per tutto il tempo loro erano uniti, le loro menti si parlavano senza parole, si trasmettevano reciprocamente la musica dell’anima. Noi eravamo soli e loro non lo erano, e invece di inginocchiarci davanti a loro, di implorarli di farci partecipare al miracolo, li facevamo lavorare per noi.
Gundersen piange per Gundersen.
Na-sinisul dice: Questo non è il momento per il dolore, e Srin’ga-har dice: Il passato è passato, e Vol’himyor dice: Attraverso il rimorso tu sei redento, e tutti parlano con una sola voce e nello stesso momento, e Gundersen comprende. Comprende.
Ora Gundersen comprende tutto.
Sa che nildor e sulidoror non sono due specie separate, ma solo forme della medesima creatura, non più diversi di quanto lo siano bruchi e farfalle, anche se non saprebbe dire quale sia il bruco e quale la farfalla. È consapevole di com’era la vita per i nildor quando erano nel loro stato primordiale, e nascevano come nildor, e morivano inermi come nildor, quando sopravveniva l’inevitabile decadenza della loro anima. E conosce la paura e l’estasi di quei primi nildor che accettarono la tentazione dei serpenti e bevvero la droga della liberazione, e divennero esseri con pelliccia e artigli, malformati e trasmutati. E conosce il loro dolore, quando vennero scacciati fino all’altopiano, dove nessun essere in possesso di g’rakh osava avventurarsi.
E conosce le loro sofferenze sull’altopiano.
E conosce il trionfo di quei primi sulidoror che superando il proprio isolamento tornarono dalle terre selvagge portando un nuovo credo. Venite e sarete trasformati, venite e sarete trasformati! Abbandonate questa carne per un’altra! Non brucate più, ma cacciate e mangiate carne! Rinascete a nuova vita, e conquistate il corpo triste che trascina lo spirito alla distruzione!
E vede i nildor accettare il loro destino e concedersi gioiosamente alla rinascita: dapprima pochi, poi sempre più, poi interi accampamenti, intere popolazioni che partivano non per nascondersi nell’altopiano della purificazione, ma per vivere in maniera nuova, nella terra dove regnano le nebbie. Non possono resistere, perché con la trasformazione del corpo giunge la benedetta liberazione dell’anima, l’unità, l’unione di g’rakh con g’rakh.
Comprende ora cosa significò per loro l’arrivo dei terrestri, gli ansiosi, indaffarati, penosi, ignoranti terrestri dalla breve vita, che erano esseri di g’rakh ma che non sapevano o non volevano entrare nell’unità, che giocavano con la droga della liberazione e non la gustavano fino in fondo, le cui menti erano chiuse l’una all’altra, le cui strade ed edifici e pavimentazioni si allargavano come una lebbra sulla tenera terra. Comprende quanto poco i terrestri sapessero, e quanto poco fossero in grado di imparare, e quanto era loro nascosto perché avrebbero frainteso, e perché era necessario che i sulidoror si nascondessero nelle nebbie durante tutti gli anni dell’occupazione, senza mostrare indizio alcuno agli stranieri che fossero imparentati con i nildor, che fossero i figli dei nildor e i padri dei nildor. Poiché se i terrestri avessero saputo anche metà della verità, si sarebbero ritratti con terrore, dal momento che le loro menti sono chiuse l’una all’altra, e non sono disposti ad accettare null’altro, eccetto i pochi che osarono imparare, e troppi di costoro erano dominati da un demone, come Kurtz.
Prova un vasto sollievo per il fatto che il tempo della finzione è finito su questo mondo, e che nulla deve più essere nascosto, che i sulidoror possono andare nelle terre dei nildor e muoversi liberamente, senza paura che il segreto e il mistero della rinascita venga accidentalmente rivelato a coloro che non potrebbero sopportare questa conoscenza.
Prova gioia per essere arrivato fin lì ed essere sopravvissuto alla prova e aver sopportato la propria liberazione. La sua mente adesso è aperta, è rinato.
Discende, riunendosi al proprio corpo. È nuovamente consapevole di essere avvolto nella gelatina coagulata sul freddo pavimento di una cella oscura al termine di un lungo corridoio in una montagna rosata, circondata da bianca nebbia, su un mondo alieno. Non si alza. Il suo tempo non è ancora giunto.
Si arrende ai toni e ai colori e agli odori e alle superfici che inondano l’universo. Si lascia trasportare e galleggia a ritroso lungo la linea del tempo, e torna a essere un bambino che scruta lo scudo della notte e cerca di contare le stelle, e di nuovo sorseggia timidamente il veleno non distillato insieme a Kurtz e Salamone, e di nuovo si arruola nella Compagnia e dice a un computer che il suo desiderio più grande è di promuovere l’espansione dell’impero umano, e di nuovo abbraccia Seena su una spiaggia tropicale sotto la luce di parecchie lune, e la incontra per la prima volta, e setaccia cristalli nel Mare di Polvere, e monta su un nildor, e corre ridendo lungo una strada della fanciullezza, e rivolge la sua torcia su Cedric Cullen, e si arrampica sulla Montagna della Rinascita, e trema mentre Kurtz entra in una stanza, e prende l’ostia sulla lingua, e fissa la meraviglia di un bianco seno che gli riempie la coppa della mano, ed esce alla luce screziata di un sole alieno, e si inginocchia accanto al corpo pieno di larve di Henry Dykstra, e di nuovo, di nuovo, di nuovo…
Ode il rintocco di possenti campane.
Sente il pianeta tremare e spostarsi sul suo asse.
Odora lingue di fiamma danzanti.
Tocca le radici della montagna della rinascita.
Sente le anime di sulidoror e nildor tutto intorno a lui.
Riconosce le parole dell’inno che cantano i sulidoror, e canta con loro.
Cresce. Rimpicciolisce. Brucia. Rabbrividisce. Si trasforma.
Si sveglia.
— Sì — dice una voce bassa e profonda. — Esci adesso. Il tempo è giunto. Siediti. Siediti.
Gli occhi di Gundersen si aprono. Colori riempiono il suo cervello confuso. Ci vuole un momento prima che riesca a vedere.
Un sulidor è in piedi all’ingresso della sua cella.
— Sono Ti-munilee — dice il sulidor. — Sei rinato.
— Io ti conosco — dice Gundersen. — Ma non con questo nome. Chi sei?
— Tendi la tua mente e vedi — dice il sulidor.
Gundersen tende la sua mente.
— Ti conoscevo come il nildor Srin’gahar — dice Gundersen.